Carceri, evapora il dl urgentissimo. Fontana da Alemanno di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 luglio 2025 Nelle celle surriscaldate di Rebibbia entra per la prima volta il presidente della Camera. A un anno dal decreto legge di Nordio. Flop delle misure governative. E il ministro chiede aiuto al Patriarca di Venezia. Bisognava leggere la testimonianza del detenuto Gianni Alemanno riguardo al “momento più difficile” dell’anno - quello in cui il “caldo arroventa il sovraffollamento” giunto a sfiorare il 135%, nelle carceri italiane, e mette a repentaglio perfino le vite degli oltre 62 mila reclusi - per vedere il presidente della Camera Lorenzo Fontana varcare per la prima volta l’ingresso di una struttura penitenziaria in visita ufficiale. In questo caso Rebibbia, dove l’esponente leghista ha incontrato l’ex sindaco di Roma, recluso da 186 giorni in una cella da cui diffonde un utile “diario” che ha già sortito l’effetto di smuovere perfino l’intransigente Ignazio La Russa. La visita, durante la quale Fontana ha espresso “piena vicinanza” ad una delegazione della polizia penitenziaria, prima di incontrare Alemanno, si è svolta proprio nel giorno in cui compie un anno l’”urgentissimo” Decreto “Carcere sicuro”. Il Dl n.92 del 4 luglio 2024 prevedeva pochissime cose, tra cui l’assunzione di mille agenti penitenziari, ma è rimasto ancora senza decreti attuativi e senza finanziamenti. Mentre da allora il numero totale dei detenuti registra 1248 unità in più. E dal 10 aprile scorso, giorno in cui dovrebbe essersi svolta la gara d’appalto a procedura ristretta, nulla si sa più del nuovo Piano di edilizia penitenziaria messo a punto dal commissario straordinario Marco Doglio (istituito con il Dl Carceri), che costa 32 milioni di euro per 384 posti letto distribuiti in 16 blocchi detentivi (simili a quelli di Gjader). In questo contesto, ieri il ministro di Giustizia Carlo Nordio è tornato al cospetto del Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, con il quale due giorni fa ha già siglato un accordo per far lavorare i detenuti del carcere di Santa Maria Maggiore presso la Procuratoria di San Marco, con un incarico alla Basilica. Ieri il “lungo colloquio” tra il vescovo di Venezia e il Guardasigilli sulle condizioni “critiche” delle carceri veneziane (274 detenuti su 159 posti nella Casa circondariale Santa Maria, mentre nel penitenziario femminile della Giudecca non si registra sovraffollamento) si sarebbe concentrato soprattutto sulle carenze di organico di polizia penitenziaria e sulle soluzioni fornite dalla Chiesa veneziana per la detenzione alternativa. “Nei mesi scorsi sono stati predisposti 8 mini-alloggi presso “Casa San Giuseppe” alle Muneghette - si legge sul sito del Patriarcato veneziano - mentre si conta di arrivare, entro l’anno giubilare in corso, ad ultimare il progetto di messa a disposizione di ulteriori 24 posti letto”. Nordio, da parte sua, “ha garantito al Patriarca che ad ottobre saranno inviati 10 agenti, ed anche l’arrivo imminente del nuovo direttore dell’istituto femminile”. Sostanzialmente, come commenta il Garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia interpellato dal manifesto, “senza la Chiesa, le fondazioni e le associazioni, le carceri da tempo si sarebbero ridotte a gabbie senza speranza. Il problema - puntualizza - è che spesso l’organizzazione del carcere non aiuta: le autorizzazioni arrivano troppo tardi, il pomeriggio non si riesce più a fare attività per mancanza di personale, i detenuti vengono trasferiti nel bel mezzo di un percorso culturale o rieducativo. Questo dovrebbe garantire il Ministro al Patriarca e a tutti noi - conclude Anastasia -: che l’Amministrazione penitenziaria rimetta al centro della sua azione la finalità rieducativa della pena e tutto ciò che essa comporta”. E in effetti, senza l’aiuto esterno neppure i ventilatori riescono ad arrivare. Infatti, mentre “l’effetto forno” costringe il detenuto Alemanno a comperare “un ventilatore che - denuncia l’ex sindaco - non mi viene consegnato da quindici giorni”, a “dare “aria” alla giustizia, anche dentro il carcere” ci deve pensare l’Ordine degli avvocati di Milano che ha lanciato un’iniziativa solidale per raccogliere fondi da destinare a sistemi di ventilazione delle celle roventi. Purtroppo però sempre più spesso si verificano blackout nei penitenziari, perché gli impianti elettrici non reggono l’accensione di tanti ventilatori in contemporanea. Figuriamoci i mille congelatori a pozzetto che Nordio avrebbe già acquistato per “rispondere concretamente al caldo record di queste settimane”. “Che poi sarebbe uno ogni 62 detenuti, per capirci”, fa notare Gennarino De Fazio, segretario Uilpa, che aggiunge: “Sarebbe interessante capire chi li vende, questi frigoriferi a pozzetto”. Intanto ieri nel surriscaldato carcere di Sollicciano, Firenze, un detenuto straniero di 57 anni con patologie psichiatriche è morto dopo un malore. Dall’inizio dell’anno, secondo “Ristretti orizzonti”, i decessi sono 124, di cui 38 suicidi e 86 per “altre cause”. Mentre, come ha sintetizzato il senatore dem Michele Fina un paio di giorni fa, “la politica dorme con l’aria condizionata”. Se Delmastro scopre i dolori delle carceri di Mauro Palma La Stampa, 5 luglio 2025 Gentile sottosegretario Andrea Delmastro, riferiscono alcune agenzie di visite nelle carceri da parte sua e di altri esponenti del governo, in queste giornate difficili e torride. Iniziativa opportuna e da apprezzare perché quei luoghi hanno attualmente necessità di percepire la vicinanza di chi ha il compito istituzionale di garantire che la vita all’interno sia corrispondente, nella quotidianità e nella finalità del tempo che in essi si consuma, a quanto la civiltà del nostro Paese richiede e la nostra Carta prescrive. Un segno di vicinanza ha il valore dell’appartenenza al corpo sociale e del non abbandono in un mondo da esso separato. Ma visitare non può soltanto andare a vedere ciò che, in fondo, già si conosce, date le molte testimonianze di chi il carcere frequenta per vari motivi, incluso quello di avere là dentro i propri affetti o ancor più di avere in quella densità di corpi e tensioni il proprio luogo di lavoro. Abbiamo tutti nella mente le parole di Pietro Calamandrei sulla necessità di andare a vedere la realtà carceraria. Vale la pena ricordare che all’allora ministro Giuseppe Grassi, che superficialmente parlava del “fare insieme una passeggiata nelle carceri”, egli obiettò che andare a vedere significava anche prendere atto di un’esperienza di dolore e di dimostrare di averne consapevolezza. Per questo, il primo significato che una visita istituzionale deve avere è quello della consapevolezza del dolore: certamente causato anche e soprattutto da ciò che si è commesso, ma che nulla toglie al fatto che è compito di chi amministra gli esiti del rendere giustizia impegnarsi affinché la pena resti nel solco della sua finalità, sempre rivolta a un positivo futuro. Purtroppo, da tempo questo messaggio non viene inviato: al contrario, sembra quasi che l’esecuzione di una sanzione penale non sia circoscritta alla privazione della libertà personale, ma sempre più comporti ulteriori aggravi che rischiano di aggredire beni inviolabili di ogni persona. Il molto citato comma dell’articolo 27 della Costituzione che definisce la finalità rieducativa come connotazione tendenziale delle pene, ha nella sua prima parte l’affermazione assoluta che comunque queste “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Su questo aspetto, che un ordinamento civile dovrebbe considerare quasi implicito nel proprio realizzarsi, stiamo ormai al di là della soglia. E non è accettabile, per quella tradizione che ci deve accomunare indipendentemente dalle diverse posizioni ideologiche e politiche, che debbano essere organismi di controllo sovranazionali a imporci di prendere misure, senza avere noi la capacità autonoma di riportarci entro il confine che tale norma indica. Per questo, la visita deve inviare il messaggio concreto del saper cogliere dal dolore visto l’indicazione per agire: sul presente e sul medio periodo. Sul presente, accelerando l’iter di proposte che riducano l’attuale affollamento: facile partire nell’immediato con ampliare il numero dei giorni di liberazione anticipata, anche con un valore retroattivo definibile, nei confronti di coloro che sono già stati dichiarati dalla magistratura come meritevoli di tale misura. Altrettanto impellente è dare indicazione di una maggiore possibilità di contatti con i propri affetti - più telefonate, come promesso all’inizio della scorsa estate e mai attuato, più videochiamate - così come ampliare le possibilità di accesso all’aperto, certamente in condizioni di sicurezza e in orari congrui con le esigenze climatiche. Così costruendo un primo messaggio di concreta effettività della consapevolezza, costruita con tali visite, delle difficoltà e del dolore. Nel medio periodo occorre abbandonare la logica della continua trasformazione di illeciti disciplinari detentivi in nuovi reati: misura inefficace come lo è stata l’introduzione del reato di possesso di telefonini in carcere che certamente non ne ha ridotto la presenza, ma che ha allungato molte carcerazioni. O come, io temo, sarà la piena attuazione di quanto recentemente approvato circa la resistenza agli ordini impartiti. Non sfugge tuttavia a chi osserva il sistema - e certamente anche a lei - che la popolazione detenuta vada sempre più caratterizzandosi per la sua marginalità sociale e che per attuare una qualsiasi politica in questo settore, inclusa quella su cui probabilmente siamo su posizioni diverse, occorra una drastica riduzione dell’impatto di tali situazioni e che, laicamente, dovremmo ragionare su quelle misure di clemenza che la nostra Carta prevede e che ormai sembrano essere una prospettiva abbandonata. Mi auguro che nelle visite, lei possa essere portatore di un segnale di presenza, consapevolezza e impegno di fronte all’impellenza della domanda che la situazione attuale impone. Dietro le sbarre, prima dei muri, vanno riqualificate le relazioni di Cesare Burdese* L’Unità, 5 luglio 2025 Sono ritornato alla Casa Circondariale di Como, in visita con una folta delegazione di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale di Como e Lecco. Nel recente passato ho frequentato quel luogo per qualche tempo perché incaricato di elaborare un progetto di riqualificazione spaziale. Un progetto molto ambizioso che per questo alla fine si è rivelato anche altrettanto velleitario. Era ambizioso perché pensato in maniera inedita con l’intento di portare la progettistica carceraria nazionale nel solco delle buone prassi internazionali, per il benessere materiale e psicologico dell’utenza tutta, attraverso le indicazioni delle neuroscienze applicate all’architettura, ancorché penitenziaria. Si è rivelato velleitario perché l’idea sottovalutava l’assenza di una reale volontà di cambiamento da parte di quanti istituzionalmente hanno in carico la vicenda architettonica penitenziaria, nel vasto deserto della cultura architettonica nazionale in tema di carcere. Dopo l’elaborazione del progetto nulla è più successo: il naufragio è stato inevitabile anche per i cambi di guardia ai vertici dell’amministrazione penitenziaria e della politica di governo. I nauseabondi odori del carcere hanno avuto il sopravvento sull’odore della calce. Il Carcere di Como, edificato negli anni bui del terrorismo e della criminalità organizzata, insieme allo scandalo delle “Carceri d’oro”, continuerà a essere la rappresentazione di una realtà che anche sul piano materiale tradisce il monito Costituzionale e le finalità della pena volta al reinserimento sociale. I suoi muri sono meramente afflittivi, certamente sicuri ma di un istituto penitenziario fortemente sovraffollato e carente di adeguate dotazioni spaziali per le attività formative e lavorative. Predisposto a ospitare 226 detenuti, al momento della visita, l’istituto ne conteneva 428 (tra maschi e femmine), dei quali 183 stranieri. Questo stato di cose comporta il fatto di ospitare contemporaneamente tre persone in celle da nove metri quadri ciascuna che, dedotta la superficie degli ingombri degli arredi fissi, si riducono a un metro quadro di spazio vitale a disposizione di ciascun detenuto, contro i tre metri quadri previsti per legge. A questa criticità va aggiunto che il servizio igienico di ogni cella, peraltro per lo più sprovvisto di acqua calda e di doccia (contrariamente a come la norma sin dal 2000 prevede), viene obbligatoriamente usato per le funzioni corporali e come cambusa e cucina. Tralascio la descrizione dello stato materiale dei luoghi visitati, caratterizzati dalle criticità presenti indistintamente in tutte le nostre carceri: degrado fisico e mancanza di privacy, di verde, di luce naturale, di igiene, di ambienti minimamente accoglienti, di accorgimenti per normalizzare la quotidianità detentiva, di visuali libere, ecc., con il risultato di rendere la scena materiale della detenzione disumana e indegna per tutti. L’accumularsi delle mie visite alle carceri nazionali, incrementate negli ultimi anni grazie a quelle con Nessuno tocchi Caino, ha consolidato in me la visione di una realtà dove il degrado umano ha il sopravvento su quello dei muri. Mi chiedo a questo punto che cosa valga sanare quei muri se il degrado umano resta irrisolto. A Como, in una sezione cosiddetta “a trattamento avanzato” (sic!), ho incontrato un detenuto ventenne al quale il compagno di cella aveva dato fuoco nel sonno. Grazie all’intervento degli agenti, in quel frangente in servizio nella sezione, è stato poi curato dalle ustioni in ospedale e miracolosamente salvato. Ora quel ragazzo è tornato in carcere portando con sé i vistosi segni delle ustioni che lo hanno deturpato e letteralmente annerito in ogni parte del corpo. Egli, davanti a me, si lamentava delle piaghe che sulla schiena gli procuravano ancora dolore e perché le sue richieste di essere alleviato da quel dolore continuavano a rimanere inascoltate. Sono sempre più convinto che nelle nostre carceri, la priorità non sia dare qualità ai muri ma alle relazioni interpersonali, tra i detenuti e tra i detenuti e i detenenti. Non potranno certamente i muri riqualificati, da soli riscattare la condizione di “rifiuto sociale” che ormai caratterizza la maggioranza di quanti finiscono in carcere. Il recente avvio di nuove edificazioni carcerarie, gli ampliamenti con moduli prefabbricati tutto cemento - stile Albania tanto per intenderci - programmati per risolvere il sovraffollamento carcerario secondo soluzioni architettonicamente regressive e di puro contenimento incapacitante, mal si concilia con una simile visione. È la rappresentazione plastica dell’insipienza di chi le ha concepite e non mi rassegno di pensare alla loro ineluttabilità in quanto le situazioni storiche oggettive del momento lo richiedono. Forse ci possono indicare la via le parole nel Barone Rampante di Italo Calvino: “Se alzi un muro pensa a cosa lasci fuori”. *Architetto Sicurezza carceri, il piano FdI: guardie 007 infiltrate in cella di Lana Milella Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2025 Pronto il testo per un servizio segreto penitenziario. “Operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari”. Nasce con queste parole, e pure per Decreto, il nuovo Servizio segreto nelle carceri. Il testo è già pronto ed è nelle mani giuste in via Arenula. È previsto che approdi a Palazzo Chigi in un paio di settimane. Con una norma del genere, che di fatto potrebbe trasformare alcuni uomini della polizia penitenziaria in agenti segreti, non sarebbe anomalo trovarsi di fronte anche a un possibile “detenuto spia”, messo in cella apposta per raccogliere notizie, anche se ovviamente il decreto non entra, né può entrare, in questi dettagli. Ma proprio del decreto è protagonista, ancora una volta, il