Emergenza carceri: la risposta del Governo è un documento senz’anima di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2025 E Rita Bernardini continua lo sciopero della fame. Quando il 21 gennaio 2025 Roberto Giachetti si alzò dai banchi di Montecitorio per presentare l’ordine del giorno numero 9/ 2196/ 21, sapeva benissimo cosa stava facendo. Non l’ennesima mozione di principio, ma un impegno vincolante per il governo. E ora, cinque mesi dopo, quella strategia parlamentare inizia a dare i suoi frutti. Il documento che è arrivato sulla scrivania del deputato di Italia Viva qualche giorno fa racconta molto di più di una semplice procedura burocratica. Racconta di un sistema di controllo che funziona e di una battaglia politica che entra nel vivo. Ma, nel contempo, quello che non convince è il contenuto del documento, che più che concreti passi avanti sembra un report di buone intenzioni. Partiamo dai fatti. L’ordine del giorno 9/ 2196/ 21, firmato da Giachetti insieme a Faraone, Gadda, Del Barba, Bonifazi, Boschi e Gruppioni, non si limita a generiche raccomandazioni. Il testo è chirurgico: ‘ impegna il governo al fine di agire coerentemente con le finalità perseguite dall’articolo 6 del provvedimento, ad adottare ulteriori iniziative normative volte a migliorare la permanenza dei detenuti all’interno delle carceri, anche eventuali revisioni del sistema carcerario’. La formula ‘impegna il governo’ non è retorica parlamentare. È un vincolo politico e giuridico che obbliga l’esecutivo a dar conto delle proprie azioni. E infatti, puntuale come un orologio svizzero, è arrivata la risposta del ministero della Giustizia tramite il Servizio per il Controllo parlamentare. Ma l’ordine del giorno di Giachetti non viaggia da solo. Il documento del 30 giugno svela un piano più articolato, una strategia parlamentare che attacca il problema carcerario su più fronti. Ecco gli altri tasselli del mosaico. L’ordine del giorno di Stefania Ascari del M5S numero 9/ 1532- bis- A/ 27, approvato l’ 8 ottobre 2024, punta dritto sul supporto psicologico per gli agenti di polizia penitenziaria. Non è solidarietà di facciata: è la consapevolezza che un sistema carcerario malato avvelena anche chi ci lavora dentro. Suicidi, burn-out, violenze: la cronaca ci ha abituato a tragedie che nascono da un ambiente disumanizzante. Poi c’è l’ordine del giorno D’Alessio-Pastorella di Azione, numero 9/ 2002/ 70, approvato il 7 agosto 2024, che affronta il nodo del reinserimento lavorativo. Qui si parla di soldi veri: incentivi per le aziende che assumono ex detenuti, prolungamento dei benefici fiscali, politiche attive del lavoro. Perché se non c’è lavoro, non c’è rieducazione. E se non c’è rieducazione, il carcere diventa solo un parcheggio umano. Infine, l’ordine del giorno Faraone di Italia Viva, numero 9/ 2002/ 86, sempre del 7 agosto, che chiede assunzioni straordinarie di psicologi penitenziari e supporto psicologico per gli agenti. Un investimento in professionalità che oggi manca drammaticamente nel sistema penitenziario italiano. Le “buone intenzioni” - Dietro questi ordini del giorno ci sono numeri che dovrebbero togliere il sonno a chiunque abbia a cuore lo Stato di diritto. Il sovraffollamento carcerario in Italia tocca punte del 130 per cento in alcune strutture. I suicidi nelle carceri sono aumentati in maniera esponenziale nell’ultimo biennio. Gli agenti di polizia penitenziaria lavorano in condizioni di stress cronico, con organici ridotti all’osso e strutture fatiscenti. Non è un caso che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia condannato l’Italia più volte per trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti. Non è un caso che l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, abbia parlato di ‘emergenza carceraria’ già nel 2013. Sono passati dodici anni e il problema, nonostante sia stato attenzionato dall’attuale presidente Sergio Mattarella, si è aggravato. La nota del ministero si limita a riepilogare precedenti ordini del giorno già approvati tra agosto e ottobre 2024, dedicati a temi ormai noti: il supporto psicologico per gli agenti di polizia penitenziaria, gli incentivi occupazionali per ex detenuti, l’assunzione straordinaria di nuovi psicologi. Tutti spunti meritevoli, certo. Ma verrebbe da chiedersi: chi sta svolgendo il vero lavoro parlamentare, quello di monitoraggio e verifica, se le risposte non superano il recinto dei proclami? Il punto più critico riguarda proprio il cuore dell’ordine del giorno firmato da Giachetti. L’impegno a “migliorare la permanenza dei detenuti”, con presumibili interventi sulle strutture e sulle condizioni di vita carceraria, si arena nel generico “attuazione data all’ordine del giorno”. Nella pratica, nessuno dei passaggi illustrati - né la cornice normativa, né la calendarizzazione dei provvedimenti, né tanto meno un cronoprogramma - contiene scadenze o dettagli operativi. È come se, una volta firmato l’atto parlamentare, il dossier finisse nel calderone burocratico senza un vero motore di cambiamento. Altro elemento da non sottovalutare: la nota non menziona alcuna visita ispettiva, alcun tavolo di lavoro aperto con associazioni, magistrati di sorveglianza o garanti dei detenuti. A fronte di strutture sovraffollate e dei recenti allarmi per il malfunzionamento delle celle di isolamento, ci si aspettava l’avvio di un confronto più serrato, non semplici “ulteriori iniziative normative” in astratto. Il rischio è che, dietro un linguaggio apparentemente impegnato, si nasconda un’eccessiva prudenza politica. In tempi di crisi, quando l’opinione pubblica chiede soluzioni urgenti per la sicurezza e il reinserimento sociale, ogni rinvio rischia di tradursi in un allungamento delle sofferenze che si consumano quotidianamente dietro le sbarre. Se davvero l’esito dell’ordine del giorno 9/ 2196/ 21 deve essere una riforma strutturale e non un semplice annuncio, il Parlamento deve stringere i tempi. A partire proprio dalla proposta di legge Giachetti - Nessuno Tocchi Caino. Ricordiamo che Rita Bernardini, presidente dell’associazione, è in sciopero della fame da giorni. Serve precisare le tappe, fissare misure puntuali (quante celle saranno adeguate, con quali fondi, entro quando), creare un meccanismo di monitoraggio stretto e trasparente. Il diritto all’intimità è garantito per davvero, oppure rimane sulla carta? Altrimenti si finirà per registrare l’ennesima intenzione restata sulla carta, mentre la situazione nelle carceri continua a degenerare. Non è sufficiente che il ministero “prenda atto” di un ordine del giorno: serve che prenda sul serio la vita quotidiana di chi vive rinchiuso e di chi vi lavora. Solo così si potrà passare dalle parole ai fatti, consegnando al Paese un sistema carcerario degno di questo nome. La strada è ancora lunga - Roberto Giachetti sa bene che la battaglia per riformare il sistema carcerario non si vince con un ordine del giorno. Sa che dovrà tornare alla carica, presentare altre interrogazioni, verificare altri documenti, incalzare altri ministri. Ma sa anche che questa è l’unica strada possibile in una democrazia parlamentare. Quella che trasforma le denunce in proposte, le proposte in impegni, gli impegni in controlli. Quella che non permette al potere esecutivo di nascondersi dietro le emergenze quotidiane per dimenticare i problemi strutturali. La nota del ministero è solo un tassello di questo lavoro. Ma è un tassello importante, perché dimostra che qualcuno a Montecitorio non ha smesso di credere che le carceri italiane possano tornare a essere luoghi di recupero e non di pura custodia. La partita è ancora aperta. E Giachetti, da garantista di lungo corso, sa che non può permettersi di abbassare la guardia. Nel mentre, ribadiamolo ancora una volta, Rita Bernardini, assieme a numerosi attivisti dei diritti umani, non stanno a guardare. Che fine ha fatto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha promesso di battersi per far approvare almeno la liberazione anticipata speciale? Allarme caldo. Per le carceri emergenza senza fine di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2025 Forze politiche incapaci di soluzioni condivise in Parlamento. Dal 2020 aumenta la forbice tra i detenuti e chi sconta la pena all’esterno. Con l’arrivo della prima emergenza caldo nulla è più ipocriticamente ricorrente della stagionale attenzione della politica per le condizioni di vita delle carceri. Difficile possano essere significativamente migliorate dall’annuncio del ministero della Giustizia di avare avviato la procedura di acquisto di mille congelatori “a pozzetto” da destinare agli istituti penitenziari. Soprattutto a fronte di una situazione che vede 62.761 persone detenute (2.737 donne, 19.810 stranieri) in 190 istituti, a fronte di una capienza regolamentare di 51.296. A dimostrare plasticamente il fallimento della politica, maggioranza e opposizione, c’è la seduta straordinaria della Camera, nel marzo scorso. Una seduta dove, invece di scandagliare possibili larghe intese per soluzioni concrete, il clima è stato ancora una volta di reciproca contrapposizione nel rimpallarsi delle responsabilità. Ma se c’è un tema che chiama in causa, nel tempo, tutte le forze politiche questo è senza dubbio il carcere. Perché se è vero che a un anno dal decreto carceri del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e a poche settimane da un decreto sicurezza che moltiplica reati e sanzioni, nulla è cambiato e i numeri restano drammatici (27 i suicidi nel 2025 per il Garante delle persone detenute), neppure l’opposizione ha carte in regole per un’accusa credibile, solo a ricordare l’incapacità, per semplice convenienza elettorale, di dare seguito a una delle riforme meglio preparate, quella dell’ordinamento penitenziario, esito degli Stati generali dell’esecuzione penale nel 2016. E allora, mentre interventi un po’ più incisivi come la proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata languono da tempo senza prospettive in Parlamento, è delle diverse forme alternative alla detenzione che è meglio verificare l’espansione. Al 31 dicembre 2024, secondo quanto comunicato dal ministero della Giustizia, erano 93.880 le persone in misura alternativa alla detenzione, in messa alla prova o condannate a pena sostitutiva, con circa l’80% di italiani e un 20% di stranieri; 61.861 i detenuti. Complessivamente risultavano in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) oltre 100mila persone. La parte più consistente delle misure penali non detentive è occupata dall’affidamento in prova al servizio sociale, dalla messa alla prova e dalle diverse tipologie di lavoro di pubblica utilità (sostitutivo, per violazione del Codice della strada e della legge sugli stupefacenti). Complessivamente, hanno avuto accesso a queste tre misure oltre 70mila persone (dati al 31 dicembre 2024). È stato il 2020 a segnare un’inversione di tendenza, anno in cui il numero di persone in area penale esterna inizia a superare quello dei detenuti: rispettivamente, 60.204 e 53.364. Le misure per ridurre i contagi da Covid-19 hanno favorito le dimissioni dai penitenziari, e nello stesso tempo incentivato l’utilizzo delle pene non detentive. La crescita si stabilizza, sottolinea il ministero, e, dal 2022, è più rapida. L’area penale esterna è destinata a crescere ulteriormente, soprattutto a causa degli interventi normativi che favoriscono misure diverse dal carcere. Tra gli altri, è soprattutto la riforma Cartabia del Codice di procedura penale a incidere, con l’introduzione di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità), queste tre misure complessivamente prese interessavano circa 7mila persone al 15 giugno scorso, e l’estensione dell’istituto della messa alla prova a specifici reati puniti con pena inferiore nel massimo a sei anni, con circa 28mila persone interessate sempre al 15 giugno. Tutte da verificare invece perché affidate a misure di là da venire, peraltro da tempo annunciate, altre forme di intervento, seppure anche da pochi giorni rilanciate da Nordio. Innanzitutto una detenzione differenziata per i tossicodipendenti; poi l’espiazione della pena per gli stranieri presso i Paesi di origine; ancora, strutture di accoglienza per i detenuti che hanno i requisiti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione ma sono privi delle condizioni socioeconomiche. Infine, la riforma della custodia preventiva per i reati non di criminalità organizzata. Carceri, il caldo non è emergenza, arriva ogni anno, e basterebbe una seria programmazione di Maurizio Ermisino retisolidali.it, 3 luglio 2025 Libianchi: “L’approvvigionamento d’acqua è uno degli obiettivi dell’OMS per il Terzo Mondo. Noi abbiamo questo problema nelle nostre carceri”. È arrivata l’estate ed è arrivato, come ogni anno, il grande caldo: le massime in questi giorni sfiorano i 40 gradi. È quel periodo dell’anno in cui i telegiornali se ne escono con i famosi decaloghi per combattere le alte temperature, che poi ogni anno sono sempre gli stessi. Non c’è nessuno, o quasi, che si preoccupa dell’emergenza caldo che soffre chi si trova in carcere. Un luogo dove, insieme alla libertà, è spesso negata anche la dignità. Chi è in carcere non può aprire le finestre o accendere un condizionatore. Spesso neanche farsi una doccia o bere un bicchier d’acqua. Eppure l’emergenza caldo in carcere non è un’emergenza perché il caldo arriva ogni anno ed è assolutamente prevedibile. Ne abbiamo parlato con Sandro Libianchi, medico e presidente di Co.N.O.S.C.I., Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane e con Monsignor Benoni Ambarus, Vescovo Ausiliare di Roma. Stiamo toccando il fondo - Che il caldo sia un problema grave per chi vive in carcere è evidente. “La temperatura è uno dei determinanti di buona salute fisica e mentale delle persone che vivono in un contesto confinato” ci spiega Sandro Libianchi. “In questa estate in cui, in libertà, si va al mare, si aprono le finestre, si usano i condizionatori, si riesce a sostenere una temperatura imbarazzante. Chi ha una limitazione di libertà personale non può fare niente di tutto ciò e subisce una temperatura ambientale elevata, fastidiosa e anche pericolosa, perché ci sono detenuti anziani, come gli ergastolani, che sono diverse migliaia di persone. Si fa tanta pubblicità all’esterno, per le condizioni di salute degli anziani durante le ondate di calore, ma quando l’anziano è un detenuto non ci pensa nessuno”. “Le persone subiscono questo stato di cose, compreso chi in carcere ci lavora” aggiunge. “Chi lavora nelle sezioni, negli ambulatori da operatore subisce le stesse problematiche, solo che ha la prospettiva di tornare a casa la sera”. “Non è corretto parlare di emergenza carcere per il caldo” interviene Monsignor Benoni Ambarus. “Stiamo toccando il fondo per l’emergenza carcere punto. Sembra che i detenuti siano diventati la spazzatura umana di cui non si occupa nemmeno lo Stato. La mancanza di agenti penitenziari sta continuando a ridurre l’ingresso dei volontari. E i carcerati si trovano con il deserto attorno. I sacerdoti sono quelli che stanno lì sul pezzo senza arretrare”. Primo: i frigoriferi - Eppure le cose da fare per migliorare le cose non sarebbero davvero impossibili. “La strategia è quella che chiediamo da trent’anni” commenta Libianchi. “Se fai una programmazione per combattere le alte temperature oggi, ci metti gli anni successivi per metterla in atto. Ma se non programmi tutte le volte ci si trova di fronte all’emergenza caldo. Ma quale emergenza? Il caldo torrido ormai arriva ogni anno”. La prima cosa da fare sarebbe molto semplice. “Basterebbe un frigorifero per ognuna delle sezioni. Con un grande frigorifero, o due o tre, a seconda delle dimensioni delle sezioni, calcolando il numero dei presenti, si risolverebbero molti problemi. Li devi prendere tutti adesso? No: basta programmare. E possono servire per la conservazione dei cibi. Che è un altro problema: in carcere i cibi che cucino non possono essere conservati e li devo buttare. Dal punto di vista igienico la cosa sarebbe da verificare. Quando a un frigo hanno accesso tante persone, e i modi di conservare sono tanti e diversi, è necessario che ci siano delle istruzioni per l’uso”. Secondo: i ventilatori - È altrettanto intuitiva la seconda cosa che migliorerebbe la vita dei detenuti d’estate. “La cosa, in cui in maniera veramente provvidenziale, ha provveduto il Vaticano, sono i ventilatori” spiega Libianchi. “Ne hanno comprati un migliaio. Che per le 198 strutture penitenziare italiane non sono ancora sufficienti, ma è qualcosa. Anche il ventilatore di per sé, come il frigorifero, è un elettrodomestico che costa molto poco. Se ci fossero dei ventilatori distribuiti più saggiamente sarebbe una buona cosa”. “La Chiesa e la CEI hanno consegnato in giro per l’Italia qualche migliaio di ventilatori, come simbolo di attenzione” spiega Don Ambarus. “Non ci sono ad oggi iniziative così specifiche sul discorso del caldo. Si sta tentando di tenere il punto sui bisogni più essenziali che stanno aumentando. Una fetta di popolazione, sempre più grande, non ha nessuno e non ha nulla. Se uno non ha uno shampoo per lavarsi non ha i vestiti per cambiarsi, la possibilità di fare una telefonata, è chiaro che provi a fare di tutto per migliorare la sua condizione”. Terzo: l’acqua - E poi ci sarebbe un altro accorgimento, forse il più semplice di tutti. “Lasciare provviste d’acqua a disposizione” ci illustra Sandro Libianchi. “Altrimenti mi devo comprare l’acqua. O mi devo attaccare al rubinetto del bagno per sopravvivere. È una cosa indegna. Devo avere una scorta d’acqua - di sezione, di stanza o di corridoio - a disposizione, con un rifornimento settimanale. Quanto costa una bottiglia d’acqua? Niente. L’approvvigionamento d’acqua è uno degli obiettivi dell’OMS per il Terzo Mondo. È un problema del Terzo Mondo e noi lo abbiamo nelle nostre carceri”. Aprire le porte: è possibile? - Questi sono i tre pilastri per limitare il problema del caldo in carcere. Ma ci possono essere altri accorgimenti. Ad esempio quello di tenere aperte le porte. “Sarebbe importante” commenta Libianchi. “Il problema del blindo aperto è un po’ complesso. Non per le fughe, ma perché dare una regola per tutte le strutture penitenziarie non è facile. Le strutture sono tutte diverse. Non tutte le carceri hanno un blindo; alcune, come Regina Coeli, hanno una porta di legno, che, nella parte posteriore, non ha una grata. In molti luoghi c’è una doppia porta: quella esterna è oscurata, non fa passare l’aria e la luce, e l’altra è un cancello di ferro. La prima porta si può lasciare aperta dove ci sia il blindo dietro con le sbarre. Certo, ci sono alcuni reparti di alta sicurezza in cui non è consigliabile lasciare aperto: allora incrementi tutto e dai un ventilatore per stanza”. La questione delle docce - Un altro accorgimento sarebbe quello di lasciare la possibilità di effettuare docce più liberamente, e non solo in orari bloccati. “La doccia è un provvedimento di igiene personale, che deve essere conservato” ragiona Libianchi. “Le docce devono essere aperte a più riprese. Deve essere autorizzata una a giorno, o forse di più, per ogni persona che lo richieda. A volte ci si fissa su dettagli come gli alti consumi di acqua. Stai impiegando provvedimenti di igiene personale, essenziali in una comunità confinata: dire che si consuma l’acqua è idiozia di qualche amministrativo. In realtà stai impedendo che poi si ricorra a cure con gli antibiotici a persone che si sono infettate, che costano di più dell’acqua che impeghi”. Il compito della Asl - Si tratta di programmare, di fare una strategia, di “avere una visione allargata” continua Libianchi. “E su questo si dovrebbero muovere, cosa che ho visto rarissimamente, i dipartimenti di prevenzione delle Asl, da cui dipende l’igiene ambientale dei locali sottoposti alla loro sorveglianza. I dipartimenti di prevenzione delle Asl devono sorvegliare il mantenimento delle condizioni di igiene anche nelle carceri ai sensi della Legge 345 del 26 luglio 1975 che all’art. 11 prevede che “Il medico provinciale visita almeno due volte l’anno gli istituti di prevenzione e di pena allo scopo di accertare lo stato igienico-sanitario, l’adeguatezza delle misure di profilassi contro le malattie infettive disposte dal servizio sanitario penitenziario e le condizioni igieniche e sanitarie dei ristretti negli istituti”. E devono dare vere e proprie prescrizioni che devono essere rispettate”. Don Ambarus: “Le istituzioni non distolgano lo sguardo” - Monsignor Benoni Ambarus chiude con un appello. “Un problema che esiste oggi di cui non ci si occupa diventa un’esplosione domani, di cui ci si dovrà occupare” ammonisce. “Chiedo alle istituzioni di non distogliere lo sguardo. È una polveriera che potrebbe esplodere, con costi poi altissimi. Non distogliamo lo sguardo: dopo il vento segue la tempesta. Non è una minaccia ma uno scenario che sta prendendo forma. Non possiamo non occuparci del carcere e dei carcerati, che sono delle persone”. Lasciare cadere nel vuoto il richiamo di Mattarella rappresenta una grave ferita alla nostra democrazia di Giunta e Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penale Italiane camerepenali.it, 3 luglio 2025 L’emergenza carceri e la vergognosa condizione di sovraffollamento non possono di certo finire frettolosamente archiviate nella soffitta del dibattito politico. Occorre un messaggio al parlamento, alle istituzioni, all’opinione pubblica ai sensi dell’art. 87 Cost. Il documento della Giunta e dell’Osservatorio Carcere. L’ennesimo richiamo del Presidente della Repubblica, on. Sergio Mattarella, ad affrontare immediatamente ed efficacemente l’emergenza carceri e la vergognosa