Sciopero della fame per i diritti dei detenuti di Angela Stella L’Unità, 8 luglio 2025 In 100 tra legali, giuristi e toghe hanno già aderito all’appello, tra loro Nello Rossi. L’obiettivo è convincere il Parlamento a riesaminare il ddl Giachetti. Sovraffollamento che sfiora il 130 per cento e trentasette suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, ossia in poco più di sei mesi. L’ultimo, in ordine di tempo, domenica scorsa: un detenuto di origine magrebina, di circa 40 anni, con problemi di natura psichica e per questo da qualche giorno allocato presso l’Articolazione per la Tutela della Salute Mentale, è stato ritrovato impiccato nella sua cella della casa di lavoro di Vasto (Abruzzo), come reso noto da Gennarino De Fazio, segretario Generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. Eppure la maggioranza parlamentare e il ministro della Giustizia Carlo Nordio restano fermi davanti a questa drammatica situazione, consapevoli pure che luglio e agosto sono i mesi più difficili per i detenuti imprigionati in celle letteralmente infernali e che il rischio suicidario aumenta, come rilevato dall’associazione Antigone. A nulla purtroppo sono servite per adesso le dichiarazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che proprio qualche giorno fa aveva usato parole dure per l’emergenza che stanno vivendo i nostri istituti di pena: “Grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento” e “drammatico” numero dei suicidi, ormai divenuti una “vera e propria emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”, aveva detto incontrando il capo del Dap Stefano Carmine De Michele e una delegazione del corpo di polizia penitenziaria. Per cercare di smuovere le acque è partito però ieri uno sciopero della fame a staffetta promosso da Valentina Alberta, avvocato già presidente della Camera penale di Milano, e Stefano Celli, magistrato iscritto a Magistratura democratica e vice segretario dell’Anm. Una iniziativa personale delle due toghe, divise dalla riforma sulla separazione delle carriere, ma unite con l’obiettivo di “convincere il Parlamento a riesaminare urgentemente il disegno di legge Giachetti per l’allargamento temporaneo della liberazione anticipata. Non è la panacea, ma almeno costituisce uno strumento per superare l’illegalità del sovraffollamento e lenire nell’immediato le sofferenze gratuite e insensate che vengono inflitte ai detenuti, senza intaccare i principi generali e neppure la funzione della pena”, scrivono nell’appello diffuso da meno di ventiquattro ore (può partecipare chiunque scrivendo a peruncarcereumano@gmail.com). Hanno già aderito oltre cento persone, tra cui Nello Rossi, figura storica di Md, Marcello Basilico, membro del Consiglio Superiore della Magistratura in quota AreaDg, alcuni garanti territoriali dei diritti delle persone private della libertà personale e alcuni cappellani come Elisabetta Burla e Silvio Alaimo (entrambi a Trieste), Riccardo De Vito, magistrato, gli avvocati Michele Passione e Fabio Sommovigo, Giuseppe Santalucia, già presidente dell’Anm. Intanto prosegue da ventitré giorni anche il digiuno nonviolento della presidente di Nessuno Tocchi Caino (Ntc), Rita Bernardini, che ha chiesto ai parlamentari di non andare in ferie “senza prima aver riportato le carceri nella legalità costituzionale e, quindi, di aver assicurato ai detenuti un trattamento umano”. Anche per questo, sabato 12 luglio il Laboratorio “Spes contra spem” di NTC si terrà presso il carcere romano di Rebibbia. Vi prenderanno parte Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva, Walter Verini, senatore del Partito Democratico, Marco Scurria, senatore di Fratelli d’Italia, Simonetta Matone, deputata della Lega, Tommaso Calderone e Andrea Orsini, deputati di Forza Italia, Devis Dori, deputato Alleanza Verdi Sinistra. Lo scopo è quello di far sedere intorno allo stesso tavolo esponenti di tutti i partiti politici per capire se ci sia la concreta possibilità di tirar fuori dalla commissione giustizia della Camera la proposta di Giachetti e portarla nell’Aula di Montecitorio quanto prima, anche grazie alla moral suasion annunciata in un convegno a metà maggio dal presidente del Senato Ignazio La Russa, che da diversi mesi ha aperto alla possibilità di discutere della pdl del deputato del partito di Matteo Renzi. Ricordiamo che sulla proposta a favore della liberazione anticipata speciale, impropriamente detta “sconto di pena per buona condotta”, si erano detti favorevoli Pd, Avs, Iv e +Europa, ma anche Forza Italia prima di tirarsi indietro per non spezzare particolari equilibri all’interno della maggioranza. Contrario invece il Movimento Cinque Stelle. Carcere, sconti di pena: La Russa ci prova, Meloni sta a guardare di Valentina Stella Il Dubbio, 8 luglio 2025 Il presidente del Senato sarebbe pronto a sostenere la proposta di Roberto Giachetti. La premier sarebbe avvisata: non ostacola né aiuta. La soluzione per l’emergenza carceri sarebbe tutta nelle mani del presidente del Senato Ignazio La Russa. Com’è noto, la seconda carica dello Stato negli ultimi mesi ha aperto favorevolmente alla proposta di legge di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale. “Di questo problema del sovraffollamento ci dobbiamo assolutamente occupare. Ne ho parlato con Giorgia Meloni, so che è un tema che lei avverte in maniera importante. C’è una proposta Giachetti che non so se possa essere considerata accoglibile in toto, ma è un argomento su cui farò moral suasion perché se ne discuta”: aveva detto a metà maggio durante un convegno sulle carceri, promosso dalla comunità “La Valle di Ezechiele”, guidata da don Davide Riboldi. Ora si apprende dalle parti di Palazzo Chigi che la premier Giorgia Meloni avrebbe detto a La Russa che se lui riuscirà a trovare una maggioranza parlamentare pronta a votare la pdl Giachetti lei non si opporrebbe. In fondo sarebbe un risultato ottenuto in Parlamento, che dunque non sarebbe possibile intestare alla premier né da parte dei detrattori né da parte dei sostenitori della liberazione anticipata speciale. Tuttavia, lo sforzo di La Russa sarebbe vanificato dal fatto che c’è uno zoccolo duro all’interno di Fratelli d’Italia contrario a qualsiasi “sconto di pena per buona condotta” e guidato dal potente sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro delle Vedove. Eppure se davvero La Russa riuscisse a portare avanti quella moral suasion che aveva promesso i giochi sarebbero fatti. Basterebbero meno di due settimane tra Camera e Senato per approvare la proposta. Intanto Forza Italia non si tirerebbe indietro, considerato che si era già espressa a favore tempo fa, anche se poi aveva fatto marcia indietro per mantenere particolari equilibri all’interno della maggioranza. E pure all’interno del Carroccio ci sono esponenti a favore, tipo Domenico Furgiuele. Da non sottovalutare poi il fatto che pochi giorni fa il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, espressione della Lega, abbia varcato le porte di Rebibbia per andare a trovare l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, che da mesi tramite la sua pagina Facebook lancia un allarme sulle condizioni di detenzione di tutti i detenuti. Inoltre non occorrerebbe neanche il voto del M5S, che si è detto sempre contrario, a differenza di tutti gli altri partiti di minoranza. Insomma non resta che aspettare la prossima mossa di La Russa anche perché il sovraffollamento è al 130 per cento e i suicidi dall’inizio dell’anno sono 37. Sempre a proposito della pdl Giachetti, ieri è partito uno sciopero della fame a staffetta promosso da Valentina Alberta, avvocata già presidente della Camera penale di Milano, e Stefano Celli, magistrato iscritto a Magistratura democratica e vice segretario dell’Anm. Una iniziativa dal basso per “convincere il Parlamento a riesaminare urgentemente il disegno di legge Giachetti per l’allargamento temporaneo della liberazione anticipata. Non è la panacea, ma almeno costituisce uno strumento per superare l’illegalità del sovraffollamento e lenire nell’immediato le sofferenze gratuite e insensate che vengono inflitte ai detenuti, senza intaccare i principi generali e neppure la funzione della pena” scrivono nell’appello diffuso da meno di ventiquattro (può partecipare chiunque scrivendo a peruncarcereumano@gmail.com). Tra i partecipanti allo sciopero della fame anche l’ex presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che al Dubbio dice: “Aderisco all’iniziativa perché la situazione nelle carceri si fa sempre più drammatica”. In questi mesi l’Anm è stata criticata pesantemente soprattutto dai sostenitori della riforma costituzionale della separazione delle carriere per aver organizzato un giorno di astensione con la Costituzione in mano il 27 febbraio scorso. E perché, ci siamo chiesti, non organizzare una simile protesta per difendere quello che la Costituzione già contiene, ossia l’articolo 27? Sarebbe un modo per l’Anm di rispondere ai propri detrattori dimostrando che non scioperano solo per eventuali propri interessi di categoria. Anche su questo Santalucia si è detto d’accordo: “Per le stesse ragioni di cui parlavamo prima, ossia per una situazione che si è incancrenita nei nostri istituti di pena, credo che ogni iniziativa di pungolo, di sollecitazione rispettosa del potere politico debba essere tentata”. Nessuna presa di posizione al momento da parte dei vertici dell’attuale Anm. Molto probabilmente se ne discuterà nel Comitato direttivo centrale che si terrà sabato 12 luglio. Difficile però immaginare che si arriverà a una posizione unitaria, soprattutto conoscendo le posizioni di Magistratura indipendente sull’esecuzione penale. Contemporaneamente va avanti da ventitré giorni anche il digiuno nonviolento della presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, che ha chiesto ai parlamentari di non andare in ferie “senza prima aver riportato le carceri nella legalità costituzionale e, quindi, di aver assicurato ai detenuti un trattamento umano”. Anche per questo sabato 12 luglio il Laboratorio “Spes contra spem” di NTC si terrà presso il carcere romano di Rebibbia. Vi prenderanno parte Roberto Giachetti, Walter Verini, senatore dem, Marco Scurria, senatore di Fdi, Simonetta Matone, deputata della Lega, Tommaso Calderone e Andrea Orsini, deputati di FI, Devis Dori, deputato di Avs. Lo scopo è sempre quello di far sedere intorno allo stesso tavolo esponenti di tutti i partiti politici per capire se ci sia la concreta possibilità di tirar fuori dalla commissione giustizia della Camera la proposta di Giachetti e portarla di nuovo in Aula. Quelle vite dimenticate dietro le sbarre dove diritti e dignità umana sono sospesi di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 luglio 2025 Carceri affollate e condizioni di detenzione insostenibili. Con il problema più grande: dimenticarsi di chi è ospitato negli istituti penitenziari. A questi temi è dedicata la giornata di studi organizzata dall’Organismo congressuale forense. Appuntamento il 10 luglio a Roma, nella sede del Cnel di viale Lubin. La scelta dell’Ocf di organizzare un convegno presso il Cnel, per affrontare in modo strutturato l’emergenza carceraria italiana, nasce dalle considerazioni emerse in numerosi incontri pubblici e dalla necessità di dare risposte concrete a una situazione che si aggrava quotidianamente. “Il nostro lavoro - spiega Elisabetta Brusa, referente della “Commissione detenzione- carcere” dell’Ocf - ha documentato una situazione drammatica, caratterizzata da un numero allarmante di suicidi in carcere e da un sovraffollamento cronico che supera abbondantemente la capienza regolamentare degli istituti. Questa non è solo una questione di statistiche, ma rappresenta il fallimento sistemico nel garantire condizioni di vita dignitose ai nostri assistiti”. Giovedì avvocati, giuristi, esperti ed esponenti delle istituzioni rifletteranno sul presente e su quelle che potranno essere le prospettive future riguardanti il pianeta carcere. I lavori saranno aperti da Renato Brunetta (presidente del Cnel). Seguiranno i saluti istituzionali di Andrea Ostellari (sottosegretario alla Giustizia), Vittorio Minervini (consigliere Cnf, vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana- Fai) e Mario Scialla (coordinatore Ocf). “Abbiamo cercato di raccontare all’esterno - aggiunge l’avvocata Brusa - anche la grave situazione in cui versano le donne detenute, la minoranza delle persone dimenticate, e delle difficoltà oggettive che vivono cercando di porre l’attenzione, oltre che al tema delle mamme detenute con figli, al problema dell’allontanamento dal luogo in cui rimane il nucleo familiare della detenuta e della problematica legata all’esercizio del proprio diritto all’affettività nei confronti dei figli. Le celle sovraffollate, prive di adeguati sistemi di ventilazione e climatizzazione, con le estati sempre più torride, si trasformano in luoghi di tortura. La combinazione tra sovraffollamento e temperature elevate crea condizioni che possono spingere alla disperazione anche chi aveva trovato un equilibrio”. Secondo il vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana, Vittorio Minervini, occorre tenere sempre alta l’attenzione sulla questione carceraria. “Grazie al lavoro che ogni giorno fa il giornale Il Dubbio - commenta Minervini -, i temi del sovraffollamento e della rieducazione dei detenuti sono portati all’esterno e vengono fatti conoscere a una platea sempre maggiore di persone, addetti ai lavori e non solo. Il Consiglio nazionale forense e la Fai hanno intrapreso da tempo un percorso molto preciso per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. Lo dimostrano le tante iniziative organizzate in giro per l’Italia. Occorre avere la sensibilità e la determinazione nel riportare la Costituzione in carcere. Dignità e trattamenti umani negli istituti penitenziari sono principi che dobbiamo tenere sempre a mente”. Mario Scialla, coordinatore dell’Ocf, sottolinea il valore dell’iniziativa presso il Cnel. “Quella del carcere - afferma - è una vera e propria emergenza nazionale. Abbiamo deciso di mettere insieme diversi rappresentanti della politica con esperti della materia per tratteggiare la gravità di un fenomeno, ormai noto a tutti, e fare delle proposte concrete. Rivolgeremo la nostra attenzione non solo a chi vive il carcere come detenuto, ma anche a chi negli istituti penitenziari lavora e funge da collante con il mondo esterno. Penso alle associazioni e a molti enti locali sensibili alla questione, che offrono un contributo concreto nel fornire ai detenuti delle opportunità di riscatto e di affermazione di quelli che sono i principi della nostra Carta Costituzionale”. Il “colletto bianco” e lo scrivano svelano l’inferno del carcere di Gianpaolo Catanzariti Il Dubbio, 8 luglio 2025 Da alcuni mesi sul muro del silenzio, calato sulle disumane condizioni di vita dei detenuti e che impedisce la fuoriuscita di una qualsivoglia voce in grado di raggiungere un pezzo di opinione pubblica distratta e senza più passione civile, si è, finalmente, aperta qualche crepa. Grazie alla infaticabile opera di due detenuti del carcere di Rebibbia, Fabio Falbo e Gianni Alemanno. Il primo, il classico detenuto ignoto, figlio sfortunato di una terra bistrattata e violentata da forme di potere criminale, ma anche istituzionale e non solo politico, la Calabria, laureatosi in legge in carcere dove sta scontando una lunga pena. Un detenuto che ha intrapreso, nonostante tutto e tutti, un percorso di rinascita, laureandosi in legge in carcere e svolgendo una banale e pur vitale attività di “scrivano”, un riferimento, un faro di speranza per i detenuti di Rebibbia. In grado di dare voce e soprattutto parola scritta alla rivendicazione dei diritti negati, alle denunce di palesi violazioni, alle lamentele attraverso la compilazione delle cd “domandine”, di istanze e ricorsi in nome dei principi costituzionali calpestati proprio dallo Stato. L’altro, il detenuto noto, troppo noto. Il “colletto bianco”, per usare un termine caro agli arrabbiati con la schiuma alle labbra. Uno che è stato parlamentare, ministro, sindaco di Roma, leader della destra sociale, finito in cella per avere violato le prescrizioni della misura alternativa per un reato dai confini incerti, il traffico di influenze illecite, approvato anche con i voti dell’allora suo partito, il PDL. Falbo e Alemanno si sono fatti carico di portare all’esterno il grido di dolore dei detenuti ignoti, sollecitando le istituzioni, scrivendo al Ministro Nordio, al Presidente della Repubblica, ai Presidenti di Camere e Senato, al Garante nazionale, a chiunque meriti di essere sollecitato ad affrontare l’inferno delle prigioni, con immediate misure di sfoltimento delle presenze detentive, a partire dalla proposta Giachetti sulla liberazione speciale anticipata. E lo hanno fatto senza interesse diretto perché eventuali misure deflattive difficilmente potranno favorire, in concreto, Falbo, in ragione della lunghezza della pena inflitta, o Alemanno, in ragione della brevità della pena residua. Sono riusciti a far parlare, oltre le solite e pur poche voci, diversi Tg, costretti a dare notizia di questa sfrontata campagna di sensibilizzazione che scuote dal torpore estivo parte dell’opinione pubblica e la politica sempre più svogliata e paga della sua scarsa rilevanza. A qualcuno, però, questo attivismo del duo Falbo-Alemanno non piace. Non piace all’amministrazione penitenziaria se è vero, come denunciato negli oramai noti “Diario di cella” pubblicato da Alemanno, che ai due, considerati “detenuti mediatici”, viene impedito di partecipare ad eventuali iniziative culturali e artistiche in carcere, fuori dal Braccio o di essere, previe autorizzazioni, intervistati da testate che ne hanno fatto richiesta. Addirittura, il DAP avrebbe negato la possibilità al Partito Radicale di tenere in carcere una riunione della sua direzione con la partecipazione di rappresentanti della polizia penitenziaria, Gianni Alemanno e Fabio Falbo, direzione di cui quest’ultimo fa parte per esserne stato eletto all’ultimo congresso del Partito nel gennaio di quest’anno proprio a Rebibbia. Una riunione registrata e resa pubblica tramite Radio Radicale, che, però, per quanto si legge in un comunicato radicale, “avrebbe avuto impatto sul trattamento dei detenuti”. Impatto, aggiungo io, di certo positivo e rieducativo, ma in contrasto con la politica penitenziaria oggi praticata, in barba all’art. 27 della Costituzione. Non piace agli odiatori e leoni da tastiera che, pur di impedire ai due di scrivere e bucare il muro del silenzio imposto alle carceri, manifestano la loro disumanità e cattiveria, con le solite frasi costruite sulle viscere collettive ovvero “ben gli sta ad Alemanno, cosa ha mai fatto per i detenuti?”, “solo ora che è finito in galera si batte per le condizioni dei carcerati” e via discorrendo, come se il detenuto, per il solo reato addebitatogli, debba essere privato della dignità o del diritto di manifestare il proprio pensiero. Ben venga allora la loro martellante iniziativa nel solco di una spiccata sensibilità verso il dramma nelle carceri che ha contrassegnato i percorsi, seppur diversi, dei due detenuti. Falbo, scrivano- giurista al servizio dei tanti disgraziati, costretti a vivere nelle infuocate e sovraffollate celle di Rebibbia. Alemanno, coerente politico della destra sociale - a me tanto distante per formazione familiare e convincimenti politici, ma altrettanto vicino, oggi, per come si batte, in catene, nel raccontare dal di dentro le vergognose condizioni carcerarie, costellate, giorno dopo giorno nell’indifferenza generale, da suicidi e morti di Stato - che già in passato aveva rotto, assieme all’attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il magistrato Alfredo Mantovano e Francesco Storace, il blocco dell’allora AN contrario alla concessione dell’indulto, l’ultimo voluto in maniera condivisa da Prodi e Berlusconi. Era il giugno del 2006, quando, in occasione di una accesa direzione di partito, Alemanno dichiarava “a mio avviso un intervento di clemenza va fatto. L’importante è che ciò avvenga nel minor tempo possibile. Le mie motivazioni? Sicuramente il sovraffollamento delle carceri e le cattive condizioni dei detenuti”. E ancor prima (26/12/2002), dopo aver visitato il carcere di Rebibbia “a tale proposito non posso non associarmi al rinnovato appello della Chiesa cattolica per dare una prospettiva di speranza a chi vive oggi in condizioni spesso al di sotto di ogni livello di umanità e di civiltà”. Ieri come oggi, non possiamo accettare che le grida dei detenuti cadano nel vuoto o vengano silenziate. Facciamoci megafono del loro disagio per favorire il superamento dell’attuale condizione di illegalità costituzionale. Il carcere deve anche “curare”. A proposito del caso di Andrea Cavallari di Massimo Pandolfi Il Resto del Carlino, 8 luglio 2025 Caccia all’uomo. Caccia a un uomo. Un ragazzo, più che un uomo. Un bulletto di 