L’estate del nostro scontento. Il piano carceri ormai è diventato una malattia cronica recidivante di Ornella Favero Ristretti Orizzonti, 30 luglio 2025 L’estate in carcere è il contrario che in libertà: è triste, è soffocante, è angosciante. Ed è funestata dai “piani carcere”, che tornano a prenderci in giro con regolarità disarmante. Ho preso in mano il piano del 2014, ed è praticamente una fotocopia di quello appena presentato dal governo. Che però ha in più alcune definizioni “creative”, il nulla raccontato come se potesse davvero accadere. Liberazione anticipata, ovvero “te la complico io la vita” Quanto alla liberazione anticipata, ci viene detto che si “irrobustisce” il profilo informativo, “soprattutto nella prospettiva del massimo aggiornamento delle relazioni del detenuto”. Cioè, spiegateci: “il massimo aggiornamento” significa che i giorni restano sempre gli stessi, ma qualcuno (i magistrati?) ti chiarisce, perdendo tempo ed energie, quello che tutti già sanno, cioè a quanti giorni hai diritto se non fai cazzate e non te li giochi malamente? Qualcuno poi (il Ministro) ci ha detto che sarebbe un cedimento dello Stato concedere ogni anno due mesi in più di liberazione anticipata per tutte le inutili sofferenze, ristrettezze, violazioni dei diritti subite dalle persone detenute. E se la chiamassimo invece “compensazione”? Quella che l’Europa ci ha chiesto, quando ci ha suggerito che se non sappiamo garantire ai detenuti il rispetto della legge, cerchiamo almeno di dargli qualcosa che “compensi” la dignità trascurata e offesa. Ma come possiamo noi volontari rispondere alla “macchina da guerra” mediatica e politica che racconta che anticipare l’uscita dal carcere, per persone, già vicine al fine pena, di una manciata di giorni significa mettere a rischio la sicurezza del Paese? Detenzione differenziata Chiamasi “detenzione differenziata” il fatto che nel piano carcere sono citati 10.000 detenuti che sembrerebbero “inviabili” alla detenzione domiciliare. Dice il sottosegretario Alfredo Mantovano “Con questo disegno di legge introduciamo un’innovazione importante. Offriamo ai tossicodipendenti e agli alcoldipendenti che hanno commesso reati un’alternativa seria, concreta e verificabile: la detenzione domiciliare in una comunità di recupero”. Ma l’alternativa seria diventa ben presto la moltiplicazione dei “pani e dei pesci” fatta dal ministro Nordio che parla di far andare in comunità 10.000 tossicodipendenti! “Considerando che il 31% usa sostanze stupefacenti o alcoliche, se solo un terzo partecipasse a questo tipo di programma avremmo una diminuzione di diecimila tossicodipendenti nelle carceri. Questo ridurrebbe in maniera sensibile il sovraffollamento”. Ma se le carceri sono piene di detenuti tossicodipendenti con due, tre anni di residuo pena, se posti in comunità non è certo facile trovarli, se non si sa chi paghi, se il tanto promesso albo delle comunità non si capisce dove sia finito, a che cosa può servire rendere possibile l’accesso alle comunità non più sotto i sei anni, bensì sotto gli otto anni? Si chiama “detenzione differenziata”, ma differenziata da cosa? Dal fatto che qui la fantasia e l’approssimazione non hanno limiti? (E cosa farà la commissione di valutazione a cui verrà sottoposto il programma terapeutico di ogni detenuto?) Valorizzazione immobiliare su vasta scala Le “carceri in centro città o con vista mare”, dice il commissario all’edilizia Marco Doglio, non saranno vendute ma “valorizzate e trasformate”. “Valorizzazione immobiliare” è la nuova, fantasiosa creazione del governo, ti requisisco la cella vista mare e in cambio ti do un container, un prefabbricato modello Albania, l’ultima trovata in fatto di collocazione delle persone detenute in spazi ristretti per dormire, mangiare, forse respirare, non certo per scontare una pena che “tenda alla rieducazione” come chiede la Costituzione. Domanda: ma quando il commissario dice che “l’approccio è nuovi moduli, ampliamenti, ristrutturazioni e operazioni immobiliari su larga scala”, che cosa sono queste operazioni immobiliari e come dovrebbero fruttare nuovi posti branda? togliendo ai detenuti la vista mare e “vendendola” ai migliori offerenti? Santo Covid e telefonate Se non ci fosse stato il Covid, una disgrazia per tutti, ma non per le persone detenute, ora non esisterebbero le videochiamate, introdotte durante la pandemia e che nessuno ha avuto più il coraggio di togliere. Pareva che finalmente si fosse capito che le telefonate devono essere liberalizzate come già succede in tanti paesi, perché sono una delle poche forme vere di prevenzione dei suicidi; rafforzare le relazioni, dilatare al massimo gli spazi per gli affetti è infatti forse l’unico modo per far sentire le persone meno sole e isolate. E invece no, troppo lusso, quello che il piano carceri “epocale” concede sono due miserevoli telefonate in più al mese, non c’è neppure il coraggio di fare una piccola riforma a costo zero come la liberalizzazione delle telefonate. Task Force Per finire, dovremmo forse sentirci rassicurati dalla creazione di una task force, espressione con cui si indica “un ristretto gruppo di persone, altamente competenti e/o specializzate, con funzioni e compiti specifici al compimento di un'operazione o di uno scopo”, task force che una volta a settimana dovrebbe riunirsi. Per fare cosa? Come cittadina coinvolta nella vita delle persone detenute a tal punto, che nel mese di luglio entro ancora ogni giorno, con tanti volontari, per garantire una boccata di ossigeno a chi deve vivere questa estate asfissiante in galera, vorrei sapere da chi è composta e cosa farà questa “task force”. Chiedo troppo? *Direttrice di Ristretti Orizzonti e presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia I Garanti in piazza per chiedere risposte immediate a un mese dal monito di Mattarella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2025 A un mese esatto dal forte richiamo del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sulla drammatica situazione delle carceri italiane, la Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha indetto per oggi una manifestazione pubblica per riportare al centro del dibattito politico e sociale l’emergenza penitenziaria. Il Presidente, rivolgendosi il 30 giugno scorso al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aveva definito sovraffollamento e suicidi “un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Aveva inoltre ricordato che la dignità di un Paese si misura anche dalle sue carceri, che non devono essere sovraffollate e devono garantire percorsi di reinserimento, strumenti essenziali per la sicurezza collettiva. Un appello netto, che ha assunto i toni di un rimprovero diretto alla politica e al governo. Ma a distanza di un mese, poco o nulla sembra essere cambiato. Per questo, i Garanti hanno deciso di scendere in piazza, chiedendo interventi urgenti e concreti. “Non possiamo più assistere ignavi alle morti di uomini e di diritti”, dichiara Samuele Ciambriello, Garante campano e portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti. “È necessario un provvedimento urgente per il sovraffollamento, come già fatto in passato dal governo Berlusconi tra il 2003 e il 2010. Oggi c’è un carcere fuori dalla Costituzione. Servono provvedimenti deflattivi immediati, non domani, ma ora”. Tra le proposte sul tavolo, Samuele Ciambriello cita anche quella del deputato di Italia Viva Roberto Giachetti e di Nessuno Tocchi Caino, che ha avanzato l’ipotesi di una liberazione anticipata speciale per alleggerire la pressione sugli istituti penitenziari. Una misura temporanea, ma che potrebbe essere utile fronteggiare l’attuale emergenza. In occasione della giornata di mobilitazione, i Garanti visiteranno oggi diversi istituti penitenziari per adulti e per minori insieme a esponenti delle forze politiche. Un’iniziativa simbolica e concreta allo stesso tempo, per invitare chi ha il potere di decidere a “venire e vedere, venire e ascoltare” - come affermano i promotori - per andare oltre le parole e tradurre in azione il richiamo del Presidente. Carceri al collasso, l’idea di La Russa: modello Covid contro il sovraffollamento di Simona Musco Il Dubbio, 30 luglio 2025 Il presidente del Senato ha incaricato la sua vice Rossomando di scrivere un ddl che prevede la possibilità di scontare gli ultimi 18 mesi di pena ai domiciliari per i reati non gravi. “Le condizioni civili devono essere previste per chiunque, soprattutto per chi è in carcere, specie per chi è nelle mani dello Stato: se lo Stato ha il dovere di punire chi sbaglia, ha il dovere di assicurare condizioni civili per chi è detenuto”. Sono parole del presidente del Senato Ignazio La Russa, che nel corso della cerimonia del Ventaglio, in Sala Koch, a Palazzo Madama, ha annunciato una proposta di legge, la cui stesura è affidata alla vicepresidente Anna Rossomando, per garantire la liberazione anticipata ai detenuti con pena residua inferiore a 18 mesi e per reati non gravi. Rossomando, nella giornata di ieri, ha finito di limare il testo, che poi, incassato il placet di La Russa, verrà sottoposto ai gruppi parlamentari, anche di maggioranza. Un modo per superare il lassismo della politica sul tema, che non è stato intaccato nemmeno dall’ennesimo appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che un mese fa, incontrando il nuovo capo del Dap, aveva invocato, “per rispetto della Costituzione, ma anche della storia e dei caduti della Polizia penitenziaria”, un intervento immediato. La situazione, aveva sottolineato Mattarella, è “preoccupante”, contrassegnata da “una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento”, condizioni strutturali “inadeguate”, sulle quali intervenire con urgenza, “nella consapevolezza che lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività, alla progettualità del trattamento”. Un richiamo esplicito alla sentenza della Consulta sull’affettività in carcere, a lungo negata nonostante la pronuncia del giudice delle Leggi. La proposta arriva a pochi giorni dall’ennesimo piano carceri approvato dal governo, che promette meno di 10.000 nuovi posti entro il 2027 con una spesa di 700 milioni di euro. Un piano che, però, non garantisce una soluzione immediata - e forse nemmeno a lungo termine - dell’emergenza carceri: attualmente, con quasi 16.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, il sistema penitenziario italiano sta esplodendo. Impossibile, dunque, non agire con interventi premiali, capaci di riportare le celle in condizioni di umanità in maniera celere. Un’intenzione che, però, si scontra con l’anima securitaria del governo. In più occasioni, infatti, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato senza mezzi termini di non essere disposta ad avallare interventi svuota carcere: solo pochi giorni fa, dopo l’approvazione del piano voluto dal governo, la premier aveva chiarito che “in passato si è adeguato il numero dei reati alla capienza delle carceri. Noi invece crediamo che uno Stato giusto debba fare il contrario: adeguare le strutture alle esigenze della giustizia. È questo - ha concluso - che garantisce la certezza della pena”. L’emergenza è però insostenibile. Per superare le possibili obiezioni, l’idea è quella di non proporre una copia del ddl Giachetti, che prevede di aumentare a 75 i giorni di premialità per la liberazione anticipata, ma una versione rivista della norma adottata durante l’emergenza Covid, quando con il decreto “Cura Italia” si stabilì che i detenuti con pene non superiori a un anno e mezzo avevano la possibilità di scontare la pena ai domiciliari oppure in altre strutture di cura, assistenza o accoglienza. Una norma che però non valeva per tutti: a non poterne beneficiare erano i detenuti condannati per reati particolarmente gravi, elencati nell’articolo 4- bis dell’ordinamento penitenziario, come mafia, terrorismo, violenza sessuale e altri, nonché per i reati di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori. Il testo che nelle scorse ore Rossomando ha messo a punto, dunque, ricalca quel modello. “Sto lavorando a una proposta sulla falsa riga del provvedimento che era stato approvato durante l’emergenza Covid e quindi con esclusione di reati di grave allarme sociale - ha confermato al Dubbio la vicepresidente del Senato -. Prevediamo dunque la possibilità di richiedere che gli ultimi 18 mesi di pena possano essere scontati in regime di detenzione domiciliare, chiaramente in assenza di gravi motivi ostativi”. Un modo per tamponare il grave sovraffollamento, che nel periodo estivo rende le condizioni di vita dei detenuti ancora più difficili. Anche se, secondo il presidente del Senato, le carceri pollaio non sarebbero connesse all’emergenza suicidi. “Il sovraffollamento carcerario - ha infatti dichiarato la seconda carica dello Stato - non va messo in diretta relazione col numero dei suicidi, anche perché quest’anno forse non sono superiori a quello dell’anno precedente, anche se sono dolorosissimi fosse anche solo uno, ma purtroppo sono tanti”. Ma il tema, ha aggiunto, “a prescindere dai suicidi del sovraffollamento, incide sulla capacità del nostro ordinamento carcerario di svolgere il ruolo che tipico, cioè quello non solo retributivo ma cioè in qualche modo sanzionatorio che è riservato a chi viola la legge, ma anche di recupero alla società dei detenuti. E un sovraffollamento rende ancora più difficile questo compito che è già di per sé arduo. E poi le condizioni di vita civile devono essere previste e realizzate per chiunque”. Rispondendo alla stampa, La Russa ha ammesso che “nonostante la mia modestissima moral suasion e l’impegno molto più importante dell’onorevole Rita Bernardini e di altri parlamentari”, l’emergenza carceri non è stata affrontata con la dovuta celerità. Ma il tema ha cominciato a prendere piede anche tra i parlamentari con un’indole più securitaria, grazie alle lettere dal carcere inviate da “un mio amico”, che “fra l’altro in questo periodo è ristretto nelle carceri romane”, ovvero Gianni Alemanno, che ogni settimana documenta la vita dietro le sbarre del carcere di Rebibbia, richiamando la sua parte politica a rivedere la propria posizione in merito agli istituti penitenziari. Alemanno, ha evidenziato La Russa, segnala “le condizioni, a suo dire giustamente proibitive, specie col periodo di grande calura che c’è stato all’interno delle carceri”. E proprio perché “la moral suasion non dava risultato”, La Russa ha incaricato Rossomando, durante una delle ultime capigruppo, “di valutare la possibilità, con l’accordo di tutti i gruppi, di una proposta anche minimale, ma che se avesse l’unanimità poteva essere e potrebbe ancora essere fonte di un provvedimento velocissimo”. L’intenzione è quella di licenziare in pochissimo tempo un provvedimento in grado di garantire “condizioni di vita civili” per chiunque. Anche perché, ha evidenziato La Russa, in carcere “il numero di detenuti in attesa di giudizio è altissimo. Non che questo cambi il dovere di qualità della vita per chi è in carcere - ha