Decreto carceri, un anno esatto senza attuazione di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 4 luglio 2025 Un compleanno senza il decreto attuativo che rende operativo il provvedimento. È lil tipico esempio di della distanza tra annunci e (non) attuazione degli annunci. Buon compleanno al decreto-legge n.92 del 4 luglio 2024 sulle carceri, ma ancora senza decreto attuativo che pure era previsto entro 6 mesi: ora, come candelina, il Ministero della Giustizia accenderà forse un’azione disciplinare nei confronti di sé stesso? L’anniversario, infatti, illumina un esempio di disallineamento tra annunci e (non) attuazione degli annunci; di disinvoltura nel passare da una promessa all’altra come da una liana all’altra senza mai atterrare nella realtà; e della contraddittorietà di una politica propensa a rimproverare inadempienze altrui, ma indulgente verso le proprie. Un anno fa, esattamente come oggi, il governo Meloni-Nordio presentava il decreto legge n. 92 come un intervento “vasto e strutturale”, giammai “decreto svuota carceri” ma anzi “decreto carceri sicuro”, che, senza “indulgenze gratuite” e “segnali di sciatteria o debolezza dell’autorevolezza dello Stato”, avrebbe alleggerito il sovraffollamento, interrotto la paurosa spirale statistica dei suicidi nei penitenziari, e migliorato le condizioni di vita nelle celle. Dati alla mano, dopo 12 mesi nessuno di questi tre obiettivi è stato neanche lontanamente centrato, ma il punto più singolare è un altro. Il decreto 92 del 4 luglio 2024, infatti, nel condivisibile intento di favorire le condizioni per il passaggio dal carcere agli arresti domiciliari dei molti detenuti con modeste pene residue ma privi di un idoneo domicilio e in condizioni socio-economiche non sufficienti a garantirsi il sostentamento, istituiva un elenco di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale: solo che per definire i criteri di formazione e aggiornamento di questo elenco di strutture, i requisiti di qualità dei servizi da erogare, le spese da recuperare, i presupposti soggettivi e di reddito per l’accesso dei detenuti a queste strutture, il testo rinviava - a dispetto dell’”urgenza” presupposto del decreto legge - all’adozione di un decreto attuativo del Ministro della Giustizia entro 6 mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione. Son passati non 6 ma già 12 mesi, eppure il decreto del Ministero di Nordio non si è visto. E lo stesso è accaduto per il regolamento che, in teoria anche qui entro 6 mesi, avrebbe dovuto chiarire il nuovo iter (più semplice per il Ministero, più incerto per gli operatori) di concessione della ordinaria “liberazione anticipata” di 45 giorni per ogni semestre di pena espiato. Caldo, solitudine e sete: la condanna estiva dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 luglio 2025 Il caldo in carcere si trasforma in un’agonia perché gli strumenti per contrastarlo restano un miraggio. A casa possiamo spalancare le finestre, accendere ventilatori o installare condizionatori; dietro le sbarre, nessuna di queste soluzioni è accessibile. Le giornate trascorrono tra fughe disperate sotto la doccia e indumenti inzuppati d’acqua fresca, indossati subito per prolungare un sollievo effimero. In alcuni istituti si arriva a inondare il pavimento delle celle - trasformandolo in un tappeto liquido - o a lasciare rubinetti aperti per raffreddare bottiglie di fortuna: strategie d’emergenza che prosciugano serbatoi già minati da guasti continui e carenze strutturali. Tutto questo accade mentre il sovraffollamento medio nelle carceri italiane raggiunge il 134%, con punte che sfiorano il 200% e la gravissima eccezione di San Vittore - come denuncia Antigone - schizzato al 247%. In queste scatole di cemento roventi, ogni corpo in più moltiplica la sofferenza. E sempre l’associazione, nel merito del carcere milanese denuncia che i detenuti vivono in condizioni di caldo asfissiante, con temperature interne che hanno raggiunto i 37 gradi ai piani più alti. “L’unico modo per avere un ventilatore è acquistarlo autonomamente al costo di 30 euro, una cifra spesso fuori portata per chi non ha mezzi propri, e non più di due per cella, anche in celle da 8 posti. Quasi tutti i reparti sono chiusi, impedendo quindi di usufruire della pochissima aria che circola nei corridoi”, chiosa Antigone. Basta uno sguardo per capire quanto sia grave la situazione: la temperatura è un fattore decisivo per il benessere fisico e mentale, soprattutto in uno spazio claustrofobico. Fuori, in libertà, si va al mare, si accendono condizionatori, si godono correnti d’aria; dentro, invece, le celle si trasformano in forni incandescenti. Gli ergastolani ultraottantenni, chi soffre di patologie croniche, i più fragili: nessuno è risparmiato dal rischio di colpi di calore, mentre fuori si riempiono giustamente pagine di giornale sul “dramma degli anziani” senza accorgersi che esistono migliaia di vite rinchiuse tra quattro mura incandescenti. Lo stesso sudore batte sul volto di chi lavora in carcere: agenti, operatori sanitari, educatori. Loro hanno la speranza di tornare a casa ogni sera, ma restano ostaggi delle stesse celle roventi, testimoni impotenti di un disagio che ogni estate si rinnova. I piani di contrasto? Il ministero della Giustizia, attraverso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ha varato l’acquisto di 1.000 congelatori orizzontali “a pozzetto” da collocare nei corridoi di tutti gli istituti penitenziari. Promessa: conservare meglio cibi e bevande refrigerate durante le ondate di calore. L’iniziativa, voluta dal ministro Carlo Nordio e dal capo Dap Stefano De Michele, vuole essere un gesto di rispetto verso la dignità dei detenuti, in linea con i principi costituzionali di umanità della pena. Ma quei pozzetti, per quanto magari evitino sprechi alimentari, non spengono il forno che ciascuna cella è diventata. La soluzione, per quanto semplice, resta in gran parte ignorata. Basterebbe un ventilatore in ogni cella - un acquisto dall’impatto immediato e dal costo di poche decine di euro - per trasformare un forno umano in uno spazio appena respirabile. Qualche istituto ha già beneficiato di donazioni private o comunali, ma sono sassolini in un deserto di quasi duecento strutture. Allo stesso modo, non servono tecnologie sofisticate per garantire un minimo di sollievo: basterebbe mettere a disposizione taniche o bottiglie d’acqua fresca in ogni corridoio, rinnovandole costantemente. Non più il rubinetto lasciato aperto fino allo sfinimento del serbatoio, ma una scorta rassicurante che arrivi prima che la disidratazione diventi disperazione. E poi c’è l’aria, l’elemento più elementare eppure più negato. Non bisogna dimenticare il blindo - una pesante porta di ferro con una piccola finestrella che serve esclusivamente al personale di polizia per guardare dentro - che, soprattutto in orario notturno, a volte viene chiuso. Ogni cella all’ingresso ha delle sbarre che sono tenute chiuse durante il giorno, a meno che i detenuti non usufruiscano del regime a celle aperte (oggi messo seriamente in discussione dal governo), che consente loro di uscire dalle loro camere durante la maggior parte della giornata e passeggiare liberamente nei corridoi della sezione. La notte, per tutti, sia in regime di celle aperte che in quello di celle chiuse, oltre alle sbarre viene chiuso anche la blindo. E di aria non ne passa più. Sarebbe sufficiente tenere le porte aperte durante la notte. Non si tratta di far fuggire nessuno, ma di restituire alle celle la capacità di respirare. Queste misure, semplici e a basso costo, potrebbero attenuare l’arsura che trasforma ogni estate in un’ulteriore condanna. E finché resteranno ignorate, il caldo continuerà a proclamare che dietro le sbarre l’umanità è solo un ricordo lontano. Strutture inadeguate - Nel leggere i rapporti dell’associazione Antigone, si scopre che sono numerose le carceri dove le celle sono sprovviste di doccia, nonostante il regolamento penitenziario del 2000 preveda la loro presenza obbligatoria a partire dal 2005. In regime di celle aperte è possibile utilizzare le docce di sezione, se disponibili. Sempre che ci sia l’acqua, che in alcuni istituti è razionata. C’è poi il problema dell’isolamento, che si acuisce nei mesi estivi. Le carceri sono a tutti gli effetti pezzi di città e vivono delle stesse dinamiche: il rallentamento delle attività ha conseguenze negative e crea solitudine. L’interruzione dell’anno scolastico a giugno, ad esempio, per gli studenti- detenuti significa non avere nulla da fare. E lo stesso vale per molte attività di volontariato, che vanno in pausa. I mesi di luglio e agosto sono quelli roventi sotto ogni aspetto. Forse non è un caso che se si analizzano tutti i dati riportati da Ristretti Orizzonti dal 2002 ad oggi, luglio sia storicamente il mese dei suicidi in carcere. L’ultima circolare che ha ordinato interventi concreti, purtroppo rimasta inevasa, risale al 2017, a firma dell’allora capo Santi Consolo. La circolare chiedeva di prevedere una diversa modulazione degli orari dei passeggi per evitare che le persone siano all’aria aperta nelle ore più calde della giornata; assicurare e implementare la funzionalità, nei cortili di passeggio, dei punti idrici a getto e nebulizzatori; realizzare, laddove possibile, aree ombreggiate; e, dove c’è una oggettiva carenza di acqua (come in alcune carceri che presentano queste gravi problematiche), prevedere la fornitura ai detenuti di acqua potabile in bottiglia e di taniche in ogni stanza da utilizzare come riserva in caso di improvvisa mancanza di acqua. La circolare richiedeva anche la riformulazione dei menu giornalieri per prevedere la disponibilità degli alimenti consigliati durante la stagione estiva e, soprattutto, assicurare l’apertura delle finestre delle celle durante le ore notturne per favorire il circolo dell’aria. Inoltre, nel lontano 2017, il Dap chiese di sensibilizzare l’area sanitaria. E qui si trova, infatti, un problema. C’è di fatto un quasi totale disinteresse dell’amministrazione sanitaria, sia a livello centrale che locale, come se le ondate di calore non avessero alcun impatto sulla salute della popolazione detenuta o che lavora nel carcere. Come se il carcere non facesse parte del territorio su cui operare per prevenire i rischi legati al grande caldo. Tuttavia, la riforma del 2008 aveva sancito il passaggio delle competenze in materia di tutela della salute delle persone detenute dalla Giustizia alla Sanità. Forse è il caso che intervenga anche il ministro della Salute, oltre al ministro della Giustizia. Carceri: radiografia di un sistema malato di Valter Vecellio L’Opinione, 4 luglio 2025 Solo trentasei istituti penitenziari su circa duecento sono relativamente in “regola”: suicidi (di detenuti e operatori), sovraffollamento, mancanza di personale, strutture insalubri. Una situazione che rende impossibile applicare l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nelle carceri italiane, al 31 maggio 2025, sono stipati 62.761 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 51.296 posti (ai quali, però, andrebbero tolti quelli ormai inagibili: circa 4.500 secondo i calcoli di Antigone). Il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133 per cento. Si tratta appunto di un tasso di affollamento medio. Delle quasi 190 carceri italiane quelle non sovraffollate, riferisce Antigone nel suo ultimo rapporto, sono solo 36, mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150 per cento sono 58. Al 30 aprile 2025 gli istituti più affollati erano: Milano San Vittore (220 per cento), Foggia (212 per cento), Lucca (205 per cento), Brescia Canton Mombello (201 per cento), Varese (196 per cento), Potenza (193 per cento), Lodi (191 per cento), Taranto (190 per cento), Milano San Vittore femminile (189 per cento), Como (188 per cento), Busto Arsizio (187 per cento), Roma Regina Coeli (187 per cento), Treviso (187 per cento). “I detenuti con sentenza passata in giudicato, che erano il 71,7 per cento alla fine del 2023, sono saliti al 73,5 per cento alla fine del 2024. Restano comunque più di un quarto dei presenti le persone in attesa di giudizio e presunte innocenti”. I suicidi: fra i detenuti sono stati per ora 38, stando alle statistiche di Ristretti Orizzonti. Il record è del 2024, quando i suicidi in carcere furono 91. Ma anche fra operatori penitenziari ci si toglie la vita: 3 nei primi sei mesi del 2025, riferisce Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, che fornisce dei dati aggiornati anche sul personale mancante: “18mila agenti mancanti, 3.500 aggressioni all’anno subite dalla Polizia penitenziaria ormai stremata da carichi di lavoro inenarrabili e turnazioni di servizio che si protraggono anche per 26 ore ininterrotte”. Le madri detenute: al 31 marzo erano 15 i bambini che vivevano in carcere con le loro 15 madri detenute, di cui 10 straniere: che cosa ci fanno dei bambini in carcere? Niente. Così come i malati psichiatrici. Non è il posto per loro, non dovrebbero stare lì. Diritto all’affettività: una recente sentenza della Consulta, del 2024, sancisce l’illegittimità costituzionale del controllo visivo obbligatorio durante i colloqui con il partner. Il Dap lo scorso 11 aprile ha emanato una circolare su “Affettività e incontri intimi in carcere”. Per la prima volta “l’amministrazione penitenziaria italiana interviene in maniera esplicita e organica sul tema dell’affettività e degli incontri intimi, traducendo in prassi operative quanto affermato dalla sentenza n. 10/2024 della Corte costituzionale”, osserva Antigone. Non mancano però i problemi: l’invito a dotarsi di spazi appositi per i colloqui intimi sembra essere una misura che rischia di scontrarsi con la realtà del sistema carcerario italiano. Il deserto politico sulle carceri di Guido Vitiello Il Foglio, 4 luglio 2025 Nordio ha annunciato di aver avviato la procedura di acquisto di mille congelatori da installare nei penitenziari. Un’inadeguatezza surreale e una frivolezza insultante. Ma è possibile che gli italiani seguano in maggioranza le convinzioni di Meloni e di Conte, della Verità e del Fatto su quest’atroce emergenza? Se non hanno più pane, che mangino brioche. E se in carcere crepano di caldo, che gli sia dato qualche frigorifero. L’annuncio del ministro Nordio di avere avviato la procedura di acquisto di mille congelatori a pozzetto da installare nei penitenziari “per rispondere concretamente al caldo record di queste settimane” ha quanto meno, nella sua surreale inadeguatezza e nella sua quasi insultante frivolezza, il pregio della fantasia. Forse è nata da un’associazione verbale: caldo, cella… cella frigorifera! Intorno a lui, c’è da dire, si estende un paesaggio di uniforme e desertica tetraggine: costruire nuove carceri, ampliare le carceri esistenti, adibire a carceri vecchie caserme, trasferire i detenuti stranieri nelle carceri dei loro paesi di provenienza. Carceri, carceri, carceri. La mancanza assoluta di immaginazione politica, unita alla cocciuta, proterva risolutezza nel non prendere neppure in considerazione le soluzioni più semplici, ragionevoli e praticabili nel breve termine, imprigiona il dibattito in una cella mentale dove, come dice il poeta, “la Speranza, simile a un pipistrello, se ne va battendo i muri con le ali timide e urtando con la testa contro soffitti marci”. I politici e i giornalisti di entrambi gli schieramenti - la destra di Meloni e la destra di Conte, la destra della Verità e la destra del Fatto - si sono rinchiusi in questa segreta e hanno buttato la chiave perché sono convinti che il grosso dell’opinione pubblica sia dalla loro parte, e che gli italiani inorridiscano al solo udire una formula come “liberazione anticipata speciale”. Ma è davvero così? Non voglio credere che i miei connazionali siano diventati così disumani, prima ancora che insensibili alle ragioni del diritto, da trovare inaccettabile che in questa atroce emergenza qualche migliaio di detenuti con buona condotta e con un piccolo residuo di pena da scontare esca di galera alcune settimane prima di quanto la legge attuale prevede. Sono un illuso? Non c’è più tempo. Svuotare le carceri e stop a nuovi reati di Enrico Bellavia L’Espresso, 4 luglio 2025 Basta tergiversare vagheggiando altre celle. Servono liberazione anticipata e misure alternative. Condannati dall’Europa, anche di fronte alla vergogna di classifiche che ci relegano in fondo ai Paesi civili, opponiamo solo un fiero tergiversare di fronte a quella che definiamo “emergenza carceri”. Abituati a considerare le celle delle discariche in cui nascondere ciò che riteniamo rifiuti sociali, seppelliamo in loculi da sepolti vivi, non solo l’umanità, ma il nostro stesso interesse. Perché il carcere che incattivisce produce recidiva. Il sovraffollamento, con punte ben oltre il 150 per cento, si traduce in 16 mila reclusi in più della capienza, cui fanno da contrappeso 18mila operatori in meno. Non solo poliziotti, ma anche educatori e psicologi. Ai suicidi, 37 detenuti dall’inizio dell’anno, devono aggiungersi tre addetti agli istituti. Quelle che il governo ama definire rivolte, spesso sono proteste sacrosante - non tutte violente, ma ora sanzionate ugualmente - per elementari diritti. Dall’aria - non l’uscita in cortile, ma l’ossigeno in spazi per i quali concorre a determinare lo spazio vitale anche il computo della branda - alla doccia. Da un vitto decente a un sopravvitto trasparente e a prezzi di mercato. Dal lavoro, non l’occupazione spiccia, ma la dignità di un impiego, retribuito, coerente con un barlume di percorso di reinserimento. Ci sono ragioni tanto aritmetiche quanto profondamente politiche nel modo in cui si affronta “l’emergenza”. Se aumenti i reati, imbottisci il codice di nuove fattispecie, punisci i tossicodipendenti, usi le manette per dare la caccia a chi fugge da guerra e miserie o semplicemente si sposta, perché l’uomo lo fa, aumenti il numero dei carcerati. Se, parafrasando papa Prevost, di fronte all’emarginazione bastoni l’emarginato, i numeri schizzano all’insù. Così come quelli degli istituti minorili, unico risultato tangibile del decreto Caivano. Il capo dello Stato è dovuto intervenire due volte in quattro mesi sul tema del sovraffollamento. A marzo, nel messaggio per il 208° della fondazione del Corpo della Polizia penitenziaria. E a fine giugno, per San Basilide, ricevendo il capo del Dap Stefano Carmine De Michele, scelto dopo lo scivolone del duo Nordio-Del Mastro su Lina Di Domenico. In mezzo, la sparata leghista di rimettere mano al reato di tortura, sperando di lisciare il pelo alla frangia più retriva dei poliziotti. Tutto fuorché qualcosa di concreto. Neppure le vagheggiate nuove carceri, con l’edilizia penitenziaria commissariata. Di amnistia e indulto, respinti sdegnosamente perché non in linea con l’immagine muscolare di un governo d’ordine, neanche a parlarne. Né l’apertura del presidente del Senato Ignazio La Russa al ddl di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata sembra destinata ad avere seguito. Ma delle due l’una: o i colpi di spugna - l’ultima amnistia è del 1990, l’indulto del 2006 - ovvero liberazione anticipata e misure alternative (attualmente ne godono 97mila persone). Si calcola che ridurrebbe di almeno 30mila il numero dei ristretti. Più che con un indulto. Ma occorrono fatti e non frasi a effetto a beneficio della propaganda per coprire il vuoto. Altrimenti i detenuti con problemi psichiatrici non troveranno Rems e i tossicodipendenti comunità. E quel bimbo di un mese in cella a Pagliarelli, Palermo, con la madre, sarebbe ancora lì. Semplicemente perché non c’era altro. Non un Icam che nel campionario degli inconcludenti acronimi italiani corrisponde a istituto per la custodia attenuata delle detenute madri. Il più vicino è in Campania. Una cella, invece, magari pigiando un po’, la si trova sempre. Morire di caldo, morire di carcere di Davide Traglia vdnews.it, 4 luglio 2025 In estate, caldo e sovraffollamento trasformano la cella in un inferno. I suicidi aumentano, ma l’assistenza per i detenuti resta un miraggio. Nei primi cinque mesi del 2025, 33 detenuti si sono tolti la vita negli istituti penitenziari italiani. Un numero allarmante, che conferma una tendenza in drammatico peggioramento: il 2024 si era già chiuso con un tragico record di 92 suicidi, il dato più alto mai registrato. Secondo Mauro Palma, ex Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, “il quadro complessivo delle carceri italiane è oggi uno dei peggiori degli ultimi anni”. Negli ultimi due anni e mezzo, spiega a VD News, “i detenuti sono aumentati di quasi 7.000 unità, mentre i posti effettivamente disponibili sono diminuiti”. Oggi le carceri italiane ospitano circa 62.000 persone, a fronte di una capienza regolamentare di poco superiore ai 51.000 posti. Di questi, almeno 4.000 risultano inagibili o in ristrutturazione. Il sovraffollamento medio supera il 133%, con punte fino al 200% in istituti come San Vittore. Ma il problema non è solo numerico: “Si entra di più e si esce di meno - spiega Palma -. Inoltre, molti reati sono cosiddetti endocarcerari, ovvero commessi dentro il carcere, spesso come reazione a condizioni di detenzione sempre più dure”. Il tasso di suicidi tra i detenuti italiani è circa 25 volte superiore a quello della popolazione libera. Ogni 10.000 detenuti, quasi 15 scelgono di togliersi la vita. Un dato che riflette un mix micidiale di isolamento, mancanza di assistenza psicologica, condizioni materiali disumane e una gestione carceraria sempre più punitiva. “Non si può continuare a rispondere con sole misure di sicurezza - sottolinea Palma -. Servono interventi che riducano la tensione e strategie di deflazione della popolazione carceraria. Senza una riduzione del numero di detenuti, la situazione diventerà sempre più insostenibile: per chi vive e per chi lavora negli istituti”. L’estate aggrava la crisi. Nelle scorse settimane, Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma oggi detenuto