26 anni, capobanda, manipolatore - come lo hanno definito in tanti - che quasi sette anni fa ha compiuto la sciocchezza più grande della sua vita. In una discoteca strapiena - troppo strapiena - a Corinaldo, in provincia di Ancona, ha spruzzato dello spray al peperoncino, creando il panico e provocando una fuga di massa. Fu una tragedia. Persero la vita sei persone: cinque ragazzi e una mamma. Morti schiacciati. Il peggio del peggio. Il ragazzo in questione è Andrea Cavallari, 26 anni, modenese della Bassa, arrestato nel 2019 e condannato a 11 anni e 10 mesi di reclusione. L’altro giorno Cavallari ha compiuto un’altra, enorme, sciocchezza: uscito dal carcere per laurearsi, dopo il pranzo di festa con i genitori, è fuggito. Evaso. Questa è la cronaca, che finirà inevitabilmente (speriamo) con una nuova cattura. E Andrea dovrà ripagarla cara. Però… Qui sorgono tutti i “però” che, ovviamente e giustamente, ai familiari di quelle sei vittime non importano nulla - anzi, rischiano di ferirli ulteriormente. Ma questi “però” devono, purtroppo o per fortuna, esistere in una società civile. Andrea Cavallari è entrato in carcere a 20 anni, si è messo a studiare, si è laureato, presto avrebbe usufruito dei primi permessi e invece è fuggito, pare insieme alla fidanzata. Perché? Domanda senza risposta. Di sicuro, se lo avessero accompagnato in Facoltà con una scorta (cosa che non è avvenuta), oggi non saremmo qui a scrivere questo articolo. Altri pagheranno ora, inevitabile. Ma detto ciò, non dimentichiamoci mai - mai - cos’è e a cosa serve un carcere. Primo: a pagare le colpe, certo. Secondo: anche a costruire, a provare a ricostruire, una persona diversa. A volte ci si riesce, tante altre no. In cella, ancora di più che nella vita ordinaria, si cade, ci si rialza, si cade di nuovo. Molti di noi, in questi anni, si sono incollati al televisore o al PC per vedere Mare Fuori, una serie che parla proprio di queste cose. Tifiamo, davanti allo schermo, nella finzione di un film, per quei ragazzi in fuga - non dal carcere, ma dall’inferno del reato - con mille tentazioni di rituffarsi nell’inferno. Poi, nella pratica, anche nella pratica dell’”Andrea Cavallari di turno”, ci verrebbe invece voglia di prendere le chiavi della cella e gettarle via. No. Sforziamoci di non pensarlo mai. L’equilibrio tra le due esigenze - scontare la pena e lavorare per il recupero - è delicato e complicatissimo, ma non va mai abbandonato. Né censurato. Nemmeno quando capitano storiacce come quella di Corinaldo e di Andrea Cavallari. La vera speranza, per tutti, deve essere che un giorno anche Andrea Cavallari possa farsi una vita nuova, pulita. La giustizia riparativa deve diventare parte integrante dei percorsi trattamentali in carcere di Roberto Cavalieri* bologna2000.it, 8 luglio 2025 Il caso di Andrea Cavallari, il 26enne condannato per la strage di Corinaldo che ha ottenuto un permesso per discutere la tesi di laurea e non è più rientrato in carcere, ha sollevato polemiche. L’opinione pubblica condanna l’assenza di controllo durante il permesso e contesta la possibilità di concedere benefici a chi si è reso responsabile di reati tanto gravi. A essere più ferite, però, sono le famiglie delle vittime, che ancora una volta sentono le loro istanze trascurate e non riconosciute. L’aspetto su cui dovremmo riflettere non è l’esistenza di strumenti come i permessi premio o il lavoro esterno, che non vanno assolutamente demonizzati, bensì la totale assenza di percorsi dedicati alle vittime, capaci di riconoscerle pienamente e di stimolare negli autori dei reati una reale assunzione di responsabilità. Non una strategia difensiva, ma un autentico processo di consapevolezza e riparazione. Pertanto, occorre chiedersi se la giustizia riparativa potrebbe rendere percorsi detentivi come quello di Cavallari più significativi e realmente trasformativi, soprattutto in vista della concessione dei benefici. In Italia, strumenti come i permessi premio fanno parte del programma di trattamento e possono essere concessi dal magistrato di sorveglianza a chi non risulti socialmente pericoloso e abbia mantenuto una condotta regolare. Questi permessi mirano a favorire il recupero dei legami affettivi, culturali o lavorativi. Tuttavia, ci si può legittimamente chiedere se i criteri adottati per la loro concessione siano davvero sufficienti, o se non manchi una valutazione più profonda. Implementare programmi di giustizia riparativa significa favorire un percorso che restituisca senso alla pena e dignità alla vittima. È chiaro che i percorsi di giustizia riparativa non devono essere lasciati al caso, né ridotti all’incontro diretto tra vittima e autore del reato, incontro che, se non adeguatamente preparato, può rivelarsi sfavorevole, come nel caso di Innocent Oseghale, detenuto che lo scorso 7 marzo ha incontrato la madre della vittima nel carcere di Ferrara. È possibile ipotizzare che casi come questi amplifichino il senso di sfiducia nei confronti della giustizia riparativa. La giustizia riparativa non si esaurisce in quel tipo di incontro, che resta raro e delicato, ma va intesa in un senso più ampio. Deve necessariamente coinvolgere anche la società e diventare parte integrante dei percorsi trattamentali all’interno delle carceri. Purtroppo, questi strumenti non sono ancora sistematicamente previsti né integrati nel trattamento penitenziario italiano. Eppure, in altri Paesi, come negli Stati Uniti, esistono programmi strutturati che includono l’incontro con vittime aspecifiche, ex detenuti che testimoniano gli effetti dei reati ponendo enfasi sul danno arrecato alla società, laboratori sulla gestione della rabbia, laboratori che lavorano sul legame tra tossicodipendenze e reato e molti altri. Si tratta di percorsi che agiscono in profondità, che trasformano la percezione del reato e fanno nascere una vera assunzione di responsabilità non arrecando alcun danno alla vittima del crimine, coinvolgendola solo laddove venga espressamente richiesto da quest’ultima e previa preparazione delle parti. Il punto, allora, non è abolire i benefici o irrigidire il sistema. Il punto è costruire percorsi che abbiano un reale valore trasformativo, e che tengano conto del dolore delle vittime, della complessità del danno, del ruolo della società. La giustizia riparativa potrebbe essere la chiave. Ma se è così, e le esperienze più evolute ci dicono che lo è, allora dobbiamo chiederci: perché non la stiamo usando? Perché da due anni sono completamente disattese le pratiche previste dalla riforma Cartabia? Perché viene trascurato il valore che questi percorsi potrebbero avere se inseriti all’interno dei percorsi trattamentali in carcere?” *Garante dei Detenuti Regione Emilia-Romagna Psicologi e carcere, serve il coraggio di una critica radicale al sistema detentivo di Federico Zanon* quotidianosanita.it, 8 luglio 2025 In questi giorni fioriscono gli appelli accorati sul problema del carcere. Si parla di caldo, suicidi, sovraffollamento, carenza di personale. E si invocano le solite soluzioni di compromesso: più personale, più strutture, più sanitari. Parrebbe quasi, leggendo certi commenti, che installando un paio di condizionatori, mettendo qualche psicologo in più, diminuendo i suicidi, il sovraffollamento e le carenze di personale, il carcere potesse magicamente diventare quel trattamento “non contrario al senso di umanità e tendente alla rieducazione del condannato” riservato a chi è colpevole perché giunto ad una “condanna definitiva”, di cui parla la nostra ignorata Costituzione. Credo che come sanitari dovremmo andare oltre il sintomo. Il carcere è un luogo che stipa persone affette da patologie fisiche e mentali croniche, non sempre colpevoli in senso giuridico (con condanna definitiva), spesso prive di mezzi economici e culturali per difendersi, in condizioni disumane e iatrogene. In carcere le persone non guariscono, semmai si ammalano di più. Del resto è difficile guarire, rinchiusi per anni in tre o quattro o sei, in celle da 9-12 metri quadri con cesso a vista, senza alcun contatto con la società. Mi chiedo se questo è un uomo. Atul Gawande, nel suo libro ‘Con Cura’, si chiede se sia eticamente accettabile che un sanitario assista i condannati alla pena capitale nel momento dell’iniezione letale, per alleviare le loro sofferenze attraverso una procedura medicalmente impeccabile. Senza andare oltreoceano, io nel mio piccolo, come sanitario a contatto con i detenuti in Italia, mi pongo lo stesso dilemma: è giusto stare in carcere, contribuire indirettamente ad un sistema che produce l’opposto della salute? Non è una domanda oziosa: lo psicologo persegue la salute, e il codice deontologico gli impone di rispettare la dignità e l’autonomia delle persone e non partecipare ad iniziative lesive delle stesse. Oggi non sarebbe proponibile che i sanitari uscissero dal carcere. Cesserebbe anche l’ultimo presidio di salute. In carcere si deve starci. Ma c’è modo e modo. Possiamo stare nella nicchia ecologica che ci è stata assegnata, di stampella per le umane sofferenze. Questo significa accettare due mistificazioni: che il carcere sarebbe un luogo benevolo se solo si risolvessero tutti i suoi problemi, e che in carcere sono i detenuti ad essere malati e non è il carcere stesso ad ammalarli di più. Vestiremmo così molto degnamente il ruolo che Michel Focault ha profetizzato per noi in ‘Sorvegliare e punirè: quello di sostituti igienici del boia, ingranaggi tecnici di una macchina infernale che ha rimpiazzato il supplizio dei corpi con un’economia di diritti sospesi, per non turbare la società con le scene raccapriccianti degli squartamenti e delle decapitazioni. Oppure possiamo stare in carcere in un altro modo: interrogandoci sul senso di starci. Leggo di scelte ‘coraggiose’ invocate da certi Ordini professionali sanitari. Ma quale coraggio c’è nell’accettare supinamente questo sistema, accontentandosi di ridurne i sintomi (senza peraltro mai farlo davvero)? Coraggioso sarebbe aprire ad una critica radicale sull’esistenza stessa del carcere. Chiedersi se sia possibile perseguire la salute, lì dentro. Se sia eticamente corretto collaborare ad un sistema che genera strutturalmente malattia. Se sia giusto sostenere con la propria presenza un sistema che si fonda sull’isolamento e sulla violenza istituzionale. Se sia scientificamente sostenibile segregare le persone dalla società in cui dovrebbero reintegrarsi. Coraggioso sarebbe avere il coraggio di dire che chi è detenuto oggi nelle carceri italiane sconta una pena che va ben oltre la pena teorica prevista nelle sentenze, che questo è ingiusto e che l’ingiustizia genera malattia. Coraggioso sarebbe affermare con chiarezza che il sanitario persegue la salute e che si può farlo efficacemente ed eticamente solo scontando la pena fuori dal carcere, dove la persona possa vivere in condizioni umanamente accettabili ed essere a contatto con la società nella quale dovrebbe reintegrarsi. E allora forse, a partire da questi interrogativi radicali e da queste posizioni altrettanto radicali, potremmo anche accettare di svolgere una funzione di compromesso in carcere, assistendo i detenuti senza essere complici del sistema che li ammala. Mi spingo oltre: mi piacerebbe che in prima linea nel promuovere questo pensiero radicale sul carcere e sulla sua inaccettabilità per i sanitari ci fossimo noi psicologi. È desolante vederci mentre ci mettiamo in fila con il capo chino e il cappello in mano, a recitare il nostro pezzetto di rosario sul riscatto umano, sul senso di giustizia e sul benessere delle persone, a metà fra un mendicante e Don Abbondio, mentre invochiamo più psicologi al capezzale dei [con]dannati. Il coraggio chiama coraggio. Se davvero ne avessimo, più di qualcuno potrebbe seguirci, anche nel mondo della giustizia. *Consigliere di indirizzo ENPAP. Coordinatore ufficio deontologico, Ordine Psicologi Veneto Il latinorum del Garante dei detenuti che in tutta sincerità ammette di non essere indipendente di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 8 luglio 2025 Ragionamenti attorno alle dichiarazioni più o meno chiare del prof. Mario Serio, componente del collegio nazionale, intervistato dal Manifesto. È una di quelle benemerite istituzioni con le quali ci si augura di non dover mai avere a che fare: il Garante dei detenuti. Le funzioni e le prerogative, i compiti e i ruoli del Garante sono importanti e delicati. Chiedo scusa per il burocratese: 1) l’area penale (Istituti penitenziari per adulti e minori, Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - Rems, Comunità); 2) l’area delle Forze di Polizia (camere di sicurezza e qualsiasi locale adibito alle esigenze restrittive in uso a Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia locale); 3) l’area delle persone migranti (Centri di permanenza per i rimpatri, hotspot, locali ‘idonei’ e di frontiera per il trattenimento delle persone migranti); 4) l’area sanitaria (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, Residenze sanitarie assistenziali per persone anziane o con disabilità); 5) a queste quattro aree se ne è aggiunta una quinta relativa ai luoghi formali di quarantena (tra cui i c.d. Hotel Covid 19). Insomma: se si ha a che fare con il Garante dei detenuti significa che per una ragione o per l’altra, non si è liberi dei propri movimenti. Meglio starne alla larga. Però vai a sapere nella vita: dovesse capitare, sapere che c’è qualcuno, qualcosa a cui appellarsi per la tutela dei propri diritti, conforta. Perché il Garante nazionale dei detenuti è un’Autorità di garanzia a cui la legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Una figura del tutto indipendente non soggetta ad interferenza di sorta. Per legge. L’attuale collegio nazionale del Garante è composto da un ex magistrato, Riccardo Turrini Vita, presidente; dall’avvocata Irma Conti; dal professor Mario Serio, già ordinario di diritto privato comparato. Quest’ultimo viene intervistato dal Manifesto. Giansandro Merli gli attribuisce una “quota”, Cinque Stelle; e questo è già un buon antipasto: “quotato” e “indipendente”; tutto può essere, per carità. A un certo punto l’intervistatore la butta lì: il Garante è un’istituzione indipendente… “In tutta sincerità no”, è la secca risposta del professore. Scelto sulla base di un criterio spartitocratico, garante in quanto “quota”, consapevole che il Collegio non è un’istituzione indipendente…Ah, queste voci dal sen fuggite! Non finisce qui. L’intervistatore osserva che la collega di “collegio”, l’avvocata Conti ha pensato bene di partecipare a un’iniziativa del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sponsorizzandola quasi come fosse propria, e casualmente a Biella, feudo del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, presente all’evento. Edificante la risposta: “C’è un principio di transizione dei corpi fisici che mi suggerisce di effettuare la transizione della domanda nei confronti della persona indicata”. Ma che diavolo significa? Siamo al latinorum che fa andare in bestia il povero Renzo Tramaglino quando si trova a fare i conti con il linguaggio incomprensibile dell’avvocato Azzeccagarbugli. Certa una cosa: poveri detenuti, povera comunità penitenziaria. Il Garante dei detenuti, un ruolo da salvaguardare di Michele Bellame anteprima24.it, 8 luglio 2025 L’Osservatorio Regionale campano sulle condizioni delle persone private della libertà personale ha lanciato un appello accorato, unendosi alle numerose voci che hanno già manifestato inquietudine per la situazione critica che sta attraversando l’Ufficio del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il timore è legato alle dimissioni a catena di figure chiave dell’organismo: un’emorragia di competenze che rischia di compromettere la capacità del Garante di svolgere con efficacia il proprio delicato ruolo di vigilanza e tutela. Un’istituzione che ha saputo garantire trasparenza e giustizia - Nel corso degli anni, il Garante Nazionale ha rappresentato un punto di riferimento nel monitoraggio delle condizioni delle persone detenute, con ispezioni rigorose nei luoghi di privazione della libertà, relazioni dettagliate al Parlamento e un costante sostegno alle azioni giudiziarie contro gli abusi. Particolarmente significativa, come ricordato dall’Osservatorio Regionale, è stata l’azione legale intrapresa nel processo sui drammatici fatti accaduti nel 2020 nella Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dove oltre cento imputati devono rispondere di reati come torture, maltrattamenti, lesioni, falsi e depistaggio. “Non può non preoccupare la rinuncia all’incarico dello storico difensore del Garante Nazionale, l’avvocato Michele Passione, impegnato nella costituzione di parte civile in quel processo”, sottolinea l’Osservatorio. Ad oggi, l’ufficio non ha ancora nominato un nuovo legale per la prosecuzione dell’azione civile. Un vuoto di competenze e di azione - Alle dimissioni dell’avv. Passione si sono aggiunte quelle degli avvocati Antonella Calcaterra e Maria Brucale, esperti del settore che hanno più volte evidenziato criticità interne: dall’omissione della relazione annuale al Parlamento, alla riduzione delle ispezioni senza preavviso, fino al rischio di superficialità nelle visite. L’atteggiamento dell’attuale dirigenza, che ha minimizzato l’impatto delle dimissioni parlando di “nessuna difficoltà a sostituire gli esperti”, appare in contrasto con la gravità della situazione. “Ci preoccupa questa linea di sufficienza, omogenea a quella del DAP, e la scarsa consapevolezza del ruolo dell’Ufficio del Garante di fronte all’emergenza carceraria mai affrontata realisticamente”, denuncia l’Osservatorio campano. La vigilanza come strumento di garanzia democratica - In un momento storico segnato da crescenti spinte securitarie e da un controllo penale sempre più invasivo, la funzione del Garante Nazionale appare ancora più necessaria. “La trasparenza nei luoghi in cui si esercita il contenimento dei corpi - conclude l’Osservatorio - deve essere garantita da un’attività di vigilanza realmente indipendente, come si addice a un’autorità di garanzia”. L’auspicio è che le istituzioni sappiano restituire autorevolezza e operatività a un presidio fondamentale per la tutela dei diritti umani. Nordio accelera sulla giustizia: “Referendum nel 2026, il pm deve restare indipendente” di Davide Vari I Dubbio, 8 luglio 2025 “Separazione delle carriere necessaria ma non sufficiente. Il sistema delle indagini va rivisto”. Il referendum sulla riforma della giustizia si terrà “nei primi mesi del 2026”. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel corso della trasmissione Quarta Repubblica su Rete4, assicurando che il disegno di legge sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è “in dirittura d’arrivo per l’approvazione in prima lettura al Senato” e che “la seconda lettura sarà più semplice e rapida”. Nordio ha rivendicato il percorso riformatore, definendo la separazione delle carriere e la previsione di due distinti Consigli superiori della magistratura come un intervento “necessario, ma non sufficiente”. Per migliorare l’efficienza della giustizia, ha aggiunto, “saranno necessarie anche altre riforme”. Secondo il ministro, la riforma è arrivata solo ora perché “la magistratura è sempre stata così contraria da condizionare la politica”. Ma oggi, ha affermato, “siamo decisi a portarla avanti. Ce lo chiede l’elettorato e la faremo”. Rispondendo alle critiche delle opposizioni, che paventano il rischio di un controllo politico sulla magistratura inquirente, Nordio ha ribadito: “Il mio profondo convincimento è che il pm debba restare indipendente”. Quanto alle dichiarazioni del procuratore Nicola Gratteri, atteso su La7 con un progetto televisivo dedicato alle mafie, il Guardasigilli ha detto: “Ha tutto il diritto di dire quello che pensa. Di fatto, legittima la nostra proposta. I magistrati devono parlare: il silenzio può essere complicità”. Nel suo intervento, Nordio ha anche criticato il Massimario della Cassazione, che aveva sollevato rilievi sul decreto Sicurezza: “Non è un centro studi, non è deputato a esprimere giudizi di merito. Sono rimasto incredulo”. Sull’ipotesi di una amnistia, il ministro ha mostrato freddezza: “Si fa quando si è in posizione di forza, per generosità. Se la si fa per necessità, per svuotare le carceri, è un segno di debolezza e un incentivo a delinquere”. Infine, un commento sul caso giudiziario relativo all’omicidio di Garlasco: “Comunque finisca, finirà male. O è giusta la condanna dell’imputato e allora l’indagato di oggi sta soffrendo pene indescrivibili, oppure è vero il contrario. Oppure sono innocenti entrambi: sarebbe un doppio errore giudiziario. In ogni caso, una persona innocente sta soffrendo”. Secondo Nordio, il caso dimostra che “il sistema con cui si fanno le indagini va rivisto”. La dem Valente osa criticare lo sportello per uomini maltrattati. E scatta la gogna di Simona Musco Il Dubbio, 8 luglio 2025 La senatrice del Pd vittima degli hater dopo le critiche all’iniziativa di FdI nel VI Municipio di Roma. La solidarietà delle associazioni antiviolenza. La notizia dell’apertura di uno sportello per uomini maltrattati nel VI Municipio di Roma, unico guidato dal centrodestra, ha scatenato la bufera sulla senatrice dem Valeria Valente. Valente ha criticato su Facebook l’iniziativa, approvata da una delibera della Giunta municipale guidata da Nicola Franco (Fratelli d’Italia), che descrive le donne come autrici di violenza psicologica sugli uomini, capaci di isolarli dai figli e perseguitarli con uno stalking “emotivo e silenzioso, ma logorante”. In sostanza, si legittima la teoria dell’alienazione parentale, considerata antiscientifica da Cassazione, Parlamento europeo, Onu e persino dal governo Meloni, che nel “Libro Bianco sulla violenza maschile contro le donne” l’ha definita “inaccettabile come argomentazione processuale” e “dannosa per i diritti di donne e minori”. Valente, già presidente della Commissione femminicidio, ha ribadito che l’iniziativa è “un attacco ai centri antiviolenza e alle operatrici”, e soprattutto “un attacco alle donne. Tutte - si legge nel post finito nel mirino -. Un colpo al lavoro culturale ed educativo per eradicare il fenomeno, perché propone una visione mistificante, alimentando una narrazione falsa: che esiste solo una violenza neutra e non quella specifica agita dagli uomini contro le donne, basata sulla cultura del possesso e del dominio. Donne dalle quali non accettano un no, considerate ancora “cose” su cui esercitare il proprio dominio”. Valente cita anche i manifesti a Napoli che chiedevano: “Ma la violenza ha sempre lo stesso sesso?”