condizione di sovraffollamento, non può di certo finire frettolosamente archiviato nella soffitta del dibattito politico. Non è il primo monito e potrebbe non essere l’ultimo, se non si provvede con serie misure a porre un argine alla pericolosa deriva umanitaria che sta attraversando il sistema penitenziario. Il Parlamento non può certo far finta di nulla, così il Governo e l’amministrazione penitenziaria, rappresentata all’incontro dal dott. Stefano Carmine De Michele, appena nominato alla guida del DAP. La politica non può volgere lo sguardo altrove, sperando così di scrollarsi di dosso il peso morale, giuridico e politico dello sfascio attuale, di allontanare da sé la responsabilità del non agire dinanzi a “la vera emergenza sociale dei suicidi” sulla quale, per usare le parole del Presidente della Repubblica, “occorre interrogarsi per porre fine immediatamente” alla inarrestabile scia di morte. Non è possibile, come ha detto Mattarella, assistere indifferenti alla progressiva trasformazione dei “luoghi di detenzione in palestra per nuovi reati o di addestramento al crimine”, come dimostrano i recenti casi di aggressione violenta a un detenuto ristretto a Prato o le violenze sessuali subite da diversi detenuti a Genova e Reggio Emilia. Occorre invertire la rotta, nel rispetto della Costituzione, nell’interesse della intera comunità nazionale. Restituire la dignità calpestata nelle carceri, investire ed impegnarsi nel trattamento e nelle attività di risocializzazione vuol dire offrire, attraverso una possibilità di recupero a tutti i detenuti, una garanzia di sicurezza per i liberi cittadini. Purtroppo, le prime reazioni del ministro Nordio al monito presidenziale non ci rassicurano per nulla. Replicare con la indicazione dei soliti impegni di governo per la costruzione di nuove carceri, per la individuazione di comunità per tossicodipendenti o di strutture di accoglienza per le misure alternative, per l’espulsione irrisoria di detenuti stranieri, per l’aumento di psicologi e agenti, vuol dire allontanare ad un tempo indefinito le necessarie azioni di contrasto ai drammatici eventi che dalle carceri quotidianamente investono tutti noi. Forse, davvero, non rimane che auspicare l’indirizzo, da parte del Presidente della Repubblica, di un formale messaggio alle Camere, ai sensi dell’art. 87 della Costituzione, che esprima il dovere di aggredire lo sfascio sociale e civile delle carceri; un monito alle istituzioni, all’opinione pubblica, una messa in mora al Parlamento finora troppo restio nell’assumersi le proprie responsabilità dinanzi ad una condizione che offende prima di ogni cosa la dignità della nostra democrazia. Più risorse e strategie personalizzate per un reintegro efficace dei detenuti di Camilla Curcio Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2025 Occorre incentivare anche l’iter di reinserimento di chi sconta misure alternative al carcere. Se il reintegro sociale e la recidiva zero passano evidentemente da percorsi di reinserimento che fanno leva su istruzione, formazione e lavoro, nella realtà dei fatti c’è ancora molta strada da fare per tradurre i buoni propositi in progettualità efficaci. “In Italia siamo purtroppo molto indietro perché il carcere riesce ancora a fare concretamente poco”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio dell’associazione Antigone sulle condizioni dei detenuti. “Rispetto alla formazione professionale, ad esempio, i numeri sono modesti e le iniziative disomogenee: a volte sono strutturate in base alle disponibilità del territorio, quindi restituiscono una spendibilità maggiore. Ma spesso non accade e il ritorno è esiguo”. Riguardo, invece, all’avvio al lavoro, legato quindi alle opportunità che, dalle stanze del carcere, possono poi convertirsi per i detenuti in chance più o meno stabili una volta scontata la pena, il quadro si fa più variegato. Gli attori in gioco sono diversi, come diverso è l’output. “Se mettiamo da parte la grande massa del lavoro penitenziario, che resta poco qualificante ed è per lo più concepito come una forma di welfare, ci sono poi altre opportunità, ad esempio alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, dalla fabbricazione di mobili al confezionamento di scarpe per il personale di polizia”, aggiunge Scandurra, “che sì restano sempre nell’ordine dei piccoli numeri ma formano le persone a un lavoro vero e con un’occupabilità effettiva”. Il contrasto più ampio si nota, forse, tra l’opera delle cooperative sociali e quella degli imprenditori privati. Ma più che un problema di intenzioni, per Scandurra, a ostacolare la riuscita di molti progetti proposti dalle imprese sono burocrazia e intoppi di logistica. “Mentre le cooperative sociali costruiscono percorsi all’interno del carcere che riescono poi a portare con successo anche fuori, avvalendosi ad esempio degli aiuti della legge Smuraglia e al netto di un inserimento sul mercato del lavoro che rimane molto mediato, gli imprenditori privati hanno difficoltà concrete nell’importare in carcere il modus operandi dell’impresa e far sì che chi è coinvolto, a fine pena, possa lavorare con profitto. Questo resta il tema su cui si insiste a più riprese ma i risultati non soddisfano: a oggi, su circa 62mila detenuti sono solo 250 quelli occupati da aziende. La buona volontà, purtroppo, non compensa le difficoltà operative”. Per sciogliere i nodi, serve operare in più direzioni. Una delle soluzioni, ad esempio, sarebbe implementare il lavoro da remoto, con benefit anche per la formazione e in linea con le richieste del mercato. E poi puntare sugli investimenti, strutturando strategie costruite “attorno ai bisogni della persona, allineandoli a quelli della rete”. Più risorse all’istruzione - Sul fronte dei progetti scolastici, la situazione sembra meno critica ma è sempre un work in progress. Restano, comunque, una risorsa essenziale, soprattutto per i detenuti giovani. “L’istruzione rimane uno strumento di potente emancipazione e contribuisce al reinserimento di detenuti ed ex detenuti in società”, sottolinea Emidio Musacchio, responsabile del polo di Porto Valtravaglia della Fondazione Asilo Mariuccia. “Nelle carceri sono stati implementati vari programmi, dall’alfabetizzazione base ai corsi universitari, ma ci sono ancora sfide significative da affrontare, come la necessità di risorse economiche, l’accesso a tecnologie moderne e il supporto post detenzione. Occorre, in questo senso, migliorare la collaborazione tra sistema penitenziario, istituzioni educative e non profit. Garantendo a tutti un accesso equo, anche con programmi di tutoraggio e sviluppo personalizzato utili a facilitare la transizione verso la vita fuori dal carcere”. Le misure alternative - In questo quadro, accendere un faro sul reintegro di chi sconta misure alternative alla detenzione è quanto mai necessario. Seppure in Italia, nel 2024, siano state rilevate oltre 90mila persone in detenzione domiciliare o in semilibertà (quindi più dei detenuti incarcerati), il reinserimento non è così semplice. Perché, se da un lato, il lavoro di volontari, Onlus e imprese fa la differenza, dall’altro le norme non aiutano gli imprenditori. “Le pene alternative esistono e vanno considerate”, sottolinea Adriano Moraglio, presidente dell’associazione La goccia di Lube che, con il progetto inclusivo Impresa accogliente finanziato dalla Regione Piemonte, nell’ultimo anno, ha messo a segno 23 inserimenti lavorativi su 90 tra Torino e dintorni. “Chi si trova a scontare queste misure è “meno tutelato” rispetto a chi è dentro: si parla perlopiù di soggetti svantaggiati e con bassa scolarità che, se non supportati a dovere, non riescono a mantenersi”, conclude Moraglio. “Se vogliamo puntare davvero alla recidiva zero, dobbiamo partire da loro. Poi sicuramente aggiornare la legge Smuraglia, che a oggi non garantisce incentivi ad aziende che assumono lavoratori in misura alternativa e per i beneficiari prevede un iter tutt’altro che snello. E, infine, attivare un’opera di sensibilizzazione che agisca sulle mentalità e contribuisca a sradicare il pregiudizio, coinvolgendo tutti i tasselli del puzzle e aiutando attivamente persone che, altrimenti, rischiano di portarsi dietro un marchio a vita”. Il ruolo del Terzo settore - Il ruolo del Terzo settore resta decisivo nel reinserimento. Diversi sono stati, negli anni, i progetti attivati e gestiti da fondazioni e associazioni non profit. A partire, ad esempio, dal già citato Impresa accogliente: la prima edizione ha contato sull’appoggio dell’Uiepe (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna di Torino), del centro di giustizia minorile, di datoriali, agenzie per il lavoro e imprese. “Un esempio virtuoso di sinergia tra pubblico, non profit e imprenditoria”, precisa Antonella Giordano, direttore dell’Uiepe Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. “L’obiettivo resta quello di dare attuazione alla pena ma tendendo a restituire dignità al condannato e a favorire la riparazione sociale”. Numerose sono state anche le iniziative della Fondazione Asilo Mariuccia: dai laboratori di educazione al lavoro utili a motivare e stimolare i ragazzi al progetto Un porto nuovo per ampliare l’offerta di servizi nel polo di Porto Valtravaglia, con cinque laboratori (cucina, panetteria, informatica, manutenzioni e carpenteria navale). Fino alla prossima apertura del polo sportivo. “Forno” Rebibbia e la politica dorme (con aria condizionata) di Gianni Alemanno* Il Dubbio, 3 luglio 2025 Se uno studente volesse sperimentare in modo evidente il significato del concetto fisico di “gradiente termico” dovrebbe venire qui a Rebibbia e spostarsi dal piano terra fino al secondo e ultimo piano. Al piano terra, grazie all’umidità che viene dal suolo, il caldo estivo è ancora sopportabile, ma salendo per le scale che portano al secondo piano, la temperatura aumenta progressivamente di almeno un paio di gradi per ognuna delle quattro rampe che compongono queste scale. Per cui, quando si arriva in cima, ci sono quasi dieci gradi di temperatura in più. Se poi, come il sottoscritto, si abita nell’ultima cella del corridoio, quella esposta al sole non solo sul soffitto ma anche su due lati, “l’effetto forno” è una realtà. Il carcere di Rebibbia è stato costruito negli anni 70 quando tutte le strutture erano in cemento armato privo di coibentazione e quindi perfette per trasmettere il freddo durante l’inverno e il caldo durante l’estate. Ma d’inverno ti metti due coperte, d’estate cosa fai? Assenti, ovviamente, impianti di condizionamento nelle celle e nei corridoi, i detenuti girano in versione spiaggia (per non dire altro), si buttano in branda come se fossero su un lettino da spiaggia (per non fare altri paragoni), si inventano miserevoli trucchi per contrastare qualche grado di temperatura. Luciano, il nostro anziano di cella, esperto muratore e capo mastro, ha elaborato un complicato sistema di vasi comunicanti per distribuire l’acqua corrente per rinfrescare bottiglie d’acqua e un poco l’ambiente. Poi ci sono i ventilatori, quelli antichi da tavolo, non più di due a cella, che - se hai i soldi sul conto corrente - puoi comprare dall’Amministrazione. Noi ne abbiamo anche uno solo, perché quello che ho comprato io non mi viene consegnato da quindici giorni, visto che l’Amministrazione, troppo impegnata a organizzare pletorici eventi sportivi e d’intrattenimento dentro il carcere (molto utili a fare bella figura nei Tg, di scarso interesse per le persone detenute), non riesce a dare impulso neanche alle più semplici pratiche burocratiche, come comprare qualche ventilatore o qualche medicina, né riesce a nominare il Caporeparto che nel nostro Braccio manca da qualche settimana (da quando se n’è andata la grandissima Cinzia), così come avviene anche nel problematico Braccio G11. Questo surdo di caldo rovente, che ci porteremo addosso per i prossimi mesi, si aggiunge alla vergogna del sovraffollamento. Ma la politica dorme (con l’aria condizionata) e non si accorge che già a giugno siamo arrivati a cinque proteste carcerarie in giro per l’Italia, errore clamoroso (oggi anche reato, dopo il decreto sicurezza) da parte dei detenuti, follia da cervelli surriscaldati e da persone accatastate una sull’altra. Come ho detto più volte, qui al braccio G8 di Rebibbia siamo ai “Parioli” delle carceri laziali, ma anche qui, senza un Caporeparto, avvengono cose che non dovrebbero avvenire. Come una persona malata di scabbia che viene messa dentro il nostro reparto per svariati giorni, come una persona “normale” che viene alloggiata nel reparto dei transessuali, come una persona detenuta lasciata dormire una notte in infermeria. Perché non sanno più dove metterli questi detenuti, il cui numero cresce di centinaia ogni mese che passa. Perché i Tribunali di sorveglianza, soprattutto quello di Roma, non hanno personale (né elasticità mentale) e non riescono a mandare alle pene alternative neppure le persone che hanno tutti i requisiti per ottenere questi benefici previsti dalla legge. Nel mio reparto c’è Mario, arrestato a 81 anni per una condanna definitiva per reati finanziari di quindici anni prima, che, dopo un mese e mezzo di carcere, finalmente cinque giorni fa si è visto riconoscere dal Tribunale di sorveglianza il diritto ad andare agli arresti domiciliari. Ma, passati cinque giorni, Mario sta ancora qui! Con le sue gambe piene di piaghe e di croste (non so per quale malattia) in bella vista sotto i calzoncini che pure lui deve indossare per sopportare il caldo. Sta ancora qui e nessuno sa il perché! Ma la politica dorme (con l’aria condizionata), aspettando che il Commissario preposto costruisca magicamente le nuove carceri che dovrebbero ospitare le 14.000 persone che sono detenute in più rispetto a quelle che per regolamento i nostri istituti penitenziari potrebbero ospitare. L’ultima notizia è che saranno acquistate con 32 milioni di euro delle strutture prefabbricate che, una volta installate, dovrebbero ospitare 384 detenuti in più, per un costo di 83.000 euro per ogni detenuto! Considerati i mesi necessari per l’installazione, questi prefabbricati non riusciranno neanche a ospitare le nuove persone che nel frattempo saranno state portate in carcere. Ma la politica dorme (con l’aria condizionata) e si dimentica delle carceri sovraffollate e surriscaldate, aspettando indifferentemente che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo sanzioni l’Italia per trattamento inumano e tortura delle persone detenute. Nel 2024, 71 persone detenute si sono tolte la vita, nei primi sei mesi del 2025, siamo già a 38, un suicidio ogni cinque giorni, numeri che gridano vendetta, ma che non fanno rumore, perché chi muore in carcere, spesso, muore due volte, nella cella e nell’indifferenza collettiva. Ma la politica se non dorme, fa la faccia feroce “legge e ordine” che dice ai cittadini “puniamo i criminali”, peccato che in questo modo puniscano anche gli agenti di Polizia penitenziaria, seconde vittime del caldo e del sovraffollamento, che girano nell’aria rovente dei reparti, senza neppure potersi togliere di dosso la divisa mimetica. Certo, fino a ieri a distogliere l’attenzione c’era una nuova guerra che poteva dilagare dall’Iran a tutto il Mediterraneo, ma da qualche giorno i Tg parlano solo del caldo che si sta abbattendo su cittadini e turisti. Sui detenuti no? Problema rimosso, anche giornalisticamente? Qualcuno mi dirà: ma anche tu dormivi quando eri ministro, o sindaco, o deputato. No, miei cari, io ci perdevo il sonno, facevo riunioni alle tre di notte (chiedere ai poveri poliziotti che mi facevano da scorta), magari non riuscivo a risolvere tutti i problemi, magari non riuscivo a controllare tutto quello che accadeva dietro le mie spalle, ma avevo l’ossessione continua delle persone a cui dovevo dare delle risposte. Perché quando si fa politica, e soprattutto si prendono impegni istituzionali, non si può volgere la testa dall’altra parte, non si può chiudere gli occhi perché non conviene vedere. Perché questo non è solo uno sbaglio, è una vergogna. *Ex Sindaco di Roma, attualmente detenuto a Rebibbia Ingiuste detenzioni, scontro in maggioranza tra Costa e Delmastro: “Intervenga la Corte dei conti” di Liana Milella Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2025 In Commissione, alla Camera, l’esponente di Forza Italia contro il sottosegretario di Fdi: “Paga solo lo Stato. Da Nordio solo tre azioni disciplinari”. “Non c’è correlazione tra errori e responsabilità disciplinare dei magistrati”. Uno super garantista. L’altro super giustizialista. Il primo deputato di Forza Italia. E da un paio di settimane anche vicepresidente della commissione Giustizia della Camera. L’altro non solo sottosegretario alla Giustizia, ma sempre super protetto da Giorgia Meloni. L’uno di fronte all’altro, Enrico Costa e Andrea Delmastro Delle Vedove. Che alla Camera, in commissione, si scontrano a brutto muso sulla sostanza e sui numeri dell’ingiusta detenzione. Quando, cioè, un pm mette in galera un suo inquisito senza che ci siano prove ed effettiva necessità. Un leit motiv, quest’ultimo, per Costa. Che da anni batte e ribatte sempre lo stesso tasto. Al punto da presentare, a novembre dell’anno scorso, un emendamento al ddl che modifica le competenze della Corte dei conti per imporre l’obbligo automatico, per il ministero della Giustizia, di comunicare alla procura contabile le domande di risarcimento per ingiusta detenzione già accolte e per quantificare poi il conseguente danno erariale sui magistrati. In commissione rieccoli di fronte. Agguerritissimi. Costa “interroga” Delmastro proprio sulle ingiuste detenzioni. Premette che “dal 1992 lo Stato ha speso 900 milioni di euro in risarcimenti in questo capitolo di spesa, quindi c’è stato un danno per l’erario”. Si tratta di “cittadini innocenti privati della libertà anche se archiviati o assolti”. Qualcuno, e quanto, ha pagato per questo? Gli risulta “solo un caso del 2010 di un magistrato di Salerno per arresti domiciliari”. Dunque “i casi ci sono, ma la Corte dei conti non riceve le segnalazioni? E che fa il ministero della Giustizia, raccoglie solo i dati statistici? Quante segnalazioni per danno erariale ha inviato alla Corte Conti?”. E qui Delmastro, come un treno, legge un testo di tre cartelle che gli hanno scritto i suoi. E cita le 94.168 misure cautelari del 2024, il 56% in custodia cautelare. Per riparare le ingiuste detenzioni ecco 26,9 milioni di euro, rispetto ai 43 milioni di cinque anni prima. E chiosa: “Dati ancora troppo elevati per uno stato di diritto e che impongono una necessaria riflessione”. Proprio il giustizialista di destra Delmastro è costretto a dire che “in un ordinamento democratico chi è stato ingiustamente privato della libertà personale ha diritto a una congrua riparazione per i danni morali e materiali subiti”. Latineggia con quel “accertata ex post come utiliter data”. Parla di “ristoro per la libertà ingiustamente compressa, indipendentemente dall’erroneità del provvedimento giurisdizionale posto a base della detenzione”. ?E qui eccolo in contrasto con Costa quando afferma che “il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può essere ritenuto di per sé indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. Perché, sostiene, la responsabilità disciplinare “presuppone il dolo o la colpa grave nell’adozione del provvedimento restrittivo”. E quindi, dando del tutto torto alle idee di Costa, sostiene che “non c’è una necessaria correlazione tra i dati relativi all’ingiusta detenzione e quelli relativi ai procedimenti disciplinari iniziati a carico dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni”. Cita pure “l’attento monitoraggio avviato dall’ispettorato generale sulle ordinanze di accoglimento delle domande di riparazione per ingiusta detenzione”, da cui “non è emersa alcuna correlazione tra i provvedimenti e gli illeciti disciplinari dei magistrati”. E qui cita i procedimenti disciplinari sulle toghe tra il 2017 e il 2024 che riguardano le ingiuste detenzioni e che risultano “sempre altalenanti e comunque registrano un calo”, ma “nell’88,7% dei casi gli illeciti si sono conclusi con esito positivo, cioè con l’assoluzione e il non doversi procedere, mentre l’esito negativo c’è stato solo nel restante 11,3%, con la punizione della censura, dell’ammonimento, e del trasferimento”. E proprio su quest’ultimo passaggio si scatena Costa. “La mia traduzione di quanto dice Delmastro è che paga solo lo Stato”. Cita “le zero segnalazioni del 2024 per l’azione disciplinare”. Poi quelle “pari a zero per l’ingiusta detenzione”. Registra un errore commesso da Delmastro, perché non si tratta dell’89% di azioni disciplinari concluse con esito positivo tra il 2019 e il 2024, “ma solo di 89 azioni disciplinari in tutto”. C’è un “%” di troppo. Con il seguente esito, “44 non doversi procedere, 28 assoluzioni, 8 censure, 1 trasferimento, 8 ancora in corso”. E conclude: “Quindi in totale, su 5.933 errori, solo 9 condanne, sanzionato lo 0,15% degli errori”. Poi mette sul banco degli imputati proprio via Arenula: “Un dato balza agli occhi. La progressiva riduzione delle azioni disciplinari promosse dal ministro della Giustizia. Nel 2017 sono state 11, 14 nel 2018, 22 nel 2019, 19 nel 2020, 2 nel 2021, 1 nel 2022, 3 nel 2023, 0 (zero) nel 2024”. Quello zero tra parentesi è proprio di suo pugno. Quindi il Guardasigilli Carlo Nordio ne conta “al massimo” quattro. L’arringa finale anti Delmastro è drastica: “Il servizio monitoraggio non va affidato ai magistrati fuori ruolo, perché per questa ragione è un colabrodo”. E poi: “Lo dico in modo chiaro, puntuale e palese non può essere il ministero a occuparsi di questo”. Per lui tocca alla Corte dei conti, e sta già