“Liberazione anticipata speciale, contro sovraffollamento e suicidi” di Giuliana Covella Il Mattino, 31 luglio 2025 Per ridurre il sovraffollamento nelle carceri serve una liberazione anticipata speciale: è quanto emerso dalla mobilitazione nazionale che si è svolta questa mattina davanti all’ingresso del Tribunale di Napoli in piazzale Cenni di fronte al carcere di Poggioreale. Il presidio è stato organizzato dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e dal garante comunale don Tonino Palmese, insieme alla Pastorale carceraria della Diocesi, la Camera Penale di Napoli, il Movimento Forense e l’Ordine degli avvocati di Napoli Nord. Tra i presenti il presidente del Consiglio regionale Gennaro Oliviero, padre Alex Zanotelli, il consigliere regionale Pasquale Di Fenza, associazioni, familiari dei detenuti. Una protesta silenziosa indetta dalla Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, a un mese esatto dall’appello del presidente della Repubblica, per sensibilizzare l’opinione pubblica e sollecitare la politica nel suo complesso, esortando il Governo a mettere in campo soluzioni immediate e concrete alle parole dure, inequivocabili del capo dello Stato che lo scorso 30 giugno, rivolgendosi al dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva detto: “Il sovraffollamento e i suicidi sono un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente. Le carceri sono sovraffollate anche per l’insufficiente ricorso all’applicazione di pene alternative e dell’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva”. “La speranza - o l’ambizione - è che una visione costituzionale e umanizzante della pena non si areni prima di diventare norma, decreto o provvedimento nuovo di liberazione anticipata - ha sottolineato Ciambriello - Il carcere è un luogo senza tempo, dignità, spazi, umanità e tante ingiustizie per i detenuti e i detenenti. Perché si toglie spesso, anche nel parlarne, la speranza che è un dettato costituzionale? Sono preoccupato perché un minimo sindacale per i detenuti da tempo non è stato fatto. E allora il carcere è una discarica sociale? Penso che il carcere, nel suo insieme, se non avrà risposte, entro breve tempo rischierà di diventare una bomba a orologeria”. A sottolineare l’emergenza carcere sono ancora una volta i numeri: i detenuti presenti in Italia sono 62.723 mentre i posti disponibili sono 46.706. In Campania sono 7.571 a fronte di 5.497 posti e a Poggioreale 2.066 detenuti su una capienza di 1.300. “Tale criticità è dovuta anche all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento e, in alcuni casi, di intere sezioni detentive”. Altro dato significativo: in Italia i detenuti presenti con una pena inflitta e residua da 0-1 anni sono 9.261 (in Campania 904). “Chiediamo al Governo un provvedimento deflattivo come fece il Governo Berlusconi nel 2003 e nel 2010 e la liberazione anticipata speciale, ossia invece di dare ai detenuti 45 giorni ogni sei mesi portarli a 75 giorni”. Un’altra criticità riguarda inoltre la mancanza di agenti di polizia penitenziaria, medici, pedagogisti, educatori. A rimarcare la necessità di “un provvedimento urgente per ridurre la popolazione carceraria” è stato Oliviero, che ha aggiunto: “Pensiamo alle misure alternative al carcere, ad esempio. Inoltre da Papa Francesco abbiamo ricevuto un insegnamento: lui ha donato tutta la sua eredità ai detenuti, ma anche il grido di Gianni Alemanno ci redarguisce: noi da qui dobbiamo ripartire. Come Regione in accordo con il ministero della giustizia, nelle sue diverse articolazioni, con gli enti locali e con i soggetti interessati, promuoviamo iniziative a favore della popolazione adulta detenuta, internata e priva di libertà personale, tenendo conto della ripartizione delle competenze tra sanità, formazione e politiche sociali. Grazie ad accordi con altri enti sono possibili, ad esempio, esperienze lavorative esterne al carcere, ma dobbiamo concentrarci sulle misure alternative. Continueremo a farlo anche nella prossima legislatura”, ha concluso il presidente del Consiglio regionale. Da Palermo a Trento, la protesta contro le carceri sovraffollate di Michele Gambirasi Il Manifesto, 31 luglio 2025 La mobilitazione dei Garanti territoriali dei detenuti, c’è la richiesta di un provvedimento di clemenza. Samuele Ciambriello, presidente della Conferenza e Garante della Campania: “A Poggioreale abbiamo incontrato una sola psichiatra. Mancano medici, pedagogisti, educatori. Ci sono, invece, il sovraffollamento e i morti”. Si è tenuta ieri la protesta indetta dalla Conferenza nazionale dei garanti territoriali dei detenuti in tutta Italia, per le condizioni detentive nelle carceri italiane, sempre più critiche per il sovraffollamento, che ha toccato quota 134%, e che in estate tendono a peggiorare a causa del caldo e della minore affluenza di volontari, personale e visite. “Chiediamo al governo due cose: un provvedimento deflattivo così come ha fatto Berlusconi nel 2003 e nel 2010 e una cosa concreta: la liberazione anticipata speciale. Invece di dargli 45 giorni ogni sei mesi, portarli a 75 giorni. L’abbiamo fatto durante il Covid, l’abbiamo fatto in Italia quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha sanzionati” ha detto il portavoce della Conferenza e Garante dei detenuti della regione Campania Samuele Ciambriello, intervenendo davanti al Palazzo di giustizia di Napoli. “Qui a Poggioreale oggi abbiamo incontrato una sola psichiatra. Mancano medici, pedagogisti, educatori. Ci sono i morti, il sovraffollamento e, soprattutto in questo periodo, la mancanza di dignità” ha proseguito. I numeri sono quelli raccontati da Antigone nel suo rapporto di metà anno: oltre 62mila detenuti a fronte di poco più di 45mila posti. A Potenza la garante provinciale Carmen D’Anzi ha denunciato un sovraffollamento del 150% nell’istituto, mentre nel minorile a mancare sono soprattutto gli operatori: in servizio ci sono 25 agenti a fronte dei 32 previsti. A Palermo si sono riuniti i garanti di Messina e Siracusa, oltre a quello del capoluogo di regione. “Nel carcere di Brucoli ci sono stati per 5 giorni problemi di carenza di luce e acqua” ha detto la garante di Messina Lucia Risicato, denunciando le “condizioni drammatiche”. Visite e proteste ci sono state anche a Benevento e Trento. Qui Giovanni Pavarini ha trovato il 57% dei detenuti in più dei posti disponibili: “Se oltre a incrementare le pene, aumento i reati, non creo valvole di sfogo; creo la premessa perché ci sia più gente che entra rispetto a quella che esce. È matematico che si aumenterà il numero dei detenuti. Senza contare il fatto che anche se domani facessi 100mila posti in più, nel giro di qualche mese quei posti si riempirebbero, perché la legge universale dice che più posti ci sono in carcere, più il carcere è affollato” ha detto uscendo dalla casa circondariale, dove si sono verificati 5 tentati suicidi e 12 atti di autolesionismo. “È stato annunciato un nuovo decreto, che però è uguale a quello di un anno fa, parla di nuovi posti, misure per i detenuti con dipendenze e aumento delle telefonate. Ma mancano gli operatori, quello che serve è un provvedimento di clemenza” spiega al manifesto Valentina Calderone, garante di Roma. Martedì pomeriggio, alla vigilia della mobilitazione, nel penitenziario di Parma si è tolto la vita un uomo di 53 anni impiccandosi con l’elastico delle proprie mutande mentre era recluso in isolamento dallo scorso 2 maggio. Stando ai dati di Antigone è il quarantaseiesimo suicidio dall’inizio del 2025. Carceri sovraffollate e sanità assente: la denuncia e le proposte del Movimento forense di Elisa Demma e Alessandro Gargiulo Il Dubbio, 31 luglio 2025 Il sovraffollamento delle strutture penitenziarie in alcuni casi supera o si avvicina al 200%; a Melfi ad esempio ci sono circa 100 detenuti per poco più di 60 posti effettivamente disponibili, stesso discorso a Campobasso, per non parlare dei grandi penitenziari (Poggioreale, San Vittore, Le Vallette, Regina Coeli, Rebibbia) dove serve ricorrere alle centinaia e alle migliaia per descrivere il fenomeno. Il Movimento Forense alcuni anni fa ha inteso dotarsi di un Dipartimento Carceri il quale grazie alla generosità e alla sensibilità dei suoi componenti, per lo più civilisti, è riuscito ad effettuare una serie di visite nelle carceri italiane; in particolare l’attività si è sviluppata a Torino, Milano, Rovigo, Venezia, Roma, Campobasso, Napoli, Avellino, Benevento, Aversa, Ariano Irpino, Arienzo, Santa Maria Capua Vetere, Melfi, Catanzaro, Crotone, Reggio Calabria, Termini Imerese e Castelvetrano. Queste visite, spesso eseguite unitamente ai Garanti, ai Consigli dell’Ordine, a Nessuno tocchi Caino ed alle Camere Penali, hanno comprovato il fallimento del sistema penitenziario italiano che aggrava per miliardi di euro il bilancio della Stato. In seguito alle nostre rilevazioni sono vari gli aspetti allarmanti che abbiamo avuto modo di riscontrare. Il Servizio Sanitario Nazionale (di competenza regionale) all’interno delle carceri italiane è in estrema difficoltà e non riesce a dare quelle risposte che una popolazione in custodia meriterebbe (poco più di 62.000 detenuti a fronte di circa 45.000 posti effettivamente disponibili e regolamentari), mantenendosi pur sempre in un perimetro minimo sindacale di rispetto dei diritti umani e costituzionali. D’altronde la mancanza endemica di medici, infermieri e operatori socio sanitari si aggrava ulteriormente nei penitenziari ove, a parità di retribuzione, quei professionisti preferiscono, giustamente, non andare a lavorare. Il discorso si aggrava oltremodo quando, rimanendo in ambito medico, si cerca all’interno di un carcere l’ausilio di uno psichiatra, in tal caso la chimera rende l’idea; il disagio e le gravi patologie psichiatriche in carcere si curano ovvero si sedano, per lo più, con una smodata prescrizione di psicofarmaci che, paragonata al normale consumo dei liberi (5- 6 volte superiore), palesa una situazione ormai fuori controllo. Se poi al disagio e alla patologia psichiatrica uniamo le tossicodipendenze - solo a Poggioreale oltre 600 tossicodipendenti su circa 2100 detenuti - la strada appare senza ritorno. Restano poi da considerare le visite specialistiche che il detenuto prenota per il tramite del Cup regionale; in tal caso, ferme le ordinarie lungaggini, una volta avvicinatasi la data dell’appuntamento si manifesta l’ulteriore problema del c. d. “traduzione e piantonamento” a mezzo del relativo Nucleo di Polizia Penitenziaria; ogni giorno centinaia di visite specialistiche saltano per l’impossibilità del Nucleo competente di effettuare la traduzione e il piantonamento del detenuto paziente. Dalla Sanità alla Polizia Penitenziaria che vede il suo organico ridotto all’osso fino a rendere la vita lavorativa dell’agente in servizio un vero inferno, tant’è che anche in quei ranghi ogni anno si registrano suicidi; gli agenti in servizio effettivo nelle carceri italiane sono così pochi che, ad esempio, non riescono a fruire delle loro ferie, sommando, ognuno di loro, ogni anno, decine di giorni di ferie non godute; sono così pochi che nel turno di notte, in servizio nelle carceri, ognuno di loro risponde per centinaia di detenuti; non sono eroi, sono persone alle dipendenze dello Stato che lavorano troppo spesso in condizioni disumane e questo è l’altro triste lato della medaglia del sistema penitenziario italiano. Cosa resta di questo fallimento? e soprattutto quali soluzioni possono offrirsi per porre rimedio ad una condizione umana - come visto non solo quella dei detenuti - che ogni giorno nelle carceri italiane viene mortificata? Innanzi tutto restano le donne e gli uomini che quotidianamente prestano servizio in carcere, i direttori, il personale amministrativo, quello delle aree educative, quello sanitario, la Polizia Penitenziaria, gli insegnanti, i poli universitari, i volontari; un meraviglioso insieme di persone di buona volontà che meriterebbero, loro prima ancora dei detenuti, insieme ai detenuti, una soluzione dettata dall’urgenza e qui il pensiero va alla proposta di legge Giachetti e all’apertura mostrata sul punto dal Presidente del Senato Ignazio La Russa. Dopodiché, risolta l’emergenza, occorre pensare a qualcosa di diverso dal carcere, dove la pena alternativa, la riparazione, possano essere una strada di apertura delle carceri; prima ancora va ripensato il rapporto con determinate aree sociali di degrado, di abbandono, di indifferenza; in quei luoghi, con persone meno fortunate, la scuola, il lavoro, lo sviluppo, il commercio, i trasporti pubblici, in prospettiva possono cambiare modi di vivere e di pensare e, nel lungo periodo, portare alla chiusura dei penitenziari per mancanza di detenuti: non si tratta di una stupida fantasia, bensì di una visione che prende spunto da paesi europei che, partendo da lontano, hanno svuotato le loro carceri. Quell’ultimo saluto negato in un carcere senza umanità di Gianni Alemanno e Fabio Falbo* Il Dubbio, 31 luglio 2025 Familiari in fin di vita, “permessi di necessità” negati troppo spesso e diritti calpestati. Permessi di necessita ignorati, scorte assenti, silenzi istituzionali, la dignità delle persone detenute e delle famiglie sacrificata sull’altare della burocrazia. Nel carcere della Capitale, dove la giustizia dovrebbe essere più attenta e garantista, si consuma una delle più gravi ferite del sistema penitenziario italiano: la negazione sistematica dei permessi di necessità per gravi motivi familiari alle persone detenute, anche quando si tratta di dare l’ultimo saluto a un familiare in fin di vita. Che cosa sono i “permessi di necessità”? Sono quei permessi che possono essere richiesti dalle persone detenute quando un parente stretto è in pericolo di vita, per un incidente o una grave malattia. La Cassazione ha sancito che questi permessi possono essere richiesti anche per “eventi lieti”, matrimoni e altre celebrazioni, ma il Tribunale di sorveglianza di Roma non prende neppure in considerazione questa eventualità. Secondo i dati raccolti da fonti ufficiali e da osservatori indipendenti, nel biennio 2024- 2025 sono stati presentate istanze per oltre 2.300 permessi di necessità da parte di persone detenute in Italia. Di queste, circa il 38% è stato rigettato, spesso con motivazioni generiche come “non in pericolo di vita”, anche se subito dopo il familiare moriva. Ancora più grave è il dato sulle mancate esecuzioni: oltre 400 permessi regolarmente concessi non sono stati eseguiti per mancanza di scorte o problemi organizzativi. In particolare, nel Lazio il 22% dei permessi autorizzati non ha avuto seguito per indisponibilità logistica, nonostante la Magistratura di Sorveglianza sia a conoscenza di queste criticità. Un permesso di necessità per gravi motivi familiari rappresenta il rispetto di un diritto, oltre che il riconoscimento della delicatezza e dell’urgenza di una condizione umana. Nonostante ciò, questo diritto rimane troppo spesso negato, oppure viene riconosciuto con incomprensibile ritardo, con il risultato che la persona detenuta arriva a salutare il’ suo congiunto quando ormai è troppo tardi ed è passato a miglior vita. Per spiegare concretamente la situazione vi raccontiamo due casi emblematici, vergognosi per uno Stato che si definisce di diritto. Il primo caso riguarda la richiesta di un permesso di necessità inviato in data 07- 07 - 2025 dalla persona detenuta Fabio Notarangelo per una grave malattia della madre. Il magistrato di sorveglianza dottor Andrea Pastori concede il dovuto e lo rende esecutivo in data 11 - 07 - 2025, ma per problemi di mancanza di scorte la Direzione di Rebibbia ha dato esecuzione al permesso solo quando la madre era defunta da giorni e si poteva solo salutarla al funerale. Ma non è tutto: Fabio aveva maturato tutti i requisiti per accedere alla detenzione presso il domicilio già lo scorso anno, ma ancora oggi non ha ottenuto nessuna risposta dal magistrato di Sorveglianza. Perché accenniamo anche a questa mancata risposta? Perché il papà di Fabio è un 95 enne che, ormai da settimane, non ha più una moglie che lo accudisca e vive in gravissime difficoltà. Suo figlio poteva vivere da un anno con entrambi i genitori, rimanendo vicino alla madre nel suo ultimo periodo di vita ed essere pronto ora ad accudire il padre quando questo è rimasto solo. La cosa incredibile è che Fabio terminerà la sua pena a settembre prossimo e quindi questi diritti gli sono stati negati proprio nella fase terminale della sua espiazione, che secondo l’Ordinamento penitenziari o (e il buon senso) è quella che deve accompagnare gradualmente la persona detenuta verso la liberti Il secondo caso, tra i tanti simili, riguarda la persona detenuta Salvatore Centro che ha fatto istanza per la concessione di un permesso di necessità per visitare la madre Maddalena Di Luggo in pericolo di vita. Ebbene il magistrato di Sorveglianza, la dottoressa Marilena Panariello, in data 19 - 05 - 2025 rigettava questa istanza con questa allucinante motivazione: “ rilevato che dalla documentazione medica depositata dal difensore (...) emerge che a Di Luggo Maddalena, affetta da carcinoma vescicale (e non osseo, come invece dedotto dall’istante) e portatrice di protesi valvolare aortica (...) sono state erogate prestazioni infermieristiche domiciliari (...) nei giorni dal 7 al 15 maggio (...) non sussistono i presupposti richiesti dalla norma invocata, che stabilisce che il detto permesso può essere concesso in caso di imminente pericolo di vita di familiari o eccezionalmente solo in caso di eventi familiari di particolare gravità, situazioni che non ricorrono alla luce della documentazione in atti”. Insomma veniva negato il permesso nonostante un quadro clinico devastante - come si rileva dalle stesse motivazioni del rigetto - che presentava la madre della persona detenuta come in evidente pericolo di vita. Morale di questa dolorosa circostanza dopo il rigetto? Il giorno 22 - 05 - 2025 la mamma di Salvatore Centro muore. A questo punto, un altro magistrato di Sorveglianza, la dottoressa Natalia Carrozzo, in data 23 - 05 - 2025 concede un permesso di 3 ore, al netto del viaggio, per partecipar e, con scorta, ai funerali o per visitare il cimitero. Da allora, Salvatore sta ancora aspettando non solo che questo permesso venga eseguito, ma che qualcuno gli spieghi le motivazioni di tutto questo ritardo. Il carcere, in questi casi, non punisce solo il corpo, ma anche il cuore. Il diritto alla compassione, alla presenza, all’ultimo abbraccio viene negato da una burocrazia che si fa cieca e da un sistema che dimentica la sua funzione umana e i suoi obblighi costituzionali. *Detenuti nel carcere di Roma Rebibbia “La magistratura deve restare unica: così si rischia di creare un super pm” di Simona Musco Il Dubbio, 31 luglio 2025 Intervista al procuratore di Perugia Raffaele Cantone, contrario alla separazione delle carriere: “Sono d’accordo con il procuratore Melillo, c’è la volontà, esplicita o meno, di indebolire la magistratura ordinaria”. La separazione delle carriere renderà il pubblico ministero troppo autonomo e autoreferenziale, creando uno squilibrio che potrebbe richiedere un controllo esterno, con tutte le implicazioni che ne derivano per l’indipendenza della magistratura. Parola di Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, secondo cui “una magistratura divisa rischia di spingere il pubblico ministero verso il ruolo dell’avvocato della polizia, compromettendo elementi fondamentali della nostra tradizione giuridica”. La separazione delle carriere è ormai alle porte. È preoccupato? Sono preoccupato perché la riforma non migliora la giurisdizione, già problematica, e rischia di cambiare profondamente il suo assetto. Se l’obiettivo è la parità delle parti, il vero rischio è che il pubblico ministero venga assolutamente stravolto. In che modo? Per l’eterogenesi dei fini, diventerebbe un organo sempre più autoreferenziale. Un pm con un Csm autonomo è più potente e quindi richiede, in futuro, un contrappeso che può venire solo dal controllo del governo. Il pm già adesso ha un potere molto forte, potendo incidere, tra le altre cose, sulla libertà delle persone. Com’è possibile che il suo dna cambi in modo così repentino, tanto da trasformarlo in un super poliziotto? Quando il pubblico ministero fa parte di un Consiglio superiore con giudici, adotta un approccio più aperto al confronto. La tabellarizzazione degli uffici di procura, pur complessa, ha favorito il dialogo tra culture giuridiche diverse. Oggi il potere del pm è bilanciato dal confronto nel Csm unico, che funge da equilibrio. L’abolizione di questo Csm unico è la cosa che più preoccupa: avrebbe potuto essere mantenuto, rispettando l’unità della magistratura, prevista