R-estate in cella di Gian Luigi Gatta sistemapenale.it, 7 luglio 2025 Prendo in prestito il titolo di questo editoriale da quello di una meritoria iniziativa sul tema del caldo in carcere organizzata a Monza dalle Camere penali del distretto di Milano, il prossimo 17 luglio. E muovo da una prima considerazione: Francesco Petrelli (Presidente Ucpi), Cesare Parodi (Presidente Anm) ed io eravamo stati facili profeti. In un articolo pubblicato un mese fa su Repubblica e ripreso sulle pagine della nostra Rivista, avevamo sottolineato l’urgenza di un intervento per ridurre il numero dei detenuti nelle nostre carceri, sovraffollate e teatro di frequenti suicidi. Nel farlo, avevamo così chiosato: “l’estate, periodo critico, è ormai alle porte”. Il caldo torrido è arrivato e sta provando tutti noi, in cerca di un luogo fresco per non boccheggiare. Pensate allora cosa vuol dire in questi giorni condividere locali sovraffollati di un carcere con altri detenuti, in condizioni igieniche sanitarie e strutturali spesso precarie, con temperature attorno ai quaranta gradi. I detenuti sono oltre 62.000. Sapete quanti sono i “posti regolarmente disponibili”, secondo i dati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale? Poco più di 46.000, mentre le “camere ad uso detentivo” sono meno di 32.000. L’indice di sovraffollamento (rapporto tra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili) è a livello nazionale del 133%. La nostra immagine è già compromessa sul piano internazionale: a maggio l’Olanda ha rifiutato l’estradizione in Italia di una persona in ragione delle condizioni inumane delle nostre carceri. Mentre il caldo scioglie l’asfalto delle strade, stiamo stipando persone in carceri che non hanno certo celle con l’aria condizionata. In una intervista all’Avvenire, pubblicata sabato 5 luglio, l’On. Roberto Giachetti ci presenta una fotografia che lascia senza parole: “Come parlamentare, sono stato in visita nel penitenziario Mammagialla di Viterbo. Sa cosa ho visto? Non avendo più posto, hanno trasformato in celle alcuni uffici, che non hanno finestre e neppure il bagno. Con 40 gradi, i detenuti stanno lì dentro. E quando gli scappa di urinare, debbono farla dentro bottiglie di plastica, che poi danno alla Polizia penitenziaria per farle svuotare. Ma ci rendiamo conto? Altro che attuare i precetti costituzionali, lì si sta violando la dignità umana”. Leggendo queste parole mi è tornata in mente la poesia di Primo Levi sui campi di concentramento e quel suo, durissimo, “considerate voi se questo è un uomo”. Intanto, nel silenzio generale che avvolge il carcere, luogo lontano dagli sguardi dei più, i suicidi continuano. Gli ultimi due a Vasto e a Sollicciano. Mentre nuove leggi promettono sempre più carcere (da ultimo, il decreto-sicurezza), la realtà ci dice, numeri alla mano, che non c’è proprio più posto in carcere; il carcere è una risorsa finita - in tutti i sensi. In gioco non ci sono solo numeri: ci sono persone, vite e diritti fondamentali che vanno tutelati anche se (e proprio perché) fanno capo a persone che, avendo commesso reati, sono limitate nell’esercizio di diritti e libertà. Aggressori che sono ora in posizione di debolezza, perché ristretti, e che sono custoditi sotto la responsabilità dello Stato e della società: quindi, di ciascuno di noi. Se non vogliamo una deriva della società e della civiltà del diritto nella quale viviamo, dobbiamo difendere i diritti dei detenuti e l’umanità della pena, enunciata nell’articolo 27 della Costituzione: “le pene non devono essere contrarie al senso di umanità”. Derive sono possibili, come mostra una notizia apparsa in settimana sui media: nell’inaugurare un centro per migranti in Florida, nelle paludi delle Everglades - c.d. Alligator Alcatraz - il Presidente Trump ha così cinicamente scherzato con il giornalista che lo intervistava: “insegneremo ai migranti come scappare da un alligatore se riescono a fuggire dalla prigione. Non correte in linea retta. Correte così”. E ha mosso la mano con un movimento a zigzag. “E sapete una cosa? Le vostre possibilità aumentano dell’1% circa”. Potremmo archiviare l’uscita come una battuta, una gag che starebbe bene in una puntata dei Simpson. Facendolo, però, rischieremmo di giustificare una narrazione della detenzione insensibile ai diritti umani, nella quale il surreale diventa reale. Per fortuna nel nostro Paese le parole del Presidente Mattarella, pronunciate in settimana incontrando al Quirinale il nuovo Capo del DAP e una delegazione della Polizia Penitenziaria, sono sideralmente lontane dalla retorica populistica trumpiana. Il Presidente Mattarella, dopo avere sottolineato la necessità di investire sul carcere - sulle strutture e sul personale - si è così espresso: “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale, sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente. Tutto questo deve essere fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione”. La Costituzione dovrebbe essere il faro dell’azione di Governo e Parlamento. Tuttavia, è passato esattamente un anno dal decreto “carcere sicuro”, che non ha in alcun modo migliorato le condizioni di detenzione. La ragionevole proposta del d.d.l. Giachetti di ridurre subito il numero dei detenuti facendo leva sulla liberazione anticipata (aumento retroattivo del numero di giorni di pena detratti per ogni semestre) non è stata approvata. Amnistia e indulto sono provvedimenti che la retorica del populismo penale ha da tempo messo al bando. Soluzioni pronte ed efficaci non se ne scorgono all’orizzonte. L’annunciata fornitura di 1000 congelatori ‘pozzetto’, da parte del Ministero, è qualcosa ma molto, molto poco. Come spegnere un vasto incendio con la pompa per irrigare il giardino di casa. Il Ministro Nordio ha parlato di espulsioni di stranieri: sono però state solo 463 nell’ultimo anno (dati del Garante nazionale) e sono notoriamente difficili da eseguire. Si lavora a piani di edilizia penitenziaria e alla realizzazione di strutture residenziali per determinate categorie di detenuti: interventi complessi, che richiedono tempo e investimenti, incapaci di rappresentare una concreta e pronta risposta a un’emergenza in corso. Si prospetta anche un’ulteriore riduzione del ricorso alla custodia in carcere: difficile però capire come questa proposta possa conciliarsi con la torsione punitiva nei confronti di fasce di criminalità comune che affolla ogni giorno le aule delle direttissime. Sarebbe interessante conoscere i dati relativi alla tipologia di reato oggetto dei procedimenti nei quali è ordinata la custodia in carcere. Sarebbe doveroso, per il Parlamento, esaminare quei dati prima di iniziare il discorso su una possibile riforma della custodia in cautelare. Verosimilmente si tratta per la gran parte di quegli stessi reati che destano allarme sociale, per prevenire e reprimere i quali si minacciano pene sempre più severe. Davvero si prospetta meno carcere preventivo anche per i destinatari del decreto sicurezza (borseggiatori e borseggiatrici, occupanti abusivi di immobili, spacciatori di cannabis light, rivoltosi in carcere, ecc.)? O - sia perdonato il cattivo pensiero - si pensa di limitare in qualche modo l’intervento ai colletti bianchi? Con quale legittimità, però, sul piano del principio di uguaglianza e con quale soluzione tecnica? Se ne può discutere, ma intanto fa caldo ora nelle celle affollate. Per questo la responsabilità di chi governa il sistema penitenziario richiede di intervenire subito. Se c’è un caso in cui la necessità e urgenza di intervenire (ravvisata per il decreto-sicurezza) è incontrovertibile è questo dell’emergenza carceri, ancor più con la calura di questi giorni. Ogni appello e atto di sensibilizzazione nel dibattito pubblico - compresi gli appelli di un detenuto noto come Gianni Alemanno, che proviene dal mondo della politica - è quanto mai opportuno e utile. È così anche per l’iniziativa delle Camere penali del distretto di Milano, che si svolgerà a Monza il 17 luglio. Portare una cella in piazza, facendo capire ai passanti cosa significa essere reclusi in condizioni di caldo e sovraffollamento, è un gesto di sensibilizzazione civile che richiama tutti al senso di umanità: un sentimento che non possiamo e non dobbiamo perdere e che, anzi, dobbiamo trasmettere alle future generazioni. Il carcere rovente di Alemanno e dei 62mila senza nome di Stefano Milani collettiva.it, 7 luglio 2025 E chi l’avrebbe mai detto: tocca ringraziare Gianni Alemanno, uno dei peggiori sindaci dai tempi di Nerone. E invece eccolo lì, recluso a Rebibbia, profeta del caldo assassino. Mentre 62mila corpi si dissolvono in celle-forno, lui annota la tragedia e, come per magia, i palazzi del potere si ricordano che dietro le sbarre c’è vita. Non bastavano i suicidi, i malori, i rapporti ignorati. Serviva un reduce da Campidoglio per fare audience. E per svegliare il torpore istituzionale. Così Fontana visita, La Russa si commuove, Nordio si agita. E agisce: va da MediaWorld e ordina mille congelatori a pozzetto. Uno ogni 62 condannati al disagio. Mentre il decreto “Carcere sicuro” resta ibernato, senza fondi, decreti attuativi né senso. Il vero miracolo però è l’eco mediatica: se la denuncia fosse arrivata da un tossico, un migrante, un senza fissa dimora, sarebbe finito nel cestino. Alemanno invece ha pedigree, visibilità, una storia. E allora la cella diventa breaking news. La pena si nobilita. Il disagio si fa share. La galera, per un attimo, smette di essere un buco nero per diventare contenuto da Tg1. Aspettiamo ora un bel ventilatore alla massima velocità per spazzare via il Decreto Sicurezza e il suo perverso Risiko penale. Reati a grappolo, manette a pioggia, celle colonizzate. Il sovraffollamento non è più effetto collaterale, ma piano regolatore della disumanità. E per chi non ci sta, c’è sempre l’obitorio. Senza condizionale. 124 decessi da inizio anno: 38 suicidi, 86 morti silenziose. Nessun minuto di silenzio, nessuno speciale in prima serata. La politica riposa, telecomando in mano, condizionatore a palla. Perché chi muore in carcere non disturba, non vota, non serve. E allora avanti. Refrigerati. Anestetizzati. Col sangue freddo e la coscienza in stand-by. Un altro suicidio in carcere: questa volta a Vasto. E sono 37 in sei mesi di Franco Insardà Il Dubbio, 7 luglio 2025 Crescono le denunce dei sindacati e dell’opposizione: Italia Viva e Azione accusano il governo di immobilismo e propaganda securitaria. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, venerdì ha visitato Rebibbia e chiesto interventi contro sovraffollamento e carenze di organico. Un altro suicidio dietro le sbarre. Un uomo di circa 40 anni, di origine magrebina, si è tolto la vita nella sua cella nella casa di lavoro di Vasto, in Abruzzo. Era detenuto nell’articolazione per la Tutela della salute mentale. È stato trovato impiccato, senza vita. Il bilancio è drammatico: 37 detenuti morti suicidi nei primi sei mesi dell’anno. A loro si aggiungono un recluso ammesso al lavoro esterno, uno ospitato in una Rems, e tre operatori penitenziari che si sono tolti la vita. È una vera e propria strage silenziosa. A lanciare l’allarme è Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria: “Il caldo record peggiora tutto, ma non è la causa. È solo il detonatore. I problemi sono altri, e sono vecchi”. A Vasto, i detenuti presenti sono 103, un numero non eccessivo. Ma il vero nodo è il personale. Servirebbero almeno 143 agenti. Ce ne sono solo 69. La struttura per la salute mentale dove si trovava il detenuto suicida, secondo De Fazio, “spesso resta scoperta, senza sorveglianza”. Anche il personale dell’area educativa, dice ancora il sindacato, non è sempre presente nei giorni feriali. “La Polizia penitenziaria è stremata. I turni possono durare anche 26 ore consecutive. È caporalato di Stato. Bisogna fermare tutto questo. Il ministro Nordio e il capo del Dap, de Michele, devono dare risposte concrete”, conclude De Fazio. E mentre si continua a morire, la politica prova a reagire. O almeno a guardare da vicino. A Genova, nel carcere di Marassi, ieri sono arrivati i parlamentari Maria Elena Boschi, Roberto Giachetti e Ivan Scalfarotto. Una visita ispettiva dopo il caso choc delle sevizie a un giovane detenuto, violentato e torturato da altri compagni di cella. “Abbiamo trovato un carcere in piena emergenza. Dentro ci sono 650 detenuti, ma la capienza è di circa 500. Fa un caldo insopportabile. E come in tutte le carceri italiane, mancano agenti”, si legge nella nota di Italia Viva. I parlamentari hanno parlato anche dell’effetto del nuovo Decreto Sicurezza. Le pene per le proteste dei detenuti rischiano di diventare più dure. Ma secondo Boschi, Giachetti e Scalfarotto, non è questo il punto: “Il sistema carcerario italiano è al collasso. E il governo resta immobile”. Secondo i tre esponenti di Italia Viva, “sarebbe bastata una misura semplice e di buonsenso: portare a 60 giorni ogni semestre la liberazione anticipata per i detenuti che si comportano bene. Ma il governo l’ha rifiutata”. Quella proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale di Roberto Giachetti e Nessuno Tocchi Caino che della quale si sono perse le tracce, dopo un ping pongo tra Aula e commissioni. Durissimo anche il commento di Osvaldo Napoli, della segreteria nazionale di Azione. “Nelle carceri si muore per il caldo, per la sporcizia, per mancanza d’igiene. Ma soprattutto si muore perché non c’è dignità”, attacca. Secondo Napoli, la responsabilità è chiara: “A Meloni e Nordio non interessa nulla dei 64mila detenuti che vivono in condizioni disumane. Le carceri italiane ospitano il 40-45% in più di quanto potrebbero. Sono diventate discariche di umanità, luoghi di miseria e abbandono”. E ancora: “Il governo ha deciso che nessun atto di clemenza è possibile, nemmeno ora che persino il Presidente della Repubblica ha lanciato un appello. Una vergogna. Ma per Meloni e Nordio il senso della vergogna è un concetto smarrito”. Un altro segnale, più istituzionale, è arrivato venerdì da Roma. Il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ha visitato il carcere di Rebibbia. È stato accolto dalla direttrice, Maria Donata Iannantuono, e da una delegazione della Polizia penitenziaria. Ha incontrato anche alcuni detenuti, tra cui l’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno. “Volevo essere qui per dimostrare vicinanza a chi lavora in queste strutture. Sono professionisti che ogni giorno garantiscono la sicurezza, ma anche la speranza”, ha detto Fontana. Il presidente della Camera ha ricordato la seduta straordinaria tenuta a marzo proprio sul tema carcerario. “Dobbiamo affrontare problemi storici: sovraffollamento e carenza d’organico. Solo così miglioreremo le condizioni sia dei detenuti che del personale”, ha affermato. Un discorso istituzionale, lontano dai toni accesi dell’opposizione. Ma che conferma, ancora una volta, che il tema delle carceri è esplosivo. Non solo per