meditando di piazzare quanto prima il suo emendamento anti giudici al posto giusto. Giudici contabili contro giudici ordinari, un bel match. Perché “Forza italia su questo andrà avanti”. Contro chi rema contro, “da una parte l’Anm, dall’altra il ministero che evidentemente su questo vanno a braccetto”. Delmastro e Nordio sono serviti. Ingiuste detenzioni, Nordio: “Il risarcimento non significa che il magistrato abbia colpe” di Simona Musco Il Dubbio, 3 luglio 2025 Il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può “essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. Risponde così il ministro della Giustizia Carlo Nordio, interrogato dal deputato di Forza Italia Enrico Costa e dal collega Davide Bellomo. I due parlamentari avevano chiesto conto al ministero del reale impatto del monitoraggio sui procedimenti per ingiusta detenzione, in particolare rispetto alla responsabilità per danno erariale. Che non sarebbe correlato ai soldi versati dallo Stato a chi ha subito ingiustamente una misura cautelare. Dal 1992, lo Stato ha speso quasi 900 milioni di euro in risarcimenti, configurando un potenziale danno erariale, a dire dei due deputati, che si verifica quando un dipendente pubblico provoca un danno economico allo Stato. Tali risarcimenti derivano da provvedimenti restrittivi ingiustificati a carico di persone poi risultate innocenti. Secondo un’indagine della Corte dei Conti del 2021 sulle ingiuste detenzioni nel periodo 2017- 2019, c’è stato solo un procedimento per danno erariale a carico di un magistrato a Salerno, per colpa grave. La rarità degli interventi della Corte dei Conti, secondo i due deputati, non sarebbe dovuta all’assenza di responsabilità, ma alla mancanza di segnalazioni da parte della pubblica amministrazione, nonostante l’obbligo normativo. Da qui la richiesta a via Arenula di rendere noto se il monitoraggio in corso serva solo a fini statistici o anche a individuare cause e responsabilità dei danni erariali da ingiusta detenzione e quante segnalazioni di danno erariale legato a risarcimenti per ingiusta detenzione sono state inoltrate alla Corte dei Conti. Nordio, però, ha ridimensionato il problema. L’entità degli importi per riparazione per ingiusta detenzione nel 2024 è diminuita: sono stati spesi 26,9 milioni di euro, a fronte degli oltre 43 milioni sborsati nel 2019. Dati comunque “troppo elevati per uno Stato di diritto e impongono una necessaria riflessione afferma il ministro -. In un ordinamento democratico, chi è stato ingiustamente privato della libertà personale ha diritto a una congrua riparazione per i danni morali e materiali subiti. Riparazione che il nostro sistema riconnette anche ad ipotesi di custodia cautelare, accertata ex post come inutiliter data, sulla base di emergenze istruttorie modificate o smentite in sede dibattimentale”. Ma si tratta di “uno strumento indennitario da atto lecito e non da illecito, diretto a compensare le ricadute sfavorevoli, patrimoniali e non, della privazione della libertà, attraverso un sistema di chiusura con il quale l’ordinamento riconosce un ristoro per la libertà ingiustamente compressa, indipendentemente dalla erroneità del provvedimento giurisdizionale posto a base della detenzione”. Non è, dunque, scontata la responsabilità disciplinare del magistrato. E “l’attento monitoraggio avviato dall’Ispettorato generale del Dicastero” sulle ingiuste detenzioni non avrebbe fatto emergere “alcuna correlazione tra i provvedimenti e gli illeciti disciplinari dei magistrati che ricordo sono regolati con decreto legislativo n. 109 del 2006”. Tra il 2017 e il 2024, afferma Nordio, i procedimenti disciplinari si sono conclusi nell’ 88,7% dei casi con assoluzione e non doversi procedere: solo l’ 11,3% dei casi si è concluso con una sentenza di censura, ammonimento o trasferimento. Per quando riguarda le segnalazioni trasmesse alla Corte dei conti dal ministero, “il sistema disciplinare consente di intercettare e sanzionare condotte censurabili molto prima ed indipendentemente dalla verifica dei presupposti per il riconoscimento della riparazione da ingiusta detenzione, fermo restando che per quanto di competenza del ministero della Giustizia le condanne per ingiusta detenzione vengono prontamente sottoposte al vaglio delle articolazioni deputate a valutare l’eventuale sussistenza dei profili disciplinari”. Una proposta che ha lasciato totalmente insoddisfatto Costa: nel periodo 2017- 2024, infatti, sono state 5933 le ingiuste detenzioni risarcite dallo Stato, per un totale di 254,5 milioni di euro. E a fronte di queste sono state 89 le azioni disciplinari avviate e solo nove condanne: lo 0,15% degli errori. Mentre le azioni disciplinari promosse dal ministro della Giustizia sono sempre più rare: si è passati dalle 22 del 2019 a zero nel 2024. “Dal ministero della Giustizia uno scudo impenetrabile per i magistrati che provocano arresti ingiusti, di persone poi assolte - conclude Costa -. Stessa posizione dell’Anm”. Ingiusta detenzione, quei risarcimenti che non basteranno mai di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 3 luglio 2025 Le storie di Stefano, Jonella, Ezio e gli altri. Il dossier trasmesso al Parlamento fa il punto sulle richieste di indennizzo presentate da centinaia di uomini e donne tenuti in cella e poi scagionati. La somma complessiva che grava sulle casse dello Stato sfiora i 27 milioni di euro solo per il 2024. Ogni anno centinaia di persone chiedono allo Stato di essere indennizzate perché incarcerate ingiustamente, prosciolte al termine delle indagini preliminari o assolte nei processi. Ingiusta detenzione: risarcimento al giorno e risarcimento massimo - Non tutte ottengono i risarcimenti massimi previsti, con un tetto fissato a 516.456,89 euro per i casi più pesanti, 1.286 euro al giorno. Spesso gli importi riconosciuti dalla magistratura sono inferiori a quelli richiesti da donne e uomini incolpevoli privati della libertà. A molti di loro il rimborso viene negato. In svariati casi i procedimenti si trascinano a lungo e con decisioni altalenanti. Non era un omicida, andrebbe risarcito? - Per esempio. Stefano Binda è stato assolto in via definitiva dall’accusa di aver ucciso l’ex compagna di liceo Lidia Macchi, trovata senza vita il 7 gennaio 1987 in una zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio, nel Varesotto. L’omicidio è rimasto irrisolto. Nel settembre 2024 l’uomo ha ottenuto sulla carta il riconoscimento di un indennizzo di circa 212 mila euro, cifra tagliata di quasi un terzo rispetto a quella stabilita in prima battuta e relativa a tre anni e mezzo in cella, per la precisione 1.286 giorni. L’avvocatura di Stato ha impugnato il pronunciamento a lui favorevole e ha presentato ricorso in Cassazione. “Con i suoi silenzi - è la tesi - avrebbe contribuito all’errore sulla sua carcerazione”. Calcolo del risarcimento per ingiusta detenzione e indagati eccellenti - Jonella Ligresti, figlia del potente immobiliarista Salvatore Ligresti, sempre nel settembre 2024 si è vista riconoscere 48.539,63 euro per 126 giorni di cella e otto mesi ai domiciliari, a fronte dei 97.079,23 calcolati dai legali. Indagata per false comunicazioni sociali e aggiotaggio, era uscita pulita dalla vicenda. Il carcere è stato ritenuto ingiusto anche per Ezio Stati, già assessore regionale in Abruzzo e tesoriere locale della Dc. Passò 15 giorni dietro le sbarre, arrestato per presunti reati connessi alla ricostruzione post terremoto 2009. Assolto con formula piena, dopo 14 anni, dovrebbe portare a casa 5.341 euro. Bonus dovuto anche per pochi giorni in cella - Per un ragazzo egiziano, arrestato nel maggio 2021 per la presunta partecipazione al sequestro di un connazionale, la somma è stata fissata a 157 mila euro dalla magistratura di Milano. Si è fatto, da innocente, 669 giorni di galera. In sede di interrogatorio si avvalse della facoltà di non rispondere, non agevolando le indagini, ma tacere era un suo pieno diritto e non un ostacolo alle indagini e poi all’indennizzo. La Corte d’appello di Catania, altro caso ancora, ha accordato un rimborso economico al sindacalista Marco Faranda, nel 2018 chiuso in carcere per tre giorni e costretto in casa per altri tre, arrestato per una estorsione ipotetica e mai provata, scagionato con un “non luogo a procedere”. Ingiusta detenzione, accolta quasi una richiesta di risarcimento su due - Quali privazioni e sofferenze hanno patito detenuti innocenti? Quante storie sbagliate si contano in Italia? E in che misura pesano i rimborsi sulle casse dello Stato e alla collettività? Risposte si trovato nelle singole ricostruzioni di traversie venute alla luce e nell’ultimo rapporto inviato al Parlamento dal ministero della Giustizia. Nel 2024 le Corti d’appello italiane hanno protocollato 1.154 nuove istanze e hanno esaminato e definito 1.293 richieste di indennizzo per ingiusta detenzione. Meno della metà, 589, sono state accolte (pari al 47,5%) con ordinanze favorevoli ai diretti interessati. Altre 643 (il 45,6%) sono state respinte e 61 (4,7%) dichiarate inammissibili. Pioggia di istanze in Calabria e a Roma - I distretti in cui si concentrano i fascicoli aperti nel corso del 2024 sono Reggio Calabria (147 nuove domande arrivate), Roma (114), Catanzaro (108) e Napoli (98). A Bolzano è censita una sola richiesta di risarcimento, quattro sono targate Campobasso. Ingiusta detenzione e risarcimento: i casi paradossali - Tra coloro cui l’indennizzo è stato negato, sempre l’anno scorso, figurano Luciano Di Marco e Anna Bonanno. Nel 2019 vennero ritenuti gli autori di una rapina a una gioielleria di Cerignola, in Puglia. L’uomo fu arrestato e chiuso in carcere 120 giorni. La donna, che aveva partorito da poco, andò ai domiciliari. Entrambi si dichiararono innocenti e furono scagionati da una perizia antropometrica. La Corte d’appello di Bari, cinque anni dopo, non ha concesso loro il bonus richiesto per l’ingiusta detenzione, perché avrebbero “colpevolmente omesso di rappresentare elementi a sostegno della loro innocenza”, discolpandosi “con inesattezze e imprecisioni macroscopiche”. L’avvocato difensore Domenico Peila, valutando l’opportunità di un riscorso, a caldo ha rimarcato: “Siamo al paradosso. Si imputa ai miei assistiti un fatto di cui sono loro stessi le vittime, in prima persona”. Niente risarcimento se c’è la ‘ndrangheta sullo sfondo - Aveva rapporti di “stretta vicinanza” e di “notevole familiarità” con un boss della ‘ndrangheta. Per questo, sebbene non sia stato condannato e per due volte, un uomo di mezza età non ha ottenuto dalla Corte d’appello di Torino il risarcimento per ingiusta detenzione. Il “sospettato”, coinvolto in una maxinchiesta sulla presenza della criminalità organizzata calabrese in Piemonte, fu ammanettato il primo giugno 2011 e restò dentro fino al 14 novembre 2012. In seguito venne assolto in primo e in secondo grado, con una sentenza diventata irrevocabile nel 2016. Le motivazioni della risposta negativa - Per i giudici chiamati a valutare la richiesta di indennizzo, si legge in un lancio dell’agenzia di stampa Ansa, fu il suo comportamento a far sorgere negli investigatori il grave “sospetto iniziale” della partecipazione all’organizzazione criminale nel mirino, poi non provata. Aveva scambiato numerose telefonate con uno dei boss condannati. L’interlocutore “riponeva in lui una notevole fiducia”, al punto da “renderlo partecipe di accadimenti interni a un mondo criminale solitamente riservato” e gli rivelava episodi “dai quali non prendeva le distanze ma sui quali, anzi, interloquiva commentando”. Calcolo di risarcimento per ingiusta detenzione: in media 49 mila euro a persona - La media nazionale degli indennizzi è di 48.722 euro a persona risarcita, con ampie variazioni da zona a zona e da caso a caso. L’importo è più che doppio a Reggio Calabria (108.174 euro), quasi doppio a Palermo (90.285 euro), in linea a Salerno (47.077) e Venezia (47.391). Scorrendo la ripartizione degli esborsi, pari complessivamente a 26,9 milioni di euro per l’intero 2024, i distretti di Palermo, Reggio Calabria e Catanzaro fanno registrare indennizzi record rispettivamente con 4.785.080, 4.543.327 e 4.274.784 euro. Che cosa prevedono le norme in materia - L’istituto della riparazione è regolato dall’articolo 314 del codice di procedura penale e prevede un diritto soggettivo dell’indagato al riconoscimento di un indennizzo per la custodia iniqua subita prima della lettura della sentenza. Non va confuso con l’errore giudiziario, disciplinato dall’articolo 643 in avanti e legato ad una condanna irrevocabile, successivamente ritenuta ingiusta. Risarcimenti per ingiusta detenzione: ecco quando vengono concessi - Le ragioni di accoglimento delle richieste di ristoro economico riguardano nel 77,4% dei casi l’estraneità della persona ai fatti contestati, accertata con la pronuncia di sentenze di proscioglimento o assoluzione o con provvedimenti di archiviazione. La carcerazione è ritenuta ingiusta quando la non colpevolezza è dichiarata per non aver commesso il fatto contestato, perché il fatto non costituisce reato, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. L’altro 22,6% del via libera agli indennizzi si basa sull’illegittimità delle ordinanze cautelari che hanno determinato la detenzione. Non ci sono automatismi né concessioni a pioggia ed esistono dei “paletti”. La persona che presenta istanza non deve aver contribuito ad orientare le decisioni dei magistrati, consapevolmente o meno. E viene fatta pesare la condotta tenuta in fase di indagini e in sede processuale. Pochi i magistrati perseguiti e sanzionati - Le statistiche sugli 89 procedimenti disciplinari avviati nei confronti di magistrati nel periodo 2017-2024, finalizzati ad accertare responsabilità per le ingiuste detenzioni, raccontano che sono stati inflitti un trasferimento punitivo e otto censure, a fronte di decine di assoluzioni e sei posizioni ancora in trattazione. Il carcere, il dolore e l’assoluzione: la verità di Giulia Ligresti di Antonella Mariani Avvenire, 3 luglio 2025 Due arresti e la lotta tenace per ripristinare la giustizia. E ora per la figlia del finanziere Salvatore, un presente da designer e di impegno nelle missioni all’estero. Il volto sorridente di Giulia Ligresti spunta tra rotoli di tessuti e macchine per cucire, tra manichini e pile di scampoli. Nella Sartoria sociale dove lavorano rifugiati politici, che è parte dei tanti progetti dell’associazione Realmonte, di cui è volontaria e responsabile dei progetti internazionali, racconta di sé, della sua odissea giudiziaria, dei due periodi trascorsi in carcere con l’accusa di reati finanziari, dell’assoluzione definitiva “perché il fatto non sussiste”, della sua carriera di designer e, più di tutto, dei progetti umanitari che da anni la portano in Palestina e in Afghanistan, in India e in Siria, prima come presidente della Fondazione Fondiaria Sai e poi come volontaria dell’associazione milanese Francesco Realmonte. Nel 2007, tra le altre cose, contribuì a portare in Italia un gruppo di giovani giornaliste afghane, due delle quali svolsero un tirocinio ad Avvenire. In questa intervista, Giulia Ligresti non parla della sua vita di “prima”, quando da brillante laureata in Bocconi saltava da un Consiglio di amministrazione all’altro, sulle orme del padre Salvatore, l’immobiliarista e finanziere che fu tra i protagonisti della vita pubblica italiana a partire dagli anni Settanta. Madre di tre figli amatissimi, lei preferisce concentrare la sua energia sul futuro. Che è creatività, impegno sociale, empatia. E battaglia per rimettere in fila ciò su quanto le è accaduto al cospetto del sistema giudiziario italiano; e Niente è come sembra. La mia storia: la forza della verità è il titolo del libro che ha dato alle stampe per Piemme (pagg. 178, euro 18,90). Arrestata nel luglio 2013 per ordine della procura di Torino, Giulia Ligresti dopo 40 drammatici giorni di detenzione a Vercelli, patteggiò e ottenne i domiciliari. “Inferno: atto II” è il capitolo del libro in cui Giulia ricorda il secondo arresto, nell’ottobre 2018, manette ai polsi, per l’esecuzione della condanna. A San Vittore restò tre settimane: quello che ne segue è la storia di una tenace battaglia per ristabilire la verità. Dottoressa Ligresti, nel libro racconta la sua storia attraverso la “forza della verità”. Perché ha aspettato tanti anni? E perché ora? Scrivere un libro è un’impresa importante, va affrontata con serietà. È servito del tempo. A un certo punto ho sentito che il momento di ristabilire la verità era arrivato. Nel libro racconto ciò che ho vissuto a partire dai fatti; ognuno può farsi il proprio giudizio. Il suo giudizio sui fatti è molto chiaro... Certo, perché sono accadute cose sconcertanti. Ad esempio? Il patteggiamento ottenuto dai magistrati nel 2013 come scambio per la mia libertà. La tortura in Italia è vietata, ma ciò che è accaduto a me cos’è se non tortura? Mi hanno posto in una situazione di debolezza fisica e psicologica per ottenere la rinuncia alla difesa. È vietato dalla legge, ma a me è successo. Non è sconcertante? Nel libro emerge un forte senso di sfiducia nella magistratura. È così? Se mi devo basare sulla mia esperienza, la sfiducia è totale; ma penso e spero che non sia così per tutti. Credo che nella magistratura ci sia una parte problematica, che a volte compromette la parte sana. Qualcuno dice che con me sono stati commessi errori. Io mi faccio alcune domande sul fatto che siano stati effettivamente errori. Lei ha chiesto il risarcimento per l’ingiusta detenzione, e il procedimento, tra annullamenti e ricorsi, è ancora in itinere. Come finirà? Siamo alla settima puntata di una commedia dell’assurdo che comprende anche tre ricorsi alla Cassazione. Ho imparato a mie spese che il sistema non ammette i suoi errori. In sostanza, lo Stato dice che con il patteggiamento ho perso il diritto al risarcimento. Ho dichiarato fin dall’inizio che verrà utilizzato per i miei progetti umanitari. Ha mai pensato di mollare? No. Queste battaglia è come una gara di resistenza. La fatica è tanta, il traguardo non prevedibile. Ma io sono una maratoneta. L’esperienza del carcere, il processo e la battaglia per il risarcimento l’hanno cambiata? No. Io sono sempre stata una persona battagliera e in questo senso non sono cambiata. Certo, la prima volta che mi hanno portata in carcere ero impreparata, sotto choc. La seconda volta ero più arrabbiata e avevo deciso di combattere; pensi che ho trasmesso questa forza alle detenute che mi stavano vicine. Questa esperienza mi ha resa fortissima, ho promesso a me stessa che nessuno avrebbe mai più avuto il potere di spezzarmi. E no, non mollo. Nel libro lei scrive che per resistere in carcere aveva due modelli: uno gigantesco, Nelson Mandela, e l’altro più pop, il protagonista del film Unbroken, un soldato americano che sopravvive in un campo di prigionia giapponese. Un po’ strano, no? Mandela ha trascorso 27 anni in carcere e poi è entrato nella storia. Unbroken è diventato il mio mantra in carcere, una formula che ripetevo, una promessa a me stessa: non mi spezzerete, non mi romperete. Dottoressa Ligresti, parliamo del suo impegno umanitario, coltivato da ben prima dell’arresto. Nel libro racconta di aver svolto missioni in Paesi come Afghanistan, Etiopia, Burkina Faso, India, Sri Lanka, Gaza… c’è un luogo, una situazione, una persona che le sono rimasti particolarmente nel cuore? Impossibile citare una persona o una situazione, sono tantissime. L’emozione più recente me l’ha regalata Maya, una ragazzina di 12 anni di Gaza, che ho incontrato lo scorso aprile a Betlemme, dove ero in missione per conto dell’Associazione Realmonte di Milano per un progetto psicopedagogico che nella sua metodologia contempla il disegno. Maya disegnava, dunque. Quando ha finito, mi ha mostrato un cuore con dentro i nostri nomi intrecciati e le parole “I love you”. Poi ha frugato nelle tasche e mi ha regalato un souvenir di legno. Ecco, mi ha commosso: una preadolescente che ha sperimentato tanta sofferenza, che ha subìto traumi e non ha più nulla, è ancora capace di far parlare il suo cuore e donare affetto. Immagino che con il suo curriculum da numero 1 lei avrà un posto ai vertici dell’associazione... No - ride, ndr - in associazione ciascuno è un numero 1. Nel libro cita diversi incontri con uomini e donne di Chiesa che hanno lasciato un segno nella sua vita: padre Sibi in India, suor Chicca a San Vittore, padre Juan a Gaza... In che modo ha contribuito alla sua vita spirituale? Per me sono affetti veri, famiglia. Sono credente e praticante e mi basta guardare queste persone all’opera per trarne un insegnamento. La caratteristica che accomuna le persone che ho incontrato e raccontato nel libro è che sono molto operative, pragmatiche: ci sono dei bisogni e si agisce. In questo mi riconosco. Nel libro si parla diffusamente di persone molto amate: il padre Salvatore, i tre figli, i fratelli ma anche collaboratori, amiche e amici, persone di servizio, operatori incontrati in carcere… Sembra che la sua vita sia piena d’amore... Sì, è così. L’amore è una parte importantissima della mia vita. E io so che c’è del buono in ogni persona. Durante la mia ingiusta carcerazione preventiva a Vercelli, Valeria mi ha salvato la vita chiamandomi “Giulietta mia”. Ho tanti ricordi belli, sì. Ma mi tengo stretti anche quelli brutti, non li dimentico. Lei è nata e cresciuta a Milano. Come vede, oggi, la sua città? Vedo che manca il verde, che si soffoca nel cemento. Negli ultimi due anni mi sto impegnando per avviare un iter per la salvaguardia di un’oasi di 20 ettari di suolo verde, La Maura. Dalle istituzioni locali nessuna risposta. Si vede impegnata nella politica cittadina? Perché no? Sì, mi