aggiunto -, ma va anche ricordato che molti che sono in attesa di giudizio potrebbero poi essere anche assolti, come statisticamente avviene”. Una proposta minimale, dunque, ma con un potenziale impatto immediato. Perché dietro le statistiche sul sovraffollamento ci sono persone, diritti e uno Stato che - per essere davvero giusto - non può limitarsi a custodire, ma deve saper rieducare. E garantire dignità, anche a chi ha sbagliato. Prosegue il viaggio di monitoraggio di “Nessuno tocchi Caino” all’interno delle carceri italiane di Eleonora Ciaffoloni L’Identità, 30 luglio 2025 Prosegue in questa calda estate il viaggio di monitoraggio dell’organizzazione “Nessuno tocchi Caino” all’interno delle carceri italiane. Un’iniziativa che si svolge in un periodo particolarmente critico per la vita dietro le sbarre, segnato da condizioni aggravate dal caldo, dalla carenza di personale e dal persistente sovraffollamento, che colpisce non solo i detenuti, ma anche chi lavora quotidianamente negli istituti penitenziari. Osservati speciali, nel viaggio di “Nessuno tocchi Caino”, gli istituti penitenziari della Calabria e della Sicilia. E così, dopo la tappa di lunedì scorso presso la casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), a cui hanno preso parte i dirigenti dell’associazione - Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti - insieme ai rappresentanti delle Camere penali di Messina e di Patti e a vari magistrati, la delegazione arriva oggi e domani nelle carceri di Trapani e Favignana. A queste visite parteciperanno anche gli avvocati delle Camere Penali di Marsala e Trapani, il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Marsala Giuseppe Spada, il deputato regionale Stefano Pellegrino, i sostituti procuratori Giuseppe Lisella e Diego Sebastiani, il magistrato di sorveglianza di Trapani Andrea Fallo e il giudice onorario Gaspare Sammartano. Il tour proseguirà il 4 agosto con una tappa nella casa circondariale di Arghillà a Reggio Calabria, alla presenza del presidente della Camera Penale Francesco Siclari, del magistrato Ilario Nasso, della Garante regionale dei detenuti Giovanna Russo, e del consigliere regionale Giuseppe Mattiani. L’obiettivo di questo “viaggio” estivo è duplice: verificare lo stato delle strutture penitenziarie e sostenere la proposta di legge per la liberazione anticipata speciale, presentata alla Camera da Roberto Giachetti e rilanciata recentemente anche da Ignazio La Russa e Fabio Pinelli. La proposta mira ad alleggerire il peso del sovraffollamento cronico delle carceri italiane, ormai divenuto una vera emergenza. Secondo i dati più recenti del Ministero della Giustizia, aggiornati al 3o maggio 2o25, i detenuti in Italia sono 62.722, a fronte di una capienza regolamentare di 46.706 posti, con un tasso di affollamento pari al 134,29%. Questi i numeri ufficiali: ma la situazione potrebbe essere anche peggiore, considerando che i posti realmente disponibili - cioè quelli effettivamente fruibili - sarebbero inferiori, portando il tasso reale di sovraffollamento oltre il 150% in alcuni istituti. A questa emergenza si aggiunge la carenza cronica di personale, con un deficit di almeno 6.000 agenti penitenziari rispetto all’organico previsto. Un contesto che grava ulteriormente sulle condizioni di sicurezza e vivibilità all’interno delle strutture. L’insostenibilità della situazione carceraria è testimoniata anche dal numero crescente di suicidi: 46 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio del 2025, a cui si aggiungono tre suicidi tra gli agenti. Numeri allarmanti che rendono evidente l’urgenza di interventi strutturali e riformatori. L’impegno di “Nessuno tocchi Caino”, affiancata da avvocati, magistrati e politici, vuole portare alla luce le reali condizioni dietro le sbarre e sollecitare la politica ad attuare misure concrete, a partire da riforme legislative come la liberazione anticipata speciale e un uso più diffuso delle pene alternative. Il reato a firma Stato: ingiusta detenzione di Antonio Nastasio* bergamonews.it, 30 luglio 2025 L’errore giudiziario non è una fatalità: è una ferita, e quando il fatto si ripropone, la coscienza democratica non può restare in silenzio, deve parlare, deve rispondere senza tentennamenti fatti del poi e del si vedrà ma imporsi con ora e subito. Nella lunga e inquietante saga del proliferare di “verità pensate”, dedotte più che verificate, la verità giudiziaria è spesso motivo di rappresentazioni non giudiziarie a scapito della verità vera che rischia di perdersi, camuffata da altre verità, a volte nel silenzio dello Stato. Sempre più spesso assistiamo al pericoloso fenomeno per cui fatti di cronaca vengono elevati a verità assolute, senza che vi sia stata una verifica giudiziaria rigorosa. Su queste basi fragili e spesso distorte si rischia di costruire condanne che privano ingiustamente della libertà persone innocenti e questo non fa parte di uno stato di diritto. Lo scenario distorto e il dover giungere comunque a punizione, unito all’indifferenza verso negligenze evidenti e il lasciar spazio a voci che urlano la loro interpretazione dei fatti, è il grande errore che va ad alimentare quello che si potrebbe chiamare un tradimento istituzionale. Un tradimento che, nei fatti, si configura come un reato spesso impunito ma lascia imperituro il marchio di mostro all’imputato o al giudicato. Posto all’attenzione della stampa, supportata da una serie di omissis o negligenze a tutti i livelli chiamati in causa ad operare nel contesto, si ritiene, così, sia verità fatta. Purtroppo questo agire crea una ingiusta detenzione e stampa la figura del mostro su cui riversare le collettive verità individuali intese come totali e assolute, pensiero tanto caro al relativismo di Nietzsche. È un dramma quello dell’ingiusta detenzione che colpisce, ogni anno, centinaia di cittadini innocenti che finiscono, con la privazione della libertà personale, senza colpa solo perché additati dal pubblico convincimento. Questo mette sotto accusa le falle della giustizia italiana dove poi colpa e risarcimento diventano termini da conquistare e non dati automaticamente. Quello dell’ingiusta detenzione è, a dir poco, un reato di cui si parla poco e non viene commesso nei vicoli suburbani ad alta criminalità. È un crimine a firma Stato. È la condanna inflitta a un innocente, a chi non ha alcuna responsabilità nel reato ascrittogli. Si tratta dell’errore giudiziario uno dei più gravi e devastanti, perché consumato nel nome della legge e sotto l’emblema della giustizia che, attraverso i suoi organi, commette un’ingiustizia irreparabile, violando il principio fondamentale dell’innocenza presunta, e minando la fiducia nell’ordinamento giuridico. Anche la terminologia comunemente utilizzata per descrivere questi accadimenti risente di una visione riduttiva e, per certi versi, anacronistica, talvolta ancora legata a una retorica romantica del giudizio. Definire tali accadimenti come “errori giudiziari” appare inadeguato, se non offensivo: un errore presuppone un’inesattezza occasionale, una svista involontaria. Qui, al contrario, ci si trova dinanzi a una distorsione sistemica del fare giudiziario, a una violenza istituzionalizzata, a una lesione profonda del patto costituzionale che garantisce la tutela dei diritti fondamentali dell’individuo. Appaiono altresì impropri i termini oggi impiegati per qualificare tali fenomeni, come errore e riparazione, espressioni che non rendono conto della gravità sostanziale e sistemica dell’accaduto. Occorre pertanto introdurre un lessico giuridico più aderente alla realtà della lesione subita, che riconosca il carattere strutturale della violazione e imponga un ripensamento in termini di responsabilità istituzionale e riparazione integrale. Non si tratta di dare corso a una semplice constatazione di un fatto grave, ma di un grido, non contro l’errore, che può essere umano e, in certi casi, anche comprensibile sul piano giuridico, ma è, al contro l’incapacità o la volontà di non correggerlo. È questo che rende lo Stato colpevole. L’ammissione dell’errore non fa crollare il diritto, ma mette lo Stato di diritto nella condizione di autocorreggersi, perché non è il disordine a generare l’ingiustizia, ma l’abuso di potere mascherato da legalità. Un potere che, pur muovendosi formalmente entro i confini delle regole, ha errato se non accetta di l’autocorreggersi ha fallito nella sua missione più alta: proteggere l’innocente. È allora che “l’errore” diventa un evento del fare, una toppa concettuale, che si consuma, nei confronti di chi viene detenuto ingiustamente, che ha tutti gli effetti di una violenza istituzionale, che l’umilia, con la perdita di identità, l’esclusione sociale, il motivo per vivere e dare senso all’esistenza. Il sistema reagisce con un “risarcimento,” quando e se arriva, un risarcimento per ingiusta detenzione, questo un concetto debole, un’eredità romantica del diritto ottocentesco, che non coglie la portata reale del danno. Non si tratta di sanare il danno mettendo del denaro: si tratta di dare valore al tempo tolto, alla dignità violata, alla identità stravolta. Non è con un assegno che si può riparare ciò che è stato negato: la vita stessa. Il concetto di risarcimento, inteso etimologicamente come “ricucire, rimettere insieme”, unito ad un pietistico e fatalistico “può accadere”, risulta inadeguato e improprio. Lo Stato non agisce nella veste di un sovrano magnanimo che “concede” una somma di denaro, bensì come soggetto istituzionale che ha il dovere di riconoscere la propria responsabilità e porvi rimedio, nel rispetto dei principi costituzionali. È riduttivo, e giuridicamente inaccettabile, ricondurre la privazione della libertà di un innocente a un semplice errore tecnico: si tratta, invece, di una grave lesione del diritto fondamentale alla libertà personale, garantito dall’art. 13 della Costituzione, che assume i contorni di una ferita costituzionale profonda, al limite della responsabilità penale dell’apparato statuale a tutti i livelli. La tutela dell’innocente, ingiustamente condannato, non può essere relegata a una questione di mera compensazione economica, ma deve essere affrontata come una priorità giuridica oltre che morale tale da imporre verità, responsabilità e giustizia sostanziale. Il rimborso economico è certamente necessario per far fronte all’immediato, alle esigenze concrete e urgenti che si presentano nel “dopo carcere”. Tuttavia, la logica da porre in essere, deve essere ben diversa nel definire il quantum complessivo del risarcimento. Certamente non può ridursi a una valutazione aritmetica basata sul reddito ipotetico perso durante la detenzione: la misura del danno deve partire da ciò che la persona avrebbe potuto essere, dalla traiettoria di vita che avrebbe potuto seguire, dalle opportunità personali, professionali e relazionali che sono state negate. È su queste potenzialità, irrimediabilmente compromesse da una detenzione ingiusta, che deve basarsi ogni seria valutazione risarcitoria, perché non si tratta di restituire un qualcosa, ma il riconoscere fino in fondo il diritto violato e la vita interrotta. Nel nostro ordinamento, il “giudicato” diventa intoccabile, anche quando emergono nuove prove, e la verità smentisce la sentenza. In altri Paesi le sentenze possono essere riaperte, da noi no: l’errore viene blindato, e il sistema nel difendersi a ogni costo abbandona l’innocente. Mettere la parola fine all’iter giudiziario è una necessità, oltre che giuridica, anche umana, per diventare certezza. Ma che certezza è se è ingiusta? Oggi si cerca di dare un nome e una forma a ciò che accade quando lo Stato priva un innocente della libertà: non più solo per ingiusta detenzione, per diventate reato detentivo con responsabilità istituzionale. Lo Stato non è un’entità astratta, né un corpo distante dalla vita quotidiana dei cittadini. È fatto di leggi, confini, istituzioni, ma soprattutto di persone. E ogni esito che produce è il frutto di decisioni, omissioni, azioni compiute o evitate. A tutto questo corrisponde una responsabilità, che non può essere elusa. Non può esserci neutralità, né una pietosa excusatio di fronte a una violazione così grave. Né può restare senza nome. Questo, almeno. sarebbe il giudizio di un Tacito indignato. Ma all’indignazione si deve unire l’ammonimento di Kant: l’essere umano non può mai essere ridotto a mezzo, ma deve essere sempre considerato un fine. L’errore giudiziario non è una fatalità: è una ferita, e quando il fatto si ripropone, la coscienza democratica non può restare in silenzio, deve parlare, deve rispondere senza tentennamenti fatti del poi e del si vedrà ma imporsi con ora e subito. *Dirigente superiore Giustizia in quiescenza, Giudice Onorario TS Milano non operativo Se il protagonismo dei giudici riempie il vuoto della politica di Antonio Mastrapasqua Il Riformista, 30 luglio 2025 Il mugnaio Arnold lo diceva con soddisfazione e gratitudine: “Per fortuna c’è un giudice a Berlino”. Oggi potremmo dire che c’è un giudice per tutto: per dirimere un dubbio sugli esami di maturità, per sciogliere il dilemma di un’Opa, per chiudere o tenere aperto un impianto siderurgico, per indagare politici e cortigiani su vere o presunte corruzioni. Intendiamoci, una parte dell’esuberanza della magistratura sta nel tasso di litigiosità della società e nella complessità del sistema di regole che ci siamo dati per la convivenza civile. Non è solo una questione italiana. I giudici sono protagonisti, o lo diventano, negli Stati Uniti, così come a Bruxelles. Ma è pur vero che in Italia la magistratura ha assunto un ruolo di fatto assai diverso da quello che aveva di diritto. Colpa della politica? Probabilmente sì. I vuoti si riempiono sempre. E il vuoto della politica è stato (ed è) sotto gli occhi di tutti. Oggi che la politica - o almeno una parte di essa - progetta e prepara riforme sulla Giustizia possiamo dirci arrivati al dunque? Non credo. Sulla separazione delle carriere dei magistrati potremmo fare elenchi di buone ragioni e altrettanti di dubbi e incertezze. Ma mi sento di dire che non è questo il problema. Non sono contagiato dal “benaltrismo”, ma sono convinto che il problema della Giustizia avvertito dagli italiani non si risolve aspettando un referendum costituzionale che potrebbe essere imbandito fra un paio d’anni. Il problema della Giustizia in Italia è oggi; tutto il resto potrebbe essere visto come fumo negli occhi. C’è un problema di efficienza della “macchina della Giustizia” e c’è un problema del suo ruolo. Che la macchina sia inefficiente lo vede chiunque abbia a che fare con la giustizia civile e i suoi tempi di attesa biblici. E sul fronte penale non va molto meglio. E potremmo dire che anche la “qualità” delle sentenze non è sempre alta, vista la loro frequente riformazione nel corso dei gradi di giudizio. Ma c’è il problema del “ruolo”: invece che amministrare Giustizia i magistrati sembrano sempre più spesso orientati a proporre moralità, sconfinando inevitabilmente in una attività politica. Che ci