chi ci vive, ma per l’intero Paese. Intanto, dentro si continua a morire in silenzio. Senza clamore. Con un cappio al collo o con una lametta. Si muore per il caldo, per la solitudine, per la disperazione. Si muore perché si è invisibili. E mentre il dibattito politico si divide tra ideologia e retorica, la realtà delle celle resta la stessa: sovraffollate, bollenti, dimenticate. Suicidi in carcere, l’indifferenza continua di Francesco Lo Piccolo vocididentro.it, 7 luglio 2025 Il suicidio nel carcere di Vasto (39mo dall’inizio dell’anno) è l’ennesima dimostrazione di un sistema che porta le persone alla disperazione. Un sistema che genera morte. Pur considerando che i suicidi sono fatti che attengono a problematiche personali, quando avvengono mentre la persona è nelle mani dello Stato, allora non si possono più definire suicidi. Troppo comodo deresponsabilizzarsi scaricando il problema alla “vittima”. Il carcere è invivibile, pura sofferenza. Oggi, non sentirsi addosso la responsabilità dei suicidi in carcere è la cosa più orribile che possa capitare a questa nostra umanità. Purtroppo oggi ci accompagna solo l’indifferenza. L’uomo, magrebino di circa 40 anni, era arrivato a Vasto 20 giorni fa. Aveva problemi di natura psichica e si trovava presso l’Articolazione per la Tutela della Salute Mentale. Era nel reparto comuni dell’Istituto di Torre Sinello che ospita 103 persone compresi circa 50 internati in misura di sicurezza in base a una legge del 1930, vecchio retaggio illiberale del codice Rocco, dentro di proroga in proroga spesso perché senza una residenza fissa. Una pena senza fine. Un orrore come detto lo stesso arcivescovo Bruno Forte, “una istituzione che offende la Costituzione e che dovrebbe far vergognare una democrazia”. L’istituto di Vasto ha 197 posti. Nessun sovraffollamento, al contrario stanzoni e sezioni vuote. Personale comunque insufficiente: al lavoro ogni giorno una cinquantina di agenti di polizia penitenziaria (ma vanno considerate ferie, malattia e altro) su 95 previsti in pianta organica. Spesso sono costretti a fare anche tre turni di seguito. Di notte nei tre piani dell’istituto capita che ci siano solo cinque agenti, quando va bene. Educatori 4 anziché 5 come previsto. Sotto organico anche il personale medico, psicologi e psichiatri e questo pur di fronte a una popolazione detenuta molto problematica, con malattie mentali e psichiatriche anche gravi, con dipendenze di vario tipo (droga e alcol). Secondo i dati di Antigone, in una delle ultime rilevazioni era emerso che a Vasto c’erano 22 persone con psicosi, 38 con gravi disturbi della personalità, 25 sofferenti di depressione, 5 con diagnosi di disturbo bipolare. L’istituto è molto grande, uno spreco e una contraddizione allo stesso tempo. Sottoutilizzato se pensiamo al problema del sovraffollamento: a Pescara i posti sono poco più di 250 e i detenuti sono a quota 401 (dato di qualche giorno fa), a Chieti i detenuti sono 147 i posti 79. E a Vasto, ripetiamolo, 100 detenuti per 197 posti. Ma anche altre le contraddizioni: c’è un laboratorio sartoria, con macchine industriali nuove di zecca per trenta lavoratori, in realtà ci lavorano - e non tutti i giorni - meno di 10 detenuti; anni fa sono state realizzate anche delle serre: potrebbero lavorarci una ventina e più di detenuti, ci lavorano solo due persone, un comune e un internato. Inutilizzata anche la birreria: c’è un avviso pubblico per la sua gestione, ma non si avvia nulla. Tornando agli internati sono tutte persone con molte problematiche, gran parte fra i 50 e i 60 anni, ma ci sono anche persone di oltre settant’anni. E 12 di questi hanno invalidità al 100 per cento e li hanno mandati in una “casa lavoro”. Luoghi inutili, luoghi di morte. Queste sono le carceri in Italia. Uccide di più il carcere, che la mafia di Marco Marelli La Regione, 7 luglio 2025 Uccide di più il carcere che la criminalità organizzata. Calcolando solo i suicidi, e soltanto quelli dei detenuti (si tolgono la vita anche le guardie carcerarie), nel 2024 il carcere in Italia ne ha uccisi 91 (35 nei primi quattro mesi di quest’anno), mentre gli omicidi della criminalità organizzata nel 2024 sono stati 15. Negli ultimi dieci anni nelle carceri italiane si sono suicidati 661 detenuti, mentre gli omicidi firmati dalla mafia sono stati 331. Con il passare degli anni i primi sono cresciuti in modo verticale, i secondi sono crollati. Nei giorni scorsi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha lanciato un forte richiamo alla politica affermando che siamo in presenza di “una vera e propria emergenza sociale, sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. A conferma della considerazione di Mattarella quanto sta scritto nell’ultimo rapporto di Antigone, l’Associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale dei detenuti: “L’Italia si colloca ben al di sopra della media per quanto riguarda i suicidi: l’ultimo dato del Consiglio d’Europa dice che nelle carceri italiane il tasso dei suicidi era più del doppio della media europea: 15 casi ogni 10mila detenuti, a fronte di una media del 7,2 casi”. Fra le carceri-polveriera c’è il Bassone di Como, dove nel 2024 si sono tolti la vita tre detenuti. Due i suicidi nei primi mesi di quest’anno. Il tragico bilancio sarebbe stato ancora più drammatico se gli agenti di Polizia penitenziaria non avessero sventato trenta suicidi. Suicidi e tentati suicidi al Bassone sono la drammatica punta di un iceberg di cui si parla da anni, che peggiora con il passare del tempo. Cominciando dal sovraffollamento che continua a essere una delle principali problematiche del sistema penitenziario italiano. Al 30 giugno scorso i detenuti nelle carceri italiani erano 62’727 a fronte di 46’717 posti disponibili, per cui la media nazionale di affollamento è del 134,27%. Al Bassone attualmente i detenuti sono 454, quando ne dovrebbe ospitare 226 (il carcere lariano è sul primo gradino di un podio per nulla positivo, con un tasso di sovraffollamento del 202%). “Operazioni sotto copertura nelle carceri”. In arrivo un nuovo servizio segreto penitenziario? di Francesca Moriero fanpage.it, 7 luglio 2025 Potrebbe essere alle porte la creazione di un servizio segreto penitenziario, con agenti sotto copertura e identità fittizie all’interno delle carceri. Un progetto riservato, che solleva interrogativi su diritti, trasparenza e giustizia. Potrebbe essere ormai pronto un decreto che, sotto il nome di “operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari”, darebbe vita a un nuovo e inedito servizio segreto interno alle carceri italiane. Il testo circolerebbe già negli uffici del ministero della Giustizia e sarebbe destinato ad approdare a Palazzo Chigi nelle prossime settimane. La misura, fortemente voluta dal sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, esponente di Fratelli d’Italia, avrebbe l’obiettivo dichiarato di rafforzare la sicurezza interna alle carceri. Ma il contenuto lascia intravedere molto di più: per la prima volta, alcuni agenti della polizia penitenziaria potrebbero operare come veri e propri agenti segreti. Infiltrati tra i detenuti, magari simulando un’identità fittizia, per raccogliere informazioni su traffici, dinamiche criminali, legami con l’esterno. Il cuore della proposta consisterebbe nell’estendere alla Polizia penitenziaria le prerogative previste dall’articolo 9 della legge 146 del 2006, che recepisce la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato. In base a questa norma, sono ammesse operazioni sotto copertura, uso di identità coperte e l’esenzione da responsabilità penale per gli agenti coinvolti, purché le autorità giudiziarie, in particolare i pubblici ministeri, siano previamente informate. A quel punto si aprirebbe la possibilità concreta che, in futuro, nelle celle delle carceri italiane si trovino agenti “in incognito”, detenuti fittizi, con il compito di ottenere notizie dai compagni di cella. Un’ipotesi estrema, mai citata espressamente nel decreto, ma che rientrerebbe nelle logiche operative che lo stesso testo parrebbe abilitare; una prospettiva dunque, che, inevitabilmente, solleva dubbi sul rispetto dei diritti dei detenuti, sulla trasparenza delle indagini e sul controllo democratico di questi poteri. Non si tratterebbe solo di nuove competenze investigative: il decreto prevedrebbe anche una riorganizzazione interna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), con l’istituzione di un secondo vicecapo accanto a quello attualmente previsto. Una posizione chiave, che resterebbe di esclusiva competenza della Polizia penitenziaria. Secondo le indiscrezioni, il nome già circolerebbe: Augusto Zaccariello, vicedirettore generale del Personale del Dap, ex comandante del Nucleo investigativo centrale (Nic) e del Gom, con alle spalle una lunga carriera nelle carceri. Il messaggio politico appare chiaro: dare più potere alla cosiddetta “quarta forza di polizia”, rendendola protagonista non solo dell’ordine interno, ma anche dell’intelligence penitenziaria. Ombre dal passato: ritorna il fantasma del “Protocollo Farfalla” - La proposta arriva in un momento delicato: nei giorni scorsi la procura di Caltanissetta ha disposto perquisizioni nelle abitazioni dell’ex procuratore Gianni Tinebra, nell’ambito di un’indagine che ipotizza collegamenti con ambienti massonici. Un nome, quello di Tinebra, legato anche al controverso “Protocollo Farfalla”, un accordo riservato del 2004 tra il Dap e il Sisde (l’allora servizio segreto civile), che prevedeva uno scambio di informazioni provenienti dai detenuti sottoposti al regime del 41-bis, senza passare dalle procure. Allora si parlò di una collaborazione tra intelligence e amministrazione penitenziaria, ufficialmente finalizzata alla lotta alla criminalità organizzata, ma fortemente criticata per l’opacità e per i rischi di deviazione dal controllo giudiziario. Ecco, forse, perché l’idea di un nuovo “servizio segreto penitenziario” non può non evocare quei precedenti. Anche se con strumenti formalmente legali, la creazione di una rete di agenti sotto copertura nelle carceri riapre interrogativi antichi: fino a che punto è legittimo spingersi nella raccolta di informazioni? Chi controlla i controllori? E soprattutto: come si garantisce il rispetto dei diritti umani in un luogo già segnato da sofferenze, abusi e fragilità? Una riforma nel silenzio - Il fatto che una simile trasformazione dell’intelligence carceraria possa avvenire per decreto, e dunque senza un ampio dibattito parlamentare, pare un ulteriore elemento di preoccupazione. L’opinione pubblica sembra ne sappia ancora molto poco, e lo stesso mondo della giustizia sembra essere stato colto di sorpresa. In un sistema penitenziario segnato da sovraffollamento, suicidi in aumento e tensioni costanti, la risposta delle istituzioni sembra andare nella direzione del controllo e dell’inasprimento, più che della cura e della giustizia riparativa. E l’idea che lo Stato debba combattere l’illegalità usando strumenti da spia, anche tra le mura del carcere, lascia una domanda aperta: chi tutela i più vulnerabili, quando anche i confini tra polizia e intelligence diventano sfumati? Carceri, una storia pakistana di immigrazione e di giustizia, anche se a scoppio ritardato di Imran Faisal La Repubblica, 7 luglio 2025 La vicenda in gran parte emblematica di un giovane finito per caso nelle maglie della giustizia in Grecia e con strascichi fino alla Cassazione italiana. Dal sito di Nessuno Tocchi Caino riportiamo questa lettera di un detenuto pakistano, che racconta la sua storia di immigrato, oggi rinchiuso nel carcere di Bollate. Faccio parte di una famiglia pakistana numerosa. Sono il terz’ultimo di sette figli. Ho quattro sorelle e due fratelli. Il più grande dei miei fratelli aiutava mio padre ad accudire il pascolo. I terreni non erano di proprietà di mio padre, ma venivano presi in affitto. Verso la fine del 1999 Tasadiq, il mio fratello maggiore, lascia il Pakistan, rimane per tre anni in Grecia, e poi raggiunge l’Italia, dove ancora vive. Così decido di aiutare mio padre nei campi, quindi studio e lavoro, fino a quando, dopo il 2004, mio padre si ammala a causa dell’uso di prodotti chimici e di fertilizzanti che gli rovinano gli occhi. Sono quindi costretto a lasciare la scuola per dedicarmi totalmente al lavoro nei campi e con gli animali. L’abbandono delle terre, il viaggio a piedi in Grecia e il rimpatrio in Pakistan. Ma dopo pochi anni i proprietari delle terre iniziano a far costruire case e a ridurre le terre da destinare a pascolo. Non vedendo un futuro in Pakistan, ho cercato di raggiungere la Grecia attraversando l’Iran a piedi, ma sono stato arrestato e imprigionato in un carcere militare per una settimana, e poi rispedito in Pakistan. Ci riprovo: 6mila euro per attraversare Iran, Turchia e Grecia. Dopo venti giorni ho riprovato ad attraversare l’Iran a piedi e in macchina, sotto la guida di trafficanti che avevo pagato. Per attraversare l’Iran ho pagato duemila euro, la stessa somma per attraversare la Turchia e la Grecia. Il viaggio è durato 23 giorni, e ho dormito sulle montagne, nei campi e nelle stalle. Arrivato a Tino, in Grecia, sono andato a dormire nella casa di un amico di mio padre. C’erano sei persone e io mi occupavo di cucinare e pulire per tutti perché non conoscevo la lingua e non avevo un lavoro. Non trovando lavoro sono andato a Rodi, avevo in tasca 75 euro e ho dormito per tre giorni nei parchi; poi, un pakistano, che ho poi scoperto essere un trafficante, mi ha ospitato in una casa con altri suoi complici. Per stare lì dovevo pagare con i soldi che avrei avuto una volta trovato lavoro. Il lavoro a Rodi e l’arresto per favoreggiamento dell’immigrazione. Quando ho trovato lavoro come imbianchino, avrei voluto lasciare la casa gestita da quelle persone, ma Rodi è piccola ed era sotto il controllo delle stesse persone che mi ospitavano. Un giorno mi hanno chiesto di andare a prendere al porto un pakistano che era appena arrivato da Tino. Tornato a casa dopo il lavoro, sono stato arrestato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rilasciato dopo quattro giorni. Per un mese siamo stati sottoposti a fermo obbligatorio; dopo, i veri trafficanti sono scappati, io invece sono rimasto perché pensavo che non ci fossero più problemi. Un parente del mio datore di lavoro mi ha offerto una mansarda dove vivere perché apprezzava il mio lavoro. L’incontro con una italiana in Grecia, il matrimonio e la partenza per l’Italia. A Rodi incontro una donna italiana di nome Veronica, ci innamoriamo e ci sposiamo. Dopo un anno, dopo aver ottenuto il visto, partiamo per l’Italia. Sono arrivato in Italia alla fine del 2011. In Italia ho trovato lavoro come giardiniere. Prima lavoravo in nero e poi, nel 2017, sono stato messo in regola. Alla fine del 2017 ho chiesto la cittadinanza italiana, mi hanno chiesto la fedina penale e in quel frangente ho scoperto che il processo era andato avanti e