vedrei come sindaco di Milano. Vorrei fare di più per la mia città. Il ministro Nordio attacca ancora il Massimario. E compatta il Csm di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 luglio 2025 Contro le relazioni dell’Ufficio della Cassazione il guardasigilli tira in ballo il Colle. Il Consiglio chiede la tutela dei magistrati. A sottoscrivere il documento promosso da Area anche i togati di Mi, la corrente di centrodestra. Se il ministro della Giustizia Carlo Nordio voleva “trascinare Mattarella in una polemica politica”, come sostiene il deputato di Italia viva Davide Faraone, ha ottenuto l’effetto opposto: scatenare l’opposizione e far schierare un organo di rilievo costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura (Csm). Ieri mattina il Messaggero ha pubblicato un’intervista in cui il guardasigilli definisce “irriverente verso il capo dello Stato” la relazione dell’Ufficio massimario della Cassazione che raccoglie le tante critiche sul decreto sicurezza espresse dalla comunità dei giuristi. Se le accuse di incostituzionalità riportate fossero vere, questo è il ragionamento del ministro, il presidente della Repubblica non avrebbe dovuto firmare. Nordio ha così spostato a un livello superiore la campagna che governo e maggioranza conducono da giorni contro l’ufficio della Suprema corte, non solo per il rapporto sul decreto sicurezza ma anche per quello sul progetto Albania (rivelato domenica dal manifesto). Poche ore dopo l’uscita dell’intervista, al Consiglio superiore della magistratura (Csm) è stata depositata una richiesta di pratica a tutela per i magistrati del Massimario. I tre laici di centrosinistra e i togati di tutte le correnti dell’organo di autogoverno dei giudici si sono così schierati a difesa della Cassazione. L’Ufficio del massimario “ha reso nei giorni scorsi due relazioni su testi legislativi di recente promulgazione, assolvendo all’operato che da oltre vent’anni svolge in favore della Suprema Corte e dell’intera comunità dei giuristi”, si legge nel testo. Il dito è puntato contro gli aggettivi con cui Nordio etichetta i rapporti: “irriverenti”, “imprudenti” e “impropri”. “Tali reazioni trascendono il piano della dialettica politico-istituzionale, trasmettendo alla pubblica opinione un’immagine deformata della funzione” dell’ufficio e dei magistrati che lo compongono, continua il documento del Csm. L’iniziativa nasce dai consiglieri di Area. È significativo che sia stata sottoscritta anche da quelli di Magistratura indipendente, la corrente di centrodestra. Del resto la prima presidente della Cassazione Margherita Cassano, che a settembre andrà in pensione, è di orientamento cattolico e moderato. “Il Massimario non ha invaso alcun campo di organi costituzionali, men che meno quello del presidente della Repubblica. Sono accuse ingiuste e ingenerose”, afferma Domenica Miele, consigliera di Magistratura democratica, corrente di sinistra. Per Andrea Mirenda, al Csm da indipendente, “la pratica è soprattutto a difesa del ruolo del Massimario: la Cassazione ha l’indiscutibile funzione di promuovere il dibattito intorno alle novità normative”. In serata arriva la precisazione degli altri consiglieri laici, i cinque di centrodestra che non hanno sposato la pratica a tutela: “Più che l’apertura di una pratica a tutela sarebbe stato più opportuno valutare i contenuti e il tono del documento elaborato dagli alti magistrati, che in più punti travalica i limiti della funzione tecnica assegnata all’Ufficio”. Una presa di distanze a tutti gli effetti, anche se in concreto le “pratiche a tutela” finiscono quasi sempre in un nulla di fatto, mantenendo una rilevanza puramente simbolica. Sul caso è intervenuto anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) Cesare Parodi, esprimendo “stupore per il fatto che qualcosa di assolutamente normale è stato ritenuto particolare. Il Massimario non ha dato interpretazioni politiche, ha fatto valutazioni ermeneutiche autorevoli”. A livello politico, intanto, il presidente dei senatori forzisti Maurizio Gasparri insiste con la sua tesi: “Resto convinto che quell’ufficio sia stato occupato dagli esponenti dei centri sociali, che si siano sostituiti ai titolari di quell’ufficio e abbiano redatto dei pareri che sono più improntati al parere di movimenti antagonisti, come Askatasuna, che non allo spirito e alla tradizione della magistratura italiana”. Giustizia, al Senato la riforma avanza lentamente di Alice Oliverio Il Manifesto, 3 luglio 2025 Solo martedì verrà stabilita la data del voto. E il calendario si infittisce. Va a rilento la discussione al Senato sulla riforma della giustizia: era cominciata ieri mattina dopo l’approvazione dei primi due articoli (su otto) e riprenderà stamattina dallo stesso identico punto. Il canguro - l’accorpamento degli emendamenti simili - ha funzionato fino a un certo punto e dunque l’aula, una dopo l’altra, sta votando le 1.300 modifiche proposte dalle opposizioni. La situazione non si scioglierà prima di martedì prossimo, quando è prevista una conferenza dei capigruppo che, tra le altre cose, avrà il compito di fissare un termine per il voto finale. “Per ora si va avanti senza forzature. Mediamente apprezziamo il fatto che si abbia tempo per confrontarsi e discutere, poi vedremo”, è il commento che arriva dalla senatrice di Italia Viva Raffaella Paita. Anche da destra i toni non sono (ancora) quelli della battaglia finale. Così Maurizio Gasparri: “L’ostruzionismo in atto è una normale prassi parlamentare, che non scandalizza chi come me vive la vita parlamentare da molto tempo. Poi arriverà un momento in cui si dovrà passare a delle decisioni”. Da Pd e 5 Stelle continuano le critiche sul merito della riforma, vista come un attacco diretto del governo alla giurisdizione. Il calendario dei lavori, intanto, si fa sempre più fitto: stamattina si discuterà del ddl sugli assessori regionali (non però sul terzo mandato, ormai tramontato), ma già alle 15 è previsto il question time, dunque la discussione sulla separazione delle carriere verrà nuovamente rinviata. E altri impegni si vedono all’orizzonte: l’approdo in aula della legge sul femminicidio, ad esempio, è previsto indicativamente per il 16 o il 17 luglio mentre le sedute d’aula andranno avanti al massimo fino al 9 agosto, poi ci sarà la pausa estiva. Entro quella data verranno affrontati sei decreti legge: nella settimana dal 15 al 17 luglio il dl infrastrutture (ora all’esame della Camera); nella settimana dal 22 al 24 luglio i dl sull’università (all’esame della commissione Cultura) ed ex-Ilva (all’esame della commissione Industria). Nella settimana dal 29 al 31 luglio ci sarà il dl fiscale (ora alla Camera) e il Dl economia (all’esame della commissione Bilancio); infine nella settimana tra il 4 e il 9 agosto il dl in materia di sport (che ancora è Camera). Carriere separate, tregua sui tempi: niente strette di Valentina Stella Il Dubbio, 3 luglio 2025 Nessun contingentamento dei tempi fino a martedì. Slitta dopo l’estate il secondo voto alla Camera. Un parziale disgelo tra le forze politiche è arrivato ieri sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Infatti per il momento non ci sarà alcuna compressione dell’esame nell’Aula del Senato: la discussione sugli emendamenti è proseguita ieri con l’utilizzo del “canguro” per tagliare il voto sugli emendamenti, ma senza contingentamento dei tempi. Questo andrà avanti almeno fino a martedì prossimo, quando alle 13 ci sarà una nuova conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama che deciderà il calendario dei lavori e l’eventuale accorciamento dei tempi. Ad annunciarlo è stato il presidente dei senatori del Partito democratico, Francesco Boccia: “Ci opponiamo a qualsiasi forma di contingentamento, per ora c’è una disponibilità da parte del presidente La Russa, c’è una richiesta da parte di FI, vedremo. Non vogliamo che l’equilibrio costituzionale, che questa riforma spacca, venga anticipatamente rotto con operazioni di forzatura di cui non c’è bisogno visto che la maggioranza impone al Parlamento una corsa contro il tempo su decreti legge raffazzonati, fatti male e scritti peggio”. Per gli azzurri ha parlato, invece, il presidente dei senatori, Maurizio Gasparri: “L’ostruzionismo” messo in atto dalle opposizioni, che hanno presentato circa 1300 emendamenti, “è una normale prassi parlamentare, che non scandalizza chi come me vive la vita parlamentare da molto tempo. Poi arriverà un momento in cui si dovrà passare a delle decisioni, essendo una riforma importante, basilare per il programma del centrodestra, non solo per Forza Italia”. Per il momento è plausibile che dalla maggioranza e dal governo si sia deciso di non forzare troppo la mano, riducendo il dibattito parlamentare. Ancora c’è la coda delle polemiche sul dl Sicurezza che avrebbe svilito il Parlamento, secondo i detrattori del provvedimento. Inoltre ormai è sicuro che la riforma sulla separazione delle carriere arriverà alla Camera per la seconda fase di deliberazione dopo l’estate. Quindi agli azionisti dell’Esecutivo conviene probabilmente non accorciare eccessivamente i tempi in modo da salvare le apparenze e respingere le accuse da parte delle opposizioni di voler soffocare la discussione, considerato che già che la proposta di modifica dell’ordinamento giudiziario è inemendabile. Ieri poi c’è stato un piccolo giallo sul partito di Azione. In mattinata l’Ansa ha battuto una agenzia dal titolo “Separazione carriere: Richetti, Azione non credo voterà il testo”, riportando quanto avrebbe detto il capogruppo di Azione alla Camera Matteo Richetti, ospite al programma Start di Sky Tg24 e cioè: “C’erano aspetti di quella legge che non ci convincevano. Al Senato il nostro senatore Marco Lombardo non credo che voterà quella riforma”. In realtà, contattato telefonicamente dal nostro giornale, Richetti, commentando il take, ha parlato di “forzatura” in quanto “Azione ha sostenuto e sosterrà la separazione delle carriere” e che Marco Lombardo “non è convinto da alcuni punti e non la voterà”. Previsione che ci ha confermato lo stesso senatore motivandola così: “Per la maggioranza di quei 9 mila magistrati italiani che lavora in solitudine, nel silenzio delle proprie carte, lontano dai riflettori, tra uffici fatiscenti e montagne di fascicoli arretrati, per quei magistrati che ho imparato a conoscere sin da bambino e a rispettare da uomo, per tutti loro non voterò a favore di questa riforma costituzionale sulla separazione delle carriere”. La discussione sugli emendamenti all’articolo 2 della norma di modifica costituzionale era ripresa ieri mattina ed era stata interrotta più volte sia per la capigruppo sia perché ad un certo punto è venuto a mancare in Aula il numero legale a causa dell’assenza di molti membri della maggioranza. “Potete “cangurare” gli emendamenti ma non potrete mai “cangurare” l’indipendenza della magistratura”, ha detto ironicamente, ma non troppo, il senatore del Pd Walter Verini intervenendo su un emendamento all’articolo 2. Il dibattito ricomincerà stamattina alle 10. Intanto per quanto riguarda la scia delle polemiche sul dl sicurezza ieri, tutti i consiglieri togati del Csm insieme ai membri laici Ernesto Carbone, Roberto Romboli e Michele Papa hanno richiesto l’apertura di una pratica a tutela dei magistrati dell’Ufficio del Massimario e del ruolo. Inoltre la Giunta dell’Associazione nazionale magistrati, Sezione Cassazione, ha espresso “piena solidarietà e vicinanza alla Prima Presidente, Margherita Cassano, per gli inaccettabili attacchi subiti dalla stampa a seguito delle posizioni assunte proprio a difesa della Corte di Cassazione”. Il processo mediatico di Garlasco? “Colpa di avvocati e media” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 luglio 2025 La nota del magistrato che dirige l’ufficio inquirente di Pavia: nessuna violazione del segreto. Il ministro esclude irregolarità. Il processo mediatico sull’inchiesta Garlasco bis? Tutta colpa degli avvocati e dei giornalisti. A sostenerlo il procuratore capo di Pavia, Fabio Napoleone, attraverso una relazione messa a disposizione del ministro della Giustizia Carlo Nordio per rispondere ad una interrogazione parlamentare del capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia della Camera, Tommaso Calderone. Il deputato chiedeva al ministero di capire se fosse stato violato il segreto investigativo e se eventualmente ci fossero presupposti per una azione ispettiva, considerato che stiamo assistendo ad una vera e propria telecronaca sulla riapertura delle indagini sull’omicidio di Chiara Poggi. Ma Napoleone è stato chiaro: tutto ciò che sta circolando è “materiale non segreto” ed è “conosciuto dalle parti e dai loro difensori, i quali quotidianamente compaiono nei vari talk show televisivi o in interviste sui quotidiani”. Il magistrato spiega che tutto l’insieme degli elementi confluito nell’attuale procedimento penale, in cui risulta indagato Andrea Sempio, “è composto da centinaia di voluminosi incartamenti relativi a tutte le predette fasi”, ossia processo ad Alberto Stasi, richieste passate di revisione, nuove indagini. Secondo il procuratore, dunque, “l’imponente materiale risulta essere già a conoscenza dei mass media che da 18 anni, e cioè dal giorno dell’omicidio di Chiara Poggi, si occupano della vicenda con un’attenzione del tutto eccezionale”. Tutti questi elementi “non costituiscono violazione del segreto investigativo”. Inoltre nel corso di particolari atti dell’attuale indagine preliminare quali interrogatori, prelievo delle impronte e del Dna - “non si può prescindere dal procedere alla discovery e contestare materiale istruttorio”. Pertanto tutto è conoscibile a tutte le parti interessate. Scrive poi il procuratore: “Attualmente c’è una ricerca spasmodica della stampa e della televisione con interviste di indagato, condannato, dei loro difensori, loro consulenti tecnici, testimoni con un vero e proprio assedio dell’Ufficio requirente e della Pg operante”. Tutti questi, comprese le “persone offese”, chiarisce ancora Napoleone, “risultano ripetutamente comparire in interviste” dove “commentano elementi in loro possesso e atti a cui hanno partecipato” a differenza del fatto che “nessun magistrato della procura, nessun consulente tecnico o dirigente della Pg ha rilasciato interviste o dichiarazioni” in quanto la prima disposizione impartita quando si è iniziato ad indagare su Sempio “è stato il divieto di diffusione di notizie” che secondo il procuratore capo “risulta essere stato rigorosamente osservato tanto che soltanto a seguito del recentissimo rifiuto da parte dell’attuale indagato Sempio e del successivo ordine del gip di rilasciare il Dna la notizia è circolata, facendo divampare di nuovo l’attenzione mediatica, che di certo nuoce anche all’efficacia ed efficienza delle indagini”. La toga ha precisato poi perché la procura ha diffuso in questi mesi due comunicati stampa. Il primo per puntualizzare “l’iniziativa della richiesta di incidente probatorio ed il perimetro degli accertamenti scientifici”; il secondo per dare notizia “dell’esito della consulenza dattiloscopica sull’impronta n. 33” che era stata messa “a disposizione delle parti al fine di consentire deduzioni in merito. Si trattava, quindi, di un atto non più coperto dal segreto investigativo”. In pratica, secondo Napoleone, la cronaca minuto per minuto dell’inchiesta Garlasco bis sarebbe da addebitare tutta agli avvocati e ai giornalisti che si abbeverano da loro. Le ragioni non le spiega, ma difende il riserbo dei suoi investigatori. Ovviamente crediamo alla buona parola di Napoleone e anche noi in questi mesi non ci siamo sottratti dal dire che probabilmente alcuni avvocati si stanno prestando al gioco del processo mediatico: per portare acqua al mulino dei propri assistiti e/ o per visibilità personale. Altrettanto vero è che soprattutto nel passato, prima che venisse recepita la direttiva europea sulla presunzione di innocenza, esisteva un canale diretto tra procure e giornalisti, tanto è vero che alcuni hanno sostenuto che la vera separazione - a parte quella delle carriere - dovrebbe esserci tra magistrati requirenti e stampa. Comunque preso atto di questi chiarimenti, il ministro Nordio ha risposto al deputato Calderone che “non sono emersi elementi suscettibili di rilievo disciplinare”. Ma il parlamentare rilancia e ci dice: “Nella prossima interrogazione chiederò se è mai stato iscritto nel registro degli indagati qualcuno per violazione sistematica degli articoli 114 cpp e 684 c. p. vista la reiterata pubblicazione e diffusione di atti non divulgabili. Se la procura avviasse una indagine si scoprirebbe chi consegna gli atti alla stampa e ai talk che poi sistematicamente li pubblicano. Ogni giorno assistiamo alla consumazione di reati inquadrabili nella fattispecie di cui all’articolo 684 cp (perseguibile d’ufficio) ma non abbiamo traccia di apertura di procedimenti per tali fattispecie di reato”. La caccia alla presunta investitrice di un poliziotto nel Far West dei social di Lorenza Pleuteri giustiziami.it, 3 luglio 2025 La foto segnaletica con lei di fronte e di profilo, i dati personali, l’ultimo domicilio conosciuto, una sintesi dei fatti, l’attribuzione certa di un reato. Mancano solo la scritta wanted e la taglia. Nel far west di Facebook e di Instagram sta girando un appello indirizzato a iscritti e simpatizzanti. Un gruppo che si chiama “poliziottinoi”, pieno di immagini di persone con le divise dello Stato, ha pubblicato una sorta di avviso di ricerca della donna ritenuta responsabile di aver provocato l’incidente stradale costato la vita all’allievo vice ispettore Enzo Spagnuolo. Sabato 28 giugno il ragazzo è stato travolto mentre era in moto a Falciano del Massico, in provincia di Caserta. La presunta investitrice indicata per nome e cognome, alla guida di una Fiesta, è fuggita senza fermarsi a prestare soccorso. La pagina Fb rimanda con un link al sito della Polizia di Stato ed è piena di foto di personale in divisa. Tra i commentatori in molti si lamentano perché le segnaletiche non sono abbastanza chiare, chiedendone di più nitide, per agevolare la caccia. E c’è chi spiega, motivando la definizione non ottimale degli scatti che si tratta di foto “diramata Canali interno Arma Cc”. Possibile? Chi ha davvero divulgato le fotografie e il resto al di fuori dei circuiti ufficiali? E chi tollera che girino in rete? Come se non bastasse, tra i commenti si leggono frasi che trasudano razzismo e sfiducia nella magistratura. Interpellato via mail, ore dopo la pubblicazione del tutto, il dipartimento di Pubblica sicurezza dice che “sono in corso gli accertamenti necessari per dare le informazioni richieste”. La procura di Caserta per ora non ha risposto alle domande poste. “Ci sono oltre 90 processi aperti per le nostre azioni, rischiamo anni di carcere” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 3 luglio 2025 Parla Ultima Generazione: “Le strategie che adottiamo sono cambiate, non parliamo più di blocchi stradali ma di campagne di boicottaggio. Puntiamo ad arrivare almeno a 100mila persone”. Simone Costantini, membro del movimento di ecoattivisti Ultima generazione, la crisi climatica è ormai evidente ma aumentano i provvedimenti per reprimere gli ambientalisti. In che modo siete stati colpiti? Sicuramente il decreto Sicurezza è l’emblema di come siamo colpiti dalla repressione, a partire dal fatto che vengono citati esplicitamente i blocchi stradali che sono una nostra pratica, ma anche per esempio il deturpamento degli edifici (per questa fattispecie la pena è stata inasprita, portandola fino a 3 anni di reclusione e 12mila euro di multa, con aggravanti se il fatto è commesso durante una manifestazione, ndr). In questo caso peraltro viene inserita una disparità, considerando gli edifici pubblici più importanti: è più grave se verso della vernice lavabile su una struttura pubblica rispetto a rompere un vetro di un’abitazione privata. Si bloccano le proteste mentre si muore per il caldo. Con quali misure siete stati colpiti, anche prima dell’ultimo decreto? Attualmente abbiamo aperti circa 90 processi, la maggior parte riguardano l’articolo 18 del Testo unico sulla pubblica sicurezza, quindi la manifestazione non autorizzata. Perché prima del dl Sicurezza il blocco stradale non era un reato, solo un illecito amministrativo. Quello che notiamo però è che nella maggior parte dei casi le accuse decadono e le sentenze non sono equiparabili alle richieste. Viene riconosciuta una disparità, e ci sono molte assoluzioni. Recentemente alcuni di noi sono stati assolti, ma rischiavano quattro mesi di carcere e i giudici riconoscono che è una pena eccessiva. Tra i processi più importanti che avremo a breve ci sono quello sull’azione al Museo del Novecento avvenuta nel 2023, per deturpamento di opere d’arte, ma anche le azioni alla Fontana di Trevi e alcuni blocchi stradali sul raccordo anulare a Roma. E i processi costano. In che modo il vostro movimento ha cercato e cercherà di adattarsi alle strette repressive in atto? Le nostre strategie sono cambiate, non parliamo più ora di blocchi stradali. La campagna in corso si chiama “Il giusto prezzo” e parla di abbassamento dell’Iva sui beni alimentari. Per mandare questo messaggio promuoviamo il boicottaggio nei supermercati, che non è un’attività illegale ma impattante. Anche in questi casi si sono presentate le forze dell’ordine, ci sono state identificazioni ma nessun fermo appunto perché è stato ritenuto che il fatto non sia un reato. Da ottobre lanceremo un boicottaggio che puntiamo arrivi almeno a 100mila persone, una forma di “sciopero dalla spesa”, per sabotare la grande distribuzione in alcuni giorni e promuovere il consumo da piccoli