. La risposta, dice, è sì: “Questo tipo di violenza deve essere chiamata con il suo vero nome: violenza maschile contro le donne. In quel maschile - che non accettiamo sia omesso - c’è la sfida da vincere. Sostenere il contrario significa non voler combattere i femminicidi, volto estremo della violenza di genere”. Da qui un profluvio di commenti, soprattutto al maschile, in cui Valente veniva accusata di “delirio” e le sue parole bollate come “balla colossale”, “fanatismo”, “vergognose”, “criminali” e in grado di suscitare “schifo” e “nausea”, solo per citarne qualcuno. Ma non solo: Valente è stata denunciata dall’avvocato Angelo Pisani - ideatore del progetto “1523 contro la violenza sugli uomini” - per “istigazione all’odio o alla discriminazione - omofobia, abuso della funzione pubblica, diffamazione aggravata ai danni di soggetti vulnerabili e associazioni”. Ferma la reazione delle associazioni anti violenza, che in una nota - sottoscritta nel momento in cui scriviamo da 66 organizzazioni, tra le quali DiRe, Telefono Rosa, Casa Internazionale delle donne e Cgil Politiche di genere, hanno stigmatizzato “i gravi attacchi subiti sui social”. “Le offese, le denunzie, gli attacchi personali e non, alla senatrice Valente dimostrano quanto inveterato sia il potere maschile patriarcale agito e pensato. Ma dimostrano anche che tutte le azioni di sensibilizzazione, formazione e denunzia del fenomeno, poste in essere in questi anni sul piano legislativo e sociale, stanno avendo efficacia - si legge -. Abbiamo dato nome e valenza politica al fenomeno della violenza maschile agita sulle donne in quanto tali e questo determina rigurgiti di violenza verbale ed attacchi personali che vanno respinti, qualificati e condannati. È evidente che l’attacco alla senatrice Valeria Valente riguarda tutti e tutte, è una aggressione rivolta a quello che lei rappresenta, alle battaglie realizzate al fianco delle donne nelle istituzioni, è, di fatto, un elemento di “disturbo” per chi, indisturbato, per tanti anni ha esercitato il suo potere in quanto uomo”. Un messaggio al quale Valente ha risposto con gratitudine. “Non è un sostegno solo a me - ha commentato -, ma al comune impegno di molti anni, al fianco delle donne, per smascherare la matrice della violenza maschile, insita nella cultura patriarcale”. Valente ha sottolineato che “gruppi di uomini stanno attaccando chi contrasta la violenza maschile, negandone la specificità e trasformando le donne che si difendono in carnefici”. E ha aggiunto: “Non c’è reciprocità nella violenza, le donne sono vittime di relazioni asimmetriche in cui domina la cultura del possesso maschile sui loro corpi e vite. Negare la specificità della violenza contro le donne significa cancellare oltre 50 anni di battaglie femministe per i diritti e la libertà. È un corto circuito da svelare e sconfiggere. Noi non arretreremo, insieme a quegli uomini che vogliono cancellare la cultura patriarcale e costruire una società basata sul rispetto delle differenze”. Genova. Marassi in autosedazione: il 95% dei detenuti assume psicofarmaci di Erica Manna La Repubblica, 8 luglio 2025 Per riuscire a sopravvivere, dentro, è necessario attutire. Smorzare il volume, affievolire le sensazioni: per sopportare meglio il tempo che non scorre, le attese per telefonare a casa o all’avvocato che possono dilatarsi anche per settimane. E quel rumore costante, che non smette mai. Nemmeno di notte. Nel linguaggio del carcere si chiama “la terapia”. Un termine che si traduce in pillole: benzodiazepine, per lo più. Ansiolitici: come Xanax, Valium. A farne uso, a Marassi, sono il 95 per cento dei detenuti: praticamente tutti. Il Lyrica, invece, lo hanno vietato. Perché i detenuti usavano il farmaco - prescritto per il dolore neuropatico e l’ansia - come crack: lo fumavano. La tossicodipendenza dentro è un’altra malattia endemica. Nel carcere di Marassi ci sono 659 detenuti (per 554 posti). Di questi, 240 sono in carico al Serd, il Servizio per le dipendenze. Un numero abnorme: e tra questi, oltre 80 sono sottoposti alla terapia da metadone. Perché il carcere è patogeno: un luogo che ammala. Dove chi ha problemi di dipendenze finisce per aggravarsi. “È il campo di concentramento di tutte le patologie - sintetizza Sergio D’Elia, segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino, che nei giorni scorsi ha visitato Pontedecimo e Marassi nell’ambito della campagna “La fine della pena” -è diventato un lazzaretto, un manicomio, una comunità terapeutica per tossicodipendenti, ma è il luogo meno adatto. Non solo: è anche la più grande piazza di spaccio che esista”. Inizia da qui, la seconda puntata dell’inchiesta di Repubblica sulle carceri liguri. Dal bene più prezioso, che la reclusione mette a rischio: la salute. Il Sai, dove i posti non bastano - Nella casa circondariale di Marassi c’è una sezione denominata Sai, ovvero “Sezione ad assistenza integrata”, su tre piani, con la Asl ad avere un ruolo gestionale. “Nel modello disegnato dalla Regione si configura come hub ligure - spiega Doriano Saracino, garante regionale delle persone private della libertà, che ha sollevato la questione salute come prioritaria nel suo ultimo rapporto - questo comporta spesso il trasferimento a Marassi per motivi di salute sia di persone provenienti da istituti del distretto, sia di detenuti da altre regioni. Il fenomeno si è ulteriormente accentuato dal momento che spesso appartenenti al circuito Alta sicurezza sono stati assegnati a Marassi, in quanto la sezione risulta annessa al centro clinico”. D’Elia ha visitato nei giorni scorsi l’Alta sicurezza. “Il Sai - spiega - è diventato uno specchietto per le allodole per il trattamento di detenuti, ma i posti non bastano. Così i detenuti con patologie vengono trasferiti a Marassi in attesa di entrare nel Sai: ma siccome non c’è posto vengono sistemati nelle altre sezioni. Anche chi ha problemi di salute mentale. E poi, cardiopatici, diabetici, persone con malattie oculistiche”. Il garante Doriano Saracino ha chiesto di aumentare i posti nel Sai e ha ottenuto una prima vittoria: che il secondo piano dedicato alle persone affette da Hiv modificasse l’etichetta stigmatizzante “Reparto Hiv livello intermedio”. Che - alla faccia della privacy - appariva persino sulle schede degli acquisti del sopravvitto, visionabile anche da operatori di ditte esterne. Altra questione impellente, il trattamento delle persone con malattie psichiatriche: “A Marassi sono una ventina con patologie mentali severe - rimarca D’Elia - il carcere non è adatto”. Lo spaccio dentro - A Marassi, nella terza sezione, due piani sono appositamente dedicati a detenuti tossicodipendenti in regime di custodia attenuata: l’obiettivo è la riabilitazione e il reinserimento. Ma le attività - nonostante gli sforzi e l’impegno degli operatori - scarseggiano, soprattutto in estate. E - denuncia Saracino - “la grande circolazione di sostanze e la non effettiva separazione fisica tra custodia attenuata e altri detenuti rende più complessa l’astinenza da stupefacenti”. La settimana scorsa, un gruppo di consiglieri comunali e regionali ha partecipato alla visita a Pontedecimo e Marassi con Nessuno tocchi Caino, per discutere poi di carcere durante un’assemblea a Palazzo Tursi con l’assessora alla Sicurezza del Comune Arianna Viscogliosi, il presidente della Camera penale Fabiana Cilio, il garante Doriano Saracino, Sergio D’Elia e - tra gli altri - i consiglieri comunali Donatella Alfonso, Filippo Bruzzone e Francesca Ghio, Cristina Lodi e Davide Patrone, i deputati Alberto Pandolfo, Valentina Ghio e Luca Pastorino, i consiglieri regionali Gianni Pastorino, Simone D’Angelo e Armando Sanna. “Un detenuto mi raccontava che ha un figlio che non vede da un anno e mezzo - racconta la consigliera Pd Donatella Alfonso - quando è nato non ha potuto riconoscerlo perché era già dentro. Non è vita, con il minestrone bollente servito alle 5 del pomeriggio con 40 gradi, le ore all’esterno in un cortiletto bollente, la carenza di personale di polizia, la burocrazia che annienta i progetti di recupero. Inutile poi stupirsi di cronache che parlano di violenze, di abbandono, di droga”. Firenze. Dopo l’ultimo decesso a Sollicciano il Garante Parissi invoca una “Unità di crisi” novaradio.info, 8 luglio 2025 Su Sollicciano serve un tavolo permanente di confronto tra istituzioni e privato sociale, una sorta di “unità di crisi” per affrontare quella che ormai può essere definita la situazione di emergenza del carcere fiorentino. È la richiesta contenuta nella lettera che il Garante dei detenuti di Firenze, Giancarlo Parissi, ha deciso di inviare all’assessore al welfare del Comune di Firenze Stefano Paulesu per chiedergli di dare seguito a una idea lanciata dalla stessa amministrazione, dopo il decesso di un detenuto con problemi psichiatrici venerdì scorso nella sezione accoglienza, che ha fatto salire a cinque il totale delle morti tra le mura del penitenziario fiorentino negli ultimi 6 mesi. Ad annunciarlo è lo stesso garante stamani ai microfoni di Novaradio nella trasmissione “Il Cielo e la Stanza”: “Durante i terremoti si costituiscono le unità di crisi. Io penso insieme all’assessore - ha detto - che siamo in una situazione tale, per cui la costituzione di un’unità di crisi, che come minimo comincia a monitorare, a pensare seriamente a delle correzioni, dei correttivi, a dei tamponi. Quello che fa la Protezione Civile durante un terremoto”. Ad intervenire sulle drammatiche condizioni di invivibilità del carcere fiorentino, sempre ai microfoni di Novaradio, è anche l’associazione Pantagruel, che proprio nei giorni precedenti aveva denunciato la situazione: “Io nei giorni precedenti avevo scritto al garante dei detenuti di Firenze e quello regionale - dice il vicepresidente Stefano Cecconi - per manifestare la nostra profonda preoccupazione non solo per il transito ma anche per la sezione accoglienza. All’accoglienza ci entriamo e di ventilatori non ce ne sono”. E i lavori di coibentazione termica, avviati anni fa, sono ancora fermi: “Erano stati appaltati nel 2023, poi fra ricorsi al TAR, blocchi e quant’altro, sono fermi. Dovrebbero sbloccarsi solo ad ottobre”. C’è poi, aggiunge Cecconi, un problema evidente di gestione dei detenuti con problemi psichiatrici, evidente nel caso del decesso venerdì del 57enne detenuto austriaco: “Un detenuto con problemi psichiatrici che era stato arrestato nella galleria della stazione perché era mezzo nudo e dava noia la alle persone. È stato internato purtroppo per il caldo, o per il mix di farmaci, o per tutta una serie di cose, purtroppo, non ce l’ha fatta. Questa purtroppo è la situazione all’accoglienza, dove vivono circa una ventina di detenuti. Io di ventilatori sabato non ne ho visti nemmeno uno, e ho trovato i miei due amici psichiatrici molto gravi che vivono oramai da chi da un mese, l’altro da 15 giorni, in uno stato di abbandono”. Uno dei due, denuncia Cecconi, “Spesso e volentieri lo trovo o completamente nudo o solo con pantaloni, in una cella totalmente disadorna, con solo e soltanto il letto al castello, nemmeno forse il materasso, perché sennò lui rischia di bruciarlo, la doccia della cella non riceve, e quindi se lui si lava si allaga. Mi sembra di vedere le foto dei malati psichiatrici abbandonati nei manicomi”. Riguardo alla situazione del carcere, il garante Parissi conferma le criticità legate all’emergenza caldo con alcune precisazioni: “Non ridurrei al problema della mancanza dei ventilatori l’ultimo decesso” dice, aggiungendo però: “Essendo la struttura costruita in cemento armato, e costruita in cemento armato di pessima qualità, è evidente che il caldo d’estate, così come il freddo d’inverno, creano ulteriore disagio”. E aggiunge segnalando un problema che si vive da alcuni giorni: nelle sezioni femminili di Sollicciano, 4 giorni su 7, il cibo dell’intera giornata viene consegnato una sola volta, alle 11 di mattina: “Questo naturalmente ha portato - spiega - a situazioni per cui in celle che non sono mai singole, con 40, 38, 39 gradi, il vitto viene depositato sull’unico tavolo che c’è nella cella”. Sulla particolare condizione di disagio psichiatrico del detenuto austriaco morto venerdì nella sezione transito, il garante ammette: “La malattia mentale dovrebbe essere curata in modo diverso, ma si finisce comunque a stare nelle celle”. “Il sistema sanitario, a mio modo di vedere, per quello che io conosco in carcere è efficiente” aggiunge: “Quello che non funziona è il sistema carcere nella sua interezza, tutto ciò che ha a che fare con l’atteggiamento di un sistema che mette l’isolamento, il contenimento, la custodia avanti a tutte le altre esigenze”. Milano. I detenuti di San Vittore e il caldo insopportabile in cella di Andrea, Maurizio, Qani, Perri, Sanfilippo, Stefano, Yohan* Corriere della Sera, 8 luglio 2025 “Anche l’ora d’aria è un inferno. I ventilatori? Li comprano i volontari”. Il racconto in diretta di un gruppo di detenuti che si trovano alla sezione La Nave della casa circondariale, nel caldo torrido dell’estate milanese, circondati dal cemento, che rende un inferno anche l’ora d’aria. I ventilatori li comprano i volontari. Che bello: arriva l’estate e quasi tutta la popolazione si prepara per andare in vacanza al mare. Inoltre, visto il caldo, il governo sta prendendo misure per non far lavorare la gente sotto il sole nelle ore più torride. Ottima cosa. Poi c’è anche una piccola porzione di cittadinanza dimenticata: noi carcerati, che al mare non possiamo andare. Nello specifico noi ci troviamo a San Vittore, quarto piano del terzo raggio, nel reparto La Nave che è una sezione di trattamento avanzato gestita da Asst Santi Paolo e Carlo per persone con dipendenze. Negli altri reparti stanno peggio. Là le celle sono chiuse quasi tutto il tempo, per le passeggiate all’aria c’è un’ora e mezza la mattina e circa lo stesso tra l’una e le tre del pomeriggio. Al rientro nelle celle, sempre strapiene, il caldo è moltiplicato per la mancanza di spazio. Qui alla Nave siamo più fortunati. Le celle qui sono aperte per buona parte della giornata, abbiamo un calendario settimanale con varie attività, le dottoresse per combattere l’afa ci hanno munito di ventilatori - uno per cella - pagati dall’Associazione Amici della Nave. Certo, diverse cose non funzionano neanche qui: per esempio l’acqua da molti rubinetti del reparto non esce. Ma appunto negli altri piani è peggio. Il ventilatore lo compra con i propri soldi di può permetterselo. Se i soldi non ce li hai non puoi comprare neanche l’acqua in bottiglia e la doccia te la fai comunque col contagocce. Mi auguro - ci auguriamo - che almeno alcune cose possano migliorare al più presto, per consentirci di scontare la nostra detenzione nel modo più giusto e perché ci sono tante persone che hanno tanta voglia e volontà di reinserirsi nella società. Ma, come dicevamo, il caldo è duro in queste settimane anche per chi sta fuori. Diciamo che qui è una sofferenza in più da aggiungere a quelle che già abbiamo. Fortunatamente per rinfrescarci avremo presto il ritorno dell’inverno: con i caloriferi che non funzionano staremo benissimo. Ah, poi naturalmente c’è il sovraffollamento. Il mangiare è quel che è, vabbè. Mentre anche i frigoriferi funzionano un po’ come/quando/se vogliono: il livello degli altri alimenti deperibili all’interno, col caldo che fa ora all’esterno, non è esattamente una garanzia di salute. Aggiungiamo i cortili per l’aria, cemento per terra e muro di cemento tutto intorno, senza un angolo d’ombra: e se il tuo turno di aria è tipo dalle 13 alle 14 diciamo che forse rinunci e te ne stai dentro. Sembrano piccole cose ma portano alla disperazione alcuni soggetti che in alcuni casi, pur di finirla, arrivano a suicidarsi. In cambio, va detto, abbiamo avuto la possibilità di vaccinarci gratuitamente proprio qualche giorno fa. Peccato solo che non ci fosse una stanza per farlo. Ma forse un modo per cavarcela lo abbiano trovato. Ci basta immaginare che le nostre celle si siano trasformate in piccole stanze di lusso con la sauna. L’unica differenza è che in una sauna, come sapete se ci siete mai stati, si rimane al massimo 20 o 25 minuti: noi abbiamo un bonus che ci dà diritto a una permanenza di anni. Comunque, proprio mentre scriviamo, sorpresa, a Milano è arrivata la pioggia. E altro che pioggia: allagamenti, fulmini, alberi caduti. Ma in questo caso il problema riguarda più chi sta fuori: neanche il peggior vento, qui, ha mai abbattuto un muro. Qualcuno nel frattempo, per lavarsi quando le docce non funzionano, ha trovato una alternativa efficacissima rispetto all’acqua: il sudore. Di quello ne abbiamo a volontà. L’importante è asciugarsi bene: hai visto mai che con questi sbalzi di temperatura magari resti bagnato e ti becchi qualche malanno. *Detenuti nel reparto “La Nave” del carcere di San Vittore Milano. Al carcere minorile Beccaria arriva un Imam, scoppia la polemica di Massimiliano Melley milanotoday.it, 8 luglio 2025 Un Imam arriverà al carcere minorile Beccaria di Milano, e affiancherà il cappellano cattolico (don Claudio Burgio, che è anche direttore della comunità Kayros). È il frutto di un protocollo d’intesa siglato lunedì 7 luglio, presso il Tribunale dei Minorenni da diverse istituzioni: il Tribunale stesso (con la presidente Maria Carla Gatto), il procuratore dei minorenni Luca Villa, il direttore del Centro per la giustizia minorile regionale Paolo Gabriele Boni, la reggente del Beccaria Teresa Mazzotta, l’Arcidiocesi di Milano (con monsignor Luca Bressan) e l’Imam Dahmane Abdullah Tchina, in rappresentanza della comunità islamica, attivo a Sesto San Giovanni. La Diocesi è favorevole - Al Beccaria, nel 2024, sono transitati 297 giovani, per il 78% stranieri di cui l’87% da Paesi a maggioranza islamica. Don Burgio e il suo predecessore, don Gino Rigoldi, da tempo auspicavano l’arrivo di un Imam al Beccaria per la preghiera musulmana del venerdì e per sviluppare un dialogo interreligioso. “Il senso di questa scelta - ha commentato Bressan - è nella linea di quella evoluzione che mette in luce come, in tanti nostri luoghi, vi sia sempre più multiculturalità e la presenza di diverse religioni”. Che cosa farà l’Imam - L’attività dell’Imam, secondo quanto si legge nel protocollo, si svolgerà “negli spazi idonei a favorire anche un accesso spontaneo da parte dei giovani detenuti”. Inoltre l’Imam potrà tenere “colloqui individuali o incontri collettivi di preghiera e insegnamento religioso, nel rispetto del regolamento interno e sotto vigilanza discreta del personale”. L’obiettivo non è soltanto strettamente religioso ma quello fornire ai ragazzi musulmani una figura di fiducia e un sostegno umano e morale. Un po’ come avviene già per il cappellano cattolico. La polemica - La notizia, però, non è stata “presa bene” da tutti. Secondo Riccardo De Corato, ex vice sindaco di Milano e ora deputato di Fratelli d’Italia, si è di fronte a “un’altra decisione incredibile della magistratura, che va in direzione opposta al buon senso. Mettere un Imam in un luogo pieno di ‘maranza’ come il Beccaria è sbagliato. Si tenta il loro recupero? Si andrà a peggiorare una già grave situazione che porterebbe ulteriori problemi e disagi alle guardie carcerarie”. In proposito, De Corato ha annunciato un’interrogazione a Carlo Nordio, ministro della Giustizia. Milano. “Ai