dalla Carta anche nella versione post riforma. Invece, si crea una vera e propria separazione tra magistrature, spingendo il pm verso un ruolo simile all’avvocato della polizia, come negli Usa, dove però il pm è elettivo e non obbligato all’azione penale. Questo rischia di compromettere la nostra tradizione giuridica e preoccupa molto. Nel testo della riforma viene però ribadito che la magistratura rimarrà un potere indipendente. Non ci crede? Credo nella buona fede di chi sostiene la riforma, ma una volta in vigore, l’autonomia del pubblico ministero rispetto ai giudici renderà necessario un meccanismo di gerarchia. Oggi gli uffici giudiziari sono molto autonomi, ma questo è bilanciato dall’unità della magistratura. Se questo equilibrio si rompe, la gerarchizzazione rischia di diventare una direzione politica. Un pubblico ministero troppo autonomo e autoreferenziale sarebbe un’anomalia difficile da sostenere. Lei però, in tempi non sospetti, aveva fatto una critica molto dura alle correnti che si erano trasformate da strumento di elaborazione delle posizioni culturali in un trampolino per le carriere dei magistrati. Secondo lei è ancora così? Quella di cui avevo parlato è la degenerazione delle correnti, che rischiano di trasformarsi in altro. Ma se ho una ferita, non amputo la mano: intervengo sulla ferita. La magistratura, pur senza aver compiuto tutta l’autocritica necessaria, ha preso atto di molte cose, e ciò che è emerso lo si deve anche al suo stesso lavoro, non a quello di altri poteri. Credo abbia una capacità di autorigenerarsi maggiore di quanto si pensi, possiede anticorpi e strumenti per reagire alle derive. Mi preoccupa chi sostiene che nulla sia cambiato o che non ci sia nulla da fare. Non lo condivido e mi auguro che certi episodi non si ripetano. Sulla vicenda Palamara c’è chi dice però che a far venir fuori lo scandalo è stata quella parte di magistratura che voleva ribaltare gli equilibri di potere all’interno del Csm, al netto delle indagini che da lì sono poi scaturite… Della vicenda specifica non posso parlare, ma le affermazioni fatte, anche da figure autorevoli, restano prive di prove. Nessuno ha dimostrato né che si volesse insabbiare nulla, né che si sarebbe andati fino in fondo: sono solo illazioni, mai supportate da fatti, nemmeno da chi avrebbe il potere di accertarli. Il consigliere Andrea Mirenda, sul Dubbio, ha difeso l’idea del sorteggio, che potrebbe liberare il togato dal “vincolo di mandato” della corrente di appartenenza, rendendolo rappresentativo dell’intera magistratura. Come risponde? Prima di tutto, esprimo simpatia per lui e apprezzo la presenza di voci dissonanti nel Csm. Ma proprio la sua elezione dimostra che non serve il sorteggio per rompere i vincoli di corrente: se c’è stato un Mirenda, vuol dire che può esserci ancora. Però si tratta dell’unico componente sorteggiato... Il sorteggio ha permesso ad Andrea Mirenda di candidarsi, ma poi è stato comunque scelto dai magistrati che lo hanno votato. E va riconosciuto che sta dimostrando capacità politiche, in senso positivo. Condivido le sue osservazioni sul fatto che il Csm non debba essere un organo di indirizzo politico, ma chi vi partecipa deve avere competenze specifiche. Personalmente, non mi sentirei adatto a svolgere questo ruolo e credo che il sorteggio non possa rappresentare adeguatamente tutti i magistrati. La componente territoriale, legata all’elezione, arricchisce il sistema: consente di conoscere persone, vicende e dinamiche degli uffici, un patrimonio di conoscenze prezioso per le funzioni amministrative del Csm. Col sorteggio, rischieremmo di perdere tutto questo. È un modo per garantire l’indipendenza, ma di nuovo sarebbe come amputare l’intera mano per un’infezione. Inoltre, perché questo meccanismo dovrebbe valere solo per la magistratura ordinaria? Oggi ci sono più magistrature rispetto all’epoca della Costituzione e la più potente non è quella ordinaria. La riforma riguarda solo questa, mentre si ignorano realtà come la magistratura tributaria - che sarà molto influente - e quella amministrativa, che decide anche sulle carriere degli altri magistrati. Eppure, nessuno sembra porsi il problema. Sono d’accordo con il procuratore Melillo: c’è la volontà, esplicita o meno, di indebolire la magistratura ordinaria. Se si fosse prevista solo la separazione delle carriere, mantenendo un Csm unico, probabilmente le polemiche sarebbero state minori. Se questa non è la cura, in che modo ridare alla magistratura la credibilità che è andata scemando non solo col caso Palamara, ma anche con altri episodi? Le soluzioni dipendono anche dalla capacità del Parlamento di affrontare seriamente il tema dell’efficienza. La politica dovrebbe mettere i magistrati nelle condizioni di rispondere ai cittadini e poi valutarne i risultati. Oggi molti uffici sono privi di cancellieri e i concorsi non vengono più banditi. Rispetto al passato, i meccanismi di accountability - grazie anche al controllo della stampa e dell’opinione pubblica - sono molto più incisivi. Un’opinione pubblica informata può contribuire a valutare se la magistratura è all’altezza del proprio compito. È poi paradossale accusare la magistratura di essere un problema, mentre si aumentano i reati e si delegano sempre più funzioni di ordine pubblico proprio ai magistrati. Del resto la magistratura è parte dello Stato, screditarla significa l’immagine dello Stato. Spesso le toghe vengono accusate di essere politicizzate e di strabordare nelle dichiarazioni pubbliche. Crede ci sia stato un superamento del limite nelle esternazioni dei suoi colleghi? Dobbiamo chiarire qual è il limite. Sono d’accordo sulla necessità di regole e di un self-restraint per stabilire fin dove un magistrato possa esprimersi. Ma possiamo davvero tornare all’idea, ormai superata, del magistrato che parla solo con le sentenze? Se Falcone e Borsellino non avessero iniziato a parlare pubblicamente di mafia, anche nelle scuole - nonostante le critiche, soprattutto da altri magistrati - avremmo avuto gli stessi risultati nella lotta alla criminalità organizzata? È giusto che un magistrato resti in silenzio su temi che lo riguardano? In una democrazia deve esserci spazio per un dissenso ragionevole, non violento e argomentato, anche verso chi esercita legittimamente un potere, come un ministro. Dissentire non è vilipendio. Anzi, in democrazia è più preoccupante l’assenza di critiche che la loro esistenza. Quanto alla politicizzazione, è un’accusa strumentale. Fino a poco fa si diceva che la procura di Milano fosse “rossa”, ma ora che indaga una giunta di sinistra, non lo è più. L’idea che la magistratura sia un’appendice della sinistra non ha fondamento: è solo un comodo pretesto per evitare di rispondere nel merito. Un’altra legge: contro i conflitti d’interesse all’Antimafia di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 31 luglio 2025 Una bozza affrettata, un concetto non chiaro. E il sospetto che serva a estromettere magistrati scomodi. L’attuale maggioranza governativa sconosce, o disconosce volutamente il diritto per riaffermare il primato assoluto della politica? Forse, sono in parte vere entrambe le ipotesi. Comunque sia, che questa maggioranza non intrattenga un buon rapporto con i princìpi e le regole dell’ordinamento giuridico è comprovato da riscontri certi. Penso ad esempio, oltre alla cattiva e poco trasparente gestione del caso Almasri, al pacchetto-sicurezza, approvato con decreto-legge ancorché in assenza dei presupposti costituzionali della decretazione d’urgenza; e, per di più, zeppo di criticità che - come hanno invano evidenziato qualificati giuristi intervenuti pure sulla stampa quotidiana - lo rendono in non pochi punti poco compatibile con la Costituzione. A ulteriore riprova, è il caso di parlare di un nuovo disegno di legge (d.d.l. 1277), già approvato dalla commissione Affari costituzionali del Senato, che, pur apparendo parecchio discutibile, non ha finora costituito oggetto di un adeguato dibattito pubblico: si tratta di una iniziativa legislativa volta a disciplinare un non meglio definito “conflitto di interessi” nell’ambito specifico della commissione parlamentare Antimafia. Perché nasce la preoccupazione di legiferare in proposito? Cerca di spiegarlo la relazione di accompagnamento, dove si sostiene la necessità di “risolvere una situazione che si è presentata in questa legislatura all’interno della cosiddetta commissione Antimafia: uno dei componenti potrebbe essere ascoltato, in ragione di pregresse funzioni assolte, nell’ambito di un’indagine riguardante scelte, direttive, procedimenti, e atti da questi compiuti negli anni antecedenti alla sua elezione”. La presunta incompatibilità cui si allude, per vero in modo poco chiaro, sarebbe cioè concretamente emersa nel conteso di una vicenda - divenuta nota attraverso la stampa, per cui la diamo per conosciuta - che ha coinvolto Roberto Scarpinato, attuale componente della commissione Antimafia come senatore 5 Stelle ed ex magistrato in passato impegnato in processi di mafia (ulteriore presenza in odore di incompatibilità sarebbe quella dell’altro commissario Federico Cafiero de Raho, deputato 5 Stelle ed ex procuratore nazionale antimafia). Secondo i proponenti del disegno di legge, non a caso esponenti dell’attuale maggioranza politica, il presunto conflitto di interessi scaturirebbe dunque dal fatto - lo diciamo con parole nostre - che commissari come Scarpinato o Cafiero abbiano manifestato o possano manifestare opinioni e valutazioni su vicende, episodi, processi riguardanti la criminalità organizzata di cui si sono già occupati nel precedente ruolo di magistrati; conflitto che sarebbe ancora più evidente, nel caso in cui essi in tale ruolo abbiano sposato ipotesi ricostruttive divergenti da quelle fatte in seguito oggetto di verifica e approfondimento all’interno della commissione Antimafia. Da qui la ritenuta esigenza di introdurre un obbligo di astensione per i commissari che versino nella condizione suddetta, in supposta analogia a quanto l’ordinamento prevede nell’ambito dell’attività giurisdizionale. Muovendo da tali preoccupazioni di fondo, il disegno di legge propone un modello di disciplina in verità tanto generico e scarno (un solo articolo diviso in quattro commi) da apparire abbozzato con eccessiva precipitazione. In estrema e parziale sintesi: a) si prevede che l’obbligo di astensione per i commissari possessori di pregresse conoscenze scatti qualora la loro partecipazione ai lavori possa provocare pregiudizio alla obiettività delle indagini compiute dalla commissione Antimafia; b) la competenza a verificare se la situazione di conflitto sussista davvero viene attribuita alla stessa commissione, la quale decide previo contraddittorio con il componente interessato. Orbene, non è difficile cogliere i profili di illegittimità, e prima ancora constatare la mancanza di fondamento nel merito, di una poco ponderata e affrettata iniziativa legislativa come questa; iniziativa che non può, pertanto, non destare l’impressione di un provvedimento ad personam, contingentemente concepito per estromettere dai lavori dell’Antimafia ex magistrati percepiti oggi come scomodi e perciò sgraditi. Ma il giudizio sulla legittimità del disegno di legge deve prescindere, in ogni caso, dai motivi che lo hanno occasionato e dalle persone coinvolte. La questione va affrontata in termini generali, premettendo il richiamo della sentenza della Corte costituzionale n. 207/2021, che ha affermato questo importantissimo principio a proposito della funzione parlamentare: “la garanzia del libero mandato non consente l’instaurazione, in capo ai singoli parlamentari, di vincoli - da qualunque fonte derivino: legislativa, statutaria, negoziale - idonei a incidere giuridicamente sulle modalità di svolgimento del mandato elettivo”. Già da questo riconoscimento di principio deriva - a ben vedere - che chi diventa parlamentare è libero, nell’esercizio della nuova funzione, anche di continuare a esprimere opinioni e compiere valutazioni eventualmente del tutto coincidenti con quelle manifestate nell’esercizio di una precedente attività. Ciò non ultimo perché - diversamente da quanto si sostiene nella relazione al disegno di legge - non può prospettarsi una vera analogia tra la posizione di commissario antimafia e quella di magistrato: la funzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, come quella antimafia, è infatti politico-conoscitiva, come tale ben differente da quella consistente nel condurre indagini processuali o nel pronunciare giudizi di condanna con conseguenti ricadute pesanti sulle libertà individuali. E anche se i commissari parlamentari possono prendere in esame vicende e atti processuali, essi non sono legittimati a rifare i processi e devono (almeno in teoria) guardarsi dall’esercitare condizionamenti o realizzare forme di ingerenza politica nell’attività giudiziaria, pena la violazione del principio della divisione dei poteri. Né sembra decisivo il timore che l’eventuale riproposizione da commissari parlamentari di tesi già sostenute in una precedente veste professionale possa pregiudicare l’obiettività delle indagini che si compiono in commissione. Una tale preoccupazione pare presupporre una implicita sottovalutazione della capacità di giudizio e delle attitudini critiche del resto dei commissari, che si presume siano pregiudizialmente soggetti all’influenza di chi può vantare conoscenze e competenze pregresse. Ma, se questa presunzione meritasse di essere presa sul serio, coerenza imporrebbe di precludere ad esempio la presenza di medici in commissione Sanità, di avvocati in commissione Giustizia o di ingegneri in commissione Lavori pubblici ecc. Solo che una simile preclusione equivarrebbe a elevare l’incompetenza tecnica a requisito necessario per diventare membri delle varie commissioni! Considerando più da vicino specifici profili di illegittimità del disegno di legge, il primo elemento di grave criticità che salta agli occhi è costituito dalla indeterminatezza del concetto di “conflitto di interessi”. Non se fornisce alcuna definizione, né si indicano criteri sulla cui base verificarne l’esistenza: tutto è affidato alla completa discrezionalità valutativa della stessa commissione Antimafia, con conseguente violazione del principio di terzietà quale principio generale dello Stato di diritto. Ma, prima ancora, questo vuoto normativo si pone in insanabile contrasto col principio costituzionale che impone in generale al legislatore di indicare, con la maggiore precisione possibile, i presupposti di eventuali limitazioni delle libertà e dei diritti fondamentali; e, nel contempo, col principio della massima espansione della libertà del mandato parlamentare. Andando più alla radice, si può però persino contestare che sia davvero pertinente il concetto di conflitto di interessi riferito a situazioni come quelle in discorso: concetto che, com’è noto, nasce nel settore amministrativistico con riferimento ai casi in cui un pubblico funzionario persegue interessi personali che possono compromettere la sua imparzialità di giudizio, con conseguente conflitto tra l’interesse pubblico e l’interesse personale. A ben vedere, non è questo il caso, ad esempio, dell’ex magistrato che dispone di preconoscenze su fatti oggetto di indagine da parte della commissione Antimafia di cui fa parte: l’eventuale riproposizione di conoscenze pregresse, lungi dal riflettere un interesse di natura “personale”, può al contrario ben corrispondere all’interesse pubblico grazie all’apporto di contributi conoscitivi utili ai fini del confronto dialettico interno a una commissione d’inchiesta. È vero che l’ordinamento prevede situazioni particolari che comportano una limitazione del libero esercizio della funzione parlamentare. Ma si tratta di fattispecie di incompatibilità diverse da quella qui contestata, in quanto prendono in considerazione condizioni personali che ragionevolmente possono entrare in contraddizione con il ruolo di parlamentare o con le finalità di una specifica commissione d’inchiesta. Ad esempio, il regolamento della stessa commissione Antimafia stabilisce che, qualora un commissario sia indagato per gravi reati, può subire limiti all’accesso alla documentazione d’archivio. Senonché, proprio questa esemplificazione mostra l’irragionevole disparità di trattamento in cui incorre il disegno di legge: mentre un commissario indagato ad esempio per reati di mafia può continuare a partecipare ai lavori della commissione Antimafia (subendo limiti solo all’accesso alla documentazione), a un commissario non indagato ma temuto (o avversato) perché in possesso di conoscenze pregresse su fatti su cui indaga la commissione viene, invece, preclusa del tutto la partecipazione ai lavori. Un ulteriore profilo non secondario di illegittimità deriva dal potere della commissione Antimafia di decidere sul cosiddetto conflitto di interessi a semplice maggioranza, non essendo previsto un quorum più elevato così da coinvolgere nella decisione membri dell’opposizione. Un ulteriore elemento sintomatico, questo, a possibile conferma del sospetto che il vero obiettivo perseguito dal disegno di legge sia quello di consentire a una maggioranza di commissari antimafia di estromettere dai lavori colleghi scomodi e perciò sgraditi. Anni Settanta: ecco perché non vanno liquidati “come anni di piombo” di Vincenzo Scalia L’Unità, 31 luglio 2025 Alla notizia della morte di Raffaele Fiore tanti i commenti sulla libertà condizionale ottenuta senza essersi pentito né dissociato. Ma l’ex Br non ha avuto trattamenti di favore. E poi la distinzione tra irriducibili e dissociati va superata per ricostruire con accuratezza la storia della lotta armata. Raffaele Fiore, ex-esponente di spicco della colonna torinese delle Brigate Rosse, uno dei membri del commando di via Fani, è morto il 29 luglio scorso a 71 anni. La notizia è stata immediatamente sommersa da una valanga di commenti relativi al fatto che avesse beneficiato della libertà condizionale dopo aver scontato soltanto (sic!) 18 anni di detenzione. Soprattutto, a livello di opinione pubblica, sembra sgomentare il fatto che Fiore non si sia mai pentito né dissociato. Non so come fosse l’uomo Fiore, né mi sono mai sentito vicino alle sue forme di lotta politica per la libertà, l’uguaglianza e la fraternità. D’altro canto, però, non si può fare a meno di evidenziare le ipocrisie che circondano ancora oggi la narrazione sugli anni settanta, a volere esorcizzare, maldestramente, un periodo storico intenso, effervescente, contraddittorio ma cruciale per gli sviluppi politici attuali. Sul piano giudiziario, se Fiore usufruì della libertà condizionale pur non essendosi mai pentito né dissociato, bisogna sottolineare che l’ex-BR non ha goduto di alcun trattamento di favore. Furono i capi storici delle Brigate Rosse, Curcio, Moretti e Balzerani, a dichiarare pubblicamente in TV, all’indomani dell’omicidio del senatore DC Roberto Ruffilli (16 aprile 1988), la fine della stagione della lotta armata. Una posizione sottoscritta anche dagli altri e dalle altre componenti del gruppo. Tanto bastò perché, a norma di legge, usufruissero dei benefici di cui avevano goduto anche altri che avevano compiuto scelte analoghe. In merito alle definizioni di “pentimento” e “dissociazione”, si rende necessario un approfondimento. La categoria di pentito richiama aspetti di tipo morale e religioso. Di conseguenza, costituisce una questione del tutto individuale. Il problema è che in Italia, dove aleggia l’ombra ingombrante del Vaticano, il piano giudiziario tende ad essere confuso con quello morale. L’ammissione delle proprie responsabilità, sulla scia di questa impostazione, equivale a una confessione di tipo religioso, a un’espiazione dei propri peccati. Non è questo il caso. Fiore, al pari degli altri BR cosiddetti “irriducibili”, ha sempre ammesso le proprie responsabilità. Politicamente, le ha anche rivendicate. Si tratta di un comportamento che stride fortemente con le categorie morali che in Italia introiettiamo sin da bambini, tra il catechismo e le letture di infanzia, e che ha il suo culmine nell’Innominato manzoniano. Rinnegare, presentarsi come folgorati da una verità più alta come paravento per un opportunistico cambio di posizione che consente di rifuggire la propria responsabilità, rappresenta, nel nostro paese, una costante anche troppo inflazionata. I pentiti sono in realtà collaboratori di giustizia, come vengono giustamente definiti in altri Paesi. Impariamo a definirli e a concepirli così anche in Italia. D’altro canto, bisognerebbe anche sgombrare il campo delle ambiguità rispetto alla distinzione tra irriducibili e dissociati, che alligna principalmente anche tra i reduci di quella esperienza. Si tratta di una distinzione figlia di una lacerazione dolorosa all’interno di chi prese parte all’esperienza della lotta armata, ma che oggi, alla luce del fatto che anche chi non si dissociò ha usufruito dei benefici di legge, andrebbe superata, soprattutto per ricostruire quella storia con accuratezza e serenità. Si tratta di un percorso necessario da intraprendere, alla luce del fatto che, a partire dalle formazioni armate, è in atto da anni un percorso di criminalizzazione dei movimenti degli anni settanta, liquidati come anni di piombo. Laddove, all’interno di quella storia, si collocano le lotte per l’emancipazione delle donne, lo statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia, il decentramento amministrativo, la riforma penitenziaria. Soprattutto, in nome del piombo, si occulta il tritolo delle stragi di Stato, e si rimuovono le repressioni di piazza in cui persero la vita in modo assurdo, tra gli altri, Giorgiana Masi e Francesco Lo Russo. Nonché le leggi speciali e le torture commesse dagli apparati di stato, e ammesse solo recentemente L’invito a pentirsi, se suona per i reduci della lotta armata come una doppia damnatio memoriae (in quanto pentiti e in quanto terroristi), per chi prese parte ai movimenti suona come un invito a rinnegare le ragioni delle loro lotte. E a non potere chiedere giustizia per quei morti. Riposi in pace, Raffaele Fiore. Misure cautelari nulle se manca l’interrogatorio preventivo, dice la Cassazione di Antonio Alizzi Il Dubbio, 31 luglio 2025 La sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con una recente sentenza (n. 27080/ 2025), ha annullato senza rinvio una misura cautelare disposta nei confronti di un uomo accusato di favoreggiamento, evidenziando l’irrinunciabilità dell’interrogatorio preventivo introdotto dalla riforma del 2024. L’assenza di tale passaggio, senza adeguata motivazione, ha determinato una nullità genetica dell’intera ordinanza cautelare. La vicenda riguarda un uomo, destinatario di un provvedimento di arresti domiciliari emesso dal gip di Civitavecchia il 19 gennaio 2025 e confermato dal Tribunale del Riesame di Roma il 13 febbraio successivo. Secondo l’accusa, l’uomo avrebbe reso dichiarazioni reticenti alla polizia giudiziaria, omettendo di riferire la propria conoscenza di soggetti coinvolti in una estorsione collegata alla cessione di stupefacenti. In particolare, l’attenzione si era concentrata sulla cessione di una vettura, ritenuta frutto dell’estorsione, a una società, di cui l’indagato era l’unico socio. Nel ricorso in Cassazione, la difesa ha sollevato una pluralità di questioni, tra cui la carenza dei gravi indizi di colpevolezza, l’omessa valutazione della causa di non punibilità per chi si autoaccusa per evitare un grave danno personale (art. 384 c. p.) e l’inadeguatezza della motivazione circa il pericolo di recidiva, l’inquinamento probatorio e la possibilità di concedere la sospensione condizionale della pena. Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto assorbente la violazione procedurale relativa al mancato svolgimento dell’interrogatorio preventivo, disciplinato dall’articolo 291, comma 1- quater, codice procedura penale, introdotto dalla legge n. 114 del 2024. Secondo gli ermellini, nel caso specifico il pericolo di inquinamento probatorio, indicato come giustificazione per omettere l’interrogatorio preventivo, era fondato su presupposti generici e assertivi, privi di specificità circa le fonti di prova che l’indagato avrebbe potuto alterare o influenzare. In assenza di elementi concreti, l’ordinanza cautelare risultava quindi affetta da un vizio strutturale insanabile. La Cassazione ha sottolineato che l’interrogatorio preventivo costituisce un momento essenziale a garanzia del diritto di difesa, da effettuarsi salvo i casi tassativi in cui sussistano esigenze cautelari concrete ed attuali. Il mancato svolgimento determina una nullità a regime intermedio, deducibile con il riesame, che non può essere sanata neanche dal successivo interrogatorio di garanzia. La sesta sezione penale ha quindi chiarito che l’obbligo dell’interrogatorio non può essere eluso sulla base della presenza, nel medesimo procedimento, di co- indagati destinatari di misure per reati più gravi o legati da connessione: la valutazione dell’esigenza cautelare deve restare individualizzata e rispettosa delle prerogative difensive del singolo indagato. Il fatto che vi fossero altre posizioni coinvolte nel medesimo procedimento penale non legittima automaticamente il sacrificio del diritto all’interlocuzione preventiva per tutti gli indagati. La sentenza ha infine ribadito che il giudice del Riesame è titolare di un pieno potere di controllo sui presupposti della misura cautelare, compresi i vizi genetici del provvedimento, come l’omesso interrogatorio. Ciò rafforza la funzione garantista del Riesame, quale momento centrale per la verifica giudiziale della legittimità della privazione della libertà personale. La pronuncia segna dunque un importante chiarimento applicativo della riforma del 2024 e della disciplina sull’interrogatorio preventivo: un passaggio divenuto, a tutti gli effetti, un elemento costitutivo della misura cautelare e una garanzia difensiva irrinunciabile. Il messaggio è chiaro: anche la cosiddetta “urgenza investigativa” deve cedere di fronte al rispetto delle garanzie fondamentali. Corruzione, la Cassazione ora “ridisegna” i confini del reato: la dazione non basta di Annalisa Costanzo Il Dubbio, 31 luglio 2025 La giustizia, si sa, ha i suoi tempi e anche i suoi labirinti. Ma quando si parla di corruzione, il labirinto si fa ancora più intricato e la Corte di Cassazione, con una recente sentenza che pare destinata a fare scuola, ha bacchettando la Corte d’Appello di Lecce per aver interpretato in modo troppo estensivo i contorni del reato. Il cuore della censura della Suprema Corte batte su un principio cardine del diritto penale: perché si configuri il delitto di corruzione propria, non basta la mera dazione o promessa di denaro o di altre utilità indebite e la loro accettazione da parte del pubblico ufficiale. Un concetto che, a un primo sguardo, potrebbe sembrare controintuitivo per il cittadino comune, abituato a identificare la corruzione con lo scambio di denaro. La Cassazione è categorica: è invece necessario che la promessa o dazione del corruttore e l’accettazione del corrotto convergono verso la medesima finalità e diano causa al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio. La sentenza riguarda un’indagine del 2016, denominata “Maricommi”, il presunto sistema illecito di gestione degli appalti e affidamenti presso proprio la Direzione Commissariato di Taranto della Marina Militare “Maricommi”. Ad essere coinvolti furono tra gli altri Elena Corina Boicea, Vincenzo Calabrese, Giovanni Di Guardo, Marcello Martire e Giuseppe Musciacchio. E, sono proprio loro a ricorrere in Cassazione contro la sentenza della Corte d’Appello di Lecce dell’8 luglio 2024, dove erano stati condannati per reati legati a un’associazione per delinquere finalizzata a pilotare gare d’appalto e affidamenti di opere e servizi presso la “Maricommi”. Altri reati contestati: induzione indebita a dare o promettere utilità, turbata libertà degli incanti, rivelazione di segreti d’ufficio nonché vari episodi di corruzione. “Il giudice del rinvio ha inteso valorizzare il solo elemento della dazione, quando invece, perché sia integrata la corruzione propria, non sono sufficienti la sussistenza di percezioni o promesse e la natura indebita del denaro o delle utilità accettate dal pubblico ufficiale, ma è necessario - rimarcano gli Ermellini - che la promessa/ dazione del corruttore e l’accettazione del corrotto convergano verso la medesima finalità e diano causa al compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio. La sentenza, invece, non ha dato conto del contenuto dell’accordo corruttivo e del sinallagma fra le due prestazioni, tanto più che gli asseriti atti contrari ai doveri d’ufficio e l’aggiudicazione del servizio a Calabrese sarebbero avvenuti in epoca precedente rispetto al momento della dazione del denaro”. Un passaggio questo che sposta il focus dall’atto materiale del dare/ avere all’esistenza di un vero e proprio accordo illecito, un “pactum sceleris”. Questo significa, in particolare, l’esistenza di un accordo corruttivo che preveda in modo sinallagmatico - cioè con una chiara corrispondenza - la prestazione illecita del pubblico ufficiale (l’atto contrario ai doveri d’ufficio) e l’erogazione dell’utilità da parte del privato. La Cassazione non usa mezzi termini, criticando aspramente la Corte d’Appello per non aver affrontato il tema della sussistenza di tale accordo sinallagmatico, nonostante le chiare indicazioni della precedente sentenza di annullamento. Un errore che, secondo la Suprema Corte, ha inficiato l’intero ragionamento probatorio. L’atto illecito: non un’ipotesi, ma una prova concreta. E non è tutto. La Cassazione ha rimarcato con forza un altro aspetto cruciale: l’atto contrario ai doveri d’ufficio deve essere concretamente provato. L’illiceità della condotta del pubblico ufficiale non può essere dedotta, quasi per automatismo, dalla mera dazione o accettazione di denaro. È indispensabile accertare le modalità della presunta alterazione del procedimento amministrativo e la non conformità ai doveri d’ufficio della condotta tenuta dal pubblico ufficiale. La Corte ha rilevato come la sentenza d’appello abbia accertato la contrarietà dell’atto ai doveri d’ufficio, prescindendo dalla conoscenza e dall’esame degli atti ufficiali compiuti dal ricorrente e sulla base di “mere asserzioni”, basandosi su “prove che non esistono o su massime di esperienza di dubbia tenuta e omettendo - scrivono - di argomentare circa la riconducibilità a Di Guardo delle prospettate violazioni”. Un “buco nero” probatorio che la Cassazione non ha potuto ignorare. Non basta la “presa in carico” dell’interesse senza un atto illecito. E, ancora, la Cassazione ha ricordato un punto già evidenziato in una precedente sentenza di annullamento: la sola accettazione di denaro non basta a integrare il delitto di corruzione propria. Occorre verificare se l’esercizio dell’attività del pubblico ufficiale sia stata condizionata dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, con la conseguente adozione di un atto illecito. La pronuncia potrebbe ora avere ricadute anche sul procedimento a carico dell’ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci, dove l’impianto accusatorio ruota proprio attorno alla qualificazione degli atti amministrativi contestati e al loro legame con le utilità percepite. E richiama anche un altro recente caso, quello dell’ex governatore della Liguria, che ha poi patteggiato la pena e lasciato la carica di presidente della Regione. La Corte d’Appello, secondo i giudici di legittimità, ha “preteso di derivare dalla dazione non solo l’attribuzione della paternità dell’atto a Di Guardo, ma anche la contrarietà del suo agire ai doveri d’ufficio”. Con una serie di ammonizioni, la palla torna dunque alla Corte d’Appello di Lecce, che dovrà rivedere il processo alla luce di queste stringenti indicazioni della Cassazione. E per l’indagine “Maricommi” si riaprirà così un nuovo capitolo processuale. Sicilia. “Sovraffollamento e poche cure mediche, le carceri siciliane sono al collasso” di Paola Pottino La Repubblica, 31 luglio 2025 Il Garante dei detenuti: “Nelle strutture italiane ci sono 11.400 persone in più rispetto alla capienza massima”. Al Pagliarelli un recluso attende un intervento agli occhi da tre anni e nel frattempo è diventato cieco. Mancanza di cure sanitarie, spazi angusti e sporchi, carenza di agenti penitenziari, educatori, medici e sovraffollamento della popolazione carceraria. Sono soltanto alcuni dei problemi che vivono i detenuti nelle carceri siciliane, denunciati questa mattina davanti all’Ucciardone dai garanti dei diritti degli Istituti penitenziari di Palermo, Messina e Siracusa insieme ad alcune associazioni di volontariato. “Il sovraffollamento nelle carceri italiane supera il 70%, ma il problema più grave riguarda la salute dei detenuti. La gente non viene curata, muore in carcere - dice Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo - In Italia ci sono stati 45 suicidi, tra i quali una decina in Sicilia, e ben 3 suicidi di agenti di polizia penitenziaria. Sono numeri altissimi”. Al Pagliarelli un recluso sta ancora attendendo da tre anni un intervento di cataratta e nel frattempo è diventato cieco. Carceri vetuste e invivibili dove i detenuti sono accatastati nelle celle. A fronte di una capienza massima di 51mila posti - dicono dall’associazione Antigone - sono presenti nelle carceri italiane 62.445 detenuti. “Il problema del sovraffollamento è insostenibile perché rende la situazione di queste persone private della libertà ancora più gravosa”, sottolinea Enrico Scaletta del Comitato “Esistono i diritti”. “Si tratta di un’emergenza - aggiunge Gaetano D’Amico, presidente del Comitato - Per il problema del sovraffollamento chiediamo l’amnistia”. In Sicilia il dato non si discosta con 6.300 reclusi su una capienza massima di 5.800. Nella casa circondariale Gazzi di Messina il problema del sovraffollamento non esiste, ma il carcere è vetusto e con carenza di personale. “Abbiamo 200 detenuti e soltanto due educatori - lamenta la garante Lucia Risicato - non ci sono medici e mancano gli agenti di polizia penitenziaria, ne servirebbero altri 50. Quelli presenti lavorano almeno due ore in più al giorno e non sono retribuiti, senza considerare che si trovano ad affrontare situazioni di emergenza. Il reparto di “alta sicurezza maschile”, appena ristrutturato, al momento non può essere aperto perché non c’è personale sufficiente. Ma la situazione più drammatica è quella sanitaria: i tempi degli esami diagnostici sono kafkiani”. Anche negli istituti di pena palermitani, il problema sanitario è a dir poco catastrofico. “I disservizi riscontrati al Pagliarelli per le prestazioni sanitarie dei detenuti sono enormi - denuncia Francesco Leone, vicepresidente dell’associazione Antigone - I detenuti devono seguire la trafila degli altri cittadini, soltanto che loro non hanno la libertà di spostarsi autonomamente, quindi chi ha bisogno di una tac o di una visita specialistica rientra nell’elenco Cup regionale. In teoria dovrebbero partire dall’Ucciardone o dal Pagliarelli, 30, 40 cellulari con a bordo gli agenti di polizia penitenziaria per trasportare i detenuti nei vari centri della Sicilia. Ma accade che i furgoncini a disposizione sono due o tre, non c’è posto per tutti e così molti detenuti perdono la prenotazione e sono costretti a rifare la trafila”. È il caso della donna con un tumore alle ovaie, che ha avuto rinviato la tac e adesso è costretta a fare una delicata operazione chirurgica che se si fosse curata in tempo avrebbe potuto risparmiare. Non va meglio nel carcere Cavadonna di Siracusa che ospita 600 detenuti “Ci sono almeno 30 agenti in meno rispetto alla pianta organica - dice il garante per i detenuti Giovanni Villari - per il nucleo traduzioni dedicato al trasferimento dei detenuti che devono partecipare alle udienze in tribunale o che hanno necessità di effettuare le visite mediche. Senza contare il problema delle cimici che hanno infestato le celle, i letti, i vestiti e la biancheria dei detenuti. Si dovrebbe disinfestare l’intera sezione, sfollare i detenuti per almeno 24 ore, ma non è fattibile”. Parma. Un altro suicidio in carcere: è doveroso intervenire con urgenza di Veronica Valenti* parmadaily.it, 31 luglio 2025 A Parma, un altro suicidio in carcere. Una persona di 53 anni si è impiccata, ieri pomeriggio. Ancora una volta, in isolamento. Ancora una volta, una storia di isolamento, nell’isolamento. Ancora una volta, stiamo vivendo quella stessa drammatica sensazione di impotenza, a fronte dell’ennesimo dramma umano consumato in carcere - il quarto a Parma, dal 2024 - su cui è doveroso intervenire, con urgenza, nell’immediato, non è più possibile aspettare. È ciò che chiedono, specie in questa giornata di lutto, così triste per Parma, le persone che condividono le iniziative in corso sulle condizioni inumane delle carceri italiane. È stata indetta una mobilitazione dei Garanti locali promossa dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali; continua poi, anche a Parma, il digiuno a staffetta a cui hanno aderito diversi Avvocati, Magistrati, Professori universitari, Consiglieri e Assessori locali di Parma per chiedere l’introduzione di misure deflattive del sovraffollamento e cura di una politica pubblica, quella della ‘rieducazione’, che deve essere concretamente funzionale al reinserimento delle persone. Ma dove può esserci ‘rieducazione’ dove mancano le minime condizioni di rispetto della dignità della persona umana e delle garanzie per la salute psicofisica di tutti coloro che, a vario titolo, fanno parte dell’istituzione penitenziaria? Gesti simbolici e parole di indignazione e di denuncia non possono rimanere fine a sé stessi ma devono tradursi nell’immediato in fatti concreti, perché il carcere non è un mondo a parte, ma parte della nostra società, che merita in modo imprescindibile maggiore attenzione e cura. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma Firenze. “A Sollicciano condizioni di vita tra le peggiori d’Italia, quel carcere va chiuso” novaradio.info, 31 luglio 2025 “Il carcere di Sollicciano è un luogo disumano per i detenuti e per chi ci lavora” e “va chiuso”. La richiesta, mai così netta, arriva dalla sezione toscana di Magistratura Democratica Toscana spiegando che a quattro mesi di distanza dalla visita e dalla prima denuncia assieme all’associazione Antigone delle condizioni di estremo degrado del carcere, la “situazione è immutata”. Di pochi giorni fa l’ultima denuncia del garante cittadino, Giancarlo Parissi, sull’allagamento a causa della rottura di un tubo della sezione Atsm del carcere (detenuti psichiatrici) e il trasferimento dopo diversi giorni passati dai reclusi con gli stivali indosso e 10 centimetri di acqua nelle celle. Dal 2022 Magistratura Democratica ha avviato una serie di sopralluogo per accertare lo stato di applicazione delle pene dopo l’approvazione della Riforma Cartabia: “Già da quel momento a Sollicciano ci è apparsa la più critica” racconta a Novaradio il magistrato Simone Silvestri: “Siamo poi tornati nel marzo scorso, abbiamo verificato che la situazione addirittura si era aggravata”. “Le condizioni che descriviamo nei nostri documenti - afferma - sono di una soglia al di sotto del della vivibilità del della condizione di rispetto della dignità umana in diversi settori della sezione del carcere”. Ma è davvero realistico immaginare la chiusura di un carcere come Sollicciano, che al momento ospita oltre 550 detenuti? “L’intervento principale - spiega Silvestri - è quello dell’amministrazione penitenziaria, che finora non ha preso i provvedimenti secondo noi necessari, ovvero quello di chiudere anche delle sezioni trasferendo i detenuti in altre strutture, come è successo, per esempio, anche nel carcere di Lucca che ha un intero piano chiuso. Questo dovrebbe spingere anche il Ministero ad adottare più generali interventi sul sovraffollamento”. Provvedimenti che il Governo non sembra intenzionato ad adottare, puntualizza Silvestri: le proposte che prevedono la detenzione domiciliare dei detenuti con dipendenze da alcol o droga in base a un programma di recupero non hanno un effetto immediato. “Un effetto immediato, come noi chiederemo dovesse debba essere attuato - aggiunge - lo potrebbe avere quello la discussione e l’adozione della liberazione anticipata speciale”. Ossia la proposta Giachetti” che giace ferma in Parlamento. A chiedere la chiusura di Sollicciano però non sono solo i magistrati. Due anni fa lo hanno fatto gli stessi detenuti, con un ricorso/esposto firmato da 200 reclusi presentato alla Procura di Firenze per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumano o degradante. Perché se una scuola o un ospedale mostrano carenze igieniche o strutturali vengono subito chiuse mentre un carcere può rimanere aperto? Sul merito dei ricorsi presentati Silvestri spiega di non poter entrare, ma ammette: “Bisogna vedere nel caso concreto quali possono essere i provvedimenti previsti dall’amministrazione penitenziaria di intervento immediato o in procinto di essere adottati. Però in astratto sicuramente può essere può essere sottoposto al sequestro”. Trento. “Il carcere è sotto pressione e mancano le prospettive” Corriere del Trentino, 31 luglio 2025 Coinvolgere i privati per il reinserimento dei detenuti nella società. È la proposta dei consiglieri