produttori. È una forma di protesta che ha dato i suoi frutti, penso alla Palestina: Carrefour sta pensando alla chiusura di alcune attività, mentre la Coop ha sospeso i prodotti israeliani e ha iniziato a vendere la Gaza cola. L’altro grande piano dell’Unione europea, a parte quello per il clima, è il ReArm Eu da 800 miliardi. La corsa al riarmo impatta sul clima? Ci sarà un impatto sulle leggi per il clima, servono molti investimenti per la transizione ecologica. E non lo diciamo solo noi, anche Draghi lo diceva nel suo rapporto. I soldi non sono infiniti e questo è un cambio di direzione, per cui saranno presi dagli investimenti ipotizzati sul green. La guerra poi è molto impattante a livello climatico, solo il conflitto in Ucraina ha inquinato come uno dei paesi più sviluppati al mondo. Detenzione domiciliare al padre per cura dei figli se la moglie non può sacrificare la professione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2025 La condizione di donna che lavora non rende inammissibile l’istanza del padre detenuto se ella per occuparsi di due bambini piccoli è costretta a ridurre considerevolmente l’attività di avvocato e rischia di perdere la clientela. L’istanza di detenzione domiciliare speciale per l’assistenza e la cura dei figli non può essere rigettata de plano senza contraddittorio con il padre detenuto che la richieda assistito dal proprio difensore. Così la Corte di cassazione penale ha accolto il ricorso - con la sentenza n. 24362/2025 - contro la decisione del tribunale di sorveglianza che riteneva inammissibile l’istanza, sia perché emergeva che la madre dei bambini non fosse priva di occupazione lavorativa sia perché era carente la documentazione sul percorso carcerario intrapreso dal richiedente. La Cassazione, infatti, rileva che il giudice ha errato nel non aver attivato doverosamente i propri poteri istruttori al fine di integrare gli elementi da porre a base del giudizio che era chiamato a svolgere. La questione posta all’attenzione del magistrato di sorveglianza era stata respinta de plano per l’assenza di profili individualizzanti la personalità del richiedente. Mentre il tribunale l’aveva ugualmente respinta come inammissibile in quanto la richiesta asseriva che la madre non lavorasse facendo decadere il presupposto della necessaria presenza in casa del padre per occuparsi dei figli. In più nessuno di due giudici aveva tenuto conto dell’indagine sociofamiliare dell’Uepe sulle condizioni della famiglia e in particolare sulla circostanza che la madre avvocato non poteva dedicarsi compiutamente all’attività professionale facendo decadere il reddito familiare come dimostrato dalla dichiarazione dei redditi. Le sviste documentali come la mancata presa in considerazione da parte di entrambi i giudici della relazione dell’ufficio competente in materia o l’errata lettura del dato relativo alla condizione di madre lavoratrice o meno erano tutte oggetto dei poteri istruttori del giudice a garanzia della completezza degli elementi del giudizio da assumere e imponevano un’interlocuzione in contraddittorio con la parte e il proprio difensore. Ciò non consentiva - a fronte dell’inerzia dei giudici e della svista del tribunale - di dichiarare inammissibile la domanda di detenzione speciale. È, infatti, affetta da nullità la decisione di inammissibilità che non sia fondata su manifesta infondatezza o reiterazione di istanza uguale e già rigettata. Infine, va detto che la difesa fa validamente rilevare con memoria ad hoc che la recente decisione della Consulta adottata nello scorso aprile ha acclarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 47 quinquies dell’ordinamento penitenziario dove poneva come presupposto della concessione della detenzione domiciliare al padre chiamato a sostituire la cura della madre verso i figli, ma solo in assenza di altre figure di riferimento. Ciò in quanto, ove possibile, va sempre data precedenza alla figura paterna nell’accudimento dei figli. Come tra l’altro già accade per altri istituti giuridici fondati sulla necessità di garantire la presenza genitoriale al fianco della prole minorenne. Continuazione tra i reati, no alla pena base del più grave se è inferiore agli altri di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2025 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 24324 depositata oggi e segnalata per il Massimario. In caso di reati in continuazione, la pena base non può essere inferiore al minimo edittale del reato meno grave ma che tuttavia è punito più severamente nel minimo. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 24324 depositata oggi e segnalata per il Massimario, che ha accolto il ricorso del Pg della Corte di appello di Bologna. Il caso era quello di un uomo condannato, a seguito di un patteggiamento, dal GUP del Tribunale di Forlì a 2 anni di reclusione con pena sospesa (subordinata allo svolgimento di un percorso di recupero), per i seguenti reati: stalking aggravato (art. 612-bis c.p.) nei confronti della ex compagna a cui procurava, mediante minacce anche attraverso strumenti informatici, un perdurante stato d’ansia; furto con strappo (art. 624-bis, co. 2 c.p.) perché durante un pedinamento le aveva sottratto la borsa. E ancora tentata violenza sessuale aggravata e lesioni (art. 609-bis, art. 582 e 585 c.p.) per aver aggredito la donna, sua coinquilina, tentando di costringerla a un rapporto sessuale, colpendola e minacciandola con un coltello, procurandole lesioni aggravate guaribili in 30 giorni. Nel ricorso, il Pg ha lamentato la violazione degli artt. 80, co. 2, e 624-bis, co. 2, Cp, per avere applicato, ritenuta la continuazione, una pena base inferiore al minimo edittale previsto per il furto con strappo (art. 624-bis, co. 2, Cp). Infatti, sebbene il reato più grave fosse stato correttamente individuato nella tentata violenza sessuale, il minimo edittale previsto per la fattispecie tentata, ossia due anni, era inferiore a quello previsto per il furto con strappo, pari al doppio, ossia a 4 anni di reclusione. Per la Terza sezione penale il ricorso è fondato. È vero, argomenta la Corte, che si deve considerare più grave il delitto che ha il massimo edittale più elevato. Tuttavia, qualora il giudice intenda graduare al livello più basso la dosimetria della pena, “non gli è consentito applicare una pena-base inferiore al minimo edittale previsto per uno qualsiasi dei reati unificati dall’identità del disegno”. Pertanto, prosegue la Corte, in caso di reati unificati dall’identità del disegno criminoso, “ove uno di essi sia punito con pena più elevata nel massimo e l’altra con pena più elevata nel minimo, la pena da irrogare in concreto non può essere inferiore alla seconda previsione edittale”. Venendo poi più specificamente al patteggiamento, il Collegio afferma che deve essere annullata senza rinvio ex art. 448, comma 2-bis, Cpp, in quanto dà luogo all’applicazione di una pena illegale, “la sentenza che recepisce un accordo tra le parti relativamente ad un reato continuato per il quale la pena base risulti quantificata, a seguito di una errata individuazione del reato più grave, in misura inferiore al minimo edittale di altro reato considerato satellite”. In un simile caso, non può neppure farsi ricorso alla procedura di rettificazione (art. 619, co. 2, Cpp), per applicare d’ufficio, una misura della pena esulante dall’accordo intervenuto, “in quanto l’imputato, di fronte ad essa, avrebbe potuto non rinnovare la richiesta, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., e optare per il rito ordinario”. Da qui l’annullamento senza rinvio della sentenza con trasmissione degli atti al tribunale di Forlì. Mandato d’arresto Ue, no alla consegna se mette a rischio la salute mentale del condannato di Antonio Alizzi Il Dubbio, 3 luglio 2025 La Cassazione conferma la decisione della Corte d’appello di Bari: niente estradizione in Romania per l’uomo colpevole del reato di corruzione, affetto da una grave depressione. La Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dalla Procura generale contro l’ordinanza con cui la Corte d’appello di Bari aveva disposto la mancata consegna di un cittadino romeno condannato nel suo Paese per corruzione, ritenendo sussistente un rischio concreto per la sua salute psichica in caso di trasferimento. Una decisione che, pur in controtendenza rispetto al principio di fiducia reciproca tra Stati membri dell’Unione Europea, trova fondamento nella tutela del diritto alla salute come valore assoluto, sancito dall’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e dagli articoli 2 e 32 della Costituzione italiana. La vicenda giudiziaria trae origine dal mandato d’arresto europeo emesso dalle autorità romene per l’esecuzione della condanna inflitta ad A. J. il 6 aprile 2022 e divenuta definitiva nel marzo 2023. Con sentenza del 12 ottobre 2023, la Corte d’appello di Bari aveva disposto la consegna, poi confermata dalla Cassazione il 3 novembre 2023. Tuttavia, in sede esecutiva, l’emergere di gravi problemi psichiatrici ha spinto la stessa Corte d’appello a sospendere il trasferimento e ad attivare una complessa istruttoria finalizzata ad accertare la compatibilità tra le condizioni di salute dell’interessato e il regime detentivo previsto in Romania. La perizia medico-legale disposta in quella fase, integrata successivamente da un supplemento di accertamenti e dall’esame dei consulenti di parte, ha evidenziato che A. J. è affetto da un disturbo depressivo maggiore, di entità grave, con precedenti episodi di autolesionismo e un alto rischio suicidario. Come sottolineato dallo stesso consulente del Procuratore generale, “ad ogni persona in queste condizioni l’inserimento in carcere determinerebbe un aumento considerevole del rischio autolesivo e suicidario, non solo in un altro Paese ma anche in Italia”. Le valutazioni peritali hanno escluso che il sistema penitenziario romeno possa offrire un trattamento sanitario adeguato o equiparabile a quello garantito in Italia, dove A. J. è seguito in un contesto terapeutico territoriale integrato. Secondo i giudici di Bari, le cure ipotizzate in Romania - in regime detentivo - non sarebbero idonee a prevenire il rischio di un deterioramento grave e irreversibile dello stato psicopatologico, né consentirebbero la prosecuzione efficace del trattamento in atto. Da qui la decisione di “non farsi luogo alla consegna”, adottata con ordinanza del 20 maggio 2025. La Procura generale ha impugnato tale ordinanza sostenendo che si trattasse di un atto abnorme, lesivo del principio del mutuo riconoscimento e contrario alla decisione quadro 2002/584/GAI, che disciplina il mandato d’arresto europeo. In particolare, ha denunciato la violazione dell’articolo 23 (par. 4) della decisione quadro, che consente la sospensione della consegna solo per un tempo limitato, e ha contestato l’introduzione, di fatto, di un nuovo motivo di rifiuto, fondato su circostanze - le condizioni di salute - non previste espressamente dalla normativa europea o nazionale. La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, ha valorizzato la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte costituzionale italiana. In particolare, ha fatto riferimento alla sentenza CGUE 18 aprile 2023 (C-699/21), la quale ha stabilito che la consegna deve essere rifiutata qualora vi siano “motivi seri e comprovati” per ritenere che l’esecuzione del mandato esporrebbe la persona a un rischio reale di riduzione significativa della propria aspettativa di vita o di deterioramento rapido, significativo e irrimediabile della sua salute. La stessa sentenza ha chiarito che non è consentito differire indefinitamente l’esecuzione in presenza di patologie gravi e croniche: in tali casi, l’unica soluzione conforme al diritto dell’Unione è il rifiuto della consegna. In linea con questo orientamento, anche la Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 177 del 2023, ha delineato il modello procedurale che consente alle Corti d’appello di pronunciarsi sul rifiuto della consegna per ragioni legate alla tutela della salute. Tali decisioni devono essere adottate in composizione collegiale, con le garanzie del contraddittorio e la possibilità di ricorso in Cassazione, al fine di assicurare il pieno rispetto dell’articolo 111 della Costituzione. Richiamando anche il principio dell’articolo 1, (par. 3), della decisione quadro, la Cassazione ha ribadito che la tutela dei diritti fondamentali, inclusi il diritto alla salute e il divieto di trattamenti inumani o degradanti, prevale sulle esigenze di cooperazione giudiziaria, qualora il rischio per l’integrità psicofisica dell’interessato sia serio, concreto e non superabile. In tal senso, ha sottolineato come la Corte di appello abbia agito nel pieno rispetto della procedura tracciata dal diritto UE, instaurando un dialogo con le autorità romene, chiedendo garanzie sulle modalità detentive e valutando in maniera approfondita le relazioni mediche. La Corte ha infine affermato un principio di diritto destinato ad avere rilevanza di tipo sistemico, nella parte in cui scrive che “in tema di mandato di arresto europeo, qualora successivamente alla decisione che dispone la consegna emergano motivi seri e comprovati di ritenere che la consegna esponga la persona richiesta a un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di deterioramento rapido e irrimediabile del suo stato di salute, la Corte di appello, quale giudice dell’esecuzione, può rifiutare la consegna con ordinanza ricorribile in cassazione ai sensi dell’articolo 22 della legge n. 69 del 2005”. Espulsa nonostante la richiesta d’asilo, la Cassazione censura Questore e Giudice di pace di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2025 L’ordinanza riguarda il caso di una cittadina brasiliana, espulsa a Catania il 30 maggio del 2024 nonostante avesse presentato domanda d’asilo. Non sta alle questure, né ai giudici di pace, valutare una richiesta d’asilo, qualunque sia la ragione che ha spinto lo straniero a presentarla. A chiarirlo è prima sezione civile della Cassazione, che il 30 giugno si è espressa sul ricorso di una cittadina brasiliana, espulsa nonostante la volontà di chiedere asilo. Ma l’ordinanza va ben oltre il caso singolo perché, confermano alcuni legali, “l’espulsione di chi ha espresso la volontà di chiedere protezione è una prassi diffusa”. La legale della ricorrente, Rosa Emanuela Lo Faro, dice che a Catania “avviene in continuazione”. Un abuso che nega un diritto riconosciuto da norme interne e comunitarie. L’ordinanza ha sospeso il decreto del Giudice di pace di Catania che convalidava l’ordine di accompagnamento alla frontiera emesso dalla Questura il 30 maggio 2024, seguito al decreto di espulsione della Prefettura catanese. L’udienza di convalida si è svolta lo stesso 30 maggio in Questura, nei locali che la legge consente di mettere a disposizione del Giudice di pace (GdP), “al fine di assicurare la tempestività del procedimento di convalida”. E’ qui che la donna, ricostruisce la Suprema Corte, “ha formulato una domanda di protezione internazionale”. E’ la manifestazione della volontà a modificare lo status della persone, che diventa così un richiedente asilo. Ma, prosegue l’ordinanza, “né il Questore né il GdP hanno permesso la sospensione del rimpatrio per poter dar corso alla sua richiesta e trasmettere gli atti alla Competente Commissione territoriale”. Perché? Secondo il Giudice di pace, “la domanda era tardiva e strumentale ad evitare il ritorno nel paese di origine”. In base alla Direttiva Ue 32/2013 sulle procedure d’asilo, la domanda di protezione “può essere presentata dallo straniero che abbia in corso il trattenimento ai fini dell’esecuzione dell’espulsione anche avanti al giudice di pace nel corso dell’udienza di convalida”, ricorda la Cassazione. La domanda va immediatamente trasmessa al questore, che la registra nel termine perentorio di 6 giorni. Saranno le Commissioni territoriali insediate presso le prefetture a dire se la domanda è valida o strumentale, se va accolta o respinta. Nel frattempo, e fino all’eventuale ricorso in tribunale, l’espulsione è sospesa. Invece le cose non vanno così, in Sicilia ma anche altrove, come confermano tanti altri ricorsi e le altre, recenti sentenze: “E’ affetto da violazione di legge il provvedimento con il quale il giudice di pace, anziché dare atto dell’inespellibilità dell’opponente, compia una propria ed autonoma valutazione…” (Cass. civ., sez. I, ord. n. 6011/2024). ?”Va confermato in questa sede l’orientamento consolidato di questa Corte”, è scritto nell’ordinanza di Catania, per dire che ormai dovrebbero saperlo anche i muri. Non quelli della Questura, evidentemente. Accade spesso che Questore e Giudice di pace si comportino così? “A Catania, sempre: ogni persona sottoposta a convalida è stata rimpatriata senza tener conto della domanda di protezione, un obbrobrio”, risponde l’avvocata Lo Faro, che in Cassazione sta già patrocinando un altro ricorso. E si rammarica: “La mia assistita è stata espulsa lo stesso giorno della convalida, ed è passato più di un anno per avere una risposta sul comportamento illegittimo della pubblica amministrazione. Si perdono le speranze di una vera giustizia e infatti molti colleghi rinunciano ai ricorsi per questo motivo”. Pochi i ricorsi, insufficienti le censure. E infatti l’abuso è diventato prassi, in barba allo stato di diritto. Lombardia. Gare truccate nelle carceri: perquisizioni nel Provveditorato regionale di Rosario Di Raimondo La Repubblica, 3 luglio 2025 La Guardia di finanza indaga su lavori eseguiti in varie strutture a Milano e nel resto della regione. Appalti truccati per l’assegnazione dei lavori edili nelle carceri. Questa mattina è scattato un blitz della Guardia di finanza di Milano. In azione per fare luce su una serie di gare finite sotto il faro degli inquirenti i militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria coordinati dalle pm di Milano Giovanna Cavalleri e Giancarla Serafini. A segnalare le anomalie alla procura di Milano è stato lo stesso Provveditorato regionale per la Lombardia del Dap. Le presunte gare truccate, in cambio di mazzette, riguardano sei penitenziari, ossia San Vittore e Opera a Milano e poi ancora quelli di Pavia, Como, Brescia e Monza. Le acquisizioni di documenti sono in corso negli uffici del Provveditorato regionale per la Lombardia-Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, che si trovano nei pressi di San Vittore. Tre gli indagati: un ex funzionario del Provveditorato regionale per la Lombardia, un ingegnere dello stesso Provveditorato e il rappresentante legale dell’azienda che si sarebbe accaparrato i lavori in cambio di mazzette. Da quanto si è saputo, il valore delle presunte gare pilotate, in cambio di tangenti, sarebbe almeno di diverse centinaia di migliaia di euro. Il Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, nelle indagini della Procura diretta da Marcello Viola, oltre a perquisire i tre indagati con sequestri di dispositivi informatici e telefoni, sta acquisendo negli uffici del Provveditorato lombardo del Dap del Ministero della Giustizia tutti i bandi per le opere che sono al centro dell’inchiesta. Toscana. Etnoclinica nelle carceri. Approvato il progetto per migliorare l’assistenza sanitaria L’Espresso, 3 luglio 2025 Il progetto nasce dalla necessità di superare le barriere linguistiche e culturali che spesso ostacolano la presa in carico e la cura dei detenuti stranieri. Stanziati 80mila euro. Bezzini: “Garantire un’assistenza adeguata a tutti i detenuti, a prescindere dalla loro provenienza, è un dovere civico e un elemento fondamentale per la riabilitazione e il reinserimento sociale”. La giunta della Toscana ha approvato il “Progetto per la realizzazione di interventi di etnoclinica in carcere”, un’iniziativa innovativa finalizzata a migliorare l’assistenza sanitaria per i detenuti stranieri, che rappresentano una quota significativa della popolazione carceraria regionale. Elaborato in collaborazione con i Direttori delle Aree sanità penitenziaria e approvato dalle Direzioni sanitarie delle Aziende USL toscane, il progetto nasce dalla necessità di superare le barriere linguistiche e culturali che spesso ostacolano la presa in carico e la cura dei detenuti stranieri da parte degli operatori sanitari. “L’iniziativa si inserisce nell’impegno della Regione Toscana per una sanità equa e accessibile - ha detto il presidente Eugenio Giani -, anche in contesti complessi come quello carcerario dove il rispetto delle diversità culturali può fare la differenza nella qualità delle cure e nel percorso di recupero”. “Questo progetto rappresenta un passo importante verso un sistema sanitario penitenziario sempre più inclusivo e attento alle specificità culturali - ha dichiarato l’assessore regionale al diritto alla salute Simone Bezzini - garantire un’assistenza adeguata a tutti i detenuti, a prescindere dalla loro provenienza, è un dovere civico e un elemento fondamentale per la riabilitazione e il reinserimento sociale”. Per garantire un’assistenza clinica e terapeutica appropriata, il progetto prevede l’attivazione di percorsi sanitari integrati con il supporto di psicologi, etnopsicologi, antropologi, mediatori etnoclinici e linguistici, ed etnopsicoterapeuti. All’iniziativa sono state destinati 80mila euro, ripartiti tra le tre Aziende sanitarie toscane in base alla presenza di detenuti stranieri nelle rispettive aree di competenza: 42.000 euro all’Azienda USL Toscana Centro; 28.000 all’Azienda USL Toscana Nord Ovest e 10.000 all’Azienda USL Toscana Sud Est. La sperimentazione avrà una durata di un anno, al termine del quale sarà effettuata una valutazione. Padova. “Oggi espiare significa anche studiare