a Rebibbia, ha denunciato in una lettera le condizioni disumane in cui si vive in carcere durante i mesi caldi: celle surriscaldate, fino a 10 gradi di differenza tra i piani alti e quelli bassi, assenza di climatizzazione, scarsità di spazi d’aria e un sistema burocratico che blocca l’accesso alle misure alternative anche per chi ne avrebbe diritto. “Il caldo esaspera le tensioni - conferma Palma -. Le attività trattamentali si riducono, cresce il tempo trascorso chiusi in cella. Storicamente, i mesi estivi coincidono con un aumento dei suicidi. Eppure, anche soluzioni semplici, come garantire più ore all’aperto, diventano difficili da applicare quando ci sono 15mila persone in più del previsto. Nemmeno le direzioni più volenterose riescono a garantire condizioni dignitose in queste condizioni”. L’emergenza è ancora più grave per le persone trans detenute, come dimostra il caso del carcere di Ferrara: una donna trans è stata violentata da quattro uomini nella sezione maschile dove era ristretta. Un caso che ha riportato l’attenzione su una realtà fatta di discriminazione, invisibilità e violenza istituzionale. In Italia sono circa 80 le persone trans detenute, quasi tutte in transizione da maschio a femmina. Nonostante molte abbiano documenti che indicano il genere femminile, vengono collocate in carceri maschili se non hanno completato il percorso chirurgico. “È una scelta che privilegia l’anatomia rispetto all’identità - denuncia Palma -. Queste persone vivono in reparti speciali, ma spesso in condizioni di isolamento totale. Per proteggerle, si finisce per escluderle da ogni attività. È un modello che rischia di trasformarsi in un piccolo ghetto. Lo abbiamo detto anche a livello europeo: “They ask for protection and receive isolation”. A complicare il quadro, secondo Palma, è il decreto sicurezza, che ha introdotto 14 nuovi reati e 9 aggravanti. Una scelta che, per l’ex Garante, riflette un approccio sbagliato: “Se si vuole contrastare un fenomeno, bisogna smettere di pensare che l’unico strumento sia il diritto penale. Il diritto penale dovrebbe essere l’ultima risorsa, non la prima. Prima bisogna investire sui servizi territoriali, sulla prevenzione, sulla capacità di intercettare i comportamenti problematici quando iniziano a emergere. Bisogna coinvolgere le comunità locali, creare alternative reali, responsabilizzare i territori prima di arrivare alla misura estrema della pena detentiva”. Palma sottolinea che il carcere sta diventando un contenitore di marginalità sociale: “Oggi nelle carceri italiane scontano pene brevi moltissime persone che non hanno altra possibilità. Ci sono detenuti che stanno dentro perché non hanno una casa, perché sono stranieri e non sanno di poter chiedere una misura alternativa, perché non hanno un avvocato, non conoscono i propri diritti, non hanno istruzione”. E allora la domanda resta sospesa: su 62mila detenuti, quanti rappresentano davvero una minaccia sociale concreta? Secondo Palma, non più di 20mila. Gli altri sono il volto della povertà criminalizzata, della fragilità trasformata in colpa. Il carcere non può essere la risposta automatica al disagio sociale. Serve una svolta politica e culturale che riconosca il fallimento dell’approccio repressivo e investa davvero nella prevenzione, nella tutela dei diritti e nelle alternative alla detenzione. Perché il modo in cui trattiamo le persone più fragili e invisibili rivela la qualità reale delle nostre istituzioni. Detenuti tossicodipendenti nelle Comunità, l’idea di Nordio contro il sovraffollamento di Giuseppe Fin Il Dolomiti, 4 luglio 2025 Il Cts: “Strada giusta”, ma il Cnca avverte: “No a micro carceri private”. Il tema è quello del sovraffollamento delle carceri, nei giorni scorsi il ministro alla Giustizia a margine di un convegno ha lanciato l’idea di trasferire i detenuti per reati collegati alla tossicodipendenza in comunità terapeutiche per scontare la pena e liberare spazio nelle strutture. Il Coordinamento Nazionale delle Comunità Accoglienti chiede però maggiore chiarezza: “Non vorremmo che si creasse un percorso parallelo a quello che già esiste e funziona”. Spostare i detenuti per reati collegati alla tossicodipendenza in comunità terapeutiche: “Più che detenuti da punire sono malati da curare”. Le parole sono quelle che arrivano dal ministro per la Giustizia, Carlo Nordio, che a margine di un convegno ha lanciato la proposta per risolvere, almeno in parte, il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. La media di riempimento delle carceri in Italia è del 120%, con picchi del 190% in regioni come la Lombardia. Nel 2024, nella casa circondariale di Spini, si sono toccate più volte punte di 380 persone presenti, con una crescita significativa in particolare delle donne che sono arrivate anche a raggiungere recentemente la cifra record di 53. I dati sono stati ricordati nell’ultimo rapporto del Garante dei detenuti. Alla fine del 2024 il sindacato di polizia penitenziaria aveva lanciato l’allarme sulla grossa percentuale di detenuti con problemi di tossicodipendenza in Italia. Citando la relazione annuale fatta in Parlamento del 2024, quasi il 40% dei detenuti ha problemi di tossicodipendenza con gli estremi registrati a Bolzano e in Lombardia (50%) e Friuli Venezia Giulia, Calabria e Trento (sotto il 20%). Il tema, insomma, non è poco rilevante anche considerando le zone del nostro Paese dove le percentuali sono più basse e l’ipotesi di un trasferimento dei detenuti tossicodipendenti in comunità ha avviato un’grossa discussione. “La nostra richiesta è sempre stata quella per il rispetto della natura umana, per avere una pena rieducativa e il reinserimento in società di persone rieducate. Per questo, l’ipotesi lanciata dal ministro Nordio ci trova favorevoli” è il commento che arriva da Marco Pederzolli, presidente del Centro Trentino di Solidarietà che da anni si occupa di tossicodipendenza e che fa parte della rete Fict, la Federazione italiana comunità terapeutiche. “Vediamo di buon occhio - spiega - l’idea che il detenuto con problemi di tossicodipendenza possa essere trasferito in comunità per riprendere quella funzione riabilitativa che dovrebbe avere la pena”. I numeri, ovviamente, non sono bassi. Anche nel carcere di Trento sono parecchie le persone che sono tossicodipendenti. “I posti nelle comunità sono pochi? Non sono mai sufficienti - spiega Pederzolli - ma volere è potere. Se la politica ha una programmazione coerente i posti si riescono a trovare. Possono essere anche aumentati. Non lo vedo come un fattore limitante”. Più cauto il commento del Coordinamento Nazionale delle Comunità Accoglienti. “Accogliamo circa 400 persone all’anno nelle nostre strutture sparse in Italia” spiega a il Dolomiti la presidente nazionale del Cnca, Caterina Pozzi, spiegando di non essere contraria al trasferimento nelle comunità dei detenuti tossicodipendenti ma chiedendo maggiore chiarezza. “Non è così chiaro - spiega - se le strutture che ha in mente Nordio sono le nostre comunità accreditate. Non vorremmo che si creasse un percorso parallelo a quello che già esiste e che già da anni fanno il Cnca oppure Fict andando a smantellare un sistema pubblico e privato che funziona”. No, insomma, alla nascita di “micro carceri private”. “Quando sono uscito dal carcere e anche da Roma per la prima volta” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 4 luglio 2025 Storia delle prime (e a volte ultime volte) fuori dalle prigioni. Quando è uscito dal carcere di San Vittore per la prima volta dopo 17 anni, Pino Cantatore - che ora ha un’azienda con 200 dipendenti - è andato a casa dei genitori e ha spalancato tutti i cassetti: “In cella non ce ne sono di cassetti, a casa quando li ho visti li ho aperti tutti, volevo vedere cosa c’era dentro e mi piaceva anche solo il gesto di tirarli fuori. Quel giorno, tornando in cella, mi hanno dato il permesso per passare dal supermercato a comprare due o tre cose ed ero un po’ preoccupato, perché sono entrato in carcere che c’era la lira ma nel frattempo era arrivato l’euro. Non maneggiavo monetine da 17 anni, figuriamoci i centesimi. Ero stupito dalla quantità di merce che c’era, ho riempito il carrello, ma avevo l’angoscia di non rispettare i tempi di rientro e allora ho lasciato tutta la spesa, e il carrello, e sono corso via”. ??Quando è uscito dal carcere di Bollate, dopo quattro anni e mezzo, Massimo Aliprandi aveva già lavorato a lungo con una cooperativa, la Bee4, che gli aveva pagato uno stipendio e quando è uscito gli ha trovato anche un alloggio dove stare per un prezzo simbolico, e dunque, ci dice, la sua uscita non è stata romantica, quelle robe da film che vedi il cielo per la prima volta o vedi le persone e ti stupisci, perché Bollate è un istituto a custodia aperta e dunque il passaggio da dentro a fuori non è stato poi così traumatico e ora è quasi un anno che è fuori, Massimo, e intende rimanerci per sempre. ??Quando stava per uscire dal carcere Lorusso e Cutugno di Torino, dopo qualche giorno in cella per resistenza a pubblico ufficiale, Hamid ha saputo che, una volta uscito, sarebbe stato ripreso e rimandato in Albania, nel Cpr di Gajder, non per scontare una pena, perché quella sua lieve l’aveva già scontata, ma perché era arrivato dal Marocco clandestinamente e quindi lo avrebbero legato mani e piedi con fascette di plastica e lo avrebbero rispedito in Albania in “detenzione amministrativa”, in attesa di essere rimpatriato. E così Hamid ha pensato che non aveva più voglia di uscire, lo ha detto al suo avvocato, poi si è tolto i lacci delle scarpe e si è impiccato. ??Quando è uscito dal carcere di Rebibbia, lo scorso anno, Luca da Tor Bella Monaca aveva un lavoro da cameriere che gli ha trovato l’associazione Seconda Chance e dunque è andato in questo ristorante dei Fori imperiali, prima con un articolo 21, poi con un affidamento in prova e infine con un contratto a tempo indeterminato e il proprietario è stato talmente contento di lui che gli ha regalato un viaggio premio all’acquario di Genova con la famiglia e Luca fuori da Roma non c’era mai stato e neanche sua moglie e neanche suo figlio di 7 anni. ??Quando sono uscite dal carcere di Rebibbia, Roberta e Barbara hanno avuto come un senso di straniamento e Goliarda, che era compagna di cella, ha scritto che “loro, anche quando sono fuori, è come se fossero dentro. Quando sono con loro, anch’io mi sento ancora dentro, cioè libera”. E questa sorellanza, questo sentirsi parte di una comunità d’affetti, di un gruppo, pure richiusi dentro un’istituzione orrenda come il carcere, è paradossalmente quello che manca a molti reclusi quando escono, perché si ritrovano soli più di prima, non hanno nessuno che li aspetti, non hanno un lavoro, perché dentro non ne hanno imparato nessuno, e fuori chi lo prende uno appena uscito prigione, e per di più con gli occhi spiritati e i nervi a pezzi, frantumati da anni di cattività. E allora il fuori è spesso solo una finta liberazione, una gabbia più grande, senza nemmeno più l’aiuto e l’amore delle tue compagne e dei tuoi compagni. ??Quando è uscito dal carcere, Mario non è davvero uscito, perché da recluso è diventato internato, che è difficile spiegarlo, ma il nostro codice Rocco, non a caso varato durante il fascismo, dice che esistono i “delinquenti professionali o per tendenza o abituali” e questi possono essere condannati a misure di sicurezza perché sono pericolosi e dunque anche quando hanno finito di scontare la loro pena, ne cominciano a scontare un’altra, nelle case di lavoro o nelle colonie agricole, che alla fine sono carceri e lì a volte ci rimangono fino alla morte, dimenticati tra i dimenticati. Mario - ci racconta Susanna Marietti di Antigone - era un ladruncolo compulsivo, aveva provato a rubare portafogli sull’autobus, spesso senza riuscirci, e siccome l’aveva fatto un po’ di volte, era stato dichiarato delinquente abituale e dunque era finito a Vasto, in una casa lavoro, dove la direttrice le aveva confidato, affettuosamente: “Questo è scemo”. Gli internati come Mario sono quasi 300, alcuni incapaci di intendere e volere che sono dentro le Rems (le residenze per le misure di sicurezza), mentre altri - emarginati, poveri, spesso squinternati - stanno in queste fantomatiche case lavoro e colonie agricole e non si capisce perché debbano avere una pena doppia e perché debbano essere definiti pericolosi, quando in fondo sono soltanto soli, e non c’è nessuno che può prendersi cura di loro e aiutarli nella loro cleptomania o nella loro disperazione abituale. ??Quando è uscito dal carcere per l’ultima volta, Emanuele De Maria, è andato all’hotel Berna dove lavorava in articolo 21 come receptionist, mentre la sera rientrava a Bollate, e quel giorno sembrava tutto normale, un lavoro noioso come sempre, e però speciale visto che gli consentiva di stare fuori. Ma a Emanuele quel giorno è scattato qualcosa dentro, che chissà da quanto si teneva, e così ha tagliato la gola e i polsi alla collega Chamila e ha accoltellato un altro collega, Hani Fouad, poi ha scritto alla madre - “Ho fatto una cazzata” - è salito sul Duomo di Milano, ha dato un’occhiata al panorama e si è lanciato nel vuoto. La prima volta che è uscito dal carcere di Sollicciano, a Firenze, Raimondo Romano ha “pianto con il cuore”: “Mi sembrava tutto enorme, mi sono sentito piccolo come un uccellino, avevo paura delle strade”. L’ultima volta è stata oggi, per andare dalla casa circondariale di Saluzzo fino al caseificio di Villafalletto, con la bici elettrica che gli ha regalato il campione Paolo De Chiesa e con la quale fa undici chilometri ogni giorno, aspettando il fine pena, dopo 33 anni di carcere, per reati commessi nel 1991, “quando ero quasi un bambino”. ? ?Né dentro né fuori: perché le misure alternative sono importanti (ma non bastano) - ?Si parla molto del sovraffollamento e della cifra record di detenuti in cella, 62 mila. Ma nelle strutture per l’esecuzione penale esterna, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, ci sono 97 mila persone. Sono fuori, ma non sono del tutto fuori. Sono sottoposte a misure alternative alla detenzione, sanzioni sostitutive, libertà vigilata, lavori di pubblica utilità, messa alla prova. Un’area penale enorme, che può essere interpretata come il segnale di una delinquenza in aumento (ma dai dati non risulta affatto) o piuttosto può dare il senso di quanto siano diventate pervasive le politiche penali e di quanto il panpenalismo sia ormai lo strumento unico, o quasi, per affrontare il disagio sociale e la marginalità. ??Le misure alternative sono state introdotte nel 1975 dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario e poi migliorate dalla legge di Mario Gozzini del 1986 e da altre norme sostitutive del carcere, compresa la recente riforma Cartabia, nonostante le ricorrenti polemiche. Contribuiscono, in teoria, a sgravare il sistema penitenziario, che è al collasso, e soprattutto rappresentano un primo diaframma di libertà, l’avvio di un percorso che dovrebbe portare a vedere la luce e a rendere più sensata e plausibile la prospettiva costituzionale di un reinserimento sociale. Eppure l’aumento di messa in prova e misure alternative non ha davvero ridotto il numero dei reclusi, cresciuto di molto nel corso degli ultimi anni. ??Quello che ancora manca è un sistema di welfare, di indirizzo e di accoglienza per i detenuti che cominciano ad affacciarsi fuori dalle prigioni. Chi è in affidamento in prova viene seguito dal personale dell’Uepe, l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna. Spiega Roberta Cossia, magistrato di sorveglianza di Milano: “Quello che vedo è l’assenza di punti di riferimento esterni. Ho visto il film di Martone ed è comprensibile la sensazione di sperdimento di quelle donne, quando si ritrovano fuori. Dentro vivono in una logica di caserma, magari malata e paternalistica, ma comunque inserite in una dinamica di gruppo che le aiuta a vivere, a sostenersi a vicenda. Quando escono sono sole, non c’è nessuno che dia una mano per trovare un lavoro, una casa, per pagare la bolletta”. ??L’Uepe è sovraccaricato, solo a Milano ha 9 mila persone da gestire. “Bisognerebbe che raddoppiasse l’organico - spiega Cossia - per consentire di svolgere davvero il loro compito. Ma il personale è demotivato e c’è molta mobilità: appena arrivano, spesso se ne vanno. L’ultimo concorso è andato deserto. Ma così finisce per mancare totalmente quel lavoro di approfondimento dei nuclei familiari e sociali nel quale tornano i reclusi, che talvolta non sono contesti idonei ad accoglierli”. ??Se per chi è in affidamento in prova è previsto almeno un colloquio al mese con un assistente sociale del’Uepe (contatti formali, ma comunque qualcosa), per chi lavora all’esterno, in articolo 21 (lavoro) o semilibertà, non è previsto nulla. Il caso di Emanuele De Maria è significativo. Racconta Pino Cantatore, ex detenuto che ha creato l’importante cooperativa B4: “De Maria ha lavorato per un anno nel nostro call center a Bollate. Aveva un diploma della Cisco Academy. Professionalmente era una persona seria. Però forse che ci fosse qualcosa che non andava si poteva capire. Parlava poco, era introverso, aveva un passato turbolento, era stato nella legione straniera e poi latitante per anni. Insomma, una persona complessa. A un certo punto lo hanno fatto uscire per andare a fare il receptionist nell’hotel. Con il senno di poi, è stato meglio per noi. Però è vero che fuori non era seguito da nessuno. Noi, invece, abbiamo assunto un assistente sociale che parla con le persone che lavorano, le segue, prova a cogliere le situazioni di disagio. Ora Bollate, dopo quello che è successo, ha messo a disposizione un educatore e uno psicologo che, al rientro dall’articolo 21, fanno una sorta di accoglienza, come per i nuovi giunti”. ??Se per gli italiani la difficoltà è capire come seguirli efficacemente, per gli stranieri la situazione è ancora più difficile. Molti avrebbero i requisiti per potere uscire dal carcere in qualche forma, ma spesso non hanno una casa o vivono insieme ad altre persone che hanno avuto problemi con la giustizia e il magistrato non concede la misura. “Servirebbero più progetti di social housing. Qualcuno c’è ma sono pochissimi”, dice Cossia. E così il fuori per molti resta un miraggio. E quando viene raggiunto, quando finalmente si aprono le porte del carcere, c’è il deserto. Niente lavoro, niente casa, nessuna prospettiva di reinserimento. E non è un caso se le statistiche dicono che su dieci detenuti sette, appena liberi, sono già pronti per commettere un nuovo reato, per tornare dentro. In una spirale senza fine, fatale per loro e disastrosa per la società. Carriere separate. Dal Senato l’ok all’articolo chiave di Valentina Stella Il Dubbio, 4 luglio 2025 Il risultato è tanto scontato quanto però simbolico: ieri mattina dall’aula del Senato è arrivato il via libera all’articolo 2 del ddl sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere dei magistrati. Il testo modifica l’articolo 102 della Costituzione precisando che le norme riguardanti la magistratura “disciplinano altresì le distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti” . Tutte respinte, in precedenza, le proposte emendative delle opposizioni. Assente il ministro della Giustizia Nordio, tra le proteste dei partiti di minoranza. Il dibattito riprenderà martedì dopo che una nuova capigruppo deciderà il calendario dei lavori e quindi, di conseguenza, se prevedere un contingentamento dei tempi, negli ultimi giorni scongiurato benché sia stato comunque applicato il cosiddetto “canguro”. Tra i partiti di maggioranza molte le voci di Forza Italia che più di tutte hanno voluto rivendicare il risultato. “Oggi (ieri, ndr) abbiamo mosso un altro, decisivo passo verso quel cambiamento epocale che renderà concreti, anche per l’Italia, i presupposti del giusto processo. Forza Italia persegue da sempre questo obiettivo e sente che questa è davvero la volta buona per raggiungerlo e realizzarlo”, ha dichiarato il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto. Ha ribadito il vice premier Antonio Tajani: “Non è un segnale contro i magistrati, ma esalta il ruolo del giudice: vogliamo che i magistrati non siano divisi per categorie politiche, perché danno un servizio al cittadino e quindi è importante la non politicizzazione. Basta con le correnti”. “La riforma per la separazione delle carriere è una battaglia che portiamo avanti da quasi trent’anni. Oggi (ieri, ndr) siamo di un passo più vicini alla meta”, ha esultato il capogruppo azzurro in commissione Giustizia del Senato, Pierantonio Zanettin. Addirittura per il vicepresidente della Camera dei deputati Fabio Rampelli, di Fratelli d’Italia, “stiamo all’alba di una nuova civiltà. Quella della separazione delle carriere è la madre di tutte le riforme insieme a quella dell’elezione del capo del governo”. Sulla stessa scia la Lega, con i rispettivi capigruppo, Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari: “Il via libera del Senato a quell’articolo è un importante passo in avanti per tutti. Un’imparzialità che la Lega chiede da tempo e che restituirà all’intera categoria dei magistrati credibilità agli occhi dell’opinione pubblica”. Critiche ovviamente dalle opposizioni che in queste settimane hanno fatto un pesante ostruzionismo: sono stati presentati infatti oltre 1300 emendamenti. Secondo il senatore dem Dario Parrini, vice presidente della Commissione Affari costituzionali, “lo sdoppiamento delle carriere e dell’organo di autogoverno della magistratura, già ampiamente criticato, è a mio avviso la principale causa dei danni che questa riforma può arrecare. Dividere le funzioni tra magistrati requirenti e giudicanti, creando due organi distinti di autogoverno, rischia di minare gli equilibri fondamentali che garantiscono l’indipendenza della magistratura”. Mentre il senatore di Alleanza verdi e sinistra Tino Magni ha affermato: “Avremmo voluto discutere di come il nostro sistema giudiziario garantisce