detenuti islamici parlerò di responsabilità e comunità” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 8 luglio 2025 Abdullah Tchina è il primo imam nominato ufficialmente in un carcere minorile e ieri ha fatto il suo ingresso tra i giovani detenuti: “Accompagnerò senza indottrinare”. Ha quattro figli, una laurea in Teologia islamica e Diritto alla Cattolica, partecipa come attore di primo piano al Forum delle Religioni ed è attivo sui social network. Ma la sua forza è altrove: nello sguardo diretto, nella parola semplice. Abdullah Tchina, algerino, arrivato a Milano da ragazzo 35 anni fa, è il primo imam nominato ufficialmente in un istituto di pena italiano. Entra al Beccaria - dove sette su dieci sono musulmani - come guida spirituale stabile, autorizzato dal ministero dell’Interno e dal ministero della Giustizia. Al fianco del cappellano cattolico. Il suo è un ingresso simbolico, ma anche estremamente concreto. Già attivo a Sesto San Giovanni, Abdullah chiarisce subito: “Il mio è un accompagnamento che non ha niente a che fare con la dottrina, porterò dentro un senso dii equilibrio, responsabilità e di comunità”. Parole semplici ma al Beccaria diventano medicina e insegnamento. “Molti ragazzi, soprattutto i minori stranieri non accompagnati, non sanno nemmeno come dire alla famiglia che sono finiti in carcere. Si vergognano. A volte tagliano i ponti pur di non ammettere di aver fallito. Ma così si ritrovano più soli, più arrabbiati. Come se il carcere fosse una frattura insanabile con la propria dignità”, riflette l’imam. Responsabilizzarli è un compito largo. Profondo. “La vita non è un codice binario, giusto o sbagliato. Esiste la moderazione, il compromesso. Gli errori si possono riparare con la pazienza, se c’è la volontà”. Ed è qui che entrano in gioco le tre parole chiave. Equilibrio nei gesti e nei rapporti, soprattutto con l’autorità, un tasto dolente. Responsabilità verso le famiglie, verso il Paese che li ospita. E comunità: quella che non si ferma alla porta del carcere, ma li accompagna anche dopo. E che, in particolare nei quartieri più fragili, dopo la detenzione, può diventare argine alla recidiva e rete di sostegno nella costruzione del futuro. “Per molti lo Stato è un’entità fredda, quasi ostile. Scattano chiusure, reazioni rabbiose. Ma devono capire che invece c’è chi investe su di loro con fiducia”. Più del crimine, il problema al Beccaria è la solitudine. “Vivono senza rete. Famiglie lontane o assenti, amici spariti. Il carcere diventa una giungla. Ma se capiscono che fuori li aspetta una comunità, la loro comunità, qualcosa cambia. Ritrovano motivazione e forza”. La sua presenza è stata voluta con decisione dalla presidente del Tribunale per i Minorenni Maria Carla Gatto, nei suoi ultimi giorni di servizio. Anche richiesta da tempo dai cappellani dell’Ipm don Claudio Burgio e don Gino Rigoldi. Il protocollo è stato firmato da Procura, Diocesi, Centro di giustizia minorile, direzione del Beccaria. Un’intesa ampia, che non ha però evitato le polemiche. Riccardo De Corato, deputato di Fratelli d’Italia, ha attaccato duramente: “Decisione incredibile. Così si pensa di recuperare i “maranza”? Aggraverà la situazione e porterà ulteriori problemi alle povere guardie carcerarie. Presenterò interrogazione al ministro Carlo Nordio”. Intanto, quando c’è bisogno, chiedendo autorizzazione al magistrato di Sorveglianza, Abdullah supporta i giovani adulti a San Vittore. “Una volta un ragazzo, pronto a uscire in articolo 21, ha rifiutato un lavoro perché doveva maneggiare carne di maiale. Era educato, lucido, pronto. Ma bloccato da un cortocircuito tra identità e necessità. L’educatore non capiva. Non sono intervenuto per dargli un permesso, ma per aiutarlo a leggere quel nodo. A trovare un equilibrio tra fede e realtà. Alla fine ha accettato. E ha lavorato bene”. È già una parabola: la religione come energia che orienta, non come limite che divide. Poi aggiunge: “Spero che un giorno questo ruolo non serva più. Vorrebbe dire che nessuno, entrando in carcere, si sente perso”. Bologna. Come sta procedendo la sezione per i giovani adulti alla Dozza? bolognatoday.it, 8 luglio 2025 “Meglio”, dice l’assessora al Welfare Matilde Madrid, mentre al Pratello “la situazione è più grave”. Dallo scorso marzo diversi uomini sotto i 25 anni sono stati trasferiti al carcere della Dozza dai penitenziari minorili dove erano rinchiusi. Di norma, fino al compimento dei 25 anni, un detenuto dovrebbe rimanere all’interno del sistema penitenziario minorile. A febbraio, invece, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato un provvedimento per lo spostamento di alcune decine di detenuti nel carcere bolognese. Un penitenziario già gravato da seri problemi, su tutti quello del sovraffollamento. I primi mesi per i giovani adulti all’interno della Dozza sono stati drammatici. C’è stato almeno un tentativo di suicidio e un altro giovane detenuto si è cucito la bocca con ago e filo in segno di protesta. Al momento i detenuti all’interno di questa sezione sono una trentina. Per Matilde Madrid, assessora al Welfare del Comune di Bologna, le cose stanno andando un po’ meglio. “Rispetto alle difficoltà iniziali riscontrate, alcune attività trattamentali ed educative sono partite nella sezione giovani adulti della Dozza”. Sono partiti “laboratori didattici, un po’ di teatro, un corso di edilizia. E partirà a breve un corso di barberia, perché lì c’è anche una piccola saletta da barbiere. La Uisp dal lunedì al venerdì va a fare la parte sportiva nel tempo che trascorrono all’aperto”. Però, scrive la Dire riportando le parole dell’assessora che ha parlato in question time, “abbiamo una grandissima preoccupazione per il mese di agosto e per i fine settimana perché, come sempre, sono fasi più difficili da coprire con attività per i ragazzi”. “Questa attenzione giustissima, che manterremo altissima, sulla sezione giovani adulti alla Dozza - continua l’assessora - non ci deve far perdere di vista il Pratello che invece, dal punto di vista delle attività, è in una condizione più grave della sezione giovani adulti alla Dozza”. Su questo è “importante che tutte e tutti ci impegniamo”. Per quanto concerne le sezioni per adulti alla Dozza, invece, Madrid ha raccolto l’allarme lanciato da Roberto Cavalieri, garante dei detenuti della Regione Emilia-Romagna sulla mancanza di psicologi a disposizione dei detenuti. Un potenziamento in organico per l’assessora comunale è “assolutamente necessario”. Per l’Ausl, ad oggi, sono “operativi quattro psicologi, di cui due sono dei servizi di salute mentale e due dei servizi dipendenze patologiche. Poi l’amministrazione penitenziaria - riporta Madrid - in realtà si avvale di professionisti psicologi, dei servizi sociali, pedagogisti, di psichiatria e criminologia clinica per attività di osservazione. E poi c’è un’altra figura professionale analoga che è dedicata, all’interno della Dozza, alla sezione minorile aperta marzo”. Questo a fronte dei “numeri esorbitanti della Casa circondariale”, che ad oggi conta circa 780 detenuti su una capienza massima di 456 persone. Firenze. A spasso con Fatima, speranza oltre le sbarre di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 8 luglio 2025 La presidente di “Pantagruel” accudisce i detenuti di Sollicciano in permesso. Fatima Ben Hijji, origini marocchine, è la salvezza per molti detenuti del carcere di Sollicciano, uno dei penitenziari più problematici d’Italia: l’ultimo decesso è di pochi giorni fa. Non solo entra in carcere ogni settimana per parlare coi reclusi, dare loro una speranza per continuare a vivere, scongiurare gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi. Il suo volontariato estremo è un altro, e consiste nel fare compagnia ai reclusi che, per la prima volta dopo molti anni, escono per un permesso premio. Non è un’uscita normale, perché questi detenuti rivedono la libertà dopo mesi e mesi in cella. E soprattutto, perché il permesso premio dura dodici ore. E lei, Fatima, per dodici ore resta insieme a ciascuno di loro, rinunciando al lavoro come cameriera al ristorante, alla famiglia, ai figli. Dodici ore sono tante, a volte non passano mai. Dalle 8 fino alle 20, più volte nello stesso mese. “E vero, sono tante ore - dice Fatima - ma l’emozione che provo mentre tengo compagnia ai ragazzi che escono di galera sono uniche”. Questi ragazzi, in molti casi maghrebini, non hanno nessuno fuori che li aspetta. I loro familiari e i loro amici sono in patria, e se non trovassero la compagnia di Fatima, vagherebbero da soli in città, con l’alto rischio di ricadere in atti delinquenziali. E invece, grazie a Fatima, da poco diventata presidente dell’associazione Pantagruel, che li prende per mano, che li ascolta e li protegge, riassaporano la libertà e la vita fuori dalle sbarre. La giornata inizia al cancello di Sollicciano, dove i reclusi escono in autonomia e mettono piede, per la prima volta dopo anni, all’esterno. Poi vanno al Centro Samaritano della Caritas, dove avvengono colloqui di lavoro per organizzare la vita quando usciranno dal carcere. “È un aspetto fondamentale - racconta Fatima - perché il rischio recidiva è molto alto per questi ragazzi. Mi raccontano quasi tutti che in carcere non c’è lavoro e non ci sono corsi di formazione professionali, e quindi escono con l’anima persa, non sanno cosa fare, non sanno dove andare”. Dopo il Centro Samaritano, direzione centro storico di Firenze. “Molti di loro non hanno mai visto la città, li porto al Duomo, su Ponte Vecchio, in piazza Signoria, loro si emozionano”. Poi gli acquisti di vestiti in qualche negozio: “A volte possiedono soltanto un paio di pantaloni, una felpa e un paio di scarpe. Entrare in un negozio e comprare qualcosa è un’emozione indescrivibile”. Succedono cose inaspettate, quando i detenuti escono di galera dopo anni: “Un ragazzo una volta è entrato in un bar per un caffè e ha iniziato a tremare di gioia” racconta Fatima. Oppure sedersi al ristorante: “Ritrovano il piacere di mangiare, la speranza nella vita”. O magari una visita al Piazzale Michelangelo, collina che domina la città: “Un ragazzo ha iniziato a correre urlando e respirando una libertà ritrovata. Quando escono si rendono conto che non c’è niente di più prezioso della libertà”. Le telefonate Quando sono fuori, possono telefonare a casa per un tempo illimitato. “Presto loro il mio cellulare per chiamare i propri genitori, quando li vedono sullo schermo a volte si mettono a piangere”. E Fatima è sempre lì, sempre al loro fianco, per tentare di farli rinascere: “E vero che perdo una giornata di lavoro e di famiglia, ma io con loro sto benissimo, hanno una felicità negli occhi difficile da descrivere, alla fine della giornata sono stanca ma anch’io sono altrettanto felice”. Monza. Incubo caldo in carcere, presidio all’Arengario di Stefania Totaro Il Giorno, 8 luglio 2025 “R-Estate in cella: il tema caldo del carcere”. Per denunciare l’insostenibile situazione delle carceri italiane, in particolare di quelle della Lombardia, gli avvocati delle Camere penali del Distretto di Corte di Appello di Milano-Lombardia Occidentale (Camere penali di Busto Arsizio, Como-Lecco, Milano, Monza, Pavia, Sondrio, Varese) hanno organizzato per la mattina del 17 luglio a partire dalle 10 una manifestazione sotto i portici dell’Arengario di Monza. “In un contesto segnato da gravi condizioni di sovraffollamento, carenze strutturali e di personale, l’evento rappresenta un’occasione per accendere i riflettori su una realtà drammatica e trascurata - spiega il presidente della Camera penale di Monza, l’avvocato Marco Negrini. La mattinata si svilupperà attraverso testimonianze, interventi e momenti di confronto finalizzati a promuovere consapevolezza e responsabilità. Il microfono sarà a disposizione del mondo delle istituzioni e dell’avvocatura ma anche di tutti i cittadini che vorranno portare un contributo di pensiero. Un invito a guardare oltre i muri per riconoscere dignità e diritti a chi vive condizioni di estrema fragilità”. L’iniziativa degli avvocati penalisti, che darà luce anche sulle analoghe critiche condizioni della casa circondariale di via Sanquirico a Monza, ha avuto il patrocinio del Comune di Monza. Firenze. Carcere e inclusione sociale, convegno nella sede della Regione dal 9 all’11 luglio firenzedintorni.it, 8 luglio 2025 Un confronto a 360 gradi sui temi del carcere, esecuzione penale e giustizia con tutte le questioni che vi sono correlate: questo il programma del convegno ospitato a Firenze, a Palazzo Strozzi Sacrati, sede della Regione, dal 9 all’11 luglio. Tre giorni di interventi, dibattiti, testimonianze che culmineranno nella lectio magistralis di Margherita Cassano, prima presidente della Corte di cassazione, in programma venerdì prossimo. ‘Carcere, inclusione, sociale, comunità: il sistema delle politiche regionali per la giustizia penale in Toscana’, questo il titolo dell’iniziativa organizzata dalla Regione insieme a Anci Toscana. Nella prima giornata verrà declinato il tema della giustizia, con sessioni specifiche dedicate a quella di comunità e a quella riparativa, di cui si discuterà a partire dal volume ‘Oltre la vendetta’ di Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze e del giornalista Edoardo Vigna. I lavori del 10 luglio saranno invece dedicati al tema dell’inclusione sociale e dei diritti, con un focus sulle condizioni di vita all’interno del carcere, uno sui diritti della persona detenuta e sulle misure alternative, e uno specifico sulla costruzione del sistema di inclusione sociale. Nelle varie sessioni si alterneranno figure istituzionali, rappresentanti di associazioni, esperti, organizzazioni sindacali, testimoni di progetti connessi alle tematiche trattate. L’11 poi, dopo i saluti del presidente della Regione Eugenio Giani e dell’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli, ci sarà la lectio magistralis di Margherita Cassano dal titolo ‘Giustizia, comunità, istituzioni territoriali, un dialogo aperto’. “Le questioni legate ai percorsi detentivi e di esecuzione penale esterna sono il banco di prova più delicato e importante di tutte le nostre azioni di inclusione sociale - afferma Spinelli -, questo convegno è per noi un appuntamento centrale perché ci permetterà di ascoltare tante voci qualificate, e quindi di verificare e laddove possibile rafforzare le politiche adottate sin qui su questa materia. Un appuntamento ancora più significativo alla luce di quanto sta avvenendo nelle carceri, anche toscane, con il sovraffollamento, la carenza di organico, l’inadeguatezza delle strutture e con l’aumento dei suicidi, un’emergenza sottolineata anche in un recente intervento del presidente Mattarella. I fatti di cronaca - conclude - sono ciò che rende visibili problemi che sappiamo esistere nel quotidiano delle carceri, che ci hanno orientato a lavorare per un rafforzamento del coordinamento e della collaborazione tra tutte le istituzioni coinvolte, il terzo settore, le professioni”. Sassari. A che punto è il diritto allo studio in carcere nel sassarese sassaritoday.it, 8 luglio 2025 Venerdì 4 luglio 2025 a Sassari presso la sede dell’Ersu si è tenuto un incontro tra il Presidente dell’Ersu di Sassari Daniele Maoddi, delegato nazionale Andisu per l’Inclusione, e la Garante Regionale per i detenuti Irene Testa. La riunione è servita per fare il punto sullo stato del diritto allo studio negli istituti penitenziari sardi e per rafforzare la collaborazione tra istituzioni anche attraverso iniziative e progetti comuni. I motivi dell’incontro - “Rientra tra i compiti di Ersu, secondo il dettato della legge regionale 37/1987 e in armonia con gli articoli 3, 33 e 24 della nostra Costituzione - ricorda il Presidente di Ersu Sassari Daniele Maoddi promuovere l’accesso e facilitare la frequenza dai corsi di istruzione superiore, a tutti e sottolineo a tutti, gli studenti capaci e meritevoli, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il raggiungimento dei più alti gradi dell’istruzione” Ed è proprio in questo contesto che si inquadra l’incontro con la Garante Irene Testa. “Un incontro molto positivo - per la Garante Irene Testa che sottolinea - l’importanza della cooperazione tra istituzioni in un campo così delicato come quello carcerario dove il diritto allo studio costituisce una delle principali leve finalizzare alla rieducazione e al reinserimento nella società della persona in regime di detenzione”. L’università nelle carceri - L’Ersu Sassari dal marzo 2024 è diventato partner del Polo Penitenziario Universitario di Sassari, rafforzando il proprio impegno e contribuendo al progetto in maniera importante attraverso uno stanziamento per l’acquisto del materiale didattico, la messa di disposizione di due alloggi universitari per gli studenti in esecuzione penale esterna con concessione dell’alloggio fino al termine dell’esecuzione della misura e sanzione di comunità e la fruizione per gli stessi di 280 pasti gratuiti annui, la nomina di un funzionario amministrativo che sia referente unico di Ersu per il polo Penitenziario e che si occupa di rispondere alle istanze dei singoli studenti al fine di assicurare il supporto agli studenti afferenti al Polo Penitenziario Universitario per la compilazione delle domande per accedere alle graduatorie utili alla fruizione delle borse di studio e dei servizi Ersu. “È fondamentale estendere il campo di applicazione del diritto allo studio arrivando alle fasce più deboli e bisognose di attenzione - commenta il Presidente Maoddi - come Ersu Sassari, cogliendo anche l’occasione del nuovo impegno in Andisu (l’Associazione nazionale degli Organismi per il Diritto allo Studio) e della delega nazionale all’inclusione, intendiamo fare la nostra parte ed impegnarci al massimo sul fronte del diritto all’istruzione nelle carceri. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Carcere, quando padri e figli s’incontrano in un “Altrove” gnewsonline.it, 8 luglio 2025 Una sala colloqui, che si è riempita di colori, giochi, musica e risate. Le ultime le portano i bambini che là dentro arrivano per incontrare i papà detenuti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. E ancora, pareti con Lego da costruire, lavagne su cui disegnare, scaffali per album colorati e fiabe, una tv per guardare i film tutti assieme, musica e persino fornetti per preparare biscotti. Insomma qualcosa che si avvicina molto a una dimensione domestica che consente di ricucire i rapporti tra genitori e figli e mitigare il trauma che le famiglie, ma soprattutto i più piccoli, vivono quando devono affrontare il carcere. Questo è il cuore di ‘Altrove - Non è la mia pena’, il progetto avviato nell’istituto campano, grazie all’associazione di volontariato ‘Officine Periferiche’ e con il sostegno dell’impresa sociale ‘Con i bambini’ e vari partner attivi sul territorio. Ma non di sola ricreazione sono fatti questi incontri, perché il tempo viene dedicato anche all’apprendimento: i bimbi (ri)scoprono il piacere di fare i compiti con i propri genitori, mentre pannelli montessoriani, realizzati da ex allievi dell’Accademia di Belle Arti, propongono strumenti musicali da suonare assieme o materiali sensoriali da toccare e conoscere con le mani. L’organizzazione degli incontri prevede che coloro che aderiscono al progetto abbiano diritto non più a un’ora sola di colloquio ma possano trascorrere tre ore nella sala con la propria famiglia, dove anche la condivisione dello spazio è curata: cinque i nuclei familiari che possono occupare in concomitanza la sala e che si riferiscono a detenuti provenienti tutti dalla stessa sezione, garantendo così la conoscenza fra le persone. Il progetto ‘Altrove’, che durerà 3 anni, non si esaurisce tra le mura del carcere, perché raggiunge anche chi è uscito dal circuito penitenziario o persone in misura alternativa alla detenzione o in messa alla prova. E non riguarda solo i detenuti e i propri bambini, perché si rivolge anche al personale di Polizia Penitenziaria che potrà riflettere sul proprio ruolo e quanto questo possa incidere sulla vita dei genitori detenuti, sviluppando competenze specifiche per accogliere i bambini in carcere e tutelare la genitorialità. E infine, percorsi di psicoterapia familiare, che prende in carico l’intero nucleo familiare, analizzando l’esperienza traumatica del carcere, e in taluni casi, non infrequenti, aiutando i padri a raccontare la verità. Ci sono infatti bambini che non sono mai andati a far visita ai propri padri in carcere perché non erano neanche a conoscenza della verità sulla sorte dei loro genitori. Catania. Detenuto si diploma con 100. Ha scelto il tema su Borsellino di Rosa Maria Di Natale La Repubblica, 8 luglio 2025 “Mi ha insegnato a riflettere”. È recluso nel carcere di Bicocca a Catania, uscirà a ottobre. La presidente della commissione: “Ha capito che tutto era iniziato il giorno in cui ha lasciato la scuola”. Ha scelto la traccia su Paolo Borsellino, l’ha intitolata “Io e la mia legalità” e