sottosegretario meloniano alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, che dal suo insediamento in Via Arenula persegue sistematicamente l’obiettivo di dare sempre maggiore potere alla “quarta forza di polizia” italiana. Tant’è che, giusto nello stesso decreto, la Penitenziaria raggiunge un altro agognatissimo traguardo, una sorta di “libro dei sogni”, e cioè vedersi assegnato un ruolo di vertice nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dove sarà previsto un ulteriore vicecapo, rispetto all’unico finora esistente, che sarà sempre di sua esclusiva pertinenza. C’è già il nome giusto per occuparlo, quello di Augusto Zaccariello, vicedirettore generale del Personale, ex comandante del Nucleo investigativo centrale, direttore del Gom, una lunga carriera alle spalle come comandate di carceri. Ma torniamo al nuovo Servizio segreto nelle carceri. Il cui ruolo, potere, possibilità di azione andrà ben al di là di quello che oggi svolgono il Nic (Nucleo investigativo centrale) e il Gom (Gruppo operativo mobile). Perché il governo prevede di estendere alla Penitenziaria quanto è previsto dall’articolo 9 della legge 146 del 2006, e cioè la ratifica della Convenzione Onu contro il crimine organizzato, in particolare la non punibilità per le operazioni sotto copertura e l’uso di identità fittizie, a condizione che il pm ne sia stato informato. Un ruolo, appunto, da agente segreto, che verrebbe affidato agli agenti scelti della Penitenziaria. Inevitabile che proprio adesso, dopo la perquisizione ordinata dalla Procura di Caltanissetta nelle tre abitazioni dell’ex procuratore Gianni Tinebra per l’ipotesi investigativa di suoi rapporti con la massoneria, la nascita di un servizio segreto delle carceri faccia tornare in mente, come suggestione, il “Protocollo Farfalla”. Un accordo del 2004 sintetizzato in sei pagine in cui il Dap, di cui era divenuto direttore Tinebra, s’impegnava a passare al Sisde, che vedeva al vertice l’ex comandante del Ros Mario Mori, le notizie in arrivo dai detenuti al 41-bis, ma bypassando i pm. Ma la futura storia degli agenti segreti penitenziari è ancora tutta da scrivere. “Sulle carceri paralisi incomprensibile. Dal Guardasigilli solo risposte irritanti” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 5 luglio 2025 L’esponente di Iv Roberto Giachetti insiste sulla propria proposta di liberazione anticipata speciale, sostenuta da La Russa, ma ignorata dal centrodestra: “Urge intervenire, la situazione può divenire esplosiva”. “Come parlamentare, sono stato in visita nel penitenziario Mammagialla di Viterbo. Sa cosa ho visto? Non avendo più posto, hanno trasformato in celle alcuni uffici, che non hanno finestre e neppure il bagno. Con 40 gradi, i detenuti stanno lì dentro. E quando gli scappa di urinare, debbono farla dentro bottiglie di plastica, che poi danno alla Polizia penitenziaria per farle svuotare. Ma ci rendiamo conto? Altro che attuare i precetti costituzionali, lì si sta violando la dignità umana”. In un’estate rovente, forse basterebbe solo questo racconto a rendere vivido il dramma del sovraffollamento carcerario. Ma Roberto Giachetti, da 25 anni in Parlamento, membro di Italia viva e del Partito Radicale Transnazionale, non si ferma qui. E prova per l’ennesima volta a dare una scossa alla politica che di quel dramma non riesce ancora a farsi davvero carico, nonostante la mole di retorica e di buone intenzioni. Ormai i detenuti sono 62mila su 47mila posti effettivi, con un tasso di sovraffollamento medio oltre il 130%. Suicidi e atti di autolesionismo crescono. Perché Governo e Parlamento non intervengono? Davvero, mi creda, non riesco a comprenderlo. Sono quasi trent’anni che frequento le carceri come visitatore. E un’emergenza così grave non si può ignorare. Il capo dello Stato l’ha definita “insostenibile”… Le parole del presidente Mattarella non debbono lasciare nessuno indifferente, nelle istituzioni anzitutto. E una presa di posizione era arrivata pure dal presidente del Senato, Ignazio La Russa, col quale a maggio io e Rita Bernardini ci siano confrontati. La Russa ha concordato con lei sull’urgenza di una misura anti sovraffollamento. Ma il suo appello non ha smosso molte coscienze… Non finora, almeno. Capisco che il Governo di centrodestra viva in un paradosso: mentre le carceri scoppiano, continua a sfornare pseudo-decreti “sicurezza” che introducono nuovi reati e aggravano le pene, rischiando di affollarle ancor di più. Sul piano ideologico, la loro narrazione è questa. Tuttavia, qui non si dibatte d’indulto o di amnistia, a cui io sarei favorevole ma di cui la maggioranza non vuole sentire parlare. Qui si discute di una proposta, la mia, nella scia della normativa Gozzini, in vigore da decenni, per consentire a chi dà prova di buona condotta di accorciare il tempo dietro le sbarre. Si chiama liberazione anticipata: per i detenuti che partecipano all’opera di rieducazione, uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi espiati. Io ho proposto di allungarlo a 75, con un calcolo di retroattività dal 2020. La Russa preferirebbe di meno, sui 60. Ma sarebbe in ogni caso uno sconto di pena aggiuntivo e temporaneo, da far scattare solo in questa fase di sovraffollamento eccessivo, non permanente. Quanti detenuti uscirebbero? Non è semplice ipotizzarlo, è un calcolo che dovrebbero fare i magistrati di sorveglianza. Ma se fossero alcune migliaia, potrebbero alleggerire la situazione. Nel 2013, quando la sentenza Torreggiani della Cedu sanzionò l’Italia, scattò la liberazione anticipata speciale, con una retroattività di 5 anni. Ora quelle condizioni degradanti si sono riproposte: detenuti ammassati come sardine, in dieci o in otto dentro celle da quattro. Cosa intende fare il Governo? Rivolte e gesti estremi sono quotidiani. Si vuole stare ad assistere finché la situazione non diverrà esplosiva? Nonostante il muro di gomma, lei non si arrende. Quali saranno i suoi prossimi passi? Abbiamo sollecitato più volte, con gli altri gruppi d’opposizione, un’informativa urgente del Guardasigilli in Parlamento sulle carceri e sulla rivolta a Marassi, dove le proteste erano scoppiate per le sevizie a un detenuto. Ma finora il ministro non si è palesato. Nell’attesa, io e la collega di Iv Maria Elena Boschi andremo in visita nel penitenziario ligure per verificare di persona. L’ha colpita la lettera di Gianni Alemanno da Rebibbia? Gli do atto di aver intrapreso una battaglia disinteressata, perorando la mia proposta di cui lui non potrebbe beneficiare. Le Camere hanno approvato diversi ordini del giorno, compreso uno suo, che impegnano il Governo a intervenire. Vi è giunto un documento di risposta. Cosa dice? Nulla di incisivo. Il piano per l’edilizia carceraria è in alto mare. E lo stesso guardasigilli pare un disco rotto. La risposta che ha dato dopo l’appello del capo dello Stato la trovo ridicola e irritante. Addirittura. Perché? Parla di riforma della custodia cautelare, ma non c’è alcune proposta di legge in Parlamento. Insiste sui percorsi alternativi per detenuti tossicodipendenti, che però avrebbero bisogno di forti finanziamenti che non arrivano. E vagheggia di far scontare ai reclusi stranieri la pena nei propri Paesi. Quest’ultima suggestione la trovo una presa per i fondelli, visto che servirebbero accordi con quegli Stati, che non ci tengono affatto a riprendersi quei connazionali. Sono chiacchiere, che non risolvono nulla. La mia proposta, invece, aiuterebbe. E, non mi interessa neppure metterci il nome. Cioè? Se ritengono, i partiti di maggioranza e l’esecutivo possono farla loro, aggiustarla, modificarla. Basta che si sbrighino, perché ogni giorno che passa, il dramma oltre le sbarre peggiora. Ormai è un’emergenza nazionale, che non si può far finta di non vedere. Comunità carcerarie. Il pilastro di una nuova riforma fatta insieme al privato sociale di Davide Damiano ilsussidiario.net, 5 luglio 2025 Gli Usa, dove la detenzione è un business, propongono il carcere “crocodile”. Ma la soluzione più umana viene dall’Italia: le comunità carcerarie. A luglio fa caldo. Come scrive nella sua ultima lettera dal carcere l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, “se uno studente volesse sperimentare il significato del concetto fisico di gradiente termico, dovrebbe venire qui a Rebibbia e spostarsi dal piano terra fino al secondo e ultimo piano”. Negli Stati Uniti, paese che spesso viene preso a modello anche nei peggiori paradossi, 27 stati su 50 prevedono ancora la pena di morte. E molte carceri sono gestite da società private quotate in Borsa. Il carcere come business. Una realtà che dovrebbe far rabbrividire, e invece ispira alcuni commentatori nostrani. L’ultima trovata “Maga” - il carcere “crocodile” trasformato in spot - ha scatenato entusiasmi anche in Italia. L’80% dei commenti sui social si è espresso a favore di quel modello punitivo, spettacolarizzato e privo di umanità. Eppure, dall’altra parte dell’oceano, qualcuno guarda all’Italia come esempio. Il mio amico Elias Crim, professore all’Università di Washington, sta studiando il nostro sistema di cooperazione sociale per capirne il valore e - magari - replicarlo. Per una volta, sono loro a voler imparare da noi. Nel frattempo, in Italia, si continua a discutere di carcere con toni accesi e scarsa concretezza. Ho letto con attenzione la proposta dell’Associazione Spazio Aperto, intitolata “La fine del Sistema Infinito”, e le dichiarazioni del presidente della Regione Lombardia che l’hanno seguita. Il documento è pieno di buone intenzioni. Affronta nodi centrali: la funzione rieducativa della pena, l’alto tasso di recidiva, la necessità di percorsi di reinserimento. Ma manca un punto fondamentale: il coinvolgimento di chi nel carcere ci lavora davvero. Chi propone riforme, non può farlo ignorando le cooperative sociali, che oggi rappresentano la principale infrastruttura del lavoro penitenziario in Italia. E invece, in tutto il documento, non se ne trova traccia. È una dimenticanza grave, che rivela una distanza dalla realtà. Da anni, cooperative sociali, imprese responsabili e volontari costruiscono percorsi veri, basati su contratti regolari, formazione certificata, produzione e dignità. E con risultati tangibili: in alcuni casi, la recidiva tra i partecipanti scende sotto il 2%. Eppure, troppo spesso, il terzo settore viene trattato come un comparto di “serie B”: utile, forse, ma marginale. È ora di superare questo pregiudizio. Le cooperative sociali sono imprese. Producono valore economico e sociale, danno lavoro, formano, prevengono. Non siamo animatori: siamo imprenditori sociali. Con persone da formare, reati da prevenire, clienti da servire e bilanci da far quadrare. E lo facciamo senza scorciatoie. Senza slogan. Senza luci puntate addosso. Chi lavora in carcere sa quanto sia difficile trasformare la pena in opportunità. E sa che il lavoro è importante, ma non basta. Servono relazioni, educazione, accompagnamento territoriale. Per questo rilanciamo una proposta concreta: quella delle Comunità Carcerarie. Un modello che non contrappone “carcere duro” a “libertà senza rete”, ma costruisce percorsi integrati, che abbia spazi adeguati per lavoro e formazione, coabitazioni assistite per chi non ha un domicilio e reti educative e territoriali; co-progettazione con cooperative, imprese, enti locali e magistratura di sorveglianza. Non una visione utopica, ma un ecosistema reale, già sperimentato, che può diventare pilastro di una nuova riforma. Il carcere non si cambia per decreto. Non si cambia da una scrivania. Si cambia solo con alleanze forti tra pubblico e privato sociale, con progetti concreti, con chi - ogni giorno - sceglie di esserci. Ecco perché chi parla di “fine del sistema infinito” dovrebbe, prima di tutto, conoscere chi quel sistema lo sfida davvero. E lo trasforma. In silenzio, ma con impatto. Noi continueremo a farlo. Con i piedi per terra. E con lo sguardo lontano. La mia odissea, poi il carcere ma credo ancora nell’Italia di Imran Faisal* La Stampa, 5 luglio 2025 Faccio parte di una famiglia pakistana numerosa. Sono il terz’ultimo di sette figli. Ho quattro sorelle e due fratelli. Il più grande dei miei fratelli aiutava mio padre ad accudire il pascolo. I terreni non erano di proprietà di mio padre, ma venivano presi in affitto. Verso la fine del 1999 Tasadiq, il mio fratello maggiore, lascia il Pakistan, rimane per tre anni in Grecia, e poi raggiunge l’Italia, dove ancora vive. Così decido di aiutare mio padre nei campi, quindi studio e lavoro, fino a quando, dopo il 2004, mio padre si ammala a causa dell’uso di prodotti chimici e di fertilizzanti che gli rovinano gli occhi. Sono quindi costretto a lasciare la scuola per dedicarmi totalmente al lavoro nei campi e con gli animali. Ma dopo pochi anni i proprietari delle terre iniziano a far costruire case e a ridurre le terre da destinare a pascolo. Non vedendo un futuro in Pakistan, ho cercato di raggiungere la Grecia attraversando l’Iran a piedi, ma sono stato arrestato e imprigionato in un carcere militare per una settimana, e poi rispedito in Pakistan. Dopo venti giorni ho riprovato ad attraversare l’Iran a piedi e in macchina, sotto la guida di trafficanti che avevo pagato. Per attraversare l’Iran ho pagato duemila euro, la stessa somma per attraversare la Turchia e la Grecia. Il viaggio è durato 23 giorni, e ho dormito sulle montagne, nei campi e nelle stalle. Arrivato a Tino, in Grecia, sono andato a dormire nella casa di un amico di mio padre. C’erano sei persone e io mi occupavo di cucinare e pulire per tutti perché non conoscevo la lingua e non avevo un lavoro. Non trovando lavoro sono andato a Rodi, avevo in tasca 75 euro e ho dormito per tre giorni nei parchi; poi, un pakistano, che ho poi scoperto essere un trafficante, mi ha ospitato in una casa con altri suoi complici. Per stare lì dovevo pagare con i soldi che avrei avuto una volta trovato lavoro. Quando ho trovato lavoro come imbianchino, avrei voluto lasciare la casa gestita da quelle persone, ma Rodi è piccola ed era sotto il controllo delle stesse persone che mi ospitavano. Un giorno mi hanno chiesto di andare a prendere al porto un pakistano che era appena arrivato da Tino. Tornato a casa dopo il lavoro, sono stato arrestato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e rilasciato dopo quattro giorni. Per un mese siamo stati sottoposti a fermo obbligatorio; dopo, i veri trafficanti sono scappati, io invece sono rimasto perché pensavo che non ci fossero più problemi. Un parente del mio datore di lavoro mi ha offerto una mansarda dove vivere perché apprezzava il mio lavoro. A Rodi incontro una donna italiana di nome Veronica, ci innamoriamo e ci sposiamo. Dopo un anno, dopo aver ottenuto il visto, partiamo per l’Italia. Sono arrivato in Italia alla fine del 2011. In Italia ho trovato lavoro come giardiniere. Prima lavoravo in nero e poi, nel 2017, sono stato messo in regola. Alla fine del 2017 ho chiesto la cittadinanza italiana, mi hanno chiesto la fedina penale e in quel frangente ho scoperto che il processo era andato avanti e nel 2022 mi hanno arrestato anche se per un solo giorno. Tornato in libertà ho continuato a lavorare in attesa della pronuncia della Cassazione. Il 19 giugno 2024 è arrivata la sentenza definitiva della Cassazione e sono stato arrestato. Fino ad allora abitavo a Saronno con mia moglie, che nel 2022 ha subito un grave danno a una gamba a causa di un incidente automobilistico. Di recente ho ottenuto il trasferimento dal Carcere di Opera al Carcere di Bollate, più favorevole per mia moglie per venire a colloquio. La mia unica ragione di vita è mia moglie Veronica. Io so di essere una buona persona e spero di poter ottenere quanto prima i benefici di legge che mi permettano di starle vicino. In Italia ho trovato persone che mi hanno accolto, sono stato apprezzato e valorizzato nel mio lavoro, soprattutto nella cooperativa Ozanam che