nel 2022 mi hanno arrestato anche se per un solo giorno. Tornato in libertà ho continuato a lavorare in attesa della pronuncia della Cassazione. Il 19 giugno 2024 è arrivata la sentenza definitiva della Cassazione e sono stato arrestato. Fino ad allora abitavo a Saronno con mia moglie, che nel 2022 ha subito un grave danno a una gamba a causa di un incidente automobilistico. In Italia l’incontro con persone che mi hanno accolto. Di recente ho ottenuto il trasferimento dal Carcere di Opera al Carcere di Bollate, più favorevole per mia moglie per venire a colloquio. La mia unica ragione di vita è mia moglie Veronica. Io so di essere una buona persona e spero di poter ottenere quanto prima i benefici di legge che mi permettano di starle vicino. In Italia ho trovato persone che mi hanno accolto, sono stato apprezzato e valorizzato nel mio lavoro, soprattutto nella cooperativa Ozanam che mi ha assunto. L’incontro con una cooperativa e con Gianluca. Ho sperimentato con i miei compagni di lavoro la forza di lavorare in squadra fidandosi l’uno dell’altro. Importante è stato il ruolo di Gianluca, il mio responsabile del lavoro, dal quale ho imparato tanto. E poi, quando arrivavo stanco dal lavoro c’era mia moglie, che mi incoraggiava a buttare il cuore oltre l’ostacolo e sognare di diventare italiano. Veronica mi ha preso per mano e mi ha fatto affrontare tutto con la forza dell’amore. Dai precari ai processi sempre lunghi: le questioni aperte della giustizia di Nicola Colaianni La Repubblica, 7 luglio 2025 La manifestazione di protesta dei precari addetti all’ufficio del processo davanti al tribunale di Bari ha evidenziato il rischio di un ulteriore aggravamento della condizione critica della giustizia. Le cronache narrano di processi penali che non vedranno il 2026 perché rinviati all’inverno del 2027. Del resto, un processo non complicato, essendovi delle videoriprese, come quello per le aggressioni di carattere fascista imputate ad esponenti di Casa Pound, risalenti al settembre 2018, andrà a sentenza solo il 30 ottobre: dopo sette anni. Il ritardo della giustizia è poi proverbiale nel settore civile, dando luogo a situazioni anche paradossali. Per dire, il Comune di Bari ha appena richiesto il pagamento dell’IMU agli eredi del teatro Petruzzelli, riconosciuti come proprietari dell’immobile da una sentenza della Corte di appello ma privi del possesso. Finora perciò se n’era astenuto, avendo fatto del resto ricorso per cassazione nel 2021. Ma, visto che ancora non si sa quando verrà fissata l’udienza, ha deciso di rompere gli indugi. Il ritardo dei processi civili è di estrema gravità perché non di rado induce chi ritenga di aver subito un torto ad accedere a transazioni al ribasso con l’avversario più forte (è quel che spesso accade nelle cause di lavoro, cioè del bene fra tutti fondativo della Repubblica secondo la Costituzione) o addirittura a rinunciare a far causa (quando non a rivolgersi a poteri mafiosi). È un po’ come per le lunghe liste di attesa negli ospedali, per cui alcuni (il 6,8 per cento secondo i calcoli della Fondazione Gimbe) rinunciano alle cure. Tuttavia, nelle cause civili la sofferenza provocata dal ritardo può essere in qualche modo lenita dal risarcimento economico per equivalente e talvolta addirittura in forma specifica. Viceversa, i ritardi del processo penale feriscono la dignità della persona stessa, che una sentenza, di condanna o proscioglimento, intervenuta dopo lunghi anni potrà risarcire solo superficialmente e non intimamente nella personalità violata, nella coscienza e nella reputazione. Ma la consapevolezza dei ritardi della giustizia penale produce anche una distorsione dello stesso processo, che finisce per concentrarsi nella fase delle indagini preliminari. Quella cioè in cui la cognizione dei fatti è necessariamente sommaria, dominata com’è dall’impostazione accusatoria del pubblico ministero e non ancora pienamente integrata dal contraddittorio con la difesa dell’imputato. Visto che le sentenze impiegano anche più di una decina di anni per diventare definitive la spinta è ad una giustizia anticipata, anche se approssimativa e non immune talvolta da sviste altrimenti inconcepibili (vedi a Bari di recente l’interdizione cautelare di un sindaco contro l’espresso disposto di una risaputa norma processuale). Ciò accade specialmente in quei processi che hanno risonanza mediatica e sono, quindi, più assiduamente seguiti, e per dir così controllati, dall’opinione pubblica. A risentirne sono le vittime del reato, quando non vengano adottate opportune misure cautelari nei confronti degli indagati, e, più spesso, gli imputati. Se l’ordinanza cautelare o di rinvio a giudizio di fatto tiene luogo della sentenza, che arriverà alle calende greche, si finisce per motivare come se l’imputato fosse già colpevole, rovesciando la presunzione costituzionale di non colpevolezza. Il governo per un verso gira attorno al problema del ritardo della giustizia, dedicandosi ad inconcludenti riforme costituzionali (separazione delle carriere, sorteggi dei componenti CSM, ecc.). Per altro verso pesca nel torbido, introducendo - come con il decreto sicurezza - nuove fattispecie penali, al posto di quelle amministrative, o aggravamenti di pena che provocheranno nuovi processi, con prevedibili sospensioni per questioni di costituzionalità, e insomma l’effetto di allungare ulteriormente la già insopportabile durata attuale dei processi. La “prontezza e dolcezza delle pene”, teorizzata dal padre del diritto penale liberale Cesare Beccaria come criterio di una efficace ed efficiente giustizia penale, è sostituita così, secondo una concezione autoritaria della democrazia, da una selva di norme sproporzionate e aggravanti il ritardo della giustizia. Giustizia e voyeurismo: un vizio molto italiano di Alessandro Numini* progetto-radici.it, 7 luglio 2025 In Italia, la giustizia non si consuma più solo nelle aule dei tribunali, ma anche, e sempre più spesso, nei salotti televisivi, sui social network e nelle prime pagine dei quotidiani. Quello che dovrebbe essere un principio sacrosanto dello Stato di diritto, la presunzione di innocenza, rischia quotidianamente di essere calpestato da un sistema dell’informazione che, tra fretta, sensazionalismo e audience, diventa giudice e giuria ben prima che lo faccia un tribunale. Basta un’indagine aperta, una perquisizione, o anche solo un avviso di garanzia, perché un cittadino venga trasformato in colpevole agli occhi dell’opinione pubblica. L’effetto è devastante: il nome, il volto, la casa, il passato, le abitudini dell’indagato vengono sezionati in diretta. La narrazione si costruisce con elementi suggestivi, spesso marginali, ma utili a creare un colpevole “vendibile”. Nel momento in cui scatta la macchina mediatica, il processo vero perde rilevanza. Poco importa se l’indagine è in fase preliminare, se i fatti sono ancora da accertare, se la persona sarà magari assolta con formula piena anni dopo. L’importante è la notizia, possibilmente “nera” e pronta per essere consumata. Ciò che alimenta questa dinamica non è solo l’interesse per la giustizia, ma una forma di voyeurismo giudiziario tutto italiano, dove cronaca e intrattenimento si fondono senza soluzione di continuità. Alcuni programmi televisivi costruiscono vere e proprie saghe su casi ancora aperti, con opinionisti, criminologi da salotto e talk show che oscillano tra fiction e realtà. Il dolore delle vittime e la privacy degli indagati diventano materiale narrativo, da sviscerare e commentare come un reality. È una deriva che coinvolge anche i social, dove la polarizzazione esaspera i toni: da un lato chi chiede “giustizia subito”, dall’altro chi grida al complotto. Nel mezzo, spesso, la verità processuale soccombe sotto il peso della verità percepita. Il danno che ne consegue è doppio: per chi viene accusato ingiustamente, e vede la propria vita rovinata ben prima di una sentenza definitiva, ma anche per le stesse vittime, spesso strumentalizzate o dimenticate una volta finito il clamore. A farne le spese, in definitiva, è la credibilità della giustizia stessa, sempre più delegittimata da un racconto distorto e urlato. La direttiva europea 2016/343 ha ribadito con forza il diritto dell’imputato a non essere trattato come colpevole fino a condanna definitiva. Anche l’Italia, nel recepire la direttiva, ha cercato di mettere un freno agli abusi, ma nella prassi quotidiana le norme restano troppo spesso lettera morta. Il compito dell’informazione non è quello di sostituirsi ai giudici, ma di raccontare i fatti con rigore, equilibrio e rispetto per i diritti di tutti. L’informazione ha il potere di orientare l’opinione pubblica, ma anche la responsabilità di non alimentare un clima da gogna, che trasforma la giustizia in un circo. Il processo mediatico non è giustizia: è spettacolo. E in uno Stato di diritto, la giustizia non dovrebbe mai trasformarsi in un format televisivo. Tornare a rispettare il principio della presunzione di innocenza non è solo una questione giuridica, ma una sfida culturale. Una sfida che riguarda tutti: media, cittadini e istituzioni. *Avvocato Lazio. Diritti dei detenuti, la Giunta regionale riorganizza i servizi sanitari rainews.it, 7 luglio 2025 Verrà potenziato il supporto alle singole Asl, sul cui territorio sono presenti istituti penitenziari. Su iniziativa del presidente Francesco Rocca, la giunta regionale ha approvato il documento sulla “Riorganizzazione dei servizi sanitari in ambito penitenziario nel Lazio”, che mira a potenziare il supporto alle singole Asl, sul cui territorio sia presente uno o più istituti detentivi. Lo scopo è quello di ad assicurare l’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, riabilitazione e cure per le persone recluse nelle carceri. “La salute è un diritto fondamentale - ha dichiarato il presidente Rocca - che appartiene a ogni persona, senza distinzione”. Rocca si è poi riferito alle recenti parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Ci hanno ricordato con grande lucidità che il sovraffollamento delle carceri e l’emergenza dei suicidi rappresentano una vera urgenza sociale. La detenzione non può essere solo custodia, ma deve rispondere alla finalità rieducativa sancita dall’articolo 27 della nostra Costituzione. In cosa consiste la riorganizzazione - Verrà ridefinita la programmazione, l’organizzazione e il monitoraggio degli standard minimi di offerta sanitaria in merito a: assistenza di medicina di base e continuità assistenziale, assistenza specialistica, servizio di accoglienza, interventi di prevenzione con particolare attenzione alle popolazioni vulnerabili, assistenza per la tutela della salute mentale e per i disturbi correlati a sostanze ed addiction, screening. Si tratta di un lavoro congiunto che la Regione Lazio ha portato avanti in stretta collaborazione con le istituzioni sanitarie, penitenziarie e giudiziarie del Lazio, e che delinea la programmazione regionale dei Servizi di sanità penitenziaria, partendo dalla definizione dei percorsi diagnostici terapeutici specificatamente dedicati alla popolazione detenuta (Livelli essenziali di assistenza). La necessità di avviare una riorganizzazione del sistema dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario è stata da subito una priorità della giunta Rocca, anche in considerazione dei dati dell’Osservatorio regionale sulla Sanità penitenziaria che vedono il Lazio come quarta regione per numero di detenuti (preceduta da Lombardia, Campania e Sicilia) con un tasso nettamente superiore al 100 per cento della capienza degli Istituti penitenziari. Nel Lazio sono presenti 14 Istituti penitenziari, costituiti da 3 Case di reclusione, 11 Case circondariali, di cui una femminile, che ospitano un totale di circa 6.800 detenuti, di cui il 37 per cento stranieri (32 per cento a livello nazionale) e con punte superiori al 50 per cento negli Istituti di Regina Coeli e di Rieti. Piemonte. Muffe, scarafaggi e infiltrazioni, le carceri nel mirino delle Asl di Giada Lo Porto La Repubblica, 7 luglio 2025 Tra le situazioni peggiori quella del Lorusso e Cutugno con locali inagibili e un sovraffollamento che raggiunge il 160%. Gli spazi vitali angusti, gli scarafaggi in cella e nelle aree comuni, rumori costanti, disagio e alienazione, prigioni bollenti e inabitabili, muffe e infiltrazioni ovunque. La scarsa igiene, la convivenza con altri corpi che hanno esigenze e abitudini differenti. I pasti consumati sul letto, a volte per terra. L’associazione Luca Coscioni rende pubbliche le relazioni delle Asl sugli istituti penitenziari, tra il 2023 e il 2024. Le aziende in alcuni casi hanno inviato le relazioni, in altri (come Biella) no. I documenti, ottenuti con un accesso civico, costituiscono un primo passo per fare luce sulle condizioni - spesso opache - delle carceri. Una delle situazioni peggiori si ha al Lorusso e Cutugno di Torino dove il sovraffollamento sfiora il 160% in alcuni padiglioni. La struttura presenza “carenze gravi” con muffe, infiltrazioni, locali inagibili e mancanza di accessi per disabili. In una sezione, la situazione è definita di “inabitabilità, con possibile chiusura dell’area per motivi igienico-sanitari”. Secondo l’ultimo dossier presentato a fine anno dal garante regionale Bruno Mellano assieme ai garanti comunali di Torino, Ivrea, Cuneo e Vercelli, le carceri piemontesi ospitano 620 detenuti in più rispetto ai posti effettivamente disponibili. Ad Alessandria i pasti vengono consumati in cella, in ambienti privi di aerazione forzata e con acqua fredda nei servizi. Nella sezione collaboratori di giustizia viene segnalata la presenza di scarafaggi. “Le criticità segnalate in passato - scrive l’Asl - risultano in gran parte irrisolte”. Nell’istituto penitenziario di Asti ci sono servizi igienici non funzionanti e uno stoccaggio “inadeguato dei farmaci”. Ad Alba parte della struttura è chiusa da anni a causa di un cluster di legionellosi, ma ci sono anche “inadeguatezze nei locali della mensa e la mancanza di presidi antincendio in alcune aree”. Per quanto riguarda Cuneo, Saluzzo e Fossano presentano alcuni locali comuni degradati, pareti scrostate, intonaco danneggiato. Si legge nella relazione: “Cattiva gestione dei rifiuti, usura delle pavimentazioni, carenze igienico-sanitarie e strutturali persistenti”. Sul carcere di Biella l’Asl dichiara di aver chiesto una valutazione alla Regione Piemonte, senza aver ancora ricevuto risposta. Ma ci sono strutture messe un po’ meglio: è il caso del carcere di Novara dove le condizioni igienico-sanitarie sono state valutate positivamente, con criticità limitate “al consumo dei pasti in cella e al sovraffollamento”: qui ci sono 171 detenuti su 158 posti. Anche a Verbania si continua a parlare di “persistente sovraffollamento”. A Vercelli ci sono 303 detenuti su una capienza effettiva di 227. A Ivrea, c’è la necessità di una pulizia straordinaria. Piemonte. Carceri sovraffollate e roventi e manca il Garante