Carcere, quando il volontariato è una vocazione di Antonella Barone gnewsonline.it, 6 luglio 2025 Rossella Favero: Da insegnante di lettere a volontaria e cooperante. Fu colpa di un’operazione burocratica se Rossella Favero, docente di lettere in una scuola per adulti a metà degli anni 90, si ritrovò a insegnare nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Era il tempo della nascita dei CTP - Centri Territoriali Permanenti, oggi CPIA, che permisero l’apertura di nuovi spazi e favorirono la nascita di un carcere ‘laboratorio’ culturale. Vent’anni fa, dopo aver scelto di lasciare l’insegnamento, Rossella Favero, con altre donne già attive nel sociale, ha creato ‘Altra Città’, una cooperativa che occupa oggi da 30 a 35 persone detenute, all’interno del carcere, in attività di assemblaggio, e all’esterno, in archivi, biblioteche e in un laboratorio di legatoria e cartotecnica. Un successo dovuto anche a rapporti con altre realtà del terzo settore, che, dice lei, “ci ha insegnato a lavorare insieme, senza concorrenza, nel mercato del bene”. Rossella Favero, lei ha lavorato in carcere per 8 anni come insegnante, prima di avviare attività come il Centro documentazione e poi la Cooperativa Altra Città. Al tempo cosa la spinse a scegliere di avere detenuti come studenti? A dire il vero non è stata una scelta. La mia cattedra di insegnante di lettere era, questo sì per scelta, in una scuola per adulti (le storiche ‘150 ore’, scuole per gli operai nel frattempo diventate scuole degli adulti-lavoratori: donne, giovani espulsi dalla scuola del mattino). A un certo punto, come semplice operazione burocratica dall’alto, i detenuti dei due istituti penitenziari di Padova divennero miei studenti. Insegnavo dentro e fuori. Non mi dispiacque, anzi fu l’inizio di un cambiamento importante nella mia vita. Quanto è stata rilevante l’esperienza di insegnante per decidere di continuare a impegnarsi in altre attività all’interno del mondo penitenziario? Molto rilevante, anche perché in quegli anni (1997) fu realizzata l’importante riforma dell’educazione degli adulti voluta dal ministro Luigi Berlinguer, che creò i CTP - Centri Territoriali Permanenti, gli antenati degli attuali CPIA - Centri Provinciali Istruzione Adulti: una grande rivoluzione che inglobava scuola media, scuola elementare, alfabetizzazione, ma con un grande respiro che metteva le persone poco scolarizzate al centro di una progettualità ampia e articolata, che dava un senso culturale nuovo all’educazione degli adulti. Usammo con entusiasmo e fantasia, in carcere, questi nuovi spazi che si aprivano. Alla fine degli anni Novanta in reclusione a Padova su impulso della nostra scuola nacquero: la biblioteca gestita come una vera biblioteca, Ristretti Orizzonti, la scuola diffusa anche ai protetti, gli incontri culturali, i corsi di informatica, i corsi di biblioteconomia, la scuola superiore. Fu un importante laboratorio, grazie anche alla favorevole congiunzione per cui in quegli anni fu direttore, aperto e vivace, Carmelo Cantone. Ricordo che il Ministero dell’Istruzione ci definì CTP d’eccellenza. Si aprì, grazie alla collaborazione con l’area educativa, anche la stagione dei permessi collegati alle attività scolastiche e culturali, anche per la presenza come Magistrato di Sorveglianza di un altro ‘illuminato’, Giovanni Maria Pavarin. A spingermi a licenziarmi dalla scuola (un salto nel buio un po’ incosciente, di cui non mi sono pentita) furono un evento e una serie di riflessioni maturate in quegli anni. L’evento: l’arrivo di una dirigente normalizzatrice che voleva riportare a soli corsi per la licenza media (praticamente) tutto quello che avevamo costruito, le riflessioni maturate. Avevamo individuato la possibilità di trasformare le numerose competenze acquisite dai ragazzi: la documentazione, la biblioteca, l’informazione, l’archivio. Evento e riflessioni portarono a scegliere di lasciare la scuola e continuare a restare ‘dentro’ facendo nascere una nuova cooperativa sociale. Ciò avvenne nel 2004 dopo nove mesi di aspettativa in cui lavorai per la neonata cooperativa ‘Il Cerchio’ di Venezia. Erano gli anni 90. So che ha conosciuto centinaia di detenuti. È cambiato qualcosa nel tipo di popolazione penitenziaria da allora a oggi? “Non ci sono più i detenuti di una volta”, è una frase che oggi ricorre, con una sorta di nostalgia sia tra gli operatori penitenziari (agenti ed educatori maturi), che tra i detenuti italiani di lunga data o recidivi; con ironia invece tra le persone del terzo settore attive in carcere da decenni. E’ una frase rispetto alla quale devo lavorare su me stessa, perché mi irrita. Il carcere in questi decenni è cambiato perché sono aumentate in modo dirompente le persone in una situazione di forte disagio perché polidipendenti, povere, emarginate, straniere senza prospettiva alcuna di regolarizzazione. Non mi piace la metafora della discarica sociale, ma non ho dubbi sul fatto che il carcere sempre più sia costretto ad accogliere coloro che la società esclude, per cui la società non ha risposte, proposte, speranze. Avendo lavorato come cooperante per vent’anni oggi leggo perplessa le proposte dei diversi convegni e i contenuti di innumerevoli protocolli sul lavoro di Dap e Prap (come se il problema fosse convincere le aziende ad assumere i detenuti, oggi che sul mercato del lavoro la forza lavoro scarseggia). E non si ascolta quello che da quasi un decennio dicono le cooperative sociali presenti in carcere: tra le persone detenute ormai aumentano continuamente coloro che non sono in grado di svolgere un lavoro ‘vero’, sia dentro, dove sono presenti cooperative sociali, come a Padova, sia fuori, dove comunque per la quasi totalità l’accompagnamento sociale è essenziale. Quindi il cuore del problema non è tanto, non è più, spesso, ‘trovare lavoro’ per i detenuti, ma attivare progetti nuovi di lavoro assistito (perché la dignità di avere un reddito è sacrosanta) per questa che sta diventando maggioranza di persone povere, emarginate, prive di speranza per il futuro. Di questo nessuno parla, e ci si stupisce dei suicidi, dell’aggressività che si accumula e poi esplode, del disagio oggettivo della vita in comune nelle sezioni di persone detenute con caratteristiche molto diverse. Oggi avverto con inquietudine crescere in carcere i razzismi tra i detenuti: degli italiani verso gli stranieri, degli albanesi verso i maghrebini, … In tutti questi anni vi è stato un andirivieni tra leggi più aperte e più securitarie. Difficile adattarsi? Per certi versi mi pare sempre di essere stata in lotta ‘contro’, contro le chiusure e i limiti del sistema penitenziario, contro l’uso talvolta strumentale del tema ‘sicurezza’, però con la sensazione lì dov’ero a Padova, in Casa di reclusione e al Circondariale, di fare continuamente dei passi avanti, di riuscire a ‘produrre cambiamento’. Mai come ora sento che le conquiste di decenni di lavoro insieme tra Terzo settore e Amministrazione penitenziaria a Padova, anche se faticoso e complesso, sono preziose e devono essere tutelate. Parliamo delle tappe della sua attività. Come e quando nasce la cooperativa AltraCittà? Alla fine del 2004 nasce AltraCittà, cooperativa sociale di tipo B, fondata da 10 donne con cui a titolo diverso avevo lavorato dentro in quegli anni, tra cui Marina Bolletti bibliotecaria, Ornella Favero di Ristretti Orizzonti. Ristretti, che in qualche modo avevamo fatto nascere, ci aiutò all’inizio dandoci una parte del Premio Tavazza vinto quell’anno. Non avevo competenze di tipo aziendale, me le sono fatte, con alcune delle donne con cui siamo partite, nel corso degli anni sul campo, con fatica ma anche con passione e imparando molto. Oggi la cooperativa si è sviluppata, ha dentro lavorazioni di assemblaggio, fuori è attiva in archivi e biblioteche (come nel suo dna), e ha un laboratorio di legatoria e cartotecnica. Cerchiamo anche di traghettare le persone detenute dal lavoro dentro al lavoro fuori, quando possibile. Diamo lavoro, secondo i periodi, a da 35 a 30 persone detenute. Io sono in pensione da circa tre anni, e come volontaria sia della coop che del Granello di Senape/Ristretti mi occupo di progetti relativi alla biblioteca e alla redazione. Sto staccando, ma gradualmente e cercando di formare altre persone, giovani. Come Terzo settore che da’ lavoro anche a detenuti ‘in vista’ vi sentite attaccati da alcune campagne mediatiche che promuovono il “buttare la chiave”? I giornali vivono anche di questo, mi è capitato di lavorare con detenuti ‘in vista’; è importante tenere sempre dritta la barra di navigazione: come insegna Ristretti, l’essere umano in carcere non è solo il suo reato, è anche altro. Se ci aggrediscono mediaticamente, questo diciamo, senza mai scordarci delle vittime e del loro dolore. Abbiamo nobili modelli per ragionare così, anche pubblicamente: Agnese Moro, Claudia Francardi, Lucia Annibali… Quali le maggiori sfide vinte? Molte…io per natura sono ottimista, non mi sento affatto una missionaria, ma semplicemente una persona che crede che si possa lavorare per cambiare, in meglio, le cose della vita. Sfide vinte, magari passando attraverso momenti difficili e notti insonni: aver dato vita al CTP in carcere, aver fatto assieme ad altre nove donne nascere AltraCittà, aver lasciato la responsabilità della coop a persone giovani e formate, aver visto tante persone detenute fare bei percorsi, aver contribuito a far nascere un coordinamento del Terzo settore attivo nella Reclusione di Padova che ci sta insegnando a lavorare insieme senza ‘concorrenza sul mercato del bene’, e poi le sfumature di alcune storie, alcuni incontri. Dopo il termine della pena o dell’attività lavorativa è rimasta in contatto con qualche detenuto di cui oggi si può dire che si è reinserito? Cosa buona è non aspettarsi nulla, sapere che le cadute ci sono, accettarle, anche se fanno male…ma, a parte i numeri confortanti, il piacere viene dalla persona che hai traghettato dal dentro al fuori e poi a un’azienda ‘normale’, o che si ricorda di te sempre con affetto a Natale, da chi ti chiama dopo tanto per raccontarti le cose buone della sua vita, da chi ostinatamente la domenica ti manda una foto di alberi o fiori e una parola affettuosa. L’emergenza mai affrontata delle carceri di Marcello Sorgi La Stampa, 6 luglio 2025 “Una vera e propria emergenza sociale, sulla quale interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Parole dure, inequivocabili, quelle del Presidente Mattarella di fronte all’abituale, purtroppo abituale problema delle carceri, che diventa urgente solo d’estate, quando il caldo trasforma la detenzione e il sovraffollamento delle celle in vera tortura, non prevista dalla Costituzione né dal codice penale. Intanto “i politici dormono con l’aria condizionata”, come ha scritto dalla sua cella quattro per quattro in cui sono costretti a vivere in sette il detenuto Gianni Alemanno, ex potente ministro e sindaco di Roma. A dire la verità Alemanno era riuscito a salvarsi dalla sua condanna con gli arresti domiciliari; se li è giocati raccontando frottole al giudice di sorveglianza che lo ha rimandato dentro. Ma di lì ha inviato il suo messaggio in bottiglia, che ha avuto un’eco superiore alle sue aspettative, anche se non è servito a farlo uscire. Nella settimana trascorsa dal messaggio di Mattarella, è successo poco o niente. E prima del Capo dello Stato si era mosso il Presidente del Senato La Russa, il 16 giugno, dichiarandosi d’accordo con la proposta di legge del dem Giachetti, a favore dell’aumento del numero di giorni di pena che per buona condotta che i carcerati possono avere ridotti ogni anno. La Russa, oltre a dirlo in un’intervista, avrebbe potuto suggerire di mettere in calendario al più presto il testo di Giachetti, giacente alla Camera, ma non lo ha fatto. Così come nessuno, né della maggioranza né dell’opposizione, ha sollecitato una nuova riflessione sull’indulto, che cancellando in alcuni casi le pene ma non le condanne, avrebbe un rapido effetto di alleggerimento del sovraffollamento carcerario, che registra al momento oltre 16 mila detenuti in più rispetto alla capienza degli istituti di pena. La ragione per cui tutti, a cominciare dal governo, che istituendo nuovi reati o aumentando le pene per quelli già esistenti sa di aumentare in prospettiva anche il numero dei carcerati, vanno così cauti in materia di carceri è presto detta: nessuno tra gli elettori, di destra o di sinistra, è a favore della clemenza. E nessuno è capace di promuovere un’iniziativa bipartisan, per approvare qualcosa che magari sarebbe impopolare, ma è terribilmente necessaria. Paradosso carceri tra umanità e sicurezza di Luca Ricolfi Il Messaggero, 6 luglio 2025 I mali delle carceri italiane sono ben noti: mancanza di personale e di servizi, sovraffollamento, condizioni degradate di molte celle, suicidi 20 o 25 volte più frequenti che nel resto della popolazione. La situazione italiana non è mai stata quella di un paese civile, ma si è fortemente aggravata a partire dal 2018, anche per il progressivo venir meno degli effetti dell’indulto varato nel 2016. Periodicamente sentiamo lanciare appelli e proposte???? per alleggerire la situazione: nuovi indulti e amnistie, depenalizzazione di determinati reati, pene alternative al carcere, assunzione di nuovo personale specializzato, costruzione di nuove carceri. Anche a me, più di una volta, è capitato di denunciare - cifre alla mano - la situazione disumana delle carceri italiane. Con il passare del tempo, tuttavia, mi sono formato la convinzione che, se davvero vogliamo affrontare il problema, dobbiamo - prima di tutto - liberarci di alcuni pregiudizi. Il primo pregiudizio è l’idea che, in Italia, vi sia un ricorso eccessivo alla carcerazione. I dati, in realtà, indicano l’esatto contrario. Il nostro tasso di incarcerazione (circa 106 detenuti ogni 100 mila abitanti) è più basso di quello medio delle società avanzate, e pure di quello medio dell’Unione europea. E questo a dispetto del fatto che, con la rilevante eccezione degli omicidi, il nostro tasso medio di criminalità è maggiore sia di quello medio europeo, sia di quello medio delle società avanzate. Stante il numero di crimini commessi, ci aspetteremmo più e non meno detenuti. Il sovraffollamento delle carceri non dipende dalla durezza della repressione penale, ma dal fatto che in Italia si finisce in carcere di meno nonostante si delinqua di più: se il numero di carcerati fosse commisurato al tasso di criminalità, il numero di detenuti sarebbe ancor maggiore. Il secondo pregiudizio è che si possa far fronte al dramma dei suicidi in carcere semplicemente riducendo l’affollamento attraverso nuove carceri (che richiedono tempi lunghi) o mediante nuovi indulti (che esauriscono rapidamente i loro effetti). I suicidi non dipendono solo dai metri quadri per detenuto, ma dalla condizione spesso drammatica delle celle, dalla carenza di personale specializzato (medici, psicologi, sociologi), dalla possibilità di lavorare, studiare o essere coinvolti in attività dentro e fuori del carcere. Se si vogliono ridurre i suicidi, la costruzione di nuove carceri è meno importante (e probabilmente più costosa) della ristrutturazione e riorganizzazione di quelle esistenti. Il terzo pregiudizio è che i detenuti stranieri debbano tutti scontare la pena in carceri italiane. Il percorso sarà lungo, ma non si può escludere che, in futuro, una frazione crescente di detenuti stranieri possa scontare la pena nei paesi di origine, o in paesi terzi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia (in questa direzione si sono già mossi, negli ultimi anni, la Danimarca e il Regno Unito). Così come non possiamo escludere che il timore di essere espulsi o trasferiti abbia un effetto deterrente, con conseguente abbassamento del tasso di criminalità e alleggerimento delle carceri. Giusto per dare un ordine di grandezza: se il tasso di criminalità degli stranieri scendesse al livello di quello degli italiani si libererebbero circa 16 mila posti in carcere. E anche se risultasse 2 o 3 volte superiore a quello degli italiani (anziché 6-7 volte come oggi), si libererebbero comunque 8-10 mila posti. Più o meno quelli che, attualmente, occorrerebbe creare ex novo per neutralizzare il sovraffollamento. C’è, infine, un’ultima considerazione. Quando si affronta il tema delle carceri, è inevitabile che si scontrino visioni liberali e garantiste da una parte e istanze securitarie dall’altra. Generalmente, quel che la politica è chiamata a fare è di riequilibrare un sistema che si è sbilanciato in una direzione o nell’altra, o perché ha dimenticato i diritti dei detenuti a un trattamento umano, o perché ha dimenticando i diritti dei cittadini a un accettabile livello di sicurezza. Il guaio del nostro sistema è che, ormai, si è sbilanciato in entrambe le direzioni: è troppo repressivo dentro le carceri, ma al tempo stesso è troppo remissivo al di fuori. La “missione impossibile” della politica è di rimettere in equilibrio le cose: restituendo dignità ai detenuti, ma anche sicurezza ai comuni cittadini. In carcere solo detenuti in abbondanza: mancano spazi, agenti, servizi ed educatori di Francesco Rosati Il Riformista, 6 luglio 2025 “È drammatico il problema dei suicidi nelle carceri, una vera emergenza sociale che non mostra segni di arresto”. Con queste parole, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilanciato dal Quirinale un accorato appello per il sistema penitenziario italiano, incontrando il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e una rappresentanza della Polizia Penitenziaria. “Occorre intervenire subito - ha aggiunto il Capo dello Stato - per rispetto dei valori della Costituzione, del lavoro svolto dagli agenti e della storia della Polizia Penitenziaria”. Il drammatico appello lanciato dal Presidente Mattarella si inserisce in un contesto sempre più critico, con carceri fatiscenti, rese ancora più invivibili da un clima asfissiante. Con un tasso di sovraffollamento al 134,29%, l’atavica carenza di agenti penitenziari e il tragico bollettino quotidiano dei suicidi, le nostre carceri si configurano come la pessima sceneggiatura di un film già visto troppe volte, con i detenuti nei panni delle vittime. Nel mese di luglio, “Nessuno tocchi Caino” intensificherà le visite negli istituti penitenziari, con la presidente Rita Bernardini che prosegue lo sciopero della fame a sostegno della proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale, presentata alla Camera da Roberto Giachetti. Situazione allarmante anche per gli istituti penali per minorenni. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha recentemente diffuso una nota che fotografa una realtà inumana: “La giustizia minorile in Italia - si legge nel comunicato - sta vivendo una fase di regressione drammatica”. Dal 2022 a oggi, il numero dei giovani reclusi è salito del 55%, passando da 392 a 611 presenze. Un’impennata attribuita in larga parte all’effetto del Decreto Caivano, in vigore dal settembre 2023, che ha esteso le possibilità di custodia cautelare per i minorenni, limitando il ricorso a misure alternative. Secondo i dati aggiornati al 15 giugno 2025, i minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi della Giustizia Minorile sono 1.809 nei servizi residenziali (di cui 1.710 maschi e 99 femmine), e ben 15.974 seguiti dagli Uffici di servizio sociale. Gli ingressi nelle comunità private, nel corso dell’anno, sono stati 1.197. Nei 17 IPM presenti in Italia si contano attualmente 586 detenuti minorenni. Secondo Samuele Ciambriello, Garante campano e portavoce della Conferenza dei Garanti, “in Italia si stanno rinnegando principi pedagogici e trattamentali che un tempo erano all’avanguardia in Europa”. E aggiunge: “Serve tornare a una cultura educativa e dell’accudimento, soprattutto considerando che molti detenuti minorenni sono stranieri”. Mancano educatori, mediatori, personale di polizia, e anche le figure sociosanitarie devono essere adeguatamente formate sui diritti dell’infanzia e sulle fragilità dei minori. I Radicali Italiani hanno presentato in questi giorni tre accessi civici per conoscere l’impatto reale del Decreto Caivano. “Vogliamo sapere - dichiara il segretario Filippo Blengino - quanti minorenni sono in carcere perché non è stata attivata una misura alternativa”. Un’ulteriore richiesta riguarda la sezione per minori aperta dentro il carcere per adulti di Bologna: “Una scelta inaccettabile - prosegue Blengino - che solleva gravi dubbi sul piano giuridico e umano. Chiediamo trasparenza su costi, atti e personale: vogliamo vederci chiaro”. Infine, un accesso riguarda i nuovi IPM di Lecce, Rovigo e L’Aquila: “Mentre mancano educatori e strutture adeguate, il Governo Meloni pensa solo a costruire nuove celle. È l’ennesima risposta simbolica alla fame di codice penale”, conclude. Un furto di futuro per questi ragazzi, mentre il cartello delle riforme strutturali sul carcere rischia di recitare un triste “chiuso per ferie”. Fine delle liti: sul carcere serve una soluzione bipartisan di Elio Vito huffingtonpost.it, 6 luglio 2025 L’appello del presidente della Repubblica sul disastro del sistema penitenziario impone una pausa al teatro della politica. Destra e sinistra insieme facciano qualcosa in nome della Costituzione. Lo scorso 30 giugno, incontrando una rappresentanza della Polizia penitenziaria, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha denunciato ancora una volta la drammatica situazione di sovraffollamento, di carenze di organico, di strutture inadeguate in cui versano le carceri nel nostro Paese, per contrastare la quale necessitano finanziamenti. Il capo dello Stato ha ricordato che le carceri non devono essere un luogo senza speranza, non devono diventare una palestra di addestramento al crimine, ma devono essere rivolte effettivamente al recupero, che oltre a corrispondere a un obiettivo costituzionale comporta pure grandi vantaggi per la collettività. Sergio Mattarella ha detto soprattutto che “è drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale, sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Cosa stanno facendo governo e Parlamento per porre fine “immediatamente” a questa “vera e propria emergenza sociale”? Niente, questa è la tragedia nella tragedia. Si approvano decreti legge su ogni aspetto dello scibile politico ma non si fa nulla per le carceri. Le cause del sovraffollamento carcerario sono note, le leggi che comportano un aggravio delle pene non tengono conto del fatto che non ci sono le carceri, i posti, per ospitare i detenuti. E i previsti programmi di edilizia carceraria sono lunghi, lenti e insufficienti. Per rimediare a tale situazione, per contrastare l’emergenza carceraria, servono quindi provvedimenti urgenti che contribuiscono a una rapida diminuzione della popolazione carceraria. Le proposte ci sono, manca la volontà politica. Destra e sinistra si dividano e si combattano pure sulle questioni ideologiche che riguardano la giustizia, ma dopo le parole del capo dello Stato hanno il dovere di fare qualcosa insieme per la situazione drammatica delle carceri. Per questo, occorre una iniziativa trasversale, che superi gli schieramenti politici, di maggioranza e di opposizione e coinvolga tutti nella stessa misura. Nei giorni scorsi ci sono stati dei segnali, che vanno raccolti. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, si è detto favorevole alla proposta di legge presentata da Roberto Giachetti che, aumentando i giorni di liberazione anticipata, contribuisce in maniera decisiva a risolvere il problema. E un senatore del Partito democratico, Michele Fina, ha letto in Aula le pagine struggenti di denuncia che dal carcere sta scrivendo Gianni Alemanno. Se non basta tutto questo, se non è sufficiente l’appello del presidente della Repubblica, cos’altro serve ai parlamentari e ai governanti per intervenire sull’emergenza carceraria? E se non ora, quando? Davvero la politica intende andarsene in vacanza prima di avere risolto questa crisi? Lasciando le persone a morire in carcere? Laura Boldrini: “Manca senso di umanità. E dove è finito Nordio?” di Diego Motta Avvenire, 6 luglio 2025 L’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, è preoccupata. La situazione nei penitenziari italiani è al limite e i segnali di buona volontà, fatte salve poche eccezioni, nei palazzi della politica non ci sono. “La mia speranza è che la destra ascolti almeno le parole di Alemanno e dia seguito concretamente alle proposte delle opposizioni, anche se finora abbiamo registrato il rifiuto anche solo a ragionare della materia”. Per Boldrini, oggi deputata del Partito democratico e Presidente del Comitato della Camera sui diritti umani, “Alemanno ha fatto una denuncia puntuale di molti punti critici della situazione carceraria italiana: le condizioni degradanti delle celle, il sovraffollamento, la mancanza di personale, dagli educatori ai giudici di sorveglianza, fino agli agenti. Sta parlando al suo mondo, alla destra storica, quella che oggi è al governo”. Perché sostiene che nessuno darà seguito alle sue richieste, compresa quella alla classe politica di uscire dalla zona di comfort e visitare i luoghi di detenzione? Non tutta la classe politica ignora i luoghi di detenzione. Noi del Pd e di altre forze di opposizione li visitiamo costantemente. Ma per questa maggioranza il carcere semplicemente non esiste, se non come una discarica dove mandare le persone che sbagliano per poi buttare la chiave. Salvini lo dice esplicitamente. Manca un senso di umanità e sorprende sempre di più la metamorfosi avviata da Carlo Nordio da quando è ministro della Giustizia. Dov’è finito l’intellettuale che parlava di “diritto mite”, di carcere, quindi, solo per reati gravi, se questo governo non fa altro che introdurre nuovi reati e aumentare il numero delle persone in cella? La strategia della destra è il panpenalismo: secondo loro tutto si risolve con solo carcere, carcere, nient’altro che carcere. Nulla viene fatto, invece, per risolvere i problemi sociali che ne sono alla base. Il motivo è solo uno: garantirsi un consenso facile. Il presidente Mattarella, questa settimana, ha fatto riferimento al dato drammatico dei suicidi dietro le sbarre… Il capo dello Stato è stato molto chiaro, evidentemente non si vuole dar seguito alle sue parole. Ho effettuato molte visite negli istituti penitenziari in questi anni e la situazione sta peggiorando. Servono risposte subito e se si pensa, come fa la destra, che la risposta sia costruire nuove strutture di detenzione si finisce per rinviare la soluzione dei problemi, quando invece non c’è più tempo. I detenuti con cui parlo vivono in spazi angusti, spesso non hanno risposte per i loro bisogni, chiedono la presenza di educatori, di poter parlare con psichiatri e psicologi, visti i problemi che hanno. Trovano carceri sempre più sguarnite di personale e di programmi mirati al loro reinserimento: questa è la verità. Cosa sta facendo l’opposizione? Quella di Giachetti, insieme ad altre, è una proposta di cui vorremmo discutere con il governo, ma nessuno risponde. Non c’è dialogo. Il Parlamento viene puntualmente bypassato e non c’è confronto con la maggioranza che è più orientata a eseguire le indicazioni del governo, anziché portare avanti un dibattito con l’opposizione. Dopo ogni visita in un carcere facciamo interrogazioni al ministro, ma vediamo che alle tante criticità che segnaliamo non viene dato seguito. Inoltre i decreti attuativi restano fermi, le misure alternative al carcere che abbattono la possibilità di recidiva non contano più nulla. L’articolo 27 della Costituzione è, così, costantemente tradito specialmente nella parte in cui si progettano percorsi di rieducazione della persona condannata. Sta dicendo che questo è un governo forte coi deboli? Sto dicendo che così la detenzione è solo punizione, perché non si lavora anche sul recupero dei detenuti. Le persone che hanno commesso un reato devono poter uscire dal carcere migliori rispetto a quando sono entrate. Per questo servono percorsi di formazione scolastica e lavorativa. Torniamo a investire su questi progetti, invece di criminalizzare la resistenza passiva in carcere come fa il decreto sicurezza. Francesco Lo Piccolo: “La situazione carceraria è incostituzionale” di Pino Nicotri glistatigenerali.com, 6 luglio 2025 Dopo la recente denuncia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulle drammatiche condizioni delle carceri italiane, nulla di meglio che intervistare il giornalista Francesco Lo Piccolo, fondatore e presidente dell’associazione e del periodico che hanno entrambe il nome “Voci di dentro”, dove per dentro di intende dentro le carceri. Domanda - Il Presidente della Repubblica quando a fine giugno ha ricevuto al Quirinale il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Stefano Carmine De Michele e una rappresentanza di agenti della polizia penitenziaria ha parlato con toni anche drammatici della situazione carceraria italiana. La solita retorica che lascia il tempo che trova? Come quella sui morti sul lavoro che continuano ad abbondare nonostante discorsi, impegni, promesse e chiacchiere da tempo immemore? Risposta - La situazione delle carceri italiane e che da tutti e correttamente viene definita drammatica è frutto di un problema strutturale e non risolvibile a meno che non si avvii un radicale cambiamento. Cambiamento culturale soprattutto. Quasi tutti i 200 istituti del nostro paese sono stati pensati o costruiti per contenere un numero complessivo massimo di 50 mila persone mentre come è ben noto i detenuti sono oggi 62 mila. Ma attenzione, quei 50 mila posti in realtà oggi sono ancora meno, almeno 4 mila sono le celle in ristrutturazione e non più agibili per vandalismi, usura, poca manutenzione, scarsa qualità dei materiali usati. Due esempi a caso fanno subito capire la situazione: pensato per 450 persone oggi l’istituto di San Vittore contiene mille e cento persone; il carcere di Pescara costruito per 270 persone oggi ne ospita 401. Pochi spazi ma sono insufficienti anche i direttori: secondo le rilevazioni effettuate l’anno scorso da Antigone è stato accertato che in 48 istituti il direttore era incaricato a dirigere anche altri istituti. Spesso scelte del Dipartimento dell’Amministrazione Carceraria (DAP), fatte secondo criteri non del tutto chiari: ad esempio l’anno scorso la direttrice del carcere di Avellino con 600 detenuti dirigeva anche un altro istituto mentre avevano un direttore a tempo pieno la Casa Circondariale di Arezzo con appena 40 presenze, e la Casa di Reclusione di Alba con 43 persone detenute. Sì, è proprio il caso di dire che, quando la politica parla di carceri o di incidenti sul lavoro fa solo chiacchiere perché del tutto incapace forse per volontà di vedere la realtà. Un altro piccolo esempio: alcuni anni fa degli ispettori mandati dal mistero per cercare di risolvere alcune criticità a Pescara soprattutto il problema della mancanza di spazi, si misero a misurare l’altezza di una cella da terra al soffitto suggerendo di aggiungere un altro letto a castello. D - Se non sbaglio i suicidi in carcere sono uno dei brutti record europei “conquistati” dall’Italia, esattamente come le morti sul lavoro. Può darci qualche cifra? R - Secondo l’ultimo dato del Consiglio d’Europa, nel 2022 il tasso di suicidi nelle carceri italiane era più del doppio della media europea: 15 casi ogni 10.000 persone detenute, a fronte di una media di 7,2 casi. In particolare, dall’inizio dell’anno i suicidi sono stati 38 (dato al 30 giugno); 91, secondo i conteggi di Voci di dentro, quelli avvenuti nel 2024; 68 nel 2023; 86 nel 2022. Il 46 per cento delle persone che si sono uccise si trovavano in custodia cautelare in carcere, il più giovane aveva 20 anni; il più anziano 74 anni. Molti avevano già tentato il suicidio. In un libro di Baccaro e Morelli dal titolo “Il carcere: del suicidio e di altre fughe” è scritto tra l’altro che il 28% dei suicidi in carcere si verificano entro i primi dieci giorni e il 34% entro il primo mese. Il 30 giugno, Il Presidente Mattarella esprime l’ennesimo richiamo ad affrontare la drammatica situazione carceraria italiana D - Mattarella nel discorso citato ha detto che la situazione carceraria va migliorata anche per rispetto alla Costituzione. Ma la realtà purtroppo è che l’intera situazione carceraria di fatto è incostituzionale, perché la Costituzione prescrive che “la pena deve essere rieducativa e non afflittiva”. È chiaro che l’abbondanza di suicidi è una delle prove - purtroppo la più tragica - che la detenzione carceraria NON è una pena rieducativa, ma afflittiva. E pesantemente afflittiva. R - Sì, il carcere è solo afflittività, solo punizione. È fuori dalla Costituzione, oltre che in violazione di tantissime Convenzioni o Regolamenti europei. Il carcere è tortura e violenza. In carcere si lotta per sopravvivere a livelli minimi. Il carcere è violenza non solo nei confronti dei detenuti, ma anche di chi ci lavora. Anche gli agenti di polizia si uccidono. Lo racconto spesso, lo ridico qui: un ispettore mi raccontava che al termine di due o tre turni di seguito, prima di andare a casa si toglieva la divisa e indossava la tuta e si metteva a correre per qualche ora… chilometri su chilometri. Solo così, mi diceva, mi sentivo in grado di tornare da mia mogie e dai miei figli, solo così una volta liberata tutta la tensione e la sofferenza di quei tre turni potevo tornare una persona normale. D - Del resto che la situazione carceraria sia incostituzionale perché afflittiva e diseducativa Mattarella l’ha riconosciuto di fatto esplicitamente: “Ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività, oltre a essere l’obiettivo di un impegno notoriamente, dichiaratamente costituzionale. I luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in palestra di addestramento al crimine, né in luoghi senza speranza, ma devono essere effettivamente rivolti al recupero di chi ha sbagliato”. R - Assolutamente incostituzionale, in piena illegalità. Scuola di malavita, concentramento in un unico luogo, piccolo e angusto, di tutte le contraddizioni della società: marginalità sociale, povertà, dipendenza da sostanze. Malati, giovani e anziani, tutti insieme senza alcuna strategia di cura e di aiuto. Alessandro Margara, padre della riforma penitenziaria del 1985 (legge Gozzini) in un suo intervento nel 2009 diceva così: “C’era una volta un Ordinamento penitenziario che dava delle speranze di permessi di uscita, di misure alternative, ma anche questi spazi si sono sempre più ristretti - per leggi forcaiole e per magistrati condizionati dal clima sociale che le produce - e le speranze si sono trasformate in delusioni”. Utile uno spaccato del carcere: il 44,25% delle persone detenute fa uso di sedativi o ipnotici, il 20,4% utilizza stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi. Si tratta di classi di farmaci con rilevanti effetti collaterali e che vengono spesso utilizzati al di fuori di un quadro diagnostico definito. Oltre il 13 per cento delle persone detenute presenta diagnosi psichiatriche gravi. Cito un passaggio dall’ultimo dossier di Antigone: “In un carcere di medie dimensioni, circa 300 persone, il medico psichiatra è presente per 21 ore a settimana (3 ore al giorno)”. D - Mattarella ha indicato iniziative e cambiamenti ben precisi, cosa che in precedenza non ha mai fatto nessuno. Per esempio, ha detto: “Penso alla grave insufficienza del numero degli educatori, al difficile accesso alle cure sanitarie dentro gli istituti, specialmente per detenuti affetti da problemi di salute mentale. Occorre che gli istituti di pena siano dotati di nuove e più adeguate professionalità”. Parole che denunciano sia pure diplomaticamente l’inadeguatezza delle professionalità esistenti, create con criteri ormai superati. Lei cosa propone per tradurre in realtà questi stimoli al cambiamento? R - La figura dell’educatore è fondamentale. È stata introdotta con la riforma del ‘75 prevedendo un compito ben preciso: accompagnare il ristretto nel suo percorso di risocializzazione e di rieducazione, favorendo (dopo l’osservazione della personalità) l’accesso