Dal sovraffollamento ai suicidi: radiografia di un sistema malato di David Allegranti La Nazione, 2 luglio 2025 Solo 36 istituti di pena su circa 200 hanno un tasso di riempimento in regola. E anche gli agenti si tolgono la vita. Sovraffollamento. Suicidi (non solo fra i detenuti). Mancanza di personale. Strutture insalubri. Tutte condizioni che rendono difficile, per non dire impossibile, applicare l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Vediamo quali sono alcuni dei numerosi problemi degli istituti penitenziari. Nelle carceri italiane ci sono 62.761 detenuti al 31 maggio 2025, a fronte di una capienza regolamentare di 51.296 posti (ai quali però andrebbero tolti quelli ormai inagibili: circa 4.500 secondo i calcoli di Antigone). Il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133%. Ma si tratta appunto di un tasso di affollamento medio. Delle quasi 190 carceri italiane quelle non sovraffollate, riferisce Antigone nel suo ultimo rapporto, sono solo 36, mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono 58. Al 30 aprile 2025 gli istituti più affollati erano Milano San Vittore (220%), Foggia (212%), Lucca (205%), Brescia Canton Mombello (201%), Varese (196%), Potenza (193%), Lodi (191%), Taranto (190%), Milano San Vittore femminile (189%), Como (188%), Busto Arsizio (187%), Roma Regina Coeli (187%), Treviso (187%). “I detenuti con sentenza passata in giudicato, che erano il 71,7% alla fine del 2023, sono saliti al 73,5% alla fine del 2024. Restano comunque più di un quarto dei presenti le persone in attesa di giudizio e presunte innocenti”, scrive Antigone. I suicidi - I suicidi fra i detenuti sono stati fin qui 38, stando alle statistiche di Ristretti Orizzonti. Il record è del 2024, quando i suicidi in carcere furono 91. Ma anche fra operatori penitenziari - fatto meno noto - ci si toglie la vita: 3 nei primi sei mesi del 2025, ha riferito Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. che fornisce dei dati aggiornati anche sul personale mancante: “18mila agenti mancanti, 3.500 aggressioni all’anno subite dalla Polizia penitenziaria ormai stremata da carichi di lavoro inenarrabili e turnazioni di servizio che si protraggono anche per 26 ore ininterrotte”. Le madri detenute - Al 31 marzo erano 15 i bambini che vivevano in carcere con le loro 15 madri detenute - di cui 10 straniere - un numero che in passato è stato di molto superiore. La domanda è antica ma resta: che cosa ci fanno dei bambini in carcere? Niente. Così come i malati psichiatrici. Non è il posto per loro, non dovrebbero stare lì. Il diritto all’affettività - Una recente sentenza della Consulta, nel 2024, ha sancito l’illegittimità costituzionale del controllo visivo obbligatorio durante i colloqui con il partner. Un momento di svolta. Il Dap lo scorso 11 aprile ha emanato una circolare su “Affettività e incontri intimi in carcere”. Dunque, per la prima volta, “l’amministrazione penitenziaria italiana interviene in maniera esplicita e organica sul tema dell’affettività e degli incontri intimi, traducendo in prassi operative quanto affermato dalla sentenza n. 10/2024 della Corte costituzionale”, osserva Antigone. Non mancano però i problemi: l’invito a dotarsi di spazi appositi per i colloqui intimi sembra essere una misura che rischia di scontrarsi con la realtà del sistema carcerario italiano. Il populismo penale - Il diritto penale è una risorsa scarsa. Ma c’è chi ne abusa. Nel decreto Sicurezza recentemente approvato vengono introdotte almeno quattordici nuove fattispecie e inasprite le pene di almeno altri nove reati. Inventare nuovi reati senz’altro non aiuta a diminuire il sovraffollamento carcerario. In carcere detenuti sottoposti a “trattamenti degradanti”: quattro punti per agire subito di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2025 Che il Capo dello Stato sia costretto a pronunciare una frase come questa è indegno di una democrazia avanzata. Per fortuna c’è Sergio Mattarella, che nei vari ambiti in cui interviene ci ricorda che ci sono dei limiti al potere del governo di fare quello che gli pare: i limiti dettati dalla Costituzione. Non si può fare carta straccia dei principi costituzionali, nonostante si sia stati eletti, si sia maggioranza, ci si senta imbattibili di fronte ai cittadini. Bisogna comunque rispettare il patto costituzionale, perfino in carcere. Di questo ha parlato il Presidente della Repubblica ricevendo al Quirinale il Capo delle carceri italiane e una rappresentanza della polizia penitenziaria. Le carceri, ha detto, non possono essere un luogo che calpesta la dignità della persona, non devono essere una fabbrica di nuova criminalità. Un condannato recuperato alla società è una garanzia di sicurezza per tutti ed è un obiettivo costituzionale. Oggi invece “nelle carceri italiane i detenuti vengono sottoposti, e in massa, a trattamenti inumani e degradanti”. Che il Capo dello Stato sia costretto a pronunciare una frase come questa è indegno di una democrazia avanzata quale l’Italia si vanta di essere. L’attuale governo non ha mai messo in discussione le proprie politiche penali, che hanno visto una grande espansione dei reati e delle pene, utilizzati per contrastare dai rave party (il reato che il governo introdusse durante il primo Consiglio dei Ministri in assoluto, quasi che i rave party fossero la più grande emergenza nazionale…) alle tossicodipendenze, alle varie forme di povertà (nuove norme sulla mendicità, su chi dorme presso stazioni e altri luoghi cittadini, sulle donne rom), alle espressioni pacifiche di dissenso. Tutto questo di fronte a tassi di criminalità in continuo calo in Italia. Il carcere è diventato il luogo della detenzione sociale di massa. ?Come unica soluzione, il governo promette la costruzione di nuove carceri. Obiettivo ovviamente impossibile, se si pensa che la popolazione detenuta sta crescendo al ritmo di 150 unità al mese e che un carcere medio, da 300 posti, costa circa 30 milioni di euro solo per poter venire aperto. Poi andrà riempito di personale, manutenuto, organizzato. Dovremmo costruire un nuovo carcere ogni due mesi, svuotando le tasche dei contribuenti. In due anni la capienza effettiva è calata di 900 posti, mentre le presenze sono aumentate di oltre 5.000 unità. E al momento sono previsti 384 nuovi posti letto, con un investimento di 32 milioni di euro per 16 blocchi detentivi in calcestruzzo. Altro che dignità rispettata. Mentre si intravedono i fantasmi del carcere privato alle porte, con le sembianze dei benefattori, anche il sistema minorile è andato in crisi con il sovraffollamento prodotto dal Decreto Caivano. Il governo ha dismesso ogni politica sociale riconvertendola in politica securitaria. Per rispondere alle parole del Capo dello Stato - nonché di Papa Leone, che su questo era intervenuto nei giorni scorsi affermando che dobbiamo eliminare la povertà, non i poveri - si dovrebbero fare immediatamente quattro cose: 1. Un atto di clemenza per chi deve scontare un residuo pena inferiore ai due anni, cosicché il sistema torni a respirare. 2. Sollecitare provvedimenti collettivi di grazia e di concessione di misure alternative attraverso i consigli di disciplina. 3. Concedere telefonate quotidiane ai detenuti in modo da alleviare la loro condizione psicologica di isolamento. Una telefonata può salvare la vita e in carcere, come ha ricordato Mattarella, i suicidi sono stati drammaticamente troppi. 4. Abolire la pratica medievale dell’isolamento penitenziario. Troppo spesso sono proprio le celle di isolamento i luoghi degli abusi e dei suicidi. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Dall’indulto alla legge Giachetti, quello che il Governo potrebbe fare e non fa per le carceri di Conchita Sannino La Repubblica, 2 luglio 2025 Fact checking sulla piaga del sovraffollamento dopo il nuovo allarme di Mattarella: norme stoppate, un Piano che prevedrebbe almeno 3-4 anni. La piaga del sovraffollamento? “Ci vorranno tre, quattro anni”, per il Piano con le nuove carceri, “anche ammesso che si riesca, come ha promesso il governo. E intanto in questi anni, che succede?”