provinciali di minoranza dopo la visita in carcere. Carcere sotto pressione e mancanza di prospettive di reinserimento nella società per i detenuti. Sono questi due i temi emersi dalla visita in carcere di ieri all’istituto penitenziario di Spini di Gardolo da parte di alcuni consiglieri provinciali che hanno risposto all’appello del Garante dei diritti dei detenuti di Trento, Giovanni Maria Pavarin, che ha aderito alla giornata della mobilitazione “Venite e vedete, venite e ascoltate!”, lanciata dalla conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Lo scopo dell’iniziativa: fare approvare provvedimenti per far fronte al problema del sovraffollamento nelle carceri. Come a Trento. Dove - come hanno sostenuto i consiglieri provinciali che hanno partecipato, tutti di minoranza, Paolo Zanella, Lucia Maestri, Lucia Coppola, Mariachiara Franzoia, Francesco Valduga, Francesca Parolari e Chiara Maule - le condizioni rimangono sempre le stesse, di visita in visita. “È questo il tema - rimarca Paolo Zanella (Pd) - ci sono 367 detenuti rispetto ai 240 posti pattuiti tra Provincia e Stato: il 57% in più”. Una situazione difficile, con alte percentuali di stranieri, oltre il 50% e aumento dei casi psichiatrici. “Mancano agenti penitenziari, mentre gli educatori sono arrivati a regime - prosegue Zanella - nonostante questo ci sono difficoltà a programmare percorsi di progettualità perché mancano le opportunità di reinserimento lavorativo sia durante il carcere, sia dopo”. Poche le opportunità di lavoro con le cooperative, non sufficienti da sole, con il rischio di recidiva per chi esce dal carcere e non lavora: “Da tempo chiediamo al dipartimento di amministrazione penitenziaria regionale di fare pressione sullo Stato per essere autonomi con progetti di reinserimento in mano totalmente alla Provincia”. E aggiunge: “Si potrebbe già agire con il mondo dell’impresa dove c’è fame di laboratori e creare una filiera virtuale con il privato”. Coinvolgere le grandi imprese trentine a creare progetti di reinserimento lavorativo per i detenuti, “una doppia opportunità per entrambi”. Tra gli altri “nodi”, la difficoltà ad accedere alle misure alternative a Trento. Sul numero di detenuti, secco il garante dei detenuti Giovanni Maria Pavarin: “È stato violato il patto Provincia-Stato, così non si può andare avanti”, dichiara. “Se oltre ad incrementare le pene, aumento i reati, non creo valvole di sfogo”, ha detto. Ma “la premessa perché ci sia più gente che entra rispetto a quella che esce, è matematico che si aumenterà il numero dei detenuti”. Serve, invece, “aumentare il numero di agenti - ha sottolineato Pavarin - ne mancano almeno 40”. E per fortuna, ha concluso, “sono pochi i tentati suicidi e relativamente pochi gli atti di etero aggressività”. Anche se Spini non è certo l’Eden. Infine, rispetto al piano carceri presentato dal Governo, Pavarin ha detto che, trattandosi di “un disegno di legge subordinato alla calendarizzazione dell’istituzione di una commissione che dovrà essere istituita tra 4 mesi”, è “praticamente un rinvio a un domani che forse non verrà mai”, così “si crea un’illusione”. Vicenza. Sovraffollato e con poco personale. “Non dimentichiamoci del carcere” Corriere del Veneto, 31 luglio 2025 Il Comune aderisce all’iniziativa “Ristretti in agosto”: visite al Del Papa. “È un altro quartiere della città”: così ha definito la casa circondariale di Vicenza “Filippo Del Papa”, il carcere di San Pio X, la direttrice Luciana Traetta. Un quartiere sovraffollato, in cui si vive in condizioni molto difficili, specie nel periodo estivo. Proprio per evidenziare una situazione che a livello nazionale è ormai al limite, l’Unione delle camere penali italiane, ha lanciato l’iniziativa “Ristretti in agosto”, che ha lo scopo di far conoscere da vicino la vita in carcere, non solo quella dei detenuti, ma anche degli operatori penitenziari. In tale ambito, a Vicenza è stata organizzata il 20 agosto prossimo una visita istituzionale al carcere, al quale avrà accesso (in maniera contingentata) anche la popolazione. “Un’occasione per esprimere vicinanza, soprattutto nel periodo estivo, quando le criticità si acuiscono”, hanno detto ieri mattina, Luisa Consolaro, presidente della commissione Servizi alla popolazione, Angela Barbaglio, già magistrato e da un anno e mezzo Garante cittadina per le persone private della libertà personale, l’avvocato Matilde Greselin, responsabile dell’Osservatorio carcere della Camera Penale di Vicenza e Matteo Tosetto, assessore alle Politiche sociali. Lo hanno fatto , ufficializzando l’adesione del Comune alla campagna “Non c’è più tempo! Bisogna fermare la strage di vite e di diritti nelle carceri italiane”, promossa dal coordinatore nazionale dei Garanti territoriali Samuele Ciambriello. “Anche a Vicenza il tema delle carceri - afferma Consolaro - non può più essere relegato a questione marginale. Parliamo di luoghi che soffrono condizioni indegne e negano ogni possibilità concreta di reinserimento. La politica ha il dovere morale di farsi carico di questa emergenza sociale”. Concetto sposato a pieno dalla Garante Barbaglio, con la consapevolezza e in parte la rassegnazione di chi sa che difficilmente queste parole potranno tradursi in atti concreti: “Nel carcere vicentino il sovraffollamento raggiunge la percentuale di quasi il 130% - sottolinea - e chiunque viva in prima persona questa situazione soffre una sensazione di impotenza. Chi opera al “Del Papa” lo fa in una situazione di sottorganico, sia per quanto riguarda la polizia penitenziaria, oltretutto con un comandante a “scavalco”, sia per gli educatori e gli psicologici, al di là di una efficiente Unità sanitaria dipendente dall’Usl 8 Berica. Riuscire a mantenere un pur fragile equilibrio è già un traguardo”. Insomma, l’obiettivo di trasformare il carcere da fabbrica di disperazione o di criminalità - come evidenziato in un suo recente discorso dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella - a luogo di recupero, è lungi dal divenire. Va detto, tuttavia che anche nel carcere vicentino sono in atto alcune iniziative, come ad esempio “Libere golosità” (laboratorio di pasticceria gestito da una cooperativa), o altri tipi di lavorazioni artigianali, alle quali - come evidenziato ancora da Barbaglio - non tutti possono avere accesso. Avellino. Il Garante Mele: “Detenuti senz’acqua, cure sanitarie inadeguate, diritti ancora negati” Corriere dell’Irpinia, 31 luglio 2025 Dalla politica nessuna risposta. Non nasconde la propria delusione il garante regionale dei detenuti Carlo Mele. A rispondere al suo appello alla politica, in occasione della giornata di mobilitazione promossa dalla Conferenza dei garanti delle persone private della libertà, all’assunzione di responsabilità sulla condizione dei detenuti nelle carceri solo i due consiglieri regionali Livio Petitto e Vincenzo Ciampi. Mele spiega come “L’idea era quella di avviare un confronto con la politica ma è triste dover constatare che pochi hanno risposto al nostro appello. Non si tratta solo di sovraffollamento o delle condizioni in cui vivono i detenuti ma anche di problematiche logistiche, dalle strutture obsolete alla sanità insufficiente”. Si sofferma su un “dato anagrafico preoccupante: troviamo in carcere molti ragazzi di 19 o 20 anni. Questo chiama in causa la società civile, i servizi territoriali, le famiglie. Stiamo perdendo intere infanzie”. E spiega come “Se non lavoriamo in sintonia con la Costituzione, i detenuti usciranno peggiori di come sono entrati. Il carcere restituisce alla società: è nostro dovere favorire il recupero dei detenuti”. Spiega come l’esempio arriva dal Carcere di Bellizzi “una struttura inadatta ad accogliere centinaia di detenuti. Tante le criticità emerse, l’interruzione notturna dell’acqua, che rende impossibile utilizzare i servizi igienici e la grave carenza di assistenza sanitaria”. Sulla stessa linea l’avvocata Giovanna Perna, dell’Osservatorio Carceri dell’Unione delle Camere Penali, che parla di una “situazione igienico-sanitaria inaccettabile. Mancano visite specialistiche, un presidio medico continuativo e condizioni igieniche adeguate. I detenuti, anche nel reparto femminile, devono fare i conti con la mancanza di acqua” Michele Fratello, delegato della Camera Penale di Avellino, spiega come la situazione resti grave “malgrado i miglioramenti. Le visite specialistiche si svolgono fuori provincia, causando gravi disagi logistici. Le cure odontoiatriche sono praticamente inaccessibili. E il problema dell’acqua resta drammatico”. A prendere parte alla visita in carcere anche una nutrita delegazione dell’avvocatura irpina, composta dagli avvocati Michele Fratello, Matteo Fimiani, Giovanna Perna, Maria Lourdes Fabrizio e dai dottori Andrea Massaro e Daniela De Stefano, a testimonianza dell’attenzione costante del mondo forense verso le condizioni di vita e di lavoro all’interno delle strutture penitenziarie. A illustrare gli interventi realizzati la direttrice della casa circondariale, Maria Rosaria Casaburo, in carica da ottobre, “Stiamo ripartendo dal rispetto dei principi della legalità. Abbiamo ripristinato criteri oggettivi per l’accesso al lavoro ai sensi dell’articolo 20 dell’ordinamento penitenziario, garantito la piena operatività delle scuole interne e dotato ogni cella di un frigorifero, nel rispetto della dignità individuale”. Pone l’accento sul rilancio delle attività trattamentali “Abbiamo organizzato quindici convegni, coinvolgendo campioni olimpici, ex detenuti, magistrati. Raccontiamo i cinquant’anni dell’ordinamento penitenziario direttamente ai detenuti, perché fare convegni senza di loro rischia di essere inutile”. E sui recenti episodi che hanno visto un detenuto evadere, la direttrice spiega come “La Polizia Penitenziaria ha agito con prontezza. La sicurezza può sempre essere incrementata, ma i lavori erano già partiti prima dell’evasione. La Procura ha aperto un fascicolo e l’Amministrazione penitenziaria condurrà le dovute verifiche: tutto procede in un clima di collaborazione”. Carlotta Giaquinto, dirigente penitenziario del DAP per la Campania, ammette la presenza di criticità “L’intervento è stato immediato. Abbiamo chiuso il reparto di alta sicurezza maschile e a breve sarà attivo un reparto femminile, per contrastare la pressione della criminalità organizzata”. E sul piano della sanità “Stiamo rinnovando l’infermeria e lavorando per creare una sezione TSM (Tutela Salute Mentale) stabile ad Avellino. L’ASL ha ottenuto nuovi finanziamenti e la collaborazione interistituzionale è indispensabile: il carcere non deve restare isolato”. Di qui l’impegno finalizzato a rendere operativo anche il reparto ospedaliero dell’ospedale di Avellino e a trasferire il gabinetto odontoiatrico più vicino alla struttura penitenziaria: A sottolineare come si tratti di una vera emergenza il consigliere regionale Vincenzo Ciampi (M5S) “Anche Avellino deve fare i conti con sovraffollamento, carenza di personale e necessità di maggiori risorse da parte del DAP e del governo. Ho però osservato anche dedizione e umanità, con attività significative come biblioteche, uffici di lavoro e ambienti curati. Il carcere riguarda l’intera collettività. Serve un impegno vero. Non bastano le parole”. Palermo. Diritto di vivere: manifestazione davanti al carcere dell’Ucciardone di Gabriele Urzì blogsicilia.it, 31 luglio 2025 Sovraffollamento e condizioni invivibili soprattutto alla nona sezione. Si è svolta davanti al carcere dell’Ucciardone di Palermo la manifestazione “Diritto di vivere” con la partecipazione dei garanti dei detenuti di Palermo, Messina e Siracusa e alla quale hanno aderito anche Antigone Sicilia, il Comitato esistono i diritti e le Associazioni forensi. “Il carcere deve essere rieducativo e tendere alla riabilitazione dell’individuo. Anche Papa Francesco si è sempre interessato dei detenuti. C’è una emergenza carceri e noi pensiamo che il governo, per i reati minori, debba proporre un’amnistia o un indulto così come chiede un disegno di legge presentato in Parlamento - ha dichiarato Gaetano d’Amico del comitato Esistono i diritti”. “La manifestazione si chiama diritto di vivere ed è stata organizzata in sintonia con i garanti territoriali (oltre Palermo anche Messina e Siracusa) e nazionali. In carcere si muore perché non ci sono cure adeguate per alcune patologie, perché c’è troppo caldo e una situazione che spinge al suicidio perché ci si stanca e si smette di vivere. Abbiamo raccolto l’appello del presidente della Repubblica che più volte ha sottolineato il disinteresse della politica in materia. Noi ci sentiamo protagonisti di questa battaglia e ascoltiamo i detenuti e le loro lamentele. La situazione della nona sezione è disastrosa in quanto non è mai stata ristrutturata, ha servizi igienici vetusti e soltanto una doccia per ogni piano. Le finestre al piano terreno sono chiuse perché altrimenti entrano topi e blatte e se ci sono alcuni ventilatori è merito del buon cuore di alcuni cittadini che li hanno regalati. Noi ne chiediamo la chiusura che viene evocata da piu’ parti” ha aggiunto Pino Apprendi garante dei detenuti di Palermo. Sulla stessa linea Giovanni Villari, garante per le persone private della libertà personale di Siracusa: “Il sovraffollamento generi molti malesseri e all’interno del carcere c’è attualmente una infestazione da parte di cimici che rende impossibile il vivere quotidiano. La direzione si è impegnata a fare una disinfestazione ma non è riuscita ad effettuarla compiutamente in quanto bisognerebbe evacuare per almeno 24 ore tutta la sezione. I detenuti soffrono delle carenze strutturali anche dovute al ridotto numeri degli agenti che rende difficile fare attività all’interno soprattutto d’estate. Ci sono stati altri due suicidi e con questi siamo arrivati a 47. In Italia ci vogliono anni solo per avere i permessi per costruire nuove strutture. E nel frattempo cosa si fa?”. Pisa. Droghe e malattie mentali in carcere, una proposta per le cure di Antonia Casini La Nazione, 31 luglio 2025 L’appello della direttrice Alice Lazzarotto alla politica. E i Garanti: “290 detenuti in un terzo delle celle”. “Tanta la tossicodipendenza ma anche le patologie psichiatriche a Pisa, che in carcere non possono essere curate, serve una presa di coscienza”. L’appello al mondo della politica arriva da Alice Lazzarotto, direttrice della casa circondariale Don Bosco, durante l’iniziativa del garante delle persone detenute di Pisa, l’avvocato Valentina Abu Awwad, e quello di Volterra, avvocato Ezio Menzione, per “fermare i suicidi in carcere”. Sono stati tre nel 2023 sul nostro territorio, uno l’anno passato. Presenti anche la Casa della donna, Controluce, San Vincenzo de Paoli e Camera penale. “Sovraffollamento e suicidio spesso vengono associati, ma il primo è un fatto oggettivo, il secondo è un tema complesso. In carcere sono detenute persone che non solo hanno commesso un reato, ma - molte - hanno patologie psichiatriche in fase acuta, tossicodipendenza (come conferma il cappellano don Oliviero Cattani, ndr) e sono prive di prospettive. Un problema sociale che deve essere affrontato con altri strumenti: ci sono persone che non dovrebbero stare in carcere che dovrebbe prevalentemente riabilitare non curare. Servono luoghi di cura e assistenza”. Da qui l’idea lanciata dall’avvocato Menzione, e subito accolta dalla direttrice, di organizzare un convegno, un momento di confronto e riflessione a Pisa sui suicidi in carcere. A Pisa sono circa 300 i detenuti, almeno 100 in più della capienza. “A Volterra, 185 detenuti per altrettante celle, dove si possono fare teatro, lavoro e anche le cene galeotte ora ferme per la cucina fuori uso, non ci sono suicidi dal 1976. Ma a Massa, dove si trova un carcere che dona diverse possibilità la settima scorsa si è ucciso un giovane di 25 anni - spiegano i garanti - quanto ha detto la direttrice è verità”. Quella di ieri davanti al Don Bosco fa parte della mobilitazione della Conferenza garanti territoriali. “È necessaria una legge che porti i 63mila detenuti attuali a meno di 50mila con una liberazione anticipata per poi implementare gli istituti intermedi per le tossicodipendenze. Mancano il 111% dei poliziotti penitenziari”. Biella. “Sovraffollamento, carenza di personale e progetti negati” laprovinciadibiella.it, 31 luglio 2025 Venerdì scorso i Giovani democratici piemontesi hanno portato la loro delegazione all’interno della casa circondariale di Biella. Erano presenti Filippo Gambini, responsabile diritti Gd Piemonte, Alessandro Bardone, segretario provinciale biellese Gd, Lorenzo Zanotti ed Emma Barbonaglia. I Giovani democratici hanno invitato ad accompagnarli Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, il senatore Andrea Giorgis, la consigliera regionale Emanuela Verzella e la segretaria provinciale del Pd Elisa Francese. “La visita alla casa circondariale biellese ha rilevato le stesse problematiche che tristemente conosciamo dalle statistiche nazionali - spiegano -. Scopriamo che anche il carcere di Biella oggi è in sovraffollamento, con 474 detenuti rispetto ad una capienza di 395. La maggior parte di questi detenuti risiede poi nel padiglione Mucrone. Il più vecchio, che ha grossi problemi strutturali che rendono le celle e gli spazi insalubri, umidi, freddi in inverno e caldissimi in estate, con bagni comuni esterni alle celle”. “Un altro grave problema riscontrato, e denunciato dallo stesso personale di polizia penitenziaria e dalla direttrice, è la mancanza di personale - proseguono -. Manca circa un terzo del personale necessario. Questo significa un maggior carico di lavoro distribuito su ognuno, oltre ad una maggiore responsabilità rispetto al ruolo: la maggiore carenza riguarda i quadri intermedi”. “La visita al padiglione Mucrone ha mostrato in maniera evidente una situazione di disagio dei detenuti. Sovente in sofferenza psichica e dipendente da sostanze o da psicofarmaci - aggiungono -. La responsabile sanitaria ha sottolineato la mancanza di digitalizzazione delle cartelle cliniche e delle procedure mediche. Pertanto non è possibile quantificare il numero di detenuti a cui vengono somministrati abitualmente psicofarmaci e nemmeno avere una cartella clinica digitalizzata dei detenuti”. Ma non è tutto. “La situazione di sofferenza interna viene ulteriormente acuita dall’impossibilità per la maggior parte dei detenuti di accedere ai programmi di lavoro. A causa della mancanza di budget. Nonostante all’interno ci siano progetti di lavoro anche di eccellenza, come il reparto di sartoria o le coltivazioni ortofrutticole. L’amministrazione non ha budget per inserire e pagare i carcerati che richiedano di accedere al lavoro. Ad esempio su 474 detenuti, solamente 55 lavorano nel reparto di sartoria”. “La mancanza di economie sui progetti di reinserimento al mondo del lavoro è frutto di scelte politiche precise. Nonostante grandi proclami, la sicurezza dei cittadini non si persegue mettendo in carcere più persone possibili, ma attraverso un lavoro di recupero e reinserimento - proseguono. Queste politiche non vengono messe in atto, non vengono finanziate, non vengono progettate. Assistiamo invece alla proliferazione di nuovi reati, che non fanno altro che sovraffollare ulteriormente le carceri”. “La direttrice ha sottolineato come arrivino in carcere sempre più persone, sovente molto giovani. Il sovraffollamento impedisce di fare un percorso magari più protetto a queste persone più giovani, sovente tratte in carcere per reati minori. E questo comporta che il periodo di carcerazione non riabilitativo e che la possibilità di tornare a delinquere una volta in libertà sarà più alta - concludono. Questo è il fallimento di un paese civile”. Bari. “Al carcere minorile detenuti condannati all’ozio involontario” L’Edicola del Sud, 31 luglio 2025 Una denuncia forte e chiara arriva dal direttore dell’Istituto Penitenziario Minorile (Ipm) di Bari, Nicola Petruzzelli: “I detenuti minori sono condannati all’ozio involontario negli Istituti penitenziari per minori (Ipm) con tutte le conseguenze che ne derivano”. Le sue parole sono state pronunciate durante un’audizione alla Commissione di studio e di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata in Puglia, presieduta da Luigi Caroli. Il focus dell’audizione era la formazione professionale rivolta a minori e giovani adulti presi in carico dagli uffici di esecuzione penale esterna e in stato di detenzione. Durante gli interventi, è stato ribadito che gli obiettivi primari all’interno degli IPM dovrebbero essere la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minorenne, per prepararlo adeguatamente alla vita libera attraverso percorsi di inclusione sociale concreti. Tuttavia, il direttore