il diritto alla difesa, o della lunghezza dei processi. Ma niente, alla destra non interessa dei processi giusti, vuole solo colpire l’autonomia della magistratura e creare una casta di pubblici ministeri, con un proprio Csm. Il nostro Paese ha bisogno di giustizia, non del pubblico ministero poliziotto sottomesso alla politica”. L’Aula di Palazzo Madama è poi passata all’esame dell’articolo 3 senza però concluderlo. Si tratta della previsione del sorteggio per i membri togati e laici del Consiglio superiore della magistratura. Con questo meccanismo “per comporre il Csm ci si affida allo Spirito Santo”, ha criticato il senatore dem, Graziano Delrio, che ha aggiunto: “Questo sorteggio vale non solo per i togati, ma anche per i laici: non solo evochiamo lo Spirito Santo ma anche tutti i santi del paradiso per poterci proteggere da qualche inconveniente o da qualche inghippo”. “E questi sarebbero i pregevoli contributi che giungono dal fronte sedicente progressista, in realtà iper conservatore?”, ha replicato a distanza - ironicamente, ma non troppo - il consigliere togato indipendente del Csm, Andrea Mirenda, che ha aggiunto: “Qualcuno spieghi a questo coté di illuminati che il sorteggio non si fa tra i membri del club dei fruttivendoli bensì in seno ad una élite chiamata a giudicare i cittadini con un metodo del tutto casuale. E spieghi loro che se si è giunti a questo è a causa dell’osceno endorsement della sinistra al fenomeno correntizio: se non ti riformi vieni riformato…”, ha concluso l’unico sorteggiato del Csm attuale. Sull’approvazione dell’articolo 2 del ddl Nordio si è espresso anche Cesare Parodi, presidente dell’Anm: “Non ci aspettiamo assolutamente sorprese in questo senso. Fin dall’inizio abbiamo capito che non c’era nessuna volontà o possibilità di modifica del progetto originario e a maggior ragione aspettiamo quello che sarà verosimilmente l’esito del referendum per capire se questo progetto, queste intenzioni saranno avvallati dalla maggioranza dei cittadini”. Separazione delle carriere, il cuore della riforma passa al Senato di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 luglio 2025 Nessuna sorpresa in Parlamento, l’attesa è tutta per la campagna referendaria. Non senza fatica, nella palude dei 1.300 emendamenti dell’opposizione non ancora del tutto scavalcati attraverso il famigerato meccanismo del canguro, ieri il Senato ha dato il suo prima via libera all’articolo due della riforma della giustizia. Il momento si inserisce in una lunga marcia che proseguirà ancora per diversi mesi, ma ha di per sé un forte significato simbolico perché parliamo delle due righe che toccano l’articolo 102 della Costituzione e introduce il concetto di “distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. La seduta è stata sospesa così, lasciando spazio alle dichiarazioni di giubilo della maggioranza e del governo. Il vicepremier Antonio Tajani è raggiante. “Abbiamo ottenuto un risultato straordinario”, ha detto ai cronisti presenti nel transatlantico del Senato. L’approvazione dell’articolo per il leader di Forza Italia è “un segnale forte di cambiamento che non è contro i magistrati, anzi, è una riforma che esalta il ruolo del giudice e mette sullo stesso piano accusa e difesa. Noi vogliamo che i magistrati non siano divisi per categorie politiche”. Ancora tra i berlusconiani, anche Licia Ronzulli esulta: “La sinistra cerca di usare l’arma di distrazione di massa dello ius scholae, che non è all’ordine del giorno, per nascondere la vera notizia: al Senato sta continuando inesorabilmente il percorso di avvicinamento verso una giustizia più giusta ed imparziale”. Da Catanzaro arriva invece il laconico commento del presidente dell’Anm Cesare Parodi: “L’approvazione di oggi (ieri, ndr) si inserisce in un percorso parlamentare ormai sedimentato. Non ci aspettiamo assolutamente sorprese in questo senso”. E in effetti la strada parlamentare è pressoché ormai spianata: martedì la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama fisserà la data del voto finale, poi - salvo stravolgimenti - la palla tornerà alla Camera per la sua seconda lettura e a seguire passerà di nuovo al Senato per l’approvazione definitiva. Difficilmente l’opposizione troverà un modo per evitare che vada tutto liscio e dunque, come pure ampiamente preventivato, la vera partita si consumerà nella campagna che porterà al referendum costituzionale, che si terrà al massimo nella primavera del 2026. I sondaggi d’opinione - l’ultimo è uscito a giugno, a cura dell’Eurispes - danno i favorevoli alla riforma della giustizia in vantaggio, ma la magistratura organizzata è convinta che le distanze non siano incolmabili e che dunque qualche possibilità di rimonta ci sarebbe. La vera speranza, in questo senso, è che la partita salga di tono da un punto di vista politico e cioè che il referendum si trasformi da un sondaggio sui magistrati (come vorrebbe il governo) a un sondaggio sul governo (come auspicano i magistrati). È così che potrebbe innescarsi lo stesso meccanismo che, nel dicembre del 2016, portò non solo alla bocciatura della riforma costituzionale di Matteo Renzi, ma anche alla fine prematura del suo governo. Da notare, tra l’altro, che l’allora premier partiva da consensi addirittura maggiori di quelli di cui dispone adesso l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Separazione delle carriere e fine vita, la giustizia è il campo minato del governo di Giulia Merlo Il Domani, 4 luglio 2025 Approvato al Senato l’articolo che divide i percorsi di giudici e pm, il 17 luglio arriva anche la legge post sentenza Cappato. L’esecutivo continua a considerare la magistratura il suo principale nemico, ma deve tener conto della Corte costituzionale. La giustizia continua a rimanere il vero campo minato per il governo Meloni. Abbandonato qualsiasi aplomb istituzionale, ormai anche la Cassazione è stata trascinata nello scontro tra le parti. Uno scontro che - forse - si placherà solo una volta che la riforma costituzionale della giustizia sarà stata approvata e imbullonata nella Carta con l’esito favorevole del referendum. Fino a quel momento, che i più ottimisti fissano a circa un anno da oggi, la linea del governo e di tutti i suoi principali esponenti politici - il guardasigilli Carlo Nordio in testa - è quello di un confronto muscolare con i magistrati, prendendo a pretesto ogni sentenza sgradita e ogni relazione che si azzardi a sollevare dubbi tecnici sull’operato legislativo della maggioranza. Come ai tempi di Silvio Berlusconi, gli avversari sono le “toghe rosse” e “politicizzate” decise a fare la guerra al governo legittimamente eletto, senza necessità di alcun confronto tecnico e di merito. Intanto, però, la riforma sta correndo in Senato: ieri è stato approvato l’articolo 2 che modifica l’articolo 102 della Costituzione introducendo la separazione ordinamentale tra giudici e pubblici ministeri. I voti a palazzo Madama procedono svelti, nonostante i tentativi delle opposizioni di frenare la corsa all’approvazione di una riforma nata nelle stanze del ministero di via Arenula e immodificabile anche dalla maggioranza di centrodestra, per stessa ammissione di Nordio. Il ministro nei giorni scorsi ha tentato di tirare in ballo il Colle per rinfocolare la polemica con la Cassazione, il cui ufficio del Massimario si sarebbe permesso “in modo irriverente verso il Quirinale” di evidenziare le possibili incostituzionalità del decreto Sicurezza già ampiamente sollevate dalla maggior parte dei giuristi. Scelta infelice, che ha prodotto uno stizzito “no comment” del Quirinale. Chi ben conosce i gangli dell’apparato giudiziario non ha mancato di sottolineare il ciglio ripido in cui si è inerpicato il guardasigilli: Mattarella ha sempre sottolineato l’importanza della leale collaborazione tra organi dello Stato e contrapporre il Colle alla Suprema corte trascinandolo nello scontro politico è scelta impropria. Tanto più che controllo di costituzionalità esercitato dal Quirinale ha natura ben diversa - preventiva e con valenza di garanzia - rispetto a quella giurisdizionale della Consulta, cui il Massimario ha fatto riferimento. Il fine vita - Mentre la separazione delle carriere corre, in Senato sta per arrivare un’altra riforma che rischia di creare l’ennesimo cortocircuito giuridico. La data fissata perché la legge sul fine vita si discuta in aula è il 17 luglio, dunque le commissioni Giustizia e Affari sociali dovranno procedere molto velocemente. Il testo base è stato individuato e già ha sollevato questioni controverse: l’esclusione del Sistema sanitario nazionale, che non erogherà più alcun servizio né i farmaci letali, dunque chi avrà diritto a ricorrere al suicidio assistito dovrà organizzarsi (e pagare); l’obbligo delle cure palliative e il restringimento dell’accesso solo ai malati collegati a macchinari e non quelli che dipendono dall’assistenza di terzi. L’esclusione della sanità pubblica - che rischia di creare disparità di censo per l’accesso al diritto al fine vita - e il restringimento della platea di chi può chiedere l’accesso al fine vita potrebbero già essere considerati due profili di incostituzionalità. Tanto più che - nell’inerzia del legislatore - la Corte costituzionale aveva fissato con la sentenza Cappato del 2019 i parametri costituzionalmente orientati che prevedevano sia la gratuità attraverso il Ssn che le tipologie di malati che possono fare richiesta. La critica è arrivata dall’Associazione Luca Coscioni, secondo cui il testo “di fatto cancella il diritto all’aiuto medico alla morte volontaria, restringendo drasticamente i criteri di accesso in violazione della Costituzione e delle sentenze della Corte”, ha detto la segretaria Filomena Gallo, con impianto che “mira a cancellare diritti riconosciuti dall’ordinamento e ribaditi dalla Consulta”. Proprio questo campo così delicato rischia di incardinarsi quindi l’ennesimo scontro a sfondo giuridico. A differenza di quanto accaduto con la riforma costituzionale della giustizia, la maggioranza ha detto di essere pronta ad un confronto anche emendativo, per trovare un punto di caduta con almeno una parte delle opposizioni. Complicato, considerando che il lavoro delle commissioni dovrà procedere molto velocemente per rispettare la data già fissata per l’arrivo in aula. Non solo. Nel mentre che la discussione parlamentare sarà in corso, la Consulta sarà chiamata a discutere un nuovo caso di fine vita, nell’udienza fissata per l’8 luglio in cui per la prima volta potrebbe esprimersi sul tema dell’eutanasia. Come ha già fatto in passato, i giudici costituzionali potrebbero orientarsi per dare tempo al legislatore. Tuttavia la pietra miliare sul tema che è stata la sentenza Cappato è un parametro che il testo di maggioranza non potrà ignorare. Sui magistrati c’è già aria di battaglia referendaria di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2025 Con il voto dell’Aula del Senato sulla separazione delle carriere dei magistrati, la maggioranza fa un altro passo deciso verso la riforma della giustizia, l’unica tra le tre promesse in campagna elettorale che sta procedendo. Si è persa quella sull’autonomia differenziata anche dopo lo stop della Consulta mentre sul premierato il rallentamento sembra legato a motivi legati all’opportunità politica. Probabilmente Meloni ha, finora, ritenuto che cambiare le norme costituzionali coinvolgendo anche l’equilibrio di poteri con il capo dello Stato, possa intaccare la sua popolarità che invece tiene bene. Tra l’altro, si continua a parlare di una sua legittima aspirazione a diventare la prima donna presidente della Repubblica in Italia visto che tra due anni compirà 50 anni, visto che il mandato di Mattarella scade nel 2029 e che troverà una strada libera se dovesse rivincere le elezioni nel 2027. Insomma, ci sono alcune ragioni per tirare il freno sul premierato. Non ci sono invece sulla giustizia. Anzi. È evidente che il Governo ha trovato nei giudici un bersaglio polemico che la riforma incrocia perfettamente. Si era cominciato con le inchieste, dal sottosegretario Del Mastro alla comunicazione di iscrizione di Meloni nel registro degli indagati sul caso Almasri fino all’ultimo caso del Massimario della Cassazione che ha eccepito dubbi di costituzionalità sul decreto sicurezza. Ma - soprattutto - sul fronte dei migranti si è consumato lo scontro con il Tribunale di Roma per le norme sul decreto Albania mentre proprio ieri una sentenza della Consulta ha “bocciato” la disciplina dei trattenimenti nei Cpr. Questo per dire che il clima da battaglia c’è e quasi già si respira aria di referendum. In questo caso le possibilità di vincere sono più alte delle altre due riforme, premierato e regionalismo differenziato, visto che nelle opinioni pubbliche si è formata una corrente di diffidenza verso le toghe più robusta che in passato. E a contribuire, più che i casi politici, ci sono quelli di cronaca nera irrisolti, o riaperti anche per alimentare un circuito mediatico che fa salire lo share televisivo ma abbassa l’affidabilità della magistratura. Ieri, poi, Forza Italia non solo ha incassato un punto sulla giustizia ma ha rilanciato lo ius scholae aprendo all’opposizione. Immediato lo stop di FdI e della Lega. Dunque, si può attendere perché, come ha detto Tajani, la separazione delle carriere è la priorità. Ecco, la cittadinanza sembra più una bandiera - come il terzo mandato per Salvini - che una vera sfida politica. “Il processo è il malato. L’imparzialità del pm è soltanto un mito” di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 luglio 2025 Parla il giurista Ferrua: “Prima di separare le carriere va ricostituito il modello accusatorio. La Cartabia? Retrograda”. Paolo Ferrua, professore emerito di diritto processuale penale all’Università di Torino, in un suo recente saggio lei parla di “relazione controversa” tra separazione delle carriere dei magistrati e rito accusatorio. Poi dice che con la riforma della giustizia c’è il rischio di affossare questo modello e allo stesso tempo di non realizzare la separazione. Come uscirne? Il processo accusatorio, fondato sul contraddittorio dibattimentale, è in piena agonia dopo la riforma Cartabia, mentre la separazione delle carriere resta solo una proposta contenuta in un disegno di legge costituzionale, aperto a mille incognite. Con una differenza, tuttavia. La ricostituzione del modello accusatorio rappresenterebbe comunque un sensibile progresso, con o senza la separazione delle carriere. Questa, invece, non ha alcun senso mancando il processo accusatorio, che ne rappresenta il presupposto logicamente prioritario. Il modello accusatorio può favorire la separazione delle carriere, ma allo stesso modo in cui favorisce la giuria e con essa il verdetto immotivato, senza un rapporto di implicazione necessaria tra le diverse opzioni. L’importante è che le funzioni di pubblico ministero e giudice restino nettamente separate senza ibridismi e contaminazioni. Su queste pagine Peppino Di Lello sosteneva che prima ancora dell’assoggettamento del pm al governo, il rischio della riforma è di creare una “repubblica fondata sui pm”, che in effetti si ritroverebbero investiti di poteri enormi… A mio avviso, un regime che implichi, oltre alla separazione delle funzioni anche quella delle carriere, deve necessariamente condurre a un collegamento più o meno inteso con il potere politico, sia esso rappresentato dal governo o dal parlamento. All’interno di un corpo di pubblici ministeri, numericamente ridotto e connotato da gerarchia interna, una separazione delle carriere che lasci intatte le attuali garanzie di indipendenza esterna del pubblico ministero esporrebbe al rischio di una formidabile concentrazione di incontrollati poteri nelle mani dei vertici. L’idea di una separazione delle carriere che non incida minimamente sull’indipendenza del pubblico ministero è una favola volta a rassicurare i magistrati. Le correnti della magistratura sembrano essere un incubo ricorrente per questo governo. Non le sembra che l’idea di fondo della riforma, visti anche i cambiamenti previsti per il Csm, sia quella di separare le correnti più che le carriere? Può darsi. Ma, non essendo decifrabili le riposte intenzioni del governo, in base ad un principio di carità devo supporre che entrambi gli obiettivi siano perseguiti. Perché sostiene che il concetto di pm “parte imparziale” è un mito? Chi nel processo penale non svolge le funzioni di giudice è per logica esclusione “parte”. Di imparzialità si può impropriamente parlare per il pubblico ministero solo nel senso in cui l’articolo 97 della Costituzione ne parla in rapporto alla pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e del principio di uguaglianza tra le persone nei cui riguardi si esercita l’attività pubblica. Non vi è alcuna necessità di ricorrere alla mitologica figura della parte-imparziale per affermare che il pubblico ministero, come rappresentante della collettività e organo rigorosamente soggetto alla legge, sia tenuto a chiedere al termine delle sue indagini, l’archiviazione quando gli elementi a sua disposizione non siano idonei a sostenere l’accusa; o, nel dibattimento, a chiedere l’assoluzione quando, a suo avviso, non sia raggiunta la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Il processo penale è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione nel ruolo di un soggetto si ripercuote inesorabilmente sugli altri, che si appropriano dello spazio rimasto vacante; quando il pubblico ministero latita o esita nella sua tipica funzione di parte, il rischio è che, a compensare la carenza, intervenga il giudice, convertendosi in accusatore. Dunque, è bene, nell’interesse stesso del contraddittorio, che il pubblico ministero conservi la sua qualità di organo di parte, focalizzato sull’accusa. Stando a quanto scrive, lei non sembra entusiasta della riforma Cartabia. Ci spiega quali secondo lei sono i suoi problemi e i suoi limiti? Nella logica del modello accusatorio, l’indagine preliminare dovrebbe essere fluida e poco formalizzata, dato che la vera garanzia sta nella irrilevanza probatoria delle dichiarazioni raccolte e degli accertamenti svolti in quella fase: il rapido passaggio al dibattimento è il necessario presupposto sia per un uso ristretto delle misure cautelari sia per conservare la memoria dei testimoni. La riforma Cartabia percorre la via retrograda del garantismo inquisitorio con due infelici scelte. La prima è di spostare l’asse del processo verso le indagini preliminari, moltiplicando in quella fase i termini, le formalità e le cosiddette finestre giurisdizionali, destinate agli interventi e ai controlli del giudice. La prospettiva del dibattimento si allontana, cresce il rischio di irripetibilità delle dichiarazioni già raccolte e la memoria dei testimoni si affievolisce. La seconda scelta è di modificare i presupposti della sentenza di non luogo a procedere, da adottare ogni qualvolta non sia ragionevole prevedere una condanna. Il risultato, antitetico al modello accusatorio, è di costringere il pubblico ministero a più laboriose indagini, di indurre il giudice a motivare in forma più o meno palese il rinvio a giudizio con un minuzioso elenco delle prove a carico. In breve, di alimentare presunzioni di colpevolezza nei riguardi di chi sia rinviato a giudizio. Lezione di storia e giudizi etici. La sentenza “iraniana” di Torino di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 luglio 2025 Il tribunale torinese ha depositato le motivazioni della sentenza sul “caso Bigliettopoli”. Nonostante i principali imputati siano stati assolti, i giudici spiegano come si è evoluta la corruzione dal “tardo impero romano” a oggi e si lanciano in commenti etici. “Nel tardo impero romano, e poi per molti secoli a venire, la regola fu quella della sportula: il privato che chiedeva un provvedimento amministrativo era tenuto a consegnare al pubblico funzionario un compenso in danaro o in natura. Il provvedimento amministrativo, infatti, non era oggetto di un diritto del cittadino, ma di una graziosa concessione fatta dal funzionario imperiale al suddito, che era perciò tenuto a sdebitarsi”. Le righe che avete appena letto non sono tratte da un manuale di storia, ma da una sentenza scritta da giudici italiani. Parliamo della sentenza emessa dal tribunale di Torino lo scorso 26 marzo, di cui ora sono state depositate le motivazioni, sul cosiddetto “caso Bigliettopoli”. L’inchiesta, avviata nel 2015 dal pm Gianfranco Colace, si è conclusa con l’assoluzione dei principali imputati (sette), tra cui Giulio Muttoni, noto imprenditore del settore degli eventi e dei concerti, da accuse molto gravi come corruzione e turbativa d’asta. Sei imputati invece sono stati condannati, ma anche nei loro confronti sono cadute le accuse più pesanti (la pena più alta è stata inflitta a un ex poliziotto: due anni e tre mesi per acceso abusivo a sistema informatico). Insomma, l’impianto accusatorio su cui si fonda la maxi inchiesta messa in piedi da Colace (durante la quale Muttoni è stato intercettato oltre 30 mila volte) è crollato. Nonostante ciò, si resta a dir poco interdetti di fronte alle motivazioni redatte dal collegio giudicante, presieduto da Paolo Gallo. La sentenza, infatti, proprio nella parte che riguarda il principale imputato assolto, Muttoni, è piena di lezioni di storia e di giudizi etici nei confronti delle persone coinvolte. Non proprio ciò che ci si aspetterebbe da una sentenza giudiziaria. I giudici scrivono che per ben diciassette episodi corruttivi contestati a Muttoni non è stato trovato alcun fondamento. Muttoni, a capo dell’azienda Set Up (poi fallita a causa dell’inchiesta), era solito donare biglietti omaggio per i propri eventi. Il suo legale ha calcolato che circa 8.000 biglietti omaggio furono distribuiti nel corso degli anni al centro dell’inchiesta ad autorità, funzionari, giornalisti, magistrati e altre personalità. I giudici di Torino hanno concluso (in maniera anche discutibile) che solo in un caso si