. L’inaspettato fact checking non è firmato dalle opposizioni, ma è arrivato un mese e mezzo fa dal presidente del Senato, Ignazio La Russa. Scopertosi più sensibile al tema, come ha riconosciuto, di fronte agli Sos che gli arrivano dal vecchio compagno di strada, Gianni Alemanno, ex ministro ed ex sindaco di Roma, rinchiuso a Rebibbia ormai da 180 giorni esatti. È solo uno dei punti di caduta delle promesse di Meloni-Nordio sul dramma che investe il sistema detenzione in Italia: la vera “emergenza sociale”, non degna di un Paese civile, cui il presidente Sergio Mattarella ha dedicato ieri l’ennesimo, impietoso monito. Quello che bisognerebbe fare? Le opposizioni compatte puntano alla cosiddetta “liberazione speciale anticipata”: ovvero l’allargamento di un istituto che già prevede - per chi vanta una buona condotta - di cancellare, ad ogni semestre di detenzione, 45 giorni dal monte della pena. La nuova norma, che porta la firma del renziano Roberto Giachetti e da oltre un anno e mezzo è stata lasciata a galleggiare alla Camera, porterebbe quello “sconto” a 75 giorni, ma solo per un massimo di due anni: ma dalla destra, solo l’autorevole apertura del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli, e l’adesione di La Russa vanno nella stessa direzione, un vago incipit di manovra bipartisan, pur mediando su una detrazione di 60 giorni invece di 75. L’effetto, stando ai calcoli interni, porterebbe alla scarcerazione di “qualche migliaio di persone”: troppo poche, secondo i garanti dei detenuti, gli attivisti e le ong, rispetto ai 16mila in più stipati nelle nostre carceri. Occorrerebbe un indulto: il condono di due anni di pena. Ma le ipotesi sono entrambe cassate da Nordio, con l’appoggio della Lega e dei falchi meloniani. “Sarebbe un messaggio diseducativo, non è mai rientrato nei programmi”, le parole del ministro. Ma qual è la situazione, oggi? La popolazione dei detenuti tocca quota 62mila e 761: a fronte di 46mila e 792 posti effettivi. I suicidi in cella sono già 37 (l’ultimo rapporto Antigone ricorda che “da quando si è insediato il governo, siamo a oltre 210 persone che si sono tolte la vita, un autentico record”). Un conteggio che non dà conto degli altri 50 casi in Italia, solo nei primi sei mesi del 2025, di gravi malori o atti di autolesionismo: persone agonizzanti tirate fuori dalle celle, a volte in tempo per essere salvate, mentre in altre si sono spente in ospedale, ma restano fuori dall’asettico elenco dei morti di carcere. Mentre l’assistenza sanitaria interna è quasi inesistente e i penitenziari del Paese sono in media fatiscenti, con punte di degrado e abbandono da nord a sud. Eppure, a nove mesi ormai dal decreto voluto da Carlo Nordio-Meloni e dalla nomina del commissario straordinario, Marco Doglio, non c’è ancora - come ha denunciato lo scorso maggio una robusta relazione della Corte dei Conti - alcun dettaglio né previsione dei tempi sul programma Carceri. In compenso ieri il ministro della Giustizia ha ricordato i quattro punti su cui si sta muovendo la sua struttura: “Una detenzione differenziata per i tossicodipendenti; l’espiazione della pena per gli stranieri presso i Paesi di origine; le strutture di accoglienza per i detenuti che hanno i requisiti per l’accesso alle misure alternative alla detenzione ma sono privi delle condizioni socioeconomiche; e soprattutto la riforma della custodia preventiva per i reati non di criminalità organizzata. Infatti, più del 20% dei detenuti è in attesa di giudizio, ed una buona parte di loro alla fine viene assolta”. Che fine ha fatto il Piano? Il programma ministeriale doveva prevedere “una diminuzione più che consistente dell’affollamento, per riusicre a entrare al di sotto della capienza ordinaria”, parole del Guardasigilli, estate di un anno fa. Dalla realizzazione di nuove strutture sono comunque state espunte almeno 6 nuove carceri: a nord, ma soprattutto a sud. Dove, ad esempio, non si vedrà più quel modello di carcere all’avanguardia previsto in Campania, già fissato in località Boscofangone nel nolano, per costi ritenuti troppo alti. L’unica misura tampone emersa, nel frattempo, si attende da mesi, è quella dei “moduli” prefabbricati: solo 384 posti letto, distribuiti in 9 istituti, costo 32 milioni di euro. “Ma si tratta di veri e propri bunker, sono gabbie che si aggiungono a gabbie”, è il responso, progetto alla mano, di tecnici e attivisti. La via d’uscita è una, ribadiscono gli esperti, come il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: “Quella rapida e davvero efficace sarebbe un indulto di due anni: perché sono proprio 16mila, cioè il numero di detenuti in eccedenza, coloro a cui manca meno di due anni al fine pena”. La seconda carica dello Stato non si spinge a tanto ma resta, a destra, l’unico testimonial dell’emergenza: “La sofferenza nelle carceri non è né di destra, né di sinistra, dobbiamo farcene carico”, ha detto La Russa. Era un convegno di maggio. E siamo a un’altra torrida estate nelle celle sovraffollate. Carceri: non servono soluzioni impossibili, ma il realismo di un gesto di clemenza di Corrado Limentani ilsussidiario.net, 2 luglio 2025 Le carceri italiane sono al collasso. Le ultime statistiche parlano di un sovraffollamento di oltre il 130% (il 200% a San Vittore). I dati resi pubblici dal ministero della Giustizia dicono che al 31 maggio 2025 i detenuti erano 62.761 nonostante la capienza regolamentare degli istituti fosse di 51.296 posti (una capienza teorica, perché non tiene conto di circa 4.500 posti inagibili o in ristrutturazione). Sempre altissimo il numero di detenuti che si sono tolti la vita, ad oggi già 36. A questo si aggiunge la carenza di personale, intesa come mancanza sia di agenti di Polizia penitenziaria (mancano oltre 3mila uomini) che di personale specializzato (educatori, psicologi, criminologi). Pochi sono i posti di lavoro riservati ai detenuti, col rischio che, una volta scarcerati, non avendo un’occupazione, ricomincino a delinquere. Molti i reclusi con problemi psichiatrici che, per carenza di personale specializzato, non godono di adeguata assistenza sanitaria. Moltissime sono le persone che restano detenute solo perché non hanno all’esterno un’abitazione dove poter scontare la pena agli arresti domiciliari o con le misure alternative. Basti pensare che ben 19.810 sono i detenuti stranieri, per lo più senza fissa dimora. Cosa sta facendo il governo per risolvere la situazione? Poco o nulla. Si parla di costruire nuovi istituti di pena, ma ci vorranno soldi e tempo. Il ministro Nordio parla di realizzare strutture comunitarie per ospitare i detenuti tossicodipendenti, ma anche qui si tratta di un rimedio che non sembra essere risolutivo e che comunque richiede anni di attesa. Nessuno di questi rimedi potrà risolvere in tempi brevi questa drammatica situazione, lasciando così inascoltati gli appelli che da più parti richiamano il governo ad adottare soluzioni rapide ed efficaci. Prima Papa Francesco che, in occasione del Giubileo, aveva rivolto un appello ai governi affinché adottassero provvedimenti di clemenza nei confronti delle persone detenute, promuovendo una giustizia penale aperta alla speranza e al reinserimento sociale. Di recente anche il presidente del Senato Ignazio La Russa, differenziandosi dalle posizioni dei suoi compagni di partito contrari ad ogni provvedimento deflattivo, si è espresso per trovare soluzioni che consentano di scarcerare i detenuti più meritevoli. Da ultimo, nei giorni scorsi, anche il presidente della Repubblica Mattarella ha sottolineato l’urgenza di risolvere la condizione di sovraffollamento delle carceri in quanto “l’alto numero di suicidi rappresenta ormai una vera e propria emergenza sociale a cui porre immediatamente fine”. Ma, allora, se soluzioni per risolvere urgentemente il problema del sovraffollamento delle carceri sono richieste a gran voce dal Papa, la più alta autorità morale del pianeta, e dalle più alte cariche dello Stato, cosa aspettano il Governo e la politica in generale ad approvare un provvedimento di clemenza? Il piano carceri del Governo: posti in ex caserme e prefabbricati entro fine luglio di Antonella Coppari La Nazione, 2 luglio 2025 Le contromisure dopo l’appello di Mattarella. Saranno usati i fondi del Pnrr. E si pensa al trasferimento dei tossicodipendenti in comunità terapeutiche. Il piano carceri arriverà. Impossibile rinviare oltre dopo la sonora bacchettata del presidente della Repubblica, che peraltro non staffilava per la prima volta il governo sulla situazione inammissibile nelle carceri italiane. Il decreto della presidenza del Consiglio che traduce in norme il programma del ministro Carlo Nordio e del commissario straordinario per l’edilizia carceraria, Marco Doglio, arriverà entro “pochissimi giorni”, dicono a Palazzo Chigi, al massimo entro la fine di luglio, assicurano al ministero della Giustizia. Ma cosa in dettaglio conterrà il Dpcm è ancora ignoto. Di sicuro farà partire il progetto di 384 nuovi posti letto entro il 2025 grazie all’ampliamento di 9 istituti penitenziari ad Alba, Milano, Biella, L’Aquila, Reggio Emilia, Voghera, Frosinone, Palmi, Agrigento. Si tratta di prefabbricati in calcestruzzo - la gara d’appalto si è chiusa ad aprile - per un costo di 32 milioni di euro finanziati dal Pnrr. Parlare di goccia nel mare sarebbe esagerato. Non è neanche quella: a fine maggio, secondo i dati di via Arenula, le persone detenute erano 62.761, per una capienza ufficiale di 51.296. Ma, sottolinea l’associazione Antigone, “i posti non disponibili per inagibilità o ristrutturazioni sono almeno 4.500”, dunque i posti realmente disponibili sarebbero 46.796. Insomma, se fosse tutto qui il governo non avrebbe neppure la faccia tosta di presentare il Dpcm al Capo dello