mi ha assunto. Ho sperimentato con i miei compagni di lavoro la forza di lavorare in squadra fidandosi l’uno dell’altro. Importante è stato il ruolo di Gianluca, il mio responsabile del lavoro, dal quale ho imparato tanto. E poi, quando arrivavo stanco dal lavoro c’era mia moglie, che mi incoraggiava a buttare il cuore oltre l’ostacolo e sognare di diventare italiano. Veronica mi ha preso per mano e mi ha fatto affrontare tutto con la forza dell’amore. *Attualmente detenuto nel carcere di Bollate Scuola del non obbligo di Alex Frongia bandieragialla.it, 5 luglio 2025 Durante la mia carcerazione ho avuto l’onere e l’onore di frequentare la scuola superiore. In questi anni ho avuto la possibilità di confrontarmi con numerosi insegnanti, con molti compagni e ho avuto l’occasione di apprendere nuove nozioni. L’iscrizione a scuola è stata del tutto volontaria, in quanto nessuno ti obbliga a frequentarla. Nel percorso di trattamento sono poche le attività a disposizione del detenuto ed è ben noto che la cultura non sempre paga. Infatti in carcere la popolazione detenuta preferisce fare dei corsi o delle attività lavorative remunerative, piuttosto che dedicarsi all’istruzione che non ti offre un compenso mensile. Però ti arricchisce come persona e accresce il tuo livello culturale con titoli spendibili un domani nella società. Per via del precariato, che colpisce il ministero dell’istruzione, anche la scuola in carcere soffre l’obbligato turn over che gli insegnanti e di conseguenza gli studenti sono destinati a subire. Il detenuto-studente ha bisogno di creare con il proprio insegnante un legame di fiducia, un rapporto di affetto, di stima e di sincerità. Da lì inizia la magia dell’insegnamento e dell’apprendimento delle varie materie. Purtroppo quando finisce l’anno scolastico ci si saluta con tristezza, sapendo già che il nuovo anno scolastico cambierà quasi interamente lo staff dei professori. L’anno successivo sarà da creare, da ricostruire, da reinventare. L’arrivo dei nuovi insegnanti è spesso un momento traumatico, soprattutto all’inizio dell’anno. I pregiudizi sul carcere e verso le persone che ci vivono sono tanti, e questo condiziona la società e chi ne fa parte. Non è facile vedere una professoressa bardata fino al collo nel mese di ottobre, quando ancora le temperature sono alte, e non sentirsi a disagio. Vedere i suoi occhi stupiti nel constatare che siamo tutti vestiti diversi e non con il completo a righe. Nel sentirci parlare di cucina, o di sport, sì proprio come le persone normali, perché lo siamo, siamo persone normali. Quando questi timori iniziali vengono superati arrivano i risultati, e a fine anno quando ci si saluta, scappa anche qualche lacrima. Perché alla fine anche in questo brutto posto c’è del buono e ci si vorrebbe continuare a vedere, ma le sbarre dividono e non uniscono. Ed ora che sono arrivato alla fine, provo sensazioni miste: quella della felicità per aver raggiunto l’obiettivo, e quella della tristezza per non poter più vivere quello che di bello ho trascorso in questi anni a scuola. L’unica cosa che posso fare è portare con me il ricordo e la gratitudine per quegli insegnanti che hanno creduto in me come studente, come persona e non come detenuto. Tempi troppo stretti per le leggi attuative del ddl Nordio: cresce l’allarme di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2025 Raffreddare gli animi dopo l’incidente sullo ius scholae. Il segretario di Forza Italia, nonché vicepremier, Antonio Tajani lo sa, e non a caso ad Ancona, rispondendo alle domande dei cronisti nel giorno dell’apertura della campagna elettorale per le Regionali, rilancia con parole misurate ma chiarissime: “Oggi la priorità numero uno è la riforma della giustizia, perché per noi questa è la riforma delle riforme, trattandosi anche di una modifica costituzionale”. Nessuna sbavatura. Nessun accenno alla cittadinanza per i minori stranieri, che solo l’altro ieri fa aveva fatto storcere il naso alla Lega. È un modo per rinsaldare il patto di governo, una strategia per superare questo collo di bottiglia senza irritare ulteriormente Salvini e i suoi. Una linea di prudenza, in fondo, imposta anche dal calendario parlamentare. Perché proprio in queste ore la riforma Nordio, fiore all’occhiello della giustizia secondo l’Esecutivo, sta entrando nella sua fase più delicata. Dopo l’approvazione dell’articolo 2 al Senato, il dibattito riprenderà martedì, con una nuova capigruppo che dovrà decidere tempi e modi. La maggioranza vuole chiudere il passaggio a Palazzo Madama entro la prima metà di luglio. Poi sarà la Camera, da settembre, a dare il via alla seconda e definitiva deliberazione. Ma l’ingorgo è dietro l’angolo. Perché anche se il secondo passaggio parlamentare non prevede emendamenti, né ordini del giorno o stralci, ogni slittamento rischia di far saltare i piani di Nordio. Se entro 12 mesi non sono approvate le leggi ordinarie che danno corpo alla riforma, continueranno ad applicarsi le regole precedenti. E questo - è bene dirlo - significa una cosa sola: che il nuovo Csm, il cui rinnovo è previsto entro aprile 2027, verrebbe scelto ancora col metodo attuale. Altro che sorteggio: le correnti della magistratura resterebbero saldamente al loro posto. Una prospettiva che cancellerebbe, di fatto, il principale obiettivo della riforma. Per Nordio e Meloni sarebbe una sconfitta politica netta, forse irrimediabile. Anche perché il nodo del sorteggio - previsto dall’articolo 3, la cui discussione in Aula è stata avviata ma non ancora conclusa - resta il più contestato. La separazione delle carriere spiegata con il caso spagnolo. Duello con il segretario generale dell’Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 luglio 2025 “A differenza della riforma Meloni-Nordio, quella spagnola mira a rafforzare l’autonomia dei pm e a ridurre i rischi di influenza della politica. Questo forse spiega perché lì ha suscitato la reazione di una parte della magistratura e non di tutta, come è successo qui”, afferma Rocco Maruotti. Cosa ci dice sull’Italia l’attivismo dei magistrati in Spagna. “Ciò che vedo è un’insofferenza dei governi nei confronti del controllo di legalità che le Costituzioni in tutta Europa affidano ai magistrati, anche nei confronti della politica e dei suoi esponenti, e forse non è un caso che questo sta producendo un diffuso revisionismo costituzionale che mira proprio a ridurre gli spazi di autonomia e indipendenza dei magistrati, così tradendo i princìpi che hanno ispirato il costituzionalismo moderno, dal ‘700 in poi, in particolare il principio della separazione dei poteri, che finora ha garantito in tutta Europa l’equilibrio democratico e le libertà individuali”. A dirlo, intervistato dal Foglio, è Rocco Maruotti, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. La riflessione di Maruotti prende avvio da quanto sta avvenendo in Spagna, dove le associazioni della magistratura protestano, con tanto di sciopero, contro la riforma della giustizia presentata dal governo, sostenendo che questa riduce l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Una mobilitazione assimilabile a quella a cui si assiste in Italia contro la riforma costituzionale del governo Meloni? “Posto che fare parallelismi tra contesti nazionali diversi tra loro è un’operazione ad alto rischio di approssimazione, direi che tra la mobilitazione in corso in Spagna in questi giorni e lo sciopero dei magistrati italiani del 27 febbraio scorso ci sono similitudini, ma anche molte e significative differenze”, replica Maruotti. “L’unica evidente similitudine è che quando il controllo di legalità che la magistratura esercita ha ad oggetto i politici, questi insorgono e accusano la magistratura di essere politicizzata”, dice il segretario generale dell’Anm. “Quanto alle differenze invece - prosegue - in Spagna contro la riforma del governo a maggioranza progressista hanno scioperato i magistrati aderenti a 5 ‘correnti’ su 7 (a dimostrazione del fatto che le correnti esistono anche nel resto del mondo), ad esclusione di quelli iscritti alle due correnti considerate più progressiste; in Italia, invece, l’adesione allo sciopero, che è stata dell’80 per cento (dato che non è stato mai smentito dal ministero), è stata assolutamente trasversale, a dimostrazione del fatto che la reazione della magistratura italiana è stata tutt’altro che ideologica e di parte, come qualcuno ha provato a fare credere”. “Inoltre, la riforma spagnola, al di là di alcuni aspetti critici relativi al concorso di accesso alla magistratura, mira, a differenza della riforma Meloni-Nordio, a rafforzare l’autonomia dei pm, oggi evidentemente più scarsa di quella dei pm italiani, e a ridurre i rischi di possibile influenza della politica sulla magistratura. E questo forse spiega perché in Spagna questa riforma ha suscitato la reazione di una sola parte della magistratura e non di tutta la magistratura come è successo in Italia”. Tuttavia, come abbiamo notato su queste pagine, c’è anche un’altra notevole differenza tra quanto avviene in Spagna e in Italia, e cioè che in Spagna c’è la separazione delle carriere. Nonostante questa separazione, pm e giudici non solo scioperano insieme contro il governo, ma stanno portando avanti un’ondata di inchieste molto incisive sulla politica e non solo (è stato arrestato il braccio destro del premier Sánchez, sono indagati sua moglie e suo fratello, è indagato persino il ministro della Giustizia e addirittura è stato rinviato a processo il procuratore generale). Non è questa la dimostrazione che, a dispetto di quanto sostenuto dall’Anm in Italia, la condizione di autonomia e indipendenza dei magistrati, in particolare dei pm, non dipende dalla separazione delle carriere, ma da altri fattori? “Tutt’altro, perché quello che sta accadendo in Spagna è proprio la dimostrazione che quando la politica mette le mani sulla magistratura, quest’ultima rischia di diventare lo strumento per regolare i conti interni alla politica. Oppure, nella migliore delle ipotesi, la magistratura perde credibilità e viene considerata politicizzata”, risponde Maruotti. “In Spagna, infatti, dove vige una rigida separazione delle carriere, il pm non gode dell’indipendenza e dell’inamovibilità, che la Costituzione spagnola riconosce solo ai giudici. Inoltre, il pm spagnolo è governato, controllato e diretto dal procuratore generale, nominato su proposta del governo. Ed è quello che, inesorabilmente, accadrà anche in Italia, come ha molto chiaramente scritto Marcello Pera in un suo contributo del 3 febbraio scorso pubblicato sulle pagine del vostro giornale, in cui diceva che ‘non è un caso che, là dove c’è la separazione, il pm è, in un modo o in un altro, collegato al potere politico. Chi altri potrebbe dargli le direttive di politica anticriminale, di priorità, di opportunità, di rilevanza, di urgenza?’. E se lo dice Pera, che è un noto liberale, come dargli torto?”, conclude Maruotti. “Nessun vuoto di tutela senza abuso d’ufficio: abbiamo altri rimedi” di Simona Musco Il Dubbio, 5 luglio 2025 Professore avvocato Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, la Corte Costituzionale ha ritenuto legittima l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Quali sono, a suo avviso, le motivazioni costituzionali più rilevanti dietro questa decisione? Si tratta di una decisione molto articolata e complessa. I passaggi salienti sono anzitutto l’aver dichiarato inammissibili le censure rivolte alla legge abrogativa, da un lato, sotto il profilo dell’art. 97 Cost., dal quale secondo la Corte non si possono far discendere obblighi di incriminazione, e dall’altro sotto il profilo dell’art. 3 Cost., ritenendo inconsistenti asserite violazione del canone di eguaglianza che fanno leve sulla scelta abrogativa come “norma penale di favore”. In secondo luogo, l’aver ritenuto viceversa ammissibili le censure prospettate evocando la violazione di obblighi derivanti da fonti del diritto internazionale pattizio, che la Corte ritiene sempre scrutinabili dall’angolatura dell’art. 117 Cost. Anche se nel caso dell’abuso d’ufficio i giudici hanno negato - del tutto condivisibilmente - che sulla scelta di incriminazione dell’abuso d’ufficio sussistano obblighi specifici di incriminazioni, in particolare alla luce della Convenzione di Mérida: riconoscendo dunque che tale scelta, anche in ragione delle delicate valutazioni di sussidiarietà che essa evoca, è rimessa al margine di apprezzamento dei singoli stati. La sentenza parla di evidente vuoto di tutele, ma ribadisce che la parola spetta alla politica. Pensa sia corretto parlare, oggi, di una crisi della tutela penale dei reati contro la pubblica amministrazione, anche alla luce di questa sentenza? La scelta abrogativa - come tutte le scelte radicali - può suscitare talune perplessità, specie dall’angolatura della prevaricazione del pubblico agente. Ma bisogna anche ricordare che il legislatore è giunto a questa soluzione radicale dopo tre diverse riforme che - nel 1990, nel 1997, e nel 2020 - hanno modificato il reato, ogni volta tentando invano di assicurare un maggior coefficiente di tassatività e di determinatezza ad una fattispecie che si è trasformata in una “mina vagante” nell’ordinamento, e in una autentica “spada di Damocle” per i pubblici agenti, come la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto qualche anno fa. In ogni caso, non mi pare che possa parlarsi di “vuoto di tutele”, a fronte dei diversi rimedi comunque presenti nell’ordinamento, sotto il profilo della responsabilità erariale, disciplinare, civile del pubblico agente che agisce in violazione di legge, per fini affaristici o cagionando un danno all’amministrazione o al privato. Alcuni ritengono che ci fosse un “obbligo implicito di risultato” legato alla lotta alla corruzione, cosa smentita dalla Corte. È un argomento giuridicamente fondato o è solo un’impostazione ideologica? La correlazione tra corruzione e abuso d’ufficio, spesso sostenuta evocando quasi una corrispondenza biunivoca tra queste condotte, mi pare eccessiva e fuorviante, come lo è anche la vulgata che accredita l’abuso d’ufficio come “reato spia” di una retrostante pattuizione corruttiva. Corruzione e abuso della funzione, che pur possono presentare zone di tangenza, restano il più delle volte fenomeni distinti e distanti: un pubblico agente può incorrere in una violazione di legge, o anche in una scelta contaminata da “conflitto di interesse”, ma ciò non ha nulla a che fare con il mercimonio corruttivo. E la lotta alla corruzione, nel nostro ordinamento, è assicurata oggi da presidi punitivi estremamente severi, che hanno un raggio applicativo ad amplissimo spettro, non immune da applicazioni pratiche - nella prassi delle aule giudiziarie e delle contestazioni inquirenti - eccessive e ben poco ragionevoli. Se si accogliesse l’idea che esista un “obbligo sovranazionale” di tutela penale, quale sarebbe il rischio per la sovranità legislativa nazionale? Questo è il punto più problematico, perché la proliferazione di obblighi sovranazionali di tutela penale è ormai senza confini e senza padroni: affiorano nelle più diverse materie, dalle macroviolazioni dei diritti umani sino ai settori più specialistici del diritto penale dell’economia, ed attraverso le più diverse fonti, dalle convenzioni internazionali alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. A mio sommesso avviso, tuttavia, bisognerebbe distinguere tra obbligo ed obbligo, oltre che tra le diverse fonti: e soprattutto distinguere tra sussistenza e consistenza dell’obbligo positivo di criminalizzazione, sul piano sovranazionale, e sua “giustiziabilità” sul piano costituzionale, a livello domestico. Lei crede che il principio dei contro- limiti - che tutela i principi fondamentali della Costituzione anche nei confronti del diritto sovranazionale - possa rappresentare una barriera legittima contro un’eventuale imposizione