sarebbe configurato il reato di corruzione, ma questo è andato in prescrizione. Anziché limitarsi, comunque, alla disquisizione delle questioni giuridiche, il tribunale di Torino si lancia in una lezione storica sul divieto di effettuare donazioni a pubblici dipendenti, partendo da quanto avveniva nel “tardo impero romano” per poi giungere ai giorni nostri: “Una lunga evoluzione storico-politica ha portato oggi a una completa inversione di prospettiva - scrivono i giudici - Secondo l’art. 98 della nostra Costituzione ‘i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazionè e i loro obiettivi primari devono essere il buon andamento e l’imparzialità (art. 97) senza che possa residuare spazio alcuno per pratiche comportamentali finalizzate al lucro personale; i pubblici funzionari sono retribuiti per la loro attività esclusivamente dallo stato (o dagli altri enti pubblici), e devono astenersi dal richiedere o accettare denaro o altre utilità dai privati fruitori dei servizi”. A questa lezione di storia si aggiungono poi commenti di carattere etico. Fare regali ai pubblici ufficiali “è un’abitudine che dovrebbe semplicemente cessare”, affermano i giudici, anche se nella vicenda in questione, come detto, sul piano penale non è emersa alcuna prassi di regali con finalità corruttiva. E ancora: “Ad avviso di questo collegio ciò dovrebbe imporre una radicale revisione critica (in senso abrogativo) di tutte quelle norme amministrative interne e - sul versante opposto - di quelle policy aziendali che invece prevedono e consentono che i privati consegnino omaggi ai pubblici ufficiali chiamati a rilasciare pareri o autorizzazioni nei loro confronti”, scrivono i giudici. Il dubbio sorge spontaneo: siamo ancora in Italia o in Iran? No al carcere per il minore se c’è un vissuto di estremo disagio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 4 luglio 2025 Il ragazzo aveva tentato di uccidere la madre. La pericolosità sociale non esclude però la misura alternativa che va favorita in un’ottica di recupero. Aveva tentato di uccidere la madre, ospite con il ragazzo e altri tre fratelli minori di una casa di accoglienza. I media avevano parlato di un raptus di follia, per la Cassazione, che accoglie il ricorso del legale del minore, contro la custodia cautelare in carcere, va valutato invece il contesto di estremo disagio familiare in cui l’atto era maturato e che aveva portato alla sospensione della potestà per entrambi i genitori. Per la Suprema corte ad un minore incensurato, malgrado l’accertata pericolosità sociale, deve essere concessa in un’ottica di recupero, la chance di evitare il carcere. Il sedicenne, nella notte del 25 marzo scorso, aveva preso un coltello nella cucina della struttura dove era ospitato con la madre e i fratelli e, al termine di un’accesa lite, aveva accoltellato al torace e alle spalle la madre, di origine pakistana. Un’aggressione che non aveva avuto un esito fatale solo grazie all’intervento di altre persone che vivevano all’interno dell’istituto. La Suprema corte, pur confermando il tentato omicidio e la estrema pericolosità sociale del ricorrente vista l’aggressività dimostrata, sposta l’attenzione sul suo vissuto e sulle ragioni che lo hanno spinto a commettere un reato così grave. Il Codice del processo minorile e le misure alternative - Un “internamento” con i suoi fratelli più piccoli in una casa di accoglienza che aveva avuto esiti assolutamente negativi. Il profondo senso di ingiustizia provato per l’allontanamento dal padre, considerato dal giovane non responsabile dei gravi contrasti tra i genitori, entrambi sospesi dalla patria potestà per le reciproche denunce e per l’inadeguatezza a prendersi cura dei figli minori, poco più che bambini, vissuti in una situazione di estremo disagio. “Condizioni personali e familiari che avevano determinato il minore - si legge nella sentenza - ad aggredire la madre” che dovevano essere valutate rigorosamente ai fini dell’azione di misure meno restrittive. A consigliarlo c’era l’incensuratezza del ragazzo, e lo stesso Dpr 448/1988 sul processo minorile che, con l’articolo 20 punta a privilegiare un percorso educativo, favorendo l’adozione di misure alternative al carcere. Nello specifico c’era anche la disponibilità di familiari ad accogliere il giovane, che non avrebbe così vissuto né con il padre né con la madre. Una via, quella delle misure alternative, che va percorsa - avverte la Cassazione - per rendere concrete le prospettive di recupero degli under 18, anche in casi, come quello esaminato, in cui è manifesta la pericolosità sociale. Abuso d’ufficio, la Consulta: scelta politica e discrezionale di Simona Musco Il Dubbio, 4 luglio 2025 Per i giudici della Corte costituzionale, la scelta di abrogare il reato non contrasta con la Convenzione di Mérida. Gli “indubbi vuoti di tutela” questione meramente politica. Nessuna violazione della Convenzione di Mérida. Nessuna disparità costituzionale. E nessuna possibilità, per la Corte costituzionale, di sostituirsi al Parlamento nella scelta di abrogare un reato. Con una sentenza densissima e destinata a segnare un precedente importante, la Consulta ha dichiarato inammissibili o infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale sollevate da quattordici giudici, compresa la Corte di Cassazione, contro la legge 9 agosto 2024, n. 114, che ha cancellato il reato di abuso d’ufficio dal codice penale. “Né il tenore letterale delle disposizioni della Convenzione di Mérida evocate dai rimettenti, né la loro ratio e collocazione sistematica, né - ancora - i relativi travaux préparatoires supportano in alcun modo la tesi secondo cui dalla Convenzione stessa deriverebbe un obbligo di introdurre il reato di abuso d’ufficio o un divieto di abrogarlo”, scrive la Corte nella sua conclusione. I magistrati avevano denunciato un presunto contrasto tra l’abrogazione dell’abuso d’ufficio e la Convenzione Onu contro la corruzione (Uncac), sostenendo che questa impedirebbe la cancellazione del reato se già presente nell’ordinamento al momento della ratifica (il cosiddetto divieto di regresso); l’articolo 3 della Costituzione italiana, per presunta irragionevolezza nella disparità tra condotte non più punibili e altre meno gravi ancora perseguite; l’articolo 97 della Costituzione, per il vuoto di tutela contro abusi di pubblici ufficiali, specie in presenza di conflitti di interesse. La Corte ha però smontato uno a uno questi argomenti. Sui vincoli internazionali, la Corte ha riconosciuto che le censure fondate sull’articolo 117, primo comma, della Costituzione sono ammissibili, ma non fondate. L’articolo 19 della Convenzione di Mérida - unico dedicato all’abuso di funzioni - prevede, infatti, solo un obbligo di “considerare” l’introduzione del reato. Un testo “inequivoco”, scrivono i giudici della Consulta, che hanno ribadito come “la Convenzione ha scelto di affidare la valutazione comparativa dei benefici attesi e delle conseguenze negative dell’incriminazione delle condotte di abuso d’ufficio alla prudente discrezionalità del legislatore di ogni Stato; e ciò anche a fronte della varietà di soluzioni sul punto presenti negli ordinamenti penali degli Stati firmatari”. Anche la Corte di Cassazione, nella sua ordinanza, aveva ipotizzato che l’abrogazione violasse un obbligo implicito - in virtù dell’articolo 7 della Convenzione - di mantenere standard efficaci di contrasto alla corruzione, ma i giudici costituzionali smentiscono anche questa lettura: il paragrafo 4 dell’articolo 7, infatti, impone solo un obbligo generico di impegno (“shall endeavour”) a favore di sistemi che “favoriscono la trasparenza e prevengono i conflitti di interesse”, senza però imporre alcuna misura specifica né vietare l’abrogazione di reati già introdotti. Inoltre, l’articolo 7 fa parte del Capitolo II della Convenzione, dedicato alla prevenzione, mentre l’articolo 19 sull’abuso d’ufficio - che già non contiene obblighi vincolanti - è collocato nel Capitolo III, relativo alle misure repressive di diritto penale. Quindi “è assai arduo - scrive la Corte - ipotizzare che dagli obblighi di natura puramente preventiva di cui all’articolo 7, paragrafo 4, possa derivarsi in via interpretativa il divieto di abrogare una disposizione incriminatrice”. La Consulta respinge anche l’idea, avanzata dalla Corte di Cassazione, secondo cui l’abrogazione del reato sarebbe legittima solo se accompagnata da misure compensative: “Non pare evincibile alcun obbligo di risultato, il cui conseguimento possa essere valutato da questa Corte in sede di giudizio di legittimità costituzionale”, scrivono ancora i giudici. La conclusione è netta: la Corte non può “sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore”. Se gli “indubbi” vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato “possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere - aggiunge la sentenza - è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte”. Sui profili costituzionali interni, la Corte ribadisce un principio consolidato: il divieto emettere sentenze che producano effetti peggiorativi per gli imputati. “L’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione”, recita la sentenza. “Le esigenze costituzionali di tutela sottese all’articolo 97 della Costituzione - aggiungono i giudici - non richiedono necessariamente l’attivazione della tutela penale, ben potendo essere soddisfatte attraverso una pluralità di strumenti alternativi”. Insomma, secondo la Corte, la scelta del legislatore rientra nell’ambito della discrezionalità politica, che non può essere sindacata se non in presenza di obblighi costituzionali o internazionali precisi. Emilia Romagna. Carceri, ecco il piano regionale per la prevenzione del rischio suicidi parmatoday.it, 4 luglio 2025 Staff multidisciplinari per favorire la massima sinergia tra operatori penitenziari e sanitari; stretta collaborazione con i servizi sociali e sanitari territoriali, per intercettare in tempi rapidi i possibili comportamenti lesivi; percorsi clinici personalizzati, che accompagnano il detenuto dal momento del suo ingresso nell’istituto penitenziario fino all’uscita dal carcere; prime visite per la valutazione del grado di rischio suicidario, con ulteriori rivalutazioni psicologiche e psichiatriche, e programmi individuali di presa in carico per affrontare situazioni che nel tempo possono cambiare. Già nel nome, “Piano regionale per la prevenzione del rischio suicidario nel sistema penitenziario per adulti - Linee di indirizzo 2025”, è racchiuso l’importante e ambizioso obiettivo: contrastare quello che l’Organizzazione mondiale della sanità identifica come una delle principali cause di morte tra le persone detenute, il drammatico fenomeno del suicidio in carcere. Per farlo, Regione e Amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche hanno unito le forze dando vita, dopo due anni di lavoro, al documento, approvato nell’ultima seduta di Giunta, che aggiorna le precedenti Linee guida del 2018 puntando a migliorare l’efficacia delle misure di prevenzione e a fornire ai professionisti coinvolti un utile strumento di lavoro. Tutte le strutture penitenziarie della regione e le Aziende Usl dovranno dotarsi di un Piano locale che costituisca la declinazione operativa del Piano regionale e dell’Accordo nazionale, in linea con le indicazioni dell’Oms. “La prevenzione del suicidio in carcere- sottolinea l’assessore regionale alle Politiche per la salute, Massimo Fabi-non è solo una questione sanitaria, ma un dovere politico, etico e civile. Con l’Amministrazione penitenziaria abbiamo sempre lavorato per contrastare questo drammatico fenomeno, in crescita in tutta Italia, mettendo in campo soprattutto negli ultimi anni una serie di azioni volte a prevenirlo. Ora, insieme, abbiamo provato a costruire un nuovo modello, che mette al centro la persona, valorizza il lavoro di squadra e promuove un carcere più umano, dove nessuno sia lasciato solo nel proprio dolore, o peggio nella disperazione. Ogni vita conta, anche dentro gli Istituti penitenziari, dove aumentano, anche a causa del sovraffollamento, i casi di suicidio. Con questo Piano - chiude Fabi - ci auguriamo di fare un salto di qualità, in Emilia Romagna, nella tutela della salute dei detenuti e nella prevenzione del rischio suicidario”. “Con grande soddisfazione presentiamo un lavoro lungo e complesso che dopo due anni di serrati confronti permette di affrontare il disagio penitenziario e il tema dei suicidi in modo congiunto - aggiunge Silvio Di Gregorio, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna e Marche. Il documento racchiude una strategia di intervento dove tutte le amministrazioni e le persone coinvolte si prendono cura in modo sinergico e complementare della persona detenuta e dei suoi bisogni. Questo modo di procedere permette di spacchettare la complessità dei bisogni della persona in molteplici e variegati interventi mirati agiti dalle varie competenze in campo, assicurando azioni di prevenzione e sostegno mirate e altamente performanti”. I principali contenuti del Piano Il Piano si propone di intervenire sull’intero contesto detentivo, promuovendo la creazione di una rete di attenzione estesa e capillare che coinvolge tutte le figure presenti in carcere: personale sanitario, agenti di polizia penitenziaria, educatori, volontari, compagni di detenzione, familiari. L’obiettivo è intercettare precocemente, già dall’ingresso, i segnali di disagio, anche nei cosiddetti “casi silenti”, ovvero quei detenuti che non manifestano apertamente sofferenza ma che possono essere a rischio. Ogni istituto penitenziario dovrà dotarsi di un Piano locale di prevenzione redatto congiuntamente dalla direzione dell’istituto e dall’Azienda Usl competente: il Plp dovrà prevedere protocolli operativi, strumenti di valutazione, modalità di segnalazione e presa in carico, oltre a momenti di formazione congiunta per tutti gli operatori. Elemento centrale del nuovo modello è l’Unità locale prevenzione suicidi, l’organo collegiale multidisciplinare competente da costituire in ogni Istituto penitenziario, che deve riunirsi settimanalmente ed è composto da un referente dell’Amministrazione penitenziaria e dell’Ausl di competenza e può coinvolgere a vario titolo nella gestione del caso anche servizisociali, mediatori, volontari, ministri di culto, ecc. Allo staff multidisciplinare spetta l’analisi congiunta delle situazioni a rischio e definire i piani individuali di intervento. Particolare rilievo viene dato alla sinergia tra operatori penitenziari e sanitari e alla stretta collaborazione con i servizi sociali e sanitari territoriali, con la Magistratura, i Garanti, gli Ordini degli avvocati, il volontariato e i familiari dei detenuti, favorendo l’estensione a tutta la popolazione detenuta delle iniziative di prevenzione, da articolarsi sull’intero arco della detenzione e non solo nella fase di accoglienza. Viene anche introdotto un sistema di grading del rischio suicidario (lieve, medio, alto), basato su criteri clinici e comportamentali. A ciascun livello corrispondono azioni specifiche: dalla semplice osservazione alla presa in carico intensiva, fino al ricovero ospedaliero nei casi più gravi; particolare attenzione è riservata ai detenuti appena entrati in carcere, considerati tra i soggetti più vulnerabili. La valutazione del rischio è da predisporre sia all’ingresso presso l’istituto, sia ogni qualvolta, in relazione a mutamenti delle condizioni personali e/o detentive, vengano rilevati segnali di disagio. Nel caso in cui venga rilevata una condizione di rischio suicidario alto e/o una condizione di compenso psicopatologico di gravità tale da determinare la necessità di un intervento sanitario specialistico continuativo, il detenuto deve essere inviato con urgenza presso un luogo esterno di cura per le cure necessarie. Grande importanza assume la formazione: a livello locale, le Aziende Usl e le Direzioni degli Istituti penitenziari organizzano percorsi congiunti per favorire, attraverso il confronto e lo scambio tra gli operatori, l’efficienza e l’efficacia organizzativa relativa alla prevenzione dei suicidi e il miglioramento della integrazione degli interventi e delle procedure disposte con i Protocolli locali. Previsto anche un sistema di monitoraggio e audit per valutare l’efficacia degli interventi. Infine, poiché l’impatto di un suicidio ha un peso che non può essere trascurato, i Piani locali devono prevedere azioni di supporto psicologico per il personale e per gli altri detenuti coinvolti, al fine di elaborare l’evento traumatico e prevenire ulteriori crisi. Emilia Romagna. “Lascia un segno”, nelle carceri emiliane i poster dei detenuti gnewsonline.it, 4 luglio 2025 Poster da realizzare e attaccare negli spazi comuni delle 10 carceri dell’Emilia; 3.800 i detenuti coinvolti. Parte la campagna “Lascia un segno”, promossa dall’agenzia di comunicazione Ad Store in collaborazione con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche e il Garante regionale dei detenuti dell’Emilia. Si tratta del primo progetto di comunicazione in assoluto nei penitenziari. Presentata ieri presso la sede di Ad Store, l’iniziativa è frutto di un protocollo d’intesa triennale con il Prap e il Garante emiliano. I messaggi curati da Ad Store e racchiusi nei poster sono incentrati su temi “vicini” ai detenuti, ma anche agli altri attori della comunità penitenziaria: agenti, operatori, volontari. Per esempio, scritte di supporto emotivo per prevenire i suicidi; parole per incentivare la partecipazione ai percorsi trattamentali. Spazio anche a messaggi per rafforzare il rispetto reciproco e contrastare i pregiudizi. I detenuti coinvolti realizzeranno vetrofanie e poster dei materiali più vari con l’aiuto del tatuatore professionista Antonio Serreli, in arte Anse. La comunicazione strategica è “un valore aggiunto”, per il provveditore regionale Silvio Di Gregorio; perché, prosegue, “restituisce umanità nella misura in cui è rivolto ad ogni uomo riconoscendolo portatore di diritti e contestuali doveri. Perché lo coinvolge e lo sprona ad assumersi la responsabilità di scrivere ogni giorno pagine della sua storia al servizio del superiore bene collettivo”. Roberto Cavalieri, Garante dei detenuti dell’Emilia, pone l’accento sulla convivenza di persone diverse nei penitenziari, sia per cultura ed etnia, sia per professionalità. “Un progetto di comunicazione - commenta il Garante - è quello che manca nella comunità penitenziaria che ha bisogno, nella sua complessità, di riconoscersi in messaggi e principi che diventano facilitatori di coesione e di convivenza”. Il progetto è stato presentato dalla presidente di Ad Store Natalia Borri insieme al giornalista Rai Luca Ponzi, alla presenza di diversi rappresentanti istituzionali della Regione Emilia-Romagna. Milano. Il carcere di San Vittore è fuori controllo: otto in una cella a 40° gradi di isabella de silvestro Il Domani, 4 luglio 2025 Milano, San Vittore: la casa circondariale pensata per 450 persone ne ospita oggi 1.111, con temperature interne alla struttura che raggiungono i 37 gradi. I detenuti con dipendenze sono 600, mentre 400 presentano problemi psichiatrici accertati. È questo il quadro emerso mercoledì 2 luglio durante la visita dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone. San Vittore non è un’eccezione: rappresenta oggi lo stato del sistema penitenziario italiano. Una crisi strutturale fatta di sovraffollamento, marginalità sociale, carenza di personale e condizioni sanitarie e ambientali insostenibili. Il tasso di sovraffollamento, al 247 per cento, è il più alto del Paese. Dei detenuti presenti, il 67,3 per cento è di origine straniera, quasi il 20 per cento ha meno di 24 anni, e tre sono i minorenni in attesa di trasferimento in strutture adeguate. Uno di loro verrà mandato a Catanzaro: è il primo posto disponibile, a oltre 1.000 chilometri di distanza. Un caso che riflette il livello di saturazione senza precedenti del sistema penale minorile e le conseguenze del decreto Caivano. Alle condizioni di sovraffollamento si sommano quelle igienico-sanitarie e ambientali. Due celle sono state chiuse per un’infestazione da cimici del letto. I reparti sono per lo più chiusi, il che significa che i detenuti hanno il diritto di lasciare la cella solo per l’ora d’aria, da trascorrere in cortili roventi. L’unico sollievo al caldo soffocante è l’acquisto privato di ventilatori, al costo di 30 euro, inaccessibile per molti detenuti. Non più di due per cella, anche quando questa ospita fino a otto persone. Dal punto di vista della salute mentale, la situazione è altrettanto tragica. Solo a maggio si sono registrate 497 visite psichiatriche, segno di una domanda di cura che il carcere non è in grado di soddisfare. Sono 217 le persone con diagnosi psichiatriche gravi e 171 quelle con disturbi di personalità o disagio mentale. La domanda che la politica continua a eludere è semplice: è davvero il carcere l’istituzione in grado di prendere in carico la sofferenza psichica di decine di migliaia di persone? A rispondere sono ancora una volta i numeri: 36 suicidi dall’inizio dell’anno, l’ultimo dei quali proprio a San Vittore. Non si tratta di eventi isolati, né ha più senso parlare di emergenza. Queste morti sono l’esito prevedibile di politiche che criminalizzano povertà, immigrazione, tossicodipendenza e disagio mentale, senza prevedere misure di cura e accoglienza sul territorio, percorsi di recupero, presa in carico da parte dei servizi sociali o sanitari. A fronte di questi numeri, il carcere è privo di risorse sufficienti: mancano 150 agenti penitenziari rispetto all’organico previsto. L’Icam - l’istituto a custodia attenuata per madri detenute - è chiuso, e le donne con figli sono state trasferite a Bollate. Ogni mese San Vittore registra circa 300 nuovi ingressi. Tra le persone recluse, anche un uomo di 83 anni, senza fissa dimora, condannato per un reato di lieve entità. All’uscita non avrà una casa né alcuna misura alternativa