Stato. Ci sarà altro. I bene informati dicono che il provvedimento dovrebbe prevedere altri 1.500 posti letto - sempre grazie ai moduli di calcestruzzo prefabbricati - che potrebbero lievitare fino a 4.000 anche con l’utilizzo di caserme dismesse. Il tutto, calcolano al governo, pagato con i soldi stanziati dal Pnrr. Ma non è detto che saranno poi costruiti in tempi molto brevi. Edilizia a parte, Nordio si sta muovendo in altre direzioni. Prima di tutto, la detenzione differenziata per i detenuti tossicodipendenti. Da soli costituiscono la quota maggioritaria nella popolazione carceraria: circa un terzo. Dice Maurizio Gasparri, capo dei senatori forzisti: “Spero che il ministro della Giustizia e le altre autorità competenti accelerino l’attuazione e l’ammodernamento delle norme che consentono ai tossicodipendenti con condanne entro il tetto di sei anni, di scontare la pena presso una comunità terapeutica”. Già: ma quali comunità? E pagate come? Ecco le due incognite da sciogliere. Poi c’è il progetto del governo sugli immigrati: puniamoli a casa loro. Insomma, rinviamoli tutti nei loro Paesi. Data la situazione dei rimpatri e la scarsa disponibilità dei vari Paesi a riprendersi anche i più specchiati, l’ipotesi non sembra di facile attuazione. A via Arenula si guarda anche verso un’altra categoria folta, i detenuti che hanno un lavoro esterno o sono in semilibertà, quelli cioè che in carcere ci passano solo la notte, ma un letto per loro va trovato. In questo caso si ragiona sulle caserme dismesse: e se li mandassimo tutti lì? Possibile, impossibile si vedrà. Infine il governo punta su una carta che coniuga due problemi: quello della giustizia e quello della detenzione. E cioè la custodia cautelare. Dato il numero esorbitante di detenuti in attesa di giudizio (più del 20% dei reclusi, ha ricordato lunedì il Guardasigilli), sfoltire la categoria con un intervento legislativo sarebbe un passo avanti, ma anche in quel caso i distinguo ci saranno e la strada è meno in discesa di quanto sembri. Mettiamola così: l’esecutivo ha capito di dover fare i conti con un problema sempre denunciato e mai affrontato sul serio. È anche possibile di questo passo che si arrivi a quella che molti tecnici indicano come l’unica soluzione realmente efficace: la depenalizzazione dei reati minori. Peraltro non sarebbe neppure questa di semplice gestione. Carceri, il piano del Governo: 2mila posti entro il 2026 di Valentina Pigliautile Il Messaggero, 2 luglio 2025 Interventi per nuovi moduli e ristrutturazioni. Al commissario straordinario 250 milioni di euro, ma i fondi destinati all’edilizia si avvicinano a un miliardo. Pochi giorni, qualche settimana al più. L’auspicio, spiegano da Palazzo Chigi, è quello di chiudere il programma di interventi in capo al commissario straordinario per le carceri, Marco Doglio, entro fine luglio. Nonostante sia servito più tempo rispetto al previsto - il piano era atteso già a gennaio - ora sarebbe solo una questione di ultimi ritocchi da parte del ministero dell’Economia, e della firma finale del dpcm da parte della premier. Se ancora il riserbo è massimo sui dettagli, quello che assicurano gli addetti ai lavori è che l’operato del commissario servirà ad accelerare l’attuazione di interventi urgenti, entro il termine del 2026. In due direzioni: nuovi moduli da inserire all’interno di istituti già esistenti e attività di ristrutturazione e recupero di celle ammalorate o incendiate. Si tratterà soprattutto di velocizzare le fasi successive alle gare di appalto già bandite: c’è quella chiusa ad aprile per 384 posti su 9 istituti penitenziari per un importo totale di 32 milioni. E poi le gare per oltre 1500 posti da creare in moduli prefabbricati. In totale, quasi 2000 nuove unità da destinare ai detenuti. Un raggio di azione per cui il commissario avrà a disposizione 250 milioni, stanziati dall’ultimo decreto Carceri, e derivanti dal ministero delle Infrastrutture e della Giustizia, compresa una quota delle risorse finalizzata agli interventi del Piano per gli investimenti complementari del Pnrr. Al fianco del commissario nelle gare d’appalto, anche l’Anac e Invitalia, con cui Doglio lo scorso 24 giugno ha siglato un protocollo di azione e vigilanza collaborativa per rafforzare la trasparenza e la legalità. Si tratta, ad ogni modo, di un programma che rientra nel più ampio piano per l’edilizia carceraria - su cui a Doglio è stata richiesta una ricognizione - che coinvolge il ministero dei Trasporti e il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) e che, secondo quanto dichiarato da Carlo Nordio, a marzo scorso, ha come scopo finale quello di incrementare a 7000 i posti disponibili, senza fare ricorso a norme “svuota-carceri”. Le risorse per riuscirci non mancano. Ai 411 milioni stanziati dal Pnrr per l’edilizia giudiziaria si sommano 132,9 milioni del piano nazionale complementare e ancora altri 166 milioni allocati dal Mit a novembre 2023 per ristrutturazioni carcerarie mirate. Cifre che - tenendo in riferimento almeno parte della quota in seno al commissario - superano i 900 milioni. Il puzzle delle politiche anti-sovraffollamento è composto, però, da tante tessere. Il decreto Carceri, oltre a prevedere la figura di un commissario ad hoc, nominato a settembre scorso, ha introdotto un Albo delle “Comunità educanti” che, una volta avviato, potrebbe accogliere per la reclusione domiciliare soggetti con specifici requisiti. A questo si affianca l’Albo per le comunità terapeutiche pubbliche e private dove i detenuti tossicodipendenti potranno usufruire di misure alternative al carcere. Ma dalle parti di via Arenula si guarda anche all’ultimo decreto Sicurezza che introduce misure per favorire il lavoro e il reinserimento dei detenuti. A partire dai contratti di apprendistato professionalizzante, senza limiti di età, anche per i detenuti ammessi alle misure alternative alla detenzione. E poi i ritocchi alla legge Smuraglia, affinché aziende pubbliche e private - e non solo cooperative sociali - possano beneficiare dello sgravio contributivo al 95% anche se impiegano detenuti ammessi al lavoro esterno. Oltre all’attività “attuativa” sulle gare, c’è chi non esclude che nel dpcm che definirà il campo di azione del commissario straordinario, possano essere inseriti nuovi compiti. Tra le misure avanzate dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per contrastare l’emergenza carceri - oltre all’esecuzione della pena per i detenuti stranieri nei rispettivi paesi d’origine - c’è anche la costituzione di strutture ad hoc per i tossicodipendenti e la possibilità di usare caserme dismesse per creare nuovi carceri: un buon proposito avanzato anche in passato ma mai veramente decollato. Il programma del governo non è ancora operativo, ma la lista di cose da fare per le carceri si allunga di giorno in giorno. Storia delle tante promesse (vuote) di Nordio sul “Piano carceri” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 2 luglio 2025 Annunci a piede libero. Dopo l’appello di Mattarella, il ministro della Giustizia si è lanciato in una serie di proclami di misure imminenti. Molte di queste già le avevano tentate (lui o i suoi predecessori) e sono fallite. Comunità per tossicodipendenti e chi non ha una casa, nuove carceri, i detenuti stranieri mandati “a casa loro”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha sciorinato una serie di misure qualche ora dopo l’appello del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sulle carceri. Il capo dello Stato ha invitato la politica a fare di più per fermare i suicidi. Che, dopo il triste record dello scorso anno - quando a togliersi la vita in cella furono 88 persone - nel solo 2025 sono già arrivati a 38. Il ministro ha risposto con una lista di provvedimenti che, garantisce, saranno attuate a brevissimo. Ma è davvero così? Analizzando il tema non sembra. Perché alcune misure erano state già lanciate e non hanno avuto seguito, altre, invece, non sono mai state messe nero su bianco. E così - mentre i detenuti muoiono suicidi, affrontano le celle invivibili d’estate, si trovano una sempre minor offerta di attività lavorative ed educative - il governo che ha varato 48 nuovi reati (senza contare le aggravanti) continua a lanciare sterili annunci di riforme che dovrebbero combattere il sovraffollamento delle carceri. Un sovraffollamento che, dati alla mano, sta raggiungendo livelli record. Come spiega Patrizio Gonnella di Antigone: “A fine maggio le persone detenute erano 62.445, a fronte di una capienza regolamentare ufficiale di 51.280 posti (e di una capienza effettiva di oltre 4.000 posti in meno). Il tasso di affollamento è superiore al 134% con tassi di crescita costanti e preoccupanti della popolazione detenuta (da inizio anno a fine maggio le presenze erano aumentate di più di 900 unità)”. Ma analizziamo la propaganda del governo, punto per punto. Le comunità per tossicodipendenti? Numeri stabili Il