esterna di modelli penali? Questo è il punto: se la riserva di legge ha ancora un significato, la legalità deve sempre rappresentare un controlimite, ed anche se a un certo obbligo sovranazionale si è dato spazio attraverso la legge di ratifica, il Parlamento deve essere pur sempre libero di rimeditare quella scelta, e persino di tornare sui propri passi, senza poter ritenere che quella opzione originaria sia un impegno irrevocabile per un futuro senza termine. O, peggio, che quella scelta sia una sorta di “delega in bianco”, sulla quale il Parlamento nazionale non possa più esercitare il proprio scrutinio: altrimenti la legalità nazionale sarebbe una formula vuota, sempre cedevole e recessiva di fronte a qualsiasi impulso repressivo che provenga dalla costellazione delle fonti sovranazionali, o dalla fucina formicolante della giurisprudenza delle Corti europee. Esiste un rischio che, in nome della lotta alla corruzione, si giunga a una giurisdizionalizzazione eccessiva della pubblica amministrazione, in contrasto con il principio di legalità formale e la riserva di legge in materia penale? Mi pare che il rischio si sia già verificato, e basta rileggere la sentenza della Corte costituzionale n. 8 del 2022, ancora in tema di abuso d’ufficio, per verificare quanto questo rischio sia stato percepito dallo stesso giudice delle leggi. Ma il rischio è oggi acutizzato dalla presenza di fattispecie punitive dal perimetro labile e sfumato, dotate - per usare terminologia statistica - di un altissimo coefficiente di sensibilità e di un basso coefficiente di specificità, ossia da scarsa “accuratezza”, con elevata possibilità che nello spettro applicativo ricadano anche “falsi positivi”. Basti pensare alla fattispecie che punisce la “corruzione per l’esercizio della funzione” o il “traffico di influenze illecite”, costantemente alla ricerca di equilibri legislativi o giurisprudenziali in grado di calmierare la strutturale “eccedenza applicativa”, e i rischi di “chilling effect”, a cui queste norme si prestano. Ritiene che la magistratura possa essere tentata di “ricostruire” l’abuso d’ufficio attraverso l’uso creativo di altri reati? Sarebbe un rischio per la certezza del diritto? Il sistema penale è strutturalmente incline alla retroazione, e una “specie” non si estingue mai del tutto, ma tende a ripresentarsi sotto altre forme. Basti pensare - per rimanere al settore dei reati contro la Pa - alla storia del peculato per distrazione, eliminato nel 1990 dall’art. 314 c. p. e poi refluito nella materia criminis dell’art. 323 c. p., l’abuso d’ufficio appunto. Ma deve essere chiaro che ogni supplenza ermeneutica ed ogni dilatazione applicativa che voglia “forzare” fattispecie pensate per altri scopi di tutela per recuperare all’ambito penale condotte che il legislatore ha ritenuto - nell’esercizio della propria discrezionalità e della propria responsabilità politica - di escludere dal campo di interesse del diritto penale, sarebbe un esercizio interpretativo improprio ed inammissibile, ogni volta che si traduca nella forzatura del dettato normativo in contrasto con il divieto di analogia, confine invalicabile ad ogni esperimento ermeneutico in materia penale. Anche presunte istanze - o asserite lacune - di tutela non giustificano mai una applicazione analogica o critpanalogica della fattispecie penale, come la stessa Corte costituzionale ha sottolineato in più occasioni, e con particolare nettezza nella sentenza n. 98 del 2021. Firenze. Muore a Sollicciano nella cella-forno senza ventilatore di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 5 luglio 2025 L’uomo di 57 anni aveva problemi di salute Il cappellano Casamassima: il caldo un fattore. Un uomo di 57 anni, affetto da problemi psichiatrici e detenuto in una delle stanze di Sollicciano in cui non è presente neppure un ventilatore, è morto ieri nel carcere fiorentino a causa di un malore. Il cappellano Stefano Casamassima: “Lì fa davvero molto caldo, l’afa può aver influito”. Era in piedi vicino alla finestra della sua cella, quando improvvisamente si è accasciato e ha perso i sensi. I sanitari si sono precipitati, hanno tentato il massaggio cardiaco, ma non hanno potuto impedire il decesso di un detenuto di 57 anni che si trovava da pochi giorni nell’area transito del carcere di Sollicciano, una delle zone più degradate del carcere, dove non ci sono ventilatori e dove le temperature delle celle sono piuttosto alte, soprattutto intorno all’ora di pranzo, proprio quando l’uomo, un austriaco, si è sentito male. Ancora non chiare le cause del malore, forse un infarto, ma su questo verrà attivata probabilmente la procedura dell’autopsia. Il recluso aveva anche problematiche di tipo psichiatrico, certamente non facili da conciliare con il regime carcerario, soprattutto in un carcere difficile come quello di Sollicciano da sempre, oltretutto, vittima del freddo e del caldo. Dopo i due suicidi di gennaio e febbraio, è la terza persona che perde la vita all’interno del penitenziario dall’inizio dell’anno. “È molto triste vedere morire una persona così, da solo nella sua cella” ha detto affranto il cappellano di Sollicciano don Stefano Casamassima, che poi ha parlato di come l’alta temperatura possa avere influito sul malore dell’uomo: “In quelle celle fa davvero molto caldo. Anche nelle postazioni degli agenti la situazione è difficile, specialmente dove non ci sono ventilatori. In quella cella, per esempio, non c’era nemmeno un ventilatore. Come succede anche fuori, con queste temperature estreme purtroppo si muore. Il caldo è sicuramente un fattore determinante. In questo caso, e in molti altri a Sollicciano, stiamo parlando di persone fragili, che avrebbero bisogno di stare in un posto adatto, in una struttura di cura mentale, non certo in quelle condizioni dentro una cella”. “Era un malato psichiatrico che in quella cella non ci doveva stare - ha detto Fatima Benhijji, presidente dell’associazione Pantagruel - Avrebbe dovuto essere trasferito in una clinica psichiatrica visto il suo stato di salute perché aveva numerose criticità. Nei giorni scorsi aveva rotto il termosifone, per terra c’era l’acqua che lui calpestava e di solito girava nudo nel reparto”. “Nemmeno un ventilatore era a sua disposizione per rendere meno dura la sopravvivenza - ha detto don Vincenzo Russo, responsabile carcere per la diocesi - La morte per lui è sopraggiunta in una situazione infernale, di soffocamento, non idonea per nessuno, a maggior ragione per chi presenta un quadro di compromissione fisica o psicologica. Ancora una volta le coscienze di tutti sono interpellate, perché non si attivano percorsi di cura adeguati, perché si costringono alla insostenibile vita della cella persone che presentano fragilità incompatibili con tale situazione. Perché l’amministrazione penitenziaria così come le aziende sanitarie non intervengono, non attuano quanto dovrebbero e si attende sempre, inesorabile, la drammatica conseguenza? Alla base di questa tragica morte non si può invocare la causa naturale e così tranquillizzare la coscienza”. Difficile al momento collegare il decesso al caldo estremo, certo è, ha sottolineato l’agente penitenziario Eleuterio Grieco, segretario regionale Uil Pa, “bisogna iniziare a mettere un faro su Sollicciano attraverso la Procura, come sta avvenendo a Prato, per accertare le responsabilità delle tante mancanze. Se aspettiamo che l’amministrazione penitenziaria faccia le cose, resteremo delusi perché non le fa, nonostante i morti in cella”. Napoli. Muore nel carcere di Poggioreale a poche settimane dalla libertà: disposta autopsia di Ciro Cuozzo Il Riformista, 5 luglio 2025 Un detenuto di 39 anni è morto nel carcere di Poggioreale a Napoli in circostanze da chiarire. Il decesso, stando a quanto appreso dal Riformista, è avvenuto nei giorni scorsi, probabilmente martedì 1° luglio, all’interno della Casa circondariale partenopea ed è stato confermato dal garante regionale dei diritti dei detenuti Samuele Ciambriello. Ufficialmente l’uomo, napoletano, sarebbe morto in seguito ad un malore ma sarà l’autopsia, disposta dalla Procura, a cristallizzare le cause. La vittima avrebbe finito di scontare la pena nelle prossime settimane. La famiglia è stata informata e chiede chiarezza. Al vaglio anche le testimonianze dei compagni di cella della vittima per ricostruire gli ultimi giorni dell’uomo ed eventuali tensioni con altre persone recluse nel carcere napoletano. Cuneo. Violenze e torture nel carcere, 14 a processo: c’è anche l’ex capo della penitenziaria di Barbara Morra La Stampa, 5 luglio 2025 Le presunte vittime si sono costituite parte civile. L’episodio più grave è la “spedizione punitiva del 2023”. Il gup di Cuneo ha rinviato a giudizio i 14 indagati per le presunte violenze al carcere Cerialdo. In 10 andranno a dibattimento con prima udienza il 28 gennaio 2026 e quattro, tra cui l’ispettore G.V., saranno processati con il rito abbreviato. Sei persone sono accusate del reato di tortura mentre gli altri, tra cui un medico (anche lui ha scelto l’abbreviato), devono rispondere a vario titolo di altri reati tra cui falso e lesioni. Nel processo si sono costituite parte civile le presunte vittime, detenuti di origine pakistana, insieme al garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. L’indagine è iniziata nell’ottobre 2023 e ha coinvolto in totale 35 persone. Di queste, 21 posizioni sono state successivamente archiviate. Tra gli imputati figura anche la ex comandante della polizia penitenziaria E.F., coinvolta per presunta omissione di denuncia: avrebbe omesso di segnalare tempestivamente quanto avvenuto nella notte tra il 20 e il 21 giugno 2023, riferendo i fatti solo diversi giorni dopo al direttore della struttura. L’episodio più grave ricostruito dagli inquirenti è la presunta “spedizione punitiva” avvenuta nel padiglione “Gesso” nella notte tra il 20 e il 21 giugno 2023. Secondo le accuse, diversi agenti, alcuni fuori servizio, avrebbero fatto irruzione nella cella 417 per colpire con calci e pugni cinque detenuti pakistani, colpevoli di aver protestato battendo sulle porte blindate per chiedere assistenza sanitaria a un compagno che lamentava forti dolori. Sanremo (Im). “I detenuti hanno dipendenza da Lyrica, ne abusano e se la scambiano in cella” di Giovanna Loccatelli La Stampa, 5 luglio 2025 La situazione esplosiva nel carcere di Sanremo è stata confermata. Ma nuovi e preoccupanti dettagli sono emersi dopo la visita della delegazione. Uno di questi riguarda la salute dei detenuti e la gestione dell’infermeria: “È evidente che è un luogo molto appetibile soprattutto per chi ha dipendenza da droga o farmaci: pensano di andare lì e se non ottengono quello che cercano, spesso minacciano il personale o vanno in escandescenza” spiega Sergio D’Elia, di Nessuno Tocchi Caino. Il problema, in questo caso, non è il numero esiguo dei medici e infermieri presenti: “Il numero dei dottori è sufficiente ma l’organizzazione è assolutamente da rivedere”. Molti giovani detenuti magrebini hanno dipendenza da Lyrica: “È un farmaco che magari hanno conosciuto e utilizzato soprattutto durante l’esperienza migratoria. Usato per combattere la fatica e la sofferenza psichica legate a eventi estremi”. Ma è anche una sostanza che viene spesso usata da chi fuma crack e ha bisogno di ammortizzatori chimici per gestire stati di ansia e depressione. I detenuti, italiani e stranieri, che hanno questo tipo di dipendenza sono i primi ad “affollare” l’infermeria del carcere di Valle Armea. D’Elia su questo punto è molto dettagliato e accurata nella descrizione del problema: “Una persona che ha queste dipendenze andrebbe curata altrove. Ma poi rimarrebbero in carcere veramente in pochi”, rincara la dose. Il problema è che la salute dei detenuti peggiora e di conseguenza anche la sicurezza: “Il personale medico è sotto pressione perché spesso viene minacciato da persone fuori controllo”. Ma al momento non ci sono alternative sul tavolo. A confermare questa situazione anche il medico Lorenzo Vigo che lavora dentro il carcere: “Spesso fanno finta di prendere il farmaco, ma non lo ingoiano. Poi quando si trovano in cella, lo sputano e lo scambiano tra di loro”. Della seria, io ti do una cosa e tu me ne dai un’altra: “Un vero e proprio baratto. Magari in cambio prendono sigarette o chissà cos’altro” esclama Vigo. La situazione è che molti “sono sballati e vengono già con un dosaggio che pretendono: io spesso batto i pugni sul tavolo e li mando via”. Ma conclude, avvilito: “Non tutti i colleghi lo fanno”. Infine, la ciliegina sulla torta, è la presenza di un solo psichiatra per tutta la struttura: “Fa le ore che deve per contratto, e poi se ne va”. Un disagio che andrebbe toccato con mano, da tutti Bergamo. Terminate le risorse per i tirocini dei detenuti: “Costretti a restare in cella” di Andrea Carullo Corriere della Sera, 5 luglio 2025 Per i progetti del 2025 mancano 50 mila euro: lanciata la raccolta fondi. “Non ho mai visto una situazione come quella che c’è oggi in carcere”. A parlare è Valentina Lanfranchi, presidente onoraria e garante dei detenuti dell’associazione Carcere e Territorio di Bergamo: “Ogni giorno è peggio - racconta -: sovraffollamento, risse, aggressioni, fenomeni di autolesionismo, e adesso rischiamo di perdere anche gli unici strumenti alternativi alla reclusione che abbiamo come i tirocini curriculari. Noi cerchiamo di aiutare, ma a causa di mille vincoli e modalità gestionali non ci stiamo riuscendo”. L’associazione da oltre 40 anni si impegna per ridurre la necessità della detenzione promuovendo misure alternative come le borse lavoro. Misure che quest’anno, però, rischiano di venire sospese. “Siamo solo a giugno, ma le risorse per sostenere i tirocini sono già finite - dichiara il presidente dell’associazione, Fausto Gritti -. Abbiamo bisogno di 50 mila euro per portare a termine i progetti di quest’anno, ci serve che ognuno faccia la sua parte. Altrimenti, il rischio è che si determini una forma di detenzione sociale: si resta in carcere perché non si ha casa e, soprattutto, lavoro”. Da inizio anno l’associazione ha preso in carico e avviato al lavoro 77 persone. Per ognuna di queste sono stati avviati tirocini curriculari in collaborazione con il Consorzio Mestieri Lombardia e sono state erogate delle borse lavoro del valore di 350 euro per il tempo parziale e 500 per il tempo pieno, comportando nel primo semestre del 2025 una spesa complessiva di 151.500 euro, di cui 71.525 coperti dai fondi ottenuti dai progetti, e 79.975 con finanziamento totale o parziale di enti o aziende. A partire da settembre, però, l’associazione non sarà più in grado di coprire i costi dei tirocini, se non quelli sostenuti interamente dai soggetti ospitanti. “Ciò significa, per molte persone, ricadere in un vortice di disperazione - continua Gritti. Interrompere un tirocinio vuol dire rientrare immediatamente in carcere”. Motivo che ha spinto l’associazione, per la prima volta, a lanciare un grido d’aiuto esteso anche alla cittadinanza: “Per far fronte a questa situazione avanziamo tre proposte: in primis lanciamo una raccolta fondi rivolta a tutti i cittadini, finalizzata esclusivamente al sostegno delle borse lavoro attraverso donazioni fiscalmente deducibili; poi chiediamo a ciascuno dei 14 ambiti socio assistenziali di farsi carico delle borse lavoro riferite a soggetti residenti nei rispettivi territori, magari attingendo al fondo grave marginalità; infine, sollecitiamo uno sviluppo maggiore delle possibilità assuntive nelle aziende profit, perché gran parte dell’inserimento avviene solo con enti locali che se ne fanno carico oppure con le cooperative sociali”. Per Luigi Gelmi, vicepresidente di Carcere e Territorio di Bergamo, si tratta di un periodo di crisi da cui “si può uscire facendo un passo avanti, oppure che può affossarci. I temi principali sono quelli della casa e del lavoro, due temi