predisposta e verrà quindi restituito alla marginalità che lo ha condotto in carcere. L’altissimo turnover di detenuti, la mancanza di supporto psicologico, la compressione degli spazi e delle possibilità di socialità rendono la vita quotidiana dei reclusi un orrore che nulla a che vedere con la rieducazione. “San Vittore non è un’eccezione: è lo specchio di un sistema penitenziario in piena crisi che ha smesso di garantire i diritti fondamentali”, dichiarano i portavoce di Antigone. “Ci uniamo all’accorato messaggio del presidente Mattarella, chiedendo subito una risposta concreta al sovraffollamento e alle condizioni delle strutture penitenziarie, a partire dalla riduzione della popolazione detenuta, da un investimento reale nella salute mentale e da un piano straordinario per l’emergenza climatica nelle carceri”. Treviso. “Visita choc in carcere. Così è nata la donazione di noi giovani magistrati” di Alice D’Este Corriere del Veneto, 4 luglio 2025 “L’Istituto penale per minorenni di Treviso? Parlare di condizioni estreme è poco. Sovraffollamento a parte, si tratta di una struttura vecchissima, sporca, fatiscente. Tanto per dare un’idea: i ragazzi sono costretti a farsi la doccia con i piedi appoggiati su una grata posizionata sopra al bagno alla turca”. Giovanni Costa è un magistrato veneziano di 32 anni. Ed è uno dei 23 magistrati ordinari in tirocinio (Mot) entrati il 24 aprile scorso negli istituti penitenziari di Venezia e Padova, e nell’Ipm carcere minorile di Treviso. Colpiti dalle condizioni estreme dell’istituto trevigiano, hanno deciso di fare colletta per una donazione. Che istituti avete visitato? “Ne abbiamo visti diversi e siamo rimasti estremamente stupiti in negativo. Siamo andati al maschile di Venezia e di Padova, al femminile di Venezia e all’IPM di Treviso, appunto. Anche negli altri istituti naturalmente ci sono delle criticità, ma da nessuna parte si arriva alle condizioni da brivido che abbiamo visto a Treviso. Se ne parla ma in realtà non si conoscono veramente le condizioni di queste strutture. Che sono davvero estreme e naturalmente impattano molto sulle persone che ci vivono, tanto più in un’età delicata come quella degli adolescenti in cui dovrebbe avere valore ancora maggiore il percorso rieducativo”. Cosa avete visto nell’IPM? “Sovraffollamento estremo. Stanze con materassi a terra perché le persone non ci stavano nei letti, totale assenza di spazi per lo sport. C’è un accesso settimanale ai campi della struttura ordinaria di Treviso, non ci sono altre strutture, non hanno uno sfogo di quel tipo. C’è un cortile, certo, ma è piccolo e non attrezzato e c’è una stanza chiusa con un paio di tavoli da ping pong. Anche le stanze per lo studio sono piccolissime. A queste condizioni viene messo a rischio anche il percorso rieducativo. I ragazzi dormono in tuguri. Hanno tante persone in più, stanze potenzialmente da due raddoppiano la capienza a seconda delle esigenze del momento (l’IPM di Treviso è il più sovraffollato d’Italia, con presenze arrivate anche a 29 ragazzi in celle pensate per 12 posti, ndr)”. I detenuti vi hanno parlato? “Hanno espresso insofferenza estrema, con modalità da ragazzini. Gli siamo sembrati più giovani dei giudici che incontrano normalmente e quindi si sono aperti di più, ma la sofferenza è evidente”. Al punto che voi magistrati in visita avete deciso di fare una colletta... “Sì, abbiamo fatto una donazione al parroco della struttura lasciando che utilizzasse i fondi come più riteneva opportuno. E lo abbiamo fatto in totale riservatezza. Ci è sembrato giusto”. C’è qualcosa che funziona bene nell’istituto minorile? “Quello che c’è di positivo sono sicuramente i tanti operatori e le risorse umane che lavorano lì con coscienza e competenza. Ma problemi strutturali così importanti rendono vano anche il percorso rieducativo. La società non ha consapevolezza vera di queste condizioni critiche. Io stesso avevo visto molti penitenziari prima ma condizioni così critiche non mi erano mai capitate”. Una recente proposta di legge intende obbligare i futuri magistrati a 15 giorni e 15 notti in carcere, in modo che sperimentino le condizioni che si troveranno poi a infliggere con arresti e sentenze... “Non esageriamo. Non sto dicendo che sia opportuno quello. Le visite che si fanno oggi nei periodi di tirocinio però sono sicuramente utili, per me lo sono state. A dicembre comincerò il mio percorso con una consapevolezza in più”. Napoli. Carceri, intervista al Pg Aldo Policastro: “Ora misure alternative” di Petronilla Carillo e Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 4 luglio 2025 “Oggi le carceri scoppiano, e le criticità aumenteranno ancora fin tanto che si continuerà a introdurre nel codice penale nuove figure di reato. Serve una risposta, subito, perché il carcere non può essere l’unica risposta al problema. E serve un più ampio ventaglio di ipotesi alternative alla detenzione carceraria nella fase dell’esecuzione di pena”. Nella scia dell’allarme lanciato dal Capo dello Stato solo pochi giorni fa il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, Aldo Policastro, fa il punto sulla situazione che vive uno dei distretti giudiziari tra i più complessi e articolati d’Italia. Il presidente Mattarella ha lanciato l’allarme: le carceri sono diventati luoghi invivibili, e ci sono troppi suicidi... “La situazione è tragica. Da quando mi sono insediato ho dato priorità alle problematiche legate alle carceri del distretto. Poggioreale oggi è un’emergenza umanitaria. Per questo dicevo che la continua introduzione di fattispecie di reato finisce col determinare anche una ricaduta pesante sul sistema carcerario”. Che cosa serve? “I reati ostativi, quelli che impediscono di concedere misure alternative come i domiciliari, aumentano. È vero che il tasso di delinquenza qui è molto alto, ma il carcere non può essere l’unica soluzione al problema. Bisogna abbassare il numero delle ipotesi di reato per le quali è previsto il carcere, limitandosi a quelle più gravi; e al tempo stesso servirebbero più misure alternative alla detenzione intramuraria in esecuzione di pena”. E il braccialetto elettronico? “Un’ottima idea, ma bisognerebbe farlo funzionare efficacemente. Invece i braccialetti sono pochi, e talvolta non funzionano. Ma, ripeto, in via prioritaria si dovrebbe optare per una scelta di diritto penale “essenziale”, limitato cioè alle fattispecie di più grave allarme sociale. Invece si va in direzione opposta e si creano nuove ipotesi di reato: c’è un trend di inserimento continuo che produce più denunce e querele. Il solo decreto sicurezza introduce 12 nuove figure di reato”. Drammatica è anche la situazione dei presìdi sanitari e dell’assistenza medica nelle carceri: e anche qui Poggioreale e Secondigliano soffrono carenze e ritardi... “Oggi sempre meno medici scelgono di andare a lavorare in carcere. La sanità, la garanzia di un servizio peraltro costituzionalmente garantito, deve valere anche per i detenuti: mi sono imbestialito quando ho saputo che a Poggioreale ci sono le strumentazioni per le radiografie e le ecografie ma non c’è il personale medico che le faccia funzionare, se non a scartamento ridotto. Per questo ho rivolto un appello alla generosità dei medici specialisti, ho incontrato il presidente dell’Ordine dei medici che ha offerto la sua disponibilità nel rintracciare specialisti volontari che facciano funzionare quegli strumenti. Come disponibili sono anche varie realtà di volontariato, si tratta di individuare con la ASL gli strumenti per rendere concrete queste disponibilità. Sono fiducioso. È inaccettabile che per la mancanza di un radiologo un detenuto sia costretto ad andare in ospedale: il che vuol dire disporre ogni volta una scorta tre agenti penitenziari, un mezzo e risorse economiche”. Passiamo all’organizzazione degli uffici giudiziari. Qual è oggi la situazione nel distretto? “Nella sola Procura generale abbiamo una scopertura di magistrati del 15%, mentre la media delle altre Procure si attesta al 20%. Per non parlare del personale amministrativo. A Nola siamo in emergenza: ne manca circa il 40%”. Perché continua a crescere l’emergenza minori? “La Procura per i minori di Napoli sta facendo un lavoro egregio, il contrasto alle devianze c’è. Il fenomeno è complesso e dobbiamo interrogarci soprattutto su come intervenire per bloccare l’uso delle armi: il che è molto difficile, soprattutto quando parliamo di coltelli”. Facciamo il punto sulla camorra... “I gruppi criminali organizzati sono ancora forti, malgrado le investigazioni, gli arresti, i 41 bis, i sequestri patrimoniali. Ma possiamo forse dire che l’Alleanza di Secondigliano o i Mazzarella si siano indeboliti? No di certo. Siamo ormai alla terza generazione di camorristi: che investono i profitti illeciti in maniera imprenditoriale muovendo enormi fortune grazie a imprenditori e prestanome compiacenti. E il riciclaggio avviene nelle attività commerciali e finanziarie. Noi non ci fermeremo nell’azione di contrasto”. È ottimista? “La speranza non va mai abbandonata”. Venezia. Dal carcere a piazza San Marco: i detenuti saranno carpentieri, muratori e informatici di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 4 luglio 2025 Il protocollo d’intesa tra la procura, la casa circondariale e il patriarca Francesco Moraglia: “Una possibilità per riabilitarsi”. La Basilica di San Marco si apre ai detenuti. Lo hanno annunciato mercoledì 2 luglio nella sala conferenze di Sant’Apollonia il patriarca Francesco Moraglia, il primo procuratore Bruno Barel ed Enrico Farina, direttore del carcere maschile di Santa Maria Maggiore, firmando un protocollo d’intesa. Non appena ci saranno i margini giuridici che permettono a un ristretto gruppo di lavorare in regime di semilibertà, la Procuratoria (ente che ha competenze di tutela, amministrazione e manutenzione della Basilica) si è detta disponibile ad accogliere restauratori, carpentieri, muratori e informatici, ma non solo. Personale e reclusi in Basilica - Fedeli al principio che la Basilica di San Marco è di tutti, la Procuratoria ospiterà il personale della casa circondariale e i reclusi autorizzati per delle visite guidate all’interno ed entrerà in carcere per mostrare attraverso filmati e illustrazioni, le opere d’arte che custodisce. “Con la gestione della pena si gioca la cultura della società - ha detto il Patriarca - I due momenti più difficili per chi è in carcere sono l’ingresso e l’uscita, quando subentra la paura di rientrare nella società. Chi sbaglia è giusto che paghi, ma anche che si offra una pena riabilitativa alla persona”. Casa Vianello a Mestre - A questo proposito Moraglia ha anche ricordato come la Curia stia lavorando per aprire la Casa Vianello a Mestre da dieci posti per chi esce dal carcere e non sa dove andare e come sia da subito disponibile un appartamento a Marghera con quattro posti. “Vogliamo dare un contributo concreto all’attuazione dei valori costituzionali che riconoscono dignità alle persone recluse”, ha aggiunto Barel ricordando il contributo della Caritas e di Renato Brunetta, presidente del Cnel e procuratore. “Come Cnel abbiamo già proposto un disegno di legge per incentivare la formazione e il lavoro in carcere - ha spiegato Brunetta, anche lui procuratore di San Marco - Sempre il Cnel ha supportato lo studio del Censis Recidiva Zero che dimostra come la recidiva si abbassi dal 70 al 2 per cento quando un soggetto lavora. Questo dimostra come il lavoro in carcere sia importante per la società e per l’individuo”. La ricerca di lavoratori nelle carceri - Nel corso dell’incontro, come ha raccontato Farina, è emerso quanto le aziende puntino sempre di più a cercare lavoratori nelle carceri. “Grazie alla Legge Smuraglia il privato - ha spiegato il direttore - può beneficiare di una riduzione degli oneri contributivi che può arrivare al 95 per cento e ottenere un credito d’imposta fino a 500 euro”. A oggi comunque le società sembrano intenzionate anche ad assumere oltre i sei mesi se la persona dimostra motivazione e serietà, come avvenuto in diversi casi. “Il nostro carcere ha una capienza di 165 detenuti e ora ne ospita 275 - ha proseguito Farina - Oggi ci sono 90 detenuti che lavorano nei settori della ristorazione, della manutenzione e del Cup dell’azienda Serenissima”. I benefici del lavoro in carcere - Il Patriarca Moraglia ha in sintesi riassunto i benefici del lavoro in carcere: la persona detenuta può riappropriarsi della dignità e dimostrare a se stessa di avere una seconda possibilità per tornare nella società e la società stessa mette in pratica la Costituzione e il diritto a una pena riabilitativa. Infine, la Procuratoria contribuisce alla crescita della persona aprendo le porte alla fede e alla bellezza delle opere della Basilica per compensare la condizione di essere tra le mura di un istituto. Padova. L’appello del Garante che si affida alle donazioni: “Due Palazzi, servono 150 ventilatori” padovaoggi.it, 4 luglio 2025 Il Garante delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Padova, Antonio Bincoletto, si fa portavoce di un appello molto importante. Da un sondaggio che in questi giorni il garante ha promosso assieme alle associazioni del volontariato, nella Casa di reclusione risulterebbero necessari circa 150 ventilatori da fare avere a persone incapienti in modo da consentite loro di sopportare il caldo estremo di questi giorni. “Abbiamo chiesto donazioni in tal senso ad associazioni professionali e speriamo arrivino presto i fondi necessari, ma approfittiamo per chiedere ad enti e privati di buona volontà di effettuare versamenti agli Istituti di reclusione di via Due Palazzi con causale “ventilatori per incapienti”, affinché si riesca a fronteggiare perlomeno questa emergenza climatica, che si somma alla difficile situazione in cui versano da tempo le nostre carceri”, scrive Bincoletto. “Il presidente Mattarella ci ricorda periodicamente che esiste un’emergenza carcere, dovuta al sovraffollamento, ai suicidi, alla scarsità di personale, alle inadeguatezze del sistema dell’esecuzione penale, che fatica a svolgere compiutamente la funzione costituzionale affidatagli. Dopo la morte di papà Francesco è rimasto lui e pochi altri (fra questi i garanti) a tenere viva l’attenzione e a lanciare l’allarme. Purtroppo rimaniamo in buona parte inascoltati dai politici che dovrebbero intervenire, troppo intenti a negare l’evidenza e a cavalcare l’imperversante ondata di populismo pan-penalistico e pseudo-securitario”, sottolinea amaramente il garante. “Bisogna entrare nel carcere per capire l’emergenza, toccandola con mano. Come sta succedendo a Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma ora detenuto a Rebibbia, il quale sta vivendo da dentro la realtà del nostro sistema di esecuzione penale, e ne denuncia quotidianamente i paradossi, le lentezze, le inadeguatezze”, dice facendo riferimento alla strettissima attualità. “Non bastassero il crescente sovraffollamento (abbiamo superato il 133% di presenze rispetto ai posti disponibili), il tasso di suicidi 20 volte superiore rispetto a fuori (dall’inizio dell’anno 38 persone recluse, oltre a tre agenti, si sono tolte la vita nelle nostre carceri), a rendere ancora più invivibile la detenzione ora giunge, con notevole anticipo e livelli di temperature mai raggiunte prima, l’ondata di caldo soffocante”, sottolinea ancora. Padova non fa eccezione, come fa notare Bincoletto: “Come in tutti gli istituti penali, anche nella Casa di reclusione di Padova si boccheggia. I locali dotati di aria condizionata sono pochi. Nei blocchi, dove i detenuti passano buona parte della giornata, l’unica stanza accessibile ai reclusi dotata di climatizzatore è la “saletta della socialità”, che però attualmente chiude alle 16, dopodiché le persone detenute devono rimanere chiuse nelle loro celle, dove possono disporre di un ventilatore solo se le loro condizioni economiche gli consentono di comperarlo. Un ventilatore regolamentare è acquistabile in carcere per 28€, ma molti ristretti non dispongono di tale cifra, non se lo possono permettere. E la pressione cresce, perché oltre al caldo ci sono gli odori e gli insetti che, con l’aumentare della temperatura, si diffondono e imperversano, nonostante le pulizie e le disinfestazioni periodiche”. Trieste. Temperature infernali ma Roma dice no ai climatizzatori: “Speriamo non muoia nessuno” triesteprima.it, 4 luglio 2025 Nel carcere del Coroneo il caldo torrido e il sovraffollamento “non fa notizia. Speriamo non vi siano decessi, perché sì, desta curiosità”. La critica arriva dal garante per i detenuti, l’avvocato Elisabetta Burla che nel pomeriggio di oggi ha diramato una nota di riflessione in merito alle elevate temperature che stanno interessando la città di Trieste. Proprio la nostra città, secondo un recente studio, rientra nelle zone d’Italia che presentano intensità crescenti nella formazione delle cosiddette isole di calore. Il carcere giuliano non è esente da ciò, e il rischio per gli stessi detenuti, che rientrano tra le persone a cui è riferito il concetto di “salute della popolazione”, è reale. Ma il punto in questione è che dei detenuti, tranne qualche eccezione, non si ricorda mai nessuno. Sul tema del caldo estremo nei luoghi di lavoro “an-che la Regione Friuli Venezia Giulia si è attivata adottando l’ordinanza per tutelare la salute dei lavoratori esposti a temperature elevate prevedendo la sospensione dell’attività lavorativa dalle 12.30 alle 16.00, anche negli ambienti di lavoro interni non climatizzati e non sufficientemente areati perché - anche in questo caso - vi può essere un impatto pericoloso per la salute delle persone”. Ma il fatto è che “anche in questa torrida estate le condizioni all’interno delle carceri viene ignorata, alla richiesta di ventilatori per garantire un livello minimo di dignità alle persone, la direzione si trova costretta a fare ricorso alle donazioni da parte del volontariato perché a livello ministeriale non viene presa in considerazione la possibilità di predisporre una climatizzazione dei locali che andrebbe a beneficio, anche, della polizia penitenziaria”. Così succede che in un carcere come quello del Coroneo, che dovrebbe contenere 135 persone ma ne ospita quasi il doppio, “il caldo non fa notizia”. Busto Arsizio. Apre lo Sportello di ascolto per le famiglie dei detenuti di Omar Macchi malpensa24.it, 4 luglio 2025 Aprirà giovedì 10 luglio - nella parrocchia di Sant’Anna - lo sportello di ascolto per i familiari dei detenuti nel carcere di Busto Arsizio. Un’iniziativa de La Valle di Ezechiele che fa seguito al percorso di formazione iniziato lo scorso febbraio e al grande impegno dei volontari. L’idea di uno sportello di ascolto nella parrocchia di Sant’Anna - a poco più di un chilometro dal carcere - risale già al 2022. Una progettualità condivisa con l’allora parroco don Michele Gatti e Monsignor Raimondi. Da qui, la nomina di Don David Riboldi, cappellano del carcere, a Sant’Anna. Da allora è stato creato ad hoc il locale che verrà adibito a sportello, messa in piedi l’organizzazione di volontariato (presieduta, come della cooperativa, da Anna Bonanomi), e sono stati realizzati i corsi di formazione. “Spesso non ci si pensa: quando una persona entra in carcere, c’è fuori un mondo di sofferenza e vulnerabilità”, spiega Don David. “Un mondo cui spesso la vergogna impedisce di chiedere aiuto. L’idea di un centro dedicato è proprio per togliere qualsiasi resistenza interiore. Perché ci si possa sentire a casa. E speriamo sia così”. Lo sportello sarà aperto il giovedì (dalle 16 alle 18) e il sabato (dalle 9.30 alle 10.30). Ma i familiari potranno mettersi in contatto con i volontari anche il martedì (dalle 16 alle 18) tramite telefono al numero 389 8334199 o per mail, scrivendo a sportello@lavallediezechiele.org. Nell’ambito del percorso di formazione, sono intervenuti alcuni referenti della Caritas, una psicologia che opera in alcune carceri territorio e il personale di polizia penitenziaria addetto all’ufficio colloqui della casa circondariale di Busto. Il confronto con la Caritas, poi, è continuato fino a giungere alla definizione della natura dello sportello di ascolto. Sondrio. “Uno sguardo da dentro”, i detenuti raccontano il carcere di Elisabetta Del Curto laprovinciaunicatv.it, 4 luglio 2025 Visitabile fino al 10 luglio, a Palazzo Pretorio, la mostra frutto del corso di fotografia tenuto da Domiziano Lisignoli all’interno della casa circondariale cittadina. Ventinove scatti realizzati dai detenuti. É stata inaugurata nel pomeriggio di martedì e sarà visitabile fino al 10 luglio, negli orari d’ufficio, cioè dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 16.30, la mostra “Uno sguardo da dentro, il carcere raccontato attraverso gli scatti dei detenuti” allestita nella sala espositiva al piano terra di Palazzo Pretorio a Sondrio, sede del Municipio. In esposizione 29 scatti selezionati fra quelli realizzati da sei detenuti della casa circondariale di via Caimi, a Sondrio, che hanno partecipato al corso di fotografia di 60 ore tenuto lo scorso anno in carcere da Domiziano Lisignoli, fotografo professionista di Borgonuovo di Piuro, formatore di Enaip. Proprio Enaip (Ente nazionale Acli di istruzione professionale) ha voluto scommettere su questa attività formativa introducendola nella casa circondariale e lo ha fatto d’intesa con la direzione carceraria, all’epoca in capo a Giulia Antonicelli oggi a Ylenia Santantonio, col comandante Mattia Bonanno, e col supporto economico della Fondazione Pro Valtellina. Il risultato è sfociato in una prima esposizione, per le sole autorità, tenutasi dentro il carcere il 24 novembre dello scorso anno, cui aveva fatto seguito una mostra di una sola giornata nella sede Enaip di Morbegno, e, ora, ecco la restituzione al pubblico del lavoro svolto. Maurizio Piasini, assessore ai Servizi sociali del Comune di Sondrio, presente all’esposizione in carcere, ne era rimasto colpito aprendo da subito all’ospitalità di Palazzo Pretorio