possa essere bisogno di moralizzazione, non da oggi, potremmo essere d’accordo, in molte parti della vita civile. Ma non pare che sia questo il compito cui è chiamato il potere giudiziario. Di certo non è una sua esclusiva. Il problema della Giustizia che si avverte oggi è che basta un’indagine per essere giudicati colpevoli. Il cortocircuito tra magistratura, media e politica non è solo affare della prima? Potremmo discuterne, visto che la fonte primaria (ed esclusiva) della gestione delle informazioni sulle indagini proviene dalle Procure. L’ex senatore del Pd, Stefano Esposito (uno dei tanti indagati italiani, poi prosciolti, dopo sette anni!) ha proposto un patto repubblicano: “Al di là di maggioranza e opposizione, di fronte a un’indagine la regola è che non ci si dimette”. O perlomeno la regola è che nessuno chiede le dimissioni. Anche perché, nella stragrande maggioranza delle volte, i processi si chiudono - parecchi anni dopo - con un’archiviazione o un’assoluzione o una condanna molto più lieve di quanto promettessero le indagini. Semplice. C’è chi ha già mostrato di apprezzare l’idea di Esposito. L’uovo di Colombo. Io proverei ad aggiungere due proposte. La prima: oltre alla mancata richiesta di dimissioni, potrebbe essere un segnale di civiltà non ostracizzare chi si trova indagato. Il ghetto degli italiani in attesa di giudizio è pieno di persone che vengono escluse preventivamente da ogni attività (esclusa forse solo la politica attiva) con danni enormi per loro, per le loro famiglie, per le persone e le imprese con cui collaborano. La seconda proposta, che in fondo comprende la prima: il suggerimento di Esposito potrebbe essere, ancora più semplicemente, un ritorno alla Costituzione. Alla sua piena vigenza. Nell’articolo 27 comma 2 della Costituzione della Repubblica italiana si legge che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Per questo motivo, la presunzione di innocenza viene anche chiamata “principio di non colpevolezza”. La strada di questo fondamentale diritto dell’uomo iniziò con Verri e Beccaria ed è giunta anche nella Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Basterebbe applicare la Costituzione - senza se, senza ma - e la prima grande riforma della Giustizia in Italia sarebbe fatta. E magari, più che un “patto repubblicano”, basterebbe un messaggio al Parlamento (e all’Associazione nazionale magistrati) del Capo dello Stato, garante della Costituzione, presidente del Csm: la Costituzione parla chiaro. Tutte le discriminazioni cui sono sottoposti gli indagati a ogni titolo, sono incostituzionali. Carriere separate, ora Nordio teme le urne: “Vedo sondaggi diversi” di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2025 I dubbi sull’esito incerto del referendum: “Vinciamo? Ci affidiamo ai cittadini”. E cambia versione sulla lettera Anm. Alla fine del 2024, parlando alla Camera coi colleghi di maggioranza, non aveva dubbi: il referendum sulla separazione delle carriere andrà bene, perché “ai magistrati non crede nessuno, la loro credibilità è al 30%”. Oggi il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha cambiato idea. Il referendum sulla Giustizia si avvicina e il guardasigilli inizia a mostrare i primi dubbi a chi gli chiede se c’è la convinzione di vincere: “No, i sondaggi dell’Anm dicono una cosa, il sondaggio di Swg un’altra “Ci affidiamo ai cittadini”, spiega all’ora di pranzo ad alcuni cronisti tra cui quello del Fatto alla buvette della Camera. Il caso vuole che qualche ora dopo, nel pomeriggio, Fratelli d’Italia mostri un’opinione diversa pubblicando sui social un sondaggio di Affaritaliani.it secondo cui i “sì” alla riforma sarebbero al 62,1%. Dietro la card la faccia del Guardasigilli. Le parole di Nordio mettono in evidenza, per la prima volta, i dubbi del ministro sul successo al referendum costituzionale sulla separazione delle carriere. Nonostante questo, i tempi della riforma saranno “rispettati”: “Alla Camera e al Senato la riforma sarà approvata prima dell’autunno e poi si va al referendum”, continua il ministro della Giustizia sicuro di sé e dell’iter parlamentare della riforma. In maggioranza, temendo un risultato negativo che possa coinvolgere il governo e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, si inizia a parlare di slittamento del referendum a dopo le elezioni politiche come avverrà sul premierato. Ma per Nordio non andrà così: “Il referendum non slitta, non slitta”, assicura. Insomma, si farà nella prima metà del 2026 e non dopo le elezioni come per la riforma del premierato. Prima di salutare i cronisti, però, il ministro della Giustizia si sofferma anche sulle polemiche che riguardano la sua firma del 1994 all’appello dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) contro la separazione delle carriere. Lettera citata dalle opposizioni in aula e pubblicata sui profili social proprio dell’Anm a voler dimostrare il voltafaccia del ministro, allora pubblico ministero a Venezia. Nei giorni scorsi, Nordio si è difeso dicendo di aver cambiato idea dopo il suicidio di un suo indagato, il segretario amministrativo della Dc Gino Mazzolaio arrestato nell’aprile del 1993 nell’ambito di un’inchiesta dell’allora pm veneziano sugli appalti della Sanità in Veneto. Ma i tempi non tornano: quest’ultimo si tolse la vita nel 1993, un anno prima della firma sull’appello, che risale al 3 maggio 1994. Ora Nordio cambia versione ancora una volta: prima dice che “la firma era stata posta prima (nel 1992, ndr) e la lettera è stata pubblicata dopo”, spiega alla buvette di Montecitorio. Poi però ammette: “Se vogliamo fermarci a queste cose vuol dire proprio che non hanno argomenti - continua Nordio - avete visto l’articolo che ho scritto sul Messaggero tre giorni fa? C’è il diritto di cambiare idea e io l’ho cambiata 30 anni fa, non da poco. Se non hanno altri argomenti vuol dire che sono proprio alla frutta e io sono contento”. Poi Nordio spiega che la prima pubblicazione contro la separazione delle carriere “l’ho fatta nel 1995: sono stato chiamato dai probiviri dell’Anm per rendere conto delle mie idee e li ho mandati al diavolo”. Ad ogni modo, conclude il Guardasigilli, i rapporti con l’Anm oggi sono “sospesi”. Niente da dire invece sul caso Almasri: a stretto giro dovrebbe arrivare la decisione del Tribunale dei ministri che chiederà l’archiviazione o l’autorizzazione a procedere nei confronti della premier Meloni e dei ministri Matteo Piantedosi, Nordio e del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Se dal punto di vista giudiziario, i ministri non rischiano niente perché la maggioranza respingerebbe la richiesta, il governo teme la pubblicazione degli atti. Ma Nordio dice che non ci sono novità: “non so assolutamente nulla”, conclude prima di andare in aula a votare (scheda bianca) per il nuovo componente del Csm. Csm, ecco perché il sorteggio fa paura (ma può salvare la magistratura) di Andrea Mirenda* Il Dubbio, 30 luglio 2025 Il dibattito sulla riforma divide: c’è chi parla di “mortificazione” e chi lo vede come rimedio al correntismo. Ecco perché il sorteggio può restituire autorevolezza e tutela della legalità a Palazzo Bachelet. Suole ripetersi che il sorteggio sarebbe lesivo della rappresentatività del Csm. C’è chi, ieri - il capo della Dna Giovanni Melillo e il Sole 24 Ore - ha parlato addirittura di “mortificazione” dell’autorevolezza dei nuovi organi consiliari. Occorre intendersi. Se si vuol dire che il metodo stocastico esclude la “rappresentanza politica” del Csm, possiamo stare sereni: lo ha già detto, almeno un paio di volte, la nostra Corte costituzionale sicché la riforma in cantiere altro non farà che ribadirlo... e giustamente. Perchè un Csm politicizzato, come quello che purtroppo conosciamo, qui e lì scodinzolante alla maggioranza parlamentare di turno, corre sovente il rischio di divenire la prima minaccia all’indipendenza del singolo magistrato (specie se “cane sciolto”), esponendolo - a sua volta - agli umori (variabilissimi) della maggioranza consiliare del momento. Con buona pace della sua soggezione “soltanto alla Legge”. Si mettano il cuore in pace, allora, le indaffaratissime parrocchiette che, congruamente supportate dai propri “designati” consiliari, tutti col “survivor-kit” delle “visioni culturali”, in omaggio ad un sedicente pluralismo culturale ne hanno combinate di ogni tipo... e colore. Sin qui, dunque, nulla di nuovo. Nessuna mortificazione ma, anzi, legittima e coerente iniziativa del Legislatore per porre rimedio alle indecorose pratiche del nominificio correntizio, bollate senza appello di “modestia etica” dal Capo dello Stato Mattarella che, tra l’altro, del nostro consesso è pure Presidente. Un rimedio, del resto, tanto più doveroso di fronte alla spirale in avvitamento della magistratura associata, dolosamente incapace della benchè minima proposta autoriformista (peraltro giova ricordare che nel 2022 Magistratura indipendente - oggi egemone, ieri no - si espresse a favore del sorteggio secco come vero e unico rimedio contro il correntismo consiliare, salva l’odierna retromarcia, agevolmente comprensibile). Ma torniamo alla perdita di autorevolezza, questa volta, però, sotto il diverso angolo visuale - a metà via tra quello fenotipico e quello sociologico - del togato “sorteggiato”. Si dice (è stato ripetuto anche recentemente in plenum, con doverosa replica di chi scrive, primo, e speriamo non ultimo, sorteggiato della storia consiliare) che il “sorteggiato” non sarebbe autorevole perché dotato di “scarsa presa interna ed esterna” in quanto “rappresentativo solo di se stesso” (così, da ultimi, Melzi e Vigevani su Il Sole di ieri). Commenti simili ce li attenderemmo dai venusiani, sbarcati per cattiva sorte sulla Terra solo ieri l’altro. Prima di tutto emerge il dato, schiettamente politico, di una “studiata” smemoratezza. Si dimentica, difatti, il totale screditamento dell’attuale Csm degli “eletti-designati”; un discredito di cui ha, invece, grazie al Cielo, buona memoria la società civile e che, peraltro, è fortemente avvertito anche in seno allo stesso ordine giudiziario, dove il Csm - novello Tiberio diviso in gruppetti e sottogruppetti programmaticamente protesi a piazzare compari e comparielli in danno di rivali e non genuflessi - è, ahinoi, Istituzione… più temuta che amata. Si dimentica, ancora, che gli eletti sotto la bandiera della corrente, proprio perché legati a debito di gratitudine con il potere che lì li ha voluti, mostrano di regola il forte assoggettamento a quel vincolo: bastino a dimostrarlo plasticamente, anche sul piano estetico, non solo la distribuzione “geografica” dei consiglieri (ogni gruppo ha il suo piano, con i membri del gruppo tutti vicini, gli assistenti tradizionalmente tramandati di consiliatura in consiliatura, le imbarazzanti riunioni con i segretari di corrente all’interno del palazzo Bachelet, etc. etc.) ma anche, e soprattutto, le mani alzate all’unisono sulle proposte contrapposte, senza mai il pur minimo cenno di dubbio del singolo consigliere affiliato. E tanto basterebbe per porsi interrogativi pesanti sulla riconducibilità di simili prassi con la libertà morale e l’indipendenza predicate nel codice etico dei consiglieri europei. Si dimentica, infine, che il sorteggiato togato, per buona sorte, non dovrà più rappresentare i circoli magici descritti. Tutto ciò sarà una perdita? Una mortificazione? Uno svilimento dell’autorevolezza del Consiglio e dei suoi consiglieri stocastici? Dico umilmente no, partendo anche dalla mia personale esperienza. No perché il magistrato sorteggiato (espressione di un potere giudiziario diffuso compendiato nell’uguaglianza di tutti i magistrati, distinti solo per funzioni, e nel principio del giudice naturale precostituito a cui accede il divieto di scegliersi il giudice “migliore”), sarà capace di rappresentare - direi finalmente! - il vero volto del Consiglio, i suoi valori costitutivi (prima di tutte, la tutela dell’autonomia e indipendenza del “singolo magistrato”), la cultura della legalità e del tecnicismo giuridico mediante cui si palesa l’arte di vestire la discrezionalità tecnica - a cui egli pure sarà chiamato, ben conoscendola quotidianamente nella giurisdizione - con argomenti trasparenti e ricostruibili, anziché con opacissime “opzioni culturali” dietro le quali, da decenni, sono abilmente celate operazioni spartitorie di bassa cucina, bene descritte nella notoria doppietta editoriale di Palamara. Se questa sarà mortificazione, se tutto ciò comporterà perdita di autorevolezza dell’Istituzione consiliare, lo dirà il Parlamento sovrano e, a seguire, il corpo elettorale. Io lo auspico, per il bene del Paese. *Consigliere Csm Reati ostativi senza pena sostitutiva, ma il carcere sia rieducativo e umano di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2025 I condannati per reati ostativi possono essere esclusi dall’accesso alle pene sostitutive, ma l’esecuzione delle pene detentive deve rispettare i principi di rieducazione e umanità imposti dalla Costituzione. La Consulta, con la sentenza i39, salvala riforma Cartabia che nega l’applicazione delle misure alternative al carcere ai condannati per i cosiddetti reati ostativi previsti dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Per il giudice delle leggi, rientra nella discrezionalità del legislatore sbarrare l’accesso al “beneficio” agli autori di una serie di reati, che vanno dall’associazione di tipo mafioso, alla violenza sessuale. Un semaforo rosso che la Corte costituzionale non considera in contrasto con la Carta, affermando però che il legislatore e l’amministrazione penitenziaria hanno il “preciso dovere” di assicurare a tutti i condannati a pene detentive “condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena”. A invocare l’intervento della Consulta era stata la Corte d’Appello di Firenze, secondo la quale la preclusione entrerebbe in rotta di collisione con il principio di uguaglianza e con quello relativo alla funzione rieducativa della pena. Inoltre, sempre secondo il giudice remittente, il legislatore delegato avrebbe violato il criterio di delega, negando al giudice il potere di individuare, nei singoli casi, la pena più adatta ad assicurare la rieducazione e la prevenzione dal rischio recidiva. Un potere discrezionale cancellato. Secondo la Consulta, però, il legislatore delegato non è andato oltre la sua discrezionalità, considerando gli accertamenti non in linea con gli obiettivi della riforma di semplificare, velocizzare e razionalizzare il processo penale. La norma non è poi in contrasto con il principio di uguaglianza. Il legislatore può, infatti, negare le pene alternative per tutti i reati ostativi, in genere di significativa gravità e di particolare allarme sociale. Non è poi violato neppure il principio della finalità rieducativa che, accanto al reinserimento sociale, garantisce anche la tutela della società contro la residua pericolosità del condannato. Finalità che può giustificare l’esecuzione della pena detentiva anche nei confronti di cui non sia più giudicato