fondamentali per il reinserimento in società perché è dimostrato che il rischio di recidiva, se si è compiuto un lavoro durante la detenzione, diminuisce drasticamente. Cerchiamo perciò di sollecitare tutti gli ambiti del territorio affinché si parli della questione, che sia a livello del singolo privato oppure a livello aziendale”. Chi fosse interessato a partecipare alla raccolta fondi può versare con bonifico a favore dell’associazione Carcere e Territorio di Bergamo APS alle coordinate bancarie: IT74L0538752480000042605981. Venezia. Carcere, dialogo Moraglia-Nordio: “In arrivo dieci agenti” di Anna Maselli Corriere del Veneto, 5 luglio 2025 Dieci nuovi agenti penitenziari entro fine ottobre e l’arrivo imminente del nuovo direttore del carcere femminile. È quanto ha promesso il ministro della Giustizia Carlo Nordio dopo il lungo colloquio avuto ieri con il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, da sempre attento alle condizioni dei detenuti nelle due case circondariali del centro storico. Come denunciato più volte dall’associazione Antigone, le carceri italiane presentano tassi di sovraffollamento record, carenza di personale, diritti compressi e difficoltà ad accedere a misure alternative alla pena. Così Moraglia e Nordio hanno messo al centro le criticità di Santa Maria Maggiore e del penitenziario femminile della Giudecca. Cosa si sta facendo? Cosa si potrebbe fare per migliorare? Come garantire i diritti dei detenuti sanciti anche dalla Corte europea dei diritti umani? Il patriarca ha ribadito l’impegno che contraddistingue la Chiesa veneziana dentro e fuori le mura del carcere: “Attraverso l’opera della Caritas diocesana - spiega il vescovo Moraglia - portiamo avanti una serie di progetti di educazione e reintegrazione sociale a favore di chi è sottoposto a misure detentive per favorirne la promozione umana, l’integrazione e il reinserimento lavorativo”. Per far questo servono anche strutture temporanee, un tetto sopra la testa per chi esce di prigione: nei mesi scorsi la Curia ha predisposto otto mini alloggi presso la Casa San Giuseppe alle Muneghette mentre è in cantiere la sistemazione di 24 ulteriori posti letto fra Venezia e la terraferma (la consegna è prevista entro la fine dell’anno giubilare). A questi si aggiungono altre strutture e appartamenti a Campalto, piazzale Roma, Marghera, Zelarino. Sotto il profilo lavorativo, oltre ai tanti laboratori che da anni portano avanti le cooperative (Il Cerchio, Rio Terà dei Pensieri e altre), la Diocesi ha sottoscritto un accordo con la Procuratoria di San Marco: i detenuti di Santa Maria Maggiore ammessi al lavoro esterno potranno essere impiegati in Basilica come operai, carpentieri, addetti alla sorveglianza, oppure ancora coinvolti in visite guidate con personale della struttura detentiva e organizzare proiezioni e illustrazioni delle opere d’arte direttamente in carcere. Un impegno a tutto tondo insomma, che pone al centro la persona che ha sbagliato ma cerca una seconda possibilità. Senza il personale, però, lo sforzo è vano: da qui la richiesta di potenziare le risorse e migliorare le condizioni lavorative degli agenti. Per rendere il contesto carcerario più vivibile e umano. Foggia. Per i detenuti due progetti sociali lanciati dalla Caritas Diocesana foggiatoday.it, 5 luglio 2025 “Nuove Vie” per i detenuti e microcredito “Mi fido di noi”: due progetti sociali lanciati dalla Caritas Diocesana. Ieri mattina, 4 luglio 2025, nella Sala “Mons. Farina” presso l’Episcopio di Foggia, la Caritas Diocesana di Foggia?Bovino ha ufficialmente presentato due iniziative di grande impatto sociale: il Progetto Nuove Vie, rivolto ai detenuti del carcere cittadino, e il Progetto “fratello” Mi fido di noi, dedicato al microcredito per famiglie vulnerabili e persone a rischio usura. Il Progetto Nuove Vie, sostenuto dai fondi 8xMille della Conferenza Episcopale Italiana (C.E.I.), propone corsi di formazione professionale - tra cui sartoria, pizzeria e laboratori di pastificio - all’interno della Casa Circondariale di Foggia. L’obiettivo dichiarato è quello di offrire opportunità concrete di reinserimento lavorativo e prevenire il ritorno alla microcriminalità una volta scontata la pena In parallelo, “Mi fido di noi” è stato sviluppato grazie a fondi erogati dall’Arcidiocesi di Foggia?Bovino e da Caritas Italiana nell’ambito delle iniziative giubilari. La sua gestione è affidata alla Fondazione Antiusura “Buon Samaritano” in collaborazione con la Caritas. Prevede l’istituzione di due Centri d’Ascolto - uno presso la Caritas diocesana e l’altro presso la Fondazione - con personale volontario specializzato in ambito creditizio e recupero crediti. Durante l’evento è stato sottoscritto un Protocollo d’Intesa tra Caritas Diocesana e Fondazione Buon Samaritano, sancendo così una collaborazione strutturata e duratura. L’arcivescovo, mons. Giorgio Ferretti, ha espresso la sua soddisfazione per l’approvazione dei progetti: “Il primo offre formazione professionale ai detenuti per inserirli nel tessuto economico di Foggia, il secondo fornisce un sostegno concreto a chi è travolto da debiti e difficoltà economiche”. Parallelamente, la direttrice della Caritas, Khady Sene, ha evidenziato l’importanza di avvicinarsi a queste persone per “tracciare percorsi di inclusione e non sentirsi esclusi”. Un’azione concreta di solidarietà - Il microcredito è un vero e proprio strumento di inclusione sociale. Come emerge dal progetto nazionale “Mi fido di noi”, promosso dalla CEI e Caritas, esso permette di “superare un momento difficile, riattivare percorsi virtuosi, fare delle comunità luoghi di fiducia e di speranza”. La sua applicazione a livello locale si traduce in sostegno economico e rassicurazione relazionale per chi vive situazioni di fragilità e indebitamento. Biella. “Più cure per i detenuti, saranno consegnate anche lenti e protesi” di Mauro Zola La Stampa, 5 luglio 2025 Parte dalla Casa circondariale di Biella il progetto pilota per migliorare la capacità d’accesso alle cure mediche per i detenuti, frutto del protocollo d’intesa tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà. Nei prossimi mesi dovrebbero aggiungersi le carceri di Ancona e di Taranto. Grazie a un accordo con l’Asl di Biella dovranno essere potenziati gli ambulatori di odontoiatria e oculistica sociale, sia garantendo una maggiore presenza di personale medico sia attraverso la modernizzazione delle attrezzature. Entrambi i servizi sarebbero finalizzati, inoltre, alla fornitura di dentiere e lenti correttive per i detenuti della casa circondariale. Sulla base dell’accordo sottoscritto il 30 giugno dovrebbero partire entrambi i servizi. Da questo mese a marzo del prossimo anno dovranno essere garantite almeno 650 visite oculistiche della durata approssimativa di 45 minuti l’una, con creazione di un’agenda di prenotazione delle visite e quindi delle prescrizioni per lenti e montature fino alla consegna degli occhiali. Lo stesso numero di visite vale anche per l’ambulatorio di odontoiatria e per la fornitura di dentiere o altri supporti. Il tutto documentato da report trimestrali. A trovare il personale medico sarà l’Istituto nazionale per la promozione della salute che dovrà anche integrare la strumentazione dell’ambulatorio del carcere con dispositivi concessi in comodato d’uso all’Asl. A pagare le spese del personale medico sarà il Dap, con 86,80 euro per ogni ora da fatturare. L’accordo è valido per due anni eventualmente rinnovabile per altri due. “Con questa iniziativa - ha spiegato nel corso della presentazione il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro - potenziamo l’accesso alle cure sanitarie all’interno del carcere, in particolare nei settori di oculistica e odontoiatria, senza gravare sulle liste d’attesa della sanità pubblica. Si tratta di un progetto pilota che parte da Biella, ma che progressivamente sarà esteso su tutto il territorio nazionale. Un modello virtuoso, che dimostra cosa significa lavorare seriamente per garantire equità, dignità e sicurezza anche in ambito penitenziario”. Padova. Carcere, dagli avvocati 100 ventilatori di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 5 luglio 2025 L’iniziativa per i detenuti del Due Palazzi in questi giorni di caldo torrido. L’ordine degli Avvocati di Padova, raccogliendo l’appello lanciato dal Garante dei Detenuti Antonio Bincoletto, ha deciso di comprare e donare ai detenuti 100 ventilatori. Un gesto di solidarietà e al contempo una denuncia per le condizioni all’interno del carcere cittadino. Il caldo estremo di questi giorni, con il termometro che sfiora i 40 gradi, sta causando problemi e condizione di estremo disagio anche all’interno degli istituti di pena. C’è chi non può proprio evitarlo, il caldo, poiché letteralmente costretto tra quattro mura. Fortuna vuole, però, che vi sia chi pensa a loro con un gesto concreto (che nel contempo assume la forma di un atto di denuncia): l’ordine provinciale degli avvocati ha risposto presente all’appello lanciato da Antonio Bincoletto, garante dei detenuti, comprando 100 ventilatori e donandoli a chi si trova recluso all’interno del carcere Due Palazzi. A motivare tale decisione è Francesco Rossi, presidente provinciale dell’ordine: “La nostra precisa volontà è quella di migliorare, seppur parzialmente, le condizioni detentive e di lanciare un messaggio forte rispetto alle carenze croniche che riguardano le strutture penitenziarie del nostro Paese. La situazione di questi giorni, che vede il perdurare del caldo torrido, evidenzia una totale assenza di programmazione per cui, ogni anno, ci si trova a fronteggiare la cosiddetta “emergenza”. Peccato che il caldo sia un evento assolutamente prevedibile, rispetto al quale è necessario adottare per tempo gli accorgimenti necessari”. Anche perché i dati forniti proprio dall’ordine degli avvocati parlano chiaro: per quanto riguarda la casa di reclusione della città del Santo, infatti, sarebbero 608 i detenuti attualmente presenti a fronte dei 400 posti disponibili, con un evidente sovraffollamento reso ancor più insostenibile dalle alte temperature degli ultimi giorni. Numeri che portano Francesco Rossi a fare un ulteriore ragionamento: “Troppo spesso si ignorano le condizioni di vita assolutamente inaccettabili all’interno delle carceri italiane. Chiunque per qualsiasi ragione, anche in esecuzione di una semplice misura cautelare, si può trovare ristretto in carcere, venendo così sottoposto a un trattamento disumano degradante e lesivo della sua dignità: per questo abbiamo deciso di intervenire come categoria rispondendo all’appello del Garante”. Il caldo attanaglia i detenuti, dunque, ma non solo: l’attenzione continua ad essere rivolta anche a chi è costretto a lavorare all’aria aperta nelle ore centrali della giornata, a partire dagli operai nei cantieri. In tal senso va specificato che all’ordinanza regionale, che prevede delle deroghe per quelli legati alla pubblica amministrazione - come ad esempio quelli per la realizzazione delle due nuove linee del tram - si è aggiunta quella comunale firmata dal sindaco Sergio Giordani, che consente di anticipare alle 5 del mattino l’inizio dei lavori con conclusione in tarda mattinata: ecco perché anche ieri, a partire dal primo pomeriggio, i cantieri risultavano pressoché deserti. A chiedere comunque spiegazioni è Giampiero Avruscio, segretario provinciale di Forza Italia: “Non metto in dubbio che il Comune abbia messo in atto delle soluzioni ristoratrici, tipo il cooling break che si sta attuando nelle partite di calcio: per chi lavora sulle strade per otto ore, però, non è la stessa cosa. Mi piacerebbe sentire cosa ne pensano i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza per sapere se queste misure siano state condivise o meno o se la fretta di andare avanti con i lavori abbia fatto saltare questo fondamentale passaggio”. Nonostante le temperature bollenti non si registra un aumento di accessi al pronto soccorso legati al cosiddetto “codice calore”: al momento risultano solo tre ricoveri per disidratazione e un leggero aumento di chiamate (tra le dieci e le venti al giorno) ai numeri di emergenza. Milano. “Emergenza caldo, servono ventilatori nelle celle”. Appello degli avvocati per le carceri di Zita Dazzi La Repubblica, 5 luglio 2025 Parte una campagna di sensibilizzazione rivolta a imprese, associazioni e cittadini, invitati a contribuire per comprare gli strumenti per rinfrescare i detenuti. Il caldo soffoca anche chi sta a casa sua comodamente seduto sotto le pale del ventilatore, chi sta in cella semplicemente frigge. Per questo Ordine degli Avvocati di Milano lancia la campagna “Aria d’Umanità”, un’iniziativa solidale nata per portare un po’ di refrigerio a chi sta dietro le sbarre con ventilatori, che certo non sono l’aria condizionata, ma possono portare un po’ di sollievo. L’iniziativa prevede la donazione di ventilatori che sono stati comprati dagli stessi avvocati per gli istituti penitenziari milanesi ma anche l’avvio di una campagna di sensibilizzazione rivolta a imprese, associazioni e cittadini, affinché vengano comprati altri di questi attrezzi per promuovere un’azione collettiva e diffusa di attenzione verso chi vive in prigione, una delle più gravi situazioni di fragilità. “È un gesto simbolico forte nel segno della concretezza - spiega Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli avvocati. C’è il rischio che la società perda di vista alcuni valori in questo momento e noi pensiamo che i diritti vadano comunque garantiti e tutelati in ogni sede soprattutto nelle dimensioni meno visibili come le carceri. Vogliamo creare una inversione di tendenza per dare visibilità a problemi che vengono alla luce solo i alcuni momenti dell’anno, come il sovraffollamento carcerario, che c’è sempre non solo quando ci sono le tragedie. La credibilità di uno Stato di diritto emerge dove e soprattutto dove quei diritti hanno più bisogno di salvaguardia come le carceri”. “Dare “aria” alla giustizia, anche dentro il carcere, significa restituire dignità al diritto. E, attraverso il diritto, restituire dignità all’uomo. Come avvocati, non possiamo voltare lo sguardo. Abbiamo scelto una professione che impone di stare dalla parte dei diritti, anche - e soprattutto - quando quei diritti sembrano scomodi o dimenticati”, aggiunge La Lumia. “Il carcere è un luogo in cui il diritto deve farsi cura, ascolto, presenza. Non si tratta solo di donare ventilatori, ma di riaffermare un principio fondamentale: la tutela dei diritti non si ferma davanti alle sbarre. Anche da qui passa la credibilità di uno Stato di diritto”, commenta Beatrice Saldarini, coordinatrice della commissione carcere dell’Ordine degli avvocati. Il progetto coinvolgerà direttamente le direzioni degli istituti penitenziari dell’area metropolitana, per raccogliere indicazioni su quanti ventilatori servono e di che tipo. “Aria d’Umanità” è un invito a non voltarsi dall’altra parte. “Un gesto semplice, ma potente, per ricordare che anche tra le mura di un carcere il diritto all’aria, alla salute e alla dignità restano diritti fondamentali. E’ un’iniziativa aperta, alla quale chiunque può contribuire, nella misura in cui può. Ognuno può fare la differenza”, si legge sulla locandina con cui gli avvocati tappezzeranno vari luoghi per cercare alleati in questa sfida. Napoli. Una giornata con Diego Dominguez e i giovani detenuti di Nisida di Andrea Aversa L’Unità, 5 luglio 2025 Il campione della Nazionale italiana di rugby da dieci anni porta in giro per l’Italia, insieme a Mediobanca, il suo progetto per avvicinare i ragazzi allo sport. Attività sviluppate in contesti sociali difficili. Le interviste all’ex giocatore e al vice direttore e alla funzionaria pedagogica dell’istituto di pena minorile napoletano. “È proprio bello fare queste attività al mattino, stai più rilassato”. “Si, è vero. Sei talmente stanco che ti passa anche