dove, martedì, erano presenti anche il sindaco Marco Scaramellini e l’assessore alla Cultura, Marcella Fratta. “Ospitare una mostra di questo tipo significa dare un grande segno di speranza alle persone che si sono impegnate in questo corso di fotografia dagli esiti davvero eccellenti - dice Fratta -. É un racconto di quanto avviene nel carcere, ma è anche un desiderio di mettersi in contatto con l’esterno, di migliorare, di offrire qualcosa di bello e di significativo e spero che i cittadini possano apprezzare”. All’assessore Fratta sono piaciute tutte le foto presentate, ma, in particolare, quella con lo specchio rotto realizzata dall’unico corsista ancora in carcere a Sondrio e che ha ottenuto il permesso dal direttore Santantonio per presenziare all’inaugurazione affiancato dalla polizia penitenziaria in borghese. “I detenuti hanno affrontato con entusiasmo questo percorso formativo - assicura Angie Ignazzi, funzionario giuridico pedagogico in via Caimi -. Uno di loro ha scoperto anche un possibile talento e ne siamo felici perché le attività effettuate devono tendere a questo, a stimolare le parti positive delle persone favorendone il reinserimento sociale”. Entusiasta il fotografo Lisignoli che ha preso per mano i presenti all’inaugurazione spiegando il percorso condotto in carcere e contestualizzando ogni singola foto. “É stata un’esperienza fortissima, per me - assicura -, il progetto più impegnativo che abbia mai affrontato, ma anche il più arricchente. L’approccio è stato traumatico. Varcare la soglia della sezione carceraria, pur sapendo che ne sarei uscito poche ore dopo, è stato scioccante. Uno smarrimento che ho voluto ricostruire anche qui, con la prima sala dedicata allo smarrimento, allo stordimento dell’ingresso in carcere, e la seconda alla ripresa, alla ricerca di relazioni. Questo lavoro è stato impegnativo, ma mi ha lasciato tanto rispetto per le persone detenute con cui ho collaborato bene. Persone, appunto”. Un percorso che “Enaip non esclude di replicare al netto delle tante iniziative formative e di reinserimento già in essere”, dice Bryan Pace, formatore tutor del medesimo, e che Valeria Garozzo, di Pro Valtellina, si è detta lieta di aver sostenuto “stanti anche gli eccellenti risultati”. Civitavecchia (Rm). Dal carcere al lavoro: con le pinse nasce una seconda possibilità di Daria Geggi laprovinciacv.it, 4 luglio 2025 All’interno della casa circondariale di Borgata Aurelia, a Civitavecchia, è stato inaugurato un laboratorio di panificazione che rappresenta molto più di un semplice progetto produttivo: è una vera possibilità di riscatto per 25 detenuti, assunti con regolare contratto della Federazione Nazionale Panificatori e impegnati sei giorni a settimana in turni di cinque ore e mezza per la produzione di pinse e pizze. Un investimento importante, sia in termini economici - 600mila euro messi sul piatto dall’azienda GustoLab 360 solo per i macchinari - sia umani, con due anni e mezzo di lavoro e una collaborazione virtuosa tra pubblico e privato che ha coinvolto istituzioni, amministrazione penitenziaria, Regione Lazio, Enaip. Alla base del progetto, ideato da Angelo Panini, c’è l’idea che il lavoro sia la leva più concreta per restituire dignità a chi ha sbagliato, superando il carcere come luogo di sola espiazione per farne anche un’opportunità di cambiamento. Dopo sei mesi di formazione e un’attenta selezione curata dalla direzione del carcere, i detenuti hanno iniziato ufficialmente la produzione il 12 maggio scorso, raggiungendo oggi una media di oltre 2500 pezzi al giorno, con standard crescenti di qualità, riduzione degli scarti e un livello di professionalità che gli stessi formatori definiscono sorprendente. Il laboratorio, realizzato in un’area dell’istituto abbandonata da anni e riqualificata dallo Stato per l’occasione, è il primo passo di un progetto pilota che GustoLab intende esportare anche in altri penitenziari, a partire da un secondo impianto dedicato al senza glutine. Per Panini, “integrazione e cambiamento” sono le parole chiave: i detenuti formati avranno la possibilità, una volta scontata la pena, di essere inseriti stabilmente negli stabilimenti di Roma e Tivoli dell’azienda, oppure avviati in altri contesti produttivi grazie alle competenze acquisite. Una visione che guarda lontano, verso l’estero, approfittando anche della logistica offerta da un porto come quello di Civitavecchia per esportare il prodotto in Spagna, Francia e magari, un domani, in America. Ma la sfida è anche locale: come auspicato dall’ex direttore Patrizia Bravetti, tra i promotori del progetto, l’auspicio è che anche il territorio risponda, sostenendo e valorizzando un percorso che rende visibile l’articolo 27 della Costituzione, quello che richiama lo Stato e la collettività al dovere di offrire una seconda occasione. A ribadirlo, il presidente del tribunale di sorveglianza: “La recidiva zero non è un sogno, ma una possibilità concreta, se si parte dal lavoro”. Per tutti, alla fine della mattinata, applausi e diplomi. Dietro le pinse impastate ogni giorno in carcere, c’è molto di più: c’è l’idea che la giustizia possa passare anche dalla fiducia. Sanremo (Im). Nessuno tocchi Caino in carcere. Si discute “La fine della pena” di Giovanna Loccatelli La Stampa, 4 luglio 2025 L’unico modo per toccare con mano la realtà- descritta ormai da anni come “emergenziale” - è entrare nel carcere di Valle Armea, vedere le celle e parlare con il personale penitenziario e i detenuti. Questo farà oggi l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, la Camera Penale di Imperia e Sanremo e il garante dei diritti delle persone. L’iniziativa, dal titolo “la fine della Pena”, è organizzata in due tappe: la prima stamattina alle 10, 30 nel carcere per una visita riservata agli organizzatori; la seconda, il convegno dal titolo “‘Un garante per l’altra città” che si svolgerà alle16, 30 nella sala privata del casinò. Parteciperanno il sindaco Mager, il vicesindaco Fellegara, Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino”, presiederà l’incontro Marco Bosio, presidente della Camera Penale. “È un evento che organizziamo ogni anno da qualche anno. L’anno scorso lo abbiamo fatto ad agosto. Purtroppo la situazione all’interno del carcere va decisamente peggiorando” afferma Bosio. I problemi sul tavolo sono sempre gli stessi, aggiunge: “Tra i principali, il sovraffollamento dell’istituto e il numero degli agenti penitenziari non sufficiente rispetto al numero dei detenuti”. E riguardo alla dichiarazione del provveditore Antonio Galanti che “non ha notizie di accadimenti di rilievo a Sanremo”, la risposta è lapidaria: “Sono sconcertato e stupito: dà il senso del grado di controllo, pari a zero, del provveditorato regionale”. Un tema che Bosio ha tutta l’intenzione di trattare: “Ne parlerò con gli altri attori dell’iniziativa” conclude. Anche il vicesindaco Fellegara, assessore ai servizi sociali, interviene sul tema: “È importante sviluppare progetti a sostegno delle persone in uscita e in sostegno dei parenti dei detenuti”. È ormai da almeno tre anni che situazioni allarmanti si verificano ciclicamente all’interno della struttura, senza che nulla cambi. Il punto su cui agire adesso è la sicurezza di tutti: personale e detenuti. “Vite minori”, il libro-inchiesta di Raffaella di Rosa che dà voce ai ragazzi dimenticati corrieretneo.it, 4 luglio 2025 “Vite minori”, il nuovo libro-inchiesta della giornalista Raffaella di Rosa, edito dalla casa editrice il Millimetro, è un’opera che scuote le coscienze e ci mette davanti alle storie invisibili dei ragazzi reclusi negli Istituti penali per minorenni italiani. Una narrazione intensa, profonda, che affonda le mani nella realtà spesso nascosta dei più giovani tra i colpevoli, ma anche tra le vittime di un sistema educativo, familiare e sociale carente. “Le storie contenute in Vite minori non sono facili da digerire” - scrive Gaia Tortora, figlia di Enzo, in un commento che accompagna l’uscita del libro - “Alcune lasciano un nodo in gola, altre ci spingono a riflettere. Ma una cosa è certa: non possiamo dimenticarle”. L’opera raccoglie le testimonianze di adolescenti entrati nel circuito penale, ma anche di chi lavora quotidianamente con loro: educatori, agenti, magistrati, medici, preti. Storie come quella di Bilal, baby rapinatore dodicenne oggi affidato alla comunità Kayros di Don Claudio Burgio a Milano, o quella della minorenne A., condannata dopo aver partecipato a un gesto che ha cambiato per sempre la vita di un coetaneo, sono solo due dei ritratti che emergono da un’Italia ignorata e sommersa. Il volume, la cui prefazione è firmata da Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, arriva in libreria in un momento in cui si torna a parlare di giustizia minorile. Dopo il Decreto Caivano, i 17 Istituti per minorenni del Paese risultano sovraffollati, tesi, spesso teatro di rivolte. “Vite minori” non fa sconti: interroga il lettore sul senso di responsabilità collettiva, sul diritto alla seconda possibilità, sulla necessità di comprendere prima di condannare. Ciò che ci resta di Alex Langer trent’anni dopo di Franco Corleone L’Espresso, 4 luglio 2025 Un profeta disarmato, non amava il potere. Subiva l’assunzione di responsabilità come ineluttabile. Il 3 luglio del 1995 il “vulcano Langer”, come lo definì Enzo Collotti, decise che i pesi gli erano diventati insopportabili e pose fine alla sua vita in una collina sopra Firenze legata alla Biblioteca di Giovanni Spadolini. Due personalità diverse ma altrettanto esuberanti. Langer decise di scomparire dopo la tragedia di Tuzla e dopo avere proclamato che l’Europa nasceva o moriva con Sarajevo; si trattò di una coincidenza temporale, non certo della causa di un suicidio. Verso cui occorre sempre rispetto e timore con la consapevolezza del vuoto tremendo sopra il quale camminiamo, come disse in occasione del funerale Peter Kammerer ammonendo di avere cura di noi stessi e degli altri, trattandoci con delicatezza e affetto. Si è detto spesso che Alex fosse il leader carismatico dei Verdi, in realtà non era amato da tutti gli esponenti del partito, per invidia forse. Langer possedeva un tratto di profezia: un profeta disarmato, che non amava il potere e subiva l’assunzione di responsabilità come un destino ineluttabile da cui era difficile sottrarsi. Possedeva la qualità rara di inventare parole, parole d’ordine che affascinavano menti e cuori: Conversione ecologica, Lentius, profundius, suavius, Consapevolezza del limite, Traditori non transfughi, Convivenza interetnica, Solve et coagula, Costruire ponti e abbattere muri. Erano dirette a mondi, soggetti e persone, senza confini. In due occasioni scese in campo, candidandosi a un ruolo preciso, senza timore e con sfida coraggiosa. La candidatura a segretario del Pds, raccogliendo l’intuizione di Ezio Mauro in favore di un “Papa straniero”, con la motivazione “di poter restituire a molti tra coloro che oggi si sentono sconfitti e delusi un senso di riscoperta e di nuova motivazione a rimettersi in cammino”. L’altra, con la candidatura a sindaco di Bolzano, proprio nel giugno 1995, bocciata per il rifiuto dell’appartenenza etnica nel censimento spartitorio. A distanza di tempo possiamo dire che i rifiuti segnarono sconfitte non sue, ma delle speranze di cambiamento. La raccolta di scritti “Il viaggiatore leggero”, pubblicata da Sellerio, è ricca di suggestioni. Scelgo un brano decisamente attuale, tratto da “il manifesto” del 1° marzo 1987, che ricorda la guerra dei sei giorni nel 1967: “C’è stata la guerra, con l’esito che sappiamo, e ne è seguita una trasformazione e profanazione sempre più angosciante e tragica dello Stato d’Israele, costruito al suo interno e nella sua politica estera sempre più nettamente come “Stato contro i palestinesi, contro gli arabi”, quasi più che come focolare degli ebrei e dell’ebraismo. Le discriminazioni e le barriere etniche contro i cittadini israeliani non-ebrei, e in particolare contro i palestinesi, e il ruolo indubbiamente repressivo verso i palestinesi dei territori occupati… non può essere quell’Israele della speranza e della ragione”. Langer aveva detto molto, quello che ci manca è la sua azione. Raccogliere il suo invito a “continuare in ciò che era giusto” suona difficile perché, dopo trent’anni, dobbiamo riconoscere che la situazione è peggiorata, nel mondo, in Europa e in Italia con più armi e più guerre, più inquinamento, più speculazione e degrado nelle periferie, più odio e più razzismo, più disprezzo delle minoranze e più violenza, meno federalismo e autonomie. Il mese scorso al Senato grazie a Marco Boato si è tentato di essere all’altezza: Dalla Terra alla Luna. Alexander Langer, 30 anni senza l’uomo che ha sfidato il mondo: “Continuate in ciò che era giusto” di Andrea Pugiotto L’Unità, 4 luglio 2025 Attivista, politico, pioniere delle battaglie ambientaliste, moriva suicida il 3 luglio del 1995. Viaggiatore leggero e instancabile, era abituato a esplorare i confini saltando muri. Alla riflessione teorica preferiva gli incontri, all’ideologia il calore delle relazioni umane. 1. Bisaccia di cuoio a tracolla, smilzo e allampanato, folti capelli castani, naso pronunciato, occhi come fanali per via delle lenti da miope e i grandi occhiali da secchione, sorriso sincero, postura leggera, voce mite e fraterna. Già “a prima vista simpaticamente strano” (Adriano Sofri): così appariva Alexander Langer ai tantissimi che l’hanno incontrato nel suo infinito peregrinare. Langer è stato tante cose nella sua pur breve vita, iniziata a Vipiteno il 22 febbraio 1946 e interrotta a soli 49 anni, la sera del 3 luglio 1995, con la scelta di impiccarsi a un albicocco, in un campo nei pressi della sua casa toscana, a San Miniato. La si può riassumere, quella vita, ricorrendo all’allegoria dei quattro elementi naturali: terra, aria, acqua, fuoco. E non solo perché scandivano gli annuali appuntamenti a Città di Castello, dedicati a esperienze e progetti di conversione ecologica, promossi dalla Fiera delle Utopie Concrete (una delle innumerevoli iniziative realizzate da Langer). Ciascuno di essi, infatti, evoca parti importanti della sua biografia. 2. La terra, intesa come Heimat, è per Langer il Sudtirolo con cui manterrà un ininterrotto legame. Con il nodo dell’autonomia della sua terra d’origine, si misurerà durante tutta la vita: nel 1968 si laurea a pieni voti in Giurisprudenza, a Firenze, sotto la guida di Paolo Barile con una tesi sull’autonomia provinciale di Bolzano nel quadro dell’autonomia regionale nel Trentino-Alto Adige; per tre volte (nel 1978, 1983, 1988) sarà consigliere a Bolzano; si candiderà (nel 1995) a sindaco della città. È qui che Langer matura una sensibilità tutta particolare per le minoranze: etniche, religiose, linguistiche. Ed è sempre qui che elabora un metodo di azione politica - riassunto in un testo del 1994 titolato “Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica” - cui attingerà nelle situazioni di conflitto affrontate in vita. La sua è una prassi semplice, ma potentemente generatrice: costituire nuclei di persone provenienti da gruppi etnici contrapposti, disposte ad approfondire la conoscenza reciproca, senza temere l’infamante accusa di tradimento, perché “chi usa tale appellativo probabilmente non si è mai sforzato di raggiungere una vera convivenza”. 3. L’aria, invece, evoca il viaggiare. La sua, infatti, è stata una vita in perenne movimento, preferibilmente in treno, in macchina o in autostop. La biografia che gli ha dedicato Fabio Levi (In viaggio con Alex. La vita e gli incontri di Alexander Langer, Feltrinelli, 2007) è scandita nelle tante città in cui ha operato: Vipiteno, Bolzano, Firenze, Praga, Tubinga, Saluzzo, Francoforte, Roma, Manaus, Berlino, Rio de Janeiro, Mosca, Bruxelles, Strasburgo, Tirana, Verona, Gerusalemme, Tblisi, Pristina, Sarajevo, Tuzla. Concepiva gli incontri come risorsa straordinaria, fonte di ispirazione, occasione di scambio. Ritornava sempre carico di indirizzi nuovi e di persone di cui prendersi cura. Non un turista, dunque, semmai un esploratore di frontiere, abituato a saltare i muri: si intitola, infatti, Il viaggiatore leggero (Sellerio, 2015) la preziosa raccolta dei suoi scritti, curata da Edi Rabini e Adriano Sofri. Sono scritti in viaggio: in treno soprattutto, anche di notte, rubando tempo al tempo. Sono scritti di viaggio: resoconti, interventi, valutazioni a bilancio. Riflessioni di grande pregio, affidate a fogli spesso di scarsissima diffusione, se non a cartoline d’antan spedite a tutti da ogni dove, dispersi così “in mille rivoli non sempre tra di loro comunicanti” (annota Marco Boato in Alexander Langer. Costruttore di ponti, editrice La Scuola, 2015). Alla riflessione teorica, infatti, Langer preferiva di gran lunga le riunioni di base dentro e fuori i confini nazionali, dove l’ideologia lascia il posto alla concretezza dei problemi e al calore delle relazioni umane. 4. L’elemento dell’acqua evoca il tema - esistenziale per Langer - della tutela dell’ambiente. È tra i primi a cogliere il nesso tra remissione del debito, dissesto ecologico e sviluppo della democrazia. È anche tra i primi a iscrivere le tematiche ecologiche in un orizzonte massimamente inclusivo: tutti gli esseri viventi (animali compresi), le generazioni future, gli esclusi dei paesi più poveri. Soprattutto, Langer coniuga la dimensione planetaria della difesa della biosfera con l’invito alla responsabilità individuale, all’insegna di una necessaria “conversione ecologica”: scelta che compare nel suo personalissimo “Catalogo di virtù verdi” (insieme alla “consapevolezza del limite”, l’”obiezione di coscienza” e il “privilegiare il valore d’uso al valore di scambio”). Vanno ascritte a questo capitolo le lotte di Langer su temi ora attualissimi, allora quasi profetici: l’uscita dal nucleare; la tutela della biodiversità; la bioetica; i rischi della biotecnologia; lo scambio virtuoso tra remissione del debito e politiche di conservazione ecologica nei Paesi più poveri; l’istituzione di una Corte internazionale per l’ambiente, accessibile non solo agli Stati ma anche a cittadini e associazioni. Svolgeva larga parte di questo lavoro politico per il gruppo dei Verdi al Parlamento europeo. Eppure, quando ne intuì i rischi di sclerosi partitocratica, Langer (con Luigi Manconi, Gad Lerner e Mauro Paissan) invitò a sciogliere la Federazione dei Verdi italiani. In nome della biodegradabilità in politica (espressa nel motto “solve et coagula”), era convinto che l’assenza di un partito ecologista implicasse un di più di iniziative organizzate sul territorio, non un di meno. Fu, per questo, subissato di critiche. 5. Il fuoco, infine, riassume due tratti costitutivi della personalità di Langer. Innanzitutto, il rifiuto radicale della violenza - il fuoco delle armi - come pratica politica. Ventiduenne, era stato imputato di vilipendio alle istituzioni e istigazione a disobbedire alle leggi, per aver promosso a Bolzano, nel 50° anniversario della vittoria, una manifestazione sulla natura ed i costi della Grande Guerra. Quando nel 1976 si scioglie Lotta Continua, si prodigherà per evitare che molti dei suoi compagni di allora scelgano la lotta armata: avendo conosciuto gli attentati terroristici in Sudtirolo, ne coglieva meglio di altri i rischi di deriva. Dal 1982 collaborerà con il Movimento Nonviolento e la rivista Azione Nonviolenta, animando la campagna per l’obiezione fiscale alle spese militari e l’esperimento del Forum di Verona. Non era però un pacifista. Davanti all’immane mattanza etnica nella ex-Jugoslavia, Langer invita a distinguere tra aggredito e aggressore. Sostiene la creazione di un Tribunale penale internazionale ad hoc per i crimini commessi in quel conflitto. All’interno della sinistra, fu tra i pochi ad interrogarsi a fondo (e dolorosamente) sulla difesa legittima, sulla responsabilità per omissione di soccorso umanitario, sull’ingerenza internazionale che giustificava in nome dei diritti umani e delle emergenze ambientali. Arrivò a farsi promotore, nel giugno 1995, di un drammatico appello (“L’Europa nasce o muore a Sarajevo”) in cui, inascoltato, invocava un intervento di polizia internazionale in Bosnia, dove l’assedio alla sua capitale durava ormai da tre anni. Riteneva indispensabile fermare con mezzi militari la mano sterminatrice degli aggressori: posizione che gli costò, allora, isolamento e stigma. 6. Il fuoco evoca anche un lato straripante della biografia di Langer: la militanza politica e il suo modo di interpretarla. Un vero fuoco interiore che, alla fine, ne ha bruciato prematuramente l’esistenza. Alla “coscienza infelice” delle avanguardie che “credono di dover portare gli altri lì dove loro stessi pensano di essere arrivati”, preferiva “la testimonianza individuale, l’obiezione di coscienza, quando credo di dover fare qualcosa che mi preme e che altri non vedono, sperando - piuttosto - che questo provochi effetti autonomi in altre persone”. Alla fondamentale domanda “Chi è il mio prossimo?”, la risposta di Langer è sempre stata: tutti. Senza mezze misure. Lo dimostra l’ubiquità del suo incessante viaggiare. Lo attesta il censimento delle tante aree politico-culturali in cui si è speso fino alla dissipazione di sé: il mondo cattolico e cristiano e di altre religioni; il movimento studentesco del ‘68; la sinistra extra-parlamentare negli anni ‘70; la “nuova sinistra” tra gli anni ‘70-’80; il movimento eco-pacifista negli anni ‘80-’90; la galassia delle associazioni ambientaliste; la sinistra storica; il Partito Radicale con le sue campagne referendarie; il Movimento nonviolento; finanche le aree “conservatrici” sensibili alla difesa del creato e della vita. L’osmosi tra sfera personale e sfera pubblica era la cifra di quegli anni. Ma un così illimitato slancio altruistico aveva anche una matrice religiosa - più specificamente francescana - propria della formazione giovanile di Langer, che ne forgerà la tempra di adulto. Per lui, non di militanza ma di apostolato è più corretto parlare. Della laicità in politica Langer ha incarnato la tolleranza, la curiosità, la gradualità nell’azione, la verifica empirica degli ideali, l’apertura al cambiamento, la pluralità degli strumenti di lotta ben oltre la forma organizzativa del partito. Mancherà di laicità, invece, per un profilo decisivo: l’accettazione dell’inevitabile scarto tra aspettative e risposte date, tra quanto si vuole raggiungere e i limiti (anche personali) nel riuscirci. Uno scacco che, per lui, si rivelerà tragicamente insostenibile. 