Petruzzelli ha puntato il dito contro “l’assenza di attenzione alla formazione professionale da parte della Regione fin dal 2017”. Una carenza che, a suo dire, mina la possibilità di un reale percorso di recupero per questi giovani. Presente in commissione anche l’assessore alla Formazione e Lavoro, Politiche per il Lavoro, Sebastiano Leo che ha evidenziato come “non servono proposte o misure spot, che non sarebbero risolutive”, e si è impegnato “a fare una ricognizione dei fondi reperibili ed utilizzabili per misure e azioni mirate”. A settembre in commissione la Regione arriverà con una proposta concreta. Caroli, ha sottolineato “che non potevo rimanere insensibile a questo grido di dolore. Oggi rispetto al passato la situazione della criminalità è peggiorata. Nuove forme di criminalità minorile si delineano”. “Speriamo si possano dare le risposte attese al più presto” ha concluso il presidente della Commissione. Pistoia. La denuncia del Garante: “Numeri raddoppiati. Niente medico di notte” di Martina Vacca La Nazione, 31 luglio 2025 L’allarme lanciato dall’avvocato Tommaso Sannini, referente di Pistoia “Ci sono 86 detenuti, ma la capienza è di 43. Condizione critica”. Di suicidi nella casa circondariale di Santa Caterina non ce ne sono stati. Ma è anche vero che non ci sono mai stati così tanti detenuti come ora. Oggi se ne contano 86, il doppio di quelli previsti, se è vero che la capienza del carcere di Pistoia è di 43 persone. A lanciare l’allarme, nella giornata di mobilitazione indetta dalla Conferenza nazionale dei garanti territoriali, è l’avvocato Tommaso Sannini, referente di Pistoia. “La situazione che si è creata negli ultimi mesi è insostenibile - spiega l’avvocato Sannini - ed è il risultato dei trasferimenti che abbiamo avuto da altre carceri negli ultimi mesi. Non avevamo mai toccato questi numeri. Negli ultimi tre anni la media a Pistoia è oscillata tra i 57 e i 61 detenuti. Il picco massimo lo abbiamo toccato la prima volta a febbraio quando siamo arrivati a 75 persone. Poi a giugno c’è stato un ulteriore incremento, e siamo arrivati a 86 persone. Questo si traduce in condizioni di vita inaccettabili. Le celle al piano terra, progettate per ospitare una sola persona, ne accolgono due: lo spazio è talmente ridotto che, se un detenuto desidera stare in piedi, l’altro è costretto a restare disteso sulla branda. Al piano superiore, celle da quattro posti ne ospitano sei, mentre quelle da tre ospitano cinque detenuti. Le condizioni di vivibilità sono al limite della dignità umana. Questa situazione viola l’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, poiché la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito che ciascun detenuto abbia diritto ad avere tre metri quadri calpestabili”. Oltre all’evidente sovraffollamento, c’è da registrare un altro problema, quello della mancata copertura notturna del medico di guardia. Il medico infatti è presente nella struttura fino alle 20, mentre un infermiere copre ancora due ore fino alle 22. Da quel momento, finora c’era un medico reperibile per le emergenze notturne, un’assistenza che ora è stata soppressa. “É recente - continua l’avvocato Sannini - la soppressione della reperibilità notturna del medico di guardia, come segnalato dalla direzione, che lascia l’istituto privo di assistenza sanitaria notturna, costringendo il personale a rivolgersi al 118, con tutte le criticità che questo comporta in un contesto così delicato”. Ma la situazione della Casa circondariale di Pistoia non è delle più gravi, se si considera l’emergenza a cui si è arrivati al livello nazionale. “Sono già 45 le persone detenute che si sono tolte la vita dall’inizio dell’anno, a cui si aggiungono 3 agenti di polizia penitenziaria - spiega Sannini -. L’eccezionale ondata di caldo ha aggravato ulteriormente la situazione in strutture spesso prive di acqua e corrente elettrica. La Conferenza dei garanti territoriali chiede l’applicazione di misure alternative per circa 19.000 detenuti, con pene inferiori ai tre anni e l’approvazione urgente di provvedimenti deflattivi. Tra questi, la proposta Giachetti sulla ‘liberazione anticipata sociale’, che prevede una riduzione semestrale di 75 giorni, rappresenta un primo passo concreto. Il garante di Pistoia e la Conferenza nazionale dei garanti territoriali invitano deputati, senatori, europarlamentari e consiglieri regionali a visitare gli istituti penitenziari, adulti e minorili, per prendere atto delle condizioni di detenzione e della negazione della funzione rieducativa della pena, così come sancito dall’articolo 27 della Costituzione”. Catanzaro. Il Garante dei detenuti Luciano Giacobbe visita gli Istituti penitenziari della città giornaledicalabria.it, 31 luglio 2025 Nel solco della continua attività di monitoraggio, ed in particolar modo nel giorno della mobilitazione promossa dalla Conferenza nazionale dei Garanti delle persone private della libertà, si inserisce la visita odierna dell’avvocato Luciano Giacobbe, garante dei detenuti del Comune di Catanzaro, accompagnato dall’avvocato Vittorio Ranieri, coordinatore regionale del Movimento Forense (e responsabile del Dipartimento carceri del distretto catanzarese), presso la Casa Circondariale “Ugo Caridi” del capoluogo di regione nonché presso l’Istituto penale per minorenni e la locale Comunità ministeriale. Il tutto avviene nel giorno in cui, a livello nazionale, si vuol sensibilizzare l’opinione pubblica, sollecitando la politica, nel suo complesso, ed il Governo a mettere in campo soluzioni immediate e concrete per fronteggiare l’emergenza carceri. E ciò con la scelta di una data non certo casuale. “Infatti, proprio un mese fa - spiega Giacobbe - il presidente della Repubblica, rivolgendosi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), ha espresso un forte richiamo al Governo ed alla Politica in generale poiché le carceri non possono calpestare i diritti dei detenuti e “non devono essere una fabbrica di criminalità”. Il Capo dello Stato ha evidenziato al contempo come le carceri sono sovraffollate anche per l’insufficiente ricorso all’applicazione di pene alternative ed all’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva”. “È necessario - chiosa il garante dei detenuti del Comune di Catanzaro - un provvedimento urgente, senza “se” e senza “ma”, finalizzato alla riduzione del sovraffollamento in nome della dignità, come ad esempio è stato fatto dal Governo Berlusconi nel 2003 e nel 2010?. “La ratio della visita odierna - ha concluso il Garante Giacobbe - è quella di far sentire a chi è impegnato in prima linea e lavora quotidianamente a stretto contatto coi detenuti, vicinanza e sostegno, in attesa che la Politica nazionale apra finalmente gli occhi”. “L’accesso odierno presso gli istituti penitenziari per adulti e minori - sottolinea l’avvocato Vittorio Ranieri -, è stato reso possibile grazie alla grande disponibilità e sensibilità dimostrata dall’amico e collega Luciano Giacobbe, che ringrazio ancora una volta, ed avviene ad un anno esatto dalla mia partecipazione, a livello locale, alla manifestazione “Ferragosto in carcere”. Il tutto si inserisce nell’attività del Dipartimento Carceri del Movimento Forense, impegnato, a livello nazionale, a lavorare in stretta sinergia anche con l’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, con le Camere Penali locali e la Conferenza dei Garanti Territoriali delle persone private della libertà personale”. “In tema di sovraffollamento carcerario - ha aggiunto Ranieri - con tutte le conseguenze che registriamo quotidianamente (dai suicidi ai disordini negli istituti penitenziari), ci troviamo innanzi a due oggettive concause: il “peso” numerico dei cautelati e l’ormai cronica ed acclarata carenza del personale penitenziario. Ecco perché occorre che la Politica, la Buona Politica venga (finalmente) nelle carceri e possa “vedere” ed “ascoltare” per andare oltre il valore simbolico che si dà alla sanzione, alla pena! Ci stiamo allontanando, in maniera preoccupante, dalla funzione rieducativa della pena, che continuando così rischia di diventare una mera petizione di principio”. Genova. Il Comune cerca un nuovo Garante per i diritti dei detenuti genova24.it, 31 luglio 2025 La sindaca Silvia Salis ha diffuso un avviso pubblico urgente finalizzato a reperire un esperto o un’esperta che possa prendere il posto dell’avvocato Stefano Sambugaro, nominato dall’allora sindaco Marco Bucci nel 2022. L’incarico ha una durata di tre anni, anche se l’atto di Salis parla di dimissioni. Il garante si occupa della tutela dei diritti delle persone private della libertà personale residenti nel comune di Genova. La ricerca, come detto, è urgente: il documento invita a inviare la presentazione delle candidature entro il 5 agosto, così da procedere poi con la nomina. Il tema delle carceri è particolarmente delicato e attuale anche a Genova, anche alla luce del sovraffollamento e dei recenti fatti di cronaca che si sono verificati nel carcere di Marassi, dove a giugno è scoppiata una rivolta che ha tenuto il penitenziario sotto scacco per diverse ore a causa della violenza subita da uno dei detenuti. A inizio luglio l’assessora comunale alla Sicurezza, Arianna Viscogliosi ha fatto visita al carcere di Pontedecimo nell’ambito dell’iniziativa promossa dall’associazione “Nessuno Tocchi Caino”, inaugurando così una serie di sopralluoghi negli istituti liguri nell’ambito della campagna “La fine della pena”. “I numeri del tasso di sovraffollamento e dei suicidi, così come quello della carenza di agenti penitenziari rispetto alla pianta organica prevista, sono impietosi. Non meno grave è però il senso di precarietà e di emergenza che si percepisce. Le istituzioni locali hanno il dovere di tenere alta la propria attenzione, e di farsi carico di questa emergenza, sostenendo ogni sforzo volto a migliorare le condizioni detentive e a prevenire nuove tragedie”. Viscogliosi e la collega al Welfare, Cristina Lodi, hanno anche annunciato l’intenzione di istituire la Consulta Carcere-Città, in cui saranno coinvolti sia il garante regionale, Doriano Saracino, sia il nuovo garante comunale. L’Avviso pubblico nel sito del Comune: https://www.comune.genova.it/novita/avvisi/avviso-di-nomina-di-competenza-della-sindaca-del-garante-dei-diritti-delle-persone Bolzano. Quando arriva il Garante dei detenuti? di Elena Mancini salto.bz, 31 luglio 2025 La figura non è mai stata realmente resa operativa in Alto Adige, ma ora ci stanno lavorando sia la Provincia che il Comune di Bolzano, con la possibilità che se ne nominino due, anche se non è ancora chiaro quando. Quanti garanti dei detenuti servono per il carcere di Bolzano? Non è l’inizio di una barzelletta ma una domanda che bisogna porsi visto che sia il comune di Bolzano che la Provincia, che per anni non hanno nominato nessuno, stanno finalmente rendendo operativa questa autorità indipendente, che ha il compito di tutelare e vigilare sui diritti delle persone private della libertà. Entrambe le istituzioni vengono da un lungo torpore sul tema. Il 4 luglio 2024 la Provincia ha istituito la figura del garante dei detenuti in Alto Adige grazie ad un’integrazione della legge sul difensore civico senza però nominare nessuno per ricoprire l’incarico. Per dare un’idea del ritardo dell’Alto Adige sul garante, basti pensare che la vicina Trento lo ha istituito e reso operativo con legge provinciale già nel 2017, quasi otto anni fa. Il Comune di Bolzano in passato ha nominato due volte una referente del Sindaco con funzioni di garante. La prima è stata Franca Berti, scomparsa nel 2021, a cui è seguita la nomina di Elena Dondio da parte del sindaco Renzo Caramaschi che la ha poi rimossa nel 2023. Con queste nomine il Comune non ha però seguito correttamente il regolamento ANCI per la nomina del garante. A riaccendere i riflettori sul tema è stata anche una mozione del 7 luglio della consigliera comunale dei Verdi Chiara Rabini che ha chiesto che sia avviato l’iter di istituzione della figura del Garante delle persone private della libertà personale per il Comune di Bolzano. Per rendere operativa la figura, sarebbe necessario infatti “redigere e presentare al Consiglio comunale un regolamento che disciplini le competenze del Garante, la durata dell’incarico, i requisiti per la selezione, i criteri trasparenti e le modalità per la nomina e decadenza; le modalità organizzative e operative e la redazione di relazioni periodiche da presentare al Consiglio comunale”, cosa proposta da Rabini. È più che favorevole a farlo il sindaco del capoluogo Claudio Corrarati. “Ho fatto un anno e mezzo di formazione in carcere, per cui capisco benissimo l’importanza di una figura come il garante dei diritti dei detenuti, come lo fu la dottoressa Berti, che svolse egregiamente questo ruolo”, dichiara il Sindaco, che vorrebbe proprio istituire la figura con tutti i crismi del caso per renderla “attiva e collegata direttamente alle istituzioni comunali” anche con programmi di reinserimento lavorativo che coinvolgano maggiormente la città. La nomina del Comune non sarebbe però così immediata. “Non abbiamo ancora scelto un nome; sto approfondendo ruolo e requisiti perché si tratta di una figura delicata e complessa da individuare. Il garante deve avere requisiti rigorosi: imparzialità, indipendenza e competenze in diritti umani. Sarà nominato dal Consiglio comunale secondo regolamento, e voglio dare priorità a questa nomina”, spiega Corrarati, che ha in programma nelle prossime settimane un incontro con il direttore del carcere Giangiuseppe Monti proprio su questo tema. Anche sul fronte provinciale le tempistiche non sono rosee. Il presidente del Consiglio provinciale Arnold Schuler ha spiegato a Salto che prima della nomina è necessaria una riorganizzazione a livello burocratico dell’ufficio del difensore civico, a cui farà capo anche il garante dei detenuti. La proposta di legge è già pronta, l’approdo in commissione legislativa è stato posticipato da luglio a settembre, spostando in avanti anche la discussione in aula del Consiglio provinciale. Un’ulteriore questione da chiarire è l’utilità di avere due garanti dei detenuti, uno a livello provinciale ed uno a livello comunale. “Bisogna chiarire i rispettivi ruoli per evitare sovrapposizioni - dichiara Corrarati -. Comune e Provincia devono coordinarsi per evitare duplicazioni e rendere realmente efficace il ruolo del garante, collaborando invece di lavorare separati”. Due garanti sono comunque meglio di nessun garante, secondo Chiara Rabini. “Posto che questa figura è necessaria, averne due potrebbe comunque essere utile. Sono due amministrazioni pubbliche diverse ed ognuno riferirebbe separatamente al Consiglio comunale e a quello provinciale con relazioni separate, aiutando nel gestire le condizioni detentive”. A pagare le conseguenze di questa attesa sono i detenuti della Casa circondariale di Bolzano, che, nonostante le migliorie alla struttura apportate dalla nuova amministrazione penitenziaria, continuano a vivere in condizioni di sovraffollamento, oggi erano 109 i reclusi su 88 posti regolamentati. Pavia. Nuovo piano carceri a Torre del Gallo, previsti altri 120 posti di Luca Simeone La Provincia Pavese, 31 luglio 2025 La capienza passerebbe a 635, intervento da 15 milioni Interessata anche la casa circondariale di Voghera: 48 in più. Nel nuovo piano carceri da 750 milioni appena approvato dal Consiglio dei ministri, che tra ampliamenti e ristrutturazioni dovrebbe portare quasi 10mila posti in più, una parte importante riguarda Pavia e Voghera. A Torre del Gallo si prevede la realizzazione di un nuovo padiglione, destinato a ospitare 120 detenuti. L’impegno economico previsto è di 15 milioni di euro e i tempi per portare a termine i lavori sono stimati tra i 22 e i 34 mesi. Con questi posti aggiuntivi la capienza dovrebbe passare dagli attuali 515 a 635 posti, diminuendo la percentuale di affollamento che in base all’ultima rilevazione di qualche mese fa era del 132,8% (684 i detenuti presenti, di cui 371 stranieri): è di domenica scorsa la notizia dell’ennesimo suicidio nel carcere di Pavia, il tredicesimo dal 2021, ai quali vanno aggiunti i tentativi di togliersi la vita che sono stati sventati dalla polizia penitenziaria. Il Piano prevede anche un intervento nel penitenziario di Voghera, anche in questo caso un ampliamento che dovrebbe portare a realizzare altri 48 posti in strutture modulari, portando la capienza a 389, superiore al numero di detenuti che si trovano attualmente in carcere (352 secondo l’ultima rilevazione). In questo caso il costo stimato è di 4 milioni di euro e per il completamento si prevedono dieci mesi di lavoro. La casa circondariale di Voghera è interessata anche da altri due interventi: per i lavori di manutenzione straordinaria e adeguamento di un primo blocco (3,5 milioni il costo, due anni la stima sulla tempistica) la progettazione esecutiva è stata completata, per la realizzazione e l’adeguamento impianti tecnologici di sicurezza interni ed esterni (800mila euro) la progettazione esecutiva deve essere affidata. A Vigevano, infine, sono previsti interventi di efficientamento energetico (3 milioni il costo). Nel complesso il piano di edilizia carceraria approvato dal governo prevede la realizzazione in penitenziari di tutta Italia di 21 nuove strutture (12 padiglioni e 9 strutture modulari) per un totale di 1.944 posti in più, con una previsione di spesa di 232 milioni di euro. Con le ristrutturazioni e manutenzioni si punta a recuperare altri posti, per un totale al termine del triennio di 9.696 posti aggiuntivi. Gorizia. “A scuola di cittadinanza, un percorso condiviso” units.it, 31 luglio 2025 Chiusa la prima fase del progetto UniTS nella Casa Circondariale di Gorizia. Venerdì 1º agosto si svolgerà nella Casa Circondariale di Gorizia l’incontro finale del primo ciclo di seminari “A scuola di cittadinanza, un percorso condiviso”, nell’ambito del Progetto di impegno pubblico e sociale - Terza missione dell’Università degli Studi di Trieste, ideato e coordinato dalla prof.ssa Elisabetta De Giorgi del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali. Destinatari del progetto sono i detenuti della Casa Circondariale di Gorizia. Obiettivo del progetto è affrontare insieme il tema della legalità e cercare di capire perché il rispetto delle regole sia tanto importante, poiché vivere all’interno di una comunità comporta avere diritti, che spesso ignoriamo, e doveri, che a volte percepiamo solo come obblighi. Nell’ambito di questo primo ciclo di seminari, grazie alla presenza di relatrici e relatori provenienti dal mondo accademico, sono stati affrontati diversi temi: le regole nel loro complesso, chi le fa e perché ci sono, con la prof.ssa Elisabetta De Giorgi; democrazia, partecipazione e diritto di voto, con il prof. Mattia Zulianello; eguaglianza e diritti sociali, con la prof.ssa Chiara Bergonzini; diritto del lavoro e al lavoro, con la prof.ssa Roberta Nunin. Punto di partenza di ogni incontro è stato il binomio diritti/doveri, per riscontrare, nelle esperienze concrete dei partecipanti, la rilevanza delle norme giuridiche nella vita quotidiana. Il riscontro ricevuto da parte dei partecipanti è stato estremamente positivo. A dimostrazione dell’interesse suscitato dai temi proposti e dalla possibilità di poterne discutere insieme ad esperte ed esperti, la presenza è rimasta costante nel tempo nonostante la concomitanza, a volte, con altri corsi di natura più pratica, che nella Casa Circondariale di Gorizia, un modello virtuoso di gestione e trattamento dei detenuti, non mancano. È proprio con una menzione speciale alla Casa Circondariale di Gorizia che si chiude questa prima fase della collaborazione dell’Università di Trieste con un istituto di pena. È infatti grazie all’Amministrazione penitenziaria, e soprattutto alla Direttrice della Casa Circondariale, dott.ssa Caterina Leva, e alla dott.ssa Margherita Venturoli, responsabile del settore educativo, che è stato possibile cominciare questo progetto prezioso che continuerà in autunno con un altro ciclo di seminari i cui temi saranno decisi proprio insieme ai detenuti. Un riconoscimento particolare va, infine, a Massimo Bressan, volontario infaticabile presso la Casa Circondariale, il cui supporto è stato fondamentale lungo tutto il percorso. In un periodo tanto drammatico per la situazione delle carceri italiane, è significativo ricordare le parole del Presidente Sergio Mattarella in occasione dell’incontro al Quirinale con il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e una rappresentanza della polizia penitenziaria: “I luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati; in palestra di addestramento al crimine; né in luoghi senza speranza, ma devono essere effettivamente rivolti al recupero di chi ha sbagliato. Ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività, oltre a essere l’obiettivo di un impegno notoriamente, dichiaratamente costituzionale”. Anche l’università può e deve avere un ruolo nel raggiungimento di questo obiettivo. Como. Tra i libri del carcere Bassone: cosa leggono i detenuti? di Martina Toppi La Provincia di Como, 31 luglio 2025 Beatrice Rumi, coordinatrice del sistema bibliotecario di Como, lavora anche alla biblioteca del Bassone. Un luogo di speranza, i cui titoli raccontano le aspirazioni di chi cerca nelle storie spunti di crescita personale. Quando il furgone che trasporta i libri da una biblioteca all’altra della rete provinciale di Como, passa anche dal carcere Bassone. Lì da otto anni Beatrice Rumi, coordinatrice del sistema bibliotecario intercomunale di Como, ogni venerdì trascorre il suo tempo tra le pagine e i detenuti. Con 500 libri prestati, nel 2024, e quasi 300 in questa prima metà del 2025, per Rumi è tempo di fare il bilancio di un’operazione - quella di far sopravvivere una biblioteca da 6.500 libri in una casa circondariale - che ha provato a cambiare l’esperienza quotidiana dei detenuti all’interno del carcere comasco. La biblioteca in realtà nel carcere di Como esiste da prima dell’arrivo di Rumi, ovvero dal 2002 quando la costituzione del sistema bibliotecario intercomunale di Como ha coinvolto l’ente carcerario su indicazione della Regione. Ma se inizialmente il servizio era reso possibile grazie al tempo messo a disposizione da una volontaria, è solo con l’accordo stretto tra il Comune di Como - ente capofila del sistema bibliotecario - e il carcere che il servizio è stavo avviato a pieno regime. “In questo un merito importantissimo va riconosciuto all’attuale amministrazione, che ha firmato per una collaborazione quinquennale, invece che triennale, che supera anche la durata del mandato stesso della giunta, a dimostrazione di quanto tutto questo stia a cuore” specifica Rumi. “Tutto questo”, come lo definisce la bibliotecaria, è quello che avviene dietro allo scambio tra un libro richiesto e uno consigliato, tra uno restituito e uno consegnato, in un luogo dove le storie diventano l’unico strumento di evasione consentito. Dal carcere e da sé stessi. Tre biblioteche, una per la sezione femminile, una per la sezione maschile e una per chi opera all’interno della casa circondariale. Ma poi dal cuore del Bassone, grazie ai libri, i detenuti possono accedere a due milioni di copie distribuite in tutta la rete bibliotecaria intercomunale di Como. “E questo significa portare un po’ di normalità dentro al carcere - commenta Rumi - evitando l’isolamento sociale e dando un senso di appartenenza al territorio”. Che è poi una delle linee d’indirizzo tramite cui la Regione ha voluto che l’ente carcerario facesse parte del sistema bibliotecario. “L’altro motivo è l’accesso al sapere, in un luogo in cui il livello d’istruzione è molto basso. I libri diventano allora un’occasione per migliorarsi, formarsi, istruirsi”. I servizi bibliotecari nelle carceri italiane sono un pilastro per l’aspetto rieducativo della pena, ma la loro effettiva attuazione e qualità dipendono molto dalle risorse disponibili, dalle collaborazioni e dall’impegno delle singole realtà. Il dibattito e i progetti in corso evidenziano una crescente attenzione verso il miglioramento di questi servizi essenziali. I titoli che la bibliotecaria presta in carcere ci dicono molto delle persone che lo abitano. Il manuale della patente, per esempio, la fa da padrone, così come i manuali per personale oss o asa. Un’aspirazione per il futuro? “A volte - risponde Rumi - in altri casi invece è solo il desiderio di ricordare il lavoro che si faceva prima di entrare in carcere. Questo accade soprattutto con le detenute donne”. I titoli più richiesti in carcere sono quelli legati al benessere psicologico e spirituale, dai libri auto motivazionali a quelli che aiutano a migliorare le relazioni tra genitori e figli (che sono tra i soggetti più fragili che accedono al carcere per incontrare la madre o il padre). “Le richieste naturalmente cambiano anche in base alla sezione e al periodo. Ultimamente al femminile l’età media delle detenute si è abbassata vertiginosamente e mi trovo a dare in prestito molti libri young adult”. E ancora romanzi d’amore o raccolte di poesia che per Rumi funzionano da “esche”. “Si parte così, per avvicinare alla lettura, poi provo a far riflettere attraverso i libri che consiglio: suggerisco letture che parlano di uomini manipolatori e donne che cercando l’indipendenza, per esempio, se ritengo possa essere utile. Non sempre però è facile dare consigli di questo genere e io mi affido sempre agli educatori e agli psicologi in carcere”. Dai libri non nascono solo le storie lette nelle celle sempre sovraffollate del Bassone. Nascono anche le storie che i detenuti scambiano con Rumi stessa. “La biblioteca diventa anche un luogo di relazioni, un salottino dove scambiarsi idee e creare la base del rapporto umano che il carcere dovrebbe provare a ricostruire ma che non sempre è in grado di fare - racconta - Questo dipende molto anche da chi tra i detenuti ha la referenza della biblioteca: se è una personalità leader, che con il passa parola attira gli altri, il servizio decolla. Al femminile ultimamente è successo così e sta per superare il maschile, che invece storicamente è sempre stata la sezione con più lettori”. E poi ancora dizionari, manualistica generale, corsi di lingua, libri di yoga o di origami a seconda dei corsi proposti dai volontari all’interno del Bassone in un determinato periodo. E i classici? “Nella sezione maschile ho osservato una notevole evoluzione nella qualità dei titoli letti - racconta Rumi - Nei primi anni mi chiedevano solo crime, ora invece presto molti classici. L’emulazione fa tanto: un detenuto ne vede un altro leggere Tolstoj e Dostoevskij e mi chiede il romanzo, allora magari io parto da titoli più semplici degli stessi autori e vedo che ogni tanto tra loro scatta anche il confronto. Quello che conta per loro però è che siano sempre storie di vita vissuta”. Ovvero storie dove il dolore non manca e al lettore-detenuto sia possibile identificarsi. Non sempre è semplice: “Ci sarebbero, credo, altri lettori forti per esempio tra chi parla arabo, come i detenuti del Maghreb, ma per loro mancano a catalogo i testi in lingua, che invece sono più presenti per altre nazionalità, come per chi è originario dell’est Europa”. Catania. Gli autori di reato con disagio psichico a Viagrande diventano “Tesori” di Gilda Sciortino vita.it, 31 luglio 2025 A Viagrande, in provincia di Catania, in un bene confiscato alla mafia si realizzano progetti sperimentali in collaborazione con l’Asp legati ai “budget di salute”. Il cohousing, la lavoro e la società sono i tre assi. Un lavoro sinergico tra più cooperative, a cominciare dalla capofila Team a cui è stata assegnata la villa. Si chiama “Centro Tesori” non a caso, il centro d’eccellenza per i progetti di inclusione di persone fragili e di legalità che sorge a Viagrande, in provincia di Catania, in un bene confiscato alla mafia nel 1986 e affidato nel 2016 dal Consorzio Etneo per la legalità e lo sviluppo alla cooperativa Team. Una realtà che si è sempre caratterizzata per l’accoglienza e l’accompagnamento di persone con problemi psichici (con la pandemia è stata anche una comunità Covid per disabili psichici, funzionando per almeno un anno in tale modalità) e che in anni più recenti ha portato avanti progetti sperimentali legati al “budget di salute” e al co-housing, realizzati con l’Asp-Azienda Pubblica di Servizi alla Persona. Qui si realizzano esempi lungimiranti di integrazione tra il sistema del welfare e quello sanitario, con una particolare declinazione ai temi della legalità. All’interno della struttura, infatti, sono stati avviati percorsi di capacitazione, in cogestione con il Dipartimento di salute mentale dell’Asp di Catania, per soggetti autori di reato. “Lo abbiamo ribattezzato Tesori”, afferma Salvatore Litrico, presidente della cooperativa Team, “sia per un richiamo ai tesori, che chiaramente per noi sono le persone più fragili e quelle con disagio psichico di cui ci occupiamo, sia perché facciamo interventi di socio-riabilitazione. Da qui Tesori, sintesi di Team socio-riabilitativo”. Il centro si trova in una villa a quattro piani nel territorio di Monterosso, frazione di Viagrande, per anni abbandonata alle intemperie, con notevoli conseguenze dal punto di vista strutturale. A rincarare la dose anche il terremoto di Santo Stefano del 2019, che ha costretto ad un periodo di breve inagibilità della struttura: le realtà accolte al suo interno hanno dovuto provvedere a spese proprie per renderla nuovamente agibile e utilizzabile. “Parliamo di iniziative relative a progetti terapeutici individualizzati per persone con disabilità psichica, di età compresa tra i 30 e i 40 anni, che accompagniamo in percorsi di autonomia. Ne abbiamo gestiti otto”, spiega Litrico, “e siamo riusciti a fare un contratto di lavoro a cinque di loro. Il progetto prevede un’équipe, dei laboratori, l’addestramento al lavoro, tutti interventi necessari a reinserire queste persone nel circuito della società civile. Abbiamo anche un progetto pilota con l’Asp di Catania riguardante la capacitazione di soggetti autori di reato o disabili psichici, che vengono accolti nel cohousing. La struttura è stata suddivisa e abbiamo creato un gruppo appartamento dove ci sono tre persone che in questo momento convivono, si autogesiscono, ovviamente accompagnati da educatori, animatori, assistenti, facendo un percorso di reinserimento nella società che chiaramente è condizionato anche alla loro pena”. “Parliamo di reati relativi a spaccio, furti, che permettono anche delle misure detentive non coercitive. È chiaro che ci sono delle dinamiche specifiche che si attivano”, dice ancora il presidente della cooperativa Team, “per cui anche un soggetto psichico che commette un reato è giudicato e subisce delle pene. Consideriamo che in Sicilia, una volta chiusi gli ex ospedali giudiziari psichiatrici, il sistema delle Rems è stato attivato solo sulla carta, perché di fatto ce ne sono soltanto due in tutta la regione, una a Catania e una a Messina, tra le altre cose sempre piene. L’esigenza di garantire a queste persone un’accoglienza cresce a vista d’occhio, demandando questo compito alle Cta e alle comunità alloggio”. “È il primo anno che il Dipartimento di Salute Mentale ci affida questo servizio”, spiega Oriana Gagliano, coordinatrice del cohousing di Viagrande per conto della cooperativa Mosaico, tra i partner del progetto. “Ovviamente l’ingresso dei nostri ospiti non avviene contemporaneamente. Si deve fare un lavoro tra gli utenti perché inevitabilmente ognuno ha le proprie esigenze. Al momento, per esempio, due di loro condividono una stanza doppia, mentre l’altro occupa una singola, ma è prevista per tutti la rotazione delle camere per non fare alcuna particolarità. Dobbiamo stare attenti a mantenere un equilibrio. Poi hanno i turni per la pulizia, quelli per cucinare, i turni per il giardinaggio, per la cura dell’orto che hanno creato loro stessi”. “I nostri ospiti sono soggetti che hanno tutti quanti commesso reati penali”, tiene a precisare Gagliano, “ma hanno anche riconosciuta una patologia di tipo psichiatrico. L’obiettivo del progetto, che si chiama “attività di capacitazione per soggetti di autori di reato”, è molto specifico ed è proprio quello di intervenire su tre assi, che sono appunto quello dell’abitare, da cui nasce il cohousing, quello del lavoro, che riguarda i percorsi di formazione o di work experience oppure i tirocini di inclusione sociale, mentre il terzo e ultimo asse è quello della socialità e attiene a tutte quelle attività sull’inclusione, riguardanti gli interessi di ciascuno di loro. Le criticità sono tante, anche rispetto alla difficoltà di presentare l’utente alle aziende, perché a volte il pregiudizio e la resistenza verso queste persone sono molto forti. Il nostro ruolo è tentare di fare da ponte tra il loro mondo e quello del lavoro”. “Un modello a bassa soglia, tarato sui piccoli numeri serve a garantire loro la piena autonomia. Chiaramente sono sempre sottoposti ai provvedimenti del caso perché vengono visitati dai Carabinieri, avendo delle limitazioni. Nel nostro cohousing”, specifica il presidente della cooperativa capofila del progetto, “siamo assistiti da un avvocato che cura il rapporto con il Tribunale di sorveglianza. La cosa bella e simbolica è che tutto questo nasce e si svolge in un bene confiscato alla mafia. Il tema della legalità si unisce a quello della psichiatria, cercando di dare nuovi stimoli e offrire nuove soluzioni. Diciamo che negli anni si è riusciti a far sì che il centro non sia percepito come un progetto della cooperativa x o della cooperativa y: è come se vivesse una propria vita, fatta da tutti e di nessuno, che poi è alla fine la cosa bella del lavorare in un bene confiscato. Non stiamo, infatti, gestendo una cosa nostra, ma qualcosa che appartiene a tutti, riuscendo a dare un’identità all’immobile, a prescindere da noi”. “Chiaramente noi riempiamo tutto con la nostra visione etica”, conclude Litrico, “ma anche con la nostra professionalità e le nostre reti. Siamo, infatti, supportati da un’altra decina di cooperative, abbiamo accanto alcuni imprenditori e le istituzioni. Si è creata una sorta di piccola comunità nella comunità. Per fare un esempio, quando noi abbiamo bisogno di piantare degli alberi, il vivaio vicino ce li regala. Lo stesso fa la farmacia con gli integratori, oppure l’ascensorista ogni tanto passa di sua spontanea volontà a controllare l’ascensore per fare in modo che i ragazzi possano utilizzarlo in totale sicurezza. Ci sentiamo una famiglia e questo clima si respira”. Gorizia. Lettere Mediterranee a Gradisca d’Isonzo: salute mentale e situazione nelle carceri instart.info, 31 luglio 2025 Continua Onde Mediterranee, con gli appuntamenti di approfondimento di “Lettere Mediterranee”. Mercoledì 30 luglio si parla diritti in relazione alla salute mentale, di carceri e Cpr. Con Piero Pieri, Massimo Cirri, Matteo Caccia e altri ospiti. In attesa della ricca proposta di Onde Musica, (dal 31 luglio al 3 agosto, al Castello di Gradisca gli Offlaga Disco Pax, Meg e La Rappresentante di Lista, Anna Castiglia e Pojana Rock e Massimo Coppola con Roberta Sammarelli), continuano le proposte di Lettere Mediterranee. Mercoledì 30 luglio, alle 19.00, si torna al Nuovo Teatro Comunale per la proiezione del documentario Corrispondenze immaginarie, una produzione Rai Fvg curata da Piero Pieri e Alessandro Spanghero. A commentare il documentario sono gli stessi autori con Mariangela Capossela (da remoto), che ha dato vita all’omonimo progetto di arte pubblica partecipata che ha riportato alla luce le lettere scritte, e mai spedite, dai pazienti degli ospedali psichiatrici dalla fine dell’Ottocento alla rivoluzione basagliana del 1978, periodo in cui ogni comunicazione tra degenti e mondo esterno era per prassi negata. Attraverso l’organizzazione di Scrittoi Pubblici, il progetto ha coinvolto le comunità: le lettere, infatti, sono state trascritte a mano e inviate a tutti coloro che hanno espresso il desiderio di riceverle e quindi rispondere. Alle 21.00 la riflessione sui luoghi di reclusione prosegue con il talk “Dai diritti alle pene: manicomi, CPR, carceri”. L’incontro - sotto lo sguardo di Marco Cavallo, l’icona dei diritti negati, che soggiorna a Gradisca per tutto il Festival - partirà da un primo dialogo tra Massimo Cirri, autore e conduttore radiofonico e psicologo, e Matteo Caccia, scrittore e autore di programmi radiofonici e podcast di successo: sono loro gli autori del podcast Basaglia e i suoi, “un racconto sentimentale sulla fabbrica del cambiamento della psichiatria italiana” (che raccoglie le testimonianze di quanti, fra Gorizia e Trieste, hanno partecipato alla sua rivoluzione nella cura delle malattie mentali). Da qui si passerà a raccontare di altri tipi di detenzione e privazione della libertà: quelli dei CPR e delle carceri. A intersecarsi in questo caso le voci dell’avvocato Andrea Sandra, Garante a Udine dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale e di Gianfranco Schiavone, Presidente di ICS (Consorzio italiano di solidarietà) - Ufficio Rifugiati Onlus di Trieste. Dai “matti” liberati da Basaglia, infatti, la riflessione si allarga alle condizioni di vita, troppo spesso terribili e ignorate, di carceri e CPR. L’incontro rappresenta, inoltre, l’occasione per annunciare il prossimo viaggio di Marco Cavallo, che partirà proprio da Gradisca per accompagnare l’apertura delle porte dei CPR di tutta la nazione. A chiudere Lettere Mediterranee e la sua esplorazione sul tema dei diritti, giovedì 31 luglio alle 19.30, nel Giardino del Castello, l’incontro “Riflesisoni sul pianeta” con Ferdinando Cotugno, giornalista e scrittore specializzato in ecologia e crisi climatica e Sara Segantin, scrittrice naturalista, comunicatrice scientifica e attivista ambientale, tra i fondatori di Friday for Future Italia (in collaborazione con il Festival dell’Acqua di Staranzano). Milano. Una scrittrice a San Vittore e la voglia di cambiare con le parole dei bambini di Alessandra Negri Corriere della Sera, 31 luglio 2025 L’esperienza di una autrice di racconti per l’infanzia e l’incontro con i pazienti del reparto La Nave nel carcere milanese, dopo la lettura di un suo testo da parte loro. Qualche giorno fai sono entrata alla Nave, reparto di trattamento avanzato della Casa Circondariale di San Vittore a Milano. Il reparto è gestito da una équipe della Azienda socio-sanitaria territoriale Santi Paolo e Carlo. Ho incontrato i suoi 60 pazienti-detenuti per rispondere alle loro domande su Almo che avevano letto nei giorni precedenti. Faccio fatica a tradurre a parole l’accoglienza, il calore e la profondissima umanità delle persone che ho incontrato. Faccio fatica a raccontare l’emozione di parlare con loro del peso bloccante delle aspettative e del pre-giudizio. Faccio fatica a esprimere l’emozione di aver visto molti sguardi brillare nel parlare loro del potere che ognuno di noi ha di trasformare la sua vita e scegliere, in ogni momento, di iniziare un cammino di gioia. La Nave è un luogo prezioso e unico di accudimento e trasformazione: aver potuto contribuire, anche in minima parte, a portare un messaggio di responsabilità personale e speranza è stato un privilegio ed un onore, che conserverò sempre vicino al cuore. Napoli. Carceri, quasi pronta la “Cappella Sistina di Nisida” di Roberta Barbi vaticannews.va, 31 luglio 2025 Stanno per concludersi i lavori del grande progetto artistico che la Fondazione pontificia Scholas Occurrentes, in collaborazione con la direzione del carcere e l’Accademia delle Belle Arti di Napoli ha condotto nell’istituto di pena minorile di Nisida. L’educatore che li ha seguiti: “Un modo per far vivere dentro la speranza del Giubileo”. Il titolo dell’opera viene da un’idea di Papa Francesco, che nell’ammirare un murale straordinariamente lungo realizzato dai ragazzi di Scholas - la Fondazione nata in Argentina proprio quando Jorge Mario Bergoglio era arcivescovo di Buenos Aires - per la Giornata Mondiale della Gioventù in Portogallo nel 2023, lo ribattezzò la “Cappella Sistina dei giovani”. Adesso anche a Nisida ci sarà una “Cappella Sistina” personale, realizzata dai giovani detenuti con 50 studenti dell’Accademia: “Abbiamo iniziato a dicembre e i lavori stanno per concludersi - racconta ai media vaticani Pablo Kuczynski, l’educatore della Fondazione che ha seguito il progetto - poi speriamo di poter fare un’inaugurazione che possa essere aperta alla comunità perché questo progetto è stato pensato dall’inizio per essere un incontro tra giovani diversi della stessa città”. L’opera occupa un’intera sala molto grande: tutte e quattro le mura e il soffitto a volta, tanto che per essere realizzata è stato necessario un ponteggio. “Vi sono dipinti molti elementi caratteristici di Napoli - prosegue Kuczynski - ad esempio Partenope, la sirena che si dice abbia fondato la città, poi una coppia che lotta nel mare in tempesta aiutandosi reciprocamente, a ricordare che nessuno si salva da solo; c’è anche una parte sulla propria infanzia in cui hanno trovato spazio simboli delle proprie paure, dei propri fantasmi, e perfino l’immagine di un pavimento che si apre da cui fuoriescono orologi, a simboleggiare che un giorno nuovo può sempre arrivare”. In una parete particolarmente umida, inoltre, è stato sistemato un mosaico le cui tessere sono “faccine” di ceramica realizzate dagli allievi di alcune scuole non solo di Napoli, ma anche di Benevento e di Roma che hanno aderito, e che raffigurano persone care, ma anche passioni e sogni: “È stato un modo per far avvicinare i giovani che vivono fuori alla realtà di quelli che vivono dentro - afferma l’educatore - l’arte è un luogo d’incontro tra mondi diversi, capace di rompere gli stigmi sociali e culturali”. Tanti giovani, quindi, per un progetto che sta vedendo la luce proprio nei giorni in cui si sta per celebrare il Giubileo dei Giovani, ma come lo si vive in carcere? “I ragazzi di Nisida lo vivono in modo molto personale - testimonia ancora Kuczynski - con quest’opera abbiamo cercato anche di far riscoprire loro la speranza, che è il filo conduttore di questo Anno Santo. La speranza di poter creare e di vedere realizzato qualcosa di proprio in un contesto come il carcere, in cui la società non crede e che tiene al margine, credo sia molto significativo ed è un messaggio che anche ai ragazzi è arrivato forte e chiaro”. Forte e chiaro per tutti, anche i giovani che per la prima volta sono entrati in carcere, come gli studenti delle Belle Arti: “Molti di loro hanno scoperto in sé una grande sensibilità e apertura all’altro, tanto che hanno deciso di continuare come volontari qui anche quando il progetto sarà finito”, ha concluso l’educatore. “Granelli di sabbia”, raccolta di poesie e racconti dalla colonia penale di Is Arenas catarticaedizioni.com, 31 luglio 2025 “Granelli di sabbia” (Catartica Edizioni, 2025), è una raccolta di poesie e racconti nati all’interno della colonia penale di Is Arenas, durante un laboratorio di scrittura immersiva condotto da Davide Forte. Qualche giorno fa è uscita una recensione sulle nostre pagine (Granelli di sabbia di Davide Forte - Scrivere per ricomporsi), e oggi abbiamo voluto scambiare due chiacchiere proprio con l’autore e ideatore di questo progetto. 