alle misure alternative. Ma anche altri i compiti di questa figura: progettare e organizzare le attività scolastiche, formative, sportive e ricreative. Erano previste 1400 persone per i detenuti dell’epoca che erano 30-35 mila. Altri tempi: oggi i detenuti sono 62 mila (il doppio di quelli degli anni Settanta) e gli educatori sono un migliaio, molti dei quali pronti per la pensione. E non sono più educatori: da alcuni anni sono diventati (promossi) funzionari giuridico pedagogici, ovvero coordinatori della rete interna ed esterna al carcere in modo da garantire una relazione con il territorio. Il risultato è che sono pochi e hanno più compiti, soprattutto più burocrazia. In media un educatore segue 60-65 detenuti. Ma, ripeto, è una media: nella Casa Circondariale di Busto Arsizio Antigone ha accertato che un educatore aveva in carico 145,67 detenuti e nella Casa Circondariale di Lecce, nonostante la presenza di tutti gli educatori previsti in pianta organica, ossia 11, ogni educatore aveva in carico 109,8 detenuti. Ovvio che ci vuole più personale e più risorse… ma se le risorse se ne vanno solo in sicurezza allora siamo sempre punto e a capo. Insomma tanti propositi, li sento da anni. Da anni sento chiacchiere. D - Il Capo dello Stato ha detto chiaro e tondo che per le carceri “servono investimenti in modo di garantire un livello di vita dignitoso ai detenuti e al contempo migliori condizioni di lavoro che voi svolgete con scrupolo. Sono investimenti necessari e lungimiranti. È particolarmente importante che il sistema carcerario disponga delle risorse necessarie, umane e finanziarie, per assicurare a ogni detenuto un trattamento che si fondi su regole di custodia basate su valutazioni attuali, per ciascuno, con l’obiettivo per il futuro”. Ma di tutto ciò non dovrebbe occuparsene il parlamento? Non dovrebbe essere il mondo politico a prendere l’iniziativa e approntare cambiamenti, miglioramenti e riforme? Spero di sbagliare, ma a me pare che in realtà l’intero mondo politico e sistema dei partiti a tutto ciò non pensa neanche da lontano. R - Certo che servono investimenti, ma vanno fatti con la testa e non con i piedi. Oggi si parla di costruire nuove carceri e nuovi modelli abitativi … tipo container? Forse? Una volta realizzati, dopo pochi anni saremo al punto di partenza. Tre miliardi e mezzo è il costo del sistema carcere in Italia, l’ottanta per cento se ne va nelle spese per la sicurezza; poco o niente per il personale educativo. Due euro e mezzo è il costo che lo Stato spende ogni giorno per ogni detenuto per assicurare colazione, pranzo e cena. Poi quando il detenuto esce perché ha espiato la sua pena gli viene chiesto il conto per l’alloggio. Proprio così, 100 euro al mese per l’uso della cella. Circa 100 euro al mese che ogni detenuto deve all’Erario. Comunque è tutto vero, la politica è assente. Parlare di carcere, di progetti per gli istituti penitenziari e di miglioramenti non porta voti. Al contrario, parlare di sicurezza, di nemici alle porte e dentro le carceri, complice una grossa fetta del sistema informativo, crea consenso e voti. Con questo governo e con i precedenti la logica resta questa. D - In questi giorni di grande caldo c’è gente che per le alte temperature muore letteralmente. In parlamento è stata letta una lettera di Gianni Alemanno, ex ministro ed ex sindaco di Roma in carcere a Rebibbia da inizio anno. Ecco alcuni stralci: “Qui si muore di caldo, ma la politica dorme con l’aria condizionata […..] La temperatura nelle celle di Rebibbia cresce salendo i piani del penitenziario, tanto che all’ultimo ci sono 10 gradi in più rispetto al piano terra, ma la politica dorme con l’aria condizionata. […..] Il sovraffollamento e calura rendono la vita in carcere una tortura”. R - Il carcere come ho già detto è diventato luogo di sofferenza e tortura. Ma non c’era bisogno che ce lo dicesse Alemanno. Voci di dentro e le tante altre associazioni che si occupano di diritti e giustizia, lo dicono e lo scrivono da anni. E lo stesso lo scrivono nelle loro lettere i detenuti non eccellenti che riescono a superare la censura che vige sia negli istituti e sia nei media. Qualche giorno fa ho segnalato a un collega che scrive per un quotidiano nazionale alcuni episodi di censura messi in atto da alcuni direttori “in carriera” nei confronti dei giornali realizzati all’interno degli istituti (vicenda segnalata anche da Paolo Pagliaro durante la trasmissione Otto e mezzo). Vuole sapere che mi ha detto questo collega giornalista? D - Certo. R - “Scusa Francesco, ma al mio giornale piace solo il gossip”. Per tornare a Alemanno è bene ricordare che il caldo non riguarda solo il G8 di Rebibbia. C’è ad esempio il G6, dove vivono come animali in gabbia gli “incollocabili”, persone malate che in carcere non ci dovrebbero stare. E c’è ancora il G12, il reparto oggetto della sentenza “Sulejmanovic contro Italia” che nel 2009 ha visto il nostro Paese condannato per trattamenti inumani e degradanti dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. Da allora, al di là di Alemanno, non è cambiato nulla: le celle hanno sempre le stesse dimensioni e sono abitate ancora da sei persone in uno spazio che la CEDU ha ritenuto essere equivalente a tortura. A Rebibbia come ovunque. E al di là di Alemanno è bene ricordare che l’invivibilità del carcere è frutto dei tanti politici che vorrebbero “buttare le chiavi”, invocando la “certezza della pena”. D - Se non ricordo male anni fa per impedire o almeno limitare gli episodi di violenze e abusi contro i detenuti è stata varata una legge che permette visite senza preavviso nelle carceri da parte di membri del parlamento. Questo strumento viene utilizzato? In modo frequente o raro? R - Le visite agli istituti penitenziari sono disciplinate dall’art. 67 della legge sull’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), la stessa che ha introdotto la figura degli educatori. Prevede che determinate persone o categorie di persone, che esplicano funzioni o ricoprono cariche pubbliche di particolare rilievo, possano visitare gli istituti senza richiedere l’autorizzazione all’accesso. Riguarda il Presidente del Consiglio dei Ministri, il presidente della Corte costituzionale, i ministri, i giudici della Corte costituzionale, i Sottosegretari di Stato, i membri del Parlamento e i componenti del CSM. Oltre a loro anche i consiglieri regionali, il prefetto e il questore della provincia; il medico provinciale. Un provvedimento quanto mai giusto con l’obiettivo di permettere la verifica delle condizioni di vita dei detenuti, compresi quelli in isolamento. In difesa dei diritti. Mi chiede se viene utilizzato? Per quanto ho visto in questi anni succede poche volte e quando succede è per verificare le condizioni di arrestati “eccellenti” e che fanno notizia. In realtà è una passerella che serve al politico per finire sulla stampa con tanto di foto. D - Lei cosa proporrebbe per realizzare un efficace controllo da parte esterna per controllare che nelle carceri non ci siano abusi? In tutto il mondo la condizione carceraria è orribile, fonte e sinonimo di abusi anche gravissimi. Compresi gli abusi sessuali. R - Il carcere dovrebbe essere trasparente, un presidio di democrazia, non un luogo dispotico e chiuso: il mondo di fuori (insegnanti, medici, esperti, titolari di imprese) devono entrare dentro e le persone dentro devono poter uscire. Il controllo non si fa proibendo, non funziona così; la pedagogia nera (teoria di fine 900 della sociologa Katharina Rutschky secondo cui la violenza fisica e psichica sono il cuore dell’educazione) non ha mai funzionato: i metodi che si fondano su coercizione, repressione e punizione sono strumenti di aggressione che reiterano il male. D - A proposito di abusi sessuali: qual è la situazione italiana? A suo tempo nella redazione milanese de L’Espresso, della quale facevo parte, sapevamo di abusi nei confronti di detenute, ma non c’erano prove da poter esibire senza timore di rappresaglia verso le detenute in questione. Peggio ancora per gli abusi nei confronti di detenuti maschi giovani, dei quali avevo notizia a Padova fin dalla fine degli anni 60. R - Gli abusi sessuali oggi sono rari, ma ci sono; è di aprile di quest’anno la condanna di un 55enne colpevole di molestie sessuali nei confronti di un giovane detenuto nel carcere di Brissogne in Valle d’Aosta che aveva avuto la forza di raccontare tutto alla madre e alla psicologa. E l’altro ieri nell’Istituto penale per minorenni di Nisida un agente scelto della Polizia penitenziaria è stato indagato per aver compiuto atti sessuali su un giovane detenuto. La violenza sessuale in carcere, del resto, l’ha ben raccontata nel suo “Uomini come bestie, il medico degli ultimi”, Francesco Ceraudo, pioniere della Medicina Penitenziaria Italiana, che per 40 anni ha diretto il centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa. R - Poiché i detenuti sono in custodia assoluta e totale dello Stato è chiaro che la loro condizione, qualunque essa sia, è responsabilità dello stesso Stato. Anche i suicidi, dunque, sono responsabilità dello Stato. Lo Stato prevede un risarcimento alle famiglie dei detenuti suicidi? Ci sono famiglie di detenuti suicidi che hanno fatto causa allo Stato per ottenere un risarcimento per la perdita del loro congiunto avvenuta sotto la responsabilità dello stesso Stato? Pur considerando che i suicidi sono fatti che attengono a problematiche personali e a disagi di varia natura, quando avvengono all’interno di una istituzione dello Stato, mentre il suicida è nelle mani dello Stato, allora per me non si possono più definire suicidi. Troppo comodo deresponsabilizzarsi scaricando il problema alla “vittima”. Il carcere è invivibile, pura sofferenza. Oggi, non sentirsi addosso la responsabilità dei suicidi in carcere è la cosa più orribile che possa capitare a questa nostra umanità. Purtroppo oggi ci accompagna solo l’indifferenza come del resto ho scritto nel mio editoriale sull’ultimo numero della rivista che dirigo e cha per titolo “La zona di interesse”. Quanto all’altro punto della domanda, la risposta è sì, le richieste di risarcimento da parte di familiari che hanno avuto un loro caro suicida in carcere ci sono. Purtroppo spesso finiscono nel nulla, alle volte è persino complicato e non viene accolta neppure la richiesta di un’autopsia in caso di una morte sospetta. Avere giustizia e trasparenza costa impegno e fatica. E il controllo non piace a chi ha il potere. Significativo un fatto del quale si è avuto notizia a febbraio di quest’anno. E’ successo che i giudici della Terza sezione civile di Roma hanno reso definiva la condanna del ministero della Giustizia che è stato costretto a pagare quasi 223 mila euro alla mamma e circa 212 mila alla moglie di un giovane detenuto stroncato da un’overdose di cocaina durante la carcerazione a Regina Coeli. Alla struttura carceraria è stata addebitata metà della colpa. Lo Stato aveva cercato in tutti i modi di chiamarsi fuori e opporsi, attraverso l’Avvocatura di Stato, provando a ribaltare sul ragazzo dipendente dalla cocaina l’intera responsabilità. Non gli è andata bene. Un bel segno questa vittoria delle due donne. Ma è bene ricordare che il fatto era accaduto 22 anni fa. D - Lei ha fondato e dirige il mensile Voci di dentro, che si occupa della realtà carceraria. Lei è stato redattore al Mattino di Padova, Il Messaggero, Il Diario di Palermo e altri giornali per così dire normali, che cioè non hanno avito e non hanno un particolare interesse per il mondo carcerario, si limitano come tutti alla cronaca giudiziaria. Quando e perché le è venuta l’idea di dar vita a un tale organo di informazione sul mondo delle carceri? R - Ho registrato in Tribunale la rivista Voci di dentro nel 2009. Volevo raccontare il carcere facendolo raccontare da chi lo conosce bene, da chi lo vive, da chi ci sta dentro. Ci occupiamo di diritti, giustizia e società. Oltre a persone in stato di disagio (detenuti, ex detenuti, altri) la rivista è scritta da volontari, esperti, giuristi, psicologi, sociologi e da figure che hanno ricoperto ruoli importanti e note nel mondo dell’amministrazione penitenziaria. Dentro il carcere si concentrano tutte le contraddizioni della società, più che mai giusto guardarlo da vicino… anche per capire la società. Voci di dentro è informazione dal basso, è giornalismo sociale. Senza altri scopi se non quello di informare su una realtà, a partire da quella penale e giudiziaria, distorta, manipolata e usata dal sistema dei media (e da quello penale), per fini che non hanno nulla a che vedere con il giornalismo. La R rovesciata nella testata è per rappresentare il nostro essere contro corrente, senza padroni, contro un sistema che stereotipizza, semplifica, riduce le complessità sociali, producendo una realtà alterata, e dunque escludente. D - Il suo mensile si chiama, significativamente, Voci di dentro. Voci che grazie soprattutto a lei arrivano anche fuori. Ma c’è chi dà loro ascolto? R - Voci di dentro, cinque numeri all’anno, mediamente 72 pagine a numero, viene stampato e spedito a casa di chi ce lo chiede inviandoci un piccolo contributo per le spese. In rete è gratis (si può sfogliare con visualizzatore pagine a questo link: https://www.calameo.com/read/0003421548324569fe117 oppure può essere letto il pdf a quest’altro link: https://drive.google.com/file/d/1xhF1KDOSHYYwLUM2YHezKjafr1vokzbr/view?usp=sharing). Chi vuole sapere ci ascolta, chi è sordo per scelta …pazienza. Viviamo tempi in cui il dialogo, il rispetto e il ragionamento sono difficili, ma non per questo si deve rinunciare a fare informazione. D - Esiste in Europa o nel mondo un Paese con una condizione carceraria ottimale da prendere come esempio positivo? R - Nei paesi del Nord Europa ci sono buoni esempi. Norvegia, Scandinavia e Finlandia hanno molto da insegnarci per quanto riguarda il rispetto della dignità delle persone che finiscono in carcere. E lì sono più basse anche le pene. Ma anche in Spagna i detenuti sono trattati con maggiore umanità. Le stanze dell’amore ci sono da anni e i detenuti possono telefonare a casa tutte le volte che vogliono, senza limiti. In Italia siamo ancora a dieci minuti a settimana. Comunque, la condizione ottimale è che non si siano più carceri. L’ex parlamentare e ministro Renato Brunetta annuncia il “programma Recidiva Zero” D - L’ex parlamentare e ministro Renato Brunetta dopo le dichiarazioni di Mattarella ha reso noto con un comunicato scritto che il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL,) del quale è presidente, ha varato “un percorso per promuovere studio, scuola, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere”. Si tratta del “programma Recidiva Zero, nel cui ambito abbiamo presentato un primo Disegno di legge e istituito il Segretariato Permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. Abbiamo predisposto un documento con le linee guida per le progettualità da realizzare nelle prossime settimane”. Cosa ne pensa? R - Tutte le iniziative e tutti i progetti che hanno l’intento di portare nelle carceri cultura, conoscenza e lavoro sono la base per costruire una società migliore. In carcere ce ne è bisogno più del pane. D - Brunetta ha concluso il suo comunicato con queste parole: “Con l’impegno di tutti il traguardo della riabilitazione dei detenuti potrà vedere la luce e il mondo carcerario diventare un luogo più umano”. Obiettivi ambiziosi, da Paese realmente civile: riusciremo a raggiungerli? R - Non solo riusciremo, dobbiamo raggiungere questi obiettivi. Voci di dentro lavora per questo. Carceri e minori, l’impegno dell’associazione “Bambini Senza Sbarre” per i figli dei detenuti di Emilia Canonaco cosenzachannel.it, 6 luglio 2025 La referente regionale Carmen Rosato: “I colloqui con mamma e papà reclusi servono a rinsaldare i legami affettivi, ma non devono trasformarsi in un evento traumatico”. “Non è vero che papà costruisce case, qui ci sono le sbarre”. Quella bugia detta a fin di bene per giustificare un’assenza improvvisa, altrimenti difficile da spiegare in altro modo, si sgretola in pochi istanti appena varcata lo soglia di un luogo che neppure l’infinita fantasia dei bambini riesce a far sembrare normale. Secondo “Bambini Senza Sbarre” - associazione fondata a Milano nel 1997, e attiva da tempo anche negli istituti penitenziari calabresi - sono 105mila i minori che “entrano” nelle carceri italiane per incontrare i genitori reclusi. Carmen Rosato - referente in Calabria dell’associazione “Bambini Senza Sbarre” - spiega: “Sebbene sia doloroso, il nostro consiglio è quello di dire sempre la verità ai figli delle persone detenute”. Offrire sostegno psicopedagogico e tutelare i diritti dei bambini che hanno mamma o papà in carcere è la missione fondamentale dell’associazione “Bambini Senza Sbarre” alla quale l’Europa guarda come esempio da emulare. La referente regionale Carmen Rosato evidenzia: “Le statistiche certificano che l’interruzione dei legami affettivi può incrementare fenomeni di abbandono scolastico, devianza giovanile, disagio sociale, illegalità e detenzione tra i figli di genitori detenuti. Accompagnarli in questa difficile fase della loro vita significa aiutarli a diventare adulti migliori”. La Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti - ratificata con il ministero della Giustizia e il Garante dell’infanzia il 21 marzo 2014 - ha sancito l’importanza di investire nella formazione degli agenti penitenziari incaricati di accogliere i bambini all’interno delle Case circondariali. La referente calabrese dell’associazione “Bambini Senza Sbarre” precisa: “I minori che varcano la soglia di un carcere per un colloquio con mamma e papà ricevono lo stesso trattamento degli adulti, dal controllo dei documenti alla perquisizione personale, passando per la spoliazione degli oggetti personali che possono essersi portati dietro da casa. Pertanto, è indispensabile che queste procedure vengano compiute con il tatto e la delicatezza richiesti dalla loro giovane età”. L’associazione “Bambini Senza Sbarre” ha istituito il servizio “Telefono