Guardasigilli ha fatto sapere che il governo punta a “una detenzione differenziata” per i detenuti che hanno problemi di dipendenza da stupefacenti. La questione è tutt’altro che secondaria, dal momento che, secondo l’ultima relazione annuale al Parlamento sulle droghe, i detenuti tossicodipendenti a fine 2024 erano 19.755. Circa uno su tre. Il problema, però, è che non è la prima volta che l’esecutivo annuncia un nuovo modo di scontare la pena per le persone hanno una dipendenza. Ma nessuna svolta è all’orizzonte. Secondo i dati forniti ad HuffPost da Antigone, dal primo gennaio al 15 giugno 2025, i tossicodipendenti che dal carcere sono stati affidati in prova ai servizi sociali sono 3711. Nello stesso periodo del 2024 erano 3509. C’è, quindi, un leggero aumento, ma è proporzionale all’aumento dei detenuti nell’ultimo periodo. E tutti gli altri? Restano in carcere, a scontare una pena e a combattere la loro dipendenza. Comunità per chi potrebbe andare ai domiciliari ma non ha una casa. Che fine ha fatto quel decreto? Il rischio del “carcere privato”. Era l’estate del 2024 quando Nordio annunciava un decreto che avrebbe consentito a più detenuti di uscire dal carcere. Era rivolto in particolare a chi aveva il diritto di andare agli arresti domiciliari, ma non aveva una casa dove trascorrerli. E l’idea era di facilitare l’accesso in comunità anche ai tossicodipendenti. Ma le comunità sono state poi coinvolte? HuffPost lo ha chiesto a Caterina Pozzi, presidente del Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca): “No, non siamo stati coinvolti. L’anno scorso, a prescindere dal decreto, avevamo già accolto 400 persone. E avevamo messo subito a disposizione altri 220 posti. Non è certamente mancata la nostra apertura”. Pozzi lamenta un allungamento dei tempi dal momento in cui il detenuto presenta la domanda per entrare in comunità al via libera dei giudici. E si chiede: “Quando Nordio parla di comunità, si riferisce a quelle come le nostre, accreditate e seguite dalle Asl, o a un altro tipo di strutture? Perché la preoccupazione che abbiamo è che si voglia sdoganare una sorta di carcere privato. Che non sia, cioè, sotto il totale controllo dello Stato”. Per Pozzi: “La verità è che, per legge, i tossicodipendenti in carcere non dovrebbero proprio entrare. E il governo dovrebbe varare meno reati”. Gli stranieri in carcere nel loro Paese? (Quasi) impossibile. Un’altra misura che, da tempo, il governo sponsorizza è quella di mandare i detenuti stranieri a trascorrere la pena a casa loro. Il ragionamento si fonda sul fatto che circa un terzo dei detenuti - a fine maggio erano 19.810 su un totale di 62.761 reclusi - sia di origine straniera. Il problema è che non è così semplice fare accordi con i Paesi esteri, affinché si riportino a casa degli autori di reato. Un accordo esiste con la Romania. Potenzialmente, quindi, i 2158 detenuti rumeni che sono nelle nostre prigioni potrebbero essere riportati nella loro terra d’origine. A meno che - e spesso è proprio quello che si verifica - non si siano già costruiti una vita e una famiglia in Italia. Non è mai decollato - perché mai ratificato dalle autorità marocchine - un accordo con il Marocco. I detenuti marocchini nelle nostre celle sono 4.346, pari al 21, 9% della popolazione straniera presente al 31 maggio. A inizio 2024, infine l’allora capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Russo, aveva annunciato che sarebbe arrivato un accordo con l’Albania. Il Paese di Edi Rama, cioè, avrebbe accolto i detenuti di origine albanese, che nelle celle italiane sono attualmente 1931. Nonostante la grande amicizia tra Rama e Meloni, però, l’accordo non è mai stato firmato. L’ennesimo piano carceri in arrivo, ma in Italia nessuno di quelli varati ha mai funzionato. Come ha annunciato il ministro, il commissario alle carceri, Marco Doglio, dovrebbe nei prossimi giorni presentare un piano carceri che vada oltre il progetto di 384 posti da ricavare in container installati nei giardini dei penitenziari. I precedenti, però, non depongono a suo favore: di recente la Corte dei Conti ha massacrato tutti i piani carceri, o presunti tali, varati negli ultimi 10 anni. Non era andata meglio in epoche meno recenti. Dal piano di Roberto Castelli, che prevedeva sostanzialmente che lo Stato avrebbe preso in leasing strutture da privati, così da adibirle a carceri, fino a quello di Angelino Alfano, passando a quello degli anni 80 culminato in quello che è passato alla storia come “il piano carceri d’oro” - per i costi triplicati - nessun progetto è mai andato a buon fine. Qualcosa vorrà pur dire. Emergenza carceri, Brunetta stringe sull’attuazione del piano Recidiva Zero di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2025 Definito il cronoprogramma di attività per promuovere scuola, formazione e lavoro. “Ora passare ad atti concreti e immediati”. Dopo l’appello lanciato lunedì dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, a intervenire sulle “preoccupanti condizioni” del sistema carcerario, il presidente del Cnel, Renato Brunetta, esorta a cambiare passo in fretta. E dà l’esempio: ieri il numero uno del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ha convocato una riunione straordinaria del Segretariato permanente per l’inclusione delle persone private della libertà personale istituito nell’ambito del progetto “Recidiva Zero”, frutto dell’accordo interistituzionale siglato nel 2023 con il ministero della Giustizia guidato da Carlo Nordio. Il risultato è stato il varo di un documento che definisce il cronoprogramma delle attività messe in campo per promuovere scuola, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere, stabilendo la pubblicazione di report mensili di verifica sullo stato di attuazione delle singole azioni di sistema. Si partirà già questo mese, con la presentazione a Nordio di un quadro di osservazioni e proposte per lo sviluppo della legge Smuraglia e le modifiche al regolamento sull’ordinamento penitenziario ex Dpr 230/2000 in materia di organizzazione del lavoro dei detenuti. La base sarà il contributo di esperienze e buone pratiche offerto dalle 16 organizzazioni datoriali che i117 giugno scorso, nella seconda giornata di studi dedicata a “Recidiva Zero”, hanno firmato un protocollo d’intesa. Altri contributi arriveranno dal ministero delle Imprese e del Made in Italy, con cui si sta predisponendo un’azione specifica per sostenere le aziende che intendono investire in attività produttive dentro e fuori dal carcere, e da Cassa Depositi e Prestiti, a cui il Cnel ha chiesto di collaborare per assicurare assistenza tecnica e supporto alle imprese. In secondo luogo, si proseguirà nell’apertura sperimentale della piattaforma Siisl del ministero del Lavoro ai detenuti di otto istituti per favorirne il reimpiego, con lo scopo di estenderla gradualmente a tutte le 189 carceri italiane. Assieme alle proposte in cottura per i decreti attuativi dell’articolo 37 del Decreto Sicurezza e allo sviluppo dell’offerta di istruzione universitaria con l’attivazione di punteggi premiali agli atenei allo studio con Anvur, le linee guida prevedono la presentazione di un secondo disegno di legge targato Cnel, dopo quello di maggio 2024, e di una proposta per riservare ai detenuti una soglia del 5% dei posti nei call center pubblici. Infine, si lavorerà con le Regioni nell’ambito del Programma nazionale Inclusione e lotta alla povertà. Brunetta ripete: “Per trasformare il periodo di detenzione in un percorso di recupero, rieducazione e inserimento socio-lavorativo, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione, serve la partecipazione di tutti. Soltanto così il mondo carcerario potrà diventare un luogo più umano”. “Emergenza carceri, nelle Comunità pochi posti per i tossicodipendenti” di Conchita Sannino La Repubblica, 2 luglio 2025 Caterina Pozzi, responsabile della rete dei Centri di cura smonta l’idea di Nordio: “Possiamo accoglierne solo 220 su 17mila oggi dietro le sbarre”. Questo governo si muove dentro una contraddizione tanto drammatica quanto pericolosa. Da un lato, scarica tutti i problemi sociali su nuovi reati e su altro carcere. Dall’altro, si dice “sensibile e molto attento” ai temi del sovraffollamento e dei suicidi. Ma insomma, ci prendiamo in giro?”