dei diritti dei detenuti di Stefano Rizzi lospiffero.com, 7 luglio 2025 Dopo la fine del mandato di Mellano il Consiglio regionale non ha ancora nominato il successore. A quattro mesi dalla chiusura del bando nessun segnale da Palazzo Lascaris. Lettera aperta dei Radicali a Cirio e ai consiglieri. L’ombra di Delmastro sull’impasse? Il caldo torrido, ormai, è più di un’emergenza nelle sovraffollate carceri italiane. In quello di Bollate sono stati superati i 40 gradi e l’Ordine degli avvocati milanese ha lanciato la campagna “Aria d’umanità”, iniziativa con la quale vengono donati i ventilatori agli istituti penitenziari della città. In Piemonte, invece, faceva ancora freddo quando il consiglio regionale avrebbe dovuto nominare il nuovo garante dei detenuti dopo la fine del secondo mandato non rinnovabili di Bruno Mellano. Il 13 febbraio era stato pubblicato il bando, il 17 del mese successivo le numerose candidature erano state depositate, ma nulla a Palazzo Lascaris si è mosso. Nessun passo da parte della maggioranza, nessun sollecito dalle opposizioni, almeno a quanto risulta dopo quattro mesi. “Eppure, tale nomina sarebbe di grande significato politico e di grande utilità pratica in un contesto carcerario, piemontese e in generale italiano, caratterizzato ogni giorno da violenze, suicidi, atti di autolesionismo, disperazione, le cui vittime non sono solo i detenuti bensì tutti coloro che vivono o lavorano in carcere, a partire dagli agenti di polizia penitenziaria”, osservano i coordinatori dell’associazione radicale Adelaida Aglietta nella lettera aperta indirizzata al presidente della Regione Alberto Cirio e ai consiglieri regionali. Enea Lombardozzi, Samuele Moccia e Giovanni Oteri nell’appello al vertice della Regione ricordano che “solo pochi giorni fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, proprio in occasione della festa del corpo di polizia penitenziaria, ha evidenziato per l’ennesima volta la necessità di interventi urgenti per attenuare il sovraffollamento carcerario. Esponenti politici molto lontani dal nostro sentire quali il presidente del Senato Ignazio La Russa e l’ex ministro Gianni Alemanno si sono espressi chiaramente a favore di un provvedimento di clemenza”. Ma ricordano pure a Cirio che “inaugurando la “Passeggiata Marco Pannella”, il 21 settembre 2024, si era impegnato pubblicamente a visitare le carceri di Torino. Gli chiediamo - scrivono i radicali - non solo di mantenere la promessa ma di andare oltre. Sarebbe quanto mai utile se potesse effettuare entro fine anno la visita di tutti gli istituti piemontesi, magari in compagnia sia del nuovo sia del vecchio Garante, per un prezioso passaggio di consegne”. Prima, però, c’è da nominarlo il nuovo Garante, recuperando l’incomprensibile ritardo e magari fugando quelle voci che rimandano l’impasse all’influenza che il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro di Fratelli d’Italia avrebbe sul suo partito in Regione e magari pure sugli alleati in merito a questa nomina. Vasto (Ch). Detenuto con fragilità psichiche si suicida nella Casa di lavoro ansa.it, 7 luglio 2025 Un detenuto 40enne di origine magrebina, con problemi di natura psichica e per questo da qualche giorno allocato presso l’Articolazione per la Tutela della Salute Mentale, è stato ritrovato impiccato nella sua cella a Vasto. Secondo Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa polizia penitenziaria “sale così a 37 (più uno ammesso al lavoro all’esterno e un altro in una Rems) la tragica conta dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere 3 operatori. Una strage infinita, sulla quale incide anche il caldo record di questi giorni, ma che è solo il detonatore di numerosissimi altri problemi atavici”. Il sindaco Menna chiede risposte - Il sindaco di Vasto, Francesco Menna, commenta la tragedia avvenuta nei giorni scorsi nel carcere cittadino, dove un detenuto con problemi di salute mentale si è tolto la vita in cella. “La morte di una persona con fragilità psichiche nella Casa di lavoro di Vasto è un fatto gravissimo che ci addolora profondamente”. Così il sindaco di Vasto, Francesco Menna, commenta la tragedia avvenuta nei giorni scorsi nel carcere cittadino, dove un detenuto con problemi di salute mentale si è tolto la vita in cella. Il primo cittadino ha espresso “cordoglio alla famiglia” della vittima e “massima solidarietà agli agenti e al personale, costretti da anni a lavorare in condizioni insostenibili”. Una situazione di abbandono e degrado strutturale più volte denunciata, anche attraverso iniziative congiunte con i sindacati e associazioni del settore. “Ricordo - ha sottolineato Menna - il percorso condiviso negli anni passati con le organizzazioni sindacali e con chi, a vario titolo, si è impegnato per richiamare l’attenzione su questa realtà afflitta da varie problematiche”. Secondo il sindaco, “il carcere di Vasto è abbandonato. Servono risposte concrete: uomini e risorse. Lo Stato non può più voltarsi dall’altra parte”. L’appello è dunque a un intervento urgente da parte delle istituzioni competenti per garantire condizioni di lavoro dignitose al personale e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone ristrette, soprattutto le più fragili. Vigevano (Pv). Ex detenuto denuncia le condizioni del carcere: “Ho visto un 19enne darsi fuoco” di Giulia Ghirardi fanpage.it, 7 luglio 2025 Quasi 50 detenuti del Carcere di Vigevano hanno denunciato le condizioni degradanti che esistono all’interno dell’Istituto. Da qui è nata una denuncia “per violazione dei diritti fondamentali” contro il carcere e un’interrogazione parlamentare di Marco Lacarra (Pd). Per dar seguito a tutto questo, un ex detenuto ha raccontato la sua esperienza all’interno del carcere: “Un manicomio, un luogo dove la gente muore”. “Chi meglio di me può dire la verità? Ho vissuto dentro quel posto difficilissimo e ce l’ho fatta, ma in quelle condizioni le persone si suicidano e siccome sono prima di tutto esseri umani è giusto che io racconti quello che succede davvero sperando che possa diventare un posto migliore”. A parlare a Fanpage.it è Marco (nome di fantasia), ex detenuto del carcere di Vigevano che ha deciso di denunciare le condizioni disumane che esistono all’interno dell’Istituto. Già a metà giugno tali condizioni erano state denunciate da 50 detenuti della 5ª sezione della Casa di Reclusione di Vigevano attraverso una lettera di reclamo che, però, “era stata aperta e letta dalla Direzione nonostante fosse indirizzata a me e al Magistrato di Sorveglianza”, aveva spiegato a Fanpage.it Guendalina Chiesi, avvocata e vicepresidente dell’associazione Quei Bravi Ragazzi Family che hanno segnalato la violazione. “In più, a seguito di tale lettera, tutti i firmatari sarebbero stati convocati a uno a uno dalla Comandante di Reparto, in quello che appare come un tentativo intimidatorio e ritorsivo, in violazione dei diritti di libertà d’espressione, riservatezza e tutela contro trattamenti vessatori”, aveva aggiunto l’avvocata a Fanpage.it. “Un fatto gravissimo” che l’Associazione ha denunciato formalmente presso la Procura di Pavia proprio per segnalare “le gravi violazioni dei diritti fondamentali dei 50 detenuti”. Ma non è finita qui. Perché la questione è finita in Parlamento grazie all’Onorevole Marco Lacarra, Deputato alla Camera del Partito Democratico, che ha confermato a Fanpage.it di aver presentato un’interrogazione parlamentare sulle condizioni dei detenuti della 5° sezione di Vigevano. “Se non si può manifestare senza temere ritorsioni, come si può pensare di compiere un percorso di reintroduzione sociale?”, ha commentato sul caso l’Onorevole. “Servono condizioni di civiltà e di rispetto dell’umanità”. Così, per dar seguito e concretezza a tutto questo, Marco ha deciso di denunciare a Fanpage.it le condizioni disumane che ha vissuto e che, come testimonia la lettera, ancora esistono all’interno dell’Istituto. Un luogo che Marco descrive come “un manicomio, un luogo dove la gente muore”. L’arrivo di Marco al carcere di Vigevano: “Un manicomio” - “La mia carcerazione è partita nel 2016. Da allora ho cambiato vari istituti fino a che nel 2022 mi sono ritrovato nel carcere di Rossano (Cosenza). È allora che ho ricevuto una brutta notizia: una persona a me cara aveva gravi problemi di salute. Ho chiesto un trasferimento al nord per starle vicino e sono arrivato al carcere di Vigevano. Era novembre 2022”, così Marco ha iniziato a raccontare la propria storia a Fanpage.it. “Non appena sono arrivato, ho subito avuto l’impressione che fosse un posto dove le cose non funzionassero bene. La prima cosa che mi è saltata all’occhio è stata la poca pulizia e il troppo casino. Si capiva subito di star entrando in un manicomio”, ha continuato. “Sono stato portato nella mia cella: una stanza vuota. Dentro c’erano soltanto un tavolino, una sedia e due brande. Non c’era neanche il cuscino o la carta igienica. Fortunatamente gli altri detenuti mi hanno dato una mano, mi hanno dato del cibo perché quando sono arrivato il carrello era già passato, altrimenti non avrei neanche mangiato”. Il primo avvertimento: “Stai attento, dormi con le calze” - “Non appena sono arrivato in carcere alcuni detenuti mi hanno detto: ‘Stai attento alla sera, dormi con le calze’. All’inizio non lo sapevo, poi ho capito: l’Istituto era pieno di zecche. Quando sono andato a dormire, a luci spente, le ho viste che camminavano sui muri, erano tantissime. Non ho dormito, hanno iniziato a pizzicarmi tutto il corpo”, ha raccontato Marco a Fanpage.it. “La mattina dopo sono andato a segnalare la cosa, ma mi hanno risposto: ‘Qua è così’. Lo sapevano e nessuno faceva niente”. “Per difenderci da questa situazione eravamo costretti ad appoggiare i materassi contro il muro, facevamo decine di lavaggi, ma non serviva a niente. Le zecche entravano anche nel cibo, negli armadietti. Eravamo costretti a chiudere i vestiti dentro buste di plastica e sperare che non venissero infestati. Ho ricordi traumatici, non riuscivo a dormire. Era una sofferenza. Sentivo le zecche nelle orecchie, nelle mani, nei piedi. Erano tantissime. E noi eravamo costretti a dormire in lenzuola sporche di sangue”, ha aggiunto Marco. “Il rischio più grande era che poi rischiavamo di attaccarle anche ai nostri familiari durante i colloqui, in case dove c’erano dei bambini. Per questo c’era così tanta rabbia”. Sono due, in particolare, i “ricordi traumatici” che Marco non dimenticherà mai. “C’era un anziano, malato di cuore, che era talmente esausto della situazione che ha iniziato a fare lo sciopero della fame. Quella è stata la prima volta che ci hanno dato attenzione e hanno imbiancato la sezione, ma non è servito perché tempo qualche giorno e sono tornate”, ha concluso Marco. “Poi c’era un ragazzo che è stato morso così tante volte che non voleva più dormire nel letto, mi diceva: ‘Sono stanco, sto impazzendo’. E alla fine, per disperazione, è diventato dipendente dagli psicofarmaci. Questo fa capire la disperazione che c’era là dentro”. I farmaci? “Vengono distribuiti dentro una garza” - Ormai da anni, viene denunciato l’abuso di psicofarmaci all’interno degli istituti penitenziari italiani. A Fanpage.it, Marco ha raccontato la sua esperienza. “I farmaci venivano distribuiti dal cancello principale della sezione. Era bruttissimo, non c’era privacy: tutti sapevano le terapie di tutti. In più, le medicine non venivano distribuite dentro le confezioni, ma chiuse dentro una garza e, in fin dei conti, non sapevi davvero cosa ti stavano dando”, ha continuato a spiegare Marco a Fanpage.it. “Non solo, distribuivano i farmaci affidandosi alla memoria, senza controllare. Così succedeva che qualcuno prendesse la terapia di un altro e il reale destinatario rimaneva senza”. “Mi ricordo perfettamente cos’è successo a un ragazzo di soli 19 anni. Era mattina, c’era il cancello principale aperto perché l’infermiere stava distribuendo le terapie in sezione. Questo ragazzo era dipendente dagli psicofarmaci, era distrutto. Quel giorno si è dato fuoco davanti al cancello della sezione. Istintivamente, come fosse mio figlio, gli ho strappato il giubbotto che era in fiamme altrimenti non so come sarebbe finita”, ha ricordato Marco. “Queste immagini le ho fisse in mente e non se ne andranno mai”. “All’interno delle celle c’è muffa e i muri cadono a pezzi. Il bagno è piccolissimo, più piccolo di quello che c’è in aereo. Il lavandino è un buco dove ci si lava, ma serve anche per lavare le pentole. L’acqua calda non esiste. Quindi d’inverno ci si lava con l’acqua fredda”, ha spiegato Marco per descrivere le condizioni igienico-sanitarie che ha vissuto in cella e, più in generale, nel carcere di Vigevano. “Vogliamo parlare delle docce? Sono 6 per 50 detenuti. Sono fatiscenti, non esce acqua, o, se lo fa, è troppo calda e ti ustioni per lavarti”, ha continuato. “Le docce vengono utilizzate anche per lavare: c’è chi si lava i vestiti, chi i piatti, chi lava le scope, chi gli stracci. Perché non c’è acqua calda dentro le celle. È uno schifo. Ricordo che c’è stato un periodo durante il quale pioveva delle docce del piano di sopra. Ci pioveva in testa lo scarico delle altre docce”. “Oltre a questo spesso c’erano i vetri rotti, si trovavano feci in giro”, ha concluso sul tema. “Ancora, le finestre erano arrugginite, piegate, distrutte. Entrava freddo da tutte le parti. C’erano delle stanze dove i detenuti mettevano il cartone per non far entrare l’aria fredda”. La saletta per la socialità: “Come bestie in un recinto” “La saletta serve come momento di ricreazione tra noi detenuti”, ha raccontato ancora Marco a Fanpage.it. “Può essere usata in vari modi: per giocare a carte, fare un po’ di palestra, anche per tagliare i capelli perché non c’è un parrucchiere all’interno del carcere. Perciò ovviamente è pieno di peli. C’è anche chi cucina. Il problema è che è uno spazio di 5 metri per 4 per 50 detenuti. Ci sono quattro tavoli, ma non ci sono sedie. Non ci si può muovere. Ci chiudevano lì dentro e ci abbandonavano. Ci sentivamo come delle bestie dentro un recinto. Sei chiuso nel chiuso”. “Non c’era neanche il bagno”, ha aggiunto Marco. “Se avevi bisogno di andarci dovevi bussare e urlare, sperando che qualcuno ti sentisse. A volte aspettavamo a lungo perché non c’era abbastanza personale. Eravamo completamente abbandonati a noi stessi”. Come spesso denunciato, in Italia esiste una carenza di personale sanitario, di psicologi ed educatori all’interno delle carceri italiane. Questo ovviamente ha gravi ripercussioni sui detenuti e spesso è causa di suicidi o tentati suicidi, come testimoniato anche dal Report dell’Associazione Antigone di maggio 2025 nel quale la Lombardia emerge essere tra le Regioni con la maggiore carenza di personale e più suicidi in carcere. Purtroppo, di tutto questo il carcere di Vigevano non sembra essere esente. “C’era chi aveva bisogno di supporto psicologico, di un educatore, e non ce n’erano. Questo ha gravi