la voglia di litigare”. Questo il ‘botta e risposta’ tra Checco e Peppe (nomi di fantasia per tutelarne la privacy), seduti all’ombra, sopra gli ‘scudi’ di gommapiuma utili per gli allenamenti di rugby. I due ragazzi erano esausti, avevano il volto e la maglietta pregni di sudore. Erano le 10.30, faceva molto caldo, ad aiutarli una leggera brezza che veniva dal mare. Avevano appena finito di giocare a calcio. Erano usciti per lasciare il posto ai compagni. Quella di ieri, per loro e per tutti gli altri ragazzi presenti sul campo (circa 30), è stata la quarta giornata di quella che è diventata la “settimana più bella dell’anno”. Perché Checco, Peppe e gli altri 70 giovani che vivono insieme a loro, non hanno la possibilità di svolgere liberamente attività sportiva, quotidianamente, due volte al giorno e seguiti da professionisti dello sport. Una giornata con Diego Dominguez e i giovani detenuti di Nisida - Il motivo? Questi ragazzi sono detenuti nell’istituto di pena minorile di Nisida a Napoli. Ma da lunedì 30 giugno a venerdì 4 luglio grazie alla collaborazione tra Mediobanca e Diego Dominguez, campione di rugby e storico numero 10 della Nazionale italiana, i giovani reclusi nel carcere, posto sulla sommità del piccolo isolotto che si trova tra Posillipo e Bagnoli, hanno avuto modo di divertirsi e fare gruppo, cimentandosi con tre sport: touch rugby (una versione senza contatto dello sport ‘ovale’), calcetto e basket. Il tutto è avvenuto con la totale e fondamentale disponibilità della direzione e dell’amministrazione del penitenziario. “Per noi è una cosa buona - ci ha detto Peppe - loro vengono qui per noi e siamo contenti di fare queste attività. Anche se durante l’anno partecipiamo anche ad altri lavori, con la ceramica e la ristorazione”. Attività sportive di mattina e di pomeriggio - “È meraviglioso guardare l’entusiasmo con il quale questi ragazzi ci accolgono e la voglia che mettono nelle cose che fanno - ha raccontato Dominguez a l’Unità - Non è facile per loro. Non sono abituati. I muscoli, dopo due sessioni di sport, mattina e pomeriggio, fanno male. Ma loro hanno già impresso bene nella loro testa i valori che cerco di trasmettergli: costanza, determinazione, disciplina e rispetto. Devono imparare a dare ogni giorno qualcosa di più per superare i loro limiti. Devono farlo con decisione, imparando stare insieme e a rispettarsi. Soprattutto se giocano in squadre diverse. Il mio staff ed io siamo qui per loro e questo deve essere chiaro. E loro l’hanno capito, per questo non si risparmiano”. Il progetto per i ragazzi: lo sport come opportunità e riscatto sociale - Forse è per questo che Pablo, con oltre 30 gradi che hanno infiammato il sintetico e nonostante gli altri indossino scarpette con tacchetti, ha continuato a giocare a piedi nudi senza fermarsi un solo istante. “Lui l’ho già conosciuto al Beccaria di Milano - ci ha detto Diego - Qui a Nisida ci sono circa 20-30 ragazzi che ho già incontrato lo scorso anno. Questo mi è dispiaciuto, sarei stato più felice nel sapere che fossero usciti per poter vivere liberi. Ecco cosa facciamo qui: cerchiamo di far capire che nello sport come nella vita, ci possono essere delle opportunità che vanno colte”. Infatti, se c’è un giovane particolarmente talentuoso o comunque ‘disciplinato’, Dominguez e il suo staff, costituito da nove persone (quattro esperte di calcio, tre di rugby e due di basket), immediatamente lo segnalano alla direzione. La possibilità della semilibertà e la messa in prova - E se il ragazzo in questione soddisfa anche i requisiti giuridici, è a sua volta segnalato alla magistratura di sorveglianza che ne può disporre la semilibertà o messa in prova. “Ognuno di questi ragazzi - ha spiegato Dominguez - ha la possibilità di uscire tre volte la settimana, mattina e pomeriggio, per andare ad allenarsi con uno dei club che si trovano sul territorio. Dopo le sedute di allenamento fa ritorno in carcere. È stimolante assistere a questo cambiamento che avviene in loro. Ed è altrettanto drammatico vedere che per un solo piccolo errore, buttano via tutto quello che sono riusciti a conquistare”. Per Diego è fondamentale, “entrare nella testa di questi ragazzi, conoscerne il linguaggio, anticiparne il pensiero e l’azione. Solo così riesci a entrarci in contatto, facendogli capire che sei un amico e non una persona che vuole giudicarli”. Il mare e il riposo prima della festa - La giornata si è sviluppata in questo modo: attività sportiva, divisa tra touch rugby e calcetto, dalle 9 alle 12. Bagno a mare, passando per un sentiero che dall’istituto porta alle splendide acque di Nisida, poi riposo. Durante gli altri giorni, anche il pomeriggio era riservato allo sport. Ma ieri è stata fatta un’eccezione, perché venerdì - quindi oggi - dalle 9 a mezzogiorno, è stata organizzata una festa di chiusura, con tanto di musica e ‘spaccio’ di gelati. Un modo divertente e danzante per salutare Diego e i suoi collaboratori. Loro hanno condiviso tempo e spazi con i giovani detenuti. Sono entrati in carcere al mattino presto, hanno mangiato e dormito con loro dopo le attività svolte insieme, prima di uscire dal penitenziario e di fare ritorno all’hotel dove hanno alloggiato. “Tengo a sottolineare che noi veniamo una settimana prima per pulire e preparare le strutture che utilizzeremo”, ha precisato Dominguez. L’iniziativa ‘sposata’ dalla direzione e dall’amministrazione penitenziaria che ha coinvolto l’intera comunità di Nisida - Uno spirito di aggregazione che ha coinvolto tutta la comunità di Nisida e quindi le persone che quotidianamente, con dedizione e passione, lavorano con e per questi ragazzi. I dirigenti, gli agenti e gli educatori. Personalmente siamo stati accolti a braccia aperte, sia dal personale amministrativo che penitenziario. La comandante Eleonora Ascione è stata molto disponibile così come il vice direttore Ignazio Gasperini e la funzionaria alle professioni pedagogiche Francesca Siano. “Con il nostro lavoro - ha affermato Gasperini - cerchiamo di raggiungere uno scopo difficile: quello di cercare di far capire ai ragazzi che il nostro mondo, la nostra realtà - opposta a quella nella quale loro hanno vissuto - è quella vincente. Certo dobbiamo combattere contro un problema strutturale che andrebbe risolto: il sovraffollamento”. La disponibilità e l’impegno nel superare l’abbandono - “Ho un ricordo indelebile - ha dichiarato Siano - durante uno dei nostri laboratori, dedicati all’abbandono - una delle piaghe sociali più forti che colpiscono questi giovani, bisognosi di essere stimolati e messi alla prova - uno dei ragazzi, dopo che avevo raccontato un’esperienza personale, mi ha chiesto: ‘Dottoressa, posso abbracciarla?’. Ho ancora la pelle d’oca solo nel raccontare questo episodio. Con questi giovani bisogna fare un lavoro lungo e certosino per andare a fondo e superare la corazza che loro hanno costruito per nascondere le proprie emozioni”. Sono ormai dieci gli anni che sono passati dalla prima edizione del Diego Dominguez Rugby Camp, il secondo consecutivo che si è svolto a Napoli. “Ho iniziato occupandomi di alcune zone disagiate di Milano, dove oggi sorgono strutture e campi da rugby”, ha ricordato Diego. La storia del Diego Dominguez Rugby Camp e la partnership con Mediobanca - E il duro lavoro ha premiato, infatti, sono state assolutamente positive le precedenti edizioni con le esperienze fatte proprio a Nisida e soprattutto al Beccaria di Milano. Ecco perché il Gruppo Mediobanca ha continuato su questa strada, con l’idea dello sport come opportunità e riscatto sociale. “Ogni edizione del Camp ci ricorda quanto lo sport possa essere un ponte tra mondi diversi - ha affermato Giovanna Giusti del Giardino, Group Chief Sustainability Officer di Mediobanca - A Nisida abbiamo trovato entusiasmo, voglia di mettersi in gioco e un’energia contagiosa. È un privilegio per noi poter contribuire nella costruzione di nuove prospettive per questi ragazzi”. Il tempo è scaduto, le interviste sono finite. Le porte dell’istituto sono state aperte per farmi uscire, per poi richiudersi alle mie spalle. Lo sguardo è andato verso un piccolo scorcio tra gli alberi: l’avevo dimenticato, ad aspettarmi, c’era “o mar for”. Crema (Cr). Panchine anti clochard, come nella Verona di Tosi. Ma oggi qui c’è il Pd di Alex Corlazzoli Il Fatto Quotidiano, 5 luglio 2025 Era il 2007 quando l’allora leghista Flavio Tosi da primo cittadino della città di Verona mise dei divisori alle panchine della città per impedire ai clochard di sdraiarsi. Negli stessi anni un altro uomo dell’era Umberto Bossi, il sindaco medico di Crema Bruno Bruttomesso, firmava un’ordinanza anti accattonaggio per impedire ai più poveri di chiedere la carità. La Sinistra insorse. Ce le ricordiamo ancora oggi le battaglie nella città di Romeo e Giulietta contro Tosi accusato di non essere umano. Il Partito Democratico di allora, a Verona, inserì al più presto negli ordini del giorno dei consigli una mozione “anti-bracciolo”. Nella città lombarda, invece, si misero a raccogliere firme per abolire l’ordinanza con tanto di banchetti in piazza. Quindici anni dopo le panchine anti bivacco contro i clochard spuntano a Crema a casa dei compagni della Coop. Il sindaco leghista Bruttomesso e la Lega, nella città che ha dato i natali al compositore Giovanni Vailati, ai giornalisti Beppe Severgnini ed Emilio Carelli, non ci sono più. I tempi in cui a mangiare il tortello arrivava anche Umberto Bossi son finiti. Ora governa il Partito Democratico. Il primo cittadino, il quarantenne Fabio Bergamaschi, quando il fondatore della Lega alzava l’ampolla con l’acqua del Po al cielo aveva undici anni. Questa è l’era dei Pride nell’ex Repubblica Veneta, dei punk che fanno festa con il salam, della bertolina che piace anche ai fan del film Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino che ogni anno a luglio si danno appuntamento a Crema da tutto il mondo. Restano solo, oggi come ieri, i clochard: una ventina. Uomini, per la maggior parte, con percorsi difficili, diversi, con storie che spesso tanti conoscono ma che nessuno vuole davvero guardare in faccia. Per loro la Caritas d’inverno apre un dormitorio da 18 posti letto mentre d’estate ne garantisce quattro, ben selezionati (i tossici attivi sono esclusi, così hanno deciso con l’amministrazione). Gente che il massimo fastidio che dà - com’è ovvio che sia per chi sta in strada - è ubriacarsi, tant’è che il quotidiano locale La Provincia riporta titoli a gran pagina di “Daspo per due ubriachi. 64enne e 53 enne sorpresi con troppa birra”. Donne, per strada, a Crema, quasi zero. E per fortuna, perché per loro non c’è una stanza a far da dormitorio. Ma ora non c’è più nemmeno una panchina per gli uomini. Chi aveva trovato riparo all’Iper Coop, dall’oggi al domani, si è trovato il bracciolo a rendere scomodo il tutto. Stavolta non è Tosi, sono i compagni. E allora meglio star zitti. Non dire nulla. Nemmeno il 40enne sindaco. La politica che non c’è di Antonio Polito Corriere della Sera, 5 luglio 2025 Sono i grandi eventi internazionali a guidare le scelte. Il mondo sta cambiando vertiginosamente, e la politica italiana è troppo piccola per contare, per fare davvero la differenza nella vita della gente. Che fine ha fatto la politica interna? Non che la si debba rimpiangere, figuriamoci: soprattutto quella degli anni passati. Ma, insomma, un po’ di sano dibattito nel Paese, di scontro sulle grandi questioni, di battaglie parlamentari, di spostamenti di consensi, di suspense, sono il sale della democrazia. O almeno, lo erano. Dove sono finite tutte queste tradizioni della un tempo tumultuosa e sorprendente politica italiana? L’argomento più eccitante degli ultimi giorni è stato l’eterno gioco dell’oca sul terzo mandato e lo ius scholae: due evergreen sui quali nemmeno i rispettivi proponenti fanno molto affidamento, ma per ammazzare il tempo (estivo) vanno sempre bene. Certo, c’è appena stata un’epica battaglia sul diritto del lavoro, in cui la sinistra ha provato a disfare ciò che la sinistra aveva fatto dieci anni fa. Non ha interessato nemmeno un terzo degli elettori. Una volta la Cgil faceva cadere il governo con una piazza, oggi riesce a rafforzarlo con un referendum. Pagnoncelli fotografa nei suoi sondaggi lo stesso panorama di tre estati fa: Fratelli d’Italia ha oggi il 28,2% e aveva alle elezioni il 26%, caso raro di partito che guadagna consensi mentre è al governo. Il Pd ha il 21,4 e aveva il 19,1, ma i due punti che ha guadagnato li ha persi il M5S, oggi al 13,3. Cambiando l’ordine degli addendi, il risultato dell’opposizione non cambia. Per giunta, la sua indisponibilità dichiarata a qualsiasi soluzione tecnica o di emergenza in caso di crisi, blinda ulteriormente il governo e gli assicura lunga vita. Oddio, ci vorrebbe il “campo largo”, si ripete a sinistra. Ma perfino le metafore di Bettini si sono ristrette: ora è in cerca di una più modesta “tenda per i centristi”, per metterli a nanna dopo le elezioni. Sembra “la grande bonaccia delle Antille”, come Calvino definiva in un suo racconto l’immobilismo politico. Dipenderà forse dalla modestia degli interpreti, se la politica interna è (speriamo provvisoriamente) scomparsa? Così lamentano in tanti, ma è una risposta un po’ superficiale. Non che questi di oggi brillino, ma chi ha una certa età anni ricorda di peggio. La verità è che il mondo sta cambiando vertiginosamente, e la politica italiana è troppo piccola per contare, per fare davvero la differenza nella vita della gente. Si sta di nuovo verificando ciò che don Luigi Sturzo diceva più o meno un secolo fa: la politica estera è diventata la chiave della politica interna e di quella economica. Da che cosa dipendono oggi infatti il Pil e l’industria, se non dal negoziato di queste ore tra Usa e Unione europea sui dazi? Se si fermeranno al 10%, e al governo già sembra un miracolo, sarà un colpo duro per settori strategici del nostro export. Senza contare il “dazio occulto” del calo del dollaro, che raddoppia e oltre il danno. Ho appreso di recente che l’80% dei principi attivi e degli eccipienti di cui sono composti i farmaci vengono da India e Cina, e ho capito perché Xi Jinping sostiene che “l’hi-tech è il campo di battaglia principale nella lotta tra le superpotenze”: dovesse andarci male, anche le medicine scarseggerebbero, come le mascherine all’inizio del Covid. Perfino il Ponte sullo Stretto di Messina potrebbe vedere finalmente la luce solo grazie al riarmo dei Paesi europei della Nato, finendo nella contabilità della spesa per difesa e sicurezza (così almeno Salvini la smetterà di fare il pacifista). Non aggiungo l’ovvio, per esempio l’influenza delle guerre sul costo dell’energia o sui flussi migratori verso le nostre coste. La Palestina è vicina, e il confine dell’Ucraina dista da Trieste pressappoco quanto Lampedusa. Più o meno oscuramente, l’opinione pubblica avverte tutto ciò, e forse questo spiega come mai - sempre Pagnoncelli dixit - nel mese in cui l’America ha attaccato l’Iran con armi mai usate prima, e il Medio Oriente è stato sull’orlo di una guerra senza precedenti, le forze di governo hanno guadagnato 2,5 punti percentuali, e quelle di opposizione hanno perso altrettanto (meno 2,2%). Nonostante che, diciamoci la verità, l’Italia e la sua premier non abbiano svolto chissà che ruolo negli eventi internazionali. Si chiama effetto “rally around the flag”: la gente si raccoglie quasi naturalmente intorno al proprio governo nei momenti di pericolo. E i dati record del nostro spread, diamo a Giorgetti ciò che è di Giorgetti, contribuiscono a garantire all’esecutivo un’immagine rassicurante e protettiva nelle tempeste mondiali. Soprattutto, quel sondaggio suona come una campana a morte per il “campo largo”, perché se c’è una cosa su cui a sinistra non s’intendono è proprio la politica estera. D’altra parte, Giorgia Meloni e il centrodestra non possono certo tirare un sospiro