. Caterina Pozzi è la presidente della rete Cnca, il Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza, 196 tra residenziali e semiresidenziali, la più ampia rete del privato sociale in Italia per le dipendenze. Presidente Pozzi, il Capo dello Stato ha chiesto di intervenire “immediatamente”. Voi conoscete il carcere. Quali sono gli aspetti più gravi, oggi? “Innanzitutto, desta allarme il continuo peggioramento di un quadro che già presentava da diversi anni situazioni di sofferenza. Ma occorre riflettere su alcuni dati: circa 6mila sono i condannati in primo grado. E in 8mila hanno una pena inferiore a un anno. Di questi, quasi il 40% sono stranieri. E i giovani: stando all’ultimo rapporto di Antigone, i detenuti che hanno tra 18 e i 24 anni sono quasi 4mila. E sa quanti di questi sono i tossicodipendenti? Ben 17.500” Cioè: più di tutte le persone che rappresentano i “reclusi eccedenti” che sono 16mila? “Esatto: ecco perché bisogna puntare su depenalizzazione, misure alternative e sulle comunità accreditate”. Un punto da chiarire: Nordio ha ribadito tra i suoi impegni la “detenzione differenziata” per i tossicodipendenti. Ha capito in che termini? “Veramente a oggi non si comprende un bel nulla. Né come si procederà, né con quali fondi, visto che si parla di 5 milioni per tutta la misura, né soprattutto quali saranno i criteri”. In astratto, però, avreste la disponibilità per accoglierli? “Nel 2023, per citare dati pubblici e condivisi, le nostre comunità hanno accolto 2mila e 376 persone. Di queste, 400 erano in misura alternativa alla detenzione, come affidamento speciale. Ma altri 220 posti sono disponibili, il problema è che si tratta di una goccia nel mare”. In ogni caso, non vi occupate di detenzione ma di assistenza. “I casi di arresto domiciliari sono pochissimi. Anche perché le comunità sono una parte del sistema dei servizi pubblico-privati che hanno alle spalle più di 30 anni di attività, e rispondono a standard regionali che ne garantiscono qualità ed appropriatezza. Accolgono quindi anche persone dipendenti dal carcere, ma lavorando essenzialmente sul percorso di cura e sulla comprensione del reato. Sono integrate sul territorio e propongono percorsi di formazione e di inserimento lavorativo. Io mi chiedo: è questo il tipo di risposta a cui pensa il ministro?” Avete timori? “C’è un fatto. Da quando si è insediato, questo governo punta sempre e solo alla detenzione. Sono aumentati le fattispecie di reato, sono aumentate le pene per reati già presenti, pensiamo al decreto anti-rave, al decreto Caivano, che ha completamente stravolto i nostri Istituti minorili, o al “cattivo” e rischiosissimo decreto Sicurezza”. Insomma, si scarica tutto sulle carceri? “Meglio: sulla vita dei detenuti e sulle persone che dentro le carceri lavorano. Se questo è l’impianto, è lecito dubitare delle promesse su depenalizzazione o affidamento dei detenuti tossicodipendenti”. Il timore, espresso anche da Antigone, è che si vogliano immaginare comunità private? “Abbiamo un po’ questo dubbio. Se l’intento è quello di definire un sistema di “strutture” fuori dall’accreditamento che ospitino tutte le persone, a prescindere dagli specifici bisogni, questo sarebbe uno scardinamento del sistema integrato pubblico-privato che garantisce interventi socio sanitari specialistici, a favore di situazioni a gestione privata, di cui non sono chiare le finalità né le modalità di intervento e di custodia”. C’è il rischio che si privatizzi la detenzione dei tossicodipendenti? “Non vorremmo si creassero dei Centri di permanenza per i rimpatri applicata a tutti i detenuti, ecco. Si vogliono creare delle piccole carceri private? Al peggio, all’inferno non ci sarebbe davvero mai fine”. Il “pacchetto carcere” della Lega: un passo indietro pericoloso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 luglio 2025 Potremmo pensare che, dopo l’esperienza al Viminale, Matteo Salvini abbia segretamente assunto anche il ruolo di guardiano dei diritti umani, e invece no: è sempre ministro dei Trasporti. Eppure il suo recente appello a circoscrivere il reato di tortura suona come un’uscita fuori campo. In molti sostengono che, con treni in perenne ritardo e autostrade intasate, il titolare delle infrastrutture farebbe meglio a dedicarsi a binari e svincoli, piuttosto che rimettere mano a un articolo del codice penale che non lo riguarda direttamente. In conferenza stampa a Montecitorio, la Lega ha svelato il suo “pacchetto carceri”: taser per gli agenti penitenziari, difesa legale a spese dello Stato e tagli al reato di tortura. il vicepresidente del Consiglio Salvini ha sottolineato il valore “insostituibile” del lavoro della polizia penitenziaria, come se qualcuno avesse insinuato il contrario. Il punto però è un altro: dietro l’etichetta del sostegno alle forze dell’ordine potrebbe nascondersi la volontà di alleggerire le conseguenze penali per chi, già oggi, rischia di finire sotto processo. Il reato di tortura è comparso nel nostro codice penale il 14 luglio 2017, con la legge 110, inserito nell’articolo 613 bis. Da allora abbiamo assistito a un numero non trascurabile di segnalazioni da parte di detenuti che si sono rivolti all’associazione Antigone, denunciando di essere stati vittime di violenze. Diverse di queste segnalazioni hanno dato luogo a veri e propri procedimenti per tortura, segno che la norma non è rimasta lettera morta. Simona Filippi, avvocata di Antigone, nell’ultimo rapporto dell’associazione da poco presentato, ha dedicato un capitolo dal titolo: “Lo sguardo di Antigone sulla tortura. L’analisi di un anno di contenzioso”: racconta come quattro vicende nate da segnalazioni di detenuti vittime di presunte violenze - siano arrivate almeno in parte al traguardo di una sentenza. A Viterbo, il 27 marzo 2024, il giudice ha condannato l’allora direttore del carcere per aver ignorato l’ordine di trasferire Sharaf Hassan, un ragazzo egiziano allora minorenne, in un istituto penitenziario minorile: il giovane si tolse la vita il 23 luglio 2018, ma il tribunale ha escluso ogni concorso in omicidio colposo. Quel processo ha spalancato una porta sul disinteresse verso le norme sui trasferimenti, tanto che al carcere di Viterbo nessuno pareva conoscere circolari e direttive del Dap, materia che il direttore stesso ammise di non aver mai studiato (sentenza 74/2024 Tribunale di Viterbo, pag. 60). A Torino, la Corte d’Appello del 14 novembre 2024 ha ribaltato invece il giudizio di primo grado: l’ex direttore era stato accusato di non aver denunciato accuse di violenze arrivate da alcuni detenuti, ma i giudici hanno ritenuto che “comportamenti incongrui” non bastassero a delineare un reato preciso. Mentre il Gup di primo grado voleva indagare anche su segnalazioni generiche, l’Appello ha fissato il principio che si denuncia solo quando il fatto è dettagliato e certo (sentenza 5377/ 2024 Corte d’Appello di Torino, pagg. 22- 23), e ora la Cassazione dovrà decidere. A Reggio Emilia, il 17 febbraio 2025 otto agenti penitenziari hanno incassato una condanna per abuso d’autorità e falso: le telecamere hanno ripreso un detenuto incappucciato trascinato, denudato e lasciato solo in isolamento per oltre quarantacinque minuti, mentre si infliggeva tagli per disperazione. Il giudice ha parlato di un intervento “rudimentale e maldestro”, derubricando la tortura in abuso d’autorità ma senza sminuire la gravità delle immagini (sentenza 91/ 2025 Tribunale di Reggio Emilia, pagg. 39- 50). Infine a Firenze, nella sentenza d’Appello del 3 aprile 2025 - con motivazioni attese entro novanta giorni - è stata confermata la decisione del Tribunale di Siena sui fatti dell’11 ottobre 2018 nel carcere di San Gimignano. Un gruppo di agenti ha aggredito un detenuto col pretesto del trasferimento alla doccia: lo hanno strattonato, colpito con pugni e calci, umiliato con insulti razzisti e infine abbandonato semi- nudo in cella senza letto né coperta. Proprio in quella sentenza di primo grado il tribunale aveva definito con chiarezza i confini tra uso legittimo della forza - necessario, proporzionato e previsto dalla legge - e abuso d’autorità, che oltrepassa quei limiti e si trasforma in tortura (sentenza Tribunale di Siena 9 marzo 2023). Le altre battaglie di Antigone - Accanto ai processi per tortura, Antigone ha assistito famiglie di detenuti suicidi o morti per cause sanitarie, e ha continuato a segnalare episodi di violenza in carcere. Negli ultimi mesi del 2024 sono arrivati due esposti importanti: uno per violenze alla casa di reclusione “Opera” di Milano (10 settembre 2024) e uno per fatti a Pagliarelli di Palermo (20 dicembre 2024). Per la prima volta è stato denunciato un caso in un istituto penale minorile, il “Cesare Beccaria” di Milano, e uno nel reparto “Sestante” del Lorusso Cotugno di Torino, destinato a detenuti con patologie psichiatriche. Uno di questi nuovi esposti ha già portato a richiesta di rinvio a giudizio. Tra i nuovi procedimenti, spicca quello nato da un esposto di Antigone per un pestaggio al 23enne detenuto della Casa Circondariale Santa Maria Maggiore di Venezia. La denuncia - depositata il 27 febbraio 2024 - racconta di tre agenti che hanno aggredito il giovane in uno stanzino, provocandogli un’emorragia interna che ha reso necessaria un’operazione d’urgenza all’ospedale Borgo Roma di Verona. Se la visita al carcere è arrivata solo la mattina dopo il pestaggio, i medici del pronto soccorso hanno chiarito che, se fosse stato rimandato, il detenuto sarebbe potuto morire. L’ 8 maggio 2025 la Procura di Verona ha chiesto il rinvio a giudizio per