Giallo” che offre consulenza psicologica alle famiglie che hanno un congiunto in carcere. Figure altamente specializzate rispondono a domande su come rapportarsi con i figli piccoli e a richieste di informazioni sulle procedure carcerarie in vista di un colloquio. La referente regionale Carmen Rosato conclude: “Non dimentichiamo che molti detenuti vengono trasferiti in istituti penitenziari che possono essere anche molto distanti dalla città di origine. Questo significa che bambini anche piccolissimi, per incontrare mamma e papà, sono costretti ad affrontare lunghi viaggi, e già questo incide sul loro benessere e la loro tranquillità”. Giustizia nel Sud di Mario Rusciano Corriere del Mezzogiorno, 6 luglio 2025 A chi giova sfiduciare la Magistratura per ragioni politicoideologiche? Forse al Governo che non esita a farlo? Eppure, se qualche sfiducia nella Giustizia esiste già tra gl’italiani, è dovuta anzitutto alla lentezza dei processi, non sempre imputabile ai soli Magistrati. Da molto tempo il più grave problema della Giustizia è la “organizzazione”, che tocca al Governo risolvere adeguandola secondo l’esigenza mutevole degli uffici giudiziari: quantità di magistrati, impiegati amministrativi e strutture. Soprattutto nel Mezzogiorno le carenze d’organico si fanno sentire eccome. Dalle nostre parti infatti - tra alta densità di popolazione, anarchismo diffuso, analfabetismo (non solo politico) e dispersione scolastica - bisogna fronteggiare: microcriminalità, criminalità organizzata e forte litigiosità dei cittadini con gran numero di processi civili. Non parliamo della barbara condizione delle carceri. Invece sulla giustizia l’unica priorità del Governo è la “separazione delle carriere” dei giudici. Ossessionato com’è dall’antica ideologia berlusconiana (all’epoca non infondata) dell’intollerabile protagonismo dei Pm. Ormai superato dall’opportuna “distinzione delle funzioni”: giudicanti e inquirenti non possono più scambiarsi facilmente i ruoli; ma, nell’interesse dell’imputato, rimane la “cultura della giurisdizione” del Pm. Insomma è interesse generale che entrambe le funzioni appartengano all’unica giurisdizione indipendente. Sorprende perciò l’ennesima reazione del Governo - specie del Ministro Nordio, ex Magistrato - al “parere” sulla cosiddetta “legge sicurezza”, emesso dal “Massimario della Cassazione”. Nordio conosce benissimo quest’Ufficio della Suprema Corte - non giurisdizionale, composto da “giudici di merito” - che da sempre svolge una duplice funzione di studio e di ricerca. Scrive le “massime” delle sentenze (sintetici riassunti delle decisioni dei giudici); e, a richiesta della Corte, scrive “relazioni tecniche” su determinate leggi d’impatto rilevante: in materia sia civile sia penale. Ne chiarisce la portata e ne orienta l’interpretazione dopo lo studio di giurisprudenza e dottrina. La scomposta reazione politica della destra a un parere tecnico destinato ai giudici e non vincolante è allora incomprensibile. C’è il sospetto che la relazione tecnica d’un ufficio della Corte sia per il Governo un’utile occasione di scontro con la Magistratura per portare acqua al suo mulino. Ma forse, prima d’arrivare allo scontro, Nordio potrebbe valutare con più attenzione e sagacia le leggi che propone. Mentre assistiamo alla crisi della democrazia liberale - basata sull’autonomia dei tre poteri (legislativo; esecutivo; giudiziario) - uno scontro del genere non può che condurre in un vicolo cieco. Tra l’altro, essendo già sbiadita la distinzione tra “potere legislativo” e “potere esecutivo” - perché di fatto il legislativo è appiattito sull’esecutivo da quando il Parlamento si limita ad approvare, colla fiducia, i decreti del Governo - è pernicioso lo scontro fra Governo e Ordine giudiziario. Questo infatti, quale potere autonomo e indipendente, è insostituibile: chi altri potrebbe amministrare la giustizia? Dunque screditarne la funzione, oltre a minare alla base l’equilibrio tra poteri dello Stato, crea preoccupante disordine sociale. Col rischio che gente sprovveduta si faccia giustizia da sola. Intanto, nello screditare i giudici per eventuali decisioni sgradite, il Governo trascura i cittadini: che, alla fin dei conti, della democrazia sono i protagonisti, titolari della sovranità popolare. E se per un verso non tutti si sentono tali - circa la metà degli aventi diritto non va a votare - per un altro verso tutti non possono sfuggire alla giustizia. O perché litigano tra loro rivolgendosi alla giustizia civile o perché litigano con lo Stato rivolgendosi alla giustizia amministrativa e via dicendo. Come pure chi commette reati va giudicato dalla giustizia penale. Perciò il Governo - pur precisando, bontà sua, che non tutti i Giudici sono “cattivi” - dà un pessimo esempio ai cittadini: diffida dei Giudici e li accusa di formare “corpi politicizzati”, che complottano contro le politiche governative ostacolandone l’azione. A parte la falsità dell’assunto, è un atteggiamento assai grave che induce i cittadini a non credere nella giustizia. Ma purtroppo la “separazione delle carriere” è un “totem” venerato dalla destra. Che s’ostina a voler riformare la Costituzione e, pur di raggiungere l’obiettivo, dimentica la millantata semplificazione. Prevede così un apparato pletorico di governo dei giudici: due Consigli superiori - uno dei Magistrati giudicanti, l’altro degl’inquirenti - e un’alta Autorità disciplinare che - finalmente - punisca gli uni e gli altri quando sbagliano (ad avviso di chi?). Speriamo non si arrivi, come molti temono, a una Magistratura sottomessa al Governo o addirittura al paradosso d’uno Stato senza giudici di cui fidarsi. La riforma vince l’”andata” ma la chiave resta il referendum di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 6 luglio 2025 Al girone di andata, la separazione delle carriere ha già in tasca il proprio primo traguardo. Con l’approvazione del nuovo articolo 102 della Costituzione al Senato si è arrivati al cuore della riforma, che introduce il concetto di “distinte carriere di magistrati requirenti e giudicanti”. Saranno sempre magistrati, sia quelli che accusano che gli altri che dovranno giudicare, ma le loro strade non potranno mai intersecarsi. Così, se dovesse capitare, a riforma compiuta, che un certo procuratore, magari un calabrese di stanza a Napoli, andrà in tv a tenere “lezioni sulle mafie”, il cittadino saprà che quello non è e non sarà mai un giudice. Ma è un signore che nel processo potrà portare solo un’ipotesi o un teorema, perché è solo una delle parti, e la sua parola, mentre discetta di mafie o di altro, non è d’oro né d’argento, ma vale tanto quanto quella della parte a lui contrapposta, quella della difesa. È un fatto culturale, e la strada per arrivare a questa trasformazione del pensiero non sarà breve, ma sarà importante. E accadrà. Lo si può verificare dai toni sgrammaticati e poco istituzionali con cui i contro-riformatori, dentro e fuori il Parlamento, aggrediscono non solo la riforma, ma addirittura i suoi promotori. Così il senatore del Pd Francesco Verducci, durante la discussione in aula, non soddisfatto per la presenza in rappresentanza del governo, del numero due alla giustizia, il viceministro Francesco Sisto, invocava il fantasma di Carlo Nordio, accusandolo di voler “portare a casa lo scalpo della magistratura” e di “inaccettabile bullismo istituzionale contro i magistrati”. Linguaggio e contenuti concorrenziali con un grillismo ormai diffuso quando si parla di giustizia. Ma il cammino della riforma è ormai tracciato, come la stradina nel bosco segnata dai chicchi di riso delle favole. Non appena sarà completato la prossima settimana l’articolato nelle votazioni della prima lettura del Senato, inizierà la seconda fase, come previsto per le riforme costituzionali, alla Camera e infine di nuovo al Senato per la quarta e definiva approvazione. Superata la fase più tecnico-giuridica, si aprirà la stagione dello scontro politico. Se qualcuno immagina che i protagonisti saranno soprattutto i partiti, vuol dir che sta sottovalutando la potenza d’urto organizzativa della magistratura militante. Abbiamo già visto sui social la prima fase della comunicazione con cui il sindacato delle toghe ha diffuso uno spot, senza offesa un po’ elementare e patetico, per spiegare al colto e all’inclito il funzionamento del processo. Ma siamo solo all’antipasto. Perché, dopo la definitiva approvazione della norma, con un voto di cui si dà per scontato non possa raggiungere la quota dei due terzi, si dovrà dare la parola agli elettori con il referendum confermativo previsto dalla Costituzione. E sarà quello il momento in cui i toni si faranno ancora più accesi. E allora il ministro Nordio, ma anche la presidente Meloni e tutto quanto il governo e la maggioranza parlamentare, si troveranno di fronte lo squadrone armato delle toghe militanti. I partiti delle sinistre saranno solo reggicoda o al massimo comprimari del sindacato dei magistrati. Si immagina sarà la primavera del 2026 il momento dello scontro più acceso. Sarà una vera campagna elettorale, tutta politica, anche perché, un po’ sottotraccia, si intuiscono speranze più alte. Lo si intuisce dalla lettura dei giornali di riferimento. In particolare il Manifesto, il quotidiano comunista che fu della garantista Rossana Rossanda e di un direttore come Luigi Pintor che scrisse un famoso editoriale sui procuratori intitolato “I Mostri”, pare dare suggerimenti e suggestioni. Se l’ultimo sondaggio conosciuto, del mese di giugno, condotto dall’Eurispes, dà in vantaggio i favorevoli alla riforma, ecco insinuare il dubbio che forse la famosa forchetta elettorale potrebbe essere piccola piccola. E la vera speranza è che il referendum sin possa trasformare in un sondaggio sulla popolarità non della magistratura, oggi a quota sottozero, ma dello stesso governo. E magari potrebbe capitare quel che successe a Matteo Renzi nel 2016 con la bocciatura della sua riforma costituzionale ma anche con la caduta dell’esecutivo. Così sognano. Ma il girone di andata intanto è vinto dalla riforma. “Riforma della giustizia a ogni costo, la voleva pure Falcone”: il convegno con Sisto e Zangrillo di Andrea Joly La Stampa, 6 luglio 2025 “Persino il paladino della lotta alla mafia era convinto che dopo il processo accusatorio il giudice non potesse essere “parente” del pubblico ministero”. La riforma della giustizia è al centro di un convegno stamane a Palazzo Civico con il ministro per la pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, il magistrato Edmondo Bruti Liberati e il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, che è stato molto esplicito: “Porteremo a casa la riforma a ogni costo. Per noi è una priorità”. Tema dell’incontro, promosso da Forza Italia, “Dalla separazione delle carriere alla riforma del Csm - La riforma della Giustizia di Forza Italia”: “Siamo convinti - ha spiegato Sisto - che siamo sulla strada giusta: logica e culturalmente nata da molto lontano. Nasce da Matteotti e da Calamandrei, nasce da Falcone. Qualcuno dice che Falcone non possiamo citarlo, ma lo facciamo: il 3 ottobre del 1991 rilasciò una bellissima intervista a Mario Pirani in cui disse chiaramente che il Pm non deve essere un paragiudice. Ho semplificato, naturalmente, e bisogna leggerla nella sua interezza per capire come il paladino della lotta alle mafie fosse convinto che dopo il processo accusatorio il giudice non potesse essere “parente” del pubblico ministero. Noi siamo sulla stessa linea, lo diciamo con grande orgoglio. Vorrei che si perdesse l’idea che sia una battaglia contro la magistratura, e che si capisse che la nostra è una battaglia per una giustizia più corretta” “La riforma della giustizia per Forza Italia è epocale. Avere un giudice diverso da chi difende come da chi accusa è una garanzia per il cittadino ma vorrei essere chiaro: non ci sono battaglie contro la magistratura, anzi è esattamente il contrario: noi puntiamo a liberare la magistratura dal gioco delle correnti. Un magistrato deve essere giudicato per quello che è, per quello che vale, non per appartenenza a una corrente o a un’altra”. “La separazione delle carriere cerca di dare al processo una geometria costituzionale - ha aggiunto Sisto - il giudice equidistante come in un triangolo isoscele: in cima il giudice, alla base, alla stessa distanza, accusa e difesa. Un recupero di logica all’interno del processo e soprattutto un cittadino che nel processo sarà più sicuro. La terzietà del giudice garantisce la sua imparzialità. Un giudice terzo è naturalmente più capace di essere imparziale” “Sacrosanto separare giudici e pm, un errore il sorteggio” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 6 luglio 2025 Parla Michele Vietti, già vicepresidente del Csm: “Le carceri? serve una riforma organica, ma intanto non serve a nulla inventare reati o inasprire le pene”. Michele Vietti, già vicepresidente del Csm e professore di Diritto dell’Economia alla Lumsa, sulla separazione delle carriere spiega che “non è possibile che controllore e controllato condividano lo stesso percorso di carriera, lo stesso sistema di reclutamento, lo stesso organo disciplinare e appartengano alla stessa corporazione”, e aggiunge che “l’Anm ritiene che questa riforma sia un tentativo di erodere l’autonomia giudiziaria, ma così non è”. Presidente Vietti, lei è stato vicepresidente del Csm e oggi proprio il Csm è al centro di una discussa e importante riforma della giustizia ad opera del governo Meloni: che ne pensa? Ritengo che la riforma della giustizia sia auspicabile e che presenti, nel suo complesso, notevoli potenzialità, a condizione che venga calibrata con rigore tecnico e istituzionale. Una riforma è necessaria per rispondere a problemi concreti di efficienza e per consolidare le garanzie nel procedimento penale. Punto cardine della riforma è la separazione delle carriere tra giudici e pm, una “battaglia” che il centrodestra porta avanti da anni ma che il centrosinistra osteggia con forza, nonostante alcuni, soprattutto nel Pd, in passato si fossero dichiarati a favore: qual è la sua opinione in merito? Devo dire che a lungo ho ritenuto la questione marginale, focalizzandomi sul modesto numero di cambi di funzioni tra requirenti e giudicanti che sembravano non giustificare una riforma, tanto meno costituzionale. Ma ho cambiato idea: una cosa sono i mutamenti di funzione, altra, ben diversa, è la questione del ruolo radicalmente differente che giudici e pubblici ministeri oggi rivestono. Nel nostro processo penale, il pm si presenta al dibattimento in una posizione di oggettiva supremazia rispetto alla difesa, basti pensare che riveste il ruolo di capo della polizia giudiziaria e dispone di strumenti investigativi decisivi, tra cui le intercettazioni, fulcro della ricerca della prova. Non possiamo certo negare che ciò stride con l’idea di un processo equo, imperniato sulla contrapposizione tra parti in condizione di parità e sulla formazione della prova nel contraddittorio, come sancisce la nostra Costituzione all’articolo 111. Si spieghi meglio... In uno Stato che voglia davvero definirsi liberale, la giurisdizione ha un ruolo cruciale: deve essere un presidio concreto a tutela delle libertà individuali, anche e soprattutto di fronte all’autorità pubblica. Il giudice, infatti, ha il compito di valutare con imparzialità la legittimità e la fondatezza dell’azione penale: per farlo, non può appartenere alla stessa struttura del pm che quell’azione promuove. Pensiamoci: non è possibile che controllore e controllato condividano lo stesso percorso di carriera, lo stesso sistema di reclutamento, lo stesso organo disciplinare e appartengano alla stessa corporazione. Si discute anche di altri aspetti del testo, dal sorteggio dei membri del Csm al ruolo che avrà o meno il Parlamento nella sua composizione: quali sono gli aspetti che la convincono della riforma e quelli invece da migliorare? L’ipotesi di introdurre il sorteggio per la selezione dei componenti del Csm, merita, a mio avviso, una critica netta. L’esperienza insegna che il ruolo di componente del Consiglio Superiore è tra i più impegnativi delle istituzioni repubblicane, richiedendo specifiche competenze tecniche, culturali e umane. D’altronde, il Consiglio è “Superiore” non per convenzione lessicale, ma perché l’ordinamento gli attribuisce un compito di primaria rilevanza, ovvero il governo autonomo di uno dei tre poteri dello Stato. I suoi componenti sono chiamati ad assumere decisioni che incidono direttamente sull’equilibrio dell’intero sistema giudiziario: affidarsi al caso contraddice le esigenze di qualità e responsabilità necessarie. Non è chiaro se il sorteggio derivi da una reazione contro il correntismo, ma io non aderisco alla retorica che demonizza l’associazionismo giudiziario. Le correnti, pur con i loro limiti, sono fenomeni fisiologici di aggregazione in qualunque realtà organizzata. Pensare di eliminarle per legge è, semplicemente, un’illusione. Schierata in prima linea contro questo testo è l’Anm, che parla di uno stravolgimento delle prerogative assegnata dalla Carta alla magistratura e che più volte ha dichiarato guerra a questo governo, con tanto di scioperi e comunicati al vetriolo: quale dovrebbe essere il rapporto tra Anm e politica e dunque in ultimo tra poteri e istituzioni? L’Anm ha reagito aspramente perché ritiene che questa riforma sia un tentativo di erodere l’autonomia giudiziaria, ma così non è. Comunque non mi scandalizza che, a fronte di una riforma costituzionale, si accendano polemiche e critiche, soprattutto da parte delle categorie interessate. L’importante è che nel confronto tra visioni diverse si arrivi a una sintesi equilibrata. Il rapporto tra poteri e istituzioni dovrebbe nutrirsi di dialogo e pluralismo, ma la politica, legittimata direttamente dal voto popolare, rimane il centro decisionale. Altro tema di discussione è la questione carceri, con il ministro Nordio che ha più volte promesso interventi per contrastare il sovraffollamento il quale tuttavia resta una piaga importante del nostro sistema penitenziario, causa