e lavorare, il Due Palazzi un esempio” di Pamela Ferlin Corriere del Veneto, 3 luglio 2025 In 150 lavorano nelle cooperative interne fra pasticceria, call center e manutenzione) e 50 in regime di semilibertà. I progetti di Maria Gabriella Lusi, nuova direttrice del carcere di Padova. Arrivata al Due palazzi di Padova da alcuni mesi, Maria Gabriella Lusi, che di istituti penitenziari ne ha visti tanti e diretti alcuni, l’ultimo a Piacenza, ha accolto la sfida di guidare questa nuova realtà. Ci accoglie puntuali di prima mattina in un ufficio inondato di sole, con una stretta di mano energica quanto il suo sorriso. Quali sono i progetti che intende mettere a terra durante il suo mandato? “Prima devo conoscere a fondo questa realtà che sono onorata e orgogliosa di guidare, un carcere è una “organizzazione vivente” che respira, in continuo mutamento, devo conoscere il funzionamento di ogni sua parte. Questa di Padova è una realtà di altissima qualità, la sfida sarà riuscire a implementare il lavoro eccezionale svolto da chi mi ha preceduta e da tutte le componenti che la animano. È anche un bel luogo, un edificio curato e pulito, perché l’ambiente è fondamentale per le persone che lo abitano”. In questa azione conoscitiva su cosa si sta concentrando? “Sulle ricorse umane: polizia penitenziaria, professionisti, psicologi e medici, volontari delle realtà esterne che collaborano con l’interno per i progetti di lavoro, con gli insegnati che volgono attività formativa e la Magistratura di Sorveglianza. E vorrei conoscere i detenuti, uno ad uno. Come mi è capitato dl dire a mia figlia la fiducia è alla base di ogni rapporto, nel mio lavoro è ai massimi livelli, senza conoscenza non ci può essere fiducia. Anche per questo le visite delle classi all’Istituto sono una importante occasione per gli studenti di capire cosa c’è dietro i muri e per i detenuti di uscire da mitologie negative”. Dopo la conoscenza con gli attori della realtà carceraria e ottenuta la fiducia necessaria, cosa intende fare? “Favorire le condizioni organizzative per assicurare l’obiettivo della risocializzazione. Implementando la formazione scolastica e professionale - di cui sono spesso sprovvisti - e la possibilità di lavorare. Attualmente su 570 ospiti della struttura 110 sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, 150 lavorano a turno nelle cooperative che operano internamente (pasticceria, call center, manutenzione) e circa 50lavorano esternamente perché sono in regime di semilibertà. Questi numeri sono già straordinari, ma implementeremo le scuole professionali, la carpenteria, il giardinaggio, i corsi di elettricista e di mulettista. Attività che nella realtà territoriale sono richieste”. In che modo crede che essere donna possa influire nel lavoro di dirigere un carcere? “Credo in nessun modo, posso definire il mio modus operandi, basato sulla fiducia che significa credere nell’altro e essere credibili, è un processo incessante, fatto di esperienza precedente e di attese per il futuro. Il reato può essere una scelta di vita o un comportamento indotto dal contesto ambientale da cui si proviene. Vorrei che dopo l’esperienza della detenzione, dopo un tempo apprendimento e costruzione di un’identità nuova, il detenuto possa scegliere di essere un cittadino dignitoso e in condizione di ricominciare”. Padova ha un reparto importante di detenuti protetti, tra cui in prevalenza sex offender, che atteggiamento verso di loro? “Come per tutti gli altri: di regola e rispetto. Nel caso dei reati in questione il trattamento segue le direttive ministeriali ed è completamente individualizzato, ogni soggetto segue un percorso psicoeducativo costruito su di sé. Rispettare i detenuti significa anche favorire la libertà dei culti più diversi, durante il Ramadan abbiamo agevolato la consumazione dei pasti ad orari diversi. Ma non prescindo dal principio per cui ad ogni diritto corrisponde un dovere. Il dovere di recepire e non trasgredire la regola fino a quando si tra qui dentro”. E una volta fuori, la famosa recidiva? “In un carcere come il Due Palazzi espiare una condanna significa anche risocializzarsi, studiare e imparare un mestiere. Ma soprattutto di capire che la libertà è una responsabilità: i detenuti sono degli adulti. Sta a loro scegliere”. Ferrara. Carcere, il caso violenza: “Garante in Commissione”. Arcigay: “Ora una riforma” di Federico Di Biseglie Il Resto del Carlino, 3 luglio 2025 Dopo la denuncia della trans, le opposizioni portano la vicenda in Consiglio. Anselmo: “Alla luce dei gravi accadimenti, fare un bilancio con Macario”. Una cella, quattro uomini, una detenuta trans. Una violenza denunciata. Ed è da qui, da un racconto che scuote le coscienze e interpella le istituzioni, emerso grazie al Carlino, che si riaccende a Ferrara il dibattito sulle condizioni del carcere cittadino e, più in generale, sullo stato del sistema penitenziario italiano. Dopo le polemiche incendiarie dei giorni scorsi arriva la richiesta di convocazione di una Commissione consiliare da parte del capogruppo di opposizione Fabio Anselmo, una replica piccata della senatrice Ilaria Cucchi alle parole del collega di Fd’I, Alberto Balboni e la presa di posizione di Arcigay nazionale. Daniela Lourdes Falanga, esponente della segreteria nazionale di Arcigay, parla di “una vicenda gravissima” e denuncia l’assenza cronica di tutele per le persone Lgbt detenute. “Quanto accaduto a Ferrara - scrive in una nota - è il sintomo di un sistema carcerario che non riesce a proteggere le persone più vulnerabili, in particolare le detenute trans. La solidarietà alla vittima è piena, ma non basta: serve una riforma strutturale”. Nel mirino dell’associazione anche il nuovo decreto sicurezza, accusato di alimentare il sovraffollamento e di reprimere ogni forma di dissenso dietro le sbarre. “Così - conclude Falanga - le violenze rischiano di diventare sistematiche”. Parole dure, che si aggiungono a un contesto già incandescente. Proprio ieri, Anselmo ha chiesto formalmente la convocazione della Commissione consiliare - la quarta - con l’obiettivo di ascoltare la garante delle persone private della libertà personale, Manuela Macario. “Alla luce degli ultimi gravi accadimenti - scrive Anselmo assieme ai colleghi Leonardo Fiorentini e Arianna Poli - è urgente fare un bilancio dell’attività della Garante. La Commissione può rappresentare un’occasione fondamentale per i consiglieri”. Una mossa istituzionale, quella dell’esponente di minoranza, che si intreccia con la polemica politica innescata dalle dichiarazioni del senatore di Fratelli d’Italia, Alberto Balboni, che ha definito la situazione del carcere “estremamente critica” pur criticando l’iniziativa “show propagandistico” della collega di Avs, Ilaria Cucchi. Non si fa comunque attendere, da parte di quest’ultima, la replica. “Balboni - dichiara in una nota - ha un concetto della nostra Costituzione usa e getta. Le ispezioni a sorpresa gli danno fastidio, ma sono previste dalla Costituzione stessa. Il senatore preferisce muoversi tra amicizie altolocate - Piantedosi, Delmastro - ma di soluzioni concrete non se ne vedono”. La senatrice di opposizione non lesina critiche nemmeno sul fronte politico-amministrativo, rincarando la dose e riprendendo in qualche modo i termini adottati dal senatore nel pezzo uscito sul nostro giornale. “La cosa pubblica - scandisce - non può essere gestita così, tra amici. Le istituzioni devono rappresentare tutti i cittadini, muovendosi con atti regolamentati e trasparenti”. Il riferimento è anche alla gestione della questione Cpr, rientrata improvvisamente con la promessa di un ampliamento del carcere. Nel frattempo, a proposito di carcere, il presidente di Ibo Italia Alberto Osti, alla presenza del vicesindaco Alessandro Balboni, ha siglato proprio ieri la convenzione tra il Comune, l’Arginone, le associazioni di volontariato e soggetti pubblici-privati che si impegnano - coinvolgendo i detenuti - a prendersi cura in forma volontaria di alcune aree verdi del Comune, per lo svolgimento di piccoli lavori di manutenzione, di pulizia e per la messa a dimora e successiva cura di alberature. Bolzano. Detenuta morta, la famiglia si oppone all’archiviazione Corriere dell’Alto Adige, 3 luglio 2025 L’avvocato Nettis: “Vogliamo capire perché avesse con sé i lacci”. La famiglia dell’altoatesina di 37 anni trovata morta in carcere chiede chiarezza. L’avvocato Nettis: “Indagare sul perché avesse i lacci”. La Procura di Trento chiede l’archiviazione dell’indagine per la morte della detenuta altoatesina di 37 anni trovata in fin di vita nel vano celle del carcere di Spini di Gardolo il 2 dicembre 2023, con un laccio per le scarpe attorno al collo, e morta tre giorni dopo in ospedale. Ma la famiglia chiede chiarezza, e per questo, attraverso l’avvocato Nicola Nettis, si oppone alla richiesta di archiviazione. “Ci sono ancora diversi aspetti da chiarire - spiega il legale -. A partire dal regime di detenzione della donna: si trovava in cella da sola, ma se fosse stata formalmente in isolamento, non avrebbe dovuto avere con sé i lacci delle scarpe”. Fin dai primissimi giorni, la famiglia non aveva creduto all’ipotesi più accreditata, ossia quella del suicidio. E questo, sia perché, in loro presenza, non avrebbe mai manifestato segnali che potessero far loro pensare alla volontà di compiere atti di autolesionismo, sia, soprattutto, perché di lì a pochi mesi la donna, in carcere da un paio d’anni per una condanna per reati contro il patrimonio, avrebbe potuto chiedere (e secondo Nettis ottenere) l’accesso a una misura alternativa. Per far luce sull’accaduto, la Procura di Trento aveva aperto un fascicolo d’indagine contro ignoti e disposto l’autopsia sul corpo della trentasettenne. Dalla quale sono emerse le prime risposte. “Il laccio - riferisce Nettis - era stato legato al rubinetto del vano docce. Il consulente del pm ha chiarito che è sufficiente che due terzi del proprio peso corporeo siano sospesi per provocare la morte per asfissia, anche se, come nel caso specifico, i piedi toccano terra”. Non ci sarebbero dubbi, insomma, sulle cause del decesso. Da chiarire se il regime di detenzione della trentasettenne fosse compatibile con l’introduzione, all’interno dell’istituto penitenziario, di lacci per le scarpe. “Se fosse stata formalmente in isolamento - precisa l’avvocato Nettis - non avrebbe dovuto averli”. Ed è questo uno degli elementi che il legale e la famiglia chiedono di chiarire prima di archiviare la vicenda. Treviso. All’Ipm i detenuti dormono per terra sui materassi, la “colletta” dei magistrati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 3 luglio 2025 Una recente proposta di legge intende obbligare i futuri magistrati a 15 giorni e 15 notti in carcere, in modo che sperimentino le condizioni che si troveranno poi a infliggere con arresti e sentenze. Ma già oggi nei primi sei mesi di tirocinio “generico” fanno uno stage nei tribunali di sorveglianza con visite nelle carceri. In Veneto, ad esempio, i 23 magistrati in tirocinio (mot) sono entrati il 2, aprile negli istituti penitenziari di Venezia e Padova, e nell’Ipm carcere minorile di Treviso (città dove ha residenza il ministro Nordio): il più sovraffollato d’Italia, con presenze arrivate anche a 20 ragazzi in celle pensate per 12 posti, con detenuti costretti a dormire a terra su materassi stesi negli spazi residui. E proprio la visita all’Ipm di Treviso deve aver talmente scosso i “mot” veneti da indurli a una “colletta” per almeno una rete da letto: gesto simbolico e vagamente ingenuo perché ovviamente non sono ammessi acquisti esterni, e dunque riconvertito in un contributo al cappellano che poi vedrà come meglio impiegarlo. In attesa della chiusura a fine anno di quello di Treviso se aprirà il nuovo Ipm di Rovigo, il ministero a metà maggio ha rimarcato di aver “sfollato” alcuni detenuti per far scendere il numero da 29 a 20, aumentato i funzionari pedagogici, e nominato direttore e comandante. L’8 giugno solo l’intervento degli agenti penitenziari ha evitato il peggio di un incendio innescato da tre detenuti, uno dei quali trasportato in braccio all’infermeria perché la barella non passava dall’unico ingresso della sezione. Palermo. Carceri, la Camera penale: “Si valutino provvedimenti di clemenza per i detenuti” palermotoday.it, 3 luglio 2025 “Condividiamo con interesse e con sincero apprezzamento il monito del presidente della Repubblica sulle tragiche condizioni delle carceri italiane e della popolazione detenuta. L’Unione delle Camere penali e la Camera penale di Palermo, in particolare, già da tempo si sono fatte latrici delle problematiche degli istituti penitenziari italiani. Duole constatare come si è dovuti arrivare a ben 91 suicidi in carcere solo nell’anno 2024 per comprendere la gravità della situazione”. Lo affermano in una nota l’avvocato Vincenzo Zummo, presidente della Camera penale di Palermo, l’avvocato Angelo Formuso, componente dell’Osservatorio carceri dell’Ucpi, e l’avvocato Antonino De Lisi, responsabile della Commissione carceri e diritti civili della Camera penale di Palermo. “Ribadendo che le istituzioni penitenziarie hanno l’obbligo di tutela della vita e dell’incolumità personale dei detenuti e degli internati, ne consegue che l’istituzione dovrà vigilare affinché la popolazione carceraria non compia gesti di autolesionismo o, peggio ancora, suicidi. Purtroppo, le cronache ci offrono, con scansione temporale ormai quasi quotidiana, un quadro desolante dell’istituzione carceraria in cui impera la disumanità e l’abbandono di ogni finalità rieducativa del trattamento, un luogo in cui non si riesce, malgrado i numerosi talk show di turno, a superare i numeri fallimentari delle varie proposte”. E aggiungono: “Il sovraffollamento, le difficoltà sanitarie nell’affrontare alcuni casi di soggetti a rischio, la inadeguatezza dell’edilizia carceraria, il sottodimensionamento dell’organico degli operatori di polizia penitenziaria, la difficoltà a creare in ogni struttura penitenziaria un adeguato centro sanitario che possa garantire, almeno in prima istanza, situazioni a contrasto di alcune patologie, una adeguata formazione degli operatori di polizia penitenziaria al fine di migliorare l’impatto sociale, spesso molto difficoltoso, con la popolazione carceraria non fanno altro che costituire una parte di quel corollario di elementi che oggi impongono, così come rimarcato dal presidente Mattarella, l’intervento della politica. Non possiamo e non dobbiamo, del resto, sottacere come le amministrazioni penitenziarie vivano reali difficoltà nella gestione della popolazione carceraria, stante la ormai cronica inadeguatezza delle risorse disponibili”. Infine concludono: “Il nostro auspicio è che il competente ministro istituisca un tavolo permanente che possa vagliare al meglio proposte e iniziative finalizzate al riordino della normativa penitenziaria da un lato, dando al contempo priorità assoluta ai provvedimenti di clemenza più volte invocati, purtroppo fino ad oggi invano, da più parti ed anche da alte cariche istituzionali, provvedimenti non più rinviabili. Un luogo in cui non si riesce a garantire il rispetto della dignità ed umanità del trattamento nei confronti delle persone detenute, e l’efficienza del personale che vi opera, è un luogo in cui muore la Costituzione e con essa anche la nostra democrazia”. Venezia. I detenuti lavoreranno nella Basilica di San Marco veneziatoday.it, 3 luglio 2025 I detenuti della casa circondariale di Venezia avranno la possibilità di lavorare per la procuratoria di San Marco, con incarichi alla Basilica. È previsto da un accordo di collaborazione firmato stamattina dagli enti interessati, volto a incentivare il reinserimento sociale degli individui privati della libertà personale. Non solo: oltre all’opportunità di lavoro, la procuratoria darà ai detenuti, e al personale della casa circondariale, ospitalità per le visite guidate e farà a sua volta visita ai reclusi in carcere, con i suoi volontari, per proiezioni di filmati e illustrazione di opere d’arte. A suggellare il protocollo, nella sala convegni a Sant’Apollonia, sono stati i procuratori Bruno Barel e Renato Brunetta (in collegamento), con il rappresentante Rsa Uil della procuratoria Raffaele Cavasin e il direttore della casa circondariale Santa Maria Maggiore, Enrico Farina. Presenti all’evento anche monsignor Francesco Moraglia, la vicaria del prefetto Piera Bumma e la presidente del consiglio comunale Ermelinda Damiano, che ha spiegato il valore dell’iniziativa: “È un tassello prezioso in più che si aggiunge alle numerose iniziative che già la casa circondariale di Venezia promuove sul territorio. Una realtà che collabora con tante associazioni, come la Biennale. Questa diventa un’occasione aggiuntiva che dà la possibilità ai detenuti di apprezzare l’arte e la bellezza della città. Il progetto - ha proseguito - parte da uno dei simboli di Venezia, un simbolo che è certamente religioso e culturale, conosciuto in tutto il mondo: credo sia una grandissima opportunità per il reinserimento sociale in funzione del percorso rieducativo, previsto dalla nostra Costituzione, ma credo sia anche un importante passo per tutta la comunità”. Anche Daniele Giordano, segretario Cgil Venezia, parla di “un passo importante nella direzione di una città che accoglie chi ha bisogno di una seconda opportunità. La libertà passa anche dall’opportunità di un lavoro dignitoso, occasione non da poco in una città dove tante volte chi è svantaggiato è costretto ad accettare condizioni di sfruttamento e irregolarità. Per questo riteniamo molto positiva la parificazione del contratto con quello applicato alle lavoratrici e ai lavoratori della procuratoria. Segno del riconoscimento della piena cittadinanza nella società per chi deve poter tornare ad essere libero”. Vigevano (Pv). Carcere dei Piccolini senza più scuola di Edoardo Varese araldolomellino.it, 3 luglio 2025 Il carcere di Vigevano non avrà più una scuola. Alcuni lavori di manutenzione, previsti per l’immediato futuro, fermeranno le lezioni per il prossimo anno scolastico. Dietro le sbarre non ci sarà più questa importante opportunità di crescita per alcuni detenuti, che nella scuola vedevano un’opportunità di riscatto. La direzione della casa circondariale dei Piccolini ha comunicato all’Its Luigi Casale la sospensione dei corsi scolastici per il prossimo anno a causa di interventi di ristrutturazione all’interno della struttura circondariale, che dureranno almeno fino al 2026. L’istituto quest’anno aveva una sezione carceraria presso la casa di reclusione di Vigevano, strutturata in due classi, una terza e una quinta, oltre a un gruppo-classe, gestito da volontari, che consente ai detenuti di prepararsi all’esame di idoneità alla classe terza. La scuola a Vigevano non andrà più oltre le sbarre, almeno per i prossimi dodici mesi: “Alcuni interventi - spiega la direttrice Rosalia Marino - sono già iniziati e ne avremo fino a tutto il 2026. Si tratta di interventi di rifacimento di tutte le coperture della struttura, delle cucine, della lavanderia, della caserma e degli alloggi demaniali. Ringrazio comunque il Casale per l’aiuto che ha dato alla struttura in questi anni”. Non ci sono però garanzie che il corso sarà ripristinato una volta terminati i lavori di ristrutturazione. La certezza non può darla neppure la direttrice, in procinto di trasferirsi nell’istituto penitenziario di Opera. “Mi trasferirò dopo le ferie estive - precisa - ad ogni modo quando saprò qualcosa di preciso lo comunicherò per salutare tutti”. Un carcere che resterà senza scuola fa riflettere, soprattutto chi come Lorenzo Gaspero, dal 2006 docente di lettere, si è impegnato a trasmettere ai reclusi l’importanza della cultura: “Non me lo sarei mai immaginato - dichiara - non avrei mai pensato che i nostri corsi potessero finire a causa di interventi di manutenzione. Non è stata ovviamente una decisione presa dal Casale, soprattutto perché con molti detenuti coinvolti nel progetto si è instaurato un rapporto umano che va oltre quello tra alunni e docenti”. Sono dispiaciuto e spero che il corso potrà essere ripristinato quanto prima, perché la scuola garantisce ai reclusi un’ulteriore opportunità di riscatto sociale e un modo per riuscire a trovare una nuova strada per il futuro. Una tenue speranza Gaspero però la conserva. Cerca di averla prendendo come esempio due suoi alunni che in queste settimane hanno sostenuto gli esami di maturità: “Hanno sostenuto le prove scritte e lo scorso 27 giugno l’esame orale. Entrambi hanno dimostrato di aver intrapreso il percorso scolastico con serietà e all’esame si sono comportati in modo ammirevole. Hanno studiato e per questo hanno ricevuto i complimenti da parte della commissione. Il nostro corso funziona e loro ne sono un esempio diretto. Entrambi possono dire di avercela fatta, di essere riusciti ad affrontare una situazione comunque difficile, come può essere la realtà carceraria”. Due detenuti che confermano come la speranza possa arrivare anche dentro le sbarre, ma “a portarla deve essere qualcuno che arriva da fuori. Come docente mi sono accorto col trascorrere degli anni quanto sia importante per i reclusi interfacciarsi con qualcuno che, come noi insegnanti, non faccia strettamente parte della realtà carceraria. Sono mie riflessioni che spero possano essere prese in considerazione quando si dovrà decidere se ripristinare o meno i corsi”. Terni. Il carcere scommette sull’affettività: verso nuovi spazi per i detenuti e le loro famiglie quotidianodellumbria.it, 3 luglio 2025 Previsti moduli abitativi per incontri genitoriali e di coppia. In attesa dei fondi ministeriali, il progetto punta a rafforzare i legami familiari