lesioni e falso a carico di cinque agenti; l’udienza preliminare è fissata per il 16 luglio 2025. La linea sottile tra giustizia e abuso - Il bilancio è inquietante: da una parte, la legge che punisce la tortura sta producendo processi e condanne; dall’altra, emergono riaperture e richieste di attenuazione di quella stessa legge. L’iniziativa di Salvini punta a ridisegnare il confine tra uso legittimo e abuso di forza, in un momento in cui le inchieste di Antigone mostrano come, anche con norme più severe, la distanza tra ciò che è giusto e ciò che avviene davvero dietro le sbarre rimanga enorme. Se l’obiettivo è davvero difendere chi è incaricato di mantenere l’ordine, non si tratta di ridurre tutele penali ma di rafforzare formazione, controlli esterni e trasparenza nelle carceri. Un ministro dei Trasporti saprebbe forse come dare un’accelerata alle tratte in ritardo, ma se davvero vuole occuparsi di carcere, farebbe meglio a chiedere un giro negli istituti, a guardarsi negli occhi con chi su quelle responsabilità ci lascia la pelle. Solo così potrà capire dove davvero intervenire. “Serve un provvedimento contro l’emergenza carceraria”. Intervista a Roberto Giachetti di Giuseppe Ariola L’Identità, 2 luglio 2025 “Il Presidente Mattarella non perde mai occasione per mettere in rilievo le criticità relative all’universo carcerario. Anche La Russa quando ha ripreso la mia proposta sulla liberazione anticipata ha dimostrato di avere perfettamente chiaro che un conto è parlare a livello strutturale del tema delle carceri, che secondo l’attuale maggioranza va dall’utilizzo delle caserme, alla ristrutturazione dei penitenziari, alla costruzione di nuovi istituti, altro conto è concentrarsi sull’emergenza che, ovviamente, con il caldo estivo diventa una tragedia”. È quanto pensa il deputato di Italia viva Roberto Giachetti, da sempre attento ai temi dei diritti, della giustizia e, in particolare, alle problematiche legate alle carceri, che L’identità ha intervistato all’indomani dell’ennesimo monito del Capo dello Stato sull’emergenza carceraria. È sua la più recente iniziativa parlamentare sulla liberazione anticipata con la quale, ci spiega, ha “semplicemente proposto di fare ciò che si fece con la legge Gozzini, che aumentò, dai 20 previsti precedentemente, a 45 i giorni di premialità ogni 6 mesi per i detenuti che si comportano in modo virtuoso, cioè che partecipino alla vita carceraria in modo positivo. Questa è la legge attualmente in vigore e la mia proposta per affrontare l’emergenza è di aumentare i giorni di premialità a 75. Anche quando ci fu la sentenza Torreggiani non fu fatto un indulto o un’amnistia, ma si diede seguito a una liberazione anticipata speciale attraverso una legge ad hoc con una retroattività di 3-4 anni che prevedeva l’aumento della premialità da 45 a 75 giorni per togliere un po’ di gente dalle carceri dopo la condanna della Cedu. Durante il Covid, a causa delle enormi criticità che si crearono nei penitenziari, il ministro Bonafede fece una cosa simile per fare uscire un po’ di gente, addirittura i detenuti al 41 bis. Dopodiché non è stato fatto più assolutamente nulla”. Può mai essere che quando si fa riferimento alle carceri si deve necessariamente parlare di emergenza? “L’emergenza carceraria comporta tutta una serie di gravi problematiche, a partire dai suicidi, il cui numero lo scorso anno ha segnato un record e nel 2025 questo record sarà addirittura superato. E i suicidi sono solo la punta dell’iceberg, poi ci sono gli atti di autolesionismo, le morti borderline, quelle per le quali ancora si deve stabilire se i decessi sono avvenuti per suicidio o per malattia. Insomma, l’emergenza riguarda tutta una serie di fenomeni che rendono la vita nelle carceri disperata e indegna. Il sovraffollamento carcerario e, al contempo, la carenza di organico di Polizia penitenziaria sono un mix micidiale. Senza un numero adeguato di personale anche l’ora d’aria è a rischio. Oltretutto, il sovrappopolamento non manda in crisi solo i detenuti, ma anche gli educatori, gli psicologi, i volontari. Paradossalmente il problema riguarda anche i giudici di sorveglianza, perché i detenuti presentano le istanze per la liberazione anticipata e in alcuni casi le risposte arrivano quando sono già usciti. In questo contesto domina l’ipocrisia, perché dalla sentenza Torreggiani molti detenuti hanno iniziato a non fare più ricorsi alla Cedu, ma direttamente ai giudici di sorveglianza per detenzione in condizioni disumane e degradanti. Sono 4 mila i detenuti ai quali nel solo 2023 i giudici di sorveglianza, non potendo liquidare un danno dal punto di vista economico, hanno accordato dei giorni di sconto della pena. Sostanzialmente una condanna dello Stato che si pone fuori legge”. Il ministro della Giustizia ha prospettato delle soluzioni per contrastare l’emergenza carceraria dopo il nuovo intervento del Presidente Mattarella... “La risposta che ha dato Nordio è irritante, ridicola. A proposito del tema della custodia cautelare, continuano a parlarne, ma non c’è una proposta all’ordine del giorno. Ma al di là di questo, già un anno fa, quando hanno affossato la mia legge sulla liberazione anticipata speciale, era stato detto che bisogna lavorare sulla custodia cautelare, prevedere percorsi particolari per i detenuti tossicodipendenti e fare in modo che gli stranieri scontino la pena nei paesi di origine. Nordio ha semplicemente ripetuto le stesse cose di un anno fa, senza aver fatto assolutamente nulla nel frattempo. Oltretutto, tutte queste cose richiedono tempo. Non è che fatta la legge sulla custodia cautelare chi è in regime di detenzione preventiva esce dal carcere, semmai non ne entrano altri. Inoltre, c’è una piccola contraddizione: parlano della custodia cautelare ma poi fanno un decreto legge dietro l’altro con nuovi reati e aumenti di pena. Invece di toglierle gente dalla galera ce la sbattono, anche con motivazioni assurde”. Il governo lavora anche sul fronte dell’edilizia carceraria. Può essere una soluzione? “Il governo ha creato la figura di un commissario alle carceri che non ha fatto assolutamente nulla, è una poltrona con uno stipendio e che non ha fatto nulla. Anche perché obiettivamente la politica della costruzione delle nuove carceri non è attuabile in cinque minuti e sul tema dell’emergenza carceraria non ha fatto nulla lui e non ha fatto nulla il governo. D’Altronde questa maggioranza non è riuscita a fare neanche una cosa a costo zero come la Giornata Enzo Tortora in nome delle vittime degli errori giudiziari”. Perché secondo lei? “Il problema vero è un’ideologia rispetto alla quale i partiti di governo non riescono a fare mezzo passo in avanti neanche di fronte al dramma delle morti che si consumano in carcere, alle denunce che sono arrivate da Papa Francesco, dal Presidente della Repubblica, da tutti i garanti. Tutti gli dicono che, se non si vuole fare un indulto o un’amnistia, un provvedimento che alleggerisca la pressione nelle carceri va comunque fatto e loro continuano a cincischiare, non gliene frega assolutamente nulla. L’unica cosa che sono stati in grado di fare è creare i reparti speciali antisommossa della Polizia Penitenziaria, perché io rimango convinto che il loro spirito sia quello di lasciare che esploda questa situazione, per poi intervenire con un’operazione repressiva. La volontà è quella di dare una risposta securitaria che è molto più incline alle loro corde”. Tegola sul decreto Caivano dopo la decisione della Consulta: Nordio annaspa sul carcere di Giulia Merlo Il Domani, 2 luglio 2025 La dichiarazione di incostituzionalità azzoppa il decreto simbolo, e può non essere l’unica. Il sovraffollamento è al 134 per cento. Il governo, sollecitato dal Quirinale, promette un decreto. Nel governo è allarme costante sul fronte giustizia. Appena finito di gridare alle “toghe rosse” contro la relazione tecnica dell’Ufficio del Massimario della Cassazione, che paventava il rischio di incostituzionalità del decreto Sicurezza e del protocollo con l’Albania, una nuova dichiarazione di incostituzionalità è arrivata sul serio dalla Consulta. E su un altro dei decreti simbolo dell’esecutivo Meloni. I giudici costituzionali, infatti, hanno bocciato il decreto Caivano nella parte in cui esclude il reato di spaccio di lieve entità dalla messa alla prova, che è una misura alternativa al carcere. Il nuovo articolo 168 bis infatti ha previsto un aumento di pena, portata fino a cinque anni, che la impedisce. Cade così un pezzo del decreto, che ha avuto come principale effetto l’esplosione del numero di minori reclusi negli istituti penali minorili ormai sovraffollati come le carceri ordinarie (basti un dato: nel periodo tra maggio 2023 e maggio 2024 il numero dei minorenni negli istituti penali è passato da 210 a 339, un più 61,4 per cento). La Consulta ha accolto le questioni sollevate dai tribunali di Padova e Bolzano in riferimento all’articolo 3 