spesso di suicidi e atti di autolesionismo: crede sia necessaria una riforma strutturale e, come forma emergenziale, anche un qualche tipo di indulto? Il sovraffollamento carcerario in Italia è innanzitutto una questione umanitaria, che richiede interventi strutturali urgenti. Le statistiche recenti parlano chiaro: si contano 62.445 detenuti a fronte di 51.280 posti regolamentari, con un sovraffollamento del 133%, e in ben 58 carceri su 189 il tasso supera il 150% . Queste condizioni hanno generato rivolte, rischi sanitari e violazioni dei diritti fondamentali e fanno registrare un aumento dei suicidi. È auspicabile un’ampia riforma organica del sistema penitenziario, che includa un significativo potenziamento delle misure alternative alla detenzione - come l’affidamento in prova al servizio sociale e la detenzione domiciliare - e una profonda ristrutturazione dell’ordinamento penitenziario per riallineare strutture, finalità e diritti in carcere ai dettami costituzionali di umanità e rieducazione. Però bisogna intanto evitare di moltiplicare i reati e inasprire le pene perché si rischia di provocare un cortocircuito. È recente la notizia di un programma che il procuratore di Napoli Nicola Gratteri terrà su La7 in autunno intitolato “Lezioni di mafia”. Da ex vicepresidente del Csm, come giudica tale iniziativa? L’iniziativa, se ben strutturata, può diventare un’occasione educativa e formativa: l’importante è non fare i processi in televisione e offrire strumenti oggettivi di conoscenza e riflessione sulla mafia, tenendo ben distinto il ruolo del magistrato (che si occupa delle singole responsabilità) da quello del giornalista. Il Pm Gratteri e il “dovere” di criticare la riforma in tv di Luca Fazzo Il Giornale, 6 luglio 2025 “Ho sempre pensato che di fronte a riforme discutibili della giustizia il silenzio fosse complicità”, dice Gratteri per spiegare cosa lo ha spinto a tuffarsi nell’agone. Verrebbe da dire: meno male che arriva Gratteri. Perché il ciclo di trasmissioni su La7 che dal prossimo autunno avrà per protagonista il procuratore della Repubblica di Napoli Nicola Gratteri non costituiranno solo la novità assoluta di un magistrato tuttora in servizio promosso a conduttore televisivo, con buona pace dei doveri di riservatezza che si immaginavano connessi alla funzione giudiziaria. No, le “Lezioni di mafia” programmate sulla rete di Urbano Cairo si prefiggono un obiettivo ben più alto: rimediare al silenzio con cui la magistratura italiana ha risposto alla riforma della Giustizia voluta dal governo Meloni. Lo spiega ieri lo stesso Gratteri, in un’ampia intervista al Corriere della sera, ovvero al quotidiano dello stesso Cairo. “Ho sempre pensato che di fronte a riforme discutibili della giustizia il silenzio fosse complicità”, dice Gratteri per spiegare cosa lo ha spinto a tuffarsi nell’agone. Certo, ci sarebbe da obiettare che finora leggendo i giornali e guardando la televisione (compresa La7) di questo silenzio, di questa ignavia della magistratura di fronte ai piani dell’esecutivo non si vede traccia. L’Anm ha prodotto tonnellate di documenti, risoluzioni, comunicati, appelli; sono stati indetti convegni, scioperi, flash mob con coccarda sulla toga e Costituzione in pugno; sono state rilasciate una quantità incalcolabile di interviste da parte di colleghi passati e presenti di Gratteri in cui si evocavano dietro la riforma gli spettri di Gelli, Craxi, Berlusconi e quant’altri; sono stati prodotti video teatrali per rendere edotti gli italiani delle conseguenze nefaste della riforma. Insomma di tutto si può accusare la magistratura italiana tranne di avere sonnecchiato per ignavia o connivenza davanti alle manovre governative. Eppure per Gratteri il nemico da battere è il silenzio che sente solo lui, e che diventa la giustificazione per tuffarsi in prima serata. “Il magistrato - gli chiede l’intervistatore - viene visto universalmente come molto riservato, lei ha deciso di avere invece una esposizione pubblica e mediatica, non si è mai pentito?”. E il procuratore di Napoli spiega di non essersi pentito affatto e anzi rincara la dose, il nemico contro cui si batte non è solo il silenzio davanti alle riforme ma addirittura “un Paese che ha scelto di convivere con le mafie”. Dice proprio così, “un Paese”: non “un pezzo di Paese”, non “certi ambienti”, “qualche settore”. Secondo Gratteri è un intero Paese, l’Italia, il suo, quello in cui è nato e che gli paga lo stipendio, ad avere deciso che con mafia e ndrangheta in fondo ci si può accomodare. È questa l’architrave del Gratteri-pensiero, la convinzione - purtroppo sincera - di incarnare la faccia pulita di un’Italia per il resto corrotta e collusa; e se tale è la convinzione allora tutto diventa giusto e anzi doveroso, indossare la toga la mattina e il cerone davanti alle telecamere, stare a doppio servizio tra l’aula e il teatro Palladium dove verranno registrate le prime quattro puntate di “Lezioni di mafie”. Le prime, perché - spiega sempre Gratteri - l’obiettivo è andare avanti. Sempre per sconfiggere il silenzio Firenze. Un altro detenuto morto nel carcere di Sollicciano di Emiliano Benedetti firenzetoday.it, 6 luglio 2025 Aveva gravi problemi psichiatrici e dietro le sbarre “non doveva stare”. Ancora un morto nel carcere fiorentino di Sollicciano. Eric Michael Rasbornig, 57 anni, di nazionalità austriaca. Era stato arrestato mercoledì 25 giugno nei pressi della stazione di Santa Maria Novella. Aveva passato la notte dentro un negozio della galleria commerciale e alcune commesse ce lo avevano trovato all’apertura, mezzo nascosto e mezzo nudo. Attimi di panico e paura, dopo che l’uomo aveva impugnato delle forbici trovate sul bancone e gliele aveva rivolte contro, per poi darsi alla fuga. Quindi l’arresto, l’udienza di convalida due giorni dopo, venerdì 27, ed il trasferimento nel penitenziario. Sezione “transiti”, in isolamento, in attesa di capire dove potesse essere trasferita una persona che aveva mostrato evidenti problemi psichiatrici. Purtroppo, quella sezione è stata l’ultima ad averlo invece visto in vita. È stato trovato morto ieri, venerdì 4 luglio, intorno all’ora di pranzo. Al momento si parla di malore, tra le mura di una struttura che d’estate raggiunge temperature roventi e insopportabili. L’autopsia, già disposta dalla procura di Firenze, potrà nei prossimi giorni dirci qualcosa di più su quanto accaduto. Sicuramente sappiamo che nei giorni precedenti quell’uomo, senza fissa dimora e che, a quanto pare, riusciva in qualche modo a fare la spola tra l’Austria e l’Italia, era stato identificato nei giorni precedenti in pieno centro storico, tra via Panzani e via Cerretani. Quasi completamente nudo, una di quelle occasioni in cui qualche passante si ferma a fare un video per postarlo sui social. Video che sarebbe ora stato rimosso. Avvocato d’ufficio del 57enne, dopo l’arresto, era stata nominata l’avvocato Valentina Tinti, che aveva però poco dopo chiesto di essere sollevata dall’incarico per le vistose intemperanze dell’uomo e gli atteggiamenti aggressivi nei suoi confronti, come palesatesi anche durante l’udienza di convalida dell’arresto. Altri atteggiamenti che evidenziavano il grave disagio mentale della persona. “Dietro le sbarre non criminali, ma quelli che non sappiamo dove mettere” - “Il carcere è pieno di persone malate, chi per disagi psichici, chi per tossicodipendenza conclamata. Dobbiamo dire le cose come stanno, dietro le sbarre non finiscono quasi mai i grandi criminali ma, in stragrande maggioranza, coloro che non sappiamo dove mettere quando sono fuori. Quest’uomo era in condizioni psicofisiche e di disagio mentale molto forti”, commenta Giancarlo Parissi, garante dei detenuti di Firenze. “Non era lucido, chi l’ha incontrato racconta che non era in grado di tenere una conversazione. Una persona molto disturbata, non presente a se stessa. Le condizioni di reclusione a Sollicciano sono allucinanti, ancora di più se a sopportarle deve essere una persona con tali problematiche, per la quale dovevano essere pensate altre soluzioni e dove evidentemente non doveva stare”, le parole di Giuseppe Caputo di Altro Diritto, associazione che si occupa del rispetto dei diritti delle persone private della libertà. Una conta che non finisce mai - È il quarto morto nel carcere fiorentino nel 2025. Un altro anno tragico, iniziato con il suicidio, il 3 gennaio, di un 25enne di nazionalità egiziana, impiccatosi pochi giorni prima del 26esimo compleanno, solo dieci giorni dopo il suicidio di un detenuto 28enne. Il 15 febbraio, sempre per impiccagione, si era tolto la vita un 39enne romeno. A metà marzo la triste conta dei morti si era aggiornata con un 34enne italiano, deceduto per overdose. Ieri, l’ultimo decesso. Firenze. Quanto vale una vita di Mario Lancisi Corriere Fiorentino, 6 luglio 2025 Scrive Il Post, “i detenuti vivono in celle fatiscenti e sovraffollate, in molti reparti c’è un problema di cimici dei letti, nella struttura ci sono anche infiltrazioni, perdite d’acqua, umidità, topi e sporcizia”. D’inverno poi si “muore” di freddo e d’estate di caldo. “In questi giorni di grande caldo pensiamo che sia necessario tenere alta l’attenzione sui temi dell’invivibilità del carcere, sia per i detenuti che per chi ci lavora”, è il timido commento dell’assessore di Palazzo Vecchio Nicola Paulesu. E sarebbe davvero un’occasione perduta se ci limitassimo all’acquisto di qualche ventilatore. Ci aveva già pensato nel 2017 l’allora assessora alla sanità Stefania Saccardi che dotò Sollicciano di 90 ventilatori (26 euro il costo singolo). Così come il presidente Enrico Rossi, nel 2010, fece acquistare 412 materassi. In questo quadro desolante spicca il nullismo mortificante del governo. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha detto che il governo Meloni con il decreto -legge del 4 luglio del 2024, cosiddetto “Carcere sicuro”, ha saputo dare “risposte straordinarie ed energiche all’emergenza del sovraffollamento ma anche soluzioni adeguate, proporzionali e lungimiranti”. Mentre il suo vice Andrea Delmastro, nell’aprile scorso, aveva promesso per maggio l’arrivo del nuovo direttore, che non è ancora arrivato (siamo a luglio), e una decina di milioni per vari lavori al carcere fiorentino. La stessa cifra promessa un anno prima dal suo collega Andrea Ostellari. Stessi soldi, stesse promesse, zero fatti. E intanto a Sollicciano i detenuti continuano a morire. Bergamo. “Senza soldi a rischio il reinserimento sociale dei detenuti” di Sara Agostinelli bergamonews.it, 6 luglio 2025 L’Associazione Carcere e territorio: “Casa e lavoro sono i presupposti necessari per tornare a vivere in società dopo aver scontato la pena ma non abbiamo più i fondi per attivare i tirocini, dare le borse lavoro e gestire gli 11 appartamenti su cui possiamo contare. Ogni anno supportiamo un centinaio di persone nell’inserimento lavorativo e oltre 30 nella ricerca di alloggio”. Lanciata una raccolta fondi: “Le misure alternative sono l’unica possibilità per ‘svuotare’ la struttura, se non si applicano si può solo peggiorare”. “Per la prima volta in 40 anni, sono finiti i soldi. Da settembre non riusciremo più a sostenere il reinserimento sociale dei detenuti che hanno scontato la loro pena”. È un grido di dolore quello di Carcere e territorio, associazione bergamasca che da decenni lavora per la garanzia dei diritti dei detenuti e il loro ritorno alla vita una volta fuori dalle sbarre. Già due mesi fa avevano lanciato l’allarme: via Gleno sta scoppiando, con più di 600 persone rinchiuse in una struttura che dovrebbe ospitarne 319. Se la percentuale media di sovraffollamento a livello nazionale è del 121%, a Bergamo sfiora il 190%. “Abbiamo chiesto un incontro alla direttrice del carcere, Antonina D’Onofrio, e al Tribunale di sorveglianza - spiega Gino Gelmi, vicepresidente dell’associazione -. Se non si applicano le misure alternative previste dalla legge, la situazione non può che peggiorare”. Le misure alternative sono l’unica possibilità per ‘svuotare’ la struttura: si tratta di permessi per lavoro diurno fuori dal carcere, semilibertà, domiciliari e via dicendo. In attesa di una risposta da direttrice e magistrati, oggi Carcere e territorio spiega che di allarme, però, ce n’è un altro: “Casa e lavoro sono i presupposti necessari per tornare a vivere in società dopo aver scontato la pena - spiega Fausto Gritti, presidente dell’associazione -, ma non abbiamo più i fondi per attivare i tirocini, dare le borse lavoro e gestire gli 11 appartamenti su cui possiamo contare. Ogni anno supportiamo un centinaio di persone nell’inserimento lavorativo e oltre 30 nella ricerca di alloggio. Quest’anno abbiamo sostenuto il ritorno al lavoro di 89 persone, grazie al contributo di Fondazione comunità bergamasca e altri partner. Da settembre, però, non sappiamo come fare: è saltato un finanziamento su cui contavamo e già ora ci sono almeno 28 detenuti pronti per accedere alle misure alternative e lavorare”. Non si scandalizzi chi pensa che trovare lavoro è difficile per tutti e prima viene chi rispetta la legge: le borse prevedono compensi di 350 euro mensili per il lavoro part time e 500 euro per il tempo pieno. E chi ne beneficia ha pagato il suo debito con la giustizia. “I numeri ci dicono che chi viene supportato nella ricerca di casa e lavoro raramente torna a compiere reati - precisa Gritti -. Se invece mancano questi elementi, la possibilità che si torni ad attività illegali è alta. È una questione di sicurezza sociale, riguarda tutti”. Proprio a questo “tutti” si rivolge Carcere e territorio, lanciando una raccolta fondi aperta a enti e singoli, con cui spera di raccogliere quei 50mila euro che mancano all’appello e permetterebbero di coprire il secondo semestre del 2025. “I fondi verranno utilizzati tassativamente per le borse lavoro - rassicura Gritti - saranno fiscalmente deducibili e ai donatori saranno comunicate le iniziali dei beneficiari e il progetto che andranno a sostenere”. L’associazione si rivolge anche agli enti pubblici. Alla Provincia chiede di rafforzare la collaborazione, lavorando per individuare più posti di lavoro nelle aziende profit attraverso i Centri per l’impiego. E ai 14 ambiti socio-assistenziali di farsi carico delle borse lavoro di chi risiede sul loro territorio, attingendo al Fondo per la grave marginalità. Monza. Le celle del carcere come forni. Raccolta fondi per i ventilatori di Alessandro Salemi Il Giorno, 6 luglio 2025 L’iniziativa portata avanti dal consigliere Piffer e dal gruppo Geniattori. La campagna sulla piattaforma GoFundMe: “Restituiamo dignità ai detenuti”. Un ventilatore in ogni cella per affrontare l’estate rovente e restituire dignità ai detenuti del carcere di Monza. È questo l’obiettivo della raccolta fondi lanciata dal consigliere comunale Paolo Piffer (Civicamente) e dall’associazione culturale Geniattori, da anni attiva all’interno dell’istituto con laboratori teatrali. La campagna è stata attivata nei giorni scorsi sulla piattaforma GoFundMe, con un messaggio chiaro e diretto: “Aiutiamo i detenuti a superare il caldo estivo”. Un gesto concreto, che Piffer definisce “semplice ma di grande impatto”, e che mira a portare sollievo a chi vive in condizioni spesso insostenibili: celle sovraffollate, spazi angusti, assenza di ventilazione e temperature che superano i 35 gradi. L’obiettivo, spiega il consigliere, è riuscire a completare la raccolta entro il 18 luglio, in modo da procedere con l’acquisto e la distribuzione dei dispositivi il prima possibile. “Le alte temperature - sottolinea - rendono le già dure condizioni di detenzione ancora più disumane”. Attivista da anni per i diritti dei detenuti e membro dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Piffer conosce bene la realtà del carcere monzese e sottolinea l’urgenza della situazione: “Crediamo che la pena debba essere sì rieducativa, ma sempre e comunque dignitosa. E in questo momento, anche un ventilatore può fare la differenza”. La raccolta, oltre che online, è promossa sui canali social dello stesso consigliere e dei Geniattori, gruppo che si è distinto lo scorso maggio vincendo al Teatro Parioli di Roma il Premio teatrale nazionale Maurizio Costanzo, con l’opera “Senza parole”, portata in scena da 13 detenuti-attori. Ma la realtà quotidiana tra le mura di via Sanquirico racconta una situazione molto critica. La struttura ospita più di 730 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 411 posti. In questi ultimi due anni, grazie all’impegno di associazioni come Zeroconfini Onlus, Ad alta voce, Carcere aperto e con il supporto del cappellano del carcere, sono stati distribuiti 150 ventilatori. Un numero importante, ma ancora non sufficiente. Ora, con l’appello di Piffer e dei Geniattori, la città è chiamata a fare la propria parte. “Se non siete della provincia di Monza ma volete unirvi alla nostra iniziativa, magari raccogliendo fondi per il carcere più vicino alla vostra città, sarebbe grandioso”, scrive ancora il consigliere, invitando tutti a condividere la raccolta sui social. Il link per donare è: https://gofund.me/2cd03655. Ivrea (To). Libertà di informazione in carcere: la lettera La Sentinella del Canavese, 6 luglio 2025 Chiedono il “rispetto della libertà di espressione, autorizzazione all’uso di tecnologie, tempi rapidi nelle risposte, adeguata considerazione dell’attività svolta dai volontari operatori della comunicazione”, volontari e giornalisti che operano in 21 giornali carcerari, redatti dai detenuti. Perché se la libertà di stampa è un problema nella società civile, figurarsi tra le mura delle carceri italiane. La lettera è firmata anche da Federico Bona, direttore di quello che è rimasto l’ultimo giornale del carcere di Ivrea: l’Alba. Spiega il documento che il “diritto delle persone detenute a esprimere le proprie opinioni è tutt’altro che rispettato. In questi anni di vita dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione dalle carceri, noi che in numerose realtà lavoriamo da tempo, ci siamo presi l’impegno di raccontarle con onestà, e non abbiamo mai taciuto le difficoltà, le criticità, i percorsi finiti male, le ricadute, le sconfitte. Abbiamo cercato con senso di responsabilità e professionalità di fornire una informazione attenta, precisa, documentata sulla realtà carceraria, proprio perché la sfida è rispondere con precisione e sincerità a una informazione spesso imprecisa e menzognera che arriva dal mondo libero”. Così, le redazioni dei giornali firmatari pongono le seguenti domande: “è ammissibile che sulle pagine dei giornali di alcune carceri quella persona non possa firmare, se lo desidera, i suoi articoli con nome e cognome visto che il suo diritto alla privacy è già assicurato dalla direzione del giornale?”