ripercussioni. Personalmente ho assistito a due tentati suicidi. Il ragazzo di 19 anni che si è dato fuoco e un altro ragazzo: lo abbiamo trovato a terra, si era fatto un cappio a terra in bagno”, ha riferito Marco a Fanpage.it. “Ma quasi tutti i giorni si sentiva raccontare di detenuti che tentavano il suicidio. Questa cosa di tagliarsi per morire è impressionante. Ho girato tantissimi carceri, ma solo lì ho visto queste cose, solo a Vigevano. È l’ambiente che c’è lì che porta a fare gesti estremi per avere qualcosa che dovrebbe essere normale. E così vedi tanti ragazzi che si tagliavano per delle “banalità”. “Questa è una tragedia”, ha detto ancora Marco. “E una delle cause è proprio la mancanza del supporto psicologico. Molte volte in cui l’ho chiesto io, non mi hanno neanche risposto. E da questo punto di vista ero anche un “privilegiato” perché sono arrivato per un ricongiungimento con una persona cara che oggi non c’è più, non per un cattivo comportamento. E mi sentivo in colpa quando mi veniva concessa un’attenzione in più, mi faceva sentire male. Non era giusto”. Marco ci ha poi raccontato che, prima di entrare in carcere, ha fatto uso di sostanze di stupefacenti e per questo era seguito dal Sert anche durante la sua permanenza nell’istituto penitenziario di Vigevano. Ha spiegato che per un lungo periodo non avrebbe visto la dottoressa: “Dopo mesi che non vedevo la dottoressa sono andato in infermeria dove c’era la sua collega per chiederle il motivo di tale attesa. Lei ha guardato il registro dove c’era scritto che ero stato lì 15 giorni prima, ma non era vero. Segnavo degli incontri che io non avevo mai fatto”, ha detto. “Chi meglio di me può dire la verità? Lo faccio per gli altri detenuti” - “Se oggi ho deciso di raccontare lo faccio perché ho vissuto la tragedia di quel carcere lì sulla mia pelle. I carceri sono tutti brutti, ma questo lo è in modo particolare. Quindi ho pensato: Chi meglio di me può dire la verità?”, ha concluso Marco a Fanpage.it. “Sono un essere umano, ho sbagliato, ho pagato, ma l’ho fatto in malo modo. Nonostante questo ce l’ho fatta, ma in quella situazione le persone si suicidano e per questo è giusto che io racconti quello che succede in quel carcere. Quello che vorrei sottolineare è che il problema è sempre alla testa. Quando è arrivata la nuova direttrice pensavamo che la situazione sarebbe migliorata, ma così non è stato, anzi, l’amministrazione è peggiorata, è diventata un manicomio. Io ho avuto la fortuna di avere delle persone vicino che mi volevano bene. E questo mi ha dato la forza per andare avanti e avere dei sogni, degli obiettivi. Il problema è che in carcere è pieno di persone sole. Esseri umani che si suicidano per le condizioni disumane nelle quali sono abbandonati. Io ho raccontato la verità per loro, sperando che quel posto possa diventare un luogo migliore”. Già quando aveva pubblicato la lettera scritta dai detenuti, Fanpage.it aveva chiamato più volte la Direzione del carcere e non aveva mai ricevuto risposta. Dopo aver raccolto la testimonianza di Marco, abbiamo provato a chiamare e abbiamo inviato una mail alla direttrice per avere una risposta alle parole rilasciate dal nostro intervistato. Non abbiamo mai avuto modo di parlare al telefono con la direttrice: non ci ha mai risposto per mail e non siamo mai stati ricontattati pur lasciando i nostri riferimenti. Roma. Tiziano e la meningite presa in carcere: “Ora è salvo, ma non sappiamo dove curarlo” di Valentina Petrini La Stampa, 7 luglio 2025 La sorella: “Non troviamo posto per la riabilitazione”. E denuncia il penitenziario: “Ci dica come si è contagiato”. Tiziano Paloni, il detenuto in attesa di giudizio dal 16 dicembre 2024 nella casa circondariale di Regina Coeli e che il 7 aprile scorso fu portato d’urgenza in ospedale a causa di una meningite da neisseria meningitidis in fase avanzata, ce l’ha fatta. È uscito dal coma e venerdì scorso la sua famiglia ha quindi deciso di presentare una denuncia in cui chiedono alla Procura della Repubblica di far luce sul suo contagio. Tiziano è arrivato la mattina del 7 aprile all’istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani già in coma. Il 12 aprile vi avevamo raccontato la sua storia e pubblicato un toccante appello video della madre e della sorella. “Non vogliamo accusare nessuno, solo domande. Perché abbiamo saputo del ricovero di Tiziano ore dopo e non da autorità carcerarie o ospedaliere, ma dalla sorella di un altro detenuto? Perché quando abbiamo chiamato il carcere ci hanno risposto: “Tiziano Paloni è a Regina Coeli”? Si è sentito male all’improvviso? Aveva manifestato sintomi prima? Vogliamo risposte”. Il 7 aprile 2025 Tiziano da Regina Coeli viene portato prima al pronto soccorso dell’ospedale Santo Spirito e poi, vista la diagnosi, trasferito d’urgenza allo Spallanzani. ““Mi hanno portato Tiziano già in coma. Non siamo certi ce la farà”. La dottoressa di turno quel giorno ci ha accolto così, con le lacrime agli occhi”, ricorda la sorella Valentina. Tiziano Paloni è un detenuto come tanti in istituti penitenziari al collasso: oltre 61.000 carcerati per una capienza di 51.000 posti. Ben 44 suicidi dall’inizio dell’anno, strutture fatiscenti, personale ridotto all’osso. La decisione di mamma Anna e papà Mario di presentare una denuncia è maturata in questi tre mesi difficili anche perché la famiglia ha acquisito due testimonianze che vorrebbero fossero verificate dalle autorità competenti. Una lettera di un detenuto sempre di Regina Coeli. L’abbiamo letta. Questi alcuni stralci: “Venerdì 4 aprile (ndr quindi tre giorni prima del ricovero) non ho visto Tiziano nell’ora d’aria e questo mi è parso strano perché mi aveva detto che lui usciva anche se faceva freddo. Sono andato da un suo compagno di cella e mi ha detto che Tiziano stava a letto, male male e non riusciva ad alzarsi”. Il detenuto chiede il permesso di salire nella cella dell’amico. Glielo concedono: “Gli avevano dato una branda più comoda. Mi rispondeva a stenti. Poi ho visto un po’ sul corpo, braccia e gambe, delle vene come scoppiate, chiazze rosse, ed era stanchissimo”. Poi continua: “Domenica mattina (ndr, 6 aprile) speravo di vederlo a messa, invece non c’era”. La mattina del 7 aprile: “Girava voce in carcere che c’era stato un caso di ricovero ospedaliero per meningite”. Era Tiziano. La seconda testimonianza è quella della sorella di un altro detenuto: “Mio fratello mi ha detto che Tiziano non parla più, si è fatto anche la pipì sotto”. Insomma: “Cosa è accaduto a mio figlio tra il 4 e il 7 aprile?”. Mamma Anna spera che a rispondere definitivamente sarà un’indagine della Procura. La direzione del carcere di Regina Coeli, ha però già precisato via pec al legale Fabio Harakati che Tiziano “ai primi sintomi è stato trasportato d’urgenza presso l’ospedale Santo Spirito e nella stessa giornata trasferito presso l’ospedale Spallanzani”, escludendo quindi categoricamente che ci fossero stati ritardi nella sua presa in carico. Perché non è sufficiente questo chiarimento? È l’avvocato che risponde: “Il carteggio documentale e il parere medico legale acquisito alla luce del diario clinico di Regina Coeli e delle quattro relazioni mediche dell’ospedale, secondo noi hanno consentito di rilevare che Tiziano - cito testualmente - “a partire dal 5 aprile 2025 alle ore 19:50, ha presentato sintomi di malessere generale e cefalea. Il 6 aprile, alle ore 11:08, si è aggiunto un elemento clinico di massima rilevanza diagnostica quale la comparsa di petecchie diffuse su tutto il corpo, segno fortemente suggestivo e indicativo di una meningite in corso”“. Il parere medico legale di cui parla Harakati è allegato alla denuncia così come il resto della documentazione. La senatrice Ilaria Cucchi ha presentato un’interrogazione parlamentare. Ora però c’è un’altra emergenza: “Tiziano è ancora in terapia intensiva in attesa di essere trasferito in un’altra struttura idonea per iniziare la riabilitazione psico-fisica-motoria - spiega Valentina - ma da circa un mese e mezzo non si riesce a trovare un posto che lo accolga. Sappiamo che i lunghi tempi d’attesa nel pubblico sono un disagio che vivono molti italiani e non solo Tiziano. Siamo però molto preoccupati”. Prato. Emergenza carcere, “Lavoro lì da 40 anni. Servono impegni concreti” di Maristella Carbonin La Nazione, 7 luglio 2025 Giovanni Mosca giovedì conclude l’incarico in Comune. Tornerà a lavorare come contabile nell’istituto penitenziario. A politica e industria dice: “Occasione mancata. Non c’è stata la lungimiranza di attuare un percorso di vero reinserimento lavorativo, di creare posti per i detenuti”. “Nessuno, a sinistra e a destra, è riuscito a capire davvero l’emergenza del carcere. Carenza di personale di polizia penitenziaria, di personale educativo, la mancanza di una stabilità dei vertici di comando: i problemi della Dogaia non sono certo di oggi. In questi anni solo effimere promesse, solo parole di circostanze. Solo passerelle, con il personale e i detenuti abbandonati a problemi ormai endemici”. Giovanni Mosca, reduce dall’avventura come delegato speciale alle frazioni nell’amministrazione Bugetti (incaricato che, essendo fiduciario, decadrà il 10 luglio quando le dimissioni della sindaca diventeranno effettive), è uno che la Dogaia la conosce da vicino: lì per quarant’anni ha prestato servizio ininterrotto come funzionario contabile, lavoro pronto a riprendere appena si sarà lasciato alle spalle l’incarico comunale. Parla del carcere come di un figlio a cui vuole bene, Mosca: la Dogaia, e non solo ora con le inchieste della procura, ha bisogno di più attenzione, dice. E di fatti. Tra le battaglie degli anni passati quella di un parcheggio per i dipendenti del carcere, parcheggio che ancora manca, così come una fermata dell’autobus. “Quella del carcere è una realtà che ha saputo convivere con il territorio, radicata nel tessuto sociale e culturale di una frazione come Maliseti. Una realtà sterminata: ha una superficie di 10 campi di calcio”. Mosca, che è stato anche consigliere comunale dal 1999 al 2004 e per 10 anni ex presidente della circoscrizione Ovest (dal 2004 al 2014), torna all’apertura della Dogaia. Era il 1986. “C’era molta paura tra i cittadini, facemmo una miriade di riunioni pubbliche per tranquillizzare la popolazione. La paura, ad esempio, era che i familiari dei detenuti si stabilizzassero a Maliseti e creassero problemi di ordine pubblico come succedeva a quei tempi a Sollicciano. L’idea di aprire una casa Circondariale a Prato, città industriale era quella di dare un lavoro e una prospettiva di nuova vita ai detenuti con l’impegno degli industriali, con spazi immensi per laboratorio di nuove attività industriali”. Un’idea mai decollata. “Non c’è stata la lungimiranza di attuare un percorso di vero reinserimento lavorativo, di creare posti di lavoro per i detenuti. Eppure era una grande intuizione, ma gli industriali non ci hanno mai creduto”. E poi la politica, destra o sinistra non fa differenza, “che negli anni è stata solo capace di effimere promesse e passarelle, solo per raccattare qualche voto”. La Dogaia in queste settimane è nell’occhio del ciclone per le indagini della procura partite nel luglio dell’anno scorso e culminate nella maxi perquisizione del 28 giugno. “Chi ha sbagliato pagherà - sintetizza Mosca - ma ci sono tante persone che lavorano con grande abnegazione e senso del dovere, nella legalità e responsabilità. Quello che si chiede alle istituzioni, alla politica, è di avere a cuore una realtà complessa e difficile come Prato, con impegni concreti affinché chi ci lavora possa farlo con serenità e tranquillità, con organici adeguati. E a chi sta scontando una pena va garantita dignità e rispetto della persona. Questo deve essere un impegno di tutti. Non bisogna buttare la chiave, ma dare sempre una speranza a chi ha commesso un grave delitto: che possa ritornare nella società da un uomo diverso, rieducato alla vita sociale”. Vercelli. “Infermeria del carcere in situazione critica: occorre intervenire” di Andrea Borasio vercellinotizie.it, 7 luglio 2025 Il Sindaco e il Direttore Generale dell’Asl visitano la casa circondariale di Billiemme. Nella mattina di martedì 1 luglio, il Sindaco, Avv. Roberto Scheda, insieme al Direttore Generale dell’Asl, dott. Marco Ricci, ha visitato la Casa Circondariale di Vercelli. Accompagnati dalla Direttrice Sanitaria dell’ASL, dott. Tiziana Ferraris, e dal Garante Regionale dei detenuti, On. Bruno Mellano, i due rappresentanti hanno esaminato la critica situazione dell’Area Infermeria del carcere. Durante la visita, il Sindaco e il Direttore Generale dell’ASL hanno discusso con i responsabili dell’Area Medica, il Direttore del carcere Giovanni Rempiccia, e il Comandante Luca De Santis riguardo allo stato della medicina penitenziaria. La situazione dell’Infermeria è stata oggetto di preoccupazione da anni, con problemi strutturali segnalati nei Dossier annuali presentati dal Garante regionale Mellano. Questi documenti hanno evidenziato le criticità strutturali delle carceri piemontesi, richiamando l’attenzione delle amministrazioni penitenziarie a livello regionale e nazionale. L’attuale Area sanitaria è insufficiente e inadeguata, con locali datati e soggetti a frequenti perdite d’acqua e rigurgiti di liquami. Inoltre, la sua posizione è in una zona di continuo viavai di detenuti, compromettendo la tranquillità e la sicurezza del personale sanitario. Nel 2024, si sono registrate 32 segnalazioni di detenuti in stato di agitazione che hanno aggredito verbalmente il personale. È stata individuata una nuova locazione per l’Area sanitaria, più ampia, riservata e periferica, che garantirebbe maggior sicurezza e tranquillità. Questa nuova area permetterebbe all’ASL e all’Amministrazione di dotare la struttura di strumentazione avanzata, riducendo il numero di trasferimenti tra il carcere e l’ospedale per visite ed esami. L’iniziativa rappresenta un passo importante verso un sistema penitenziario più umano e sicuro, garantendo che anche i cittadini detenuti abbiano accesso a cure sanitarie adeguate. Bergamo. Troppi detenuti, pochi fondi. A rischio le iniziative di recupero di Michele Andreucci Il Giorno, 7 luglio 2025 Per la prima volta in quarant’anni l’associazione che si occupa di dar loro una seconda opportunità chiede aiuto per poter seguire nell’attività. Un carcere in sofferenza. È sempre più difficile la situazione della casa circondariale di Bergamo. Mentre l’istituto di pena vive il momento di peggior sovraffollamento della sua storia - si viaggia stabilmente vicini ai 600 reclusi contro i 319 posti disponibili -, soffre di una grave crisi economica Carcere e Territorio, l’associazione che da oltre 40 anni opera in via Gleno per costruire la seconda opportunità di chi sta pagando il proprio debito con la giustizia. Dopo aver attivato 77 tirocini lavorativi per i detenuti nei primi sei mesi del 2025, per un valore pari a 151.500 euro (di cui 79.975 