7. Tutto finirà al Pian dei Giullari, nella tragica notte di trent’anni fa. Il suo gesto estremo è spiegato in un messaggio autografo, scritto in tedesco: “I pesi mi sono diventati davvero insostenibili, non ce la faccio più. Vi prego di perdonarmi tutti anche per questa mia dipartita. Un grazie a coloro che mi hanno aiutato ad andare avanti. Non rimane da parte mia alcuna amarezza nei confronti di coloro che hanno aggravato i miei problemi. “Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati”. Anche nell’accettare questo invito mi manca la forza. Così me ne vado più disperato che mai. Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”. Quel gesto viene da lontano. Affonda nell’irrealizzato desiderio - condiviso con i più intimi - di prendere congedo da una vita politica totalizzante, vissuta senza risparmio per decenni, di cui tredici in istituzioni rappresentative. Qualche anno prima, il 21 ottobre 1992, scrivendo della tragica scomparsa della leader dei Grunen tedeschi, Petra Kelly, morta in un omicidio-suicidio con il suo compagno, Langer sembra parlare anche di sé: “Forse è troppo arduo essere individualmente […] dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”. Quel gesto cortocircuita tutto: il viaggiatore leggero che soccombe per i troppi pesi. Il fratello di tanti che se ne va in solitudine. Il teorico del “senso del limite” che muore del suo stesso fervore illimitato. Il fautore della necessità per il mondo di recuperare il suo naturale equilibrio che smarrisce il proprio, lasciandosi cadere dal filo. Quasi a suggellare il senso di un fallimento, pochi giorni dopo la sua morte si consumerà la strage di Srebrenica. 8. Riesce difficile tenere insieme l’esistenza di Langer e la sua fine. Davanti al suo congedo dalla vita, serve il massimo pudore: quello che si rintraccia, ad esempio, nell’intensa raccolta di poesie, articoli e testimonianze curata da Marco Boato (Le parole del commiato. Alexander Langer, dieci anni dopo, edizioni Verdi del Trentino, 2005). Ora come allora, resta il rimpianto di una prematura scomparsa. A distanza di trent’anni, le sue capacità di vedere lontano e di testimoniare il futuro servirebbero ancora, per tentare di riparare il mondo. Associazioni e giuristi: “Il ddl sul Fine vita è incostituzionale” di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 luglio 2025 Suicidio medicalmente assistito L’Associazione Coscioni: “Questa legge non apre davvero a un sistema privato: impedisce direttamente l’accesso al diritto”. Si accende nella società civile, il dibattito sul fine vita che non ha trovato spazio al Senato, dove a colpi di maggioranza è stato adottato un testo base molto restrittivo delle libertà di scelta del malato terminale che intenda porre fine alle proprie sofferenze con il Suicidio medicalmente assistito (Sma). Nelle commissioni riunite Giustizia e Sanità è iniziata ieri la discussione generale del ddl atteso in Aula il 17 luglio. Il termine degli emendamenti è stato prorogato di un giorno, al 9 luglio. Mentre l’associazione Coscioni con una conferenza stampa ha rilanciato ieri la raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare che legalizzi tutte le scelte di fine vita, compresa l’eutanasia, le destre fanno quadrato attorno al ddl che ha subito una repentina accelerazione negli ultimi giorni e che trova supporto attivo dai siti pro-life d’Oltretevere. Nel testo adottato “si introduce l’obbligatorietà delle cure palliative come condizione di accesso, trasformandole in un trattamento sanitario obbligatorio, e si istituisce un Comitato nazionale che esautora il Ssn e allontana la decisione dal contesto di cura della persona”, spiegano Marco Cappato e l’avvocata Filomena Gallo. “La Corte ha chiesto al Parlamento una legge che regolamenti l’aiuto medico alla morte volontaria, non che lo svuoti. Questa proposta invece lo impedisce”, cambiando “i parametri stabiliti dalla Consulta”, perché tra l’altro “restringe l’accesso solo alle persone collegate a macchinari”. I leader della Coscioni non condividono il giudizio - “classista”, come hanno ribadito ancora ieri Avs, Pd e M5S - sull’articolo del ddl che esclude l’utilizzo di personale, strumenti e farmaci del Sss durante la fase di esecuzione del Suicidio medicalmente assistito (come avviene invece in Svizzera). “Il dibattito - sostiene Cappato - rischia di concentrarsi sul tema della “privatizzazione”, ma questo ddl non apre davvero a un sistema privato: impedisce direttamente l’accesso al diritto”. Diverso è il parere dell’ex presidente della Consulta Mirabelli secondo il quale la Corte non ha accertato “un diritto alla prestazione” ma si è limitata a individuare in quali condizioni del malato terminale non è punibile colui che lo aiuterà nel suicidio. “Il legislatore è libero di articolare l’intervento del Ssn” al quale, sostiene Mirabelli, spetterebbe solo una funzione “di garanzia”. Eppure, anche la Società italiana di neurologia (Sin) ha chiesto ieri “una legge che garantisca pari diritti e opportunità di scelta a tutti i cittadini, indipendentemente dalla patologia, nel rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e autodeterminazione”. In particolare sulle cure palliative, di cui si occupa, la Sin spiega che “devono essere offerte e possono essere rifiutate, indipendentemente dalla scelta finale che la persona malata vorrà effettuare, e questo deve accadere prima che si verifichino le condizioni di “dolore totale” che caratterizzano la richiesta di Suicidio medicalmente assistito”. Contrari all’esclusione del Ssn anche il farmacologo Garattini dell’Istituto Negri e vari costituzionalisti come il docente di Roma Tre Gianpaolo Fontana che lo reputa “incostituzionale” in quanto “incompatibile con la legge 219/2017” sul testamento biologico e “con l’art. 32 della Costituzione”. “Pazze, tristi, cattive”. Vita di Fatima e altre maranzine di Allegra Ferrante Corriere della Sera, 4 luglio 2025 Italiane o maghrebine, si assomigliano in tutto: vestiti, musica, parole-chiave. In comune famiglie devastate, mesi in istituti, sogni (forse) senza speranza. E la stazione Garibaldi. Ciglia foltissime, finte. Unghie glitterate, metà dorate e metà lilla. Brillantini colorati sui denti. Nella borsa finta-Vuitton, una tinta per labbra opaca (lucida è per le “fighette del centro”), qualche stuzzicadenti, uno spray al peperoncino con percentuale di capsaicina oltre la soglia (con questa concentrazione, è fuori legge). Una di loro, un coltellino a lama fissa. Ogni pomeriggio si incontrano nello stesso posto: sotto il maxischermo super luminoso della stazione Garibaldi di Milano. Per questo le chiamano garibaldine. Un bacio sulla guancia all’amica del cuore, due alla rivale in amore. “Zin (bella in arabo, ndr), quella bitch ci guarda male. Andiamocene o le spacco la faccia”. Sono adolescenti italiane, o maghrebine di seconda generazione. Su TikTok usano l’hashtag maranzine, ma se glielo chiedi, non lo rivendicano. Si vestono di bianco o nero, tute aderentissime, ombelico in vista, Nike Tn lucidate. Stile condiviso con i compagni, i maranza. Eppure, se ne distaccano. O ci provano - invano - per poi condividerne ogni sorta di pratica, usi e abusi compresi. In questa relazione disfunzionale tentano di rintracciare un illusorio senso di valore. “Solo lui mi potrà amare”. Un circolo vizioso che le definisce in un ruolo subalterno: la donna di... Asia, 16 anni, racconta: “Qui succede di tutto. Risse, ragazze ubriache fradicie, rapine. Io mi voglio tenere fuori dai problemi. A Garibaldi ho deciso di non uscirci più”. Però sta qui anche lei, in attesa che il suo ragazzo venga rilasciato dall’Istituto penale minorile Beccaria di Milano. Passano il tempo a fumare sui muretti della stazione, vanno in giro tra Corso Como e piazza Gae Aulenti. Trascorrere qualche pomeriggio con Yasmine, Nadia e Fatima permette di raccontare chi sono, oltre l’atteggiamento da maranzine che sfoggiano. “Vogliono che le si noti, ma si percepiscono brutte, distanti dal modello della ragazzina della Milano bene, da quell’estetica raffinata, economicamente inaccessibile”, precisa Domenica Belrosso, ex direttrice dell’IPM (Istituto Penale per Miniori, ndr) femminile di Pontremoli. In questa non-logica, diventare maranza, anzi, maranzina, è l’unica salvezza. Yasmine conosce Orwell, ma preferisce García Márquez. Ha 15 anni, metà tunisina, metà marocchina; va bene a scuola, liceo delle scienze umane di Legnano. Indossa una tuta Lacoste, ha un chakra dipinto con l’eye-liner sullo zigomo sinistro. Figlia più piccola di una famiglia numerosa, un complicato percorso migratorio. Sua madre fa la cuoca di giorno e la badante di notte. Padre muratore. “Esce di casa presto, non lo vedo mai”. Il fratello più grande, 26 anni, elettricista, lavora col padre. “Io e i miei fratelli più piccoli siamo maranza. Col cazzo che ci infiliamo in questa vita di merda!”. Maranza è la rottura di un’aspettativa sociale e familiare. Scelta di un’identità forte, che si impone, che ha già dei codici: per allontanarsi rabbiosamente dalla vita dei propri genitori. Nichilismo (molto appariscente) in alternativa a restare invisibili. “Non voglio fare la lavapiatti/ma voglio andare in giro in Bugatti”, suona la cassa JBL che le ragazze ascoltano nel parcheggio di Piazza Freud. Più che nella famiglia, confidano nel gruppo. Anime confuse, spezzate, accomunate da dolori silenziosi che, aggregandosi, sperano di trovare un senso di appartenenza. “Per quanto sgangherato, è un gruppo di pari in cui ci si riconosce”, sostiene Elena Carnevale, educatrice della comunità Madre Amabile di Vigevano. “Quando escono, è un po’ come se giocassero al ribasso, perché puntare in alto è faticoso. Nel confronto con il mondo, vengono richieste delle abilità che alcune volte neanche loro sanno di possedere”. Tante infelicità messe insieme si trasformano in una piccola felicità. “Vodka alla fragola o tequila? Dobbiamo festeggiare la nostra khty (sorella in arabo, ndr). Oggi esce dalla comunità”. Nadia ha 14 anni, italiana. Le maniche della felpa le coprono anche le dita. Nasconde le cicatrici dei tagli che si è inflitta. Non vuole che le amiche la tocchino. Ha trascorso gli ultimi sei mesi in comunità, dopo una denuncia per aggressione. É stata una ragazzina abbandonata. Quando nasce, il padre se ne va. La madre tossicodipendente entra ed esce di galera. A sette anni le trovano tracce di cocaina nel sangue: era nella torta preparata da sua mamma. Oggi dice: “Finalmente in comunità ho sperimentato per la prima volta una camera da letto tutta mia. Potevo truccarmi, scrivere le mie strofe (musicali, ndr), dormire”. Ha un lungo tatuaggio sul polpaccio, due versi della sua trapper preferita, Lorenzza: “Mi sento come chi non sa la sua età/ Sono proprio una bambina cresciuta senza papà”. Sogna l’università. Cosa vuoi studiare? “Non lo so”. Le garibaldine d’origine non araba sono figlie del precariato italiano, di famiglie dolenti o disastrate, hanno un alfabeto emotivo zoppicante. “Esibiscono una libertà sessuale che svela un’inconsapevolezza della propria corporeità. Alternano la rivendicazione di un’autonomia assertiva e trasgressiva (“Non mi puoi tenere in galera, comando nel quartiere”), a gesti di regressione all’infanzia, come dormire con l’orsacchiotto”, racconta Belrosso. “Non so di preciso quanti anni abbia mia nonna, ma questo taglio me lo ha fatto lei. Se chiedo aiuto, perde la casa popolare che le spetta”, racconta Fatima. Qualche mese di detenzione in carcere, ma non rivela il motivo. È aggressiva, sembra in guerra, come se parlasse un codice di famiglia. La lingua dell’escluso, dello straniero. Vince chi è più forte, chi fa più brutto dell’altro. Devi portare a casa la pelle. “Mad, sad, bad (pazza, triste, cattiva, ndr): la triade da stereotipo delle ragazze antisociali, chiamiamole così”, riflette lo psicoterapeuta Mauro Di Lorenzo. Concetto deviato di reputazione: “Se hai cercato di rubarmi il tipo”, si può far di tutto, anche sfregiare. Fatima scrive sul suo profilo Instagram: “Je vis à ma manière, si la fin est proche”. Vivo a modo mio, anche se la fine si avvicina. Lo Ius Scholae e quei partiti senza coraggio: tutti temono l’impopolarità di Flavia Perina La Stampa, 4 luglio 2025 Il cortocircuito sui migranti: la destra teorizza i rimpatri, poi approva il decreto flussi. Di immigrati anche legali siamo stufi, devono remigrare (convegno sulla remigrazione, sponsor Lega, un mese fa). Anzi no, ne vogliamo moltissimi, e infatti ne accoglieremo altri 500 mila nei prossimi due anni (ultimo decreto flussi del governo, tre giorni fa). Saranno benvenuti e ai loro figli daremo lo Ius Italiae, cioè la cittadinanza garantita, se fanno le elementari e le medie con profitto (Antonio Tajani, FI, ieri). Anzi no, e per di più le loro figlie, se musulmane e dunque col fazzoletto in testa, a scuola non potranno nemmeno entrare (Silvia Sardone, Lega, sempre ieri). Il corto circuito strisciante sull’immigrazione arriva al culmine all’inizio della giornata di ieri, ma dura appena qualche ora. A mezzogiorno Tajani adombra la possibilità di maggioranze d’aula trasversali per mandare in porto la riforma della cittadinanza, ed è subito fuoco e fiamme. Nel primo pomeriggio è già il momento dei pompieri, perché il medesimo precisa che la legge “non è una priorità” e che comunque il suo partito non è disponibile a concordare il testo con l’opposizione. A sera resta solo cenere. Lega e FdI possono decretare: partita chiusa. E tuttavia per mezza giornata ci si è lasciati andare a un sogno. Un dibattito vero, solido, senza maggioranze precostituite, che riscatti il Parlamento dal suo letargico tran tran. Un confronto di alto profilo che decida una volta per tutte che cosa sono questi novecentomila ragazzini figli di stranieri che crescono nelle nostre scuole, questi Ahmed, Omar, Fatima, Zahra, compagni di banco dei nostri figli: una risorsa o un fastidio? Potenziali cittadini o gente sospetta, da tenere ai margini fin quando intorno ai ventidue, ventitré anni - se insisteranno, se tutto va bene - lo Stato non sarà obbligato a dargli una carta di identità? Il centrodestra, come si è visto anche ieri, nuota nelle contraddizioni. Negli ultimi tre anni ha programmato flussi di immigrati legali per un totale di 949 mila unità, un milione di persone chiamate a lavorare e a vivere in Italia. La Lega ha sottoscritto senza imbarazzi i relativi decreti, anzi ne è stata fervente sostenitrice visto che arriva dagli imprenditori del Nord la sollecitazione maggiore a cercare mano d’opera, ovunque sia disponibile. E tuttavia, mentre con una mano firmava quegli atti, con l’altra dettava comunicati di condivisione per il summit milanese sulla remigrazione, e cioè il rimpatrio nei Paesi d’origine pure degli immigrati regolari, da ottenere rendendo la vita difficile a chi viene da altre culture: “Una battaglia di libertà e civiltà, di sicurezza, che è il vero spartiacque tra destra e sinistra”. Ovvia la domanda: se è vero che questi immigrati legali ci servono - come i decreti flussi dimostrano - perché non dirlo apertamente, perché affrontare il tema dell’integrazione loro e dei loro figli, perché continuare a trattarli come i baubau del discorso sull’Italia? L’ultima pantomima sullo Ius Italiae, o Ius Scholae, o Ius Culturae - pure la sarabanda delle definizioni illumina sul caos, perché ognuno si è fatto il suo impervio titolo in latinorum - alla fine segnala soprattutto una paura delle destre: quella di perdere voti rinunciando alla retorica anti-immigrati che è da anni al centro della loro propaganda, e di ammettere che l’immigrazione è fenomeno irreversibile, da governare anziché da demonizzare. Il passo indietro anche della sinistra - È un timore che ha un fondamento. La valanga di voti presa dal generalissimo Roberto Vannacci racconta che da noi sono ancora tanti a collegare l’idea di italianità al colore della pelle, e non bisogna deluderli anche se poi questi coloured ci sono indispensabili a mandare avanti il Paese e pure a pagare le pensioni “bianche”. Otto anni fa quella minoranza irriducibilmente razzista (si può dire?) spaventò pure la sinistra, che sulla soglia dell’ultima approvazione della riforma della cittadinanza si ritrasse all’improvviso e rinunciò al progetto: si era alla vigilia di un voto politico difficile, meglio non rischiare. Il tema non fu mai più ripreso con la stessa serietà. Non lo fece Giuseppe Conte, che pure ieri invitava Tajani ad andare “subito in aula”. Non lo vuol fare Giorgia Meloni, che pure non era ostile alla riforma quando sedeva ai banchi dell’opposizione. Per fortuna Ahmed, Omar, Fatima, Zahra, probabilmente non ne sapranno niente. Sono piccoli, convinti di essere italiani esattamente come i loro compagni di banco nati da famiglie venete o siciliane. Di essere diversi lo scopriranno più avanti, a diciotto anni, ma speriamo per loro (e per tutti noi) che nel frattempo sia emerso in politica quel tipo di coraggio che serve per mandare avanti un Paese, non solo per coccolare minoranze irrimediabilmente reazionarie. Ius scholae, il Pd apre ma gli azzurri nicchiano: “Ok ma non subito” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 4 luglio 2025 Tajani riaccende la miccia della cittadinanza, con il plauso dei dem e il fuoco di sbarrimento di Lega e FdI. Bluff o realtà? Antonio Tajani ha scelto di riaccendere la miccia dello ius scholae, e il fuoco, più che a sinistra, rischia di ustionare la sua maggioranza. Perché quella che lui stesso definisce una “proposta seria” - cittadinanza ai minori stranieri dopo dieci anni di scuola in Italia - ha ricevuto il plauso aperto delle opposizioni, la proposta di collaborazione dei dem e, come ciliegina sulla torta, il fuoco di sbarramento di Lega e Fratelli d’Italia. E ora la domanda che rimbalza dentro e fuori il Palazzo: Tajani bluffa o ha deciso davvero di piantare una bandierina identitaria, al prezzo di un terremoto interno? Forza Italia, del resto, quella proposta ce l’ha da tempo. Si chiama ius Italiae, e in teoria rappresenta la versione moderata dello ius scholae: non più il semplice completamento di un ciclo scolastico, ma dieci anni di scuola “con profitto”. Lo ha ricordato anche Tajan, dal palco dell’assemblea di Farmindustria: “Noi abbiamo una proposta precisa, vogliamo andare avanti in questa direzione, pronti a discuterne con tutti”. Parole che però ancora non si traducono in un’iniziativa concreta in Parlamento. E allora i dem hanno deciso di rompere gli indugi, con una serie di interventi dei parlamentari che si dicono pronti a votarla, chiaramente volti ad alzare il pressing sul ministro degli Esteri. “I diritti dei minori”, osserva Michela Di Biase, “non possono essere messi in discussione, Forza Italia chieda subito la calendarizzazione: noi ci siamo”. Il leader di Italia Viva Matteo Renzi, invece, usa la lama più affilata: “Tajani fa proclami fuori dal Parlamento, ma poi in Aula resta muto. Ha troppa paura di Giorgia Meloni”. L’accusa è di non avere il coraggio di portare avanti davvero la proposta, per timore delle reazioni della premier e degli alleati. Anche il leader del M5s annusa la crepa e prova a infilarsi: “È la nostra battaglia da anni, se davvero Forza Italia è conseguente ci ride il cuore. Non aspettiamo altro, facciamolo subito, potremmo anche rinunciare a un po’ di ferie”. Tono volutamente ironico, ma il messaggio è serissimo: anche il Movimento 5 Stelle è pronto a votare la proposta azzurra. E infatti le reazioni da destra sono già arrivate, e sono furibonde. La Lega ha risposto nel suo stile più crudo, con l’europarlamentare Silvia Sardone che non solo ha bocciato lo ius scholae, ma ha rilanciato alla Camera una proposta contro quella che definisce “l’islamizzazione delle scuole”. La sua dichiarazione ha fatto il giro dei social, anche per la brutalità con cui ha attaccato il burka, definendolo senza mezzi termini “una busta dell’immondizia”. Un linguaggio da battaglia identitaria, che conferma la linea del Carroccio: nessuna concessione sulla cittadinanza. Anche Fratelli d’Italia è sullo stesso fronte, se possibile con toni più istituzionali ma non meno netti: il dossier è considerato “intoccabile”. Così Tajani si ritrova stretto in una morsa. Da un lato l’opposizione lo incalza per mettere alla prova la sua coerenza. Dall’altro gli alleati alzano il livello dello scontro per impedirgli anche solo di parlarne. E sullo sfondo resta l’incognita: il segretario di Forza Italia è davvero pronto a intestarsi una battaglia civile, o si tratta solo di una mossa tattica, utile per marcare il profilo autonomo del suo partito senza l’intenzione reale di forzare la mano? Per il momento il vicepremier prende tempo: incalzato alla buvette dai cronisti glissa affermando che la sua proposta è più severa della legge in vigore, che non è disposto a trattare sul periodo di dieci anni e che le opposizioni in realtà non sono interessate a votarla. Chi conosce gli equilibri del centrodestra sa che la seconda ipotesi è più probabile. Tajani non ha mai rotto un’alleanza, e non è tipo da pugni sul tavolo. “Adesso è tutto ingolfato”, ha detto, non a caso, “ci sono i decreti, c’è la riforma della giustizia che per noi è una priorità assoluta insieme alla riduzione delle tasse e all’aumento delle pensioni. La cittadinanza è un altro tema sul quale siamo impegnati e stiamo lavorando”, ha concluso, “ma non è la priorità del momento”. Ma anche i bluff, in politica, possono avere conseguenze reali. Perché