. E ancora: “Se la persona detenuta ha diritto a esprimere le proprie opinioni, e i giornali realizzati in carcere hanno un direttore responsabile che ne risponde anche penalmente, come si spiega che in alcuni istituti sia d’obbligo una “pre-lettura” degli articoli da parte delle direzioni dell’istituto e delle eventuali “Istanze superiori”?”. In più: “Com’è possibile effettuare il lavoro redazionale senza poter usare, almeno in presenza e sotto la responsabilità di operatori volontari, elementari strumenti tecnologici come registratore, macchina fotografica, connessione Internet?”. Poi, c’è la questione della tempestività: “Articoli che parlano del caldo asfissiante nelle celle e vengono autorizzati alla pubblicazione a Natale, richieste di permessi di ingresso di ospiti significativi che arrivano a volte con lentezza esasperante, attese snervanti per introdurre materiali indispensabili per il nostro lavoro, sono tutte situazioni che oggettivamente finiscono per vanificare il lavoro delle nostre redazioni”. Palermo. Past-Art, detenuti produttori di pasta artigianale nell’impianto dell’Ucciardone giornalelora.it, 6 luglio 2025 Lunedì 7 luglio alle 18.30, nella CR Palermo “Ucciardone - Calogero Di Bona” (via Enrico Albanese 3), sarà presentato Past-Art, un progetto di inclusione sociale per il reinserimento lavorativo dei detenuti attraverso le attività e i prodotti realizzati nel pastificio riattivato all’interno della struttura. L’incontro è a numero chiuso, con ingresso a inviti. Past-Art è un’iniziativa promossa da Asterisco con il sostegno di Fondazione Con il Sud, Fondo di beneficenza Intesa Sanpaolo ed Enel Cuore Onlus, e coinvolge 15 persone recluse che hanno ricevuto una formazione specifica per la gestione dell’impianto per la produzione di pasta artigianale. La prima parte della serata sarà dedicata all’illustrazione degli scenari e delle varie fasi progettuali, con approfondimenti sul tema lavoro e carcere, sulle caratteristiche del grano siciliano e, inoltre, sulla strategia di marketing e comunicazione relativa alla linea di prodotto, al marchio, al packaging, all’immissione e al posizionamento sul mercato. Tra gli interventi istituzionali in programma, quelli del provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, dell’assessore regionale delle politiche sociali e del lavoro, Nuccia Albano, e dell’assessore comunale all’Assistenza sociale, Domenica Calabrò. Nella seconda parte, spazio allo cooking show con Salvo Terruso “Il Pastaio matto”: lo chef cucinerà utilizzando la pasta prodotta dai detenuti protagonisti del progetto, che saranno presenti all’incontro. Past-Art è attuato con la collaborazione di Cesam, Bia, Reattiva Adv, Coreras e Rigenera. Roma. La quinta Basilica giubilare di Felicita Pistilli e Fabrizio Salvati L’Osservatore Romano, 6 luglio 2025 Nella casa circondariale di Rebibbia dove Papa Francesco ha aperto la Porta Santa. Al tavolino di un bar, la vista si spalanca sul Colosseo: è da qui che riflettiamo sul senso della libertà. Il panorama si apre largo davanti ai nostri occhi: qualcosa di scontato nella bellezza di Roma. Ma c’è chi il mondo - è questo che pensiamo - lo guarda da una finestra con le sbarre e a mala pena riesce a vedere uno spicchio di cielo. Un mondo a parte: il carcere. Ma in quest’anno giubilare, dedicato alla speranza, proprio in un carcere Papa Francesco ha voluto aprire una Porta Santa. Allora proviamo anche noi a varcare, simbolicamente, quella porta della cappella della casa circondariale di Rebibbia a Roma, diventata la quinta basilica giubilare. Lo facciamo, innanzitutto, seguendo il racconto di chi lo ha fatto veramente. Parliamo con Massimo e gli chiediamo perché questo pellegrinaggio. “L’ho fatto inizialmente per la curiosità di vivere un paradosso: passare una porta per entrare in un posto chiuso, il simbolo della chiusura per antonomasia”. Massimo ha varcato la Porta Santa di Rebibbia insieme con la sua parrocchia, una di quelle che hanno accolto l’invito del Servizio per la pastorale carceraria della diocesi di Roma a intraprendere un percorso di vicinanza e di solidarietà con il mondo della detenzione. Massimo ci racconta che la sua prima impressione è stata quella di trovarsi in un “mondo capovolto”. La sensazione si percepisce bene nel momento in cui si va via, spiega: “Io potevo uscire, gli altri no”. In quel momento la porta mette in evidenza la separazione dal resto della città, una ferita da sanare. Già solo da questa riflessione si capisce il senso del gesto compiuto da Papa Bergoglio: andare a Rebibbia il 26 dicembre, subito dopo aver aperto la Porta Santa della basilica di San Pietro. Arrivato in sedia a rotelle davanti all’ingresso della cappella, il Papa si è alzato e ha aperto la porta giubilare. È stata la prima volta dentro una casa di reclusione. “Tutti i giorni prego per voi e non è un modo di dire”, sono state le parole del Pontefice. Massimo riprende il racconto: “Entrare in carcere - lo avevo già fatto qualche volta da volontario - significa guardare negli occhi l’altro. Lì si socializza anche solo con un cenno di saluto, che significa dire a chi ti sta di fronte: tu esisti”. “Perché loro e non io?”, sono le parole con le quali Papa Francesco accompagnava ogni sua visita ai detenuti. Massimo ci dice che, da cristiano, superare la Porta Santa di Rebibbia è stato riconoscere il suo essere peccatore. Ma la forza di quel passaggio, sottolinea, è universale: “Bergoglio ha messo al centro una realtà, permettendo di vederla da vicino anche a chi, di solito, sta a guardare alla finestra”. La conoscenza, dunque, come primo passo della speranza. E la speranza dei detenuti, quel 26 dicembre del 2024, era proprio questa: che l’apertura della Porta Santa fosse il simbolo di una apertura che andasse oltre quel giorno, oltre i luoghi comuni e i pregiudizi. Ai tanti giornalisti, che aspettavano fuori dal carcere per chiedergli l’importanza di quel gesto, Francesco ha risposto così: “Molto importante, perché dobbiamo pensare che tanti di questi non sono pesci grossi, i pesci grossi hanno l’astuzia di rimanere fuori e noi dobbiamo accompagnare i detenuti. Gesù dice che il giorno del giudizio saremo giudicati su questo: ero in carcere e mi hai visitato”. Massimo ci racconta che nella cappella del carcere c’era una fila di panche vuote a separare i detenuti. Ma il solo fatto di essere nello stesso luogo annullava le distanze. Ogni incontro è speranza. Don Marco Fibbi è uno dei cappellani di Rebibbia. “Per i detenuti incontrare il Papa è stata una grande emozione. Li ha salutati uno a uno - racconta - e avrebbe voluto salutare anche quelli rimasti in cella. Tutti hanno sentito il suo affetto ed è quello che ha restituito loro la speranza. La speranza per chi è in carcere è guardare al futuro sapendo di essere amati fuori, non più giudicati. La fede, in questo, dà grande forza”. Don Marco osserva, ogni volta, la curiosità nei loro occhi, quando vedono arrivare i pellegrini: “Rappresenta un collegamento con l’esterno; soprattutto significa attenzione verso di loro”. Così si allarga il loro spicchio di cielo. Varcare la Porta Santa di Rebibbia è fare proprio il messaggio di Bergoglio che - sottolinea ancora don Marco - “ha tanto amato i carcerati, tornando tra le sbarre fino all’ultimo con la visita al carcere di Regina Coeli compiuta il Giovedì Santo, pochi giorni prima della sua scomparsa”. Al ricordo di quella vicinanza è dedicato anche l’ultimo numero di “Non tutti sanno”, un periodico realizzato dai detenuti della casa di reclusione di Rebibbia. Scrivono dell’umanità di Papa Francesco, lo definiscono “voce e speranza dei reclusi”, ma poi osservano che i suoi appelli ai potenti per rendere più umane le condizioni di vita in carcere sono rimasti inascoltati. È stato proprio don Marco, qualche settimana fa, ad accompagnare Gennaro e Paolo, due detenuti di Rebibbia in permesso premio, all’udienza generale di Papa Leone XIV, portando in Piazza San Pietro l’emozione dell’incontro con Francesco: “È un sentimento ancora vivo nei nostri cuori - dice -, speriamo che anche lui venga a farci visita presto”. In quell’occasione, Prevost li ha accolti con queste parole: “Anche nei momenti bui della vita, chiediamo al Signore che ci raggiunga là dove lo stiamo aspettando”. Il carcere è più di una prigione di Paolo Foschini Corriere della Sera Il rap di Willy Boy, l’ira di Hisham, la morte in cella di Youssef: storie di detenuti, e di operatori, per l’editore il Millimetro Il viaggio di Raffaella Di Rosa nei penitenziari italiani: cocci di esistenze andate in frantumi. Willy Boy dice di avere “preso così tante botte in vita sua da non aver paura di nulla, neanche di morire”. Adesso scrive pezzi rap, da tre anni sta nella comunità di don Claudio Burgio. II primo posto, da quando è nato, in cui ha trovato ascolto anziché violenza. Di anni ne ha 19, madre sparita quando era piccolo e padre in galera da sempre, tante famiglie affidatarie ma nessuna giusta, una pistola tatuata sul braccio. Imparare a fidarsi anziché difendersi, rispetto alla vita, è una conquista lenta. Alla domanda su come si immagina tra dieci anni - la più difficile in ogni caso, anche per chiunque di noi - risponde che gli basterebbe avere “una casa, un lavoro, una famiglia, ma soprattutto stare bene, in pace”. La sua è solo una delle Vite minori che con efficace eufemismo sono anche il titolo (sottotitolo: Storie vere di ragazzi dietro le sbarre, il Millimetro) di un libro alla cui lettura dovrebbe dedicare un pomeriggio chiunque abbia dei figli. Perché la famosa domanda che papa Francesco diceva di sentirsi venire addosso ogni volta che visitava un carcere - “perché loro e non io?” - è la stessa che dovrebbe interpellare ciascuno di noi, moltiplicata per cento, quando in ballo ci sono ragazzi e ragazze. Raffaella Di Rosa, giornalista con passo di narratrice e precisione da ricercatrice, ci accompagna in un viaggio di quindici capitoli nell’universo carcerario italiano. Minorile ma non solo. Perché di giovanissimi sono sempre più piene anche le carceri degli adulti. È quel mondo parallelo che di solito entra nei nostri pensieri giusto per qualche attimo ogni tanto, quando al tg passa la notizia di un ragazzo arrestato per qualcosa. Ma se la civiltà di un Paese si misura dalle condizioni delle sue carceri - come ricorda nell’introduzione Enrico Mentana richiamando Voltaire - il passaggio necessario sta nel conoscerla, la realtà delle carceri. E quasi sempre il primo impatto è un pugno. Così il primo fotogramma che incontriamo in questo libro è quello con Youssef Moktar Loka Barsom, 18 anni, dentro una bara in aeroporto al Cairo mentre sta tornando a casa dopo esser morto nel settembre 2024 nella cella 201 di San Vittore a Milano, dove la giustizia di un Paese che avesse voluto ispirarsi davvero a Voltaire non avrebbe dovuto metterlo stante la sua condizione di “incapacità di intendere e volere” certificata da perizia psichiatrica. Risalente già ai tempi del primo arresto, quando era finito al minorile Beccaria anche a seguito di un telefonino rubato e poi restituito dopo averlo usato per chiamare la madre: peccato che la vittima del furto avesse nel frattempo chiamato la polizia. È un ribelle Youssef. Tutti lo amano, nessuno lo sopporta, lui reagisce tagliandosi a ripetizione o facendosi male in ogni altro modo possibile. A San Vittore muore soffocato dal fumo di un materasso bruciato in una cella. C’è stata un’inchiesta. Un avvocato a cui si è rivolto Jorge, il fratello di Youssef, si è opposto all’archiviazione. Nel frattempo del ragazzo resta una foto, scattata appunto col fratello, in una delle comunità da dove poi era scappato. Poi c’è il marocchino Hisham, anche lui finito al Beccaria dopo Nisida e dopo qualche comunità di Napoli, dopo il viaggio da casa alla Spagna dentro un camion, fino all’arrivo in Italia via Belgio-Francia-Germania-Svizzera. Reati di sopravvivenza, tanta droga in corpo, tanta violenza addosso. C’è la conferenza stampa “che non avremmo mai voluto fare”, come dice il procuratore Marcello Viola, per l’arresto degli agenti del Beccaria accusati anche di tortura. C’è la coordinatrice degli educatori Elvira Narducci che dice di non aver mai visto una situazione così drammatica in 32 anni di lavoro in carcere. Ci sono Sulè e Abdel, in attesa di corsi per imparare qualcosa o semplicemente per impiegare il tempo, che magari iniziano ma che spesso non arrivano in fondo perché poi le risorse finiscono. Rivolte che si ripetono, non per ottenere questo o quello ma come sfogo di rabbia compressa che la garante dei detenuti Monica Gallo sintetizza in questo modo: “Tu mi fai stare così, io ti distruggo il contenitore in cui mi hai rinchiuso”. Come al Ferrante Aporti di Torino. In una cella si era rotto il telecomando della tv: “I ragazzi hanno cominciato a sfasciare tutto - dice Ahmed - e quando tutti protestano alla fine lo fai anche tu”. “Eravamo troppi in cella”, dice Marco: è uno dei ragazzi condannati per aver buttato una bici giù dai Murazzi, altro gesto “fatto senza motivo” salvo che avrebbe reso tetraplegico un altro giovane, Mauro Glorioso, che semplicemente si trovava là sotto. Da Catanzaro a Pontremoli, dall’Albania a Rozzano, Flora e Belèn, nomi e luoghi che sono molto più di una antologia di “casi”. E anche tanti operatori, agenti, volontari che ci mettono l’anima e il cuore per provare a remare controcorrente dove la corrente dominante è quella di uno Stato e di una politica che con buona pace delle chiacchiere e della Costituzione ha in mente più che altro il consenso di una opinione pubblica da compiacere “punendo” assai più che recuperando. Senza tenere conto del fatto che “questi ragazzi - come sottolinea Gaia Tortora in postfazione - sono anche il nostro futuro e se li perdiamo non è solo una loro sconfitta: è una sconfitta per tutti”. Perché con il reato di femminicidio si fanno un passo avanti e due indietro di Giorgia Serughetti* Il Domani, 6 luglio 2025 Nel lessico femminista questa parola esprime consapevolezza del carattere non isolato, non episodico, di queste violenze letali, del loro radicamento in pratiche sociali misogine e in contesti di violazione dei diritti delle donne. Cosa resta di tutto ciò se la si riduce a un elemento del codice penale, riducendone l’impatto trasformativo? “Femminicidio” è una parola femminista. Una parola con radici precise nelle lotte che, fin dagli anni Settanta, hanno denunciato la cultura sessista all’origine delle uccisioni di donne per mano maschile. La proposta del governo italiano di codificare il “delitto di femminicidio” per i casi di donne uccide “in quanto donne”, può apparire per questo, a una prima impressione, non solo un passo avanti nel riconoscimento della gravità del fenomeno e della sua specificità, ma anche una vittoria dei movimenti femministi che per decenni hanno invocato un cambiamento di approccio da parte della politica e del diritto, e un mutamento culturale della società intera. Però, c’è un però. Anzi due. Il primo è che si tratta di un intervento che ha prevalentemente una valenza simbolica, e nessuna reale capacità (né forse scopo) di deterrenza, in quanto la pena dell’ergastolo per l’uccisione di una donna per motivi di genere, prevista della nuova norma, è già applicabile ai sensi della disciplina attuale, come noto dal caso dell’assassinio di Giulia Cecchettin. Proprio l’intenzione pedagogica della legge, tuttavia, è contraddetta dall’insieme di orientamenti e disposizioni di un governo che non favorisce la libertà delle donne (si pensi ai diritti sessuali e riproduttivi), mentre per bocca dei suoi esponenti attribuisce la responsabilità della violenza stessa alle migrazioni e alle culture “altre”. Senza considerare che la fattispecie rischia di risultare non applicabile a una gran parte dei casi che nel discorso pubblico sono di norma classificati come “femminicidi”. Con il risultato, paradossale, di far diminuire per legge questi reati. Il secondo problema, legato al primo, è l’effetto di riduzione di complessità del termine “femminicidio” che avviene con la sua traduzione nel linguaggio penale. Questo, beninteso, è un problema che si incontra spesso quando come soluzione ai problemi che provocano allarme sociale si prospetta la modifica di norme, in particolare l’inasprimento delle pene. Parlare di femminicidio, negli studi e nella politica femminista, significa esprimere consapevolezza del carattere non isolato, non episodico, di queste violenze letali, del loro radicamento in pratiche sociali misogine e in contesti di violazione dei diritti delle donne; significa comprendere, nel fenomeno, un’ampia gamma di comportamenti come altrettante forme di violenza che conducono all’annientamento della soggettività, prima ancora che all’uccisione. Cosa resta di questa ricchezza semantica quando la parola entra nel codice penale, attraverso una proposta di legge che vede l’intervento repressivo del tutto dissociato da azioni di empowerment socio-economico, nonché da strategie di prevenzione di tipo culturale? Nel passaggio dal linguaggio della lotta politica a quello del diritto, all’interno di un provvedimento limitato alla sola introduzione di una nuova fattispecie incriminatrice, la sua capacità trasformativa rischia di andare perduta. Provvedimenti penali disposti in fretta e a cadenza mediatica - in questo caso, marcando l’impegno governativo per l’8 marzo -, inseriti in un quadro politico