ha raccontato, senza filtri, il suo passato criminale, la povertà da cui tutto è iniziato e la svolta arrivata in carcere. Ieri un detenuto di 36 anni del carcere di massima sicurezza di Bicocca (Catania), condannato nel 2018 a oltre nove anni per associazione mafiosa, traffico di droga, armi e rapine, ha ottenuto 100 su 100 alla maturità. Diplomato all’alberghiero Karol Wojtyla, è stato l’unico frequentante del suo corso. Tra i pochi a credere nella scuola dietro le sbarre. E uno dei pochissimi a portare a termine l’intero ciclo. Se tutto andrà come previsto, uscirà a ottobre. “Ha messo a nudo il suo cuore e la sua vita”, racconta Palmina Consoli, presidente della commissione. “Ha raccontato gli inizi difficili, l’abbandono scolastico a 14 anni per lavorare nei campi, la fatica, i guadagni nulli. Ha scritto che sapeva di dare un dispiacere a sua madre lasciando la scuola, ma voleva contribuire”. Poi la svolta, nella direzione sbagliata: “Nel testo ha scritto chiaramente che a un certo punto ha pensato che nella legalità non si guadagnasse abbastanza; così ha iniziato a frequentare altre persone che parlavano solo di soldi. Ha fatto i primi furti. E da lì è cominciata la sua carriera”. Finché, nel 2018, è coinvolto in un’operazione della Direzione distrettuale antimafia che smantella il clan Santangelo di Adrano, alleato dei Santapaola. Da quel momento, inizia un altro tipo di percorso. In carcere, attraverso la scuola e gli educatori, avviene la trasformazione. “Ha raccontato che grazie agli insegnanti, alle storie di Falcone e Borsellino, alle sue due figlie, ha cominciato a riflettere. Ha capito che tutto era iniziato il giorno in cui aveva lasciato la scuola. Ha voluto fortemente questo diploma”, spiega ancora Consoli. Sorprendente anche la scelta del tema, considerato il contesto. “Scrive che non immaginava di poter essere d’accordo con le parole di Borsellino. In carcere, anche solo nominare lui o Falcone è ancora un tabù. Durante l’orale ha dimostrato una preparazione solida. Ha parlato bene, ha risposto in modo approfondito in tutte le discipline. Era emozionatissimo, sudava, ma ha fatto un esame magnifico”. Alle sue spalle, a sostenerlo, c’erano tutti i docenti che lo hanno accompagnato in questi due anni. Tra loro anche Alessandra La Torre, responsabile di plesso: “Era l’unico iscritto frequentante del quarto e del quinto, ha fatto due anni con noi. Lezioni frontali ma si parlava anche di vita, di scelte, di famiglia”. La Torre racconta un uomo che oggi teme più di ogni altra cosa il ritorno al contesto d’origine. “Il rischio di ricadere, appena fuori, è concreto. Lo dicono tutti, ed è vero. Ma lui è concentrato sulla famiglia, sulla moglie con cui ha recuperato i rapporti, sulle figlie a cui vuole essere di esempio”. E aggiunge: “Gli dico sempre: abbia la mia faccia davanti agli occhi. Così saprà se la scelta che sta per fare è quella giusta, o se sto per diventare una prof delusa”. Ironia della sorte, proprio quest’anno, l’offerta formativa dell’alberghiero a Bicocca è stata significativamente ridotta. Non sono il mio reato: la scrittura in carcere di Elisa Garatti lavocedelpopolo.it, 8 luglio 2025 “Non sono il mio reato”: la scrittura in carcere ridà voce alla speranza. Le parole del Presidente Sergio Mattarella sul carcere diventano occasione di riflessione. La Società di San Vincenzo De Paoli propone il Premio letterario Carlo Castelli e un convegno con Gherardo Colombo. “Lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività e alla progettualità del trattamento”. Sono parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, pronunciate durante un incontro istituzionale con i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. Parole che risuonano con forza nell’attività quotidiana della Federazione Nazionale Italiana Società di San Vincenzo De Paoli ODV, che da anni affianca detenuti e famiglie nel difficile cammino del riscatto umano e sociale. “Ancora una volta il monito del Presidente Mattarella sulle condizioni dei detenuti in carcere ci stimola a continuare nel nostro servizio di volontari della Società di San Vincenzo De Paoli”, commenta Antonella Caldart, Responsabile nazionale del Settore Carcere e Devianza, che aggiunge: “essere portatori di speranza, lavorando con e per i ristretti, affiancandoli, laddove possibile, nel loro cammino verso la consapevolezza che, se errare è umano, ripensare le proprie azioni può davvero aiutare a dare un senso nuovo alla propria vita, dentro e, un domani, fuori dai luoghi di detenzione”. Una delle espressioni più alte di questo impegno è il Premio Carlo Castelli, concorso letterario nazionale giunto alla sua XVIII edizione, rivolto a tutti i detenuti degli istituti penitenziari italiani, compresi quelli minorili. Il tema scelto per l’edizione 2025 è chiaro, diretto e carico di significato “Mi specchio e (non) mi riconosco: non sono e non sarò il mio reato”. Un invito a guardarsi dentro senza più confondersi con il proprio errore. Perché dietro ogni reato c’è una persona. E ogni persona può cambiare. Attraverso racconti, poesie, autobiografie e opere multimediali, i partecipanti sono chiamati a compiere un viaggio interiore tra coscienza, miglioramento e umanità. Il linguaggio? Quello potente della scrittura, capace di rompere le sbarre dell’indifferenza e accendere scintille di speranza. La premiazione si svolgerà venerdì 10 ottobre 2025 dalle ore 14.30 presso la Casa Circondariale “Nerio Fischione” di Canton Mombello via Spalto San Marco 20, Brescia. Il Premio Carlo Castelli non è solo un concorso letterario: è un gesto concreto di speranza. I primi tre classificati - due adulti e un minore - ricevono un riconoscimento doppio: una parte in denaro destinata a loro personalmente e un’altra parte che diventa opportunità per qualcun altro, finanziando un progetto di reinserimento. Tre premi, tre percorsi di rinascita: uno in un Istituto penitenziario per adulti, uno attraverso l’Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE) e uno in un Istituto penale minorile. In questo modo, il premio diventa un mezzo per investire in un futuro condiviso, evidenziando l’importanza del sostegno reciproco anche in situazioni difficili come quelle carcerarie. Inoltre, i testi vincitori insieme ai primi dieci segnalati come meritevoli dalla Giuria, verranno pubblicati in un’antologia distribuita in tutta Italia e allegata alla rivista “Le Conferenze di Ozanam”, con una tiratura di oltre 13.600 copie. Il Premio è intitolato alla memoria di Carlo Castelli, storico volontario vincenziano e promotore della Legge Gozzini. Il suo impegno per una giustizia più umana rivive oggi in questo progetto che unisce cultura, dignità e reintegrazione. In abbinamento al Premio, sabato 11 ottobre 2025, a partire dalle ore 9.30, il Teatro Sant’Afra di Brescia ospiterà un convegno di alto profilo, aperto al pubblico, che vedrà la partecipazione di relatori quali: Gherardo Colombo, già magistrato, giurista e scrittore; don Gino Rigoldi, già cappellano dell’Istituto Penale Cesare Beccaria di Milano; Carlo Alberto Romano, Prorettore per l’Impegno Sociale per il Territorio - Università degli Studi di Brescia; Luisa Ravagnani, docente di Criminologia penitenziaria e Giustizia riparativa - Università degli Studi di Brescia; Mauro Ricca, Garante dei Diritti dell’Infanzia e Adolescenza per il Comune di Brescia. Sarà un momento di confronto aperto, che ospiterà anche una tavola rotonda, per ragionare insieme sul senso della pena, sul ruolo della comunità e sulle possibilità di cambiamento. Perché la giustizia, quando è davvero tale, è sempre anche rigenerazione. L’iniziativa nelle passate edizioni ha ottenuto il patrocinio della Camera dei Deputati, del Senato della Repubblica e del Ministero della Giustizia, ed è stata insignita della Medaglia del Presidente della Repubblica. Tra i media partner, il Pontificio Dicastero per la Comunicazione, TV2000, Radio InBlu e l’UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana). Riconoscimenti che sono attesi anche per la XVIII Edizione. L’impegno della Società di San Vincenzo De Paoli però non si ferma alle mura del carcere. Con il progetto “ScegliAmo Bene - Giornata per la legalità e per una comunità responsabile”, l’associazione entra nelle scuole italiane per promuovere una cultura della legalità, del rispetto e della scelta consapevole. Attraverso incontri, dibattiti e laboratori, il progetto accompagna i giovani nella costruzione della propria identità civica, stimolandoli a riflettere sull’impatto delle proprie azioni e sull’importanza del bene comune. In un’epoca segnata da frammentazione e perdita di punti di riferimento, questo doppio impegno - nelle carceri e tra i banchi di scuola - rappresenta un seme di speranza. Perché nessuno è mai solo il proprio errore. E ogni storia, se trova ascolto, può riscriversi. Quando la lettura aiuta a vivere di Dacia Maraini Corriere della Sera, 8 luglio 2025 Nel carcere di Sulmona per esempio da anni i carcerati leggono i libri in palio del Premio Croce, li discutono collegialmente e per chi è costretto all’inattività risulta un sollievo che aiuta a sopravvivere in situazioni di gravissimo disagio. Molti si chiedono perché in Italia spuntino ogni anno tanti premi, come funghi in un terreno fertile. Io credo che la risposta stia nel fatto che gli italiani leggono poco, sempre meno e i premi hanno il compito di invogliare alla lettura. In effetti, il momento aggregativo, la conoscenza dell’autore, la spiegazione del libro, spesso invogliano il lettore distratto. Quindi evviva i premi! Il premio Croce della cui giuria faccio parte e che si svolge nella piccola città di Pescasseroli dove è nato Benedetto Croce, è particolarmente attento ai grandi temi che entrano nelle vite di tutti i giorni. Gli organizzatori, tra le quali le professoresse che curano i gruppi di lettura, stanno facendo di tutto per coinvolgere gli studenti e i detenuti come lettori giudicanti. Ogni anno le scuole interessate aumentano di numero. A oggi sono già 40. E i gruppi di lettura fra carcerati e altre organizzazioni letterarie arrivano a 60. Ma a proposito di carcerati debbo dire che la situazione che veniamo a conoscere è gravissima, fatta di condizioni insostenibili: l’inattività forzata, la concentrazione degli spazi, la mancanza di aria e di attività necessarie al corpo per sentirsi vivo portano molti alla malattia. Alcuni proprio non reggono e si suicidano come ci raccontano le cronache. Con commozione devo dire che a volte i libri sembrano aiutare queste povere persone ma soprattutto aiuta il fatto di essere ascoltati, di essere presi sul serio, di essere considerati come corpi pensanti, capaci di emozioni anziché solo colpevoli da punire. Nel carcere di Sulmona per esempio da anni i carcerati leggono i libri in palio del premio Croce, li discutono collegialmente e per chi è costretto all’inattività risulta un sollievo che aiuta a sopravvivere in situazioni di gravissimo disagio. Così sta succedendo nelle carceri di Castrogno di Teramo e San Donato di Pescara. E sono proprio le organizzazioni che lavorano nelle prigioni a chiedere di partecipare al premio. Prova che la cultura ha una funzione sempre vitalizzante. La lettura fa circolare un pensiero che tende ad arrotolarsi su se stesso e morire asfissiato. I racconti, le trame, i personaggi da seguire creano confronti e rapporti sul piano delle idee e delle emozioni e non solo dei bisogni fisici. “Vite minori”, il libro di Raffaella Di Rosa che raccoglie testimonianze all’interno degli Ipm di Teresa Olivieri Italia Oggi, 8 luglio 2025 Un libro raccoglie voci e testimonianze: educatori, agenti, preti, magistrati, infermieri. Non riguarda più solo le carceri per adulti: anche gli Istituti penali per minorenni stanno affrontando il problema del sovraffollamento. L’introduzione del Decreto Caivano - che ha ampliato i casi in cui è possibile applicare la custodia cautelare ai minori e limitato l’uso di misure alternative - ha inciso pesantemente sul numero dei ragazzi reclusi, spesso adolescenti fragili e privi di riferimenti e di prospettive. Sono 17 gli Istituti penali minorili attivi in Italia. In molti, la soglia di capienza è stata superata nel corso dell’ultimo anno. Aumentano così le tensioni, le proteste, i tentativi di evasione e gli atti di autolesionismo. Ma rispetto agli istituti per adulti, emerge un dato in controtendenza: nei penitenziari minorili non si registrano suicidi. Uno solo, negli ultimi anni, è stato accertato. Quello di Loka Moktar Youssef Baron. Aveva compiuto 18 anni quando si è tolto la vita dandosi fuoco nel carcere di San Vittore. Una perizia psichiatrica aveva già riconosciuto il suo grave disagio mentale. Eppure Youssef era stato comunque recluso, senza tutela. La storia di Youssef - La sua storia ha ispirato “Vite minori”, il libro della giornalista Raffaella Di Rosa, che raccoglie voci e testimonianze all’interno degli IPM: educatori, agenti, preti, magistrati, infermieri. Uno sguardo dall’interno su un mondo dove spesso si resta invisibili. Isolamento e violenze nel Beccaria - Tutto comincia a Milano, nel giugno 2023. Il ragazzo egiziano ruba un telefono a una passante per chiamare sua madre. Dopo pochi minuti, lo restituisce. Ma la donna, impaurita, aveva già allertato la polizia. Viene arrestato e portato nel carcere minorile Beccaria. Aveva appena compiuto 17 anni. Lì trascorre quattro mesi segnati da isolamento e violenze. I suoi coetanei lo vessano, gli bruciano i piedi con l’accendino, lo picchiano. Era considerato “debole”. “Quello che colpisce è che molti di questi ragazzi non riescono nemmeno a immaginare un futuro,” racconta Di Rosa. Quasi tutti provengono da famiglie in condizioni economiche estremamente precarie. “L’unico sogno che hanno è avere soldi,” aggiunge. La povertà si traduce in emarginazione. E in questi casi in impossibilità di accedere a una difesa legale adeguata. Una doppia condanna: alla reclusione e all’assenza di diritti. Il ruolo della povertà - Sebbene manchino dati ufficiali sulla povertà nelle carceri minorili, è evidente il legame tra disagio economico, criminalità giovanile e detenzione. Lo confermano anche i numeri dell’Istituto penale per i minorenni di Catanzaro, dove oggi sono reclusi solo tre ragazzi calabresi, la maggior parte stranieri. “I figli delle famiglie mafiose? Sono all’estero, liberi,” afferma Francesco Pellegrino, direttore dell’istituto da oltre vent’anni. Il ruolo cruciale degli educatori - Esiste però un margine di speranza in questi istituti. Sono gli educatori penitenziari che svolgono un ruolo cruciale nel percorso di rieducazione. I funzionari giuridico-pedagogici seguono i minori con attenzione, cercando di costruire relazioni di fiducia e percorsi personalizzati. Si occupano di attività scolastiche, formative, culturali e sportive, e rappresentano per molti ragazzi il primo vero punto di riferimento adulto. Con risorse spesso limitate, riescono a portare umanità e ascolto in un contesto dove tutto parla di esclusione. L’etica ha un costo quantificabile e produce valore di Alessandro Arrighi Il Sole 24 Ore, 8 luglio 2025 La certificazione dell’etica è ormai un tema fondamentale in tutto il mondo ed essere in grado di soddisfare precisi standard, misurabili e documentabili, diventa indispensabile per la A competizione globale. Come tutti i mezzi di produzione, anche l’etica ha un costo, che deve essere quantificabile ex ante e deve essere in grado di produrre valore. Se, infatti, la qualità etica dell’imprenditore, in quanto Uomo, prescinde dagli aspetti misurabili e speculativi, da un punto di vista aziendale deve essere interpretata alla stregua di una competenza aziendale. In questa accezione, certamente, il concetto di eticità non può essere banalizzato nel mero rispetto della legge. Il rating etico dovrebbe, prima di tutto, dare atto del rispetto della legge da parte di una società. Ma il mero rispetto delle previsioni normative, non può certamente essere l’unico pilastro. Esistono già alcune figure per certificare che il comportamento di un imprenditore sia conforme alle norme, basti pensare alle white list, tenute presso le prefetture, a cui le imprese, che operano in particolari settori, devono iscriversi per potere operare o altri strumenti di certificazione dell’onorabilità e dei procedimenti in corso. L’utilizzo di questi strumenti, necessario, nell’ottica di una tempestiva valutazione, rischia di creare vere distorsioni del sistema, considerato il fatto, che, in uno stato di diritto, fino alla sentenza passata ingiudicato, a rigore, non si dovrebbe mai considerare nessuno colpevole, e soprattutto mai un imprenditore, al fine di non comminare, senza ragione, una pena, quella della perdita di valore dell’impresa, che rischierebbe di danneggiare non solo chi è sottoposto, ma anche tutti i gli shareholder e gli stakeholder. Per superare la complessità occorre, probabilmente, essere disposti ad accettare una maggiore complessità delle procedure e degli strumenti utilizzati. In particolare, sarebbe necessaria una regolamentazione premiale, per la quale: O dovrebbero essere presi in considerazione tutti gli elementi sopra indicati e quindi non solo quelli legati ai reati più gravi, ma, in misura diversa e meno rilevante, anche quelli riferiti a imposte non pagate o comunque ad altre violazioni civili che, per quanto non siano reati, possono di fatto dimostrare la differenza tra un imprenditore più o meno corretto o corrotto; e i singoli elementi sopra indicati dovrebbero trovare una applicazione congiunta, stabilendo punteggi diversi a seconda non solo delle differenti ipotesi di reato, ma anche dello stato dell’eventuale procedimento essendo molto diverso il fatto che vi sia un giudizio pendente in primo grado o una doppia conforme in attesa della cassazione ed essendo in ogni caso, ancora più diverso il fatto che tale doppia conforme sia di innocenza o colpevolezza. La diversa eticità tra gli imprenditori che operano sul mercato, in ogni caso, dovrebbe essere ordinata, non solo sulla base del rispetto di requisiti in ordine alla estraneità da procedimenti penali, ma anche sulla base di una serie di indici e indicatori diversi per settore merceologico, che potrebbero certificare la correttezza degli imprenditori, valutando mediante una serie di indicatori, la capacità di distribuire benessere ai lavoratori, non solo e non tanto in funzione delle retribuzioni distribuite ma soprattutto delle misure di sicurezza sul lavoro ulteriori al minimo previsto dalla legge o del welfare offerto. Dovrebbe altresì essere valutata la puntualità nel pagamento delle proprie obbligazioni, la produzione di esternalità positive, eventuali elementi esposti nel bilancio sociale, come per esempio la produzione certificata di Esg, il rispetto di procedure cli qualità certificate, che possano valutare le risorse impiegate e l’integrità delle relazioni commerciali e verso gli stakeholder in generale. Perché un sistema così complesso funzioni e diventi uno strumento di sviluppo, però, è necessario superare l’utilizzo esclusivamente punitivo e fare in modo che ad alti rating etici si possano connettere strumenti premiali, quali agevolazioni fiscali, garanzia del credito, preferibilità, ceteris paribus nell’assegnazione degli appalti pubblici o comunque riduzione degli adempimenti burocratici, persino l’accesso a procedure concorsuali semplificate e magari a strumenti riparativi depenalizzanti, per l’imprenditore che dopo anni di comportamenti corretti certificati da alti rating, si trovi ad affrontare una crisi di impresa o uno stato di insolvenza, anche per colpa grave, ma senza un dolo predatorio. Un sistema etico è un sistema che crea benessere e fiducia per tutta la collettività e preserva il valore comune. Ma è necessaria una collaborazione continua: da un lato, tra istituzioni esecutive, enti giudiziari e istituti pubblici territoriali, in ottica di sussidiarietà orizzontale, e dall’altro lato, associazioni datoriali, professionali e sindacali. I rappresentanti degli uni e degli altri dovrebbero collaborare in modo sistematico, per attualizzare i meccanismi di assegnazione dei punteggi e indicare a chi governai possibili elementi premiali per chi investe nella correttezza della propria impresa, in modo che la comunità tutta, non debba sostenere il peso dei comportamenti eticamente scorretti. Fine vita col codice Rocco di Andrea Pugiotto L’Unità, 8 luglio 2025 Si riesamina l’art. 579 del codice penale, fermo al Codice Rocco: un’ottima occasione per uscire dalla logica ideologica dell’”Io non voglio, dunque nessuno può” che ora prevale. Non altrove, ma in Italia le scelte di “fine vita” sono schiacciate tra due reati: l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). La relazione del Guardasigilli dell’epoca (1929, VIII dell’era fascista) ne spiega la ratio: conservare “l’esistenza fisica della persona” quale “prevalente interesse sociale” di un regime la cui forza dipendeva, in primis, dalla demografia. Su questo tronco è intervenuta la Consulta con alcuni intarsi giurisprudenziali ispirati alla tutela della vita umana, condizione essenziale per l’esercizio di ogni altro diritto costituzionale. Da qui, il dovere pubblico di assicurarla attraverso la legge: siano pure due reati del codice Rocco, riletti ora in chiave di protezione dei soggetti più fragili e vulnerabili a possibili pressioni, dirette o indirette, che inducano a scelte irreparabili. L’art. 579 c.p. trasforma il diritto alla vita nel dovere di viverla, fino alla fine, in condizioni contrarie alla dignità e alla volontà del malato. 