finanziati da enti o aziende che hanno ospitato i reclusi), ora l’orizzonte è buio a causa di diverse motivazioni: l’aumento dei detenuti e perciò dei bisogni, fino alla conclusione di alcuni bandi, in primis uno legato a Cassa Ammende e dunque al ministero della Giustizia, mettono a rischio l’attività della seconda parte del 2025. Servirebbero, stima l’associazione, altri 50mila euro per dare continuità alle iniziative e allargare il numero dei beneficiari. Sono almeno 28 i detenuti che potrebbero accedere a misure alternative se si trovasse un contesto lavorativo, ma il cui iter è appunto vincolato ai fondi da reperire a stretto giro. Per questo l’associazione Carcere e Territorio lancia una vera e propria raccolta fondi, “tassativamente finalizzata al sostegno delle borse lavoro”. È stato messo a disposizione un Iban (IT74L0538752480000042605981) intestato all’associazione, con possibilità di deducibilità fiscale. “È la prima volta che facciamo un appello di questo tipo - spiegano Fausto Gritti, Gino Gelmi, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’associazione -, non rivolto alle fondazioni o agli enti pubblici, ma alla cittadinanza intera. È in gioco una responsabilità collettiva”. “Siamo di fronte a un dramma e non possiamo chiudere gli occhi - spiega Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti oltre che presidente onoraria di Carcere e Territorio, che per fronteggiare il continuo sovraffollamento del carcere invoca l’adozione delle cosiddette misure alternative -. Sono la strada da percorrere per provare ad allentare una morsa ormai opprimente e per fare inclusione sociale, prevenendo la recidiva criminale”. Milano. Al carcere minorile Beccaria un imam contro traumi e solitudine di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 7 luglio 2025 “Meno muri, più ponti. Un aiuto per reinserire i detenuti”. Nuova figura nel carcere minorile. L’obiettivo è offrire ai ragazzi uno spazio per rileggere la frattura dentro una cornice spirituale che parli la loro lingua e riconosca ciò da cui provengono. Accanto a chi frequenta i laboratori, studia e costruisce il proprio recupero, al Beccaria ci sono gli altri. Quelli che si chiudono nel silenzio, hanno scatti d’ira, si tagliano, pregano sottovoce in cella. Per loro la solitudine non è un’assenza: è una lingua sconosciuta. Nelle ultime due settimane una nuova ondata di arresti, i detenuti sono risaliti a 77. Cinquanta sono musulmani, molti minori stranieri non accompagnati. Hanno attraversato deserti, mari, confini, e sono crollati qui: nel luogo in cui tutto doveva ricominciare. “Sono in burnout - raccontano gli operatori - come se avessero bruciato l’adolescenza senza viverla”. Frammentati, traumatizzati, spesso privi di strumenti per rileggere ciò che è accaduto, portano addosso una colpa muta. E il carcere, invece di riparare, rischia di amplificare quel silenzio. In questo scenario arriva l’imam Abdullah Tchina, già attivo nella comunità di Sesto San Giovanni. Lavorerà accanto ai cappellani don Claudio Burgio (leggi l’intervista) e don Gino Rigoldi, che da tempo ne auspicavano la presenza, con l’idea di costruire una figura religiosa che non divida, ma accompagni il recupero e il reinserimento. Messa alla domenica, preghiera musulmana al venerdì, momenti comuni. L’obiettivo è offrire ai ragazzi uno spazio per rileggere la frattura dentro una cornice spirituale che parli la loro lingua e riconosca ciò da cui provengono: più radici, più parola, meno rabbia. Il protocollo, promosso dal Tribunale per i Minorenni con la presidente Maria Carla Gatto e firmato da Procura, Centro Giustizia Minorile, Ipm e rappresentanti delle due fedi, è stato autorizzato dai ministeri della Giustizia e dell’Interno. Il modello non è nuovo: esiste da anni in Germania, Francia, Inghilterra, Olanda. I numeri dicono il resto. Nel 2024 al Beccaria sono transitati 297 giovani, il 78% stranieri, l’87% da Paesi a maggioranza islamica. I Msna detenuti sono triplicati in due anni, da 37 a 113. Crescono anche i reati sotto i 14 anni, soprattutto rapine: ragazzi non imputabili, ma già nel radar della giustizia. Per molti, delinquere è diventato l’unico modo per dire: esisto e sopravvivo. “La questione non riguarda solo la religione - osserva Gatto - ma il bisogno di identità, appartenenza, significato”. Meno muri, più ponti. È un cambio di passo. Non si tratta di “islamizzare” la struttura, ma di umanizzare un ambiente che per molti giovani riflette il peggio della marginalità. Verbania. La Banda biscotti raddoppia il laboratorio: farà lavorare dieci detenuti di Cristina Pastore La Stampa, 7 luglio 2025 Il biscottificio al momento produce circa 250 chili al giorno: “Qui la pena detentiva si trasforma davvero in rieducazione”. Si è ingrandito il biscottificio che dà un’opportunità di reinserimento sociale ai detenuti del carcere di Verbania. Il progetto “Banda biscotti”, nato nel 2006 grazie alla cooperativa “Divieto di sosta”, poi confluita nella coop Il Sogno, dal 2012 ha il laboratorio alla scuola di polizia penitenziaria “Salvatore Rap” di Pallanza. “Eravamo al primo piano in una situazione logistica non funzionale: ora grazie a un finanziamento del ministero della Giustizia e un contributo di Fondazione Crt, per un totale di 350 mila euro, abbiamo più spazio e una migliore organizzazione al piano terra” spiega Alice Brignone, responsabile del progetto Banda biscotti. Nel laboratorio in cui lavorano sei detenuti si producono 250 chili di biscotti al giorno e 3 mila tra panettoni e colombe all’anno. “Adesso potremo ampliare la produzione: abbiamo a disposizione un secondo forno e un locale dove possono lavorare insieme anche in dieci” aggiunge Brignone sottolineando il valore di questa esperienza: “Sta sì nell’imparare un mestiere, ma soprattutto nell’assumersi un impegno e rispettarlo: apre un percorso verso la responsabilizzazione che rientra nella missione rieducativa della pena detentiva”. Con la presentazione del nuovo biscottificio, benedetto dal cappellano del carcere don Giovanni Antoniazzi, la direttrice della casa circondariale Claudio Piscione ha ringraziato i tanti - volontari, personale del carcere e dell’istituto Rap - che collaborano per consentire ai detenuti di trovare occasioni di rivincita. “Opportunità come queste abbattono il rischio di ricaduta delinquenziale. Dei 20 mila detenuti a cui in Italia si offre la possibilità di riscatto attraverso il lavoro, l’incidenza di recidiva è del 2%: per il resto la media è del 70%. A livello nazionale la possibilità di impiego è del 4%, noi arriviamo al 40. Nel nostro carcere su 80 detenuti, 33 svolgono un’attività lavorativa, esterna ed interna” riporta la direttrice. “Quelli offerti dalla cooperativa Il Sogno sono posti di lavoro veri, che danno una formazione spendibile, soprattutto in una zona turistica come quella del Lago Maggiore” rimarca Cosimo Marcello del provveditorato regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. “Su questo fronte siamo impegnati oltre che con la Banda biscotti, anche con la mensa sociale Gattabuia nella struttura comunale di Villa Olimpia a Pallanza, e alla caffetteria di Casa Ceretti a Intra” ricorda Carlo Rocchietti, direttore della cooperativa Il Sogno, che inquadra con il contratto di settore anche i dipendenti che, finito il turno di lavoro, devono rientrare in carcere. La selezione avviene tra quanti, nelle condizioni giuridiche per poter accedere al lavoro esterno, si propongono e sostengono un colloquio mostrando motivazione e attitudine. Varese. La coop “Valle di Ezechiele” apre sportello d’ascolto per i familiari dei carcerati di Rosella Formenti Il Giorno, 7 luglio 2025 Aprirà giovedì, nella parrocchia di Sant’Anna, lo sportello di ascolto per i familiari dei detenuti nella casa circondariale di Busto Arsizio. Il progetto è sostenuto dalla cooperativa La Valle di Ezechiele, l’apertura arriva al termine di un percorso di formazione che ha preparato i volontari che si occuperanno del servizio. L’idea di uno sportello di ascolto nella parrocchia di Sant’Anna, a circa un km dal carcere, risale già al 2022, con l’allora parroco don Michele Gatti e Monsignor Luca Raimondi, da qui la nomina di don David Riboldi, cappellano del carcere, a guida della parrocchia di Sant’Anna. Da allora è stato creato ad hoc il locale che ospiterà lo sportello, quindi è stata attivata l’organizzazione di volontariato e sono stati realizzati i corsi di formazione. “Spesso non ci si pensa. Quando una persona entra in carcere, c’è fuori un mondo di sofferenza e vulnerabilità - spiegano i promotori -. Un mondo cui spesso la vergogna impedisce di chiedere aiuto. L’idea di un centro dedicato è proprio per togliere qualsiasi resistenza interiore. Perché ci si possa sentire a casa, speriamo sia così”. Lo sportello, rivolto ai familiari dei detenuti, sarà aperto il giovedì (dalle 16 alle 18) e il sabato (dalle 9.30 alle 10.30). Milano. Partita a calcio dell’inclusione per “Mabul”, il nuovo giornale di Opera di Paolo Foschini Corriere della Sera, 7 luglio 2025 Un nuovo periodico, titolo “Mabul”, pensato e realizzato dalle persone detenute nel carcere milanese di Opera. E, per presentarlo, una partita di calcio tra i suoi autori e un misto di giornalisti, volontari, studenti, operatori. Allenatori Gad Lerner e Luigi Pagano: “Un carcere aperto - hanno detto - è garanzia non solo di civiltà ma di maggiore sicurezza”. Due squadre, in apparenza, perché le maglie erano di due colori. Ma in realtà molto di più: persone ex detenute o tuttora in carcere, giornalisti in pensione o anche no, volontari e volontarie, bambini, familiari, amministratori locali, operatori e pazienti del SerD, associazioni di persone malate, ricercatori universitari. Tutti insieme, con il giornalista Gad Lerner e lo storico ex direttore di carceri Luigi Pagano in veste di allenatori nonché commissari tecnici per un giorno. Per dire anzi ripetere con gli stessi Pagano e Lerner all’unisono che “un carcere aperto alla società civile e una società civile aperta al carcere sono garanzia di una società non solo più civile ma più sicura per tutti”. Tutto questo nella cornice di una partita di calcio che è stata anche la presentazione ufficiale del nuovo periodico intitolato “Mabul” (il caos biblico di acqua e terra innescato dal diluvio universale) e pensato-scritto-realizzato da un gruppo di ospiti del carcere di Opera. Una grandissima notizia, in un momento storico-politico in cui, chissà perché, molti giornali fatti nelle carceri italiane incontrano sempre più bastoni tra le ruote, censure, steccati, fino a dover chiudere (tra gli ultimi casi quello de La Fenice a Ivrea, mentre alle Altre storie di Lodi è stata imposta una lettura preventiva con blocco degli articoli sul tema dei migranti, per esempio, mentre a Rebibbia molti pezzi escono senza firma e così via: vedi qui la lettera aperta al Ministero pubblicata su Buone Notizie nell’aprile scorso). La bella iniziativa di cui sopra invece ha avuto luogo tra il tardo pomeriggio e la serata di sabato 5 luglio, nel centro sportivo Vige di via Sant’Abbondio a Milano. In contemporanea con la sfida al caldo torrido che gli ospiti ma anche i lavoratori - agenti, operatori, amministratori sanitari - delle carceri combattono in queste settimane con la stessa fatica di tutti gli altri cittadini ma moltiplicata “grazie” al sovraffollamento, agli impianti idrici che vanno a singhiozzo, alla difficoltà avere di anche solo un ventilatore per cella, che pure quando c’è non ha un filo abbastanza lungo per arrivare alla presa di corrente. Ma l’altra sera niente di tutto questo. “Chi mi conosce sa che da napoletano sono sempre pessimista rispetto a molte cose - ha detto Pagano - ma iniziative di inclusione come questa, nel loro piccolo, sono grandi perché smentiscono puntualmente chi dice che non si può fare niente per migliorare ciò che non va. Il mio timore, piuttosto, è che rispetto ai passi avanti comunque compiuti negli anni passati per il reinserimento delle persone detenute - decine di migliaia attualmente fuori senza commettere altri reati, a fronte di pochissimi casi contrari - oggi si rischia non di fermarsi ma addirittura di tornare indietro”. Non l’altra sera. La squadra delle persone detenute a Opera, uscite in permesso per poter disputare la partita, è quella che in sostanza realizza anche il periodico Mabul: una redazione di venti persone tra detenute e volontarie, attorno a Claudio Lamponi che ne è un po’ il perno, con la collaborazione e il sostegno di diverse realtà come il Naba e i B-Livers del Bullone guidato da Giancarlo Perego (sabato in campo come portiere), i volontari di Incontro e presenza, la parrocchia della Sacra Famiglia, l’appoggio attivo di istituzioni come il Municipio 5 di Milano e la partecipazione del Comune per il quale è intervenuto al calcio d’inizio della partita anche l’assessore Lamberto Bertolè. È stata anche l’occasione di un dialogo e di un reciproco incoraggiamento tra giornali delle carceri, come L’Oblò realizzato da 23 anni presso il reparto La Nave di San Vittore presente sabato con alcuni dei suoi responsabili e con i volontari dell’associazione Amici della Nave a cui fa capo, ma anche con i pazienti SerD - Asst Santi Paolo e Carlo - della neocostituita squadra calcistica dei Football Chance venuti a dar manforte, anche per ragioni anagrafiche, alla formazione dei volonterosi ma leggermente ansimanti giornalisti. Risultato finale: 5-5 a cui ha fatto seguito una serie di rigori, tirati e messi a segno anche dai giovanissimi figli di alcuni titolari, su cui a un certo punto si è smesso di tenere il conto. Hanno vinto tutti, questa volta. Perché a volte, se si vuole, succede. La legge e il diritto alla compassione di Niccolo Nisivoccia Corriere della Sera, 7 luglio 2025 Il dibattito e la norma in discussione in Parlamento su cure e fine vita. Sarebbe bello che, nel dibattito che accompagnerà l’esame parlamentare del testo sul “fine vita”, presentato in questi giorni, venisse fatta pulizia di questa finta contrapposizione, strumentalmente agitata, fra diritto alla vita da una parte e diritto alla morte dall’altra. Come se il punto fosse questo: stabilire se a dover prevalere sia, in assoluto, l’uno o l’altro di tali diritti. Come se fossero queste, semplicemente, le domande da rivolgere alla legge, da una parte o dall’altra: esiste, e va tutelato, un diritto a morire? Oppure: esiste, e va tutelato, un diritto alla vita? E come se, infine, fossero semplicemente queste le domande alle quali ha risposto la Corte costituzionale nelle due sentenze del 2019 e del 2024, cui ora la legge dovrebbe dare seguito. In realtà nessuno, neppure fra coloro che ritengono doveroso il riconoscimento di un “diritto di morire”, si è mai comunque sognato di mettere in discussione il “diritto alle cure”. E quindi il punto è: fino a dove devono spingersi, le cure? Come deve porsi la legge davanti a qualunque genere di dolore, fisico o mentale, che sia reputato