a questo punto, se non dovesse seguire la calendarizzazione in Parlamento, Tajani rischia di apparire come il garante silenzioso delle posizioni più estreme. E se invece dovesse andare fino in fondo, aprendo davvero la discussione parlamentare, il rischio sarebbe quello di una spaccatura nella maggioranza che, proprio sul fronte identitario, ha sempre mostrato il suo volto più intransigente. Non manca chi ventila con malizia che la vera frattura tra Fi e gli alleati di centrodestra sia altrove, e cioè sul fine vita. Quale che sia la verità, la mossa di Tajani ha riaperto un fronte che molti nella maggioranza consideravano sepolto. E che invece, con l’aiuto di un’estate parlamentare anomala, potrebbe trasformarsi in una bufera estiva sul centrodestra. Migranti. Trattenimento nei Cpr, “serve una legge chiara” di Simona Musco Il Dubbio, 4 luglio 2025 La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice di pace di Roma sull’articolo 14, comma 2, del Testo unico immigrazione (d.lgs. 286/1998), che regola il trattenimento amministrativo degli stranieri nei Cpr. Ma la pronuncia chiama in causa il Parlamento, con un messaggio netto: l’attuale normativa, spiega la sentenza, non è sufficiente a garantire il rispetto della libertà personale, uno dei diritti inviolabili dell’uomo. La misura del trattenimento, afferma la Corte, “comporta una situazione di assoggettamento fisico all’altrui potere” e dunque rientra nell’ambito delle restrizioni alla libertà personale previste dall’articolo 13 della Costituzione, per le quali è richiesta una riserva assoluta di legge. Eppure, oggi, i “modi” del trattenimento - ossia le condizioni quotidiane in cui una persona è privata della libertà - non sono stabiliti in modo organico da una fonte primaria. Al contrario, sono demandati a regolamenti, circolari e atti amministrativi dei prefetti, spesso difformi da centro a centro. “Una normativa del tutto inidonea”, scrive la Corte, che scarica l’onere della tutela sui giudici ordinari e su strumenti processuali generali come il ricorso d’urgenza ex art. 700 c. p. c.. In sostanza, i diritti delle persone trattenute nei Cpr non sono tutelati da una disciplina chiara e unitaria, come invece accade nel sistema penitenziario. Una disparità che la Corte evidenzia ma non può sanare: i suoi strumenti - precisa - non consentono di “scrivere” una legge al posto del Parlamento, e dunque la via della pronuncia di incostituzionalità non è praticabile. Il monito, però, è chiaro: serve una legge organica, che disciplini “in astratto e in generale” le condizioni del trattenimento nei Cpr. Un atto “urgente”, sottolinea la sentenza, perché riguarda diritti fondamentali di persone sottoposte a restrizioni prolungate della libertà personale, anche fino a diciotto mesi. La Corte respinge anche l’eccezione dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui le questioni sarebbero irrilevanti: il trattenimento nei Cpr - afferma il giudice delle leggi - è direttamente connesso alla convalida da parte del giudice di pace e non può essere considerato una zona franca dal controllo costituzionale. Infine, la sentenza ricollega il caso italiano ai parametri internazionali ed europei, in particolare alla Cedu e alle direttive Ue in materia di rimpatri e accoglienza, che richiedono standard minimi ma non colmano il vuoto di legalità nazionale. Insomma, la Corte costituzionale non censura la legge, ma lancia un avvertimento inequivocabile al legislatore: il trattenimento amministrativo, pur non essendo una sanzione penale, è una privazione di libertà. E come tale va regolato da una legge chiara, uniforme, rispettosa della dignità umana. Una pronuncia che si candida a diventare un altro tassello polemico nel dibattito sull’immigrazione. Migranti. La Consulta boccia i Cpr. Il Viminale prepara il decreto di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 luglio 2025 La detenzione amministrativa è illegittima, ma per la Corte deve intervenire il legislatore. Una decisione tra luci e ombre. I legali dei migranti: la useremo per chiedere la libertà. La detenzione amministrativa dei cittadini stranieri viola i diritti fondamentali e la Costituzione. Diversamente da quanto richiede l’articolo 13 della Carta, infatti, la legge disciplina i “casi” del trattenimento nei Cpr ma non i “modi”. Significa che mancano le garanzie ai migranti privati della libertà personale, a partire dall’individuazione di un giudice competente (come la magistratura di sorveglianza per le carceri). Lo ha stabilito ieri la Consulta che però si è fermata ad accertare l’incostituzionalità della norma, senza dichiararla. In gergo tecnico si chiama “sentenza monito”: i giudici delle leggi riconoscono l’offesa di un diritto ma si dichiarano impossibilitati a risolverlo. “Gli strumenti del giudizio di legittimità costituzionale sulle leggi non permettono a codesta Corte di rimediare al difetto”. Solo per tale motivo le questioni sollevate, con grande coraggio, dalla giudice di pace di Roma Emanuela Artone sono inammissibili. Dovrà dunque intervenire il legislatore che ha “l’ineludibile dovere di introdurre una disciplina compiuta”. La differenza tra le motivazioni e l’esito apre a differenti interpretazioni della comunità dei giuristi. Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e già docente di diritto d’asilo e status costituzionale dello straniero all’università di Palermo, ne dà una lettura molto critica: “Un capolavoro di ipocrisia. Viene dichiarata l’inammissibilità per aggirare i problemi dopo una brillante analisi tecnico-giuridica. Con una capriola argomentativa contenuta nella parte finale la giurisdizione si piega all’esecutivo”. Di avviso diverso il professore ordinario di diritto costituzionale e pubblico della Sapienza Marco Benvenuti: “Le affermazioni di principio sull’illegittimità costituzionale del sistema di trattenimento sono inequivocabili e possono produrre effetti concreti sia se il legislatore darà seguito alla decisione, sia in caso contrario”. Benvenuti ritiene che in astratto la Consulta avrebbe potuto osare di più, ma in concreto era molto complesso perché c’è un precedente diretto. Nel 2022 la sentenza della stessa Corte relativa alle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) ha stabilito che anche in presenza di violazione della libertà personale serve in prima battuta una soluzione di sistema. Una legge. In genere il rischio delle sentenze monito è che restino inascoltate. Nonostante questa presenti toni più edulcorati di altre, stavolta andrà in maniera completamente diversa: in serata il ministero dell’Interno ha fatto trapelare che “gli uffici erano già impegnati nella redazione di una norma di rango primario”. Come al solito, sarà un decreto. Per sbrigarsi, perché il governo teme che le motivazioni siano utilizzate dai difensori dei migranti detenuti nei centri in Italia o in quello di Gjader. Gli avvocati Eugenio Losco, Mauro Straini e Gianluca Castagnino hanno immediatamente depositato un’istanza per chiedere la liberazione di un loro assistito rinchiuso nel Cpr romano di Ponte Galeria. “La decisione della Consulta si può utilizzare in tanti modi. A partire dal ricorso d’urgenza ex articolo 700. Probabilmente già domani (oggi, ndr) sarà chiamata in causa nella richiesta di convalida di un trattenimento in Albania”, afferma l’avvocato Salvatore Fachile. “La sentenza è utile anche nelle cause per risarcimento danni - aggiunge il legale - Come Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione la useremo nella causa al Consiglio di Stato in cui contestiamo la legittimità del capitolato di appalto per i Cpr, un’ulteriore delega al privato nella gestione dei modi del trattenimento. Soprattutto riguardo al diritto alla salute”. Migranti. Così si rinuncia a un controllo incisivo di Francesco Pallante Il Manifesto, 4 luglio 2025 Un esito difficilmente riconducibile ai principi dello Stato liberale di diritto, ma che una discutibile sentenza della Corte costituzionale (105/2001) non ha ritenuto di sanzionare, pur riconoscendo la necessità di applicare, anche alla reclusione nei Cpr, le rigorose garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione. La reclusione degli stranieri nei Centri di permanenza per il rimpatrio continua a sollevare gravi questioni di compatibilità con la Costituzione, lo conferma la sentenza della Corte costituzionale pubblicata ieri. Alla base di tutto vi è il riconoscimento di un’incapacità dello Stato. Velocissimo nel bollare come irregolari alcuni stranieri ma che non sa e non può riaccompagnarli alla frontiera. La reclusione nei Cpr viene di conseguenza e dovrebbe durare solo il tempo necessario a effettuare l’espulsione. Invece può protrarsi sino a 18 mesi e, in più nella metà dei casi, si conclude con il rilascio in libertà dello straniero. Le ragioni per dubitare della compatibilità con la Costituzione della normativa sono molte: su tutte, il fatto che, non essendo il soggiorno irregolare un reato ma una condizione, le persone si ritrovano private della propria libertà personale - il “bene” costituzionale più prezioso, dopo la vita - non per ciò che hanno fatto, ma per quello che sono. Un esito difficilmente riconducibile ai principi dello Stato liberale di diritto, ma che una discutibile sentenza della Corte costituzionale (105/2001) non ha ritenuto di sanzionare, pur riconoscendo la necessità di applicare, anche alla reclusione nei Cpr, le rigorose garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione: vale a dire, che sia la legge a disciplinare in via generale e astratta i casi e i modi in cui le persone saranno private della libertà (riserva di legge) e che sia un giudice a disporre la privazione nei casi particolari e concreti (riserva di giurisdizione). Se già la riserva di giurisdizione è stata soddisfatta in modo discutibile, affidando la competenza a un magistrato onorario, e non di carriera, come il giudice di pace, ancor più problematico risulta il rispetto della riserva di legge, dal momento che il parlamento ha adempiuto solo in parte ai propri doveri, disciplinando con legge i casi, ma non i modi della reclusione degli stranieri. La restante normativa è stata rimessa ai regolamenti governativi e ai provvedimenti amministrativi dei prefetti (differenziati sul territorio), con il risultato che le concrete modalità di detenzione nei Cpr (standard abitativi, servizi da erogare, rapporti con l’esterno…) sono stabilite con decisioni assunte non dal parlamento ma dalle autorità di governo. Cioè dallo stesso organo che esegue la limitazione della libertà personale degli stranieri. Là dove la Costituzione prevede che la legge operi come strumento di controllo dell’azione governativa è invece il governo a darsi da sé le regole. Chiamata a pronunciarsi su tale inadempienza parlamentare, con la sentenza di ieri la Corte costituzionale ha, sì, riconosciuto la violazione dell’art. 13, ma ha altresì rinunciato a intervenire per porvi rimedio, affermando che spetta al legislatore colmare la lacuna. Dimenticando che, in passato, non di rado il legislatore ha evitato di dar seguito a moniti ben più incisivi (eutanasia) e, soprattutto, che la Corte stessa ha a disposizione lo strumento delle decisioni “additive”: quelle con cui, in vista dell’intervento del legislatore volto a colmare la lacuna, sono indicati i principi costituzionali da seguire o, ancora più incisivamente, specifiche norme già esistenti nell’ordinamento da assumere temporaneamente a modello. Con logica inusualmente contorta, quest’ultima sentenza 96/2025 riconosce la possibilità di prendere a modello l’ordinamento penitenziario, ma subito la esclude, affermando che la detenzione nei Cpr, non essendo conseguenza della commissione di reati, deve “restare estranea a ogni connotazione di carattere sanzionatorio”: con il risultato che la posizione meno grave della detenzione amministrativa si ritrova disciplinata in modo svantaggiato rispetto alla posizione più grave della detenzione penale. Un esito gravemente irragionevole, che rivela la persistente inadeguatezza della tutela costituzionale in materia di tutela degli stranieri e, più in generale, la difficoltà degli organi di controllo di operare con efficacia a tutela della Costituzione. In un momento in cui i suoi principi fondamentali si ritrovano, come mai prima d’ora, sotto l’attacco del potere politico. Migranti. C’è la data: il primo agosto la sentenza “Paesi sicuri” della Corte di giustizia Ue di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 luglio 2025 Tra meno di un mese si saprà se la prima fase del progetto Albania può ricominciare o resterà bloccata ancora per molto tempo. C’è finalmente una data ufficiale per la lettura della sentenza della Corte di giustizia Ue sulla questione “paesi sicuri”: il primo agosto alle dieci di mattina. È stata comunicata ieri alle parti. Tra meno di un mese, dunque, sapremo se il governo italiano può rinchiudere i richiedenti asilo originari di quegli Stati nel centro di Gjader. Si tratta di persone mai entrate nel territorio nazionale e trasferite in Albania direttamente dall’alto mare: inizialmente il protocollo con Tirana era stato pensato per loro. L’idea era far svolgere là, in detenzione extraterritoriale, le procedure accelerate di frontiera che da giugno 2026 saranno estese a diverse categorie di cittadini stranieri dal Patto europeo su immigrazione e asilo. Quando questa prima fase del progetto è andata a sbattere contro le pronunce dei giudici, proprio sulla definizione dei “paesi sicuri”, il governo ha esteso unilateralmente l’uso dei centri anche ai migranti “irregolari” già trattenuti nei Cpr attivi in Italia. Modifica su cui a fine maggio è partito un altro rinvio pregiudiziale alla Corte europea da parte della Cassazione. Il procedimento sui “paesi sicuri” è stato affrontato seguendo la procedura accelerata richiesta dal tribunale di Roma a novembre 2024, quando ha passato le carte di due ricorsi ai colleghi del Lussemburgo. Era attesa per giugno. Sulla base di una dichiarazione rilasciata da uno dei componenti del collegio in un incontro alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di metà maggio, il manifesto aveva scritto che, nonostante fosse già stata scritta, sarebbe diventata pubblica ottobre. Ieri, poi, la comunicazione ufficiale. A proposito dei conflitti: il dialogo non è forma, ma sostanza di Franco Vaccari Avvenire, 4 luglio 2025 Con l’esibizione della forza, spesso militare, si sta affermando una pseudo-cultura regressiva che esalta l’aggressività come elemento-chiave per dirimere le controversie. Ma è una via sbagliata. Il conflitto esiste in natura. È parte integrante delle dinamiche fisiche, chimiche e biologiche che regolano il mondo. Le forze si incontrano e si scontrano, generando quell’energia che dà forma e movimento alla vita. Anche l’esistenza umana, fin dalla sua dimensione più fisica, è attraversata da conflitti e vive attraverso di essi: dentro di noi, nei rapporti interpersonali, nelle società. Da questa infinita gamma di incontri e scontri, di attriti minimi o consistenti, nascono le relazioni, legami, costruzioni condivise, habitat dove si genera e rigenera la fiducia, fondamento per ogni possibilità di convivenza. Queste costruzioni, le ritroviamo a ogni livello: dalla vita psichica a quella sociale, e da lì a quella culturale, economica e politica. Tuttavia, ciò che distingue radicalmente l’essere umano dal resto della natura è l’emergere di una risposta inedita al conflitto: il dialogo. Se il conflitto è un dato naturale, il dialogo è un processo culturale. La relazione umana si evolve quando riesce a trasformare il conflitto in energia positiva grazie a questo strumento straordinariamente umano. Senza dialogo i conflitti degenerano, tornano alla loro forma originaria, imponendosi la logica implacabile della natura: prevale il più forte, soccombe il più debole. Il dialogo, dunque, è l’antidoto alla legge del più forte. È ciò che consente lo sviluppo pieno dell’umanità, intesa sia come realizzazione della persona sia come evoluzione del genere umano. Col tempo, il dialogo si è istituzionalizzato, si è fatto regola sociale, diventando quel “terzo elemento” che bilancia le forze in campo. È ciò che impedisce la regressione verso una società dominata esclusivamente da istinti primordiali. Per questo dovremmo preoccuparci ogni volta che il dialogo viene indebolito, deriso, svuotato di significato, ridotto a esercizio vuoto, o addirittura criminalizzato. Si sta affermando una pseudo-cultura regressiva che esalta la forza naturale a discapito di quella culturale. Come se l’impulso, l’aggressività, la sopraffazione fossero segni di autenticità, mentre la riflessione, la mediazione, la parola fossero indizi di debolezza o, peggio, di ipocrisia. Così, il dialogo viene relegato al ruolo di orpello, mentre prende piede un linguaggio pubblico sempre più violento, divisivo, osceno. Ne è esempio il discredito continuamente gettato sulle istituzioni internazionali, o la crescente marginalizzazione della diplomazia internazionale, derubricata a teatro inutile, mentre il conflitto armato non viene più neanche giustificato come “male necessario” o “reazione naturale con effetti collaterali”, ma addirittura esaltato come via salvifica dove l’umanità può assurgere all’eroismo. Ma le istituzioni - quei soggetti terzi che la storia ha costruito per garantire la giustizia, la solidarietà, la convivenza - nascono e si fissano proprio come spazi di dialogo. Servono a proteggere l’umanità nei suoi momenti di maggiore fragilità: quando è povera, vulnerabile. Spezzare questi luoghi terzi della mediazione equivale a mettere in discussione le condizioni minime della vita civile. Certo, il dialogo non può essere una scorciatoia retorica. Se non è ancorato alla realtà del conflitto, rischia di diventare parola vuota, esercizio verbale disconnesso dai problemi concreti. Forse, una riflessione collettiva ci aiuterebbe a riconoscere le occasioni in cui abbiamo ridotto il dialogo a pura forma, ignorando o rimuovendo le tensioni sottostanti. Eppure, per la sopravvivenza stessa della famiglia umana su questo pianeta, ridare forza al dialogo - a tutti i livelli: interpersonale, sociale, internazionale - è oggi ineludibile. E possiamo agire. L’obiezione di coscienza può iniziare da qui: non condividere nulla di ciò che svilisce e vanifica il dialogo, non sostenere chi lo dileggia e lo rinnega, magari con un semplice sorriso di sufficienza, non irridere le istituzioni, soprattutto quelle internazionali. In caso contrario, il destino dell’umanità potrebbe davvero somigliare a quello immaginato da Giacomo Leopardi, al termine di una delle Operette morali. Lì, un folletto conversa con uno gnomo, in un mondo ormai disabitato dall’uomo: ““E dove sono gli uomini?”. “Non ne rimane alcuno”. “E perché?”. “Perché, combattendo sempre tra loro, si sono distrutti a vicenda”. “E non si potevano accordare?”. “Avevano inventato il dialogo, ma lo disprezzarono. Preferirono la forza. E così finì l’umanità”. Non lasciamo che questa profezia si avveri. Oggi più che mai, è tempo di scegliere: forza umana o disumana, dominio o dialogo. Stati Uniti. Ministero della giustizia, ovvero ufficio vendette di Trump di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 4 luglio 2025 Donald ha nominato due suoi avvocati, Pam Bondi e Todd Blanche, ministro e viceministro. La stampa è stata attirata dalle prime vendette, come il licenziamento in blocco dei procuratori che avevano indagato su Trump, mentre quello che dovrebbe essere il tempio della Giustizia sta diventando il maxi ufficio legale personale del presidente. Weaponize: parola che significa trasformare qualcosa di normale in un’arma micidiale. Donald Trump l’ha usata negli anni delle sue incriminazioni e condanne per accusare Joe Biden di aver armato il ministero della Giustizia contro di lui. Eppure il presidente aveva scelto come ministro un magistrato stimato anche dai repubblicani, Merrick Garland, che, geloso della sua autonomia, aveva affidato il caso Trump a un procuratore indipendente. Ma ora è Donald, abile nel sovrapporre la sua narrativa ai fatti, a fondere desiderio di vendetta e autoritarismo facendo del dicastero un’arma: ha nominato due suoi avvocati, Pam Bondi e Todd Blanche, ministro e viceministro. La stampa è stata attirata dalle prime vendette, come il licenziamento in blocco dei procuratori che avevano indagato su Trump, mentre quello che dovrebbe essere il tempio della Giustizia sta diventando il maxi ufficio legale personale del presidente. Forzature che hanno le loro conseguenze. Così, sotto la superficie, con meno clamore, avvengono cose che dovrebbero preoccupare chi pensa che Trump stia facendo cose gravi ma non senza precedenti e che le elezioni di midterm del 2026 potrebbero frenarlo. Pam Bondi minaccia i magistrati che intervengono sugli atti di governo sostenendo che chi contrasta l’agenda politica del presidente si pone contro la legge. Ai giornalisti, che Trump vorrebbe vedere licenziati e la ministra dell’Interno Kristi Noem incriminata, la Bondi ha tolto le protezioni, soprattutto quelle sulla riservatezza delle fonti, dell’era Biden. Ma, soprattutto, il ministero sta studiando la possibilità di incriminare penalmente i funzionari elettorali di Stati e contee. Nulla di concreto, si dirà. Ma minacce e intimidazioni si stanno rivelando armi politiche efficaci (vedi i tanti parlamentari moderati, dialoganti, che hanno lasciato il Congresso). Trump semina paura (secondo lui strumento efficace di governo) anche facendo scomparire il senso del limite: Jared Wise, un ex Fbi che il 6 giugno 2021 fu tra i trascinatori dell’assalto al Congresso, processato per aver incitato i rivoltosi a uccidere i poliziotti del Campidoglio, da lui chiamati Gestapo, è stato perdonato da Trump. E ora entra nel ministero della Giustizia: consigliere di Ed Martin, capo della task force creata per le vendette nei confronti di quella che Trump chiama “la magistratura armata di Biden”.