1.Oggi, a Palazzo della Consulta, si torna a discutere di “fine vita”, non di “morte”. È improprio, infatti, sovrapporre i due temi. La “morte” è un evento che segna la fine della vita, sigillando l’esperienza umana o - per il credente - avviando il grande trasloco in un altrove. Il “fine vita”, invece, è un processo che si svolge all’interno della vita, durante il quale il soggetto ha ancora voce sulla propria esistenza. Il mistero della morte è dopo la morte, non prima. Quel prima è, al contrario, un’esperienza umana integrale: di vita e di dolore, di diritti e di divieti, di coraggio e di infelicità. Ecco perché è spazio di normazione giuridica: seguiamone la mappa. 2. Non altrove, ma in Italia le scelte di “fine vita” sono schiacciate tra due reati: l’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e l’istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). La relazione del Guardasigilli dell’epoca (1929, VIII dell’era fascista) ne spiega la ratio: conservare “l’esistenza fisica della persona” quale “prevalente interesse sociale” di un regime la cui forza dipendeva, in primis, dalla demografia. Su questo tronco è intervenuta la Consulta con alcuni intarsi giurisprudenziali ispirati alla tutela della vita umana, condizione essenziale per l’esercizio di ogni altro diritto costituzionale. Da qui, il dovere pubblico di assicurarla attraverso la legge: siano pure due reati del codice Rocco, riletti ora in chiave di protezione dei soggetti più fragili e vulnerabili a possibili pressioni, dirette o indirette, che inducano a scelte irreparabili. Oggi come ieri, dunque, all’interrogativo di fondo (“Di chi è la mia vita?”) la risposta contraddice la natura retorica della domanda: non appartiene a me che la vivo, ma a qualcun altro. L’altro da me che decide della mia vita è la maggioranza parlamentare: storicamente, cioè, “il Parlamento (fascista) del 19 ottobre 1930” e, per omissione, tutti i Parlamenti repubblicani successivi (Paolo Flores d’Arcais). È una risposta pericolosa. Comporta il rischio che una maggioranza politica contingente imponga a tutti la propria etica in tema di “fine vita”, all’insegna dell’”Io non voglio, dunque nessuno può”, smarrendo così la distinzione tra diritto e morale propria di uno Stato laico. 3. Fa argine a simili derive la Costituzione, rigida e garantita. Innanzitutto, con l’art. 32, 2° comma, base del principio di autodeterminazione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”). Le parole contano. La norma non parla di cure o terapie, ma di “trattamento sanitario” che è concetto più ampio: include, ad esempio, il prelievo di sangue, le iniezioni endovenose, l’inserimento di un sondino nasogastrico. Il rinvio alla legge non implica che qualunque trattamento sanitario legislativamente imposto sia legittimo. Lo è solo se motivato da ragioni di salute pubblica (e se rispettoso della dignità personale, come esige il 3° comma): è il caso esemplare dell’obbligo vaccinale. Entra in gioco, poi, l’art. 13 Cost. (“La libertà personale è inviolabile”). Nato come limite al potere coercitivo a garanzia dell’integrità di chi è sottoposto agli apparati statali, oggi l’habeas corpus è anche altro: rappresenta per l’individuo “la base imprescindibile della libertà di disporre della sua dimensione corporea”, fondando l’autogoverno della persona (Stefano Canestrari). Sono queste le colonne d’Ercole per le scelte legislative sul “fine vita”. Come esplicitato dalla Consulta, “nessuno può essere “obbligato” - e tanto meno fisicamente “costretto” - a sottoporsi a un trattamento sanitario sul proprio corpo e nel proprio corpo. L’esecuzione di un tale trattamento violerebbe […] lo stesso diritto fondamentale all’integrità fisica della persona” (sent. n. 135/2024). Tutto ciò differenzia giuridicamente le forme possibili del congedo dalla vita: passiamole in rassegna. 4. “Voglio morire”, dice il malato. E così dicendo rivendica per sé una scelta suicidaria. Per i più tra noi è sempre possibile metterla in atto: il suicidio, infatti, non è punito, neppure nelle forme del reato tentato. È una libertà di fatto. Ciò che, invece, l’ordinamento riconosce e garantisce è il diritto di rinunciare o di rifiutare, in qualsiasi momento, trattamenti sanitari anche se necessari a salvare la propria vita. Esemplifico? Non si può imporre l’emotrasfusione a chi, per motivi religiosi, la rifiuta per sé. Né tagliare un arto al diabetico, che preferisce morire al vivere in un corpo amputato. Né la chemioterapia alla donna malata di cancro che la rifiuta per non compromettere la salute del concepito. In tutti questi casi, opera il principio del consenso informato, disciplinato dalla legge n. 217 del 2019, all’interno dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente. 5. “Lasciami morire”, dice il malato condannato da una patologia irreversibile. È un’invocazione rimasta a lungo inascoltata per due ragioni: il “prometeismo idiota” dell’accanimento terapeutico (Vincenzo Paglia) e la punizione di chi agevola “in qualsiasi modo” (art. 580 c.p.) l’altrui volontà suicidaria. Chiamata in causa grazie alle disobbedienze civili di Marco Cappato, è qui che la Corte costituzionale ha lavorato d’intarsio, escludendo - a determinate condizioni - la punibilità dell’aiuto al suicidio (sent. n. 242/209) ed allargando la platea dei malati che possono accedere al suicidio medicalmente assistito (sentt. nn. 135/2024, 66/2025). Supplendo alla deliberata inerzia del Parlamento, alcune Regioni hanno dato attuazione al giudicato costituzionale con normative cedevoli (alla futura legge statale), miranti a garantire tempi certi e procedure omogenee ai malati interessati. Della legge toscana (n. 16 del 2025) discuterà prossimamente la Consulta: lo Stato, infatti, ne ha contestato la costituzionalità per invasione di quelle sue competenze che, ad oggi, non ha inteso esercitare. Di nuovo, “Io non voglio, dunque nessuno può”. 6. “Aiutami a morire”, dice il malato. E così dicendo chiede qualcosa che l’ordinamento impedisce punendo l’omicidio del consenziente: la vita altrui, infatti, è un bene indisponibile. Sull’art. 579 c.p. si è già cercato di agire chirurgicamente per via referendaria, ma il quesito è stato bocciato dalla Corte costituzionale con una decisione quantomeno controversa (sent. n. 50/2022). Oggi, è proprio questo articolo che ritorna alla Consulta, oggetto di una quaestio promossa dal Tribunale di Firenze. Nasce dal caso di una malata di sclerosi multipla progressiva che versa nelle condizioni stabilite dalla sent. n. 242/2019, ma non è in grado di assumere da sé il farmaco letale. Paralizzata dal collo in giù, potrebbe somministrarselo per endovena azionando un dispositivo con il movimento dei muscoli della bocca o dei bulbi oculari o con un comando vocale, ma il mercato non dispone di apparecchiature simili. Vuole congedarsi dalla vita dignitosamente, ponendo fine al proprio insopportabile calvario, ma non può farlo da sola. Le serve l’aiuto che il medico curante è disposto a prestarle. Aiutandola, però, commetterebbe un reato punito con la pena da 6 a 15 anni di detenzione. È una situazione normativa di dubbia costituzionalità, perché l’incriminazione condiziona irragionevolmente l’autodeterminazione del paziente (artt. 2, 13, 32 Cost.), creando una disparità di trattamento tra malati (art. 3 Cost.). Quel suo diritto resta appeso ad una circostanza del tutto accidentale, uscendone pregiudicato proprio negli stati più gravi e sofferenti della malattia. Il rischio è che il soggetto sia indotto ad anticipare la scelta suicidaria, temendo il decorso imprevedibile della patologia. Nella sua attuale portata, quindi, l’art. 579 c.p. trasforma il diritto alla vita nel dovere di viverla, fino alla fine, in condizioni contrarie alla dignità e alla volontà del malato. 7. L’esito dell’udienza odierna peserà nell’iter parlamentare - partito in questi giorni con il piede sbagliato - verso una legge che manca da troppo tempo. Stay tuned. Eutanasia: un’immobilità totale può toglierci la libertà di scegliere di non vivere? di Chiara Lalli Il Dubbio, 8 luglio 2025 La questione arriva per la prima volta davanti alla Consulta: la storia di “Libera”, malata di sclerosi multipla. “Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”. È l’articolo 579 del codice penale, omicidio del consenziente. È l’articolo che vieta l’eutanasia anche se non parla di eutanasia (erano gli anni Trenta del secolo scorso, d’altra parte, e già questo basterebbe). Ora i giudici della Corte costituzionale dovranno decidere se è incostituzionale questo non distinguere volontà e condizioni, consensi e codici Rocco. Cioè: se io ho tutte le condizioni previste dalla sentenza 242 del 2019 (quella che ha stabilito le condizioni di accesso al suicidio assistito) ma non posso proprio muovermi e quindi assumere da sola il farmaco o spingere il pulsante di un qualche attrezzo che mi somministri il farmaco, che diritti ho? È giusto che la mia immobilità mi tolga una libertà? Faccio un esempio più scemo: ho il diritto di uscire all’ora che voglio e per andare dove mi pare. Se non posso camminare o spostarmi da sola, è forse sensato rivedere quella libertà di uscire all’ora che voglio e per andare dove mi pare? Dovremmo sempre ricordare la differenza tra capacità e diritti e non usare una capacità ridotta per eliminare o restringere un diritto. Come siamo arrivati in Corte sul 579? “Libera” ha la sclerosi da moltissimi anni e ormai è completamente immobile. Provate a immaginarlo. Non può camminare, non può grattarsi una puntura di zanzara, non può allungare un braccio per prendere un bicchiere e bere. Provate a immaginarlo. Ha difficoltà a deglutire. Provate a immaginarlo. Più di un anno fa “Libera” ha chiesto alla sua ASL di verificare se aveva tutte le condizioni previste dalla 242 per il suicidio assistito: il proposito di suicidio deve essere “autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Dopo vari rifiuti, diffide e solleciti (Libera è assistita dal gruppo legale coordinato da Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni) e dopo la sentenza 135 del 2024 che ha chiarito i confini del requisito del trattamento di sostegno vitale, la ASL finalmente ha considerato (correttamente) il rifiuto della PEG da parte di Libera e la necessità di una continua assistenza come trattamenti di sostegno vitale. Tutto bene quindi? No, perché mancavano ancora le indicazioni del farmaco e delle modalità di somministrazione. Mesi e mesi e nemmeno il ruolo del servizio sanitario è chiaro. Ma il problema principale, quello che ha portato fino alla Corte stamattina, è un altro: vista l’immobilità di Libera, come può autosomministrarsi il farmaco? La ASL, lo scorso marzo, ha detto che non ci sono macchinari per la somministrazione. E quindi? Che fine fa il diritto di Libera? Se manca uno strumento materiale per esercitare il mio diritto, che faccio? Che facciamo? Dopo un ricorso d’urgenza, il tribunale di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale. Al di là dei particolari normativi e del lungo percorso burocratico ed esasperante (del tempo che ci vuole parliamo un’altra volta), la domanda mi pare semplice: può la mia immobilità cambiare tanto profondamente la possibilità di scegliere di morire? Può una differenza tecnica e irrilevante dal punto di vista morale (e dovrebbe essere irrilevante anche dal punto di vista normativo) svuotare un diritto? Il diritto alla vita è la premessa di tutti gli altri, certo. Ma quel diritto non può essere congelato nell’assenza del suo negativo. E se ho quel diritto, dovrei avere la possibilità di scegliere. Cercare di impedirmelo in base alla mia impossibilità di camminare o di spostare un braccio è insensato e ingiusto. Chissà cosa decideranno i giudici. Chissà se giudicheranno ingiusto questo divieto assoluto e che non fa differenza tra volontà e condizioni, tra consensi e codici Rocco. Nel frattempo, lo scomposto disegno di legge uscito dalla mente del legislatore è talmente disperante da essere comico. È talmente sciatto e beghino da far sembrare Renzo Pegoraro, il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, un illuminato rinascimentale. Soprattutto quando ricorda che bisognerebbe conoscere e parlare con le persone malate. Che non basta, ovviamente, ma che mi pare essere un pezzo importante. In questa era di identitarismo feroce e in cui i traumi sono traumi anche se riguardano le doppie punte, il legislatore pensa bene di scrivere che se chiedi la verifica delle condizioni e ti rifiutano devi aspettare 4 anni. Poi hanno cambiato in alcuni mesi, ma certe cose non dovrebbero essere nemmeno pensate, figuriamoci comparire in un disegno di legge. Quattro anni. Mi piacerebbe moltissimo sapere a chi è venuto in mente. Come strategia dissuasiva è favolosa. Meglio di Corrado Guzzanti in Padre Pizarro quando consigliava a chi voleva abortire di tornare tra 9 mesi. La battaglia di Libera che non riesce a morire da sola. La Consulta decide sull’eutanasia di Elisa Forte La Stampa, 8 luglio 2025 Arriva oggi alla Corte Costituzionale la vicenda della donna toscana che non può autosomministrarsi il farmaco perché paralizzata. Ha chiesto che lo faccia il suo medico. La vicenda di Libera, donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla oggi sarà all’attenzione dalla Corte Costituzionale. La Consulta si pronuncerà sull’eutanasia dopo la storica sentenza del 2019 sul ruolo di Marco Cappato nella morte di dj Fabo. Il caso scaturisce dalla battaglia legale di Libera, una donna toscana di 55 anni che da più di 15 vive con grandi difficoltà di movimento. Negli anni, la perdita della capacità motoria l’ha portata all’attuale grave tetraparesi spastica. La Toscana, nonostante la forte contrarietà della Conferenza Episcopale, l’11 febbraio scorso ha approvato la legge sul fine vita. È la prima Regione in Italia con una legge sul suicidio assistito nata su iniziativa popolare: è stata approvata dopo la raccolta di firme promossa dall’associazione Luca Coscioni. “Alcuni pazienti vengono discriminati perché a causa delle loro patologie, non sono in grado di autosomministrarsi il farmaco letale - spiegano dall’associazione Coscioni - Pur avendo tutti i requisiti per accedere al suicidio assistito secondo la sentenza 242/2019, Libera non è in grado di autosomministrarsi il farmaco letale a causa della sua paralisi, e ha chiesto che sia un medico a farlo al posto suo”. A differenza di Daniele Pieroni, scrittore e poeta che il 17 maggio scorso a Chiusi si è autosomministrato il farmaco letale diventando il primo caso di suicidio assistito in Toscana dopo l’approvazione della legge regionale, Libera è completamente paralizzata e mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Ha difficoltà a deglutire e dipende completamente dai suoi caregiver. Libera non riesce ad assumere il farmaco e così chiede che sia il suo medico a somministrarglielo. Il 30 aprile scorso il tribunale di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale sull’articolo 579 del codice penale, che punisce con la reclusione “chiunque cagiona la morte di un uomo, con il suo consenso”. “Proprio su questo aspetto - ricorda l’Associazione Coscioni- si esprimeranno i giudici della Corte costituzionale”. Succederà oggi, in un’udienza pubblica. Sono state raccolte 51.231 firme digitali tramite lo Spid e altre 8.000 nei tavoli di raccolta attivati in tutta Italia. “L’obiettivo - fanno sapere dall’associazione Coscioni - è ora superare la soglia di sicurezza di 70.000 firme per poter depositare il testo entro il 15 luglio, in vista della discussione sul testo base che riprenderà in Senato il 17 luglio. La proposta di legge sul fine vita di iniziativa popolare va ad affiancare il testo base del centrodestra al Senato e sul quale tante critiche, anche quelle di incostituzionalità, stanno piovendo dalle opposizioni. La nuova proposta di legge promossa dall’associazione Coscioni prevede che il servizio sanitario nazionale si faccia carico della verifica delle condizioni del paziente entro 30 giorni dalla richiesta, con la possibilità per i medici di partecipare su base volontaria. Intanto, le commissioni Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama, in attesa del responso della Consulta, hanno differito da oggi a domani il termine per gli emendamenti. Contro l’esclusione del Sistema sanitario nazionale vanno all’attacco le opposizioni, contestando, in particolare, la privatizzazione dell’aiuto al suicidio, che potrebbe essere richiesto solo nelle cliniche private. Migranti. La Consulta può battere un altro colpo di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 8 luglio 2025 L’attuale disciplina di trattenimento nei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) non è compatibile con la Costituzione, non rispettando in particolare la riserva di legge assoluta prevista dall’articolo 13, secondo comma. La Consulta non ritiene però di poter porre rimedio a questa situazione di accertata incostituzionalità, ricadendo sul legislatore il “dovere ineludibile” di introdurre una “normativa compiuta, la quale assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona trattenuta”. Una decisione che si fonda sul presupposto del rispetto del principio di leale collaborazione tra organi costituzionali. Ma quanto si può confidare sulla volontà dei poteri chiamati in causa? Di fronte all’inerzia di Governo e Parlamento che farà la Corte? Com’è noto la storia delle sentenze “monito” non è incoraggiante, essendo rimaste perlopiù inascoltate. Tant’è che la Consulta si è dotata, nel corso del tempo, di uno strumentario processuale sin troppo ricco, per cercare di affermare la superiore legalità costituzionale in ogni caso. Anzi, può dirsi che l’ultima stagione è stata caratterizzata da una certa audacia e ha visto diverse e importanti sentenze forzare le regole processuali al fine di affermare le ragioni sostanziali di tutela dei diritti fondamentali compromessi: dalle decisioni del 2014 sulle leggi elettorali all’introduzione di meccanismi in grado di rimediare all’inerzia del Parlamento (additive, doppie pronunce, rinvio della decisione a data certa, definizione di una nuova normativa dedotta da principi rinvenibili nel sistema normativo vigente). In quest’ultimo caso la Corte è stata più cauta, nel doveroso rispetto della discrezionalità del legislatore. Tuttavia, a questo punto è lecito domandarsi cosa potrà succedere nell’ipotesi (direi più che probabile) che dovesse permanere la grave situazione lesiva di diritti fondamentali dentro le strutture dei Cpr. Non solo nell’eventualità che non vi fosse nessuna reazione da parte del legislatore, ma anche qualora la riserva di legge portasse a definire una normativa non rispettosa della dignità delle persone costrette nella propria libertà personale. L’inerzia o l’uso in contrasto con la Costituzione del potere legislativo credo imporrebbe un intervento più incisivo della Corte se e quando dovesse riproporsi la questione di legittimità costituzionale in un prossimo futuro. Le occasioni rilevanti non mancheranno e l’opportunità (oltre alla non manifesta infondatezza) è in fondo scritta nella decisione oggi assunta. L’invito è dunque ai giudici di monitorare con attenzione la situazione e non esitare, nel caso in cui il legislatore non dovesse svolgere il suo “dovere ineludibile”, ma anche nel caso di una nuova normativa non costituzionalmente compatibile, a chiedere di nuovo alla Consulta una seconda pronuncia che sia il coerente seguito dell’attuale. A quel punto sarà difficile per il giudice delle leggi sottrarsi ad una decisione nel merito, il cui esito è stato preannunciato sin d’ora. Ma quale forma - quale tipo di sentenza - potrà essere adottata? Si tratterà di vedere il “chiesto” del giudice che solleverà la questione, sin d’ora però almeno una considerazione in base allo stato dei fatti può essere formulata. La situazione drammatica e le modalità degradanti di detenzione amministrativa sono ben note e ormai acclarate dal giudice costituzionale. La Corte tiene a precisare - sin dalla sua prima sentenza, n. 105 del 2001 - che il trattenimento dei migranti irregolari non può essere equiparato a quello dei detenuti, non ha carattere sanzionatorio, rappresenta solo un’extrema ratio giustificata dalla necessità di verificare le condizioni per poter dare esecuzione nel più breve termine possibile all’accompagnamento alla frontiera. In