come strumento di rieducazione. Nel carcere di vocabolo Sabbione a Terni si guarda oltre la detenzione tradizionale. Dopo l’apertura della cosiddetta “stanza dell’amore” - uno spazio pensato per tutelare la sfera affettiva dei detenuti - l’istituto penitenziario punta ora a un progetto ancora più ambizioso: la realizzazione di moduli abitativi protetti, dedicati non solo agli incontri con il partner, ma anche alla relazione genitoriale. Come avevamo anticipato nella nostra testata in data 17 aprile 2025 nell’articolo dal titolo “Affettività in carcere: il coraggio di Terni e il dovere di cambiare”, l’iniziativa nasce dalla consapevolezza che la qualità delle relazioni affettive, anche in regime detentivo, ha un impatto decisivo sul percorso rieducativo della persona e sulla sua possibilità di reinserimento sociale. I nuovi spazi, se approvati e finanziati, saranno ambienti pensati per ricreare una dimensione familiare, con tempi e modalità di incontro più distesi rispetto a quelli previsti nei colloqui tradizionali. In questo modo, i figli potranno vivere la visita al genitore detenuto in un contesto più umano, riducendo l’impatto traumatico del carcere e salvaguardando la continuità dei legami. Attualmente, la “stanza dell’amore” è stata utilizzata in due sole occasioni, ma il suo valore simbolico resta alto: rappresenta un primo passo verso un approccio più attento alla persona detenuta in quanto soggetto relazionale, non solo come autore di reato. I moduli abitativi rappresenterebbero il secondo passo, ben più strutturato, verso una gestione della pena che includa il diritto all’affettività e alla genitorialità come parte integrante del trattamento penitenziario. La realizzazione del progetto, tuttavia, è vincolata all’approvazione di una richiesta di finanziamento già trasmessa al Ministero della Giustizia. Si attende ora una risposta da Roma per capire se questa visione potrà tradursi in pratica. Arezzo. Il paradosso del carcere. Fanfani: “Bene San Benedetto ma i lavori devono ripartire” di Gaia Papi La Nazione, 3 luglio 2025 Il Garante regionale dei detenuti sulla casa circondariale di via Garibaldi: “Ha buone caratteristica ma è inaccettabile che ci siano celle fuori uso per le porte troppo piccole”. “Carceri troppo affollate, bisogna fermare i suicidi”. È l’allarme lanciato dal presidente Mattarella. Una ferma denuncia di cui abbiamo parlato con Giuseppe Fanfani, garante dei diritti dei detenuti della Toscana. Avvocato Fanfani, il presidente della Repubblica Mattarella ha lanciato un appello accorato sulla situazione carceraria. Condivide la sua preoccupazione? “Assolutamente sì. Il suo discorso ha acceso un faro dove da anni regna il buio. La realtà delle carceri italiane è drammatica e nota da decenni. È il risultato di un abbandono sistemico, che ha tradito completamente la riforma dell’ordinamento penitenziario. Oggi, quel fallimento si somma a una preoccupante mancanza di sensibilità generale verso il mondo detentivo”. Che valutazione dà del carcere di Arezzo? “San Benedetto è tra i migliori. È vero, mancano spazi, e una parte ristrutturata è ancora chiusa per problemi tecnici assurdi: hanno speso milioni e poi si sono accorti che le porte erano troppo strette. Da anni è tutto fermo. Ma il carcere è ben inserito nel tessuto urbano e questo facilita il reinserimento. Gli operatori conoscono i detenuti per nome, c’è un rapporto umano. È un modello da tutelare”. E la situazione dei lavori? Ci sono tempistiche di ripresa? “Assolutamente no. I lavori sono bloccati da anni. Non si sa se riprenderanno, né quando. Ho già detto che scriverò una lettera durissima al Ministero e alla Corte dei Conti. È inaccettabile sprecare denaro pubblico così. E il risultato è che i detenuti sono tutti ammassati in una sola ala, aumentando l’affollamento e il disagio”. Quali sono, concretamente, le criticità più gravi che sta riscontrando, in generale? “Il primo problema è il sovraffollamento. Le celle spesso non garantiscono nemmeno i 3 metri quadri a persona. Pensi a cinque detenuti stipati in una stanza di 15 metri quadri, senza condizionatore, con questo caldo. È un manicomio. A Sollicciano, struttura costruita con una forma parabolica che raccoglie il calore da mattina a sera, la situazione è insostenibile”. E oltre lo spazio fisico, quali altri limiti esistono nel sistema? “Manca un percorso serio di rieducazione e reinserimento. La Costituzione lo prevede, ma la realtà è ben diversa. Se chi esce dal carcere torna peggiore di come è entrato, allora il carcere ha fallito due volte: con la società e con la persona. Infine, manca l’umanità che significa rispetto, educazione, possibilità di studiare, di mantenere affetti. Anche l’affettività è un diritto: la Corte Costituzionale, con una sentenza del 2024, ne ha sancito l’obbligo. Non si parla solo di sesso, ma di contatto umano, famiglia, amicizia. La dignità della persona passa anche da lì”. Che succede in Toscana? Le carceri della regione come si collocano in questo contesto? “Ci sono strutture con forti criticità - Sollicciano, Prato, Pisa, Livorno - e altre più virtuose, come Gorgona e Pianosa, dove i percorsi lavorativi e il modello ‘aperto’ funzionano. I piccoli istituti, poi, sono i migliori: lì il detenuto ha un volto, un nome. I suicidi sono praticamente assenti, ed è un dato che parla da sé”. Qual è la responsabilità della politica in tutto questo? “Enorme. Manca il coraggio. Parlare di detenuti non porta voti, quindi molti preferiscono tacere o adottare politiche securitarie che piacciono all’elettorato. Ma è più facile dire ‘buttiamo via le chiavi’ che affrontare seriamente una riforma. La verità è che il carcere dovrebbe migliorare le persone, non peggiorarle”. In passato, ad Arezzo, ci sono state esperienze significative di inclusione… “Sì, a San Benedetto si è sempre cercato di costruire un ponte con la città. Collaborazioni con associazioni, attività culturali, formazione. È un carcere che funziona anche perché è vicino alla comunità, e questo fa la differenza. Un carcere isolato - come San Gimignano - ha molte più difficoltà nel creare percorsi di reinserimento”. Una riforma è possibile, o siamo condannati a convivere con questa realtà? “È possibile, ma serve volontà. Servono risorse, sì, ma anche un cambio di mentalità. Bisogna smettere di pensare che il carcere serva solo a punire. Serve a restituire alla società persone nuove. Se non ci crediamo, la colpa non è solo del sistema: è nostra”. Le utopie concrete di Alex Langer di Marinella Correggia Il Manifesto, 3 luglio 2025 30 anni fa, 3 luglio del 1995, il leader di grandi battaglie pacifiste e per la conversione ecologica del pianeta, deputato europeo dei Verdi, disse addio alla vita. Scriveva il giornalista malgascio Sennen Adriamirado nella biografia Il s’appelait Sankara, dedicata alla vita del presidente del Burkina Faso ucciso nel 1987 in un colpo di Stato e suo amico: “Lo pregavo di proteggersi, perché un eroe morto non serve a nulla. Ma mi sbagliavo, forse: un eroe morto serve da riferimento”. In circostanze del tutto diverse, ci si può chiedere se l’osservazione valga allo stesso modo per Alexander Langer che il 3 luglio 1995 decise di dire addio alla vita, a 49 anni, arrendendosi di fronte ai troppi pesi e alle sconfitte. Rimaneva così a metà del guado il percorso di questo promotore della conversione ecologica, attivista per la pace, costruttore di ponti, animatore delle primissime assemblee nazionali che diedero l’avvio alle Liste verdi e poi eurodeputato dei Verdi (eletto nel 1989 e rieletto nel 1994), giornalista, insegnante. Dalla cruciale conferenza ONU su ambiente e sviluppo (Rio 1992) aveva preso l’avvio anche la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici, ma questi ultimi erano ancora lontani dall’attenzione politica e popolare. E andava avanti da quattro anni la guerra dei Balcani, contro la quale Langer era diventato un simbolo europeo per il dialogo inter-etnico, mettendo alla prova quanto aveva imparato nel suo Sud Tirolo da giovanissimo: “Nella situazione sudtirolese è possibile cogliere una quantità di insegnamenti ed esperienze generalizzabili ben oltre il piccolo caso provinciale”, scriveva. Attinge a queste origini la sua azione infaticabile per la cultura e la pratica multietnica, indispensabili per la risoluzione del conflitto nell’ex Jugoslavia. Numerose missioni, incessanti esortazioni al dialogo, tentativi di costruire le condizioni per il ripristino della pace. Langer elogia e condivide il “pacifismo concreto”, non gridato, portato avanti nei Balcani da tanti gruppi in Italia. Pacifismo complicato, certo, “perché la vita è complicata e la pace non si ottiene per vie semplicistiche, né con il sostegno unilaterale alle parti ritenute buone e vittime, e neanche con l’idea che un massiccio intervento armato esterno possa essere risolutivo”. Elabora un decalogo per la convivenza inter-etnica: fra i capisaldi, il rispetto delle identità, la conoscenza, le appartenenze plurime, la messa al bando della violenza, i gruppi misti come pionieri. Insieme all’importanza degli obiettori sui vari fronti. Insiste che la pace e la vita insieme possono tornare, a condizione che si affermino voci non nazionaliste. “L’Europa ha fatto malissimo a favorire la disintegrazione della vecchia Jugoslavia”, incoraggiando la “formazione di Stati etnici” e un’ipotesi di cantonalizzazione della Bosnia Herzegovina. Per non parlare del “traffico delle armi, dell’embargo violato e del gravissimo errore politico di riconoscere nei signori della guerra le voci legittimate a parlare a nome dei loro popoli”. A tutti i paesi successori della ex Jugoslavia bisogna “aprire le porte dell’Europa, a condizione che scelgano la convivenza al posto dell’esclusivismo etnico”. Del resto, auspicava un Europarlamento come un forum permanente per costruire un’Europa “ecologica, pacifica, solidale, libertaria e fraterna”; fare del Vecchio continente un continente nuovo e aperto, senza barriere e nazionalismi. Sulle situazioni che all’epoca gli apparivano di pre-guerra, come il Kosovo, insisteva: “Nulla dovrebbe essere considerato troppo complicato o troppo costoso per non essere tentato, visto che in ogni caso un conflitto armato comporterebbe costi umani, politici, economici e materiali assai più alti”. Fine maggio 1995: di fronte al prolungato assedio a Sarajevo e all’indomani di una strage a Tuzla, il pacifista nonviolento Alex Langer chiede, suscitando sorpresa e critiche, un intervento deciso delle Nazioni unite: “Bisogna che l’Onu invii un cospicuo contingente supplementare (chiedendo, se del caso, l’aiuto della Nato e della Ueo) e assegni un nuovo e chiaro mandato ai caschi blu. Quello di ristabilire - con l’uso dei mezzi necessari - quel minimo di rispetto dell’ordine internazionale che consenta di cercare una soluzione politica”. A giugno con altri deputati consegna ai vertici europei l’appello “L’Europa muore o rinasce a Sarajevo”. Pochi giorni dopo si suicida. “Contro la guerra, cambia la vita” esortava Langer in uno scritto del 1991 (dopo l’impegno per prevenire i bombardamenti sull’Iraq). Dinanzi al fallimento della politica e dei negoziati, che sfocia nel conflitto a valle, sulle teste dei popoli, bisogna negare ogni consenso e sostegno alla violenza: “Se tutto uno stile di vita nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare ha bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli e con la natura, e contengono dunque spinte immanenti alla guerra, bisognerà allora intervenire a monte e mettere in questione la nostra partecipazione (anche individuale) a un ordine economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le guerre che lo sostengono”. Un ordine ingiusto ed ecologicamente insostenibile, al quale il politico oppone innumerevoli progetti, all’insegna delle “utopie concrete”. Come l’alleanza per il clima fra le città europee e i popoli indigeni, un programma apripista e concreti caro ad Alex Langer. Contro l’urgenza dei cambiamenti climatici, un circolo vizioso nel quale “aumentano i fattori di malattia del pianeta, gas serra e inquinamento atmosferico, e diminuiscono i fattori di salute, le foreste pluviali”, quest’alleanza operativa mette insieme la conversione ecologica nel Nord del mondo e il sostegno alla protezione delle foreste pluviali del Sud, verso il quale esiste una storica responsabilità anche ecologica, un grande debito. E Langer fu, con Jutta Steigerwald e altri, il principale promotore della “Campagna Nord-Sud: biosfera, sopravvivenza dei popoli, debito”, avviata nel 1988. La campagna nord-sud ha svolto un ruolo pioniere nel mettere insieme movimenti e associazioni che partivano da mondi diversi (ambiente, Ong, solidarietà, sindacato), mondi in precedenza quasi non comunicanti. Porta nelle istanze internazionali il concetto che “il vero debito da pagare è quello ecologico, non quello finanziario; sotto questo profilo il Sud è nostro creditore”. La campagna ha un ruolo di rilievo alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992, denunciando l’impatto politico, economico ed ecologico del meccanismo perverso del debito estero, in termini di impoverimento dei popoli e devastazione della biosfera. L’ecologia dunque non è certo un lusso dei ricchi, è una necessità dei poveri. Lentius, Profundius, Suavius (più lento, più profondo, più dolce), è forse il più pregnante dei messaggi di Langer. In contrapposizione all’antico motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), diventato la quintessenza della nostra civiltà e della competizione, egli sottolinea la necessità di radicare questa concezione alternativa e di far diventare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile. Va cercata in questa prospettiva una nuova idea di benessere: altrimenti “nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere osteggiato, eluso o semplicemente disatteso”. La Fondazione Alexander Langer ha un prezioso archivio online di scritti e interventi a opera di questo “viaggiatore leggero” al quale sono intitolati un premio internazionale, l’Ecoistituto del Veneto, parchi fluviali, vie, giardini, alberi. “Provate sempre a riparare il mondo”, ripeteva; avendo ben chiaro il senso del limite. La biografia di un militante che parla all’oggi di Angelo Ferracuti Il Manifesto, 3 luglio 2025 Così come aveva già fatto in “Grande Karma, Vite di Carlo Coccioli”, Alessandro Raveggi anche in “Continuate ciò che è giusto” (Bompiani, 2025) rivisita con originalità la forma della biografia narrativa, introducendo elementi d’invenzione che volutamente scansano la cronologia e l’aneddotica. Il libro indaga la storia politica ed esistenziale di una delle figure più eccentriche e affascinanti della nuova sinistra italiana, Alexander Langer, morto suicida a 49 anni a Firenze il 3 luglio del 1995, una figura oggi quasi completamente estinta, quella del militante politico novecentesco, che qui diventa una biografia collettiva e “d’ascesi materiale”. Guidato come molti attivisti della sua generazione da un motto illuminante di Teresa di Lisieux, come il pensiero ostinato di tutta la nuova sinistra italiana, piccola ma una volta lontana da un sentimento minoritario - “Tu non conti niente, ma devi agire come se tutto dipendesse da te” - di origini ebree, vissuto nella diaspora altoatesina, cattolico allievo di Don Lorenzo Milani, Ivan Illich, e militante di Lotta Continua, fu uno dei fondatori del partito dei Verdi, europarlamentare e figura della complessità. Raveggi come dicevo non si affida solo alle ricerche d’archivio e alle testimonianze come accade nelle biografie, che comunque compaiono nei corsivi memoriali (quelle dei suoi compagni di via di Goffredo Fofi, Enrico Deaglio, Adriano Sofri, tra gli altri) ma recupera le parole scritte dal personaggio uomo della sua narrazione, percorre la strada frontale del racconto interiore e dell’esplorazione, perché vuole “entrare nella sua vita”, ma anche “viverla quasi mineralmente”, creare un ponte tra quella memoria del passato e il presente per “fare ancora”, produrre senso, pensiero, trasformazione. Il suo intento principale è riportare Langer al presente, rendere la sua storia viva, intrecciando la vicenda umana dell’intellettuale non riconciliato alla sua, quella di una generazione segnata dai crolli: “Il crollo delle Torri gemelle nel settembre del 2001 e il crollo del corpo di Carlo Giuliani, nel luglio dello stesso anno, il crollo ideale delle pareti della scuola Diaz, quando bastò una manciata di mesi, di botte, di sangue per cancellare il sogno dei meravigliosi anni duemila”. E siccome Langer è una figura composita che “viaggia in molte forme” per riavvicinarsi alla sua vicenda esistenziale, va a cercarlo nei luoghi della vita, va al Pian dei giullari dove si è impiccato a un albero di albicocco, prende il treno che da Firenze lo portava in Alto Adige a Vipiteno, andare a Bolzano gli serve per ricongiungersi alla storia travagliata di quella terra di confine, scoprire così le radici di un mondo a parte, incontra sua moglie Valeria che “ritesse” insieme a lui la Firenze di Alex, un altro luogo cruciale della sua vita. Racconta gli anni vertiginosi dell’impegno e dell’esperienza dell’Isolotto, la pastorale di don Milani, che poi travasa nella lotta politica: “Lui non aveva che tempo per essere utile agli altri”, con queste parole lo ritrae la sua compagna. La figura di Langer dopo l’eclisse dell’intellettuale e la fine della politica ci appare invece più che mai come qualcosa che manca e che sarebbe estremamente preziosa per questi tempi inquieti, nel libro emergono il pensiero e l’azione di un uomo che anticipò alcuni temi fondamentali della contemporaneità, a cominciare dalla convivenza e il dialogo interetnico nella sua Bolzano, quelli dell’ambientalismo, della dialettica tra nord e sud del mondo, ma anche della pace e la nonviolenza. Già quarant’anni fa vide nella figura di Chico Mendez e nella lotta dei popoli indigeni dell’Amazzonia, come nella deforestazione, un caso emblematico dell’aggressione capitalistica alla foresta anche come fatto simbolico (è del 1988 un suo articolo su L’Espresso intitolato “Delitto nella foresta”). Quindi ben venga questo libro che ne indaga l’inafferrabile e complessa profondità e visione, quella di un uomo che, come ha scritto Adriano Sofri, “scriveva dovunque, in treno soprattutto, rubando il tempo al sonno, e sempre in ritardo, in fretta e furia, e con una destinazione urgente”. ALex, il “povero grande ragazzo”, cercava nella sua infaticabile militanza “un antidoto contro il narcisismo”, quindi quello che un altro rigoroso intellettuale d’impegno civile, Gianfranco Bettin, chiamava “metodo Langer” sarebbe una cura efficace per molti scrittori, intellettuali e politici di oggi per uscire dall’egotismo stucchevole dell’io e tornare nel campo aperto della lotta politica dentro il noi collettivo. Se una vita vale pochi centesimi di Marco Revelli La Stampa, 3 luglio 2025 Ricordate le immagini dell’uomo in bicicletta, piegato sotto una pioggia torrenziale, sulle spalle il cubo delle consegne a domicilio? Era il 29 agosto di due anni fa. A Genova. E credemmo, allora, che si fosse toccato il fondo nel trattamento inumano dei lavoratori della logistica. Il nostro Paolo Griseri propose anche, allora, una legge che vietasse il lavoro in condizioni estreme. Oggi apprendiamo che alla discesa in basso non c’è limite. Mentre le prime pagine dei giornali sono affollate di notizie sull’”emergenza caldo”; mentre si moltiplicano i casi di lavoratori crollati per effetto dell’afa insopportabile e le Regioni emettono ordinanze per far sospendere le attività all’aperto nei settori più esposti; mentre al ministero del Lavoro si sta per siglare un protocollo d’intesa con le Organizzazioni sindacali per affrontare il problema, veniamo a sapere che una delle più importanti piattaforme per la consegna di cibi a domicilio non solo non ha sospeso le attività nelle fasce orarie più rischiose, ma avrebbe escogitato addirittura un sistema di bonus volto a incentivare la propria manodopera a mantenere l’impegno nelle ore più calde. Le tabelle proposte - se confermate - sono francamente agghiaccianti: si va da un incentivo del 2%, all’incirca 5 centesimi, per temperature di 36 gradi; del 4%, ovvero 10 cent, se sale a 38; e dell’8% (20 cent) sopra i 40 gradi. Come dire che mettere a rischio la propria salute, e forse anche la propria vita, è valutato nell’ordine dei centesimi di euro. E d’altra parte i lavoratori in quel caso non sono neppure dipendenti, sono reclutati a chiamata sulla base di un algoritmo, sta a loro - così ragiona il management - decidere sul che fare di se stessi. Bene ha fatto il Nidil Cgil, il ramo dell’organizzazione sindacale che si occupa dei lavoratori “anomali”, a inviare una lettera all’azienda e agli stessi lavoratori, riaffermando l’elementare principio che in caso di ondate di calore particolarmente alto l’attività deve essere sospesa. E ribadendo che la salute viene prima dei bonus, e “nessun compenso può giustificare il lavoro in condizioni di rischio estremo”. Ma in questi settori il sindacato è particolarmente debole, il potere contrattuale dei lavoratori bassissimo, e dunque il meccanismo disumano che è stato architettato per spremerne le energie anche quando il resto del mondo per prudenza si ferma è difficile da contrastare o da rifiutare. Quando anche 5 centesimi sono considerati dal datore di lavoro un incentivo efficace per mettere in gioco salute ed esistenza, vuol dire che il mercato del lavoro si è talmente degradato da configurare uno stato a tutti gli effetti “servile”, sicuramente ormai al di fuori dalla modernità sociale. E quando dirigenti d’azienda giungono a concepire come proponibile un modello