ideologicamente distante o ostile alle lotte femministe che hanno condotto a formulare le parole stesse del problema che si intende risolvere, non aiutano né queste stesse lotte, né la soluzione del problema. E allora meglio sarebbe tenersi le parole, difenderne la complessità, preservarne la forza generativa di cambiamento. *Filosofa Haters. La guerra dentro il cuore che si “slatentizza” sul Web di Marina Corradi Avvenire, 6 luglio 2025 Un ragazzo uccide la madre. Ciò che turba ulteriormente è la reazione online. Le maledizioni che fiottano dai social. Per bocca di estranei. Più che un dolore li muove, si direbbe, una viscerale ira. Ha ucciso a coltellate la madre, in un paese della Puglia, pochi giorni fa, per un rimprovero, pare: rientrando tardi non aveva salutato. Ventun anni, fino ad ora Filippo sembrava un ragazzo normale. Non si comprende come un figlio possa uccidere la madre per un nulla. Comunque, subito catturato, ha confessato, e ha ammesso che ci pensava da un po’. Poi ha chiesto perdono al padre, lo ha pregato di non abbandonarlo. Al di là della ennesima tragedia in famiglia, ciò che turba ulteriormente viene dopo la notizia: è la reazione del Web, su qualsiasi social. “L’essere abominevole e feroce assassino doveva chiedere aiuto prima… Ora non serve a niente frignare. Sei un mostro”, scrive una tale Carmela. “Fai schifo, evito di aggiungere altro. Sei indegno di essere al mondo”, aggiunge Clorina. “Spero che tu possa marcire in carcere con gli scorfani”, augura un altro. “Non dovevi nascere”, il breve epitaffio di un anonimo. Numerosi naturalmente i “buttate via le chiavi” e “pena di morte”. Un ragazzo che prende un’ascia e si scaglia su sua madre, o sulla famiglia. Accadono assurdità così sempre più spesso. Con una frequenza anzi che ci lascia attoniti, come se tremassero le coordinate stesse del vivere comune. C’erano una volta i mafiosi, i rapinatori, i serial killer - il male fuori da noi. Che ora d’improvviso il nemico possa entrare in cucina ed essere un figlio, un padre, ci pare appartenere a una nuova umanità - che con comprendiamo, che non riconosciamo. Sui social restano le foto di quel ragazzo, di quella madre: e anche lì, tutto pare così normale. Allora ti prende lo sgomento, e, se non smetti di pensarci, l’angoscia ti ammutolisce. Quello che non comprendo però è lo tsunami di insulti che dal Web si proietta su questi sconosciuti, incensurati, spesso giovani assassini. Droga, malattia mentale, o la prima che “slatentizza” malattie che altrimenti sarebbero rimaste silenti in un angolo? O, se anche fosse malvagità pura, in quale modo ha potuto maturare? Può forse nascere malvagio, un bambino? In ogni caso qualcosa sfugge alla logica, e talvolta anche alla medicina e alla psichiatria. Siamo davanti a nuove ferocie, e non uniche, ma frequenti, una ferocia che non comprendiamo. Dunque ancora meno capisco la rabbia e le maledizioni che fiottano dai social come da crepe nel muro dell’invaso di una diga. Se non capiamo affatto, se rimaniamo increduli e allibiti, come si può insultare, emettere sentenze di morte, minacciare sinistramente (“So io cosa ti dovrebbero fare”). In realtà poi, mentre i parenti delle famiglie colpite non hanno più parole, le parole, e le più contundenti e spietate, vengono dalla bocca di assoluti estranei. Più che un dolore li muove, si direbbe, una viscerale ira, e lungamente coltivata. Non in realtà verso quello sconosciuto pugliese assassino di cui hanno saputo oggi, evidentemente. Sembra un’altra rabbia, silenziosamente covata: una frustrazione segreta, un senso bruciante di ingiustizia - vera o immaginaria - subìta. L’odio che fiotta dalle pagine del Web sembra non legato a questa o quella circostanza, ma piuttosto criptico: una sostanza che gira nel sangue, senza manifestarsi, o magari attendendo un’occasione in cui possa venire alla luce decentemente, nel ribollire di una collettiva indignazione. E tutto questo può essere quasi inconsapevole. Chi scrive di un assassino “che marcisca con gli scorfani” si sente magari un bravo cittadino. Personalmente, se aprendo per sbaglio la pagina Facebook di un figlio incontrassi questo odio, ne sarei raggelata: perché tanta voglia di maledire? mi chiederei. Cosa gli abbiamo fatto? Ma una seconda domanda, e non minore, in questi tempi di guerra come sospesa, sia pure da lontano, sulle nostre teste, mi si pone. Parliamo quasi tutti di pace, nei sondaggi gli italiani sono in maggioranza pacifisti, si affollano le piazze per la pace. Di quale pace però stiamo parlando, mi chiedo. Che pace c’è in noi, se in tanti, nell’anonimato del Web, mostrano una rabbia e un odio che non si vergognerebbero a dire a un confessore, qualora ci andassero. Chi grida a un perfetto sconosciuto “Sei un mostro, non dovevi nascere”, non porta in sé già il marchio maligno della disperazione? La guerra, quell’anonimo writer che lascia graffiti sui muri dei social, non ce l’ha già dentro? È questo che mi preoccupa: che la guerra, in realtà, non venga da fuori, ma possiamo averla già nel cuore. Non si tratta dello straniero di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 6 luglio 2025 Il Governo interverrà, non per riportare il sistema nella Costituzione ma per dare una cornice legale alla violazione dei suoi principi. Sul trattamento dei migranti e più in generale sulla condizione dello straniero si gioca la resistenza della nostra democrazia. Partita fondamentale che riguarda tutti nel nostro paese, non alcune centinaia di migliaia di “irregolari”. Ma non c’è consapevolezza della sua importanza, dunque ci avviamo a perderla. Il fatto che la destra usi i “clandestini” come carne da propaganda confonde: un programma illiberale di fondo pare una poco pericolosa incontinenza comunicativa. Il fatto che alla costruzione di un sistema discriminatorio per lo straniero abbiano contribuito diversi governi “democratici” ha narcotizzato le capacità di reazione della sinistra. Troppo poco abbiamo riflettuto sul risultato del quinto referendum. L’ultima decisione della Corte costituzionale invece di sanare il “vulnus” che pure ha individuato, ha scaricato il compito sui giudici ordinari. Che talvolta possono decidere in un senso - benissimo ieri la giudice di Cagliari - talvolta nel senso opposto. Ma quello che ha detto la Corte basta a chiarire una volta e per sempre la situazione dei migranti nel nostro paese. “Irregolari” per legge, sono vittime di un sistema di detenzione e trattamento dichiaratamente illegittimo che non rispetta i diritti umani. Né ci si può fermare all’aspetto formale della censura della Corte: le “regole” che valgono all’interno dei Centri di permanenza per il rimpatrio andrebbero sì stabilite per legge e non lasciate alla discrezione degli apparati di polizia, ma quelle “regole” le conosciamo e le vediamo all’opera: torture, psicofarmaci, suicidi. Dunque il governo interverrà, non per riportare il sistema nella Costituzione ma per dare una cornice legale alla violazione dei suoi principi. In parlamento Meloni ha detto chiaro e tondo che “non ci possono essere tabù” nemmeno nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Se la difesa dei confini - la manipolatoria missione identitaria della destra - trova ostacolo nelle Carte fondamentali, saranno queste a soccombere. Si sta parlando dei principi superiori, come il divieto di trattamenti inumani e il diritto alla libertà e alla sicurezza - di tutti non “solo” dei migranti. Tanto superiori da essere scolpiti come inattaccabili anche nella nostra Costituzione, argine che però non starà in piedi a lungo una volta accettato che venga messo in discussione e abbattuto per alcuni. Dopo sarà tardi per accorgersene. Ius scholae, Tajani a Fdi: “Eravate d’accordo” di Luciana Cimino Il Manifesto, 6 luglio 2025 Ius scholae Tace lo staff di Meloni. La Lega: “Il ministro degli esteri se ne faccia una ragione”. Ogni estate, e questa non fa eccezione, il vicepremier Antonio Tajani ripropone il dibattito sullo ius scholae, così come la tv le repliche della principessa Sissy. Le ragioni del segretario di Forza Italia per forzare la discussione sono note e diverse (la rivalità con Matteo Salvini e le direttive che gli arrivano dalla famiglia Berlusconi), meno chiara è la sua tattica, se ne ha una. Ieri, da Tolfa dove era in corso Anumam, un evento delle giovanili di Fi, Tajani è tornato a insistere sul suo progetto sulla cittadinanza che neanche 24 ore sembrava aver messo da parte, registrando la netta contrarietà della presidente del Consiglio. Giorgia Meloni venerdì sera, ospite nella masseria di Bruno Vespa, aveva sentenziato che bisognava concentrarsi sulle “priorità indicate nel programma e la cittadinanza non è tra queste”. Per poi rincarare: “Nel merito personalmente non considero corretto o utile concedere la cittadinanza a un minore se i suoi genitori sono ancora stranieri”. Il ministro degli Esteri, davanti ai giovani del suo partito, non ha potuto far altro che mostrarsi risoluto e replicare alla premier che lo Ius Italiae, come preferisce chiamarlo, è “assolutamente in sintonia con il programma del centrodestra”. “Vogliamo aprire un dibattito ne parlamento, non c’entra nulla il governo”, spiega Tajani, per poi tirare la stilettata ai meloniani: “Nella scorsa legislatura anche FdI era favorevole”. Ma non essendo di certo noto come persona coraggiosa, l’azzurro poi premette che, certo, bisogna portare prima “a termine la riforma della giustizia”, definita, assieme al taglio delle tasse, la “priorità delle priorità” (soprattutto per i suoi rapporti con gli eredi del Cavaliere). Dall’entourage della presidente del Consiglio non rispondono, anche per lasciare l’impressione che il contendere sia tutto tra i suoi alleati. Infatti è la Lega a far partire una batteria di dichiarazioni dal tono congiunto: “Con la Lega al governo, la priorità resta la nostra gente. Lo ius scholae lo lasciamo a chi sogna un Paese senza identità e senza regole”, “Tajani se ne faccia una ragione”. Neanche dall’opposizione arriva il sostegno alla proposta azzurra: “È persino più regressiva della legge attuale”, spiega il segretario di PiùEuropa Riccardo Magi che denuncia anche “l’indecenza di utilizzare il tema della cittadinanza come merce di scambio ai tavoli del centrodestra, per strappare qualche strapuntino”. Trattativa ancora in corso, come dimostra il pasticcio della maggioranza sull’aumento dei pedaggi autostradali contenuto in un emendamento al dl Infrastrutture, poi ritirato. In quel caso la polemica interna sulla paternità della misura, riguardava FdI e il Carroccio. A domnda Tajani ha perfidamente risposto: “Mi pare un problema risolto, ma noi non siamo stati coinvolti”. Ius Scholae, la cittadinanza e la lotta fratricida dentro il centrodestra - Perché ti riguarda di Francesca Martelli L’Espresso, 6 luglio 2025 Forza Italia cercherebbe di distinguersi e guadagnare terreno in vista delle prossime elezioni regionali. Esattamente come poche settimane fa aveva fatto il partito di Salvini in commissione Affari costituzionali in Senato, votando “sì” al terzo mandato. La politica italiana è tornata a discutere della riforma della cittadinanza. In particolare Forza Italia, che ha rilanciato la proposta sullo Ius Scholae per permettere a chi frequenta la scuola per 10 anni in Italia - e con esiti positivi - di diventare cittadino italiano. Attualmente la legge sulla cittadinanza risale al 1992 e la procedura per ottenerla è lunga e farraginosa. Le dichiarazioni sul tema di Antonio Tajani sono piaciute alle opposizioni - che hanno detto tutte di essere disponibili a votare in parlamento la proposta dei forzisti - ma non certo all’alleato leghista, che non è disponibile a trattare sullo Ius Scholae. E anche Fratelli d’Italia la pensa in modo simile: secondo la responsabile immigrazione di fratelli d’Italia Sara Kelany, “la legge sulla cittadinanza va bene così e visto l’esito del referendum, va bene anche così per i cittadini”. All’inizio di giugno c’era stato un referendum abrogativo per ridurre i tempi d’attesa sulla cittadinanza: il 35% aveva votato “no” (la percentuale più alta di “no” rispetto agli altri quattro quesiti che erano sul lavoro). Ma soprattutto era stato il quesito con l’affluenza più bassa, segno di uno scarso interesse sul tema anche tra i votanti. Analizzando i flussi elettorali, poi, i voti per aumentare la percentuale dei “sì” erano mancati proprio da Pd e 5 Stelle (che al referendum sul tema non avevano voluto dare ai propri elettori un’indicazione di voto). Il disegno di legge di Forza Italia (a prima firma di Maurizio Gasparri) è stato depositato il 9 ottobre 2024: lo straniero nato in Italia o arrivato in Italia entro il quinto anno d’età, che ha “risieduto legalmente e ininterrottamente nel territorio nazionale per almeno 10 anni e ha frequentato per almeno 10 anni e con esito positivo i corsi di studio” diventa cittadino italiano “entro un anno dal raggiungimento della maggiore età”. Già l’estate scorsa Tajani aveva iniziato a parlare della riforma della cittadinanza, sulla spinta della maggiore attenzione ai diritti civili chiesta da Marina Berlusconi al partito fondato da suo padre. Poi però nulla era cambiato e questo rende la nuova apertura dei forzisti sul tema poco credibile agli occhi delle opposizioni. Anche ieri Tajani ha spiegato di non avere fretta perché, al momento, il Parlamento sarebbe impegnato su altri temi e avrebbe molti decreti da convertire. Giovanni Donzelli (Fdi) si è affrettato a dichiarare che questa presa di posizione sulla cittadinanza non farà cadere il governo. Ma allora perché Tajani torna su un tema così divisivo per il governo Meloni? Forza Italia cercherebbe di distinguersi e guadagnare terreno in vista delle prossime elezioni regionali. Esattamente come poche settimane fa aveva fatto il partito di Salvini in commissione Affari costituzionali in Senato, votando “sì” al terzo mandato, pur sapendo di non avere l’appoggio di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Distinguersi insomma per cercare spazio nel centrodestra. Anche in vista delle elezioni politiche che si avvicinano e si terranno - salvo sorprese - nel 2027: la campagna elettorale è già partita e la lotta per il secondo e terzo posto del podio all’interno del centrodestra è iniziato. Migranti. Cpr, è polemica sulla pronuncia della Consulta di Lara Zani rainews.it, 6 luglio 2025 Serracchiani, Pd, qualcosa cambierà. Dreosto, Lega, migranti a casa dei giudici. La legge sul trattenimento dei migranti nei Cpr come quello di Gradisca viola “la dignità della persona trattenuta”. Lo ha stabilito la Corte costituzionale. Per Enrico Sbriglia, garante regionale per i diritti della persona, una questione che emerge a intermittenza a causa di un vuoto normativo che dura dal 1998: “La detenzione amministrativa, in verità, vuol dire carcere senza giustizia, senza processo, ma come risposta amministrativa. Va detto che diversi sono stati, in realtà, gli sforzi per tentare di giurisdizionalizzarla, ma i risultati sono stati inadeguati. Nei Cpr sono perciò collocati gli incollocabili, uomini o donne senza una identità certa”. Spesso accade che i presunti Paesi di provenienza non vogliano accoglierli nuovamente e dunque, scaduti i termini di permanenza nei Cpr, gli immigrati irregolari vengano rimessi sulla strada senza documenti, senza un tetto e pieni di rabbia. Sbriglia ipotizza una possibile soluzione condivisa: “Immaginando l’introduzione di uno status anagrafico di mezzo, progressivo, che distingua il solo immigrato clandestino, che però non abbia commesso reati, oltre a quello della sua irregolarità, da chi invece ne abbia commessi degli altri, prevedendo per il primo, sempre in forma condizionata, una semiregolarità, che in relazione alla condotta potrà tradursi in una irregolarità completa oppure in progressiva tolleranza e poi integrazione”- aggiunge Sbriglia. “Se i giudici ritengono inaccettabile trattenere i migranti nei Cpr, allora li accolgano loro a casa - è il commento del senatore della Lega Marco Dreosto -. Ma non si può smantellare ogni forma di controllo dei confini nel nome di un’interpretazione ideologica del diritto. le politiche migratorie le devono decidere i cittadini che eleggono i partiti, non giudici o Ong”. La responsabile Migrazioni del Pd Linda Tomasinsig ribadisce, assieme alla responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani, la richiesta di chiusura: “sicuramente questa sentenza cambierà il sistema dei Cpr in Italia, tanto che il Governo sta già pensando di intervenire. Noi ci auguriamo che questo per Gradisca significhi la chiusura per il momento, al di là di quelle che potranno poi essere le modifiche normative”. Effetto Consulta: un primo migrante liberato dal Cpr di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 luglio 2025 La decisione della Corte d’Appello di Cagliari dopo la sentenza della Corte costituzionale. La sentenza con cui la Corte costituzionale ha accertato l’incostituzionalità delle norme sulla detenzione amministrativa dei migranti, pur dichiarando l’inammissibilità delle questioni sollevate dal giudice di pace di Roma, ha iniziato subito a fare effetto. Il provvedimento della Consulta è stato pubblicato giovedì, meno di 24 ore dopo il primo migrante ha riguadagnato la libertà. Per ironia della sorte è un cittadino albanese. Era rinchiuso da marzo nel Cpr sardo di Macomer, in provincia di Nuoro. La convalida del trattenimento l’aveva data il giudice di pace, la prima proroga la Corte d’appello perché, più tardi, il 30enne aveva chiesto asilo. Così anche la successiva richiesta di estendere la detenzione è finita davanti al tribunale di secondo grado. Per la verità l’uomo sarebbe uscito comunque, per ragioni burocratiche: il questore di Nuoro ha formulato l’istanza troppo tardi, oltre la scadenza dei termini del provvedimento precedente. Ma se così non fosse stato - scrive la Corte d’appello di Cagliari, sezione specializzata in Immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini Ue - ci si sarebbe dovuti confrontare con “la recentissima pronuncia della Corte costituzionale