socialmente pericoloso. Per il giudice delle leggi è comunque sempre necessario i condannati per questi reati, scontino una pena detentiva “in condizioni e con modalità tali da incentivare o rendere comunque praticabile il percorso rieducativo”. Condizioni non sempre assicurate, oggi, nelle carceri italiane in cui il sovraffollamento “rende particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena”. Pene sostitutive, la Consulta: sì all’esclusione per i reati ostativi, ma il carcere va cambiato di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2025 La Corte Costituzionale salva la norma della riforma Cartabia che esclude le pene alternative per reati gravi, ma lancia un richiamo duro sulle condizioni detentive: numeri fuori controllo che non praticano rieducazione. La Corte Costituzionale ha depositato una sentenza destinata a fare chiarezza su uno dei nodi più delicati della riforma della giustizia penale: l’esclusione dei condannati per reati gravi dalle nuove pene sostitutive introdotte dalla riforma Cartabia. Con la sentenza numero 139, i giudici costituzionali hanno dichiarato legittime le limitazioni previste per i cosiddetti reati ostativi, ma hanno al tempo stesso ribadito con fermezza che l’esecuzione delle pene detentive deve sempre rispettare i principi di umanità e finalità rieducativa sanciti dalla Costituzione. Principi che, sottolineano, non risultano attualmente garantiti in presenza di criticità strutturali come il sovraffollamento. La questione è approdata alla Consulta nell’ambito di due procedimenti penali riguardanti imputati condannati per reati di violenza sessuale e pornografia minorile. In entrambi i casi, nonostante le pene inflitte non superassero i quattro anni di reclusione - soglia che in genere consente l’accesso alle pene sostitutive - i giudici avevano le mani legate per poter concedere tale possibilità per via della natura dei reati, inseriti nell’elenco dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Il nodo giuridico centrale riguardava l’articolo 59 della legge n. 689/1981, così come modificato dalla riforma Cartabia, che esclude in modo assoluto la sostituzione della pena detentiva con misure alternative (affidamento in prova, semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità) per i condannati per reati ostativi. I giudici dei due procedimenti - il gip e la Corte d’appello - avevano ritenuto che tale esclusione violasse l’articolo 76 (eccesso di delega), l’articolo 3 (disparità di trattamento) e l’articolo 27, terzo comma (finalità rieducativa della pena) della Costituzione. La Consulta ha rigettato le eccezioni di illegittimità costituzionale, ma la sua decisione non si limita a un semplice “no”. I giudici hanno infatti delineato un ragionamento complesso, che cerca di tenere insieme le diverse esigenze in campo. Sul piano della discrezionalità legislativa, la Corte ha chiarito che spetta al Parlamento stabilire quali reati possano accedere alle pene alternative, a condizione che tale scelta rispetti i criteri di ragionevolezza e proporzionalità. I reati ostativi, per loro stessa natura, comportano una gravità e un allarme sociale tali da giustificare - secondo la Corte - l’esclusione dalle nuove modalità di esecuzione penale. I giudici delle leggi hanno inoltre escluso che la disciplina in questione violi il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione. La distinzione tra reati gravi e meno gravi, ai fini dell’accesso alle pene sostitutive, non rappresenta una discriminazione arbitraria, bensì una scelta ponderata del legislatore fondata sulla diversa offensività dei comportamenti criminosi. Particolarmente rilevante è la parte della sentenza dedicata al principio della finalità rieducativa della pena, sancito dall’articolo 27 della Costituzione. La Corte ha ribadito che tale principio, pur essendo centrale, non esclude che la pena possa perseguire anche altre funzioni, come la tutela della collettività e la prevenzione generale. Ma - ed è qui che la sentenza assume un peso specifico - il rispetto della finalità rieducativa resta un vincolo inderogabile per ogni condannato, indipendentemente dalla gravità del reato. Questo significa che anche chi sconta pene per reati ostativi deve essere messo nelle condizioni di intraprendere un percorso di risocializzazione: un percorso che sia, per usare le parole della Corte, “praticabile”. L’elogio delle pene sostitutive e la critica alle condizioni carcerarie - La Corte costituzionale non ha mancato di riconoscere il valore innovativo della riforma Cartabia, definendo “un passo significativo” l’ampliamento delle pene sostitutive e delle possibilità di accedervi. Queste misure, si legge, sono “tendenzialmente più funzionali ad assicurare l’obiettivo della rieducazione del condannato”, poiché evitano gli effetti desocializzanti della detenzione e accompagnano il condannato lungo un cammino che valorizza lavoro, istruzione, relazioni familiari e reti sociali. La Corte invita però a una transizione graduale: prima sperimentare sui reati meno gravi, lasciando fuori - per ora - quelli che “il legislatore, con valutazione non arbitraria né discriminatoria, reputi maggiormente offensivi”. Ogni estensione dei benefici, aggiunge, deve essere sostenuta da adeguati interventi organizzativi e da un impianto coerente di misure alternative. Il passaggio più severo della sentenza riguarda però la realtà quotidiana delle carceri italiane. La Consulta denuncia come le attuali condizioni di sovraffollamento rendano “particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena”. È un richiamo netto alle istituzioni: al legislatore e all’amministrazione penitenziaria vengono assegnati precisi e non rinviabili - migliorare le strutture, ridurre il sovraffollamento, incentivare i percorsi formativi e lavorativi, rafforzare il dialogo con famiglie e associazioni. Resta ora da vedere se questo richiamo riuscirà a tradursi in prassi. Riuscirà il carcere, come richiesto dalla Consulta, a essere un luogo dove - pur nella necessità della pena - non si spenga ogni possibilità di recupero, e dove il principio costituzionale della rieducazione non rimanere lettera morta? Pavia. Tragedia in carcere: detenuto si suicida, è il 13esimo dal 2021 di Adriano Agatti La Provincia Pavese, 30 luglio 2025 Il 36enne era in cella da solo, si è impiccato con le lenzuola. La Procura ha aperto un fascicolo per chiarire l’episodio. Ennesimo suicidio nel carcere di Torre del Gallo: è il tredicesimo dal 2021. La media è di oltre tre ogni anno. Ci sono stati anche alcuni tentativi di togliersi la vita sventati dalla polizia penitenziaria. Domenica sera si è suicidato un detenuto originario dell’est Europa che aveva 36 anni: si è impiccato alla porta della sua cella in un settore della parte vecchia del carcere. Il medico non ha potuto far altro che constatare il decesso e il corpo è stato trasferito all’istituto di Medicina legale. Un primo rapporto è stato inviato negli uffici della Procura della Repubblica di Pavia ed è stata aperta un’inchiesta. Sarebbe stata anche disposta l’autopsia ma non ci sono dubbi per il suicidio. Da chiarire invece il motivo che ha portato il detenuto a togliersi la vita. È successo verso le 20 di domenica sera. Il detenuto, dopo la cena, era rientrato nella sua cella singola. L’uomo aveva già studiato nei particolari il piano per togliersi la vita. Sembra che avesse già annodato alcuni pezzi di lenzuola poi abbia fissati alla porta d’ingresso della cella. Il 36 enne ha calcolato con precisione i tempi del passaggio dei controlli del personale della polizia penitenziaria affinché nessuno lo vedesse. Poi si è impiccato. La tragedia è stata scoperta probabilmente pochi minuti dopo quando un agente carcerario ha controllato l’interno della cella ed ha notato il corpo del detenuto. La guardia e i colleghi sono entrati e hanno steso il corpo del 36enne sul pavimento. Poi è arrivato il medico interno della struttura carceraria ma è stato inutile: l’uomo infatti era già morto. Nel carcere di Torre del Gallo nel 2024 si erano tolti la vita tre detenuti mentre quello di domenica sera è il primo suicidio di quest’anno. Dal 2021 a Torre del Gallo si sono uccise dodici persone. Sono numeri che dimostrano come la situazione nel carcere pavese non sia delle migliori per le condizioni dei detenuti e per l’organico del personale della penitenziaria. Le organizzazioni sindacali più di una volta hanno detenuto la carenza di uomini. Parma. Carcere di via Burla, detenuto di 53 anni si suicida di Mara Varoli Gazzetta di Parma, 30 luglio 2025 Un detenuto italiano di 53 anni si è suicidato intorno alle 17.20, impiccandosi nel carcere di Parma. Ne ha dato notizia il Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. “L’uomo, un detenuto ad alta sicurezza per reati associativi - spiega - era in isolamento dal 2 maggio scorso per un motivo sanitario. Si è impiccato con l’elastico delle sue mutande. La stessa identica modalità con cui a Ferragosto dello scorso anno un cittadino di origine tunisina si suicidò a Parma, sempre in isolamento, nella cella 3, il detenuto di oggi è morto nella cella 4”. Si tratta del settimo suicidio in carcere in Emilia-Romagna dall’inizio dell’anno: 4 sono avvenuti a Modena, uno a Bologna, uno a Reggio Emilia e oggi, l’ultimo, a Parma. Dopo essere stato in isolamento per motivi sanitari, osserva Cavalieri, “si era rifiutato di risalire in sezione: stando in isolamento si ha il vantaggio di stare soli in cella però, alla lunga l’isolamento non giova mai alla psiche, logora”. Il 53enne “che aveva un fine pena definitivo nel 2034 aveva avuto un gesto autolesionistico a metà giugno, quando aveva ingerito delle pile ed era sottoposto a sorveglianza passiva, ma non aveva un rischio suicidario. La Procura ha autorizzato il rilascio della salma ai familiari e non si farà l’autopsia”. A giudizio del Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, ancora, le due “sezioni Iride, a Parma meritano una grande riflessione perché i suicidi avvenuti negli ultimi due anni sono avvenuti in quelle sezioni. Quest’ultimo suicidio - puntualizza - non lo collego al sovraffollamento, al caldo, all’estate, non è questo il tema. Per queste persone che stanno molto tempo in isolamento in queste sezioni si alza il rischio di suicidio. È una cosa che sta nei numeri e nelle statistiche: c’è una gestione errata dei detenuti negli isolamenti. Tre mesi di isolamento sono una cosa che va oltre il senso della dignità delle persone”, conclude. Firenze. “Se una persona si toglie la vita in carcere, a me non interessa” di Dmitrij Palagi* facebook.com, 30 luglio 2025 “Se una persona si toglie la vita in carcere, a me non interessa”: lo ha detto un ascoltatore durante una rassegna stampa a cui ho partecipato stamani. Non mi ha sconvolto. Mi ha fatto arrabbiare. Non per lui, a cui auguro di non ritrovarsi mai in una condizione di bisogno intorno a persone con poca umanità. Ma per la società in cui viviamo, che rende pensabile, dicibile e apparentemente accettabile quel pensiero. Perché in carcere nella maggioranza dei casi si scarica quello che la società non sa affrontare. Avviene così in molti contesti di marginalità, povertà e malattia. Per questo preoccupano alcune cose che abbiamo sentito ieri, durante il Consiglio comunale dedicato anche alla relazione della Commissione Politiche Sociali di Palazzo Vecchio. Il rischio è quello che il pubblico e la politica deleghino al volontariato, al terzo settore, al privato sociale, le loro responsabilità, la loro funzione. L’espressione “professionisti del carcere” è infelice, perché rischia di rimuovere la generosità di chi si spende nella galassia della detenzione, ma evidenzia efficacemente una forma di privatizzazione diversa da quella statunitense, simile agli appalti che ci sono nel sistema sanitario e sociosanitario. Abbiamo proposto una Città senza carcere. Che, come obiettivo, ha il superamento della necessità della detenzione. È magari un’utopia, ma cambia il paradigma da cui si parte, negando alla radice il populismo penale. Come si fa a evitare che una persona finisca in carcere? Partiamo dal contrasto alle dipendenze, dalla prevenzione nell’ambito della salute mentale, dal chiederci “come si fa a far stare bene una persona, prima che si arrivino a prescrivere dei farmaci”, dal risolvere l’emergenza abitativa, dal contrasto della dispersione scolastica. Insieme a questo finiremo per dover guardare ai luoghi in cui vivono le persone anziane, malate e non autosufficienti. Parleremo di condizioni di lavoro, di formazione e istruzione, di servizi pubblici. Scopriremo l’importanza di una Città pubblica. Che parte da ciò che rimuove, da quello che prova a scartare. *Consigliere comunale a Firenze di Sinistra Progetto Comune Livorno. Il Garante: “Si aprano i nuovi padiglioni. Il degrado non è più sostenibile” livornotoday.it, 30 luglio 2025 Solimano: “Alle Sughere c’è un sovraffollamento del 33%, occorre intervenire subito”. Lo scorso maggio, il garante dei detenuti di Livorno, Marco Solimano, denunciò pubblicamente la situazione delle Sughere tra “celle piene di muffa e finestre inutilizzabili”. A distanza di poco meno di cinque mesi lo stesso Solimano è voluto tornare sull’argomento chiedendo “l’immediata apertura dei nuovi padiglioni e che si metta fine alla situazione di degrado e di mancanza di dignità delle persone ristrette all’interno dei reparti di media sicurezza e del personale costretto ad operare in condizioni critiche ed insalubri. Ai problemi strutturali si aggiunge un sovraffollamento che ormai ha raggiunto nella nostra casa circondariale il tasso del 133%, mentre il personale rimane sotto organico.” Sul tema delle carceri, un mese fa si era espresso anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che aveva sottolineato come “il sistema è contrassegnato da una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento condizioni strutturali inadeguate di molti istituti nei quali sono necessari interventi di manutenzione e ristrutturazione”. “Al momento - continua Solimano - non si vedono provvedimenti concreti che l’esecutivo abbia disposto con urgenza per far fronte alla situazione critica evidenziata dal Presidente. Solo enunciazioni di misure irrealizzabili nell’im-mediato e dichiarazioni d’intenti che forse si realizzeranno in un ipotetico futuro. Nel frattempo, le condizioni di vita e di lavoro nelle nostre carceri continuano a peggiorare. Siamo arrivati in questi giorni a 45 suicidi di persone detenute, cui se ne aggiungono 3 di poliziotti penitenziari. L’eccezionale ondata di calore dei giorni scorsi ha inoltre accentuato il malessere dentro agli istituti, non sufficientemente attrezzati per queste eventualità”. Milano. Gino Rigoldi: “Al Beccaria meno violenza, ma servono più studi per ragazzi e agenti” La Presse, 30 luglio 2025 “Questo non è che sia diventato un residence per giovani borghesi, resta un carcere minorile. Però la violenza tra i ragazzi, tra gli agenti e i ragazzi e anche la violenza nei confronti del mobilio è molto diminuita”. Così don Gino Rigoldi, ex cappellano dell’istituto penale minorile Cesare Beccaria di Milano e presidente della Comunità Nuova onlus, commenta il rapporto dell’associazione Antigone che colloca l’istituto milanese in uno degli ultimi posti tra gli Ipm italiani. “Noi cerchiamo di seguire alcune strade per favorire il reinserimento attraverso l’articolo 21, cioè il lavoro esterno, il volontariato”, ha spiegato Rigoldi, sottolineando come oggi il clima all’interno dell’istituto sia “più tranquillo” grazie alla presenza di una “brava comandante degli agenti” e di una “brava direttrice”. Il sacerdote insiste sull’importanza di un progetto educativo che consenta ai giovani detenuti di frequentare la scuola: “Abbiamo gran parte dei ragazzi, soprattutto quelli africani, che sono analfabeti e essere analfabeti oggi è come mancare di una gamba”. Rigoldi ha poi richiamato l’attenzione anche sui bisogni degli agenti di polizia penitenziaria, molti dei quali giovanissimi, di 22 o 23 anni: “Quelli che vogliono studiare, facilitargli gli studi universitari o gli studi superiori, perché la regola è sempre quella: se chi dirige l’orchestra è contento, l’orchestra suona bene. Se invece deve essere quello che apre e chiude le porte è finita. Perché non allearsi con l’università che abbiamo, come quella milanese o di qualunque tipo sia, per nobilitare anche un po’ di più la figura degli agenti?”, conclude Rigoldi. Verona. Sovraffollamento in carcere, mobilitazione anche a Montorio di Nicolò Vincenzi L’Arena, 30 luglio 2025 Il Garante: “Accendiamo una luce sul dramma”. Nel carcere di Montorio, ad oggi, ci sono 630 detenuti a fronte dei 335 posti regolari. Situazione, però, che riguarda tutta Italia. Per questo la Conferenza nazionale dei garanti dei diritti delle persone provate della libertà personale ha invitato per domani (30 luglio) “deputati, senatori, europarlamentari e consiglieri comunali a entrare con noi (i garanti, ndr) negli istituti penitenziari adulti e minorili”. “Bisogna”, aggiungono i garanti, “che la politica intervenga non subito, ma ora!”