simile di relazione col lavoro, significa che la coscienza sociale del nostro tempo ha subito un collasso grave, non solo inescusabile ma forse anche irreparabile. Di fronte a questa situazione, ha ragione Chiara Saraceno che, sulle pagine di questo giornale, ha proposto una qualche mobilitazione dei consumatori, chiamati a rinunciare per ragioni di rispetto e di umanità, alle richieste di consegna nelle ore più calde. Ha ragione, ma rimane un senso profondo di amaro perché questa è davvero un’extrema ratio. Un surrogato rispetto a quelle che dovrebbero, in una società civile, essere le vie maestre per difendere il proprio livello di civiltà: un sano confronto sindacale tra parti con potere reciproco non sproporzionato. E in mancanza di questo un intervento dello Stato a difesa dei gradi minimi di tolleranza nello sfruttamento della manodopera. Il fatto che le “Legge Griseri” giaccia abbandonata sul fondo di qualche cassetto non invita a sperare. Fine vita, il ddl delle destre privatizza il suicidio assistito di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 luglio 2025 Adottato al Senato il testo base della maggioranza: tradisce la sentenza della Consulta. Vietato l’impiego di personale e dispositivi del Sistema sanitario nazionale. Tra la bozza presentata una settimana fa al Comitato ristretto e il testo base adottato ieri dalle commissioni Giustizia e Affari sociali del Senato, la differenza sta in una norma classista in più. A parte un paio di correzioni sui tempi di attesa del paziente e la scomparsa della premessa sulla “tutela della vita dal concepimento alla morte naturale”, il ddl sul fine vita che il forzista Zanettin e il meloniano Zullo hanno finalmente depositato non è affatto migliorato rispetto a quello impostato quando la maggioranza era ancora in ambasce con le “diverse sensibilità interne”. E tradisce perfino il suo stesso titolo, che recita: “Disposizione esecutive della sentenza della Corte costituzionale del 22 novembre 2019, n. 242”. La norma che conclude il quarto articolo del testo base, infatti, vieta tassativamente l’impiego di personale e dispositivi del Sistema sanitario nazionale, contrariamente a quanto prescritto dalla Consulta. In sostanza, secondo le destre di governo, possono accedere al suicidio medicalmente assistito solo coloro che possono pagare di tasca propria un medico, un infermiere, la strumentazione e il farmaco letale. Anche se sono ricoverati in un ospedale pubblico. Gli emendamenti al ddl dovranno arrivare alle commissioni entro martedì prossimo, giorno in cui la Consulta si pronuncerà di nuovo, questa volta su un caso di eutanasia per un paziente che non è in grado di assumere il farmaco letale in modo autonomo. L’approdo del ddl in Aula è previsto per il 17 luglio. Il provvedimento, come fa notare l’associazione Coscioni che lo definisce “un’aberrazione”, è stato partorito dal governo “dopo due mesi di trattative informali - sulla base di testi tenuti segreti - con la Cei, unico interlocutore finora scelto dalla maggioranza”. E spunta fuori nello stesso frangente in cui - “coincidenza o meno” - la premier “Meloni incontra Papa Leone XIV”. Dunque, stando al testo base assunto, il malato maggiorenne con prognosi infausta e irreversibile, con “sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili”, capace di intendere e volere, “tenuto in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali”, deve anche essere “inserito in un percorso di cure palliative” (requisito inesistente nella sentenza della Consulta) prima di poter fare richiesta di accesso al suicidio medicalmente assistito. A decidere sulla sua sorte sarà il “Comitato nazionale di valutazione” (dal testo è scomparso l’aggettivo “etica”) composto di sette specialisti nominati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri insieme al presidente, al suo vice e al segretario. Il Comitato resta in carica per 5 anni con due possibili mandati “anche non consecutivi”, e i suoi componenti - ma non i dirigenti - presteranno il loro “ufficio” a titolo gratuito. Avranno 60 giorni per rispondere alla richiesta del paziente, prorogabili di altri 30 giorni (prima erano 60). Ma i tempi, si legge anche nell’ultimo testo, possono essere ulteriormente prorogati “di pari termine, in caso di motivate esigenze”. Se dopo la lunga attesa il Comitato nazionale dovesse negare il nulla osta, il malato terminale può ripresentare richiesta “non prima di 180 giorni” (nella bozza erano 4 anni). E infine: “Il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci di cui dispone a qualsiasi titolo il Ssn non possono essere impiegati al fine della agevolazione del proposito di fine vita”. Il provvedimento invece prescrive alle Regioni l’obbligo di presentare un progetto di potenziamento delle cure palliative e della terapia del dolore. L’Agenzia nazionale per i servizi regionali (Agenas) dovrà monitorare questi progetti e riferire al governo che, in caso di “omessa presentazione del Piano”, entro 30 giorni potrà nominare un “commissario ad acta sino al raggiungimento dello standard” fissato a livello nazionale. Secondo il relatore Zanettin, il testo è il risultato di “un lavoro faticoso di mediazione” fondato sul precetto secondo cui “il sistema sanitario è preposto alla tutela della salute, non certo a dare la morte”. Un dettame pro-life che si impone di fatto, da anni, anche nel servizio di Interruzione volontaria di gravidanza. Eppure basta che il senatore Zullo (Fd’I) chieda “a tutti di fare un passettino indietro”, che contro di lui si leva l’anatema di Pro Vita \u0026 Famiglia. Al contrario, associazioni come la Fondazione scientifica Gimbe bocciano la proposta perché “di fatto svuota la sentenza della Consulta”. Tutta l’opposizione promette battaglia in Parlamento: per il Pd, il ddl “va riscritto perché privatizza la sofferenza” e secondo il dem Bazoli “rischia di essere peggio dello status quo”. Per il M5S è “un passo falso delle destre” e per Magi (+Europa) il testo è “offensivo e classista, meglio nessuna legge”. Anche la senatrice Ilaria Cucchi (Avs) ritiene la proposta “inaccettabile” e, dice, “allontana sempre di più la possibilità di arrivare ad un testo condiviso”. Fine vita, la destra limita l’accesso e taglia fuori il servizio sanitario nazionale di Simone Alliva Il Domani, 3 luglio 2025 Mentre Meloni incontra il Papa in Vaticano, il centrodestra adotta un testo che ignora il suicidio assistito. Nella chat di Pro Vita & Famiglia un appello poi rimosso: la battaglia sembra già vinta. Non si nomina neppure nel titolo. Il suicidio medicalmente assistito scompare nel testo dei relatori Pierantonio Zanettin (FI, per la commissione Giustizia) e Ignazio Zullo (FdI, per la Affari sociali). Al suo posto, un’espressione neutra: “Disposizioni esecutive della sentenza n. 242 del 2019”. Nella giornata in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni viene ricevuta in Vaticano da papa Leone XIV per la sua prima udienza ufficiale e a sei anni dalla sentenza della Corte costituzionale che ha chiesto al parlamento di legiferare sul tema del fine vita: la maggioranza adotta un testo base che rischia di restringere ancora il perimetro tracciato dalla Consulta. Dal diritto alla scriminante - Un testo che non apre a un diritto, si limita a una scriminante: come ha spiegato il senatore Zanettin “come ha detto la Corte, si scrimina chi in determinate situazioni, aiuta a suicidarsi”. Per l’opposizione si disegna un modello molto circoscritto e sottoposto a un controllo centrale e serrato, con forti limitazioni all’accesso, alla tempistica e soprattutto, separato dal Servizio sanitario nazionale. Il primo articolo sancisce che “il diritto alla vita è diritto fondamentale della persona in quanto presupposto di tutti i diritti riconosciuti dall’ordinamento. La Repubblica assicura la tutela della vita di ogni persona, senza distinzioni in relazione all’età o alle condizioni di salute o ad ogni altra condizione personale e sociale”. Scompare il riferimento alla tutela “dal concepimento alla morte naturale” presente nella prima bozza e contestato per la sua possibile valenza antiabortista dalla senatrice di Alleanza verdi e Sinistra Ilaria Cucchi: “Ma il testo resta un pasticcio”, dice. “Dopo mesi e mesi di audizioni, di confronti in Comitato ristretto, nulla è cambiato. Il testo non risponde affatto a quanto chiesto dalla Corte. Si vuole fare una legge per non applicarla”. Ancora l’articolo 1 stabilisce la nullità di atti civili e amministrativi contrari alla tutela della vita: un passaggio pensato per evitare la nascita di strutture private non regolamentate, le cosiddette “cliniche della morte”. Il secondo articolo introduce una modifica all’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio), prevedendo la non punibilità per chi agevola “l’esecuzione del proposito formatosi in modo libero, autonomo e consapevole” di un soggetto maggiorenne, purché affetto da “patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili” e capace di intendere e volere. Due i requisiti aggiuntivi: l’inserimento in cure palliative e il mantenimento in vita tramite trattamenti sostitutivi, una formula più restrittiva rispetto a quella indicata dalla Consulta che restringe la platea degli aventi diritto. Le cure palliative - L’articolo 3 introduce una riforma della legge sulle cure palliative. Le Regioni dovranno garantirne, entro il 2028, l’accesso. Le risorse non spese verranno restituite allo Stato e non potranno essere usate per altre finalità. È previsto un osservatorio presso Agenas: le Regioni dovranno presentare un piano, altrimenti il Governo potrà nominare un commissario. Scompare il riferimento al “comitato etico”, ma resta un comitato nazionale, composto da sette membri con profili medico-legali e nominati con decreto del presidente del Consiglio. Qui è il senatore Alfredo Bazoli (Pd) a criticare la modalità: “Come possono solo sette persone esaminare tutti i casi? Decidono solo sulla base della lettura delle carte senza neanche fare un colloquio con la persona che chiede l’aiuto al suicidio”. Il comitato avrà sessanta giorni per esprimersi, prorogabili di altri trenta. In caso di rifiuto, il paziente potrà ripresentare la richiesta solo dopo sei mesi (termine ridotto rispetto ai quattro anni della prima bozza), a condizione che nel frattempo siano sopraggiunti i requisiti richiesti. L’articolo 4 stabilisce che “il personale in servizio, le strumentazioni e i farmaci di cui dispone a qualsiasi titolo il sistema sanitario nazionale non possono essere impiegati” per agevolare il fine vita nei termini stabiliti dalla Consulta. “Chi è in ospedale potrà ricevere il trattamento lì - ha detto Zanettin - ma da parte di un medico che lo eroghi a titolo personale”. “Non è chiaro chi dovrà vigilare sull’applicazione di questa legge se si esclude il sistema sanitario pubblico”, dice Cucchi. E anche Bazoli solleva dubbi: “Chi sorveglia le modalità in cui al paziente vengono somministrati i medicinali per l’aiuto al suicidio, garantendo la dignità della persona, garantendo che non ci sia inutile sofferenza? Manca tutta la parte successiva: una volta che il comitato ha detto di sì, cosa deve fare questa persona?”. “Francamente, così, è poco digeribile” ha aggiunto il senatore dem che tuttavia lascia aperta una possibilità per il dialogo. Per Mariolina Castellone (M5s) il testo “presenta tante criticità”. La fase emendativa è aperta, il termine per presentare le richieste di modifiche è fissato per martedì 8 luglio alle ore 11. “Siamo pronti a portare a termine il nostro lavoro per la scadenza del 17 luglio”, ha spiegato Zullo, facendo riferimento alla data prevista per l’approdo del ddl al Senato. I senatori delle opposizioni che hanno già votato contro l’adozione del testo promettono battaglia. Sembrano soddisfatti, invece, dopo mesi di pressioni i gruppi anti-scelta. Alla vigilia della presentazione del testo, nella chat Pro Vita era comparso un appello: “Il 17 luglio approva in Senato il testo sul Fine Vita. E noi di Pro Vita & Famiglia siamo già in prima linea per dire NO alla #mortediStato”. Poi il messaggio è stato cancellato. Un silenzio che suona come un segnale: la mobilitazione non serve più, il testo ha già accolto le richieste della lobby. La pigrizia morale e la cittadinanza negata di Filippo Barbera Il Manifesto, 3 luglio 2025 Alla domanda se accorciare i tempi per chiedere la cittadinanza italiana, il 34,66% degli elettori (che pure sono rimasti sotto il quorum di validità) ha risposto di No. La “nostra gente” ha votato così, dobbiamo spiegare alla “nostra gente” che si tratta delle vite delle persone, è stato detto all’indomani del voto. Certo, “spiegare” va sempre bene. Del resto, la posta in gioco era stata abbondantemente spiegata. La legge attuale da abrogare non è neutrale: frena, penalizza, esclude, blocca. Cambiarla non significava fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto che crea “italiani a metà”. Perché non è stato sufficiente? Abbiamo messo da parte troppo presto il risultato del quinto quesito nel referendum di un mese fa. Alla domanda se accorciare i tempi per chiedere la cittadinanza italiana, il 34,66% degli elettori (che pure sono rimasti sotto il quorum di validità) ha risposto di No. Una percentuale tripla rispetto agli altri quesiti, tutti sul lavoro. Una stessa “popolazione” di votanti in sostanza ha scelto di dire No sulla cittadinanza e Sì sul lavoro. Le classi sociali più avvantaggiate hanno prevalentemente votato Sì, mentre i segmenti più vulnerabili ed economicamente svantaggiati hanno mostrato una maggiore contrarietà. Dal punto di vista territoriale, il Nord/Centro mostra maggiore favore al Sì anche sul quinto quesito (circa 64-66% Sì), mentre al Sud il No supera ampiamente il 35%. Un dato significativo viene dal voto degli italiani all’estero, dove sul quinto quesito il No ha toccato il 36-39% rispetto a circa il 14% sui primi quattro. Secondo l’analisi dell’istituto Cattaneo pubblicata all’indomani del referendum, tra il 15-20% degli elettori del Pd alle Europee 2024 ha votato No sul quesito cittadinanza. Anche molti elettori del M5S si sono mostrati contrari al quinto quesito, come in parte atteso. La “nostra gente” ha votato così, dobbiamo spiegare alla “nostra gente” che si tratta delle vite delle persone, è stato detto all’indomani del voto. Certo, “spiegare” va sempre bene. Del resto, la posta in gioco era stata abbondantemente spiegata. La legge attuale da abrogare non è neutrale: frena, penalizza, esclude, blocca. Cambiarla non significava fare un favore o elargire un privilegio, ma rimuovere un ostacolo inutile e ingiusto che crea “italiani a metà”. Perché non è stato sufficiente? Gli italiani sono un popolo affetto da “pigrizia morale”, sosteneva Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere. Un atteggiamento diffuso di passività etica e conformismo che porta ad accettare l’esistente così com’è. È, questo, l’atteggiamento di chi rinuncia all’elaborazione autonoma di un punto di vista, adattandosi a idee dominanti o semplicemente abituali senza interrogarsi sulle loro origini e implicazioni. Gramsci associava la pigrizia morale alla subalternità culturale delle classi subalterne, alla mancanza di una “rivoluzione intellettuale e morale” e alla funzione ideologica degli apparati dello Stato che mantengono l’ordine esistente attraverso il consenso passivo della società civile. Effettivamente, durante la campagna referendaria gli apparati di Stato si sono dati abbondantemente da fare, la voce della società civile è rimasta isolata e ha vinto l’inerzia della pigrizia morale. Del resto, sarebbe molto parziale e politicamente inutile attribuire la pigrizia morale a una sorta di sindrome culturale o alla generica “mancanza di valori”. La pigra disattenzione per i bisogni della popolazione di origine straniera, deriva piuttosto dalla penuria di occasioni di interazione quotidiana positiva tra italiani e stranieri. È l’assenza di relazioni sociali e la mancanza di scambi mutualmente vantaggiosi che lascia spazio alla pigrizia morale. Lo sostiene la cosiddetta “teoria del contatto”, quando afferma che l’interazione diretta tra membri di gruppi diversi può ridurre i pregiudizi a condizione che ciò avvenga in un contesto caratterizzato da sostanziale equivalenza di status tra i gruppi, presenza di obiettivi comuni da raggiungere insieme, possibilità di cooperazione reciproca e chiaro sostegno istituzionale. Ciò si traduce nell’idea che incontri regolari, strutturati e cooperativi tra autoctoni e persone migranti possano ridurre ostilità, stereotipi e discriminazioni. In Italia, invece, le persone migranti sono di fatto escluse dalla possibilità di accedere a posizioni occupazionali di ceto medio, vivono spesso in contesti spazialmente segregati e i ruoli sociali a loro disposizione sono ben lontani dalle condizioni necessarie per avviare contatti positivi con gli autoctoni. Si crea così una consuetudine collettiva nel considerare queste persone come “naturalmente” destinate a una cittadinanza di serie B. Per questo servirebbe combattere la segregazione residenziale, costruire scuole più inclusive, promuovere buona occupazione, attuare programmi che coinvolgano migranti e nativi in attività sociali condivise, costruire spazi pubblici e culturali per le persone-nei-luoghi. La concorrenza per risorse scarse, l’assenza di occasioni di interazione virtuosa, la segregazione occupazionale e insediativa e le barriere alla mobilità sociale spalancano la porta alla pigrizia morale e, per questo, “spiegare alla nostra gente” non è bastato prima e non sarà sufficiente ora. In fuga dalle guerre 122 milioni di persone. I rischi dei tagli agli aiuti umanitari di Marta Serafini Corriere della Sera, 3 luglio 2025 In aumento il numero degli sfollati a causa dei grandi conflitti mondiali e delle persecuzioni. Una situazione aggravata dalle nuove politiche e dalle instabilità. Nel mondo ci sono 122,1 milioni di persone costrette a scappare dalle proprie case per cercare sicurezza e protezione. Il numero, aggiornato ad aprile 2025, è in crescita rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando gli individui in fuga erano 120 milioni. La causa è da ricondurre ai grandi conflitti ancora in corso e alla “continua incapacità della politica di fermare i combattimenti”. Verrebbe da dire che non solo non li ferma ma li genera. E non riesce a gestirne gli effetti. I conflitti in Sudan, Myanmar e Ucraina continuano a essere i principali motori degli spostamenti, accentuati appunto dall’incapacità della politica di porre fine alle ostilità. L’Unhcr, nella sua nota diramata il 20 giugno in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, sottolinea che: “I continui tagli agli aiuti umanitari rischiano di provocare ulteriori movimenti forzati, anche verso l’Europa e l’Italia. Il numero di persone costrette a fuggire a causa di guerre, violenze e persecuzioni in tutto il mondo è insostenibilmente alto, soprattutto a causa dell’evaporazione dei finanziamenti umanitari”. Mentre il numero di sfollati è quasi raddoppiato nell’ultimo decennio, i fondi per l’assistenza umanitaria sono rimasti stagnanti ai livelli del 2015, aggravando la vulnerabilità di rifugiati e sfollati, e mettendo a rischio la protezione di donne, l’istruzione dei bambini e l’accesso a beni primari. Nonostante le sfide, il 2024 ha visto un ritorno a casa per 9,8 milioni di persone, di cui 1,6 milioni rifugiati (il dato più alto in oltre vent’anni) e 8,2 milioni sfollati interni. Tuttavia, molti di questi ritorni sono avvenuti in contesti di instabilità politica o di sicurezza, come nel caso degli afghani costretti a rientrare in condizioni disperate. Mine antiuomo, la guerra che non finisce mai di Maria Serena Natale Corriere della Sera, 3 luglio 2025 Dopo Finlandia, Polonia e le Repubbliche baltiche di Estonia, Lettonia e Lituania anche l’Ucraina invasa, ormai tra i Paesi più minati al mondo, ha deciso di lasciare la Convenzione di Ottawa che vieta di produrre, usare e vendere mine antiuomo: degli Stati europei confinanti con la Russia neoimperialista resta dentro solo la Norvegia. Per Kiev è sopravvivenza. Per tutti una sconfitta, poiché le bombe addormentate delle guerre di ieri e quelle più sofisticate di oggi fanno un solo vile lavoro, rilasciano a distanza di tempo il loro carico di morte imprigionando il futuro, sono il veleno sparso dall’odio che non vuole estinguersi tra raccolti di grano avvizziti e terre che non smettono di tremare. Dal Donbass al Medio Oriente colpiscono i civili e si accaniscono sui più indifesi: in Siria, dalla caduta di Assad, tra le vittime di mine e ordigni inesplosi una su tre è un bambino. Il Trattato di Ottawa conta circa 160 nazioni aderenti, mai entrate potenze produttrici come Russia, Usa e Cina. Fu aperto alla firma dopo una lunga azione internazionale nel 1997. Quell’anno alla Casa Bianca c’era Bill Clinton e a Downing Street arrivava Tony Blair. A gennaio le telecamere avevano seguito Lady Diana tra i campi minati dell’Angola. Il mondo pareva avviato a un’estensione progressiva di benessere, diritti e pace. L’impegno contro le mine rientrava nel movimento di disarmo che già nel 1987 aveva visto la storica firma Gorbaciov-Reagan al Trattato sulle forze nucleari a medio raggio e che dopo la Guerra fredda avrebbe portato ai fondamentali accordi Start sulle armi strategiche. Un’architettura costruita in decenni entusiasmanti ma frutto di secoli, che rischia di franare in una generazione. Il ritorno all’ammissibilità delle mine è un pezzo di strada che crolla. Sulla stessa parola s’infrange ogni copertura ideologica: anti-uomo. Violano la vita che s’ostina, minano la pace e la speranza che, un giorno, la guerra finisca.