n. 96 del 2025, come peraltro espressamente richiesto dalla difesa”. E qui arriva la parte più interessante della decisione, quella che oltrepassa la storia singola, il caso individuale. Nel testo si legge che la Consulta ha introdotto “considerazioni che non possono essere eluse dal giudice chiamato a decidere sulle convalide del trattenimento e sulle relative proroghe”. La considerazione principale è che l’attuale disciplina della detenzione amministrativa viola l’articolo 13 della Costituzione perché regola i “casi” del trattenimento ma non i “modi”. Non c’è alcuna norma di rango primario che si occupi di stabilire con precisione quali sono i diritti dello straniero privato della libertà personale, né a quale giudice può rivolgersi per una tutela completa dei propri diritti (al netto di alcuni procedimenti possibili per risarcimento danni o violazioni specifiche). La Consulta ha affermato in maniera esplicita che il vulnus sussiste, sebbene abbia ritenuto di non poter intervenire direttamente: deve farlo il legislatore. Il Viminale ha già annunciato di essere al lavoro per una norma complessiva, senza specificare di che tipo. Teoricamente potrebbe trattarsi di un disegno di legge o di un emendamento. Più probabilmente, come al solito, sarà un decreto. Che comunque al momento non c’è. “Ed è qui che si pone la questione da risolvere qualora ci si trovi davanti a un’istanza di convalida o di proroga del trattenimento - dice la Corte d’appello cagliaritana - Perché se è vero che solo il legislatore può, ma come ben spiega la Consulta soprattutto deve, provvedere alla determinazione dei “modi” della detenzione amministrativa, stante la riserva assoluta di legge di cui all’art. 13 Cost., occorre chiedersi che cosa debba fare il giudice di merito a fronte dell’accertamento di un vulnus costituzionale”. La giudice che firma il provvedimento non ha dubbi: senza una legge che disciplina i “modi” della detenzione amministrativa “non può che riespandersi il diritto alla libertà personale”. Il cittadino straniero deve così tornare libero. Una sorte che potrebbe essere presto condivisa da tanti altri migranti rinchiusi nei dieci Cpr attivi sul territorio nazionale e in quello di Gjader, in Albania. Dove tra l’altro le problematiche elencate dalla Consulta non possono che aggravarsi a causa dell’extraterritorialità della struttura. Già giovedì, subito dopo la pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale, alcuni avvocati hanno depositato delle istanze di riesame del trattenimento dei loro assistiti. La decisione del tribunale cagliaritano dà forza a questa strada. C’è da scommettere che il governo accelererà il varo di una norma per tamponare la possibile emorragia. Emorragia di libertà. Palestinesi trattenuti nei Cpr. “Come immaginare di rimpatriarli?” di Salvatore Lucente Il Manifesto, 6 luglio 2025 Trattenuti all’interno dei Cpr, nonostante l’evidente impossibilità di essere rimpatriati in Palestina. Un’assurdità, anche dal punto di vista giuridico, eppure è il destino a cui vanno incontro diversi palestinesi su tutto il territorio italiano. Se per alcuni il trattenimento è una vera e propria forma persecutoria inflitta per motivazioni politiche, per altri rappresenta una ulteriore conseguenza del genocidio in atto a Gaza e dell’occupazione dei territori palestinesi in West Bank. Oltre che l’ennesima aberrazione del sistema di detenzione amministrativa per gli stranieri senza regolare titolo di soggiorno portato avanti dall’Italia. “È evidente il cortocircuito che ne deriva, la stessa detenzione amministrativa, nella costruzione legislativa, ha senso solo in quanto finalizzata al rimpatrio” sottolinea l’avvocato Arturo Covella dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. “Ma come si può immaginare di effettuare il rimpatrio di cittadini palestinesi nelle condizioni attuali? Che senso ha la loro detenzione all’interno del Cpr?”. Domande che trovano difficile risposta, come pure è difficile anche solo venire a conoscenza dell’esatto numero di Palestinesi trattenuti nelle strutture italiane. Per farsi un’idea, secondo il Ministero dell’Interno dal 1/1/2025 al 21/5/2025 solo un palestinese sarebbe transitato nei Cpr italiani, senza presentare richiesta d’asilo. Eppure, per mettere in dubbio questi dati basta guardare da vicino anche solo Cpr di Palazzo San Gervasio, in cui almeno quattro cittadini palestinesi sono stati trattenuti negli ultimi tre mesi. Tra questi B.M.A., nato a Betlemme e trasferito a Palazzo dal Cpr di Torino il 23 aprile. Il 5 maggio ha presentato domanda di protezione internazionale, respinta dalla Commissione territoriale di Salerno. Ad oggi è ancora nella struttura lucana, come un altro connazionale trasferito sempre da Torino il 2 maggio scorso. Più fortunato S.M., 34 anni, trasferito nel Cpr lucano a maggio e rimesso in libertà dopo pochi giorni per ragioni di salute, senza la possibilità di intervenire sul suo decreto di espulsione. Di un altro si sono perse le tracce a maggio. Che si tratti di pressioni politiche, presunta impossibilità di accertare la nazionalità dei trattenuti, registrazioni con passaporto di altre nazionalità, la questione è allarmante e si estende a tutta Italia. “Diverse volte è capitato di trovare cittadini palestinesi all’interno dei Cpr registrati con altre nazionalità - dichiara Yasmine Accardo dell’associazione Memoria Mediterranea - altre volte perché sotto controllo dei Servizi che gli hanno ritirato i titoli di soggiorno causando un grave danno alla loro vita”. Un atteggiamento persecutorio basato su “una totale discrezionalità da parte degli organi di polizia che vanno oltre le decisioni della corte. In ogni caso è inaccettabile”. Basta essere palestinesi, insomma, per ricevere un trattamento speciale. Mentre avvocati, associazioni e reti sono attive per accertare la situazione, la questione accende per un attimo l’attenzione sugli abusi e le condizioni critiche che si verificano quotidianamente all’interno di quei Cpr da cui escono notizie a fatica anche per l’assenza di smartphone con telecamera. Come Palazzo San Gervasio, già al centro di un processo che coinvolge la precedente gestione Engels, che vede rinviati a giudizio al 12 settembre 18 imputati, tra cui la responsabile del centro, forze dell’ordine, medici e avvocati per presunti maltrattamenti, somministrazione immotivata di psicofarmaci e altri capi di imputazione. Oggi a gestire il centro è la società Officine sociali, a cui è stata rinnovato l’affidamento per altri 24 mesi nonostante la stessa Prefettura di Potenza abbia sottolineato irregolarità come la mancata copertura delle ore del personale medico e la parziale erogazione del servizio infermieristico, fornito da un solo infermiere o da operatori socio sanitari. Circostanze che possono portare alla tragedia, come il 5 agosto scorso, sotto la stessa gestione di Officine Sociali, quando trovava la morte il 19enne algerino Belmaan Oussama. Onu, parole senza forza di Paolo Lepri Corriere della Sera, 6 luglio 2025 Dopo 80 anni dalla sua istituzione serve un cambiamento: le nazioni unite sono assenti nei grandi conflitti in corso nel mondo. L’Onu? “Dovrebbe celebrare il fatto di essere viva e non morta”, dice lo studioso di geopolitica Kishore Mahbubani, per due volte ambasciatore di Singapore al Palazzo di Vetro. Ma non è giusto accontentarsi di questo, anche se l’epoca in cui stiamo vivendo viene definita da molti, eufemisticamente, “meno internazionalista”. Con lo spirito che sembra quello dei naufraghi scampati al disastro è stata messa in mostra a New York la bozza della Carta firmata il 26 giugno 1945 a San Francisco dai rappresentanti di cinquanta Stati (oggi i Paesi membri delle Nazioni Unite sono 193), cioè il documento che vieta l’uso della forza nelle relazioni internazionali, riaffermando “la fede nei diritti fondamentali dell’uomo” e promuovendo “il progresso sociale”. Adesso, a ottanta anni di distanza, con le sue correzioni a penna e le sue piccole cancellature, il solenne preambolo fa lo stesso effetto di un messaggio trovato in una bottiglia affidata alla volubilità implacabile del mare. Come ricordano in un articolo per The Economist l’ex segretario generale Ban Ki-moon e Helen Clark, premier della Nuova Zelanda dal 1999 al 2008, lo svedese Dag Hammarskjöld (uno degli storici predecessori del diplomatico sudcoreano) disse nel 1954 che l’istituzione costruita in quel giorno nel quale la metropoli californiana era probabilmente avvolta dalla nebbia (che non impedì ai delegati di vedere bene l’orizzonte) “non fu creata per portarci in paradiso ma per salvarci dall’inferno”. Le guerre dei nostri giorni, in realtà, stanno avvicinando sempre più il confine di quello che Italo Calvino chiamava l’inferno dei viventi. C’era una limpida aria estiva, invece, la mattina in cui, molto più recentemente, un gruppo di diplomatici e alti funzionari - il cui portavoce è stato, sul web, il rappresentante permanente del principato del Liechtenstein - sono sfilati di corsa per Manhattan compiendo un itinerario che sulla mappa disegnava il logo del progetto di revisione varato in aprile dall’attuale segretario generale, António Guterres, proprio in vista dell’ottantesimo anniversario. La sua visione delle cose è abbastanza semplice: “Le Nazioni Unite hanno prevenuto in questi decenni la Terza guerra mondiale”. Ma sui conflitti di oggi, aggiungiamo, si sono dimostrate totalmente assenti. Correre fa sempre bene, guardando al simpatico appuntamento newyorkese, ma ciò nonostante è stata la tristezza a segnare il compleanno dell’Onu. E le parole hanno esaurito la loro forza. Ci aspettiamo qualcosa di più. Servono rapidamente decisioni sul piano concreto delle riforme, archiviando senza rammarico, per esempio, la cerimonia officiata nell’Assemblea generale e le molte carte prodotte per l’occasione, tra cui spicca quella della missione di Washington in cui si afferma che “come ottanta anni fa, gli Stati Uniti sono pronti ad impegnarsi per la causa della pace, proprio come il presidente Trump ha fatto questa settimana nel garantire il cessate il fuoco tra Iran e Israele”. Riforme, allora, tenendo conto che una è impossibile, quella del diritto di veto che ha paralizzato la capacità del Consiglio di Sicurezza di fermare le ostilità e mettere a punto o imporre soluzioni di pace nei luoghi dove a parlare sono le armi. In questo scenario è chiaro che può essere molto opportuno rilanciare il ruolo di mediazione del segretario generale. La malattia del Consiglio di Sicurezza indebolisce ulteriormente un organo che non rappresenta più la realtà attuale. Le discussioni per allargarlo, aprendolo all’Africa e all’America Latina, stanno andando avanti lentamente quasi da mezzo secolo. Riuscire finalmente in questa impresa - a cui ha lavorato con energia e passione anche l’Italia - sarebbe un importante passo avanti. “Il processo - osservano ancora Ban Ki-moon e Helen Clark - deve essere guidato dall’Assemblea Generale, non dal Consiglio stesso”. Meglio ribadire anche l’evidenza. Più in generale, facendo i conti con un’organizzazione che dà lavoro a quasi 150.000 persone e che attraversa una drammatica crisi finanziaria, il compito di Guterres non può che essere quello di avviare una rivoluzione strutturale del sistema e delle sue modalità. Sembra essere prioritaria, solo per citare un aspetto, la necessità di evitare duplicazioni tra le agenzie impegnate nell’assistenza umanitaria e negli aiuti allo sviluppo. Poi dovrà proseguire il suo successore. Entrerà in carica nel 2027 ma le grandi manovre per la designazione sono destinate ad iniziare presto. Tutto lascia pensare - e potrebbe essere una svolta positiva - che arrivi finalmente il momento di una donna. Non si può però negare che il problema principale sia la volontà politica. Tutto è legato al senso di responsabilità dei singoli membri. Ma è anche nell’interesse di ognuno mettere fine ad una attività declamatoria in grado soltanto di radicalizzare le posizioni (della quale Israele, nonostante i suoi tanti errori, è stata spesso un obiettivo privilegiato). Un futuro diverso dovrebbe parlare la lingua di un’organizzazione “a geometria variabile”, luogo principale per l’avvio di iniziative in grado di smuovere le acque stagnanti degli egoismi, come sarebbe potuto avvenire, per esempio, con la conferenza sulla questione palestinese e la soluzione dei “due Stati” rinviata nelle settimane scorse per le tensioni in Medio Oriente. Si tratta di essere realisti, pensando - come sostiene Ian Bremmer - che la legittimità e la credibilità delle Nazioni Unite risieda “nel poter parlare a nome di otto miliardi di persone”. Povertà, ambiente, salute, istruzione, comunicazioni. Anche missioni di pace, pur nella condanna più netta dell’operato dei caschi blu durante il massacro di Srebrenica. Un mondo senza Onu sarebbe peggiore. Ma non possiamo lasciarla vivere così. Prigioni in prefabbricato: l’idea seduce anche in Francia di Daniel Peyronel La Nazione, 6 luglio 2025 Per combattere il sovraffollamento carcerario, il ministro della Giustizia francese Gérald Darmanin ha presentato lunedì 30 giugno un piano per realizzare, entro il 2028, 17 strutture leggere. Lavau è un piccolo comune di circa 1.500 abitanti, nella periferia della città francese di Troyes. Un terzo della popolazione risiede in un centro penitenziario nuovo di zecca, costruito appena due anni fa. Ed è proprio qui che, entro ottobre 2026, dovrebbe sorgere anche la prima delle 17 prigioni prefabbricate volute da Gérald Darmanin, destinate ad ospitare detenuti condannati per reati minori o a fine pena. Il vantaggio di queste strutture, costruite in cemento armato, non risiede solo nel tempo di costruzione ridotto - circa 18 mesi contro i 7 anni necessari per una prigione tradizionale - ma anche nel costo dimezzato: 200.000 euro, la metà di una cella convenzionale. L’obiettivo è di arrivare a 3.000 posti extra all’alba del 2028. “Sono vere e proprie prigioni, ma costruite in prefabbricato, come hanno già fatto i nostri amici inglesi e tedeschi”, ha sottolineato Darmanin, dopo una serie di spostamenti negli scorsi mesi nel Regno Unito e in Germania. Se il piano rappresenta un primo passo per ridurre il sovraffollamento, con 84.447 detenuti per una capienza di 62.566 posti, la Francia ha raggiunto un tasso di occupazione carceraria del 135%, le critiche piovono sia dalle opposizioni che dai media. Un editoriale del quotidiano Le Monde attacca la strategia del governo, incapace di fornire una visione globale sulla gestione penitenziaria, ma impegnato a moltpilicare gli annunci spettacolari: dalla prigione per i 100 detenuti più pericolosi del Paese, alla mega prigione prevista nella foresta amazzonica in Guyana, dall’utilizzo delle case di riposo abbandonate all’affitto di celle nei paesi vicini. Darmanin si è invece dichiarato contrario alla proposta alternativa delle deputate Elsa Fauchillon (sinistra) e Caroline Abadie (ex maggioranza macronista), che auspicano un “numero chiuso” penitenziario: per ogni nuovo ingresso in carcere, un detenuto esce, tramite libertà condizionale o braccialetto elettronico. Il sovraffollamento non riguarda solo la Francia. L’Europa conta quasi mezzo milione di detenuti, con un incremento del 3,2% rispetto al 2023. Tra i paesi più in difficoltà: Cipro (226%), Italia (120%), Belgio (113%) e Svezia (112%). Algeco, Integra Buildings, Moldtech... le aziende specializzate in strutture modulari sono pronte a chiudere affari d’oro: nel 2023, il Regno Unito ha lanciato un piano da 4 miliardi per creare 20.000 nuovi posti in delle strutture modulari. Anche in Italia, dove ci sono 62.000 detenuti per 50.000 posti a disposizione, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il commissario straordinario per l’edilizia carceraria, Marco Doglio, hanno promesso massimo entro la fine di luglio un “piano carceri”, dopo la chiusura del bando da 32 milioni di euro per la consegna dei primi 1.500 posti in dei prefabbricati. Una misura criticata dalle opposizioni. Il dilemma, infatti, non è meramente logistico, ma anche etico: se da un lato la società preme affinché le pene siano effettivamente scontate, dall’altro il sovraffollamento crea delle situazioni di disagio, violenza e insalubrità insopportabili sia per i prigionieri, sia per i poliziotti penitenziari. L’Algeria grazia i detenuti, ma Sansal resta in carcere di Stefano Montefiori Corriere della Sera, 6 luglio 2025 Circa 6.500 condannati hanno beneficiato della clemenza presidenziale, ma tra loro non c’è Boualem Sansal, lo scrittore franco-algerino condannato in appello a cinque anni di carcere. Il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ieri ha concesso la grazia a migliaia di detenuti, come vuole la tradizione, nel giorno della festa dell’indipendenza dalla Francia. Quest’anno circa 6.500 condannati hanno beneficiato della clemenza presidenziale, ma tra loro non c’è Boualem Sansal, lo scrittore franco-algerino condannato in appello, martedì scorso, a cinque anni di carcere. Il decreto di grazia esclude chi “ha minacciato l’unità territoriale della nazione”, e questo non si perdona a Sansal: l’avere sostenuto che alcuni territori dell’Ovest algerino dovrebbero appartenere in realtà al Marocco, ma sono stati attribuiti ad Algeri dall’ex potenza coloniale. Un reato di opinione peraltro storicamente fondato, sul quale il regime esercita un’intransigenza sospetta. L’estate scorsa Parigi si è schierata dalla parte del Marocco contro l’Algeria nella contesa sul Sahara occidentale e da allora tutta la retorica post-coloniale anti-francese ha ripreso con grande virulenza, mentre in Francia destra ed estrema destra hanno a loro volta strumentalizzato le tensioni invocando “il pugno di ferro” contro Algeri. Il premier François Bayrou sperava apertamente nella grazia ma si è lasciato illudere. Mentre i due governi litigano Boualem Sansal, 80 anni, malato di cancro, resta in carcere. L’ultima speranza è un provvedimento ad personam, nelle prossime settimane o mesi, magari da concedere in un giorno meno carico di emozioni e vecchi rancori.