1) Il laboratorio da cui nasce Granelli di sabbia si è svolto nella colonia penale di Is Arenas. Che impatto ha avuto sui detenuti che vi hanno preso parte? Quali emozioni o difficoltà sono emerse più spesso durante il laboratorio? È molto difficile pensare a un carcere come il luogo ideale dove sviluppare un laboratorio di scrittura, soprattutto se si pensa che a scrivere siano proprio i detenuti, mettendosi in gioco direttamente, con carta e penna. Così il laboratorio, per non spaventarli, è stato pensato nel modo più semplice possibile. Si è partiti con una scrittura collettiva, costruita insieme, ognuno con un proprio concetto su un tema. Per esempio ho chiesto loro, visto che eravamo vicinissimi al mare, ma dalla nostra aula non lo si poteva vedere, di abbinare una frase o anche solo un concetto alla parola mare, magari attraverso il ricordo e le emozioni che in esso avevano vissuto. Una volta raccolte le loro impressioni sono state montate in aula sotto forma di un componimento poetico. Alla lettura che ne è seguita i loro occhi si sono illuminati, si sono scambiati pacche sulle spalle e sguardi di approvazione, hanno riconosciuto le loro frasi, le loro emozioni e si sono immedesimati in quelle che gli altri avevano condiviso. Da quel momento, acquisita la consapevolezza di poter fare qualcosa di bello, è diventato tutto più facile. 2) Hai parlato di “scrittura immersiva”. In cosa consiste esattamente questo approccio? Come si struttura un esercizio all’interno del laboratorio? Certe volte facevo delle letture, solo per introdurli su alcuni temi e stimolare le loro riflessioni, poi però erano completamente immersi nella scrittura, perché la praticavano veramente, liberi di giocare con le parole. Ecco la parola giusta è proprio il gioco, non tanto l’esercizio. Per esempio ho portato con me una valigetta piena di dadi e ognuno di essi aveva diverse figure ai lati; ogni detenuto ne sceglieva uno e lo lanciava, da quelle immagini poi scaturivano delle suggestioni che scaricavano sul quaderno. In un’altra occasione ho fatto loro aprire un libro a caso, mettendo il dito su una parola a caso e, dopo averne trovate una decina, ho detto loro di scrivere qualcosa intrecciandone quante più possibile nella costruzione di un racconto breve o di una poesia. Un’altra volta li ho stimolati a utilizzare la loro penna come fosse una macchina del tempo, che li potesse riportare a un evento lieto o triste della loro vita. La parte più importante però l’ha fatta la loro voglia di comunicare, che in qualche modo veniva sì filtrata e stimolata dai giochi, ma manteneva l’intensità e la verità del loro sentire. 3) Nel libro compaiono diversi proverbi senegalesi, che creano una connessione interculturale profonda. Com’è nata questa scelta? È il giusto riconoscimento a Ibrahim, un ragazzo senegalese che ha scritto tanto, ma non è l’unico esempio. Il libro è una connessione interculturale costante. Hanno preso parte al laboratorio ragazzi che venivano da Ferrara, da Napoli, da Salerno, da Catania e da Sanremo, solo per citare alcune città italiane. Ma c’era chi come Ibrahim veniva dal Senegal, chi dalla Siria, dalla Tunisia e da altri paesi dell’Africa che si affacciano sul Mediterraneo. Non tutti poi sapevano scrivere in italiano, quindi altri si sono prodigati per tradurre quanto scritto dai propri compagni di corso. C’è stata tanta collaborazione e contaminazione, e tutto questo ha dato maggiore ricchezza agli elaborati, anche nei componimenti collettivi. C’è stato poi un passaparola tra di loro, nelle loro celle si parlava e si diceva che si stava facendo qualcosa di bello durante il corso, così pian piano il numero dei partecipanti al laboratorio è aumentato. 4) “La prospettiva di un comandante”, uno dei testi più intensi del libro, tocca temi complessi come la fuga da un contesto di violenza, l’immigrazione, la speranza e sopraffazione, ed è diventato anche una canzone grazie alla sinergia con Andrea Serpi. Com’è nata l’idea di far dialogare parole e musica? Andrea è un amico di vecchia data, era stato invitato a partecipare alla festa della musica all’interno del carcere a fine giugno del 2024. In quel periodo il laboratorio si era appena concluso, ma per l’occasione dei detenuti avevano letto alcune delle poesie, che hanno poi fatto parte della raccolta, mentre io li avevo accompagnati con la chitarra. Qualche settimana dopo mi aveva inviato un giro di accordi, chiedendomi di cucirci addosso un testo sulla mia esperienza fatta là dentro. Così questo racconto (un misto tra prosa e poesia), una delle poche cose scritte da me all’interno della raccolta, parla di uno di quei viaggi della speranza, ma anche della disperazione, come ce ne sono tanti purtroppo. La particolarità sta forse in questo timone, simbolo del potere, che passa di mano in mano. E anche a noi può capitare di tenerlo, come il protagonista di questa storia, e di essere artefici di un naufragio, di una catastrofe, come è accaduto a molti dei detenuti che ho conosciuto là dentro. Ed è quando si tocca il fondo che o ci si lascia andare, o si fa di tutto per tornare a galla. Poi, cosa ancora più importante, quando finalmente si riesce a risalire in superficie, fa male essere visti soltanto come gli autori di un disastro. La speranza, invece, è quella di avere un’altra possibilità, un altro sguardo, di essere visti da un’altra “prospettiva”. Insomma nessuno di noi vorrebbe essere ricordato solo per ciò che di sbagliato ha fatto, ma anche per ciò che di bello è capace di fare. Questo sguardo credo di averlo avuto nei loro confronti ed è forse questa la cosa più importante che io ho fatto per loro e, probabilmente, la cosa più bella che loro mi hanno restituito. 5) Il libro è già stato presentato in varie occasioni, alcune con la partecipazione di detenuti in permesso. Che tipo di accoglienza hanno ricevuto fuori dal carcere? C’è sempre tanta curiosità quando si viene a sapere che sono loro gli autori, magari ci si aspetta che raccontino delle loro disavventure e in qualche modo questo accade, ma la poesia è un modo di togliersi la maschera continuando a indossarla. In effetti parlano della loro vita, della loro storia, ma ci se rende conto che con queste storie abbiamo tante cose in comune, come fossero storie che appartengono al collettivo. Ed è forse per questo che ho visto tanta commozione durante le presentazioni. In un’occasione abbiamo presentato il libro in un istituto superiore a Carbonia. Davanti a sette quinte classi, in aula magna gremita, abbiamo parlato per due ore con i ragazzi che sono rimasti in assoluto silenzio, tranne poi travolgerci di domande in conclusione, a testimonianza dell’attenzione per i temi trattati. 6) Quanto contano iniziative come questa per chi sta scontando una pena detentiva? Che tipo di ricadute hai osservato sui partecipanti? Riescono davvero, in qualche modo, a portare dentro il carcere un messaggio di speranza? Il lavoro dell’intera area educativa ha sicuramente un’importanza enorme e questi laboratori sono un valore aggiunto che, forse, dovrebbero avere rilevanza anche fuori da un contesto detentivo, ma lì dentro evidentemente si ha più sete. Una delle cose più belle me l’ha detta un detenuto dopo la prima presentazione a Villacidro, voleva una mia dedica per i suoi figli, proprio lui che all’interno della raccolta aveva scritto tantissimo. “Prima di iniziare questa esperienza ero chiuso dentro il mio mondo triste”, mi ha detto, “poi mi sono riscoperto a fare delle cose che mi fanno stare bene e ad avere una nuova speranza per il cammino che ancora mi attende”. 7) Dal punto di vista umano, cosa ti ha lasciato questa esperienza? Sarò sempre grato all’area trattamentale e alla direzione del carcere per avermi dato la possibilità di condurre questo laboratorio, lo ritengo un dono prezioso nel mio percorso senza fine di crescita personale. In particolare i detenuti mi hanno fatto riscoprire l’importanza delle piccole cose, quelle che a loro sono venute a mancare e che molto spesso noi diamo per scontate. Ciò che emerge là dentro è la ricerca della normalità e dell’essenziale, non del sensazionale, come invece spesso accade nella società odierna. Ma avrei una lista lunghissima di cose da dire al riguardo, difficile sgomitolarla nel breve spazio di un’intervista. 8) Hai intenzione di riproporre questo laboratorio in futuro, magari ancora all’interno del carcere di Is Arenas o in altri contesti simili? Sono arrivate tante richieste, nei contesti più diversi. Sto programmando un corso di scrittura collettiva con una consulta degli anziani, mi piacerebbe ricostruire insieme a loro testimonianze di storie di comunità. Penso che ognuno di noi in fondo sia un filo che esce fuori da una trama molto complessa e affascinante, e loro sono la testimonianza più autentica di queste trame. Sono molto fiducioso, ne verrà fuori sicuramente un bel lavoro. Ci sono alcune proposte, poi, che vengono da un centro di salute mentale e ancora dal carcere. Insomma la speranza è di poter continuare a coltivare questa che rimane la mia più grande passione: la scrittura. Ti salutiamo ricordando ai nostri lettori che il progetto si chiude con un gesto concreto: i diritti d’autore saranno devoluti a un’associazione che opera all’interno del carcere. Volontariato in Italia, numeri in calo dopo il Covid. Ma aumentano quelli impegnati su più fronti di Giulio Sensi Corriere della Sera, 31 luglio 2025 Il calo generale era previsto per via della pandemia. Il Nord Est si conferma l’area più attiva. Cresce il numero degli italiani che sceglie forme organizzate e calano i giovani, ma quelli che si impegnano aumentano il tempo dedicato. Resiste alle crisi, cala ma non si arrende e continua a mettersi in gioco per gli altri e l’ambiente. È l’Italia del volontariato che è stata misurata in modo approfondito nel 2023 dall’Istat. I dati raccolti su 25.000 famiglie sono stati diffusi oggi e fotografano una certa diminuzione dei volontari attivi rispetto a dieci anni prima: sono 3,6% in meno rispetto al 2013, un calo che gli addetti ai lavori temevano potesse essere maggiore viste le crisi vissute in questi anni e la pandemia che ha ridisegnato molte forme di impegno. 4,7 milioni di persone - il 9,1% della popolazione di 15 anni e più - continuano a svolgere volontariato in forma organizzata o con aiuti diretti, oppure ancora mettendo insieme le due differenti forme: sono raddoppiati, arrivando al milione, coloro che uniscono l’impegno in associazione con quello diretto e fuori dalle organizzazioni. Stiamo parlando di persone che hanno svolto volontariato nell’ultimo mese precedente alla rilevazione. “Abbiamo registrato un calo prevedibile e già riportano in altre indagini sul volontariato, ma non un tracollo - spiega Tania Cappadozzi, responsabile della ricerca per Istat - è una diminuzione che non stravolge quello che avevamo osservato nel 2013. Tutte le tendenze, come il titolo di studio dei volontari e le aree geografiche sono rimaste simili”. I dati confermano un divario territoriale: al nord l’8,2% partecipa ad attività promosse da organizzazioni e il 6,0% offre aiuti diretti. L’area più attiva rimane il nord-est (9,1% e 6,2%), mentre al Centro le attività promosse da organizzazioni è al 5,8% con gli aiuti diretti al 4,9% e nel Mezzogiorno il 3,6% e 3,4%). Nel decennio il calo ha riguardato soprattutto i giovani. “Il calo dei giovani preoccupa - aggiunge Cappadozzi -. Calano, ma quelli che lo fanno aumentano il tempo dedicato. È una nota positiva perché sono molto motivati, già con il covid si erano attivati di più e continuano a farlo per dare una mano nelle emergenze. Pensavamo che il covid avesse allontano gli anziani dal volontariato e dalla vita sociale, invece mantengono il loro impegno”. “In alcuni settori - spiega ancora Cappadozzi - sono cresciuti i dipendenti retribuiti perché il terzo settore ha preso in carico una parte considerevole dei servizi e non può svolgerlo solo coi volontari”. Aumentano infatti i volontari organizzati nei settori ricreativo e culturale (+6,4%), assistenza sociale e protezione civile (+7,7 %) e ambiente (+1,7%), mentre calano in quelli religioso (5,8 %), sportivo (?1,9 %) e sanitario (-1,3%). I dati riportano anche un calo di chi offre aiuto diretto a persone conosciute (-10,1%), mentre aumentano quelli che, con questa stessa modalità, si dedicano a collettività, ambiente e territorio (+14,7%). Le motivazioni più riportate dal volontariato organizzato sono gli ideali condivisi (31,1%) e il bene comune (21,5%), mentre le emergenze (27,5%) e l’assistenza a persone in difficoltà (24,6%) nell’aiuto diretto. “Il volontariato si conferma anche dall’osservazione di questi dati come un pilastro del nostro Paese - afferma Chiara Tommasini, presidente di CSVnet, l’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato -. Cambiano le forme di impegno che vivono una continua evoluzione senza perdere valore, le comunità italiane sono sempre di più animate dal loro contributo. La voglia di partecipare si mantiene alta e va incoraggiata, sostenuta e alimentata in modo corretto”. I dilemmi sull’eutanasia: nessuno può essere costretto a vivere una vita che non vuole vivere di Gianfranco Pellegrino* Il Domani, 31 luglio 2025 L’idea che dare la morte agli altri sia una forma di contaminazione è suggestiva, ma proviene da un pensiero magico e pre-moderno, o da un orizzonte religioso rispettabile ma controverso, che mette la vita esclusivamente nelle mani di Dio. Ci possono essere casi drammatici in cui gli esseri umani debbono amministrare la vita e la morte dei loro simili. Gli storici politici e i politologi del futuro cercheranno di capire che tipo di regime è stato quello italiano di questi anni - un regime istituzionale in cui a un ceto politico distratto si contrapponeva una Corte costituzionale estremamente avanzata su certi temi, specialmente quelli dell’inizio e della fine della vita. E, più in generale, ci sarà da chiedersi e da capire che ruolo avranno le corti nella politica ambientalista internazionale - dati i recenti pronunciamenti della Cassazione e della Corte penale internazionale di cui ha parlato Ferdinando Cotugno su queste pagine - a fronte della decadenza del diritto internazionale in altri campi, soprattutto quelli dell’assistenza umanitaria e dei conflitti, come vediamo ogni giorno in Ucraina e a Gaza. Ma per noi che questi tempi li viviamo, e non siamo tecnici del diritto, conta tanto quello che i giudici dicono quanto quello che non dicono, ma lasciano aperto. Nella sentenza 132 del 25 luglio che rispondeva al quesito riguardante la possibilità di praticare eutanasia su una paziente paralizzata senza incorrere nel reato di omicidio del consenziente, la Corte compie tre mosse. Motiva l’inammissibilità del quesito invitando il giudice da cui proviene a verificare che il paziente possa usare dispositivi che consentano il suicidio assistito come regolato dalla sentenza Cappato (per esempio, una pompa attivabile con la voce, o muovendo la bocca o gli occhi). Così facendo, e questa è la seconda mossa, la Corte invita a coinvolgere l’Istituto superiore di sanità, in quanto organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale. In questo modo la Corte implica che il Servizio sanitario nazionale rimanga l’organismo preposto ad amministrare questo tipo di decisioni, contrariamente a quello che prevederebbe il disegno di legge sul fine vita proposto dalle forze di governo, in discussione in questi giorni. Infine, la Corte ribadisce che le persone nelle condizioni stabilite dalla sentenza Cappato hanno il diritto al suicidio assistito in quanto persone fragili che hanno libertà di autodeterminazione: realizzare la volontà del paziente rimane il fine ultimo dei trattamenti di fine vita. La Corte sta dicendo che pazienti in certe condizioni possono esercitare la propria volontà di porre termine alla loro vita in una serie di modi molto ampia: possono, per esempio, comandare una pompa che inietti un farmaco tramite la voce o il movimento degli occhi. L’idea è che anche questi piccoli movimenti siano un mezzo idoneo a manifestare la propria volontà e ad esercitare la propria autodeterminazione. A questo punto il passo verso l’eutanasia è brevissimo. Immaginiamo un paziente che non possa neanche parlare, né muovere gli occhi, ma abbia manifestato chiaramente la sua volontà. Quali sarebbero le argomentazioni per impedirgli di porre termine alla sua vita con l’aiuto del medico? Che differenza c’è fra manifestare la propria volontà muovendo gli occhi o la bocca o emettendo suoni, oppure farlo con altri mezzi, per esempio con un documento scritto prima? Per dire che in questi casi le cose stiano diversamente ci sono solo tre argomentazioni: il medico che si presti ad aiutare un paziente a morire, quando non possa fare altrimenti, si contamina, oppure tradisce la sua missione o, infine, potrebbe abusare di queste possibilità. Ma, come ho detto su queste pagine in precedenza, la missione del medico non è far vivere i pazienti a tutti i costi, anche condannandoli a sofferenze estreme e non volute e gli abusi si possono evitare con leggi scritte bene. L’idea che dare la morte agli altri sia una forma di contaminazione è suggestiva, ma proviene da un pensiero magico e pre-moderno, o da un orizzonte religioso rispettabile ma controverso, che mette la vita esclusivamente nelle mani di Dio. Ci possono essere casi drammatici in cui gli esseri umani debbono amministrare la vita e la morte dei loro simili. Quello che si deve evitare è costringere le persone a vivere una vita che non vogliono vivere. *Filosofo Migranti. I Garanti laziali in visita al Cpr di Gjader: “È quasi vuoto: sono solo 27 i trattenuti” Il Dubbio, 31 luglio 2025 I Garanti delle persone detenute della Regione Lazio e di Roma Capitale hanno visitato anche il carcere all’interno del Centro italiano di trattenimento in territorio albanese. “Il numero estremamente limitato delle persone attualmente presenti nel Cpr, appena 27, insieme con la disponibilità di posti nei Centri collocati sul territorio nazionale rende non giustificato il trasferimento in Albania di queste persone. Anche se abbiamo potuto verificare che le risorse umane, professionali e finanziarie a disposizione dell’ente gestore, consentono al momento un trattamento adeguato dei trattenuti. Naturalmente ci sono difficoltà per i rapporti con i familiari e i legali dovute alla collocazione del Centro in territorio albanese e potenziali rischi per l’assistenza sanitaria, laddove non dovesse essere sufficiente quella prestata all’interno del Centro, manca inoltre qualsiasi opportunità di attività nelle lunghe giornate all’interno del Cpr”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, e la Garante delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Valentina Calderone, al termine della prima visita al Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) e