. Nel documento la Conferenza, parla di sovraffollamento e suicidi e di “emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Un mese fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva espresso un “richiamo forte” rivolto a Governo e politica affinchè non venissero “calpestati” i diritti dei detenuti. Da quel richiamo è passato un mese. Per questo la Conferenza organizza “una manifestazione per sensibilizzare l’opinione pubblica e per sollecitare la politica”. “Molti politici hanno accolto in questi mesi le sollecitazioni del presidente della Repubblica e si stanno interrogando su possibili interventi, ma le proposte fino ad ora avanzate dal Governo non hanno prodotto cambiamenti significativi e la situazione si va ovunque deteriorando drammaticamente. Nel carcere della nostra città, a Montorio, pur riconoscendo da parte dell’amministrazione e della polizia penitenziaria un grande sforzo di attenzione e di miglioramento delle condizioni dei detenuti, dobbiamo rilevare una continua fatica”, spiega il garante dei detenuti del carcere di Montorio, don Carlo Vinco, “nel tentare di contenere le problematiche create da un sovraffollamento crescente e destinato ad aumentare con le nuove norme approvate per la sicurezza”. “Nell’apertura dell’Anno Santo Papa Francesco aveva invocato che gli stati potessero studiare dei gesti di amnistia o indulto per alleggerire le condizioni carcerarie e per esprimere segni di umana clemenza. Ci auguriamo”, conclude don Vinco, “che questa occasione di mobilitazione aiuti ulteriormente ad aumentare l’attenzione sul dramma delle nostre carceri e possa far maturare coraggiose scelte politiche per il rispetto dei diritti delle persone private della libertà”. Trapani. Situazione al carcere: oggi la visita e la presentazione del report tp24.it, 30 luglio 2025 Un grido di allarme si leva dalle carceri italiane, e in particolare dalla Sicilia, dove il suicidio di un giovane detenuto nel carcere di Trapani il 21 luglio ha riacceso i riflettori su una situazione drammatica. Il ragazzo, di 29 anni, si è tolto la vita impiccandosi con le lenzuola nella sua cella, nonostante fosse sottoposto a “sorveglianza a vista” dopo un precedente tentativo di suicidio. Un gesto disperato, che secondo Natale Salvo di Sinistra Libertaria, è stato inascoltato, denunciando il silenzio assordante dei media locali e della cittadinanza. L’episodio di Trapani non è un caso isolato. I numeri sui suicidi nelle carceri italiane sono impietosi: 45 dall’inizio dell’anno fino al 21 luglio 2025, uno ogni cinque giorni. Un dato che “grida vendetta, ma che non fa rumore, perché chi muore in carcere, spesso, muore due volte, nella cella e nell’indifferenza collettiva”, come scrive Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, in una lettera dal carcere di Rebibbia. Sommando il 2024 ai primi mesi del 2025, si arriva a 132 suicidi, inclusi quattro donne, giovani di 20 anni e l’anziano di 82. Secondo Antigone, il tasso di suicidi in carcere nel 2024 è 25 volte superiore a quello nella società esterna. La deputata del PD Giovanna Iacono e la responsabile nazionale Giustizia del PD, Debora Serracchiani, hanno annunciato un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, per fare luce sull’ennesima tragedia e chiedere quali misure di prevenzione siano state adottate nella Casa circondariale di Trapani, “struttura ormai sempre più invivibile e a rischio collasso”. La situazione delle carceri italiane è definita da un sovraffollamento cronico. Al 30 giugno 2025, i detenuti totali in Italia sono 62.728, a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti, di cui 4.500 di fatto inagibili. Su 189 istituti penitenziari, solo 36 non sono colpiti dal sovraffollamento quando il tasso di occupazione supera il 120%, si parla di sovraffollamento critico. Nel 2024, sono entrate in carcere 43.417 persone, quasi 3.000 in più rispetto all’anno precedente. Per la prima volta, anche gli istituti penali per minorenni sono sovraffollati, con 611 ragazzi detenuti, un record rispetto ai 381 del 2022. Sovraffollamento significa condizioni di vita disumane: celle che ospitano sei persone adulte, letti a castello, un solo bagno che è anche cucina, e un televisore perennemente acceso. La mancanza di spazi personali e la costante vicinanza forzata generano sofferenza. L’estate aggrava ulteriormente le condizioni di detenzione. Il caldo soffocante, come ricorda Alemanno, si somma alla sospensione delle attività che solitamente riempiono le giornate dei detenuti, come scuola, laboratori e teatro. Le ore d’aria spesso si trascorrono in cella o nei corridoi, poiché il caldo nei cortili di cemento è insopportabile. Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha più volte dichiarato che l’emergenza carceri sarebbe stata affrontata dal suo governo, ma “poco o nulla è stato fatto”, se non spiegare che i suicidi sono una questione “irrisolvibile”. Solo recentemente ha annunciato che almeno 10.000 detenuti saranno ammessi alle pene alternative, istituendo una task force per individuare persone con meno di due anni da scontare, non condannate per reati gravi e con comportamento esemplare. I primi dettagli sono attesi a fine settembre. L’opposizione propone una legge sulla liberazione anticipata speciale, presentata da Roberto Giachetti, che prevede uno sconto di pena di 75 giorni ogni sei mesi di detenzione per buona condotta, con efficacia retroattiva per chi è stato detenuto negli ultimi dieci anni. Tuttavia, il tema del carcere è stato incluso anche nel Decreto Sicurezza, che prevede “misure repressive” e sanziona persino la resistenza passiva dei detenuti. Per testimoniare e denunciare questa realtà, il 30 e 31 luglio l’associazione “Nessuno tocchi Caino” visiterà le carceri di Trapani e Favignana. La delegazione, oltre agli avvocati delle Camere Penali di Marsala e Trapani, guidate da Francesca Frusteri e Agatino Scaringi, e al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Marsala Giuseppe Spada e al deputato Regionale Stefano Pellegrino, includerà i sostituti procuratori a Marsala Giuseppe Lisella e Diego Sebastiani, il magistrato di sorveglianza di Trapani Andrea Fallo e il giudice onorario Gaspare Sammartano. Una conferenza si terrà oggi, 30 luglio alle 18 presso la Società Canottieri di Marsala. Roma. “Impossibile rifarsi una vita dopo il carcere: il lavoro e la casa restano un problema” di Lucilla La Puma Corriere della Sera, 30 luglio 2025 Le testimonianze delle donne uscite dal carcere romano: “Sovraffollamento, poca igiene, una volta fuori per noi la strada resta in salita”. La vita dietro le sbarre è spesso drammatica: sovraffollamento, precarie condizioni igieniche, assistenza medica e psicologica col contagocce. Se poi trovare un lavoro e reinserirsi nella società dopo avere scontato la pena diventano sogni irrealizzabili il quadro è devastante. Ecco i racconti di ex detenute di Rebibbia femminile. “Le celle sono piccole. Io stavo in una da 4 posti, senza doccia, ma eravamo in 6 con l’aggiunta di un letto a castello - dice Anna, 53 anni, ex detenuta. Ed è già una cosa buona, perché nelle stanze da due, piazzano un letto in più di quelli normali e non ci si muove più. È difficile anche solo nutrirsi perché qui non abbiamo la mensa: mangiamo in cella, sedute sul letto dove dormiamo. E le condizioni igieniche sono insufficienti”. Senza considerare che “una così stretta vicinanza genera spesso litigi e frustrazione - precisa -. E non dimenticherò mai Hazel, 32 anni e mamma di tre figli. Aveva persino una laurea: prima ancora di ricevere la condanna definitiva, non ha retto e si è impiccata”. Aisha invece, 26 anni, quando è uscita non è stata rimpatriata perché proveniente da un Paese in guerra e quindi sotto protezione: “Non avevo una residenza, né documenti, né assistenza medica. Sono da poco riuscita ad avere la carta di identità, ma la mia situazione abitativa e lavorativa resta molto difficile”. I figli, le cure mediche - Quello dell’affettività e dei rapporti familiari è un altro problema molto sentito, soprattutto per le detenute con figli: “Le telefonate non bastano - osserva Franca, 47 anni, fuori da 24 mesi -. Quando sono entrata, uno dei miei figli era ancora minorenne. Un colloquio a settimana non era abbastanza e dovevo scegliere quale figlio vedere”. “Io mi sentivo in cella una mamma sospesa - confessa Maria, 45 anni, origini peruviane. Ho 4 figli, di cui due minorenni. Ho fatto grandi battaglie per ottenere qualche telefonata e qualche colloquio in più. Mi sono rivolta anche a volontari e psicologi. Ero sul punto di fare una pazzia quando mi hanno salvata mettendomi sotto vigilanza 24 ore al giorno”. Dietro le sbarre anche le cure mediche sono un tema molto delicato: “Quando ho scoperto di avere un tumore all’utero e allo stomaco ero terrorizzata - spiega Bruna, 45 anni, ex detenuta - ma la cosa peggiore è che sono stata operata dopo otto mesi e solo grazie all’intervento del Garante dei detenuti. Dopo l’intervento in day hospital sono tornata in cella il giorno stesso: mi avevano lasciato un metro di garza nello stomaco e stavo andando in setticemia. Mi ha salvato la mia vicina di letto chiamando le guardie. Un’esperienza che mi ha segnato più del carcere stesso. Per fortuna posso raccontarla”. Il lavoro fuori dal carcere - Alcune di loro tuttavia riescono ad emanciparsi, a frequentare dei corsi di formazione durante il periodo di detenzione e a reinserirsi nel mondo del lavoro, come Lucia, 58 anni, uscita da 3 anni: “Grazie a un grande impegno e alla forza di volontà sono riuscita a frequentare un corso e dopo 8 mesi sono stata inserita in una cooperativa per lavorare nel contact center per l’università, ma la maggior parte di noi non riesce a trovare casa, né lavoro. Sono poche le cooperative disposte ad assumere ex detenute”. Sulle carceri romane interviene anche il sindaco Roberto Gualtieri: “La situazione è drammatica, con condizioni di vita difficilissime e un sovraffollamento insostenibile. E le misure del Governo non sembrano essere sufficienti per risolvere i numerosi problemi della popolazione carceraria”. Napoli. L’emergenza sicurezza non c’è: il Tar annulla le “zone rosse” di Fabrizio Geremicca Il Manifesto, 30 luglio 2025 Il Tar Campania ferma la deriva securitaria. I giudici amministrativi hanno annullato l’ordinanza di Michele Di Bari, prefetto di Napoli, che si ispirava a una direttiva dello scorso dicembre inviata ai prefetti dal Viminale. Tale ordinanza il 30 giugno aveva prorogato a Napoli per la seconda volta il divieto di stazionamento in diverse “zone rosse” della città, dal centro storico alla Stazione centrale fino a Chiaia, per soggetti che “assumano atteggiamenti aggressivi, minacciosi o insistentemente molesti” e risultino destinatari per alcuni reati indicati nel provvedimento “di segnalazione all’autorità giudiziaria”. I reati spaziano dal traffico e detenzione di stupefacenti alle lesioni e comprendono il furto, il danneggiamento, la rapina, il porto e la detenzione abusiva di armi, mazze, sfollagente. La sezione Quinta del Tar, presidente Maria Abruzzese, ha accolto il ricorso presentato dai due consiglieri di Municipalità, Chiara Capretti (esponente di Potere al Popolo) e Pino De Stasio, e dalle associazioni Asgi, A buon diritto e Libridazioni. “Dagli enunciati dell’ordinanza - sancisce la sentenza - non si desume affatto l’esistenza di una situazione di grave, imprevista e imprevedibile emergenza per la sicurezza pubblica, non fronteggiabile con gli strumenti ordinari dell’ordinamento”. Il provvedimento amministrativo prefettizio, incalzano le toghe, “introduce una misura limitativa della libertà di circolazione applicabile a un numero indeterminato di soggetti e a vaste aree della città”. La reiterazione delle ordinanze, sottolineano poi i giudici, “rende plausibile il sospetto, avanzato dai ricorrenti, secondo cui il prefetto ha introdotto misure straordinarie e a carattere tendenzialmente permanente per far fronte a ordinari e stratificati nel tempo problemi di ordine pubblico”. E ancora: “L’ordinanza di proroga della zona rossa estende il divieto di stazionamento per almeno 9 mesi, con argomentazioni suscettibili di essere utilizzate anche per ulteriori proroghe” violando così “il principio della temporaneità degli effetti dei provvedimenti contingibili e urgenti limitando una libertà, quella di circolazione, che è garantita dalla Costituzione”. Da qui la decisione di illegittimità dell’ordinanza del 27 marzo e annullamento di quella del 30 giugno. Commentano gli avvocati Andrea Chiappetta e Stella Arena, della squadra legale che ha curato il ricorso: “Il Tar sancisce il fondamentale principio che il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente”. Alberto Lucarelli, ordinario di Diritto costituzionale alla Federico II: “L’ordinanza illegittima e annullata si rivela per ciò che è, vale a dire una tecnica di marginalizzazione e disciplinamento applicata a luoghi simbolici e a