insopportabile, o non più sopportabile, da chi ne soffra? Prima ancora: a chi appartiene la nostra vita? A chi spetta di decidere non solo come viverla, ma anche se viverla o non viverla? Una legge che almeno in qualche misura fornisca risposte a queste domande esiste già, in Italia: ed è la legge n. 219 del 2017 sulle “Disposizioni anticipate di trattamento”, la quale “tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”. Cosa dice, in particolare, questa legge? Dice, da un lato, che ogni persona capace di intendere e di volere deve vedersi garantito sia “il diritto di rifiutare” qualunque “accertamento diagnostico” e qualunque “trattamento sanitario” che non desideri ricevere, sia “il diritto di revocare in qualsiasi momento” l’eventuale consenso già prestato, “anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento”; e da un altro lato che il medico, a sua volta, “avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico” stesso, anche attraverso “un’adeguata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative” a loro volta previste da una legge del 2010. E non solo: la legge del 2017 dice anche che, “Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati”, e che, “In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente”. Certo, tutto questo è altro sia rispetto al suicidio assistito, sia rispetto all’eutanasia. Non è quindi di eutanasia e di suicidio assistito che si occupa, tecnicamente, la legge n. 219 del 2017, perché la morte derivante dal rifiuto o dall’interruzione delle cure non presuppone un intervento attivo da parte di terzi, com’è invece richiesto secondo le definizioni del suicidio assistito e dell’eutanasia offerte dal Comitato Nazionale per la Bioetica italiano: somministrando un farmaco, nel caso dell’eutanasia, o anche solo porgendolo nel caso del suicidio assistito. E tuttavia la legge del 2017 induce a chiedersi: perché riconoscere il diritto al rifiuto o all’interruzione delle cure e non anche quello all’eutanasia o al suicidio assistito? Perché ammettere il diritto alla disconnessione di una macchina, a certe condizioni, e non anche quello a ricevere un farmaco? Cosa distingue le due ipotesi sotto il profilo ontologico ed etico? Insomma: fermo il dovere di prendersi cura della paura e del dolore di chi vede la morte avvicinarsi, andrebbe condiviso il fatto che il bene in gioco è pur sempre lo stesso, e cioè la vita. E sarebbe bello che la legge, da parte sua, si dimostrasse capace di riconoscerne la dignità d’essere anche nel momento più estremo, accogliendone appunto anche il dolore, facendolo proprio. Ecco, questo dovrebbe fare la legge, ora come sempre: essere capace, umanamente, di compassione. Saper includere il limite, e saper dichiarare, di là da quel limite, anche una resa. “C’è un limite a quello che ciascuno di noi considera sopportabile e c’è una capacità di adattamento che consente talvolta di spostarlo oltre”, ha osservato Giada Lonati, medico palliativista, in un libro pieno di sensibilità e delicatezza dedicato alle storie di alcune delle persone che la stessa Lonati ha accompagnato nei tratti finali delle loro vite (“L’ultima cosa bella”): “Poi per qualcuno di noi c’è una soglia superata la quale non ha più senso tollerare alcuna sofferenza. È come se il peso sulla bilancia si spostasse: fin qui era ancora accettabile, da qui in avanti non lo è più. E il confine lo stabilisce ogni essere umano per sé”. Fine vita: la maggioranza vuole cancellare un diritto di Marco Cappato* Il Fatto Quotidiano, 7 luglio 2025 Le uniche consultazioni le ha fatte con i vescovi. “Il Governo porta in aula un testo espressione dell’accordo tra i partiti di maggioranza, su cui non ha condotto alcuna consultazione - a parte con la Cei”. Da sette anni sento ripetere che sul fine vita “ci vuole una legge! ci vuole una legge!”. Ho sempre sospettato che l’arrivo della legge non sarebbe stata una buona notizia. Sono infatti passati 7 anni da quando la Corte costituzionale, sul caso Dj Fabo, regalò all’Italia delle prime regole civili, depenalizzando “l’aiuto al suicidio”. Da allora, i capipartito hanno continuato a ripetere “ci vuole una legge!” senza mai volerla fare, contando sul boicottaggio della sentenza della Corte da parte del Servizio sanitario nazionale. Poi però la sentenza della Corte ha iniziato a essere applicata: otto persone hanno ottenuto legalmente l’aiuto a morire e la Regione Toscana ha approvato la nostra legge regionale di iniziativa popolare “Liberi subito”, che stabilisce procedure e tempi certi che il Servizio Sanitario deve rispettare nel dare risposta a chi soffre. A seguito dell’approvazione della legge Toscana e del primo caso di sua applicazione - l’aiuto fornito al poeta Daniele Pieroni - i capi dei partiti di maggioranza si sono detti che, a questo, punto il boicottaggio non era più sufficiente: l’argine proibizionista si era rotto a colpi di disobbedienze civili e iniziative popolari, e bisognava correre ai ripari. Una legge ormai serviva davvero: non per disciplinare il diritto già stabilito dalla Corte, ma per cancellarlo. Ed è proprio ciò che stanno provando a fare. Prima di spiegare come, e prima che chi legge si deprima, voglio ricordare che però ciascuno di noi può ancora fare qualcosa per provare a impedire che si compia l’abolizione del diritto all’”aiuto al suicidio” in Italia: si può firmare qui sulla piattaforma pubblica la legge di iniziativa popolare “Eutanasia legale” promossa dall’associazione Luca Coscioni. Non ci illudiamo che sia approvata ora, ma è importante portare al tavolo della discussione una proposta alternativa, che sosterremo anche con nuovi ricorsi giudiziari (l’8 luglio la Corte costituzionale discute di eutanasia su un caso seguito da Filomena Gallo) e nuove disobbedienze civili. ?Torniamo alle manovre in corso. Il testo di legge reso pubblico e approvato in fretta e furia - lo stesso giorno in cui Meloni ha incontrato il Papa - cancella il diritto oggi esistente all’aiuto alla morte volontaria in tre modi: 1. Riduce drasticamente la platea potenziale degli aventi diritto, perché: - trasforma il criterio della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” in “trattamenti sostitutivi di funzioni vitali”: così facendo, si escludono le persone totalmente dipendenti da assistenza e trattamenti forniti da familiari o caregiver, che invece sono finora stati esplicitamente indicati da parte della Corte costituzionale, e che sono la platea di aventi diritto numericamente più significativa; - restringe anche il criterio della “sofferenza intollerabile”, che da “fisica o psichica”, come stabilito dalla Corte costituzionale, diventa “fisica e psichica”, aumentando a dismisura la possibilità di contestare arbitrariamente la condizione di sofferenza del richiedente; - aggiunge il criterio dell’”inserimento nel percorso di cure palliative”, trasformando le cure palliative (che sono già un diritto del malato da 15 anni e un dovere per lo Stato) in trattamento sanitario obbligatorio per potere accedere all’aiuto medico alla morte volontaria. 2. Prevede tempistiche tali da negare di fatto l’aiuto alla morte volontaria di malati terminali o affetti da malattie neurodegenerative, attraverso il combinato disposto di due scadenze: - un termine che può arrivare a 150 giorni per la risposta alle persone richiedenti alle quali poi dovrà seguire una decisione dell’autorità giudiziaria (coi tempi della giustizia italiana); - un termine di 180 giorni prima di potere ripresentare la proposta da parte di una persona che abbia ricevuto un diniego, indipendentemente da un eventuale cambiamento delle sue condizioni di salute. 3. Cancella il ruolo del Servizio sanitario nazionale, politicizzando la procedura affidata a un organo di nomina governativa e spingendo verso i privati: - cancellando il ruolo dei Comitati etici territoriali (previsto dalla Corte costituzionale, e che erano chiamati a dare un parere solo consultivo, perché la decisione spettava alle aziende sanitarie locali), sostituendoli con un Comitato nazionale di valutazione di nomina governativa, il quale fornirà parere vincolante; - cancellando il ruolo del Servizio sanitario nazionale, non solo nella valutazione dell’esistenza o meno dei criteri per accedere all’aiuto, ma anche nell’attuazione dell’aiuto stesso, per il quale la persona richiedente dovrà rivolgersi ai privati, oppure andare in Svizzera. Di conseguenza, è cancellato anche il ruolo delle Regioni. Un’ultima considerazione riguarda il metodo scelto. In Francia e in Gran Bretagna l’attuale dibattito sull’aiuto alla morte volontaria si sta svolgendo fuori da logiche di partito o di maggioranza vs opposizione. In Gran Bretagna, il testo è passato col voto contrario di due ministri di peso (Salute e Giustizia). In Francia il testo, di iniziativa parlamentare, è stato preceduto da una Assemblea di cittadini estratti a sorte, durata molti mesi, le cui proposte sono state ampiamente riprese nel testo parlamentare. In Italia, il Governo ha deciso di portare in aula un testo espressione dell’accordo tra i partiti di maggioranza, sul quale non ha condotto alcuna consultazione formale, e le uniche consultazioni informali riportate dai media sono state quelle con la Conferenza episcopale italiana. Prepariamoci dunque a qualche mese durante il quale quelle stesse persone che hanno boicottato i diritti esistenti invaderanno le televisioni per dire “finalmente abbiamo fatto una legge come tutti chiedevano”. Perché davanti a un tema sentito e vissuto dalla gente, come quello della legalizzazione dell’eutanasia, l’unico modo per tenere insieme leggi clericali e consenso popolare è mischiare le carte e confondere le acque. Cerchiamo di impedirlo. *Tesoriere Ass. Luca Coscioni, Presidente di Eumans Greco: “Sul fine vita è l’ora del coraggio. L’avvocatura chiede una legge” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 7 luglio 2025 Il presidente del Cnf presenta l’indagine Ipsos: “Il 77% dei legali chiede una normativa chiara”. “La voce degli avvocati è chiara: serve una legge sul fine vita che tuteli la libertà e la dignità della persona, senza ambiguità né zone grigie. Ora che il Parlamento sta discutendo il testo, è il momento di decidere con coraggio e responsabilità”. È il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco a riassumere e tradurre in parole ciò che i numeri raccontano in maniera nitida: il 77 per cento degli avvocati italiani tra i 25 e i 44 anni si dichiara favorevole all’introduzione di una legge sul fine vita. Quasi otto professionisti su dieci, dunque, che con diverse sensibilità sostengono la necessità di semplificare le procedure e ampliare la platea di persone che possono accedere al suicidio assistito secondo i requisiti stabiliti dalla Corte Costituzionale. All’interno della stessa percentuale si distingue il 31 per cento degli intervistati, che aprirebbe anche all’ipotesi di eutanasia attiva, attualmente illegale in Italia. I dati sono cristallizzati in un’indagine Ipsos commissionata lo scorso marzo dal Cnf per analizzare l’orientamento della categoria forense su un tema di crescente rilevanza nel dibattito etico, giuridico e civile del Paese. Soprattutto ora che il testo base della maggioranza adottato al Senato ha cominciato il suo iter parlamentare con l’obiettivo di approdare in Aula prima della pausa estiva, il 17 luglio o poco più tardi. I dati: opinioni personali - Lo studio ha coinvolto un campione di 5.500 avvocati, diviso per fasce d’età e specializzazione. Le domande sono suddivise per aree tematiche e puntano a delineare un quadro che dia conto dei risvolti etici e legali delle questioni indagate. Laddove le opinioni personali degli intervistati sono strettamente connesse al ruolo e alla funzione attribuita all’avvocatura nel presidiare e difendere i diritti dei cittadini. L’analisi parte dai principi generali: sei avvocati su dieci (il 62 per cento) si dichiarano favorevoli al diritto di ogni individuo di scegliere in autonomia il percorso di cura nel fine vita, inclusa l’eutanasia. Tra gli under 45, la percentuale sale oltre il 70. Il consenso complessivo arriva all’82 per cento se si includono coloro che sono favorevoli a tutte le scelte di fine vita in casi molto specifici e controllati. Tra gli avvocati con più di 74 anni, questa posizione è condivisa dal 28 per cento. Solo il 12 per cento degli intervistati si oppone per motivi etici o religiosi, mentre il 5 per cento si dichiara indeciso. Gli intervistati si esprimono anche sul testamento biologico, disciplinato dalla legge 219 del 2017: sette intervistati su dieci, soprattutto nella fascia d’età 25-34 anni, lo considerano uno strumento fondamentale per esprimere le proprie volontà sui trattamenti medici in caso di incapacità. La percentuale sale a nove su dieci se si include anche chi si dichiara favorevole ma con alcune riserve. A livello personale, uno su due, specialmente tra i più giovani, è favorevole a soluzioni come il suicidio assistito o l’eutanasia attiva qualora un familiare soffra di una malattia incurabile. I contrari sono il 12 per cento. Le implicazioni professionali - Al dato sui convincimenti personali, l’indagine Ipsos aggiunge quello legato alla professione, interrogata rispetto alla necessità di assistere al meglio un cliente che si trova ad affrontare decisioni di fine vita. Da questo punto di vista, sei avvocati su dieci si riconoscono un ruolo cruciale, garantendo la piena consapevolezza delle implicazioni legali delle proprie scelte e la tutela dei diritti dell’assistito in ogni fase del processo decisionale. Fornire una consulenza legale completa e aggiornata sulle normative in vigore, dal testamento biologico alla pianificazione successoria, è il miglior modo di aiutare un cliente per il 58 per cento del campione intervistato. Aiutare il cliente a redigere un testamento biologico chiaro, che rispetti le sue volontà, è fondamentale per il 53 per cento degli avvocati. E oltre il 30 per cento considera importante favorire un dialogo aperto e costruttivo tra il cliente, i familiari e il personale medico. Il nodo relazionale si riflette nelle difficoltà percepite dalla categoria in questo ambito: la complessità e delicatezza delle situazioni da gestire, anche in presenza di dissenso tra cliente e familiari o dell’incapacità del cliente di esprimere le proprie volontà, rappresenta la principale sfida secondo sette intervistati su dieci. Soprattutto per chi si occupa di diritto penale della persona (il 74 per cento). Il 41 per cento del campione si sofferma invece sulla necessità di interpretare e applicare una normativa in continua evoluzione. E circa un terzo degli intervistati mette in luce come questo ricada sulla responsabilità professionale dell’avvocato, a cui è richiesto un aggiornamento continuo per rimanere al passo con le novità legislative e giurisprudenziali. Solo una piccola parte del campione, circa il 20 per cento, manifesta difficoltà nel conciliare le proprie convinzioni