al carcere di Gjader in Albania, per una rilevazione dei flussi, degli spazi, dei servizi, delle procedure, e i colloqui personali con gli ospiti della struttura. Il Centro di Gjader è sotto la responsabilità della Prefettura di Roma, e questo configura una competenza territoriale dei Garanti delle persone detenute di Regione Lazio e Roma Capitale, che sono stati accolti dai dirigenti della Polizia di Stato e dell’ente gestore del Cpr, Medihospes, i quali hanno permesso un’analisi approfondita della situazione offrendo ogni elemento utile di conoscenza. I Garanti hanno incontrato anche la direttrice della sezione penitenziaria interna, e hanno visitato la struttura, al momento mai utilizzata, in grado di ospitare fino a 24 detenuti, destinata a chi dovesse essere arrestato per fatti compiuti all’interno del centro. Il Cpr consta di 144 posti regolamentari, con una capienza di 96 posti disponibili. Attualmente, è inutilizzata la parte della struttura destinata ai richiedenti asilo appena sbarcati, che può ospitare fino a 880 persone, in attesa della sentenza del Corte di giustizia europea sui paesi sicuri (attesa per venerdì 1 agosto). Ieri, martedì 29 luglio, al momento del primo ingresso dei Garanti, erano presenti 28 trattenuti. Oggi sono presenti in 27, in quanto un cittadino pakistano è stato rimpatriato stamane. Sono persone provenienti prevalentemente da Algeria, Senegal, Pakistan, India, Ghana. Da quando il centro di Gjader ha iniziato a essere utilizzato come Cpr, vale a dire da aprile di quest’anno, sono transitate 140 persone e ne sono uscite 113: 40 per mancata proroga del trattenimento, 37 perché rimpatriati, 15 per inidoneità sanitaria al trattenimento, sette per riconoscimento della protezione internazionale e altre per motivi diversi, come il trasferimento in altri Centri o la sospensiva del decreto di espulsione. All’interno del perimetro del centro, sono presenti unità di personale della Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanzia ed è presente l’Ufficio immigrazione, dipendente dalla Questura di Roma. Per l’ente gestore del Cpr, Medihospes, lavorano 113 persone, tra operatori dell’area sanitaria, dell’area legale, mediatori culturali. Nel corso della visita, Anastasìa e Calderone hanno ascoltato tutti i trattenuti che ne hanno fatto richiesta. Nel silenzio sui migranti affondiamo tutti di Giorgia Linardi* La Stampa, 31 luglio 2025 Siamo stati testimoni dell’ennesima tragedia nel Mediterraneo centrale, dove lo Stato, che dovrebbe essere esempio del rispetto dello stato di diritto, tace e ci costringe a restare a guardare. L’aereo di monitoraggio di Sea-Watch ha avvistato il barcone stracolmo di persone lunedì mattina, per poi apprendere dai sopravvissuti che erano in mare già da tre giorni. Nessuna delle autorità informate, da nessuna sponda del Mediterraneo, è intervenuta. C’erano già persone in acqua, ma le politiche europee di voluta assenza dal Mediterraneo le hanno scientemente abbandonate. Nel “mare nostro” c’è un vuoto istituzionale creato ad arte, in cui al grido di aiuto di persone in pericolo con il colore di pelle e il passaporto sbagliato non risponde nessuno, se non la società civile. Noi, che facciamo da megafono di questo grido, e a risponderci è stato un altro attore civile: il comandante di un mercantile che ha deciso di ottemperare al dovere di soccorrere chiunque si trovi in pericolo in mare. Un obbligo che dovrebbero essere gli stati a far rispettare. Ma anche il mercantile é stato lasciato solo, con a bordo i sopravvissuti al naufragio che è seguito all’abbandono da parte delle istituzioni. Un soccorso drammatico, poi di nuovo silenzio. La nave si trova in una zona costellata da piattaforme petrolifere, dove gli stati europei sfruttano il petrolio del Nordafrica. È lì dove arrivano i nostri interessi economici che affonda la nostra umanità. Dove ci abbandoniamo all’indifferenza, la stessa che l’Europa ha nei confronti dei circa centomila bambini che rischiano di morire di fame a Gaza (fonte Onu), le cui madri sono costrette ad utilizzare sacchi sporchi della spazzatura come pannolini, senza avere di che nutrirli. Quella stessa indifferenza è l’arma con cui si infierisce sui cadaveri di due bambini lasciati a marcire tra i container di una nave-merci, a poche miglia dalle spiagge dove andiamo in vacanza. Non possiamo accettare che il governo lasci 98 persone - di cui 6 tra bambini e neonati e due donne incinte - per giorni ad agonizzare in mare, fino a lasciarli naufragare e rinnegarli anche da annegati o sopravvissuti (poco importa). Così come non possiamo accettare che al rifiuto di intervenire delle autorità si sommi il tentativo di favorire un respingimento illegale in Libia, che significherebbe riportare queste persone all’inferno da cui scappano, come se calpestare il loro diritto alla vita non fosse abbastanza. Tutto ciò costringendo la società civile a restare a guardare. I nostri aerei hanno dovuto osservare impotenti l’agonia dei naufraghi, le hanno viste ribaltarsi in acqua e annaspare per sopravvivere, dopo aver chiesto aiuto già 24 ore prima. Nel frattempo la nostra nave è in porto, a Lampedusa, bloccata da un fermo pretestuoso imposto per ostacolare la presenza delle Ong nel Mediterraneo. In nome dell’umanità, visto che nessuna autorità interviene, abbiamo chiesto di sospendere questo fermo per il solo scopo di andare in soccorso delle persone intrappolate nel Mediterraneo a bordo del mercantile in mezzo alle piattaforme petrolifere europee. Ma anche davanti a questa richiesta il governo tace, e nel silenzio affondiamo. Tutti. *Portavoce Sea -Watch La diatriba sul termine genocidio e il rischio di non riconoscere il male di Rosario Aitala Avvenire, 31 luglio 2025 Alle origini di una parola che, coniata per la prima volta nel 1944 dal polacco Rafael Lemkin, continua a far discutere. Il rischio è sempre la propaganda. Il diritto internazionale, ha scritto Natalino Irti, si leva al tramonto, quando la giornata è conclusa o prossima a concludersi, intendendo dire che non anticipa ma segue le mutevoli vicende della storia. Nel fluire del tempo c’è però sempre un prima e un dopo. Il diritto che pigramente viene alla luce per sanzionare politicamente e moralmente persecuzioni e stermini già consumati, serve principalmente per prevenire e per punire atrocità future. Nel 1944, quando Rafael Lemkin coniò il neologismo genocidio associando al lemma greco génos, “genere”, “stirpe”, il suffissoide latino -cidium da caedere, “uccidere”, le disumanità che intendeva stigmatizzare erano state già perpetrate. I nazisti avevano sterminato ebrei e romanì, gli ottomani gli armeni, i tedeschi gli herero e i nama, i coloni i popoli amazzonici, e via via fino all’inizio dei tempi. Cresciuto in una regione della Polonia orientale a forte presenza ebraica, testimone di violenze antisemite, Lemkin si era indirizzato alle discipline giuridiche dopo avere assistito nel 1921 al processo a Berlino a un giovane armeno sfuggito allo sterminio della sua famiglia che aveva assassinato a revolverate il capo del triumvirato ottomano Talat pascià. Questi era stato condannato a morte in contumacia dalla Corte marziale straordinaria di Istanbul quale principale responsabile del massacro degli armeni, ma passeggiava libero e sereno. L’imputato fu assolto in considerazione del turbamento mentale derivante dalle angosciose memorie di deportazioni e stermini. Vent’anni più tardi Lemkin rifletteva sul destino degli armeni, sull’annientamento degli ebrei e l’imperativo di proibire nel diritto internazionale quei fenomeni che inizialmente definì barbarism, barbarie, poi genocidio: condotte sistematiche di persecuzione e distruzione fisica, biologica, politica, sociale, culturale, economica, religiosa e morale di collettività nazionali, religiose ed etniche sorrette dall’intento di annientarle. Il termine non entrò se non en passant nel processo di Norimberga, ma condusse alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio del 1948, che elenca le condotte. Omicidio, lesioni fisiche e mentali, misure per prevenire la procreazione, trasferimento forzato di bambini, inflizione di misure di “morte lenta” - condizioni esistenziali tali da condurre alla distruzione, come deportazioni, privazioni di cibo, acqua, cure mediche e abiti idonei e imposizione di lavori forzati. Gli atti sono tutti accomunati dall’intento di distruggere il gruppo, che i giudici desumono da dichiarazioni degli oppressori e modalità oggettive dei fatti. Di genocidio non si parlò quasi più fino ai primi anni Sessanta, quando il tenente colonnello delle SS Otto Adolf Eichmann, uno degli organizzatori della “soluzione finale”, fu processato a Gerusalemme e impiccato per “crimini contro il popolo ebraico”, delitto creato allo scopo sul modello del genocidio. Le commemorazioni dell’eccidio degli armeni e azioni terroristiche su obiettivi turchi amplificarono l’interesse pubblico sul termine e sul fenomeno. Iniziarono controversie politiche e dottrinali, mai sopite. In diritto internazionale non esiste una netta gerarchia di gravità fra genocidio, crimini contro l’umanità, di cui è una specie, e crimini di guerra. Le condotte materiali sono sovrapponibili. Eppure c’è un carattere che segna l’eccezionale disvalore del genocidio. Persino il più empio dei delinquenti, l’omicida, implicitamente riconosce l’umanità della vittima prima di sottrarle ingiustamente la vita. Il genocida invece nega in radice lo stesso diritto dei membri del gruppo di esistere e la loro dignità umana, considerandoli esseri subumani da sopprimere. Il razzismo, l’arbitraria attribuzione di diverso valore alle persone in base a caratteri fisici o culturali, veri o presunti, è sempre premessa del genocidio. Lemkin si incentrò particolarmente sulla mostruosa e meticolosa sistematicità del programma nazista di annichilimento degli ebrei, di cui furono vittime anche 49 suoi familiari, ma si batté anche contro altre atrocità che qualificava genocidi, fra cui il massacro degli armeni e la morte per fame di milioni di contadini ucraini causata dalle politiche staliniane. La Convenzione si propone di “liberare l’umanità dal flagello del genocidio”: tutti i genocidi. Come ogni norma giuridica, parte da un’esperienza trascorsa e dispone per l’avvenire. Altrettanto dovrebbe fare la morale: guardare indietro per andare avanti. La Convenzione non è rimasta muta su eventi successivi che in diversi fori sono stati ricondotti a quel modello di atrocità di massa: lo sterminio delle minoranze e dei dissidenti dai Khmer rossi cambogiani, dei curdi in Iraq, dei tutsi dagli hutu in Ruanda, dei musulmani dai serbo-bosniaci, degli yazidi dallo Stato Islamico, dei rohingya dalla giunta birmana - elencazione esemplificativa. Bisogna guardarsi anche dal pericolo opposto, dilatare smodatamente il lemma sminuendone gravità e specificità. Se tutto è genocidio, niente è genocidio. Simili contorsioni coinvolgono altre unità lessicali. L’espressione pulizia etnica emerse negli anni Novanta durante le guerre jugoslave per indicare uno strumento di trasformazione sociale violenta attraverso la rimozione di intere collettività e di minoranze da certi territori, come se fossero pattume, per lasciare spazio alla supremazia e pura identità dei carnefici. La locuzione oggi designa programmi di eliminazione e di allontanamento forzato di popolazioni identificate su base etnica, religiosa o razzista, attraverso stermini, omicidi, stupri, saccheggi, distruzioni, deportazioni, evacuazioni, espulsioni, sfollamenti e coercizioni di qualsiasi natura, anche mediante deliberata distruzione di abitazioni e infrastrutture necessarie alla vita umana alimentari, sanitarie, scolastiche, stradali, elettriche, idriche, fognarie, o per mezzo della procurata indisponibilità o insufficiente accesso a cibo, acqua, farmaci, aiuti umanitari e altri beni essenziali. Quando i giudici del tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia giudicarono degli eccidi e deportazioni dei musulmani a Srebrenica, nei diversi processi qualificarono le atrocità alternativamente o cumulativamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Nessuno si sognò di dire: “Non è genocidio, è solo sterminio, deportazione, tortura, stupro”. Versare sangue innocente e praticare il male è vietato e disumano. Solo questo conta. Si rigetti la propaganda che manipola le parole per coprire le cose. Si lasci a giudici e storici il compito di interpretare gli eventi imparzialmente e nei giusti tempi, secondo categorie, norme e prove. Non si illudano i carnefici, in ogni angolo del mondo. Possono forse sfuggire ai tribunali degli uomini, non sottrarsi a quello della Storia. Non smarriscano i vinti la speranza. La ruota gira. Per tutti, trionfatori e sconfitti, vale una lezione vecchia di tre millenni: “Non è degli agili la corsa, né dei forti la guerra... perché il tempo e il caso raggiungono tutti”. Ecclesiaste, 9, 11. Israele e Gaza, il dibattito non si trasformi in faida di Chiara Saraceno La Stampa, 31 luglio 2025 Ciò che accade a Gaza è sicuramente materiale incandescente nel dibattito pubblico e privato, perché si mescolano e sovrappongono questioni diverse: l’irrisolta questione palestinese e il loro diritto ad avere un proprio stato e prima ancora a rimanere sul proprio territorio e nelle proprie case, il diritto di Israele a non essere continuamente sotto minaccia, l’orrore del massacro di israeliani da parte di Hamas del 7 ottobre 2023 e quello degli eccidi quotidiani da parte dell’esercito israeliano che da oramai due anni decimano sistematicamente la popolazione di Gaza, persino quando è in fila per (poco) cibo. Capire la complessità della situazione, tuttavia, non significa né evitare di prendere posizione per timore di offendere qualcuno o di essere fraintesi, né cercare di individuare delle linee che non dovrebbero essere sorpassate, delle priorità che vanno affrontate subito - salvaguardare le vite, nutrire gli affamati, portare a casa gli ostaggi, lasciare aperta la speranza a chi è stato tolto tutto. Anche se chi lo fa corre il rischio, appunto, di essere accusato di parzialità, di non vedere la complessità, di semplificare troppo, quando non di essere un nemico. E’ ciò che sta succedendo nel dibattito che si è acceso attorno alla rivista on line il Mulino e tra i soci della associazione - tutti professori universitari e intellettuali di varia formazione e orientamento culturale e politico - che ne sono, per così dire, gli editori responsabili, in quanto ne eleggono il direttore e i componenti della redazione. Ne ha parlato ieri nel suo Buongiorno anche Mattia Feltri, cadendo anche lui nella tentazione semplificatoria che pure denuncia. Con la solita verve tagliente, ne ha fatto un ritratto da “leoni da tastiera” schierati su posizioni opposte, che sostituiscono all’argomentazione e all’analisi l’insulto. Un’accusa, per altro, condivisa anche dal direttore della rivista, Pombeni, irritato dal fatto che molti soci dell’associazione non abbiano gradito la pubblicazione di un articolo del noto demografo Sergio Della Pergola (che non è socio dell’associazione) in cui, all’interno di una lunga e articolata analisi del conflitto in atto (ancorché fortemente sbilanciata sulle ragioni di Israele e i torti dei leader palestinesi e dei loro sostenitori medio-orientali) si parlava delle decine di migliaia di morti a Gaza come di “danni collaterali”, ancorché devastanti per gli abitanti, di un’operazione militare necessaria, non solo per rispondere alla strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre 2023, ma per riequilibrare le forze in campo. Non so che scambi siano avvenuti sui social, dato che non li frequento. Ma so, per essere tra i firmatari, che cosa un gruppo di soci ha scritto sulla medesima rivista in un articolo in risposta alla lettura degli eccidi che avvengono quotidianamente nella striscia di Gaza come appunto meri danni collaterali e non atti orrorosi di vero e proprio sterminio, che colpiscono chiunque si trovi lì, impedendo di trovare riparo e una possibilità di vita. Un eccidio e una spinta all’espulsione che si somma a ciò che da tempo avviene in Cisgiordania, con il silenzio/assenso del governo e dell’esercito, oltre che della comunità internazionale. Un articolo certo duro e sicuramente parziale, come è inevitabile in un testo che deve essere breve. Ma ragionato e che non conteneva nessuna accusa a Della Pergola di essere “servo dei sionisti” o simili, come invece sostiene Feltri, e nessun insulto, a differenza di Della Pergola, che invece ci ha accusati, in un articolo apparso sull’edizione bolognese di Repubblica, di essere fiancheggiatori di Hamas. Ridurre questo, conflittuale, ma serio dibattito ad una faida farcita di insulti reciproci e/o alla bassa cucina dei giochi di potere dell’associazione, come suggerisce Feltri e sostiene anche il direttore della rivista, sposta l’attenzione dal dramma della popolazione di Gaza e dei palestinesi di Cisgiordania, ma anche quello degli ostaggi israeliani ancora in mano ad Hamas e a ciò che Anna Foa ha dolorosamente definito il suicidio di Israele, sulla fin troppo facile immagine di intellettuali impotenti e imbelli, chiusi nel loro recinto, in fin dei conti inutili. Altro che cercare di guardare alla ferita di Gaza come cartina di tornasole della nostra civiltà e della nostra disponibilità a non nascondere l’inaccettabile sotto gli opposti bilancini in cui si soppesano minuziosamente torti e ragioni, ma le vite (altrui) sono vuoti a perdere. Iran. Giustiziati i prigionieri politici Hassani e Ehsani di Greta Privitera Corriere della Sera, 31 luglio 2025 In un mese 81 condanne a morte eseguite dalla Repubblica islamica. Erano membri dell’organizzazione dei Mojahedin del Popolo. Con la fine della Guerra dei 12 giorni, il regime ha intensificato la repressione. Salgono a quota 1459 le esecuzioni in un anno, sotto la presidenza di Pezeshkian. Era l’alba a Karaj, una città a nord di Teheran, quando nella prigione di Ghezelhesar, Mehdi Hassani, 48 anni, e Behrouz Ehsani, 69, sono stati giustiziati. Non sono bastati i video disperati dei figli, gli appelli dei Premio Nobel, quelli degli intellettuali che chiedevano aiuto alla comunità internazionale. Ieri, appena è sorto il sole, i prigionieri politici membri dell’organizzazione dei Mojahedin del Popolo sono stati uccisi. Piange e singhiozza la figlia di Hassani, Maryam, che in un video postato sui social dice: “Confermo la morte di mio padre. Nessuno di noi se lo aspettava: aveva chiesto a mia sorella di fargli visita lunedì. Avevamo speranze”. Della loro morte, ne ha dato notizia l’agenzia di stampa della magistratura, Mizan, che ha elencato le accuse contro i due uomini: “Inimicizia contro Dio; ribellione armata; appartenenza al gruppo terroristico Mek con lo scopo di compromettere la sicurezza del Paese, associazione a delinquere e collusione”. Hassani ed Ehsani sono stati condannati a morte dopo un verdetto della Sezione 26 della Corte rivoluzionaria della capitale iraniana. Gli avvocati raccontano che il processo è durato cinque minuti, senza alcuna assistenza legale. Nei tre anni di detenzione hanno subito minacce, torture e lunghi periodi di isolamento. Finché il 26 gennaio scorso sono stati spostati dalla prigione di Evin, a Teheran, a quella di Ghezelhesar: un trasferimento che ha fatto temere un’esecuzione imminente. Le accuse contro Hassani ed Ehsani includono “la fabbricazione di un lanciarazzi portatile e di un mortaio”, l’aver preso di mira “cittadini, case, strutture amministrative” e “aver turbato l’ordine sociale e la sicurezza”. Dopo la fine della “Guerra dei 12 giorni” con Israele, il regime degli ayatollah ha intensificato la repressione contro gli attivisti e i prigionieri politici spesso accusati di “collaborazione con il nemico”. Solo tre settimane fa, un’altra agenzia di stampa che si chiama Fars, affiliata al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, ha definito le esecuzioni di massa avvenute nel 1988 “un’esperienza di successo” e ha chiesto che venisse ripetuta per “dare una lezione” ai nuovi oppositori. Almeno altri 54 prigionieri politici sono condannati a morte. Tra questi ci sono Pakhshan Azizi, Abbas Daris, Sharifeh Mohammadi, Ahmadreza Jalali, Milad Armoon, Adnan Ghobishavi, Varisheh Moradi e Abdolghani Shahbakhsh. Tra il 22 giugno e il 22 luglio ci sono state 81 esecuzioni, con un aumento del 170% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nelle giornate del 20, 21 e 23 luglio, la Repubblica islamica ha giustiziato 21 persone: tra le vittime sei uomini appartenenti alla minoranza dei baluci. Salgono così a quota 1.459 le esecuzioni sotto la presidenza del cosiddetto “riformista” Masoud Pezeshkian.