soggetti considerati socialmente devianti”. Esultano i parlamentari 5s: “Gli slogan del governo vanno a sbattere contro il Tar”. Il prefetto Di Bari ha annunciato il ricorso al Consiglio di Stato: “L’ordinanza è scaturita da decisioni assunte in seno ad apposite sedute del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Decisioni condivise e talvolta richieste dai sindaci”. Perugia. Al carcere di Capanne la cerimonia conclusiva dei corsi di formazione edile filleaumbria.it, 30 luglio 2025 Si terrà domani, mercoledì 30 luglio alle ore 10, all’Istituto Penitenziario di Perugia Capanne, la cerimonia conclusiva dei percorsi formativi professionalizzanti promossi dal Cesf - Scuola Edile di Perugia, nell’ambito del Protocollo firmato nel maggio 2024 con il Nuovo Complesso Penitenziario di Perugia, l’Udepe e le Parti sociali del settore delle costruzioni, Ance Umbria, Cna Umbria, Confartigianato imprese Umbria, Lega Coop Produzione e Servizi, Fillea Cgil Umbria, Filca Cisl Umbria e Feneal Uil Umbria. I corsi, uno di muratura per 15 detenuti della sezione maschile e uno di finiture per 11 detenute della sezione femminile, quest’ultimo svolto in collaborazione con Inail Umbria e integrando il progetto “Donne sicure in cantiere”, hanno avuto l’obiettivo di favorire inclusione sociale, reinserimento lavorativo e diffusione della cultura della sicurezza. Il programma, rivolto ai detenuti che hanno scontato una pena o sono ammessi al regime dell’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario, ha puntato a creare opportunità di formazione concreta, restituire dignità professionale ai partecipanti e, al contempo, rispondere alla carenza di manodopera che il settore edile sta vivendo. Durante il percorso è stato infatti possibile attivare collaborazioni con le imprese del territorio, pronte a inserire nell’organico gli allievi idonei all’accesso alle misure alternative, e sono state avviate le modalità per la costituzione di una cooperativa femminile di lavori di finitura, offrendo quindi una prospettiva reale di autonomia economica alle partecipanti. Secondo il rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone, che da tempo si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, quella delle carceri è un’emergenza che appare ignorata, senza alcuna strategia individuata per sanare il sovraffollamento, che per la prima volta colpisce anche gli istituti penitenziari minorili, e per creare misure alternative credibili. L’emergenza carceraria si protrae da anni e da anni ha eroso la garanzia di condizioni di vita dignitose per chi si trova a vivere in cella. Al sovraffollamento che ha oltrepassato il 134% si aggiunge il caldo estivo rovente che accentua le difficoltà e il disagio effettivo e percepito. “Riguardo all’edilizia penitenziaria si è parlato più volte della costruzione di nuove carceri - rileva la segretaria regionale Fillea Cgil Umbria, Elisabetta Masciarri - e più recentemente addirittura di container da realizzare in carceri come Rebibbia o Bollate, mentre mancano investimenti in innovazione e umanizzazione del sistema penitenziario. Il lavoro, se sicuro e dignitoso, rappresenta un potente strumento di inclusione - prosegue Masciarri - oltre che incidere sull’autostima e sul senso di responsabilità. Il percorso congiunto intrapreso ha dimostrato come sia possibile operare positivamente su più fronti: favorire il riscatto sociale delle detenute e dei detenuti, riducendo il rischio di esclusione e di marginalizzazione e rispondere al bisogno crescente di manodopera, attraverso l’acquisizione di competenze professionali spendibili al di fuori dal carcere, creando relazioni umane e di lavoro che possano rappresentare davvero un’alternativa. Alla cerimonia interverranno: Antonella Grella, direttrice del Carcere; Walter Verini, senatore della Repubblica; Fabio Barcaioli, assessore all’istruzione, formazione e welfare della Regione Umbria; Andrea Stafisso, assessore allo Sviluppo economico del Comune di Perugia; Alessandra Ligi, direttrice Inail Umbria; rappresentanti delle Parti sociali del settore edile, presidenza del Cesf, docenti e allievi dei corsi. La giornata prevede anche la consegna degli attestati e la visita al laboratorio di finiture della sezione femminile. Firenze. Il gruppo di detenuti che sono diventati pittori per liberare le emozioni Avvenire, 30 luglio 2025 Al “Samaritano” di Firenze si è tenuto un laboratorio di art therapy per chi è a fine pena. Ne è uscito un racconto fatto di immagini e poesie. In cui c’entrano le migrazioni. Pennello e colori per liberare i sentimenti dei detenuti. È l’idea alla base del corso di art therapy organizzato negli spazi del Samaritano, la struttura della Fondazione Solidarietà Caritas Firenze dove chi è a fine pena sconta la misura alternativa al carcere. Durante il laboratorio, che si è articolato in 12 incontri (seguiti dallo psicologo del centro Lorenzo Lucidi e dalla collega Giada Lembo), gli 8 partecipanti hanno potuto raccontarsi attraverso l’arte, superando le barriere linguistiche, esprimendo una parte di sé, emozioni, idee, pensieri. Il viaggio di M.K. - Una barca in mezzo al mare, la terra ferma in lontananza ma una grata di ferro impedisce l’approdo: al di là della rete c’è una chiave, simbolo delle regole che permettono di vivere nella legalità in un Paese straniero, la sfida è riuscire a trovarla. Il disegno si intitola Mediterraneo, a realizzarlo è stato M.K. giunto in Italia su un barcone dalla Libia (uno dei pochi sopravvissuti alla traversata): è arrivato al Samaritano nel giugno del 2024 e lì è da poco stato raggiunto dalla notizia di essere libero, con un anticipo di tre mesi. Durante gli incontri ha raccontato attraverso poesie e disegni la sua storia. Alcuni testi (tutti tenuti a mente, nulla di scritto) li ha composti in mare, altri in carcere, altri ancora gli sono stati consegnati dalla nonna in Gambia, nel suo villaggio di origine. M.K ha partecipato con entusiasmo al laboratorio ma al Samaritano ha anche dato una mano fin dal suo arrivo: ha pulito per terra, tagliato le verdure per la mensa della Caritas, lavato i piatti al ristorante Le Torri, ha iniziato a lavorare come giardiniere. “Se fossi stato senza fare niente sarei impazzito - racconta -, i pensieri nella mia testa e la preoccupazione per ciò che avrei fatto il giorno seguente e quello dopo ancora mi avrebbero sommerso”. Un altro disegno di M.K raffigura delle brocche in un deserto, vicino a un’oasi, dove il suo gruppo si era rifugiato, dopo essere stato abbandonato per via di un guasto al pick-up che lo trasportava: sulle brocche è scritto in arabo il nome di Dio, perché quel luogo fu una provvidenza in un momento in cui nessuno aveva più acqua. Ai ricordi del Gambia si aggancia invece il disegno del “Lupo indegno”, legato a una favola che gli raccontava la nonna, su un giovane lupo che, dopo aver accettato cibo dagli esseri umani, è diventato un cane. C’è chi ha raffigurato la libertà come una strada, chi un sole sorridente ricordando che la luce “arriva solo dopo la notte più buia”, chi una fattoria, chi un bivio, simbolo delle scelte della vita, illuminato da un arcobaleno che compare alla fine di una tempesta. La persona al centro - Il Samaritano è un centro di accoglienza residenziale maschile per adulti beneficiari delle misure alternative alla detenzione: qui in un ambiente protetto trovano l’opportunità di seguire un percorso che ha come fine l’autonomia e la riduzione della recidiva. È un servizio del Comune di Firenze e gestito dalla Fondazione Solidarietà Caritas di Firenze. “Disporre di uno spazio più intimo rispetto alle case circondariali, con un’attenzione alla persona e al suo progetto di vita più individualizzata, permette ai nostri ospiti di ricostruire e rafforzare le proprie risorse interne, così come di attivarsi in modo incisivo per riallacciare quei rapporti familiari e sociali necessariamente affievoliti o interrotti durante il periodo di detenzione” spiega Marco Seracini, presidente di Fondazione Caritas Firenze. “Per ogni ospite accolto è previsto un progetto educativo individuale, allo scopo di effettuare un reinserimento sociale attraverso il sostegno ed il monitoraggio degli educatori. Il tutto si attua in collaborazione con i servizi del territorio, attraverso percorsi formativi, inserimenti lavorativi, attività di volontariato e di laboratorio. Il laboratorio di arteterapia è stato uno spazio di libertà, dove ognuno può scegliere di mettersi in gioco, raccontarsi, partecipare oppure no, senza giudizio. A ogni appuntamento sono state proposte diverse attività espressive alla fine degli incontri i partecipanti potevano condividere con gli altri il proprio lavoro, e scambiare opinioni ed emozioni” spiega Alina Tamas, coordinatrice dei servizi nell’ambito Giustizia di Fondazione Caritas. Eutanasia, la Corte costituzionale non ha detto “no” (ma poteva fare di più) di Andrea Pugiotto L’Unità, 30 luglio 2025 Il pronunciamento non è stato un rigetto, ma una decisione di inammissibilità per motivi procedurali. I giudici costituzionali avrebbero comunque avuto modo di accorciare i tempi, ma non l’hanno fatto. 1. Scarsa competenza giuridica, disonestà intellettuale, malizia politica, partito preso: scelga il lettore quale, tra queste ragioni, spieghi meglio l’errata modalità con cui per lo più - i media hanno dato notizia della sent. n.132/2025 in tema di “fine vita”, annunciata come un “no” all’eutanasia. Non è così. Basta leggerla o, per i più pigri, scorrere almeno il comunicato stampa che l’accompagna. Si tratta, infatti, di una decisione di inammissibilità, non di una sentenza di rigetto. Confonderle, comporta la bocciatura all’esame di diritto costituzionale dello studente al primo anno di Giurisprudenza. Inammissibile è una quaestio che la Consulta non può affrontare nel merito, per ragioni processuali. Solo se ammissibile, infatti, la Corte costituzionale si misura con i dubbi di legittimità sollevati dal giudice, accogliendo o rigettando la quaestio. Nel caso della sent. n. 132/2025 è accaduta la prima cosa, non la seconda. Allo stato, la questione di legittimità dell’art. 579 c.p., laddove punisce senza eccezione alcuna l’omicidio del consenziente, resta del tutto impregiudicata. Né è preclusa al Tribunale di Firenze la facoltà di riproporla alla Corte costituzionale, integrando la propria precedente impugnazione. 2. La sent. n. 132/2025, infatti, vi ha ravvisato una carente motivazione su un elemento di fatto, essenziale nel ragionamento del giudice fiorentino: l’asserita irreperibilità di un ausilio meccanico che consenta alla malata, privata dell’uso degli arti, di auto-somministrarsi il farmaco letale. Mancando tale dispositivo, il solo modo per porre fine al proprio insopportabile calvario sarebbe l’aiuto che il medico curante è disposto a prestarle. Aiutandola, però, commetterebbe un reato punito con la detenzione da sei a quindici anni (art. 579 c.p.). Da qui, la richiesta di una dichiarazione d’incostituzionalità che estenda anche a tali ipotesi quanto già la Consulta ha riconosciuto nei casi di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.): la non punibilità di chi attui materialmente la volontà del malato che versi nelle stesse condizioni per accedere al suicidio medicalmente assistito, individuate nella nota sent. n. 242/2019 pronunciata nel “caso DJ Fabo-Cappato”. Da parte sua, la Consulta ha ritenuto insufficienti le ricerche di mercato svolte - su richiesta del Tribunale di Firenze - dall’azienda sanitaria regionale. Esige che l’istruttoria coinvolga “organismi specializzati operanti, col necessario grado di autorevolezza, a livello centrale, come, quanto meno, l’Istituto superiore di sanità, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale”. Una volta restituiti gli atti al Tribunale di Firenze, toccherà a lui riavviare la ricerca investendone chi di dovere. Dal suo esito, dipenderà il destino dell’art. 579 c.p. e, soprattutto, la sorte di Libera (pseudonimo che M.S., la malata ricorrente, ha scelto per sé). Ove il dispositivo fosse reperibile, Libera avrà diritto ad avvalersene. Se fosse irreperibile, invece, andrà riproposta al Giudice delle leggi la quaestio dell’art. 579 c.p. che, precludendo il diritto all’autodeterminazione di Libera, ne trasforma il diritto alla vita nel dovere di viverla, fino alla fine, in condizioni contrarie alla sua dignità e alla sua volontà. 3. La soluzione interlocutoria sposata dalla Consulta appare come una risposta tragicamente disincarnata, laddove non si fa carico - fino in fondo - delle aspettative di vita di Libera e dei “tempi ragionevolmente correlati al suo stato di sofferenza”, di cui pure i giudici costituzionali sono consapevoli. Libera è condannata da una sclerosi multipla a decorso progressivo primario. L’evoluzione della sua malattia, incompatibile con i tempi normali della giurisdizione, ha giustificato la procedura d’urgenza (art. 700 c.p.c.), da cui è nato l’incidente di costituzionalità. Con la decisione interlocutoria della Consulta, invece, l’urgenza della tutela richiesta subisce un rinvio che rischia concretamente di vanificarla. Esiste, infatti, il serio pericolo che il ritmo della sua patologia degenerativa anticipi i tempi necessari per trovare sul mercato il dispositivo richiesto, cui andranno sommati i tempi per la sua eventuale importazione o produzione, e quelli necessari alle conseguenti valutazioni di conformità. Può anche accadere che l’atroce decorso della malattia comporti per Libera la perdita dell’uso residuo dei muscoli del volto o della bocca, necessari per attivare il dispositivo ad hoc, rendendo inutile il supplemento istruttorio richiesto dalla Consulta. Non serve aver letto Le confessioni agostiniane per sapere che “il tempo” è uno stato esistenziale, più che un dato oggettivo. Le scelte ultime su quando congedarsi dalla vita (con tutti i suoi corollari di dolore e d’infelicità) si misurano con un cronometro che le istituzioni si ostinano a non usare. Ne abbiamo avuto conferma giorni fa: all’umanissimo appello postumo di Laura Santi affinché sia approvata una legge sul “fine vita”, il Senato ha risposto rinviandone nuovamente la discussione. A Libera, nella sua interlocuzione con la Corte costituzionale, è stata data una risposta non dissimile. 4. Giuridicamente, era una risposta obbligata? È certo che l’assenza di un requisito di ammissibilità impedisca alla Corte costituzionale di pronunciarsi sulla legittimità della norma impugnata. Tuttavia, in questa sua valutazione preliminare, ha più volte raddrizzato una quaestio claudicante, pur di affrontarla nel merito. Tanto più quando riguardava norme di rilievo e, processualmente, di non agevole accesso a Palazzo della Consulta. Entrambi i due ultimi connotati sono indubbiamente presenti nella questione oggetto della sent. n. 132/2025. L’eutanasia è un tema su cui tutti i sondaggi confermano la distanza esistente tra norma giuridica e coscienza sociale. Preclusa la via del referendum abrogativo, bocciato dalla Consulta (sent. n. 50/2022), l’art. 579 c.p. ha potuto ora approdare al sindacato di costituzionalità attraverso una via (l’azione di accertamento di un diritto fondamentale, è il suo nomen iuris) finora di ardua percorribilità e solo in materia elettorale (sentt. nn. 1/2014 e 35/2017). Né mancava ai giudici un’alternativa alla decisione processuale presa: vediamo quale. 