di sollievo: anch’essi hanno da temere per questa crescente prevalenza della politica internazionale, le incognite che nasconde e il grande caos mondiale che ne può derivare. Finora la premier ha fatto la scelta - forse non ne aveva altre - di non disturbare il manovratore, cioè Trump, al quale la lega vicinanza ideologica oltre che favore personale. Ma se le cose si dovessero metter male per l’Europa, in termini di crescita economica, sicurezza e autonomia, si metteranno male anche per l’Italia, e allora un forte vento dell’ovest potrebbe spazzare via la grande bonaccia politica italiana. È bene che tutti ricordino che cosa accadde al governo Berlusconi, che pure aveva stravinto le elezioni del 2008 ed era guidato da un premier sulla cresta dell’onda come mai prima. Fu una crisi internazionale, quella dei debiti sovrani innescata dalla Grecia proprio quindici anni fa, ad aprirne la crisi e a determinarne la fine. Il diritto di morire e la viltà di Stato di Serena Sileoni La Stampa, 5 luglio 2025 È lecito aiutare una persona a morire, in determinate circostanze di intollerabili sofferenze fisiche e psicologiche? La politica da anni nicchia in un gioco di specchi riflessi in cui nessun partito vuole prendersi fino in fondo la responsabilità di varcare le frontiere dell’etica sociale o anche solo di spiegare le possibilità legali e mediche che esistono tra la speranza di vivere e quella di morire. Ma quella domanda ha trovato da qualche anno una chiara risposta, fuori dai balbettii della politica. A fornirla è stata la combinazione di scelte coraggiose individuali, a partire da quelle di Marco Cappato, di una chiara giurisprudenza costituzionale e di una meno evidente prassi amministrativa e medica. Esiste una zona franca in cui già oggi una umanità operosa e frammentata si fa carico di quando interrompere cure inutili, di come accompagnare i malati terminali, calibrare le cure palliative, assecondare la loro libera determinazione, con la guida di alcuni punti fermi di principio che la Corte costituzionale ha chiarito in maniera sempre più esplicita e dettagliata. La legge sul fine vita che il Parlamento si appresta a discutere non riguarda quindi il profilo del dovere di vivere o della libertà di morire per chi da solo non può procurarsi la morte, perché questo è già stato tratteggiato. Riguarda però, per quel che si sa, un altro elemento sostanziale di grande importanza. Posto che non è reato assistere al suicidio chi voglia porre fine alle proprie intollerabili sofferenze nel caso in cui sia mantenuto in vita con trattamenti sostitutivi di funzioni vitali, la domanda su cui il Parlamento ha ancora libertà di scelta è se suicidarsi, in quelle condizioni, sia un diritto. Per essere tale, è infatti necessario che la legge riconosca un dovere a provvedere a carico del sistema sanitario nazionale. Dovere che sembra negato dallo schema di proposta di legge, laddove esclude l’utilizzo di farmaci, strumentazioni e personale del servizio sanitario nazionale per agevolare il proposito di mettere fine alla propria esistenza. La Corte costituzionale si è limitata a riconoscere il necessario coinvolgimento del servizio sanitario per accertare la sussistenza dei requisiti di liceità della procedura di suicidio assistito, ma ha lasciato alla politica la scelta se fare un passo ulteriore e configurare un vero e proprio diritto del malato ad essere assistito nel suo proposito di morte, in presenza di quei requisiti che rendono non punibile l’aiuto al suicidio. Nel gioco politico, è chiaro che il testo base è solo un inizio. Su un tema di tale portata, la discussione in aula condurrà a negoziazioni e aggiustamenti rispetto a una proposta che, proprio in vista di queste e quelli, ha una sua rigidità iniziale. Ad esempio, è possibile che la maggioranza di governo sia propensa a sacrificare o modificare la composizione del Comitato nazionale di valutazione. Si tratterebbe di un nuovo organismo chiamato a rilasciare pareri non vincolanti sui singoli casi, nominato dalla Presidenza del Consiglio. In presenza di comitati etici territoriali e di un Comitato nazionale di bioetica operativi di anni, non si vedono ragioni oggettive per l’istituzione di un ulteriore comitato di esperti tutto di scelta della Presidenza del Consiglio, se non quella di controllarne le nomine o di venire a qualche compromesso con i partiti. Più arduo invece è che la maggioranza si spinga a riconoscere un diritto al suicidio assistito attraverso una presa in carico del servizio sanitario nazionale, andando oltre il mero recepimento di quanto già noto, ovvero che il diritto di vivere non è un obbligo a rimanere in vita. Sarebbe una scelta dirimente dal punto di vista etico e si comprenderebbero le ragioni di una rigidità politica, ma sarebbe anche una scelta inefficiente e iniqua da un punto di vista pratico. Sono chiare le conseguenze di principio che avrebbe un impiego delle risorse del servizio sanitario nazionale. È tuttavia altrettanto chiaro che escluderlo comporterebbe una ingiustizia sostanziale tra chi potrà permettersi di essere aiutato a morire e chi no, chi potrà farlo in condizioni di sicurezza sanitaria e chi no. È una storia già vista con le pratiche abortive e di fecondazione assistita, finché i governi non decisero, con scelte politiche e quindi per forza parziali e imperfette, di porre fine a una viltà di Stato. “Cittadinanza? Non è priorità”. Meloni blocca i sogni di Tajani di Andrea Colombo Il Manifesto, 5 luglio 2025 Ius Scholae. La premier, ospite di Bruno Vespa alla Masseria, chiude la partita delle riforme. Che amico è quello che ti invita e poi ti mette in imbarazzo? Bruno Vespa è un ospite cortese e intervistando la presidente del consiglio dal suo Forum Masseria si sforza di metterla a completo agio. Le serve sul classico piatto d’argento le domande giuste per facilitare l’esaltazione dei successi e la rivendicazione di merito. Evita gli argomenti spinosi e imbarazzanti. In quasi mezz’ora di botta e risposta la parola Gaza non viene mai pronunciata, anche se un certo rilievo, checché se ne pensi, è difficile negarlo. Né si fa sgradevole menzione di come farà l’Italia a finanziare quel riarmo che, per quanta cresta mediti di fare il governo, qualcosa costerà e non sarà poco. Figurarsi poi il disastro dei trasporti o la decisione di aumentare i pedaggi autostradali proprio alla vigilia del solito “grande esodo”. Parlarne sarebbe sgradevole. L’intervistata è reduce da una telefonata con Trump, informa lei stessa, nella quale, specifica, “abbiamo parlato di Ucraina e di dazi”. Sul Medio Oriente hanno sorvolato. L’amica italiana evita giudizi sulla decisione della Casa Bianca di sforbiciare gli aiuti militari a Kiev e minimizza: “Gli Usa non hanno interrotto la fornitura di armi. Hanno rivisto la decisione di fornire specifiche componenti anche della contraerea. Fattore rilevante ma ben diverso dal disimpegno”. Va da sé che la premier esalti la conferenza sulla ricostruzione che si terrà il 10 luglio a Roma, corredata da incontro tra i leader. Non che ci siano tutti: Merz, von der Leyen, Tusk e Zelensky hanno confermato. Macron, Starmer e Sanchez, come dire mezza Europa, invece no. La chiacchierata con Trump la ha evidentemente resa ottimista: “Spero in sviluppi positivi”. I quali però non arriveranno mai se ci si affida alla buona volontà di Putin. Ha già dimostrato di non disporne: “Credo che si debba esercitare tutta la pressione possibile e rafforzare le sanzioni. L’Europa lo ha già fatto, spero seguano anche gli Usa”. La speranza è l’ultima a morire ma sull’Ucraina Giorgia Meloni sta con l’Europa e difende la linea dura. Cosa si sia detta con il presidente degli Usa sui dazi è ignoto. Di certo quel che fa sapere agli italiani è meno di zero: “La trattativa è competenza della Commissione. Noi dobbiamo essere fieri per essere riusciti a ricostruire un dialogo. Penso che l’aumento delle spese per la difesa possa facilitare l’accordo sui dazi. Sono facce della stessa medaglia. Vedremo nei prossimi giorni”. A due giorni dalla scadenza dell’ultimatum trumpiano è molto meno che un po’ poco. Sulla politica interna la premier si allarga di più. Conferma, sia pur tra le righe, che il referendum sul premierato si terrà nella prossima legislatura. Non che lo abbia deciso lei, per carità. Dipende dal Parlamento, sul quale si sa che la leader della maggioranza non ha potere alcuno. Comunque meglio così: “Non si potrà dire che facciamo la riforma per garantire noi stessi”. Di critiche alla riforma in effetti ne sono state avanzate a mazzi. Questa non c’è mai stata. Il governo, informa Meloni ed è la sola notizia che conceda, non proporrà una nuova legge elettorale. Ci pensi il Parlamento, se del caso. Ma già che ci si trova la presidente illustra la legge che piacerebbe a lei, vedi mai le camere volessero prenderne atto: proprzionale, premio di maggioranza e indicazione del premier. Una legge, parola sua, pensata per restare valida anche ove venisse approvato dal popolo votante il premierato. Se con preferenze o meno chi lo sa. Lei preferirebbe che ci fossero ma bisognerà vedere. La questione dolorosa di turno è lo Ius Scholae, che anche ieri Tajani ha confermato di voler portare avanti, certo senza scalmanarsi troppo: “Non torno indietro ma sono responsabile”. Meloni la prende con diplomazia: “Certo ci sono sensibilità diverse, mica siamo un partito unico. Però c’è anche un programma di governo e penso che sarebbe utile se tutti ci concentrassimo su quelle priorità e la riforma della cittadinanza non è tra quelle”. Monito con guanto di velluto però esplicito e condito con una bocciatura secca anche nel merito: “Non considero corretto o utile concedere la cittadinanza a un minore se i suoi genitori sono ancora stranieri”. Tajani è avvertito. Bluff Ius Scholae: la politica rinuncia a gestire l’immigrazione di Flavia Perina La Stampa, 5 luglio 2025 Partiti senza coraggio per paura dell’impopolarità. Il cortocircuito della destra: teorizza i rimpatri, poi approva il decreto flussi. Di immigrati anche legali siamo stufi, devono remigrare (convegno sulla remigrazione, sponsor Lega, un mese fa). Anzi no, ne vogliamo moltissimi, e infatti ne accoglieremo altri 500 mila nei prossimi due anni (ultimo decreto flussi del governo, tre giorni fa). Saranno benvenuti e ai loro figli daremo lo Ius Italiae, cioè la cittadinanza garantita, se fanno le elementari e le medie con profitto (Antonio Tajani, FI, ieri). Anzi no, e per di più le loro figlie, se musulmane e dunque col fazzoletto in testa, a scuola non potranno nemmeno entrare (Silvia Sardone, Lega, sempre ieri). Il corto circuito strisciante sull’immigrazione arriva al culmine all’inizio della giornata di ieri, ma dura appena qualche ora. A mezzogiorno Tajani adombra la possibilità di maggioranze d’aula trasversali per mandare in porto la riforma della cittadinanza, ed è subito fuoco e fiamme. Nel primo pomeriggio è già il momento dei pompieri, perché il medesimo precisa che la legge “non è una priorità” e che comunque il suo partito non è disponibile a concordare il testo con l’opposizione. A sera resta solo cenere. Lega e FdI possono decretare: partita chiusa. E tuttavia per mezza giornata ci si è lasciati andare a un sogno. Un dibattito vero, solido, senza maggioranze precostituite, che riscatti il Parlamento dal suo letargico tran tran. Un confronto di alto profilo che decida una volta per tutte che cosa sono questi novecentomila ragazzini figli di stranieri che crescono nelle nostre scuole, questi Ahmed, Omar, Fatima, Zahra, compagni di banco dei nostri figli: una risorsa o un fastidio? Potenziali cittadini o gente sospetta, da tenere ai margini fin quando intorno ai ventidue, ventitrè anni - se insisteranno, se tutto va bene - lo Stato non sarà obbligato a dargli una carta di identità? Il centrodestra, come si è visto anche ieri, nuota nelle contraddizioni. Negli ultimi tre anni ha programmato flussi di immigrati legali per un totale di 949 mila unità, un milione di persone chiamate a lavorare e a vivere in Italia. La Lega ha sottoscritto senza imbarazzi i relativi decreti, anzi ne è stata fervente sostenitrice visto che arriva dagli imprenditori del Nord la sollecitazione maggiore a cercare mano d’opera, ovunque sia disponibile. E tuttavia, mentre con una mano firmava quegli atti, con l’altra dettava comunicati di condivisione per il summit milanese sulla remigrazione, e cioè il rimpatrio nei Paesi d’origine pure degli immigrati regolari, da ottenere rendendo la vita difficile a chi viene da altre culture: “Una battaglia di libertà e civiltà, di sicurezza, che è il vero spartiacque tra destra e sinistra”. Ovvia la domanda: se è vero che questi immigrati legali ci servono - come i decreti flussi dimostrano - perché non dirlo apertamente, perché affrontare il tema dell’integrazione loro e dei loro figli, perché continuare a trattarli come i baubau del discorso sull’Italia? L’ultima pantomima sullo Ius Italiae, o Ius Scholae, o Ius Culturae - pure la sarabanda delle definizioni illumina sul caos, perché ognuno si è fatto il suo impervio titolo in latinorum - alla fine segnala soprattutto una paura delle destre: quella di perdere voti rinunciando alla retorica anti-immigrati che è da anni al centro della loro propaganda, e di ammettere che l’immigrazione è fenomeno irreversibile, da governare anziché da demonizzare. È un timore che ha un fondamento. La valanga di voti presa dal generalissimo Roberto Vannacci racconta che da noi sono ancora tanti a collegare l’idea di italianità al colore della pelle, e non bisogna deluderli anche se poi questi coloured ci sono indispensabili a mandare avanti il Paese e pure a pagare le pensioni “bianche”. Otto anni fa quella minoranza irriducibilmente razzista (si può dire?) spaventò pure la sinistra, che sulla soglia dell’ultima approvazione della riforma della cittadinanza si ritrasse all’improvviso e rinunciò al progetto: si era alla vigilia di un voto politico difficile, meglio non rischiare. Il tema non fu mai più ripreso con la stessa serietà. Non lo fece Giuseppe Conte, che pure ieri invitava Tajani ad andare “subito in aula”. Non lo vuol fare Giorgia Meloni, che pure non era ostile alla riforma quando sedeva ai banchi dell’opposizione. Per fortuna Ahmed, Omar, Fatima, Zahra, probabilmente non ne sapranno niente. Sono piccoli, convinti di essere italiani esattamente come i loro compagni di banco nati da famiglie venete o siciliane. Di essere diversi lo scopriranno più avanti, a diciotto anni, ma speriamo per loro (e per tutti noi) che nel frattempo sia emerso in politica quel tipo di coraggio che serve per mandare avanti un Paese, non solo per coccolare minoranze irrimediabilmente reazionarie. Migranti. I Cpr e l’appello rivolto dalla Consulta al Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 luglio 2025 La Corte Costituzionale ha alzato un velo su un’altra zona d’ombra della nostra legislazione: i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr). Con la sentenza 96/ 2025, i giudici costituzionali mettono a nudo un nodo mai sciolto: come si può privare della libertà personale senza regole chiare su tempi, luoghi e garanzie? Il fatto è noto: chi deve essere rimpatriato finisce nei Cpr, edifici gestiti dallo Stato ma regolati da un insieme di norme - leggi, decreti, circolari, capitolati d’appalto - talmente disomogeneo da costruire, di fatto, protocolli diversi in ogni provincia. La Corte sottolinea che l’articolo 13 della Costituzione non si accontenta di stabilire “quando” lo Stato possa limitare la libertà: pretende che la legge disciplini “come”. E oggi quel “come” è demandato quasi tutto al questore, o finisce in un limbo di direttive ministeriali e regolamenti del 1999 che mancano di ogni dettaglio operativo. Fra le lacune più vistose ci sono le condizioni strutturali: standard igienico sanitari? Quanti metri quadri per detenuto? Vie d’aria, spazi di