della Costituzione: “É infatti irragionevole e foriero di disparità di trattamento che, tra i due reati a confronto, l’accesso alla messa alla prova sia precluso per la fattispecie meno grave (il piccolo spaccio), mentre per quella più grave (l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti) sia, in astratto, ammissibile”. Inoltre l’esclusione del piccolo spaccio dalla messa alla prova “frustra anche le finalità di deflazione giudiziaria che detto istituto persegue, in particolare, per i reati di minore gravità e di facile accertamento”. In altre parole, il decreto Caivano - almeno nell’articolo dichiarato incostituzionale - contribuisce a far crescere il numero di detenuti per reati di piccola entità: esattamente quelli per cui le misure alternative sono state pensate. La dichiarazione di incostituzionalità appena arrivata potrebbe essere solo la prima: il tribunale per i minorenni di Roma ha sollevato, nell’aprile scorso, una questione di incostituzionalità su un altro articolo, che esclude automaticamente la messa alla prova del minore per alcuni reati considerati gravi (come la violenza sessuale in presenza di specifiche aggravanti), eliminando ogni possibilità di valutazione al giudice, con il paradosso invece di lasciarla come possibilità in casi di reati di grande pericolosità sociale come l’associazione mafiosa. Una questione che ha molti punti di contatto con quella accolta dalla Corte. “Stavolta il governo non potrà liquidarla come un semplice commento interpretativo”, ha detto il deputato di Più Europa, Riccardo Magi, sottolineando come “il decreto Caivano serve solo a soddisfare la smania panpenalista di Meloni e Salvini”. Del resto anche sul decreto Caivano molti giuristi avevano paventato - oltre ai profili di incostituzionalità - anche il rischio che producesse un aumento del numero di detenuti per reati di strada. La sentenza della Consulta, tuttavia, è una ulteriore riprova di come ad oggi le misure volute dal governo Meloni abbiano contribuito a far aumentare il numero di detenuti invece che ridurlo, quando le carceri ospitano già 16mila detenuti in più rispetto ai 46.792 posti disponibili e i suicidi da inizio anno sono stati 37. Il carcere - L’ennesimo allarme lanciato dal presidente Sergio Mattarella, che nei giorni scorsi ha parlato di “vera emergenza sociale”, rimane tuttavia inascoltato da mesi. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha nominato dieci mesi fa il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria Marco Doglio, ma ad oggi il progetto dei paventati 7000 nuovi posti in tre anni non ha dato segni di essere in moto, se non con l’avvio di una gara pubblica per 384 nuovi posti entro il 2025: una goccia nel mare del costo di 32 milioni di euro. Dalla maggioranza, invece, sono stati ripetuti solo dei no a qualsiasi ipotesi di liberazione anticipata come misura emergenziale. Nonostante le aperture del presidente del Senato, Ignazio La Russa all’ipotesi del cosiddetto decreto Giachetti (che portava a 60 gli attuali 45 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi in caso di buona condotta) uno stop è arrivato in particolare dalla Lega e anche Nordio si è detto scettico rispetto a qualsiasi soluzione che non sia quella di costruire nuove carceri. Sollecitati dalle parole del Colle, gli uffici di via Arenula hanno rispolverato l’imminente arrivo di un nuovo piano - già annunciato da Nordio in audizione - che dovrebbe prevedere in particolare una detenzione differenziata per i tossicodipendenti in strutture medico-sanitarie adatte. Soprattutto Forza Italia prova a spingere in questa direzione. “Il governo è al lavoro su norme ad hoc”, ha detto il portavoce Raffaele Nevi. Esattamente l’anno scorso se ne è approvato uno, che però si è rivelato un guscio vuoto, come dimostrano i numeri di oggi. E anche l’ipotesi della detenzione diversificata per i tossicodipendenti è più che astratta oltre che molto complessa: le strutture di comunità per tossicodipendenti sono poche e i posti attualmente disponibili tra pubblico e privato sono meno di mille, mentre circa un terzo della popolazione detenuta ha problemi di tossicodipendenza. Inoltre questo prevedrebbe di spostare su strutture sanitarie la gestione della detenzione, ma la sanità è di competenza delle singole regioni. La contraddizione, dunque, resta: il governo a parole dice di voler intervenire sull’emergenza carcere, nei fatti non fa altro che aumentare il numero di reati e dunque di detenuti. “Se il governo intende continuare a moltiplicare i reati e le pene si prenda almeno il tempo di realizzare il suo faraonico piano di nuove carceri e strutture alternative, aprendo a un provvedimento parlamentare di amnistia e indulto”, è l’appello del Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. Intanto l’estate con temperature tropicali è l’ennesima vessazione sui detenuti, di cui lo Stato continua a dimostrare di non sapersi far carico. Con la scusa del sovraffollamento nelle carceri ora Nordio punta a salvare i colletti bianchi di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2025 Stop carcere preventivo agli incensurati. Dopo il monito di Mattarella il ministro annuncia una “riforma” della custodia cautelare. Sul tavolo c’è la proposta di Costa (Forza Italia) che però riguarderebbe solo politici e manager. Salvare dal carcere i colletti bianchi indagati, usando come scusa il sovraffollamento delle celle. L’idea, accarezzata da tempo da una parte della maggioranza, si fa concreta e potrebbe diventare una norma di legge nei prossimi mesi. Ad annunciarlo è stato lo stesso ministro della Giustizia Carlo Nordio, rispondendo al monito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sulla “grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento” (62.761 ristretti a fronte di una capienza di 46.792 posti) e sull’“emergenza sociale” dei suicidi dietro le sbarre (38 dall’inizio dell’anno). “Grande è l’attenzione per le parole del capo dello Stato”, ha scritto Nordio in una nota, elencando gli interventi allo studio del governo per migliorare le condizioni dei penitenziari. In questo senso, oltre al progetto di far scontare le pene in comunità ai tossicodipendenti (vecchio pallino del sottosegretario di FdI Andrea Delmastro) e al piano per realizzare nuove celle-container, il ministro cita “soprattutto la riforma della custodia preventiva per i reati non di criminalità organizzata”: infatti, afferma, “più del 20% dei detenuti è in attesa di giudizio, e una buona parte di loro alla fine viene assolta”. Insomma, secondo il Guardasigilli la strada maestra per far respirare le carceri è vietare di mandarci gli indagati o gli imputati prima della condanna definitiva. E la strada per farlo è già tracciata: in questa legislatura, infatti, il governo ha accolto ben due ordini del giorno del deputato di Forza Italia Enrico Costa impegnandosi a restringere i requisiti della custodia cautelare. Nel più recente, passato a fine maggio durante l’esame del decreto Sicurezza, si chiedeva di riformare la materia garantendo “un puntuale bilanciamento tra presunzione di innocenza e garanzie di sicurezza, tenendo nella giusta considerazione lo stato di incensuratezza dell’indagato”. Un intervento con lo scopo - nemmeno troppo nascosto - di impedire di arrestare politici, manager e imprenditori accusati di corruzione e altri reati contro la pubblica amministrazione, che quasi sempre hanno la fedina penale immacolata. Rispetto al sovraffollamento, però, una misura del genere non servirebbe quasi a nulla: a riempire i penitenziari, com’è noto, non sono certo i colletti bianchi ma persone ai margini della società, spesso con numerosi precedenti per reati di strada (spaccio, rapine, furti) o prive di un luogo adatto dove scontare gli arresti domiciliari. In ogni caso, a quanto apprende ilfattoquotidiano.it, il governo ha intenzione di onorare l’impegno varando una norma apposita dopo l’estate, una volta completato l’iter parlamentare della separazione delle carriere (che per ora ha congelato tutte le altre iniziative in tema di giustizia). ?L’intervento riguarderà l’articolo 274 del codice di procedura penale, che indica le tre esigenze in base alle quali il gip può disporre misure cautelari: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove o di reiterazione del reato. Come chiede Forza Italia, diventerà più difficile - se non impossibile - mandare in carcere un incensurato per il rischio che ripeta il reato di cui è accusato, quando non si tratta di delitti violenti o di criminalità organizzata. Secondo Costa, infatti, quel rischio non è altro che “un sospetto basato su un sospetto”: “Sospetto di reiterazione del reato nei confronti di chi non è ancora stato dichiarato colpevole, né lo è stato in passato”, scriveva nelle premesse al suo ordine del giorno. La versione del governo probabilmente sarà più soft: resterà possibile applicare la custodia in carcere a chi ha già avuto