5. Da alcuni anni, grazie alla mirata riforma delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, il suo processo si è arricchito di nuovi strumenti di partecipazione. Alcuni di essi hanno animato la dialettica processuale approdata poi alla sent. n. 132/2025. Il primo è l’intervento di terzi, estranei al giudizio principale, ma titolari di un interesse qualificato alla partecipazione al giudizio costituzionale (due soggetti, nel caso in esame). Il secondo strumento è quello degli amici curiae (ben sette, in questa vicenda), cioè memorie scritte depositate da formazioni sociali o soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi coinvolti nella questione di costituzionalità. Le norme prevedono anche un terzo strumento (non utilizzato nel giudizio in esame): la Corte, “ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline”, può convocare “esperti” in apposita camera di consiglio, all’audizione dei quali assistono le parti processuali costituite, che il Presidente può autorizzare a formulare domande (art. 17). Invece di evocare l’Istituto superiore di sanità, la Corte poteva convocarlo direttamente, chiedendo tutte le informazioni del caso. In alternativa, poteva disporre, mediante apposita ordinanza, “i mezzi di prova” ritenuti opportuni, stabilendo “i termini e i modi da osservarsi per la loro assunzione” (art. 14). Acquisite così, su propria iniziativa e in tempi stretti, le informazioni necessarie, i giudici costituzionali sarebbero stati in condizione di decidere nel merito la quaestio loro posta - tramite il Tribunale di Firenze - da Libera. La sua sofferenza, la sua resilienza, la sua sapienza giuridica meritavano di più di una provvisoria risposta in rito. Migranti. “Il modello Albania è un attacco a democrazia e stato di diritto” di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 luglio 2025 Il rapporto del Tavolo asilo e immigrazione. “La nuova fase è illogica, trasferiti individui già trattenuti nei Cpr italiani. L’accordo con Tirana va cancellato”, dice Filippo Miraglia. “Il modello Albania è un dispositivo di governo fondato sull’opacità e sullo svuotamento degli spazi di democrazia. Il Parlamento è stato marginalizzato, il ruolo della società civile ridotto, le informazioni rese inaccessibili anche ai soggetti istituzionali legittimati al controllo”. È questo il succo delle 52 pagine del rapporto presentato ieri alla Camera dal Tavolo asilo e immigrazione (Tai) con il titolo Ferite di frontiera. Dentro c’è il numero complessivo delle persone trasferite nel Cpr di Gjader nella seconda fase del progetto: 132. Sono i migranti “irregolari” deportati dal territorio nazionale, dopo che il governo ha cambiato la destinazione d’uso delle strutture inizialmente pensate per i richiedenti asilo mai entrati in Italia. Una scelta “illogica”, sostiene il vicepresidente Arci Filippo Miraglia, “visto che si tratta di individui già trattenuti e visto che i rimpatri tendenzialmente si fanno entro i primi venti giorni di detenzione”. Il numero è stato dedotto dalle diverse visite di monitoraggio realizzate dal Tai e dal gruppo di parlamentari ed europarlamentari di opposizione che seguono la vicenda. Perché il Viminale non fornisce dati completi, nemmeno alle richieste dei rappresentanti istituzionali. Nell’ultima ispezione la deputata Pd Rachele Scarpa ha persino scoperto che il 16 luglio c’è stato un trasferimento di 13 migranti di cui non è stata data alcuna notizia. “Un fatto grave che conferma come la mancanza di trasparenza verso i cittadini italiani vada di pari passo alle violazioni dei diritti fondamentali e alla riduzione delle garanzie per i cittadini stranieri”, afferma Scarpa. In questo senso si muove anche la circolare emanata ad aprile dal Viminale per ostacolare gli ingressi dei collaboratori occasionali dei deputati. “Una circolare anti-Tai, l’hanno fatta per impedire a noi di entrare a Gjader”, dicono durante la conferenza stampa. Il rapporto della principale rete di associazioni che si occupano di immigrazione elenca tutti gli abusi che vengono consumati al di là dell’Adriatico sotto giurisdizione italiana: i trasferimenti sono realizzati senza alcun provvedimento dell’autorità giudiziaria, senza motivazioni e con l’utilizzo di mezzi coercitive; l’accesso alle cure è limitato e discriminatorio; manca un riesame dell’idoneità al trattenimento all’ingresso a Gjader, che per la sua collocazione presenta problematiche diverse da quelle degli altri Cpr; il diritto alla difesa è fortemente limitato, se non compromesso. Citando recenti decisioni di Consulta e Cassazione il Tai sottolinea le numerose criticità giuridiche rispetto ai principi costituzionali, internazionali ed europei dei centri voluti dal governo Meloni e chiede di “sospendere i trasferimenti e cancellare l’accordo”. “Perché l’esecutivo insiste così tanto nonostante numeri così piccoli?”, si chiede Riccardo Magi. La risposta del segretario e deputato di +Europa è che “l’obiettivo del protocollo con Tirana è affermare come di quelle persone si possa fare ciò che si vuole. Il punto più importante è la minaccia a democrazia, stato di diritto e legalità. Facciamo attenzione: quei centri sono stati costruiti per durare”. Intanto ieri l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha aggiornato i numeri sui morti e i dispersi lungo la rotta migratoria del Mediterraneo centrale: quest’anno in totale sono 659. Nel frattempo la sedicente “guardia costiera libica” ha catturato in mare e riportato nei centri di prigionia 13.243 persone. Di cui 11.508 sono uomini, 1.180 donne e 410 minori (di 145 migranti non si conoscono i dati di genere). A ieri gli sbarchi in Italia erano 36.545, contro i 32.723 dello stesso periodo 2024. Migranti. Meloni disposta a tutto pur di non chiudere il Cpr in Albania di Gianfranco Schiavone L’Unità, 30 luglio 2025 Niente liste di detenuti, mistero sulle nazionalità, silenzio sui trasferimenti. Balle e dati manipolati da parte del governo Meloni che ha un obiettivo imprescindibile: non chiuderlo. Tra aprile e luglio 2025 sono state effettuate sei visite di monitoraggio nel Cpr di Gjadër in Albania, alcune della durata di più giorni. Il quadro che emerge dal Rapporto è sconcertante innanzitutto in ragione degli enormi ostacoli che sono stati posti alla conoscenza dei fatti: le missioni parlamentari nella struttura di Gjader, in Albania “hanno ricevuto molteplici rifiuti nell’accesso alle informazioni: niente liste dei trattenuti, nessuna indicazione sulle nazionalità, silenzio sulle modalità dei trasferimenti. D’altra parte, la manipolazione selettiva dei dati da parte del governo costruisce un racconto di piena funzionalità che non ha nessuna attinenza con la realtà.” Il centro di Gjadër presenta le caratteristiche di un carcere essendo “composto da 9 sezioni da 16 persone: 4 celle da 4 persone, con due letti a castello e un tavolino al centro, con un “cortile” in comune per ogni blocco; il cortile è completamente circondato da rete metallica, anche verso il cielo. Le porte delle celle si aprono solo dall’esterno con un codice, e il cibo viene somministrato attraverso una feritoia nella porta”. Tutti i trasferimenti verso il centro di Gjadër avvengono senza alcun provvedimento motivato e notificato alla persona e al suo difensore. La mancanza di un motivato provvedimento adottato dall’autorità giudiziaria impedisce persino di impugnare l’atto stesso, che appunto non c’è, in violazione dunque del principio costituzionale di cui all’art. 113 Cost. che prevede il diritto di chiunque alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi contro gli atti della Pubblica Amministrazione, oltre che in violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. Il 29 luglio 25 è stato pubblicato (ed è scaricabile liberamente online su diversi siti, tra cui quello di Asgi) il rapporto “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania” che si concentra sull’utilizzo del centro di Gjadër con funzioni di Cpr. Il rapporto, molto accurato sia nella descrizione dei fatti che nell’analisi giuridica, è frutto di un lungo lavoro condotto dal Tavolo Asilo e Immigrazione (Tai insieme a diversi parlamentari ed europarlamentari e rappresenta a mio avviso un modello di dialogo e collaborazione, che andrebbe replicato, tra la società civile e chi ha una carica elettiva. Tra aprile e luglio 2025 sono state effettuate sei visite di monitoraggio nel Cpr di Gjadër in Albania, alcune della durata di più giorni che hanno permesso di svolgere colloqui con circa trenta persone trattenute e interloquire in maniera diretta o indiretta con circa sessanta persone trattenute. I dati raccolti sono stati completati da un lavoro di accesso agli atti amministrativi e da un esame della normativa e della giurisprudenza italiana ed europea. Il quadro che emerge dal Rapporto è sconcertante innanzitutto in ragione degli enormi ostacoli che sono stati posti alla conoscenza dei fatti. Nel Rapporto si legge come “Le missioni parlamentari nella struttura di Gjader, in Albania, hanno ricevuto molteplici rifiuti nell’accesso alle informazioni: niente liste dei trattenuti, nessuna indicazione sulle nazionalità, silenzio sulle modalità dei trasferimenti. Il ruolo ispettivo dei rappresentanti parlamentari è così compromesso a monte. Le difficoltà di accesso e l’opacità colpisce, in maniera ancora più accentuata, movimenti, ong e giornalisti d’inchiesta. D’altra parte, la manipolazione selettiva dei dati da parte del governo costruisce un racconto di piena funzionalità che non ha nessuna attinenza con la realtà.” Nonostante dovrebbe essere una struttura a carattere non punitivo nella quale la limitazione della libertà personale viene attuata al solo scopo di eseguire l’espulsione, il centro di Gjadër presenta le caratteristiche di un carcere essendo “composto da 9 sezioni da 16 persone: 4 celle da 4 persone, con due letti a castello e un tavolino al centro, con un “cortile” in comune per ogni blocco; il cortile è completamente circondato da rete metallica, anche verso il cielo. Le porte delle celle si aprono solo dall’esterno con un codice, e il cibo viene somministrato attraverso una feritoia nella porta”. Il Rapporto evidenzia che tutti i trasferimenti verso il centro di Gjadër avvengono senza alcun provvedimento motivato e notificato alla persona e al suo difensore, nonostante sia evidente che il trasferimento in un centro ubicato in un paese estero, altresì non appartenente all’Ue, comporta una limitazione della libertà personale. La mancanza di un motivato provvedimento adottato dall’autorità giudiziaria viola l’articolo 13 della Costituzione e impedisce persino di impugnare l’atto stesso, che appunto non c’è, in violazione dunque del principio costituzionale di cui all’art. 113 Cost. che prevede il diritto di chiunque alla tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi contro gli atti della Pubblica Amministrazione, oltre che in violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. nonchè dell’art. 6 Cedu sul diritto ad un ricorso effettivo. Gli stranieri trattenuti a Gjadër, vengono dunque di fatto trattati come una sorta di oggetti da spostare a piacimento del potere esecutivo. Il disprezzo verso i diritti delle persone si riscontra anche nelle modalità stesse del trasferimento; il Rapporto evidenzia come “è stato infatti possibile accertare che “in tutti i casi verificati dal Tai ai trasferiti sono stati applicati mezzi di coercizione personale per l’intera durata delle operazioni di trasferimento, a partire dall’uscita dal Cpr di provenienza fino all’arrivo in Albania, per un arco temporale complessivo superiore alle 24 ore, senza alcuna valutazione individualizzata in merito alla necessità, ragionevolezza e proporzionalità dell’adozione di tali misure coercitive, che appaiono manifestamente sproporzionate rispetto sia al comportamento tenuto dagli interessati, sia al livello di rischio oggettivamente presente, soprattutto tenuto conto del consistente dispositivo di scorta predisposto per l’operazione”. Va ricordato che secondo consolidata giurisprudenza della Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) “Nei confronti di una persona privata della libertà, il ricorso alla forza fisica che non sia stato reso strettamente necessaria dalla sua stessa condotta sminuisce la dignità umana e costituisce, in linea di principio, una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Cedu” (sent. Berlinski c. Polonia, 20 giugno 2002) Le visite alla struttura hanno anche evidenziato l’esistenza di seri problemi relativi alla gestione delle problematiche sanitarie; già a fine aprile, poco tempo dopo la sua attivazione, si verificavano nel centro “21 episodi di autolesionismo o di intenti suicidari da parte di almeno nove persone trattenute, evidenziando forti criticità sanitarie sullo stato psicofisico delle persone all’interno del centro” e che, al 16 maggio 25, “dopo poco più di un mese dal primo trasferimento forzato di persone trattenute dall’Italia al Cpr di Gjadër avvenuto il 11 aprile 2025 e con una presenza complessiva stimata di 40/60 persone, il Registro Eventi Critici riportava 42 casi”. Il rapporto sottolinea come “il trattenimento di cittadini stranieri nella struttura di Gjader mina l’effettività dei rimedi giurisdizionali in violazione degli articoli 24 e 3 della Costituzione”. E’ infatti in primo luogo la extraterritorialità del centro ad impedire l’accesso effettivo alla difesa tutelato dai già richiamati art. 24 Cost. e art. 6 della Cedu in ragione della oggettiva distanza tra i trattenuti e un difensore in Italia; nominarne uno, senza poterlo di fatto mai incontrare e senza riuscire a comunicare a causa della barriera linguistica, diviene per chi è internato a Gjadër un’impresa quasi impossibile e che configura una discriminazione tra trattenuti in un Cpr sito in Italia e il centro in Albania, basata sulla condizione personale, vietata dall’art. 3 della Costituzione, che impedisce che “senza un ragionevole motivo” si attuino trattamenti diversi tra “eguali situazioni” (Corte Cost. sent. n. 15/1960). Come avevo già richiamato su queste pagine il 25.06.25 (Cpr in Albania, la Cassazione dice no) la Corte di Cassazione Penale, Sez. I, con ordinanza del 20 giugno 2025 n. 23105 si è interrogata sulla legittimità, alla luce del diritto europeo, della asserita equiparazione della struttura di Gjader con i CPR e gli hotspot che si trovano sul territorio nazionale e dunque sulla legittimità della previsione, di cui al Protocollo italo-albanese, di applicare, “in quanto compatibili”, le normative sull’allontanamento degli stranieri previste dalla Direttiva 115/2008/CE sui rimpatri. Secondo la Cassazione la nuova disciplina italiana che prevede