socialità, accesso a cure mediche, colloqui con gli avvocati? Poco o niente viene descritto a monte in un testo di rango primario. Il risultato è un mosaico di prassi, spesso lasciato alla discrezionalità dei gestori, che espone i trattenuti a situazioni di vita quotidiana senza certezze né adeguati controlli. Eppure, se si trattasse di pazienti psichiatrici internati nelle Rems o di detenuti nelle carceri, le regole sarebbero dettagliate fin nei minimi particolari: orari d’aria, visite mediche, procedure di reclamo. Nei Cpr, invece, si ripete una formula generica: “piena dignità”, “adeguati standard”, “diritto di accesso al Garante”. Parole onorevoli, ma vuote di ogni sostanza quando mancano parametri operativi. Rileva la Consulta che nemmeno il quadro europeo supplisce a questa confusione. Le direttive Ue sul rimpatrio e sull’accoglienza contengono princìpi generali di dignità, proporzionalità e necessità, ma non vincolano con standard pratici: non definiscono come organizzare l’assistenza sanitaria, quanti giorni di aria all’aperto, quali tutele giudiziarie. E la Cedu, con le sue sentenze, è arrivata a bacchettare l’Italia per eccessi nella privazione della libertà, ma non può sostituirsi a una legge nazionale. Il verdetto? Le questioni di legittimità sollevate dai ricorrenti sono inammissibili, perché la Consulta non può colmare con l’interpretazione l’assenza di un testo organico. Ma il giudizio è netto: la situazione non è conforme al dettato costituzionale e resta un vulnus che tocca il bene più prezioso di un individuo: la libertà. A questo punto, l’appello va al Parlamento: serve subito una disciplina primaria che definisca, per tutti i Cpr, standard di architettura, regole d’ingresso e di esecuzione del trattenimento, garanzie sul versante sanitario, meccanismi di reclamo veloci ed efficaci e, infine, ruolo preciso dell’autorità giudiziaria. Senza questo passaggio, il sistema rischia di perpetuare un regime a geometria variabile, dove i diritti variano da un centro all’altro e la Costituzione resta incompiuta. Le reazioni dei Garanti e di Antigone - Antigone non si accontenta di un’ammissione di principio. “La Corte costituzionale riconosce la violazione dei diritti delle persone migranti recluse nei centri” tuonano da tempo gli attivisti. Con la sentenza 96/ 2025, spiegano, la Consulta manda un messaggio chiaro: trattenere qualcuno in un Cpr vuol dire limitare la libertà personale, e questo non può avvenire senza garanzie certe, come prescrive l’articolo 13 della Costituzione. Al momento, però, non esiste alcuna legge che spieghi nel dettaglio come debba svolgersi quella privazione: regole generiche, circolari, capitolati d’appalto e regolamenti amministrativi lasciano un enorme margine di discrezionalità, terreno fertile per abusi continui. Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, non usa mezzi termini: “La libertà personale è oggetto di riserva di legge assoluta. È sacra. Non si può trattare una persona senza titolo di soggiorno come peggiore di un detenuto, negandole diritti alla salute, all’integrità psicofisica, alla dignità. Avremmo voluto una sentenza che smantellasse un sistema che crea dolore illegalmente, ma questo passo è comunque importante”. Antigone aveva depositato il proprio intervento davanti alla Consulta per evitare discriminazioni e abusi strutturali: la Corte l’ha riconosciuto. Sul fronte istituzionale, ritroviamo lo stesso grido d’allarme nel comunicato congiunto del Garante della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e della Garante di Roma Capitale, Valentina Calderone. Ricordano come, nelle loro opinioni amicus curiae, avessero già evidenziato l’assenza di un giudice ad hoc per valutare le lesioni ai diritti fondamentali delle persone trattenute. “Un riconoscimento dell’illegittimità della detenzione nei Cpr, totalmente priva di riferimenti sui modi e limiti, in violazione dell’art. 13”, sottolineano. E confermano: “La Corte rimette al legislatore la responsabilità di colmare questa gravissima lacuna che lede diritti umani fondamentali. Continueremo la nostra azione finché questo scandalo non avrà fine”. Se c’è un filo rosso che attraversa tutte le voci Consulta, Antigone, Garanti - è la stessa denuncia: nessuno potrà tacere che, mentre altrove si invocano procedure dettagliate per ogni minima fase di limitazione della libertà, nei Cpr regna il vuoto. Spetta ora al Parlamento scrivere una legge organica, che stabilisca standard uniformi su strutture, spazi, servizi sanitari, tempi di trattenimento, poteri e controlli. Senza questo atto, ogni centro rischia di restare un microcosmo senza regole, dove i diritti rimangono parole sul quarzo di una sentenza. E la libertà, ancora una volta, resta appesa a un filo. L’ultimo grido di dolore - Quel buio rincorre l’eco di un urlo spezzato appena due settimane fa: un ragazzo in boxer scappa tra i corridoi del Cpr di Gradisca d’Isonzo e finisce spinto contro uno scudo antisommossa; nella ripresa successiva, lo stesso corpo a terra, il volto coperto di sangue. Un video choc, diffuso dalla rete “No ai Cpr”, che parla più di mille sentenze. Non è un caso isolato, avvertono i volontari: arrivi di segnalazioni settimanali, proteste per cibo immangiabile, scabbia in incubazione. Da Gradisca è partita la denuncia di Riccardo Magi (+ Europa): “Un luogo di tortura, annichilimento e violenza. Andava chiuso, non esportato in Albania”. Angelo Bonelli (Avs) ammonisce: “La risposta alle proteste non può essere il manganello. Il governo deve chiarire”. Debora Serracchiani (Pd) chiede la chiusura immediata per condizioni “estreme”. La questura replica: era un intervento dopo una rivolta, “lanci di bottiglie e frutta”, e - separata la colluttazione - un “accidentale caduta” dell’ospite. Ma la memoria non si placa davanti alle versioni ufficiali: resta l’immagine di un ragazzo inerme, ferito in un luogo che di dignità non sa nulla. È qui, in queste immagini crudeli, che la sentenza 96/ 2025 trova il suo motivo d’essere. Se la Corte ha smascherato un vuoto normativo, questo video ne è l’ultima, atroce conseguenza. Senza una legge che disciplini spazi, modalità, controlli e garanzie - come prescrive la Costituzione - i Cpr restano la frontiera oscura di uno Stato che rinuncia a regole chiare, e spalanca la porta agli abusi. Il Parlamento non può più tentennare: servono tutele, procedure e, soprattutto, rispetto della persona. Altrimenti, la prossima immagine choc sarà già scritta. Migranti. Mario Serio: “La sentenza della Consulta sui trattenimenti lascia l’amaro in bocca” di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 luglio 2025 Intervista al membro del collegio del Garante nazionale dei detenuti, che giudica il provvedimento della Corte costituzionale “una decisione “felpata” in cui il dispositivo è poco consequenziale alle premesse. Così si risolve nella dichiarazione di inammissibilità”. Mario Serio, già ordinario di Diritto privato comparato a Palermo, è membro del collegio del Garante nazionale dei detenuti, in quota 5S. Gli altri due componenti sono l’avvocata Irma Conti e l’ex magistrato Riccardo Turrini Vita, il presidente. Con il manifesto Serio commenta la decisione sul trattenimento dei migranti che la Corte costituzionale ha pubblicato giovedì. La sentenza ha generato reazioni diverse. Come la interpreta? La definirei “felpata”. La Consulta non solo si muove con cautela, ma anche preoccupandosi di ammorbidire i possibili punti di attrito tra le proprie affermazioni e l’impatto concreto sulle norme. È sempre attenta a contrapporre un argomento di segno demolitorio del quadro legale a uno che sottolinea come solo il parlamento possa intervenire in materia. È un gioco di pesi e contrappesi il cui esito porta a un retrogusto non particolarmente gradevole. Se è chiara la percezione che la Corte mostra di avere della condizione umana e giuridica del migrante e delle tutele che lo Stato dovrebbe garantire nel trattenimento, l’amaro in bocca resta perché il dispositivo è poco consequenziale alle premesse: così si risolve nella dichiarazione di inammissibilità. Questa interpretazione è condivisa da tutto il collegio? Non ne ho idea, non ho parlato con gli altri componenti. Io le parlo nella doppia veste di membro del collegio e di studioso. La stupisce che, in maniera inusuale, il ministero dell’Interno abbia subito annunciato un intervento legislativo? No. Nel corso di un colloquio istituzionale con un’articolazione del Viminale svolto qualche giorno prima dell’udienza della Consulta, il ministero aveva preannunciato che avrebbe messo mano a una norma per rimuovere i possibili rilievi di incostituzionalità. Magari perché si aspettava una sentenza più dura. Da questo governo può uscire una buona norma sui Cpr? Non mi faccia fare previsioni. Auspico che traduca le indicazioni prescrittive della Consulta. Al netto di altri impegni che il collegio può avere, non le pare singolare che l’istituzione di garanzia dei detenuti non abbia ancora visitato Gjader, la prima struttura di trattenimento extraterritoriale costruita dall’Italia? La data fissata per la visita era il 17 giugno. È stata posposta per una giornata di inattesa commemorazione presso il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) del defunto garante Felice Maurizio D’Ettore. Con una successiva deliberazione formale del collegio, comunque, è stato deciso che la visita si svolgerà nelle prossime settimane, diciamo in estate inoltrata. L’impressione è che ci siano motivi politici. Ma il Garante è un’istituzione indipendente... In tutta sincerità no. Intanto il governo ha ammesso di aver compiuto rimpatri direttamente da Tirana. Per il Garante tale prassi viola le norme Ue? Qui le parlo da studioso, non da membro del collegio. Bisogna in primis considerare le osservazioni della Cassazione nel rinvio alla Corte di giustizia europea, che sollevano dubbi di legittimità su tutto il progetto Albania. A mio parere, comunque, l’idea del rimpatrio da un paese terzo è incompatibile con il diritto Ue, perché ci muoviamo in una cornice normativa che lega indissolubilmente il rimpatrio al territorio di uno Stato membro. Se si scinde questo binomio è evidente l’infrazione della normativa Ue. E quindi quali azioni ha intrapreso il Garante? È un momento di riflessione che io stesso ho suscitato con del materiale frutto di ragionamento ed esperienza giuridica. Perché il Garante dei detenuti, nella figura dell’avvocata Irma Conti, partecipa a un’iniziativa del Dap sponsorizzandola quasi come fosse propria? Tra l’altro a Biella, nel feudo del sottosegretario di FdI Andrea Delmastro, presente all’incontro… C’è un principio di transizione dei corpi fisici che mi suggerisce di effettuare la transizione della domanda nei confronti della persona interessata. Presenterete la relazione annuale al parlamento? Ovvio. È un obbligo di legge. Sarebbe inaudito se non avvenisse. Quando? Una data non è ancora stata stabilita. Al momento c’è un’intensificazione delle attività fino adesso non completamente poste in essere, come le visite nei luoghi di privazione della libertà. Proprio oggi abbiamo ispezionato una Rsa. Nelle baraccopoli dei braccianti a 40 gradi: “Noi nei campi senza acqua né diritti” di Flavia Amabile La Stampa A Borgo Mezzanone nel Foggiano vivono duemila lavoratori agricoli: un ghetto di lamiere nella morsa del caldo. La distesa di tetti di lamiera di Borgo Mezzanone è accecante sotto il sole del primo pomeriggio. Non è possibile nemmeno guardarla, figurarsi stare dentro una delle centinaia di baracche di questo ghetto di migranti fra i più estesi d’Europa, un paese che non è un vero paese, dove le regole spesso sono un’opinione ma che con le temperature impazzite di questi giorni fatica anche a ritrovarsi nell’opaco sistema di abitudini che lo hanno guidato finora. In questi giorni nel ghetto di Borgo Mezzanone si ammassano oltre duemila persone con una temperatura di 40 gradi che arriva a quasi 50 al suolo, ma fra qualche settimana - quando avrà inizio la raccolta del pomodoro - le persone nel ghetto potrebbero anche raddoppiare. E nessuno è in grado di prevedere quello che accadrà a quel punto qui, ma anche nei tanti insediamenti creati nelle campagne pugliesi dai braccianti. “Già adesso abbiamo l’acqua due volte a settimana. La portano con l’autocisterna”, racconta Yakoub, 29 anni. È l’acqua che serve per fare tutto: lavarsi, bere, cucinare, pulire. Con queste temperature finisce rapidamente. Alle cinque di pomeriggio alla fontana del paese vicino c’è la fila. Ogni auto arriva con una ventina di taniche e decine di bottiglie di plastica da riempire. “Anche la corrente l’abbiamo solo a giorni alterni”, continua Yakoub. La sua casa è una stanza di mattoni con una passata di intonaco chiaro. “Me la sono costruita io, è bollente in estate e gelida in inverno ma questo ho”. Yakoub sarebbe maliano di origine ma ormai non sa più nemmeno lui che cos’è. “Vivo da dieci anni qui, due terzi della mia vita. E non ho un altro luogo dove andare. Sono senza documenti, senza poter fare altro che uscire, andare a lavorare in nero e tornare qui. È la mia prigione questa”. dice abbracciando con lo sguardo le decine di baracche del ghetto. Alcune in mattoni come la sua. altre in lamiera che in questi giorni alle undici del mattino è già rovente. “Non posso stare dentro, devo cercare un posto all’ombra, racconta Adam. Lui arriva dal Senegal. Altri invece sono originari di Gambia, Ghana. Nigeria. Qualcuno ha il permesso di soggiorno ma la grande maggioranza vive qui senza esistere, prigioniero di una vita che ha perso ogni contorno di dignità. “Se sto male, non posso chiamare l’ambulanza, non arriva fin qui. Devo farmi accompagnare fino a Foggia e poi andare al pronto soccorso”, racconta Mohammed, anche lui del Senegal. E stare male capita spesso in questo ghetto dove non ci sono bagni, dove in un angolo due uomini si preparano a sgozzare una pecora che diventerà la cena comune, dove a volte corre un po’ troppo alcol e si fa presto a tirare fuori un coltello per una parola di troppo. La vita senza diritti di Mohammed è iniziata presto. Alle quattro del mattino era già fuori. “Ci mettiamo in auto in tre-quattro e raggiungiamo chi ci dà lavoro”, racconta. “In questa stagione il lavoro è poco. Ci sono da raccogliere le ultime albicocche, le pesche e le susine. E poi bisogna tenere puliti i filari di pomodori e occuparsi delle zucchine. Non molto di più”, spiega Yakub. In molti non trovano lavoro oppure all’una, le due sono già di ritorno. Qualcun altro, invece, rientra più tardi contravvenendo le regole dell’ordinanza della regione Puglia che vieta di lavorare all’aperto dalle 12.30 alle 16. “Nonostante ci siano ordinanze che vietino il lavoro nelle ore più calde dalle 12 alle 16, vediamo molto spesso migranti in bici sotto il sole nelle ore centrali rientrare o recarsi al lavoro. Lì a Mezzanone è una non vita - conferma Domenico Rizzi, presidente provinciale Arci Foggia -. Vi sembra umano vivere così? Quando verrà smantellato quel ghetto ora che ci sono i fondi del Pnrr?” Per il momento a non rispettare i divieti sono una minoranza. “Il problema sarà quando inizierà la raccolta del pomodoro. Allora le illegalità potrebbero essere diffuse”, avverte Michele Chiuccariello, segretario provinciale della Flai Cgil di Foggia. Anche se rischiano, i braccianti non dicono di no quando gli si chiede di lavorare sotto il sole. “I migranti che non hanno ancora il rinnovo del permesso, pur di lavorare sottostanno a qualsiasi tipo di proposta. Lavorano per pochi spiccioli in condizioni disumane”, spiega Giovanni Tarantella, segretario generale Flai Cgil Foggia. “Noi già da quattro anni con queste temperature facciamo lavorare i nostri braccianti al massimo fino alle undici e mezza”, dice Nicola Giordano, titolare di un’impresa agricola della zona. “Ma l’ordinanza è giusta, c’è chi farebbe lavorare le persone anche a 50 gradi”.