etiche e morali con le richieste del cliente. I modelli legislativi - L’indagine guarda anche alla normativa negli altri paesi, sottoponendo al campione i diversi modelli legislativi. Per quasi 1 intervistato su 3, il 31 per cento, il più efficace è quello adottato da Paesi Bassi e Belgio, che consentono sia l’eutanasia attiva che il suicidio assistito ai maggiorenni capaci di intendere e volere, affetti da malattie incurabili che causano sofferenze insopportabili. Se il modello più permissivo raccoglie il 31 per cento dei consensi (soprattutto per gli avvocati under 45 e gli avvocati specializzati in diritto penale della persona), a 15 punti di distanza troviamo quello francese, il più restrittivo dopo il modello adottato da Polonia e Irlanda. Almeno fino ad oggi, considerando che l’Assemblea nazionale lo scorso maggio ha approvato in prima lettura un testo che apre alla morte medicalmente assistita con il favore del presidente Emmanuel Macron, che aveva promosso una legge in tal senso in campagna elettorale. Solo il 6 per cento degli avvocati, invece, guarda alla Svizzera, che consente il suicidio assistito a determinate condizioni ma non l’eutanasia. La normativa in vigore - Proprio la Svizzera è meta e tema ricorrente nel dibattito sul fine vita, per chi chiede di poter morire a casa propria senza dover raggiungere una clinica all’estero. Non accade di rado, infatti, che i pazienti in attesa di una risposta o che abbiano ricevuto un rifiuto decidano di affrontare il viaggio per porre fine alle proprie sofferenze. Spesso ingaggiando le lunghe battaglie legali che in questi anni hanno attraversato i tribunali italiani. Per ottenere il via libera al suicidio assistito, in assenza di una legge nazionale, è necessario soddisfare i quattro requisiti stabiliti dalla Consulta con la sentenza 242 del 2019, la cosiddetta Cappato/Dj Fabo, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio) “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Uno dei quattro requisiti previsti, legato ai “trattamenti di sostegno vitale”, è stato esteso dalla Consulta con la sentenza 135 del 2024, che ha incluso in tali prestazioni anche l’assistenza fornita dai caregiver. L’opinione degli italiani - Fotografare l’opinione degli italiani sui temi etici rientra tra le sfide più complesse. Perché oscilla, arretra, e spacca i cittadini quasi sempre a metà, come dimostra anche l’ultimo Rapporto Italia curato dall’Eurispes. Una larga maggioranza dice sì all’eutanasia (67,9 per cento), ma con una variazione nel dato storico: nel 2025 si registra uno dei valori minimi dei consensi tra quelli rilevati negli ultimi 6 anni (il più basso è quello del 2024: 66,7%). Il numero è comunque più alto di quello sul suicidio assistito, che nel 2025 raccoglie il 46,9 per cento di sì. Il dato si allarga di molto tra i giovani nella fascia 18-24 anni, che si mostrano i più aperti sui temi etici: il 79,2% del campione si esprime a favore dell’eutanasia e il 62,8 dei ragazzi dice sì al suicidio assistito. Il favore maggiore degli italiani, in assoluto, si registra sul testamento biologico (77,8%). Migranti, mancano strategie di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 7 luglio 2025 Negli schieramenti politici manca un vero piano per gestire la convivenza in un’Italia multietnica. Superando le barriere. L’Europa è a un tornante della sua storia e non siamo pronti ad affrontarlo. L’Europa è alle prese con una trasformazione epocale: quelle che erano un tempo società nazionali diventano con rapidità impressionante, o sono già diventate, società multietniche. Tra non molto, anche in Italia, saranno numerosi e sempre più visibili, nelle professioni e anche, a poco a poco, in ruoli dirigenziali, i figli di immigrati di origine extraeuropea. È il tema più politicamente incandescente che ci sia nelle democrazie occidentali: più di ogni altro divide l’opinione pubblica e influenza gli esiti delle consultazioni elettorali. Troppo spesso le parti politiche lo affrontano con slogan rozzi, semplicistici (viva gli immigrati, abbasso gli immigrati) che nascondono i problemi e inducono a fughe dalla realtà. La realtà è che la multietnicità è un fatto e che è da questa constatazione che bisogna partire per capire come tentare di governarla. Se si vuole governarla bisogna porsi una domanda, l’unica che conti: come si fa a garantire (o a tentare di garantire) un futuro di pacifica convivenza fra persone di differente provenienza culturale? Come si fa a far convivere persone con differenti credi religiosi, differenti esperienze alle spalle, differenti sensibilità, differenti modi di rappresentarsi il mondo esterno? Per alcuni sembra che l’unico problema che conti sia la lotta all’immigrazione clandestina. Se si riesce a limitarla, tutto andrà per il meglio. Altri fanno un bel mischione, non distinguono fra clandestini e regolari, li vogliono accogliere tutti, regolari e irregolari (è la posizione dei più estremisti della “tribù” di sinistra) oppure li vogliono mandare via tutti (i più estremisti della “tribù” di destra). Posizioni tutte quante irrealistiche adottando l’una o l’altra delle quali non si governa un bel niente. Poiché distinguere fra cose diverse è il primo passo per tentare di chiarirsi le idee, separiamo il tema della clandestinità da quello della convivenza fra migranti regolari e indigeni (europei da più generazioni). Se ci limitiamo a osservare il caso italiano, le forze di sinistra, in materia di clandestinità, appaiono più in difficoltà di quelle di destra. Contro la clandestinità non sembrano avere nulla da proporre. Ma così non aiutano i loro stessi elettori a distinguere fra clandestini e regolari. Con il risultato di non contrastare la tendenza di molti italiani a trasferire sui secondi l’ostilità per i primi. Lasciare intendere che si è favorevoli a una accoglienza generalizzata porta in un vicolo cieco. E non favorisce la diffusione di atteggiamenti favorevoli nei confronti degli stessi migranti regolari. Come ha mostrato il risultato del referendum sulla cittadinanza di poche settimane fa. È emersa una rilevante frattura fra una parte dell’elettorato (in larghissima misura di sinistra) e le posizioni ufficiali in tema di immigrazione dei partiti che, in teoria, quell’elettorato rappresentano. Per quel che si vede né il fatto è stato meditato né ha portato a ripensamenti. In tema di clandestinità vanno fatte due osservazioni. La prima è che essa ha un rapporto stretto con la questione della sicurezza. E garantire sicurezza (o quanto meno, prometterlo) è il compito ineludibile di chiunque voglia governare un Paese. La seconda osservazione è che sono gli stessi migranti regolari, quelli inseriti, quelli che lavorano, ad essere contrari ai clandestini. E pour cause: sanno bene che l’ostilità degli italiani per i clandestini può trasferirsi su di loro, può danneggiarli. Essendosi intestata la lotta alla clandestinità, la destra ha dunque un vantaggio sulla sinistra. Non è un caso se altrove, forze di sinistra (in Gran Bretagna, in Danimarca) e conservatori moderati (come la Cdu tedesca) abbiano, in tema di clandestinità, le stesse posizioni del governo Meloni. Se non che limitare, per quel che si può, la presenza di migranti clandestini è solo un aspetto del problema. Resta l’altro, il più delicato: come garantire la convivenza fra gli indigeni (italiani da più generazioni) e gli appartenenti agli altri gruppi? Non considerando i veti politici, forse insuperabili, lo ius scholae, sembra, a prima vista, una buona idea. Lo sarebbe, in effetti, se non fosse che la scuola è stata maltrattata per decenni. E gli insegnanti, sia quelli preparati e capaci, sia quelli che non sono né l’una né l’altra cosa, devono gestirsi ciascuno per proprio conto i problemi della multietnicità entro le classi. La scuola, si dice, può trasmettere ai migranti i nostri cosiddetti “valori”. Ma non c’è terreno più scivoloso di questo. Ci sono tante classi in cui i figli di migranti sono la schiacciante maggioranza. E dunque le regole della convivenza fra culture diverse (l’italiana e le altre), quelle che si sperimentano nella quotidianità dei rapporti, sono poco applicabili. Si consideri poi il fatto che il corpo insegnante è come il resto dell’Italia: diviso sui fondamentali. Ci sono insegnanti che hanno la capacità e l’intelligenza per insegnare regole di convivenza. Ma ce ne sono altri che non sono in grado di farlo. La scuola italiana non è diversa dalle altre istituzioni educative occidentali. Nelle quali non sono pochi i docenti che, secondo la moda vigente, attribuiscono all’Occidente tutte le colpe e finiscono per instillare nei giovani discenti di provenienza extraoccidentale l’idea che essi siano in credito, che abbiano diritto a un risarcimento. Un modo certo per alimentare conflitti anziché convivenza. Nei Paesi che hanno conosciuto la multietnicità prima di noi le politiche fin qui sperimentate hanno mostrato la corda: non ha funzionato il modello multiculturale (Gran Bretagna, Paesi Bassi) né quello assimilazionista (Francia). Come indicano, in questi e negli altri Paesi europei, i tanti segnali di conflitti interetnici. Poiché l’inverno demografico italiano rende ridicola l’idea che si possa fare a meno degli immigrati, occorre che un po’ di teste pensanti, quale che ne sia l’orientamento ideologico o ideale, comincino a riflettere sulle strategie da adottare per tentare di garantire a tutti una civile convivenza. Ius scholae, Tajani: “Non ho fatto marcia indietro”. La Lega: “Non passerà mai” di Antonella Baccaro Corriere della Sera, 7 luglio 2025 Il leader azzurro rilancia sulla riforma della cittadinanza, ma sottolinea: non voglio mettere in difficoltà il governo. Chiusura totale della Lega, ma su FI pesa anche l’indiscrezione secondo cui la figlia del fu Cavaliere non sarebbe favorevole. “Adesso la sinistra dirà che sullo Ius scholae ho fatto marcia indietro... ma non è così”. Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri per Forza Italia, mette le mani avanti sulla querelle che lo vede contrapposto alla Lega ma anche a Fratelli d’Italia sull’acquisizione della cittadinanza attraverso un percorso scolastico decennale. Al “Forum in masseria” di Bruno Vespa, organizzato da Comin & Partners, arriva consapevole che è su questo tema che sarà assediato, dopo che la Lega ha ancora una volta archiviato come velleità l’approvazione della legge in questione. Così, nella calura soffocante dell’una, quasi sommerso dal frinire delle cicale, dopo due battute sui dazi e i conflitti in corso, Tajani attacca: “Vorrei convincere i nostri alleati e i cittadini: non siamo pericolosi lassisti, né deboli, ma l’esatto contrario: la nostra è una norma per rendere più seria la concessione della cittadinanza. Il modello è quello dell’Impero romano che inglobava” dice. Ma, soprattutto, ci tiene a ribadire che lo Ius scholae è parte del programma del centrodestra “al punto 6”, dove si parla di integrazione di immigrati regolari. “Tuttavia - aggiunge -, lungi da me la volontà di mettere in difficoltà il governo...”. Quindi spiega: “Il nostro programma non è solo questo”. E elenca al primo posto la riforma della giustizia, poi quella del fisco, infine la crescita dei salari. Un riepilogo che sembra fare quasi a se stesso. Stamattina, su La Stampa è apparsa l’indiscrezione che Marina Berlusconi non sarebbe troppo entusiasta della campagna sullo Ius scholae, che preferirebbe si puntasse sui cavalli di battaglia di matrice liberale, cari al padre Silvio. Tajani non sfugge a chi gli chiede (a margine) se l’ha sentita: “Marina Berlusconi è un’amica, non abbiamo mai affrontato questo tema. Non si è mai espressa su questo tema”. E, a riprova, fa notare che il giornale non riporta alcuna dichiarazione. Ma Vespa lo pungola, gli chiede se accetterebbe di avvalersi di un’eventuale “maggioranza alternativa” per approvare la legge, pur in un secondo momento: “Vorrei convincere prima di tutto i nostri alleati, andando nel merito della proposta - dice svicolando - che è ben diversa da quella che è stata bocciata dal referendum, che piace alla sinistra”. E accalorandosi aggiunge: “Non è il colore della pelle che ti fa italiano. E non c’è il pericolo di un’invasione islamica nelle nostre scuole. È il lassismo culturale che ci rende deboli”. E ancora: “Togliere il crocifisso dalla scuola è un segnale che ci rende deboli. Se siamo forti della nostra identità perché dovremmo avere paura di inglobare? Io voglio avere più italiani perché c’è bisogno anche di manodopera” prosegue. Per poi concludere: “Io non ho fatto nessuna marcia indietro: non sono abituato a farlo”. La Lega: “La riforma della cittadinanza non passerà mai” - Pochi minuti dopo che le agenzie hanno battuto le sue parole arriva la nota della Lega: “Invitiamo l’amico Antonio Tajani ad archiviare ogni polemica sulla riforma della cittadinanza. Non passerà mai, non è prevista dal programma di centrodestra, è stata bocciata perfino dal recente referendum promosso dalla sinistra. Guardiamo avanti, al Paese non serve un’estate di inutili polemiche”. A raccogliere l’appello del ministro degli Esteri, resta il leader del M5S, Giuseppe Conte, anche lui approdato in masseria: “Tajani sia conseguente e noi a quel tavolo in Parlamento ci siederemo. Ma se Tajani fa queste dichiarazioni, sempre a luglio e agosto non a caso, è un teatrino avvilente per quei ragazzi che saranno i primi a non credere più nella politica”. Poi sono solo cicale. Migranti. Nuova rivolta al Cpr di Gradisca, detenuti sul tetto di Giancarlo Virgilio telefriuli.it, 7 luglio 2025 Protesta dei trattenuti contro il caldo e la detenzione. Nuova ribellione al CPR di Gradisca d’Isonzo, dove ieri sera diversi detenuti sono saliti sul tetto e le reti della struttura per protestare contro le condizioni di caldo e di detenzione. Dopo una lunga trattativa con le forze dell’ordine presenti, i trattenuti sarebbero stati convinti a scendere e tornare nelle stanze. Secondo la rete ‘Mai più Lager - No ai CPR’, che da anni si batte per la soppressione dei Centri di permanenza per i rimpatri, alcuni trattenuti sarebbero fuggiti in un clima sempre più incandescente. Di questi, tre detenuti sarebbero stati poi catturati e riportati indietro. La notizia della nuova rivolta arriva a pochi giorni dalla sentenza della Corte Costituzionale, nella quale è stato sottolineato che la disciplina vigente sul trattenimento nei Cpr non rispetta la legge in materia di libertà personale, tanto da indicare che la stessa legge difettosa dovrebbe essere integrata dal Parlamento. La sentenza ritiene la normativa in vigore del tutto inidonea a definire, con sufficiente precisione, quali siano i “modi” della restrizione, ovvero quali siano i diritti delle persone trattenute nel periodo in cui sono private della libertà personale. In materia di libertà e diritti personali spetta però al legislatore introdurre una normativa che assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona trattenuta.