il trattenimento in Albania si pone in netto contrasto con l’intero impianto della Direttiva rimpatri ed in particolare con gli articoli 3, 6, 8, 15 e 16 (di fatto tutti gli articoli fondamentali della norma europea); a norma dell’art. 267 Tfue (Trattato sul funzionamento dell’UE) la Cassazione ha dunque effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La rilevanza delle questioni di diritto poste dall’Ordinanza di rinvio della Cassazione sono al centro delle conclusioni del Rapporto che osserva come “Il fatto che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia come oggetto proprio la valutazione sulla legittimità della scelta di istituire in un Paese extra-UE una struttura di detenzione amministrativa per l’esecuzione dell’espulsione avrebbe dovuto avere come immediata conseguenza la cessazione delle operazioni di trasferimento e detenzione nel centro di Gjader da parte del Governo italiano fino a decisione della Corte di Giustizia Ue. Ciò però non è successo affatto.” Il Governo italiano mantiene aperta la struttura di Gjader proprio perché sa che gli internati sono isolati e i loro diritti quasi-annullati. Ognuno di loro, dallo sperduto luogo in cui si trova dovrebbe attivare una causa individuale per far riconoscere la illegittimità del suo trattenimento in pendenza del ricorso alla Cgue. Azione tanto giuridicamente fondata, quanto difficilissima sul piano pratico. Per alcuni che riusciranno a farlo, altri verranno portati a rimpiazzo, così da riuscire a non chiudere il centro. Alla luce di tanta spregiudicatezza non appaiono affatto retoriche o eccessive le valutazioni del Rapporto quando osserva che “La gestione centralizzata, l’evocazione costante dell’emergenza, l’erosione delle garanzie e la deresponsabilizzazione delle autorità competenti sono segni di una trasformazione profonda del rapporto tra Stato e cittadinanza. Per questo possiamo dire che il “modello Albania” è un laboratorio dell’autoritarismo, dove si testano forme di potere post-democratico”. Droghe. Canapa light, Italia sola contro tutti di Raffaella Stacciarini Il Manifesto, 30 luglio 2025 Il proibizionismo, si sa, fa sempre più danni di quelli che vorrebbe evitare. E la lotta senza quartiere, e senza ragione, del governo alla cannabis non fa eccezione, riuscendo peraltro nella straordinaria impresa di coniugare politiche repressive, danni economici e posizioni antiscientifiche. Nonché meramente ideologiche: il tono è sempre quello della crociata, della lotta all’ultimo sangue a una presunta piaga sociale ignorando dati, evidenze, resoconti, rapporti, anni e anni di studi. Era il 2016 quando l’Italia finalmente decise di promuovere la coltivazione della canapa, compresa la cannabis cosiddetta light, quella cioè con un contenuto di Thc (il principio psicoattivo della pianta) inferiore allo 0,2 per cento. Meno di dieci anni dopo si vuole procedere a un passo indietro, un dietrofront che cancellerebbe i progressi fatti in tutto questo tempo. Qualche dato aiuta a chiarire i termini della questione: la canapa industriale, in Italia, è un settore in forte crescita, coinvolge quasi 3.000 aziende, può contare su circa 2000 ettari coltivati e produce un giro d’affari da 500 milioni di euro annui. Si tratta inoltre di una filiera innovativa e sostenibile: la canapa industriale contribuisce alla riduzione dell’impatto ambientale grazie alla sua capacità di assorbire CO2, rigenerare i suoli e sostituire materiali inquinanti. Le sue applicazioni coprono diversi settori, dalla bioedilizia all’alimentazione, dalla cosmesi al tessile. In questi anni è stata capace di valorizzare territori agricoli marginalizzati, a rischio spopolamento o in via di abbandono. Già questo basterebbe a spiegare che ostacolarne lo sviluppo è una follia priva di senso logico, anzi dannosa per la collettività. Ma c’è ovviamente di più. Con la proposta di uniformare la soglia di Thc per la canapa allo 0.5% in tutta l’Europa, Bruxelles sta offrendo un quadro ancora più stabile agli agricoltori coinvolti e questo potrebbe favorire nuovi investimenti e, di conseguenza, un’ulteriore crescita del settore. Secondo il compromesso votato in commissione agricoltura nel Parlamento Europeo, la nuova Pac (Politica agricola comune), “la coltivazione, raccolta, trasformazione e commercializzazione dell’intera pianta di canapa per fini industriali devono essere legali in tutta l’Ue”. Con una soglia allo 0,5%, compatibile - per evidenza scientifica e giurisprudenza consolidata - con l’assenza di effetti psicotropi, si tutelano produttori, investimenti e innovazione, sostenendo quindi un comparto già in espansione e coerente con gli obiettivi ambientali e sociali dell’Unione. Meloni e il suo governo, però non sembrano inclini a raccogliere questa opportunità. Né appaiono troppo interessati a quanto scritto nell’ormai famosa ultima relazione del Massimario della Corte di Cassazione, uscita lo scorso 23 giugno, che evidenzia la palese assurdità dell’articolo 18 del decreto sicurezza, quello che vieta la vendita della cannabis light. Secondo l’ufficio del Massimario, il divieto presenta gravi criticità costituzionali e potrebbe violare il diritto europeo. I giudici sottolineano inoltre che non esistono evidenze scientifiche che dimostrino effetti droganti per prodotti con un contenuto di Thc inferiore a quelli previsti dalla legge del 2016. Inoltre, la norma compromette il principio di affidamento del privato, mettendo a rischio l’intero settore, che dà lavoro a circa 30.000 persone e restituisce un gettito fiscale di 150 milioni di euro. La strada tracciata, purtroppo, sembra essere quella dell’involuzione totale: non solo le aziende saranno costrette a scegliere se chiudere o delocalizzare (con tutti i problemi che questioni del genere portano con sé), ma si rischia anche di infrangere ancora una volta le regole europee. Perché? Per pura ideologia salvifica, perché la cannabis aprirebbe la strada alle droghe pesanti. *Meglio Legale Libia. Caso Almasri, il Governo si difende alla Cpi: “Abbiamo agito in base allo Stato di diritto” di Errico Novi Il Dubbio, 30 luglio 2025 Passano le ore e cresce la suspense per la decisione in arrivo dal Tribunale dei ministri sul caso Almasri. Sono in sospeso le posizioni di quattro figure centrali nel governo Meloni: la stessa presidente del Consiglio, il sottosegretario e titolare della delega sui Servizi Alfredo Mantovano, i ministri dell’Interno e della Giustizia Matteo Piantedosi e Carlo Nordio. Ma in attesa di sapere se, secondo il collegio di tre giudici costituito ad hoc, i componenti dell’Esecutivo debbano essere processati (e se vada chiesta l’autorizzazione alla Camera di appartenenza), il governo si difende in altra sede dalle accuse sul rimpatrio del militare libico: lo fa dinanzi alla Corte dell’Aia, che deve valutare se l’Esecutivo Meloni ha violato lo Statuto di Roma in materia di cooperazione nel perseguimento dei crimini internazionali. Di fatto l’Italia, in questo proprio “memorandum supplementare” (ne era stato già trasmesso uno il 6 maggio scorso), confuta le ricostruzioni avanzate dal procuratore dell’Aia, in particolare rispetto a tre punti: l’impossibilità per Nordio di interferire con la decisione della Corte d’appello di Roma, che aveva scarcerato Almasri lo scorso 21 gennaio; il “peso relativo” della richiesta di estradizione avanzata il 20 gennaio della Libia, richiesta che ha sì “complicato” la valutazione italiana sul caso ma che non ha formalmente determinato il rimpatrio di Almasri (deciso per motivi di sicurezza nazionale); gli errori contenuti nella prima versione del mandato d’arresto trasmesso all’Italia dalla Cpi, errori che il procuratore dell’Aia, secondo Roma, sottovaluta. Sono argomentazioni non diverse da quelle presentate il 5 febbraio a Montecitorio da Piantedosi e Nordio, e che tendono a “smontare” l’accusa formulata dal procuratore dell’Aia. Non a caso, queste controdeduzioni sono state depositate due giorni fa davanti alla Corte penale internazionale in replica alle contestazioni che il “prosecutor” presso L’Aia aveva trasmesso il 25 giugno. Si tratta cioè di una schermaglia fra Stato italiano e accusa, in cui oltretutto Roma obietta sulla stessa legittimazione del procuratore dell’Aia a intervenire nel procedimento, che non dovrebbe avere carattere “contenzioso- penale” - sostiene la memoria inviata dall’ambasciatore italiano all’Aia Augusto Massari - ma dovrebbe riguardare unicamente la violazione, da parte dell’Esecutivo Meloni, dello Statuto di Roma. Va detto che, su un piano strettamente “processuale”, la contestazione mossa dal procuratore dell’Aia secondo cui l’Esecutivo italiano avrebbe potuto “sanare il vizio procedurale” ascrivibile alla Corte d’appello di Roma rafforza, sostiene il governo, “la buona fede degli organi esecutivi statutari (in particolare, il Ministro della Giustizia)”, il che “contrasta con la richiesta di deferire l’Italia” dinanzi alla Corte dell’Aia. Da una parte, in effetti, è lo stesso titolare dell’accusa dinanzi alla Cpi a rilevare che “la Corte d’appello di Roma ha erroneamente interpretato la legge nazionale di attuazione (la legge 237 del 2012, che recepisce in Italia lo Statuto di Roma, ndr), laddove tale legge avrebbe consentito l’arresto provvisorio” di Almasri. A tal proposito, il governo italiano scrive: “L’argomentazione secondo cui un’interpretazione della legge 237/ 2012 avrebbe consentito alla Corte d’appello di Roma di convalidare l’arresto provvisorio avvalora in realtà la posizione del governo italiano, secondo cui quest’ultimo non ha interferito in alcun modo con l’autorità giudiziaria italiana, alla quale, nell’ambito del proprio autonomo giudizio, era anche consentito non convalidare l’arresto provvisorio”. Più avanti il memorandum italiano segnala che “la liberazione del cittadino libico non può essere attribuita a una mancanza di coordinamento tra gli organi dello Stato, bensì all’esito di un corretto controllo giurisdizionale e di valutazione della regolarità della procedura, delineato sia dallo Statuto che dalla normativa nazionale”. Secondo l’Italia, dunque, il procuratore dell’Aia ignora “il fatto inconfutabile che lo Statuto di Roma stesso richiede l’intervento di diversi organi statali con funzioni distinte, operanti in modo del tutto separato e indipendente”, il tutto “in un quadro di Stato di diritto caratterizzato dall’autonomia e dalla separazione dei poteri”. Non manca il richiamo alle ormai note “incertezze” che l’Italia, e Nordio in particolare, attribuiscono alla prima versione del “mandato d’arresto” emesso dall’Aia a carico di Almasri. Incongruenze relative a “elementi chiave dei presunti crimini, come le date della loro perpetrazione, che il Procuratore qualifica come meri errori tipografici, senza tuttavia riconoscere che tali elementi sono stati successivamente corretti, insieme ad altri elementi essenziali, tra cui la qualificazione giuridica dei reati contestati. Tali aspetti”, sostiene l’Italia, “sono essenziali in materia di diritto penale e di procedura penale connessa”. Ucraina. Bombardata una prigione a Zaporizhzhia: 17 morti di Sabato Angieri Il Manifesto, 30 luglio 2025 La Russia ha “preso atto” del nuovo ultimatum di Trump e intanto continua a bombardare le città ucraine. Il bilancio della giornata di ieri è stato particolarmente pesante, con almeno 27 morti e 90 feriti, la maggior parte dei quali nel carcere di Bilenkiv, a poca distanza da Zaporizhzhia. Intorno alle 23.30 italiane di lunedì 4 bombe aeree teleguidate hanno colpito in pieno la struttura, distruggendo la mensa, parte degli uffici amministrativi e il reparto di isolamento, riferiscono fonti ucraine. Almeno 17 i detenuti rimasti uccisi e oltre 50 quelli che hanno avuto bisogno di cure mediche. Per Volodymyr Zelensky “si è trattato di un attacco deliberato e intenzionale”, mentre per il suo capo di gabinetto, Andriy Yermak, di “un altro crimine di guerra russo”. Si registrano altri 5 morti e tre feriti a Novoplatonivka, nella regione di Kharkiv e 4 vittime a Kamianske, nel Dnipro. Tutti civili secondo Kiev. Il ministero della Difesa russo nega le accuse di Kiev e rilancia sostenendo che “le forze armate della Federazione Russa hanno colpito l’infrastruttura di un aeroporto militare, un reparto di produzione e un centro di addestramento per operatori di droni, punti di dislocazione temporanea delle formazioni ucraine e mercenari stranieri in 142 aree”. Una vittima anche dal lato russo, nei pressi di una stazione ferroviaria a Salsk, nell’oblast di Rostov. Sul campo, secondo Mosca, questa fase del conflitto continua a essergli favorevole. Ieri la Difesa ha annunciato la conquista di due insediamenti nel Lugansk, ma si tratta di pura propaganda di guerra in quanto la regione era già occupata per il 98% del suo territorio pre-bellico e in quell’area gli ucraini non hanno appoggi logistici. Il Cremlino annuncia conquiste anche nel Donetsk e a Zaporizhzhia: due villaggi insignificanti dal punto di vista strategico. Non come la riconquista di Kindrativka da parte degli ucraini che allenta, almeno temporaneamente la pressione sul capoluogo nord-orientale di Sumy. Né come la durissima battaglia di Pokrovsk, sulla quale i soldati di Putin sono tornati a investire forze e mezzi e che per gli ucraini potrebbe portare a un arretramento significativo e molto pericoloso per la tenuta del fronte orientale. Nascono senz’altro da questa esigenza le due misure firmate ieri da Zelensky rispetto alla coscrizione. D’ora in poi anche agli over 60 sarà permesso di arruolarsi su base volontaria e agli specializzandi di medicina (con i requisiti psico-fisici necessari) sarà imposto l’addestramento e l’ingresso nei riservisti. Ma se il presidente ucraino continua ad approvare misure per far fronte al prolungarsi del conflitto ed elogia la decisione di Trump di restringere l’ultimatum dai 50 giorni iniziali (ovvero, fine agosto), a 10-12 giorni da ieri, per la “chiarezza e la determinazione” che potrebbe - a suo modo di vedere - “portare a una pace reale proprio al momento giusto”, i servizi segreti russi annunciano l’ammutinamento imminente. Per l’intelligence di Mosca per l’estero (Srv), infatti, si sarebbe tenuto un “incontro segreto” sulle Alpi durante il quale delle delegazioni ristrette di Usa e Gran bretagna avrebbero concordato con l’attuale braccio destro di Zelensky, Andriy Yermak, e con il potente capo dei servizi segreti militari ucraini (Gru), Kyrylo Budanov, la sostituzione del presidente in carica con l’ex comandante in capo delle forze armate ucraine, Valery Zaluzhny. In cambio i due avrebbero ottenuto “la promessa di mantenere i loro attuali incarichi e di tenere in considerazione i loro interessi”. L’Srv non chiarisce con quali modalità e tempi dovrebbe avvenire questo golpe bianco ma sostiene (in una nota pubblicata dall’agenzia russa Tass) che “la sostituzione di Zelensky è diventata la condizione per rinnovare le relazioni di Kiev con i partner occidentali, in primis con gli Usa, e per la continuazione degli aiuti occidentali”.