ogni caso - com’è persino scritto nella disattesa normativa vigente - devono essere garantiti adeguati standard igienico-sanitari e abitativi, con modalità tali da assicurare la necessaria informazione relativa allo status, l’assistenza e il pieno rispetto della dignità. Questi presupposti sono attualmente tutti smentiti dalla realtà: i “modi” di trattenimento degli stranieri, affidati quasi esclusivamente a fonti subordinate e ad atti amministrativi, sono di fatto più degradanti che non quelli, già assai poco rispettosi della dignità, dei detenuti nelle carceri. La Corte scrive che l’ordinamento penitenziario non può rappresentare un punto di riferimento perché la detenzione amministrativa deve restare estranea a ogni connotazione di carattere sanzionatorio. Ma se neppure questa tutela minima può essere applicata a chi è ristretto nella propria libertà personale “senza aver commesso reati” il vuoto di tutela costituzionale appare insopportabile, e irragionevole appare la disparità tra situazioni soggettive equiparabili almeno per quanto riguarda la comune limitazione della libertà. Le garanzie di cui al terzo comma dell’articolo 13 si devono applicare a chiunque sia sottoposto a restrizioni di libertà, la dignità deve essere garantita a tutte le persone, stranieri inclusi, poiché - scrive sempre la Corte - i diritti che la nostra Costituzione proclama inviolabili “spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”. Che si debba auspicare l’estensione delle garanzie previste dall’ordinamento giudiziario per i migranti trattenuti in via amministrativa è certo anomalo, ma rispetto al vuoto di tutela costituzionale anche il poco è meglio del nulla. La Consulta e i “vizi” dei Cpr: si fermino le deportazioni di Vitalba Azzollini* Il Domani, 8 luglio 2025 Dopo la sentenza della Corte costituzionale, che riconosce un “vulnus” a danno dei diritti dei migranti nei Cpr, si attende un intervento del legislatore. Nel frattempo sarebbe meglio evitare ulteriori trattenimenti in Albania che, a seguito di questa pronuncia, potrebbero essere oggetto di ricorso. La recente sentenza della Corte costituzionale in tema di centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) lascia un senso di incompiutezza. La Corte, infatti, pur riconoscendo vizi di legittimità nelle norme che disciplinano il trattenimento degli stranieri in tali centri, non ha accolto le questioni di costituzionalità sollevate. Spetta al legislatore - ha detto - sanare i vizi riscontrati. Pertanto, fino a quando quest’ultimo non riterrà di intervenire, la situazione resterà quella attuale, con il “vulnus” rilevato dalla Corte. La violazione costituzionale - La pronuncia trae origine da quattro ordinanze del giudice di pace di Roma, che aveva ravvisato diversi profili di illegittimità riguardo alla norma del Testo unico dell’immigrazione (art. 14, comma 2, del d.lgs. n. 286/1998) che rimanda a fonti secondarie (regolamenti e atti prefettizi) per la disciplina dei “modi” del trattenimento amministrativo nei Cpr. In ultima istanza, le decisioni sulla convivenza all’interno del centro, sull’erogazione dei servizi per le esigenze di cura e di assistenza, sullo svolgimento delle visite e altro sono rimesse al “prefetto, sentito il questore, in attuazione delle disposizioni recate nel decreto di costituzione del centro e delle direttive impartite dal ministro dell’Interno”. Lasciare la competenza su tali temi all’autorità amministrativa contrasta con la riserva di legge di cui all’art. 13, comma 2, della Costituzione, in tema di misure restrittive della libertà personale. Tra queste rientra la detenzione nei Cpr, che si concreta in un “assoggettamento fisico all’altrui potere”. Dunque, dice la Corte, non è sufficiente che il legislatore individui i “casi” in cui può avvenire il trattenimento. È necessario che egli stabilisca con fonte primaria - la legge - anche i “modi” e le garanzie giurisdizionali che devono assistere la privazione della libertà all’interno dei centri, dato che manca la previsione di uno specifico ricorso “attivabile dai migranti avverso le condizioni di accoglienza”. La decisione della Corte - Come anticipato, la Consulta, pur ritenendo sussistente il “vulnus” lamentato - cioè la mancanza di una legge che disciplini le modalità della detenzione nei Cpr - ha dichiarato inammissibili le questioni di costituzionalità sollevate, perché a essa non è consentito “porre rimedio al riscontrato difetto, ricadendo sul legislatore il dovere ineludibile di introdurre una normativa compiuta, la quale assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona trattenuta”. Ciò significa che gli stranieri potranno continuare a stare nei Cpr alle stesse condizioni attuali, cioè in violazione di principi costituzionali, fino a quando non interverrà il legislatore. Del resto, se la Corte costituzionale avesse accolto la questione di legittimità, la sua decisione avrebbe travolto l’intero sistema dei Cpr, incluso quello albanese. Ma i primi effetti della pronuncia cominciano comunque a vedersi. Dopo la sentenza della Consulta, la Corte di appello di Cagliari ha affermato che, in mancanza di una legge che regoli i “modi” della detenzione amministrativa “non può che riespandersi il diritto alla libertà personale” del migrante. Il Cpr in Albania - Il Viminale ha reso noto di essere già al lavoro per assolvere alle richieste formulate dalla Corte costituzionale. Sarà bene che lo faccia prima che siano disposti ulteriori trasferimenti in Albania. Da un lato, perché, in assenza di una specifica disciplina processuale a garanzia dei diritti dei migranti detenuti nei Cpr, “paragonabile a quella assicurata alle persone detenute dalla legge sull’ordinamento penitenziario”, potranno comunque essere presentati ricorsi in via d’urgenza (art. 700 c.p.c,), che potrebbero incidere sui trattenimenti. Dall’altro lato, perché la sentenza della Consulta di fatto lascia intatto il “vulnus” per i migranti dei Cpr, e quelli detenuti nei centri albanesi hanno già minori diritti rispetto a quelli di chi sta nei centri in Italia: dal diritto di difesa a quello alla salute, come rilevato nel corso delle audizioni sul decreto Albania - riportate anche nella relazione del Massimario della Cassazione - che però il parlamento ha ignorato. Il governo eviti almeno di sommare danno a danno. Cpr, fuori altri sei migranti. In arrivo nuove richieste di liberazione di Giansandro Merli Il Manifesto, 8 luglio 2025 Cinque udienze di convalida per il Cpr di Ponte Galeria e una per quello di Gjader: ragioni diverse ma stesso esito. La Corte d’appello di Roma ha liberato ieri cinque cittadini stranieri rinchiusi nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Quattro erano a Ponte Galeria, uno a Gjader. Un’altra non convalida del trattenimento l’ha decisa il giudice di pace della capitale. Le motivazioni sono diverse e riguardano le storie singole. La recente sentenza della Consulta sull’illegittimità del trattenimento, perché manca una legge che ne regola i “modi”, è richiamata in una sola decisione. C’è quindi una differenza rispetto alla pronuncia della Corte d’appello di Cagliari che venerdì scorso ha fatto sue le argomentazioni della Corte costituzionale. Nei casi di ieri il filo rosso è piuttosto l’analisi dettagliata di ogni singola storia, attraverso il bilanciamento di vari fattori. Se il governo sperava di trovare giudici più compiacenti spostando la competenza sulle convalide per i richiedenti asilo dalle sezioni Immigrazione dei tribunali civili agli organi giudiziari di secondo grado ha sbagliato i conti. I magistrati che hanno firmato i provvedimenti li hanno argomentati sulla base di norme e giurisprudenza nazionali e Ue. La persona trasferita in Albania era a Gjader per una decisione del giudice di pace ritenuta nulla (mancava la giustificazione) e per un’espulsione del settembre 2021 rimasta congelata da allora. La detenzione del cittadino straniero, quindi, era “ingiustificatamente afflittiva” perché “non più orientata all’unico obiettivo ammesso della detenzione amministrativa cioè l’effettivo rientro nel Paese di origine”, si legge nel provvedimento. Rispetto ai migranti rinchiusi nel Cpr di Ponte Galeria, invece, la Corte ha fatto valere elementi che smontano la “strumentalità” della domanda di asilo sostenuta dalle autorità di polizia o sono comunque prevalenti. Per uno di loro vale la tutela del diritto alla salute e l’accertata vulnerabilità. Per gli altri la possibilità di ottenere la protezione speciale o restare reperibili in una struttura di accoglienza, in applicazione di una misura alternativa al Cpr. Nella non convalida decisa dal giudice di pace ha pesato la “radicata integrazione” del cittadino straniero. L’uomo ha una dimora, un lavoro stabile, è incensurato e non è ritenuto pericoloso. Il suo unico problema è la mancanza di documenti. Sono dunque assenti “i presupposti richiesti dalla normativa vigente per la convalida”, scrive il magistrato onorario. Che richiama i principi di “proporzionalità e adeguatezza delle misure limitative della libertà personale”. Intanto sempre ieri gli avvocati milanesi Eugenio Losco, Mauro Straini e Gianluca Castagnino hanno presentato tre nuove richieste di liberazione immediata per altrettante persone trattenute nel Cpr meneghino di via Corelli. La motivazione alla base di queste domande è la decisione della Consulta. I legali avevano fatto un’analoga azione legale, per un migrante che si trova a Ponte Galeria, già giovedì. Ovvero poche ore dopo la pubblicazione della sentenza. Sono in attesa del responso. Migranti. Al Cpr di Bari detenuti per 4 ore sul tetto: “Due tentati suicidi e un’overdose” di Vincenzo Pellico La Repubblica, 8 luglio 2025 Dopo le proteste della notte scorsa (domenica 6 luglio), la tensione è ulteriormente salita con centinaia di persone salite sui tetti delle strutture. Chiedono soprattutto celerità nel rilascio dei documenti in particolare per coloro che hanno fatto richiesta di asilo politico. È durata quasi quattro ore la protesta di circa un centinaio di detenuti del Cpr di Bari, che nel pomeriggio di oggi, lunedì 7 luglio sono saliti sui tetti della struttura per denunciare condizioni di vita ritenute insostenibili. Nuove tensioni al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Bari (nel vecchio aeroporto militare di Palese), dove centinaia di persone detenute hanno occupato i tetti della struttura per denunciare condizioni di vita giudicate insostenibili. Tra i motivi della protesta: il cibo risultato avariato, la totale mancanza di igiene e la lunga permanenza all’interno del centro legata alla sola irregolarità dei documenti. La protesta ha coinvolto quasi tutti i moduli del Cpr, a eccezione del modulo 6, i cui detenuti - impossibilitati a salire sul tetto - hanno aderito alla sommossa con uno sciopero della fame. Sebbene all’interno della struttura fosse presente un presidio della Polizia, le forze dell’ordine hanno scelto di non intervenire per motivi di sicurezza, considerato l’alto numero di persone coinvolte. Nella notte tra domenica 6 e lunedì 7 luglio, la situazione già difficile è ulteriormente degenerata: alcuni moduli sono stati incendiati. Secondo alcune fonti interne, i detenuti avrebbero dato fuoco a materassi utilizzando fiammiferi, nel tentativo di provocare una reazione. Nella mattinata di oggi, 7 luglio, la protesta è ripresa: in tanti sono tornati sui tetti, bloccando l’ingresso degli avvocati alla struttura e di fatto impedendo lo svolgimento delle udienze previste per la convalida o la proroga del trattenimento amministrativo. I detenuti avrebbero poi invocato la presenza di giornalisti, interessati a far sapere delle condizioni di estrema criticità e disagio nelle quali verserebbero. Particolarmente delicati gli eventi accaduti nel modulo 2, dove una persona è andata in overdose da metadone ed è stata trasportata in ospedale. Altre si sono ferite e, inoltre, due detenuti hanno tentato il suicidio per impiccagione. Entrambi sarebbero stati successivamente allontanati dal centro. Nel corso della protesta, secondo fonti interne, uno dei detenuti si sarebbe sentito male. Alcuni attivisti all’esterno avrebbero tentato di segnalare l’emergenza ai soccorsi, ma il personale medico non sarebbe potuto intervenire, in quanto - da prassi - la richiesta d’aiuto deve arrivare direttamente dall’interno del centro. I Cpr continuano a essere oggetto di dure critiche per le condizioni di vita all’interno. Nel frattempo, un gruppo di attivisti ha organizzato un presidio fuori dal centro per esprimere sostegno alle persone detenute e chiedere un intervento in tempi brevi. Droghe. “Il crack ti toglie il sonno. Iniziai a rubare per farmi. Mi ha salvata mia sorella” di Franco Giubilei La Stampa, 8 luglio 2025 Il racconto di una ragazza ospite di San Patrignano: “La droga non bastava mai. Non dormivo più e persi il lavoro. Dopo 22 mesi in comunità è ancora dura”. Che la nuova emergenza si chiami crack lo dicono i dati più recenti sul consumo di droghe e lo testimonia l’esperienza di Nicole, che a 17 anni ha cominciato a fumare cristalli di coca per ritrovarsi molto presto con una dipendenza fortissima. Oggi ha 24 anni e da ventidue mesi segue un programma di recupero nella comunità di San Patrignano. Nicole, com’è cominciata con le sostanze? “In prima superiore, dove studiavo per grafica pubblicitaria, uscivo con una mia compagna di scuola più grande di me di due anni che era stata bocciata e ho iniziato con le canne insieme a lei, che fumava già. Il sabato sera andavamo a ballare, poi dormivo da lei e il lunedì tornavo a scuola. In breve tempo ho cominciato a fumare tutti i giorni. Bevevo qualche birra, ma in quel periodo niente di più”. Il passaggio successivo qual è stato? “In seconda, quando avevo 16 anni, ho provato la coca: avevo conosciuto una ragazza marocchina alla stazione di Cesena che me l’ha offerta in via amichevole. Anche lei era più grande, 18 anni. All’inizio ho detto di no perché mi faceva un po’ paura, poi lei ha insistito, diceva ma cosa vuoi che sia, lo faceva lei davanti a me e aveva un’aria tranquilla, così abbiamo tirato insieme”. Che effetto le ha fatto? “Mi sentivo senza insicurezza, più sciolta, mi è piaciuto. L’ho rifatto un po’ di volte il sabato sera a ballare, sempre con lei: mi rendeva attiva, felice, senza pensieri. Poi ho cominciato a tirare anche dopo la scuola con ragazzi amici di lei. In pochi mesi sono passata dal consumo il sabato sera a qualche volta alla settimana a tutti i giorni, più volte al giorno. L’anno dopo sono passata al crack”. Ma come è successo? “Avevo conosciuto un altro gruppo di ragazzi e una di loro si è messa a fumarlo davanti a me, insisteva che lo facessi anch’io, diceva che dovevo farlo se le volevo bene e che, se lo avessi fatto io, lei avrebbe smesso… subito non avevo capito, ma ho provato comunque”. Che cosa provoca il crack? “Ti senti invincibile, ti viene una carica assurda, ti senti un genio. L’effetto dura solo un minuto e poi scende, e non basta mai, non hai tregua…”. Come faceva con i soldi? “Come ragazza era facile trovarli, io facevo piccoli furti a casa mia e poi nei negozi in giro. E fregavo la gente, chiedevo soldi a qualcuno, dicevo che glieli ridavo e invece non lo facevo, cose così”. E a casa come andava? “A casa c’ero poco, andavo a pranzo e poi uscivo: inizialmente stavo fuori il sabato, poi i week-end e poi, da più grande, per mesi. I miei - mia mamma lavora in un supermercato, il mio babbo fa il camionista - mi chiedevano, cercavano di capire cosa succedeva, ma io mi facevo vedere solo quando stavo bene. Quando l’effetto calava e stavo male per il “down”, invece, dormivo dalla mia amica”. La sua famiglia come ha reagito? “Il mio babbo mi veniva a cercare ma il più delle volte non mi trovava. Quando capitava e mi riportava a casa facevo finta di niente. Mia mamma stava malissimo, mia sorella invece era incazzata con me, ma riusciva a starmi dietro: entrava nei miei profili social per vedere dov’ero e la gente con cui stavo. È lei che ha scoperto che usavo crack perché ha trovato la bottiglia con cui fumavo in camera mia”. Dopo la scuola cosa è successo? “Ho preso la patente e ho cominciato a lavorare come cameriera in bar e ristoranti, ma continuavo a farmi: mi facevo al lavoro, tornavo a casa e mi facevo di nuovo, finché ho perso il lavoro, non perché mi abbiano cacciato, ma perché ho smesso io: non dormivo mai e non ci riuscivo più, il crack ti toglie anche il sonno. Il mio babbo mi ha chiuso il conto in banca perché ha capito: lì ho cominciato con i furti e un po’ di spaccio”. Quando e come ha detto basta? “Grazie a mia sorella: avevo fatto un incidente in macchina e mi ha visto mentre stavo cercando un bar, ero a piedi in quel momento, e avevo la faccia spaccata per l’incidente. Lei mi ha visto e ha pensato che la persona da cui vivevo mi picchiasse, così ha chiamato la polizia”. Chi era la persona? “Uno che spacciava, un albanese di 39 anni, aveva la droga e stavo con lui: il suo appartamento era una crack house dove la gente veniva a comprare la roba. Quando è arrivata la polizia ero fattissima. Tornata a casa, mia sorella mi ha parlato di San Patrignano, conosceva ex ospiti della comunità, e ho deciso di provarci”. È stata dura disintossicarsi? “È ancora dura: la droga me la sogno. Qui in comunità lavoro al canile e tra poco vado a lavorare al ristorante. Parlo con le persone, vivo, faccio una vita quasi normale. Mi manca la libertà di fare quello che voglio o non voglio io, ma adesso come adesso non saprei come gestirla. La cosa più importante è ascoltare gli altri, ma parlare di me stessa e capire come sto resta la cosa più difficile. Però ho imparato che una brutta verità è meglio di una bella bugia, perché è molto difficile fidarsi per persone come noi, e che non devo avere paura di chiedere aiuto, perché da soli non ce la si fa. Ma so che qui nessuno mi giudica e che non sono sola”. Ridurre la povertà globale, non mancano le risorse ma la volontà politica di Francesco Petrelli Il Domani, 8 luglio 2025 La quarta Conferenza finanza per lo sviluppo che si è conclusa lo scorso 3 luglio a Siviglia è stata l’evento multilaterale più importante dell’anno per le Nazioni unite. L’appuntamento si è svolto nel momento peggiore per un sistema multilaterale. Per questo bisogna costituire nuove alleanze strategiche contro le disuguaglianze ed è prioritario ridurre il ruolo della finanza privata nel finanziamento per lo sviluppo. La quarta Conferenza sul finanziamento dello sviluppo conclusasi a Siviglia lo scorso 3 luglio è stata l’evento multilaterale più importante dell’anno per le Nazioni Unite, con 70 paesi partecipanti, decine di leader convenuti e le fondamentali questioni sul tavolo per il presente e il futuro prossimo di milioni di persone in tutto il mondo. Eppure rischia di passare inosservata per il succedersi frenetico e disordinato delle crisi degli ultimi mesi. I tagli Usa - Certo, l’appuntamento si è svolto nel momento peggiore per un sistema multilaterale, indebolito come mai prima, colpito dai tagli voluti dall’amministrazione Usa, che fino all’anno scorso erano il primo paese donatore al mondo. Un’erosione di risorse cominciata qualche mese fa con la cancellazione dell’80 per cento degli aiuti pubblici allo sviluppo, finita con l’abbandono della Conferenza e il rifiuto di qualunque tipo di impegno una settimana prima del suo inizio. Un esempio scellerato seguito in parte anche dalle altre economie avanzate, incluse quelle europee. I soli paesi del G7, i cui stanziamenti rappresentano circa tre quarti dell’aiuto globale, nel 2026 opereranno infatti tagli del 28 per cento rispetto al 2024, secondo le previsioni. A tutto ciò si aggiunge l’evasività di molti paesi presenti sugli altri tre pilastri al centro della Conferenza: il problema del debito che schiaccia i paesi poveri, il ruolo del settore privato nella promozione dello sviluppo e i livelli di disuguaglianza parossistici raggiunti ovunque nel mondo. Contro la povertà globale - Nella speranza che la vicesegretaria dell’Onu, Amina Mohammed, abbia ragione a dire che Siviglia rappresenti comunque una vittoria per il multilateralismo, è necessario capire il contesto globale nel quale ci muoviamo: non sono le risorse economiche a mancare per ridurre la povertà globale, ma la volontà politica. In un recente rapporto, From Private Profit to Public Power, Oxfam ha calcolato che il valore dei patrimoni netti dell’un per cento più ricco è aumentato, in termini reali, di oltre 33.900 miliardi di dollari dal 2015. Un ammontare superiore di 22 volte alle risorse necessarie per riportare sopra gli 8,30 dollari al giorno la parte della popolazione mondiale che vive oggi sotto tale soglia di povertà. Denunciamo poi che, mentre gli aiuti pubblici vengono tagliati, la crisi del debito vede il 60 per cento dei paesi a basso reddito sull’orlo della bancarotta, con gli stati più poveri costretti a spendere per il servizio del debito somme più alte di quelle che destinano a salute e istruzione. Allo stato attuale gli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dalle Nazioni Unite non saranno per la gran parte centrati entro il 2030. Un risultato deludente riconducibile a un sottofinanziamento cronico e un approccio al finanziamento per lo sviluppo che ha attribuito un ruolo cruciale alla mobilitazione degli investimenti privati che non c’è stato. Come valutare quindi il documento finale della Conferenza, definito per consenso dai governi? Per quanto ponga delle premesse per azioni significative, siamo però ancora lontani dal ridisegnare una nuova, quanto necessaria, architettura della finanza per lo sviluppo globale. E in questa direzione alcune azioni sono prioritarie. Marcia indietro - I Paesi ricchi dovrebbero dunque fare marcia indietro sui tagli agli aiuti pubblici allo sviluppo, impegnandosi a destinare almeno lo 0,7 per cento del proprio reddito nazionale lordo. Infine, non meno importanti sono la costituzione di un nuovo organismo di governance degli aiuti, sotto gli auspici dell’Onu, che veda la partecipazione dei paesi del Sud globale, il sostegno a una nuova convenzione Onu per la gestione e la risoluzione, in modo ordinato ed equo, della crisi del debito, l’adozione di una Convenzione quadro delle Nazioni unite sulla cooperazione fiscale internazionale per definire un nuovo standard globale di tassazione degli ultra ricchi. Guardando infine agli elementi positivi usciti dalla conferenza, c’è sicuramente la costituzione di alleanze strategiche contro le disuguaglianze. In particolare quella che avrà l’obiettivo di arrivare a una maggiore tassazione dei super ricchi lanciata da Spagna e Brasile, con il sostegno di Sudafrica e Cile. Così come la nuova iniziativa di finanziamento dell’assistenza sanitaria promossa da Brasile, Messico e Colombia. Queste coalizioni potrebbero infatti essere essenziali per arrivare all’erogazione dei finanziamenti necessari al raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dalle Nazioni Unite e per la riduzione di disparità sempre più marcate, che colpiscono particolarmente donne e giovani. Così il mito della “guerra giusta” sta rovesciando il mondo di Rosario Aitala Avvenire, 8 luglio 2025 La Storia si vendica sempre dell’incoerenza e dell’abuso. L’alternativa alle regole è il ritorno alla forza come misura nei rapporti fra Stati, ha ammonito il presidente Mattarella. Il mito della “guerra giusta” sta rovesciando il mondo. L’egemone che si prepara a versare il sangue confeziona narrazioni per propagandare la propria causa. Le cuce con cura, su misura per il proprio pubblico. Le colma di appelli emotivi per eccitare odio, rabbia, paura, entusiasmo. Galvanizza i combattenti, mobilita le masse, demonizza il nemico, forgia alleanze politiche, falsifica, manomette, manipola. Per giustificare il dispendio di sangue e di dolore che s’annuncia descrive il momento come fatale, apocalittico, l’occasione come storica e irripetibile. Presenta la guerra come ineluttabile difesa dai malvagi, benedetta dalle forze celesti. La battezza santa, igiene del mondo, scontro di civiltà, battaglia fra il Bene e il Male. Promette armonia, verità, prosperità, sicurezza. Pace. Non è mai così. La guerra non è mai un intervallo di tormenti collettivi dopo i quali tutto torna a ricomporsi. È eversione. Spesso i governi finiscono col credere alla propria stessa propaganda e si illudono di padroneggiare le dinamiche della violenza. I conflitti invece quasi sempre si trasformano in scontri parossistici incrementali, che la politica è incapace di contenere. La guerra segue logiche inumane, che l’uomo non può controllare. Quando si esaurisce, per debellatio, tregua o pace, resta l’odio. Le ferite collettive di stermini, stupri e torture si rimarginano in decenni o secoli. O mai. Sarà così anche per i conflitti della contemporaneità che si trascinano senza termine, obiettivo e misura. Gli avversari non mirano che al reciproco annientamento e si accaniscono sui civili incolpevoli. Per capire i nostri tempi dobbiamo riprendere in mano i libri di Storia, e i dizionari. Il passato non è un capitolo chiuso. La Storia è uno specchio davanti al quale ci siamo noi. E nella Storia si trova l’etimo, il significato vero, reale e vivo delle parole. Bisogna avere cura delle parole. Indagare le parole a partire dalle cose, e non le cose a partire dalle parole. Da alcuni decenni è in voga in politica la formula della “legittima difesa preventiva”: la guerra cautelare, mossa in via anticipata. Colpire per primi. Il Male per precorrere il Male. In diritto è un ossimoro. La violenza si può usare a buon diritto per preservare sé stessi o altri da un attacco ingiusto in corso o incombente, non per anticipare un’offesa solo ipotetica. Se un uomo empio si introduce nottetempo armato nella casa del nemico che ha giurato di uccidere, quest’ultimo può premere il grilletto per primo per sventare il programma delittuoso, sempre che non abbia alternative. Ma se lo aggredisce mentre quello se ne sta in casa propria non è che un assassino. Vale anche in diritto internazionale. Da ottant’anni il fondamento della comunità degli Stati è il divieto di usare la forza armata. La libertà tradizionalmente assoluta di ricorrere alla guerra cade nel 1945 con la Carta delle Nazioni Unite che proibisce la violenza armata. Non fu invenzione estemporanea e capricciosa dei convenuti a San Francisco. L’umanità era stata annichilita dai conflitti mondiali. Erano stati sterminati milioni di ebrei, intere etnie e nazionalità. Erano morti civili e militari a decine di milioni. Restavano macerie, miseria, lutti e odio. Si doveva sancire inequivocabilmente l’illegittimità della guerra d’aggressione e conquista, e si permise l’uso della forza armata solo nell’esercizio del “diritto naturale di autotutela”. Certi Stati particolarmente avvezzi alla violenza organizzata cercano di giustificare le proprie azioni militari invocando la legittima difesa “preventiva”, cioè intesa a scongiurare il pericolo di un’aggressione futura. La maggior parte degli studiosi la ritengono illegale. Chi l’ammette pone giustamente limiti stringenti. L’attacco da evitare deve essere imminente. La necessaria capacità deve essere stata acquisita e la decisione irrevocabilmente assunta. Il momento in cui si usa la forza deve essere l’ultima opportunità per impedire l’attacco. Altrimenti la “difesa” non è che aggressione. Questo fu l’intervento americano in Iraq del 2003. Il regime di Saddam Hussein è malvagio, sanguinario. Gli Stati Uniti l’accusano di possedere armi chimiche che potrebbe trasferire a terroristi, i quali potrebbero usarle contro di loro. Mettono in piedi una possente campagna propagandistica e invadono, convinti che sarà affare veloce. Restano invece intrappolati. Muoiono centinaia di migliaia di civili e migliaia di soldati occidentali. Di armi di distruzione di massa non c’è traccia. Gli occupanti azzerano l’intera amministrazione, militare e civile, innescando caos, settarismo e terrorismo che si propagano ovunque. Saddam Hussein è giudicato in un processo farsa imposto dagli occupanti e impiccato frettolosamente. L’Iraq cade sotto l’influenza del nemico persiano. Il popolo iracheno non smette di soffrire. La parabola irachena non è automaticamente applicabile a situazioni distinte. Le formule normative si interpretano di volta in volta nei casi concreti. È però una lezione politica. Gli Stati devono guardarsi dalla tentazione di doppie e triple morali, condannando le iniquità dei nemici e condonando quelle di alleati e amici. Agire e parlare con prudenza e lungimiranza. La Storia si vendica sempre dell’incoerenza e dell’abuso. L’alternativa alle regole è il ritorno alla forza come misura nei rapporti fra Stati, ha ammonito il presidente Mattarella. Il diritto non è la principale vittima. L’abuso della forza innesca spirali incontrollabili di violenza vana, primitiva, indiscriminata che si risolvono nella vendetta, nella punizione collettiva di civili, soprattutto bambini “che non cessano di essere dilaniati dalle bombe” - parole di Papa Leone -, deportati, affamati, assetati a morte. Ma se l’agonia dei bambini serve a raggiungere la somma di tutte le sofferenze necessarie per l’acquisto della verità, se questo è il prezzo da pagare per l’armonia eterna, meglio, come Ivan Karamazov, affrettarsi a restituire il biglietto In Europa il 5% del Pil per le armi è una chimera quasi per tutti di Mauro Del Corno Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2025 E gli elettorati puniranno i governi che lo raggiungono. L’unico Paese che può dirsi relativamente tranquillo è la Germania. Tutti gli altri hanno messo il carro davanti ai buoi, accettando il piano Nato senza ancora sapere dove trovare il denaro. Si fa presto a dire 5%. Passare dalle promesse ai fatti, è un altro paio di maniche, non solo per l’Italia. L’impegno concordato a livello Nato dai paesi europei di alzare significativamente le spese per armi ed eserciti è stato assunto con superficialità e senza fare troppi conti. Del resto, per i capi di governo promettere qualcosa che, molto probabilmente, dovrà poi realizzare qualcun altro, ammesso che deciderà farlo, non è cosa insolita. L’impressione è che si siano sottoscritti impegni estremamente gravosi, con aumenti di spesa nell’ordine di centinaia di miliardi di euro l’anno, curandosi poco delle conseguenze. E ora i primi nodi stanno venendo al pettine. L’unico Paese che può dirsi relativamente tranquillo è la Germania, che prima ha creato lo spazio fiscale finanziarlo e, solo in un secondo momento, ha deciso di avviare un imponente piano di riarmo. A seconda delle ipotesi di crescita, il rapporto debito/Pil tedesco è destinato a salire in dieci anni dal 60% circa odierno ad una cifra compresa tra l’80 e il 100%. Un valore comunque inferiore a quello che presentano paesi come Italia, Spagna o Francia. Tutti gli altri hanno messo il carro davanti ai buoi, accettando il piano Nato senza ancora sapere dove trovare il denaro. Oltre all’Italia, pure Francia e Gran Bretagna hanno finanze pubbliche in difficoltà e su cui è pericoloso caricare ulteriore debito. Berlino è categorica nel respingere l’ipotesi di eurobond che consentirebbero ai paesi più indebitati di alleggerire un poco gli interessi da pagare sul debito aggiuntivo. In compenso si è adoperata per dare la possibilità ai paesi euro di indebitarsi maggiormente, rinnegando la sua storica severità nel controllo dei conti degli altri. La Spagna può almeno contare su tassi di crescita tripli rispetto a Italia o Francia, ma, paradossalmente, è l’unico paese che si è sottratto al “cappio” del 5%. L’agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s ha avvertito che l’opinione dell’elettorato sarà “il fattore principale nella volontà dei governi di soddisfare gli obiettivi Nato” di una spesa pari al 3,5% del Pil. La fine del “dividendo della pace” di cui hanno goduto molti paesi europei nei decenni scorsi, il quale ha permesso l’espansione del welfare state a scapito delle spese per la difesa, può “provocare contraccolpi politici”, avvisa S&P, ed essere sfruttato dai partiti populisti” utilizzando il riarmo come argomento per alimentare il malcontento. Non ci vuole chissà quale studio per capire che, senza la possibilità di indebitarsi, i soldi per le armi andranno trovati alzando le tasse o tagliando la spesa pubblica (pensioni, sanità, istruzione, etc). Nonostante una battente propaganda, di fronte ad una minaccia militare estremamente vaga (un’invasione della Russia su scala europea? una Cina armata e imperialista?), far digerire agli elettorati decisioni di questo genere sarà pressoché impossibile per chiunque sarà al governo. Ma prima di guardare al futuro guardiamo cosa sta accadendo già oggi. La Gran Bretagna è alle prese con una nuova crisi politica e gli investitori sono sempre più scettici sulla sostenibilità nel lungo termine del debito pubblico. Il governo laburista ha dovuto fare marcia indietro su molti dei tagli alla spesa sociale che aveva annunciato. L’Office for Budget Responsibility del Regno Unito ha scritto di aver sottostimato l’indebitamento a 5 anni di circa il 3,1% del Pil, ossia 100 miliardi di sterline (116 miliardi di euro) e il debito è vicino al 100% del Pil. La spesa per gli interessi supera i 150 miliardi di sterline l’anno, ben più dell’Italia, visto che un bond decennale inglese paga il 4,5% a fronte del 3,4% di un Btp. Eppure il premier Keir Starmer si è impegnato a raggiungere l’obiettivo di spesa per la difesa del 5%, senza avere idea di come finanziare gli almeno 30 miliardi di sterline aggiuntivi che servono ogni anno. Diversi osservatori prevedono che la manovra di autunno sarà pesante, con forti aumenti delle tasse. Se si tirerà dritto sulla strada del riarmo, inevitabilmente, arriveranno altri tagli al welfare. Un primo assaggio c’è già stato. Spostiamoci in Francia. Per ora il governo è stato estremamente vago sul modo con cui verranno finanziate le spese per la difesa. Parigi spende ogni anno per le armi circa il 2% del Pil (60 miliardi di euro). Per arrivare al 5% servono altri 90 miliardi di euro, ogni anno. L’Esecutivo francese, che ha fatto una grande fatica a racimolare 40 miliardi per far quadrare il bilancio del 2026, non sa dove sbattere la testa. Il debito è visto quasi al 120% nel 2026 e i titoli di Stato francesi rendono ormai quanto quelli italiani. Emmanuel Macron annuncerà il suo piano per le forze armate il 13 luglio ma difficilmente indicherà con precisione dove reperire le risorse. Il ministro della Difesa Sébastien Lecornu, ha affermato che il modo in cui si raggiungerà l’obiettivo dipende da “cosa viene incluso”. È vero che i governi europei stanno cercando di fare entrare nel capitolo “difesa” di tutto e di più (l’Italia vuole, ad esempio, infilarci pure il ponte sullo Stretto di Messina in quanto opera di valore strategico) ma, se così fosse, l’impegno Nato verrebbe semplicemente disatteso per altra via. “Più proiettili e meno previdenza sociale?”, si chiedeva qualche tempo fa il quotidiano Le Monde. Il primo ministro François Bayrou che ha assicurato che il riarmo del paese verrà effettuato “senza abbandonare nulla del modello sociale “. Ma politici, esperti e saggisti ritengono che le risorse aggiuntive per l’esercito porteranno ad una revisione delle regole dello stato sociale, ovviamente in senso restrittivo. In nessun paese sembrano esserci i presupposti per far digerire all’elettrato la necessità di lacrime e sangue per contrastare un non meglio precisato possibile invasore. Giova inoltre ricordare che, già oggi, gli stati Ue spendono in difesa oltre 360 miliardi di euro (il 30% in più del 2021). In valori assoluti è più del doppio del budget della Russia, anche in questi anni di spesa bellica schizzata per finanziare la guerra in Ucraina, ed è superiori agli stanziamenti cinesi (che sono però in progressivo aumento). È vero che ogni paese ha le sue priorità strategiche e che quindi la spesa si divide in tanti capitoli non coordinati tra loro, che la rendono meno efficiente in termini di contrasto ad una minaccia unica. È possibile che sia necessario uno sforzo, anche economico, per coordinare meglio le varie forze armate dei paesi che sono parte dell’alleanza. Questo però è diverso dall’inchiodare tutti i paesi membri a un livello di spesa insostenibile senza grandi sacrifici. Non è un segreto che la Ue speri anche che più investimenti in difesa abbiano anche un effetto di spinta sull’economia. Ma il “keynesismo militare”, storicamente, funziona poco e male e non è certo in grado di risolvere i problemi economici strutturali di un paese o un insieme di stati. I detenuti politici russi scrivono all’Europa: “Scambio di prigionieri per la pace in Ucraina” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 8 luglio 2025 La pace tra Ucraina e Russia passa attraverso lo scambio di prigionieri. Ne sono convinti alcuni dissidenti e oppositori politici russi in carcere, che hanno scritto una lettera diffusa dall’agenzia Reuters. Tra i firmatari l’avvocato Alexei Gorinov (si veda Il Dubbio del 15 febbraio 2024) e Alexander Shestun, ex amministratore pubblico finito in galera per essersi opposto al progetto di un impianto per lo smaltimento di rifiuti nel distretto di Serpukhov, non distante da Mosca (si veda Il Dubbio del 5 dicembre 2022). I dissidenti dietro le sbarre chiedono alla comunità internazionale, rivolgendosi a partire dai primi ministri e ai Capi di Stato dei Paesi europei, di effettuare immediatamente uno scambio di prigionieri di guerra e civili, secondo la formula “tutti per tutti”, compresi gli ostaggi civili ucraini. A ciò si aggiunge la richiesta di rilasciare immediatamente e incondizionatamente “i prigionieri politici malati che muoiono nelle carceri russe” e di “non restare in silenzio, non coprire attivamente sui media internazionali le attività dei cittadini russi che continuano a rischiare la vita nella lotta per la libertà e la democrazia”. Inoltre, si fa appello alla comunità internazionale affinché sostenga “la lotta dei cittadini russi” con “risoluzioni a nome dei parlamenti, delle associazioni politiche e dei partiti dei politici dei paesi democratici”. Il caso di Gorinov è emblematico. Deve scontare in totale dieci anni di carcere. È stato il primo cittadino russo condannato per il reato sui cosiddetti “falsi sull’esercito”. Nel 2022 criticò le forze armate di Mosca impegnate nell’invasione in Ucraina, utilizzando una parola ormai vietata in Russia: guerra. Tra i firmatari dell’appello c’è anche l’attivista per i diritti umani diciannovenne Darya Kozyreva, accusata di aver ripetutamente screditato le forze armate e condannata nella primavera scorsa a quasi tre anni di carcere dal tribunale di San Pietroburgo. “Siamo - scrivono i dissidenti nel loro appello almeno 10.000 tra prigionieri politici russi e ostaggi civili ucraini. Siamo tutti puniti per una cosa sola: aver preso una posizione chiara come liberi cittadini. Nella Russia di oggi sono assenti i concetti di giustizia ed equità. Chiunque osi pensare in modo critico può finire dietro le sbarre. In Russia non ci sono assoluzioni nei processi con al centro fatti di matrice politica. Le pene, sempre più pesanti, sono in aumento; nessuno si sorprende delle pene detentive a 10, 15 e 20 anni di galera. La Duma di Stato chiede regolarmente il ripristino della pena di morte. In precedenza, le possibilità che i processi politici venissero trattati in modo equo dai tribunali russi erano scarse, sono definitivamente scomparse dopo che la Russia si è rifiutata di conformarsi alle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2022”. Dal 2012, la legislazione repressiva voluta da Vladimir Putin, volta a sotterrare qualsiasi dissenso, è stata costantemente inasprita. Dal 2018 al 2022 sono state adottate almeno 50 leggi liberticide e dal 24 febbraio 2022 - giorno dell’aggressione militare ai danni dell’Ucraina - si è superata la soglia delle 60 leggi che reprimono il dissenso. “Le istituzioni per i diritti umani nella Russia moderna - aggiungono gli oppositori del boss Cremlino - sono state completamente sostituite da organismi che si limitano a imitare le attività a tutela dei diritti umani. Di conseguenza, la salute e la vita dei prigionieri politici sono a rischio. La tortura e le pressioni esercitate per estorcere delle confessioni sono diventate ormai la prassi. I prigionieri politici sono, rispetto ai detenuti comuni, sottoposti a condizioni carcerarie più dure e sono privati della possibilità della libertà condizionata e di allentamento del regime detentivo” . In tale contesto si aggiunge pure la possibilità, ormai molto frequente, di avviare ulteriori procedimenti penali sulla base di denunce di altri detenuti. Sergej Davidis, responsabile del progetto “Sostegno ai prigionieri politici” dell’organizzazione Memorial’, è convinto che solo attraverso un lavoro di sensibilizzazione della comunità internazionale si potrà giungere alla liberazione degli oppositori politici. Quasi un anno fa, ad agosto, la Russia scarcerò Oleg Orlov (cofondatore di Memorial), Vladimir Kara- Murza e Ilya Yashin. “La richiesta di rilascio dei prigionieri politici - dice Davidis -, nell’ambito di una risoluzione pacifica del conflitto armato tra Russia e Ucraina è stata a lungo ascoltata dalle comunità per i diritti umani e dalla comunità democratica russa. In particolare, il rilascio delle persone private della libertà in Russia per le loro posizioni o azioni contrarie alla guerra o filo- ucraine è uno dei punti della campagna “Prima il popolo”. Memorial si batte costantemente per il rilascio dei prigionieri politici da molti anni. E la lettera dei dissidenti, con l’autorevolezza che essi rappresentano, rafforza il lavoro che facciamo e la nostra posizione. Sosteniamo con convinzione l’appello degli oppositori politici ed esortiamo i media europei e non solo a diffondere tutte le notizie di questa iniziativa riguardante circa 10.000 prigionieri del regime”.