una condanna, anche solo in primo grado, seppur formalmente incensurato. Nordio, d’altra parte, è uno storico sostenitore dei limiti alla custodia cautelare: quando non era ancora entrato in politica, fu membro del comitato promotore del referendum (fallito per mancanza di quorum) che chiedeva di eliminare del tutto dal codice l’esigenza cautelare del rischio di reiterazione del reato. Ammassati in celle roventi: la pena non sia tortura, sì alla liberazione speciale di Gianni Alemanno** e Fabio Falbo** Il Dubbio, 2 luglio 2025 La lettera dal carcere ai presidenti di Camera e Senato, firmata da Gianni Alemanno e lo scrivano di Rebibbia: “Non chiediamo impunità, chiediamo umanità, non chiediamo clemenza, chiediamo giustizia, perché nessuna cella può diventare una tomba”. Signori Presidenti, ci rivolgiamo a Voi che rappresentate il massimo punto di riferimento dell’attività parlamentare, per far sentire la nostra voce di persone detenute nel Braccio G8 del Carcere di Rebibbia NC. Siamo persone con esperienze molto diverse - una contraddistinta da un pluridecennale impegno politico e istituzionale, l’altra da una lunghissima esperienza carceraria vissuta studiando Giurisprudenza e lavorando come “scrivano” al servizio delle altre persone detenute - ma accomunate dallo stesso impegno per rendere pubbliche le drammatiche condizioni in cui si vive negli istituti penitenziari italiani. Drammatiche condizioni che stanno esplodendo: nel cuore dell’estate italiana, mentre milioni di cittadini cercano refrigerio tra ventilatori e condizionatori, c’è un’Italia che brucia in silenzio, è quella delle carceri, dove oltre 62.000 persone vivono stipate in celle pensate per meno di 47.000, dove il caldo non è solo un disagio, ma una pena aggiuntiva, dove la dignità umana si scioglie, giorno dopo giorno, tra muri scrostati, letti a castello e finestre sigillate da pannelli di plexiglass. Mentre le temperature superano i 45 gradi, i ventilatori sono un lusso per pochi, le celle sono camere a gas, le docce funzionano a intermittenza e l’acqua potabile scarseggia, ogni estate si ripete lo stesso copione: suicidi, proteste, appelli, e poi il silenzio. Nel carcere milanese di San Vittore il tasso di sovraffollamento ha superato il 220%, a Regina Coeli nel cuore di Roma è al 192%, mentre quello medio di tutti gli istituti di pena italiani è del 133% (calcolando non le capienze teoriche, ma i reparti realmente utilizzabili). Nel 2024, ben 71 persone detenute si sono tolte la vita, nei primi sei mesi del 2025 siamo già a 38, un suicidio ogni cinque giorni, numeri che gridano vendetta, ma che non fanno rumore, perché chi muore in carcere, spesso, muore due volte, nella cella e nell’indifferenza collettiva. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, e se le cose non cambieranno rapidamente, il nostro Paese, “patria del diritto”, rischia si subire di nuovo la stessa umiliante condanna. Prima di Voi ci siamo rivolti al Ministro della Giustizia: sono passati due mesi e non abbiamo ottenuto alcun riscontro, se non la notizia che il Ministero ha predisposto un piano di 32 milioni di euro per l’ampliamento di nove istituti penitenziari mediante l’istallazione di moduli detentivi prefabbricati. Ebbene, questo intervento dovrebbe mettere a disposizione 384 nuovi posti in cella, con un costo medio per detenuto di 83.000 euro: una goccia nel mare, a fronte di un sovraffollamento di più di 14.000 persone detenute. Oggi ci rivolgiamo a voi, Signori Presidenti, perché riteniamo che l’unica possibilità di dare una risposta immediata, concreta e adeguata a questa emergenza, sia quella di approvare un provvedimento di legge con il concorso trasversale di forze politiche provenienti da ogni schieramento. Non un indulto o un’amnistia per i quali, non solo sarebbe necessaria una maggioranza qualificata, ma bisognerebbe sfidare un’opinione pubblica giustamente preoccupata dai problemi della sicurezza e della certezza della pena. Pensiamo, invece, a quella che è stata definita la “Legge della buona condotta”, ovvero un provvedimento che preveda una “liberazione anticipata speciale” tale da aumentare lo sconto di pena già previsto quando le persone detenute mantengono un comportamento giudicato irreprensibile dagli Uffici di sorveglianza. Su questa ipotesi - come il Presidente La Russa ben sa - si sono già svolti degli incontri politici che hanno coinvolto l’on. Roberto Giachetti, che ha depositato una proposta di legge in questo senso, e l’on. Rita Bernardini, presidente dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, che sta conducendo proprio in questi giorni uno sciopero della fame per richiamare l’attenzione sull’emergenza carceri. Ci rendiamo contro che nel frattempo sono intervenuti conflitti internazionali che hanno messo in secondo piano ogni dramma sociale, compreso quello delle carceri, ma adesso - prima della pausa estiva, che coinciderà con il momento peggiore per la condizione delle persone detenute - è necessario dare una svolta a questi contatti politici, mettendo nell’agenda parlamentare l’urgenza di intervenire sulla situazione degli istituti di pena. Non chiediamo impunità, chiediamo umanità, non chiediamo clemenza, chiediamo giustizia, anche perché nessuna pena può diventare tortura, perché nessuna cella può diventare una tomba, perché nessuna persona mai dovrebbe essere trattata come meno di un essere umano. *Ex sindaco di Roma e ministro **Scrivano del Braccio G8 di Rebibbia Carcere e persone trans, quando la detenzione diventa tortura di Anita Fallani Il Domani, 2 luglio 2025 Gli istituti di pena si strutturano secondo una rigida divisione di genere, una divisione che mostra tutte le sue fragilità quando si interfaccia con la natura delle persone trans. “Le case circondariali, tutte le volte che si confrontano con una persona appartenente alla comunità Lgbtqia+, si pongono sempre lo stesso problema: qual è il posto in cui la presenza di questa persona mi causa meno problemi?”, dice a Domani Rachele Stroppa, ricercatrice dell’associazione Antigone. Il carcere si struttura secondo una rigida divisione di genere, una divisione che mostra tutte le sue fragilità quando si interfaccia con la natura delle persone che binaria non è mai stata. “Il criterio di assegnazione in carcere si basa ancora sull’aspetto biologico. Il carcere guarda i genitali dei detenuti per scegliere dove debbano essere collocati. Il problema però sorge con le persone trans che non si sono sottoposte, per scelta o per tempismo, a un intervento chirurgico ai genitali. Succede che una detenuta sia considerata donna sui documenti dello Stato ma uomo dal penitenziario perché i suoi caratteri sessuali primari sono quelli maschili. Se il carcere non ha una sezione dedicata, finisce in cella con gli uomini nonostante la legge italiana dica che non c’è bisogno della rimozione dei genitali maschili per essere considerati una donna” dice la ricercatrice. Sezioni protette - Domenica 29 giugno una detenuta trans nel carcere di Ferrara ha denunciato di aver subito uno stupro di gruppo. Nonostante fosse donna, era detenuta nella sezione maschile, aveva già chiesto all’amministrazione di essere trasferita perché lì non si sentiva al sicuro. “Sono solo sei i penitenziari italiani che hanno una sezione dedicata alle donne trans: Ivrea, Como, Reggio Emilia, Belluno, Rebibbia e Napoli Secondigliano. Nel 2018 è stata fatta una riforma dell’ordinamento penitenziario e nell’articolo 14 comma 7 c’è scritto che una persona detenuta può chiedere per motivi legati al proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere di essere trasferita in sezioni definite dalla legge “protette omogenee”, quelle che noi chiamiamo appunto sezioni per le donne trans. Per farlo, serve la loro firma”, dice Stroppa. Nell’ordinaria vita del carcere, però, le cose vanno diversamente: succede che una detenuta trans venga mandata quasi automaticamente in una sezione protetta se, al momento dell’ingresso, il carcere che la ospita ne ha allestita una. Oppure, succede che venga mandata nella sezione maschile se la casa circondariale è sfornita. Principio di territorialità - Chiedere un trasferimento in una sezione protetta, però, può significare cambiare carcere e, quindi, ledere il diritto della persona detenuta a scontare la pena il più possibile vicino al luogo di residenza. Si tratta del cosiddetto principio di territorialità che garantisce ai detenuti la prossimità agli affetti. “Di fatto le donne trans sono costrette a scegliere l’incolumità a discapito della socialità. La protezione dagli abusi e dalle molestie viene fatta al costo di una detenzione ancora più marginalizzata in una struttura già di per sé isolata dal mondo come il carcere. Significa avere ancora meno opportunità, soffrire la solitudine, rischiare di diventare trasparente agli occhi di un sistema che invisibilizza le persone”. A oggi, le persone appartenenti alla comunità Lgbtqia+ non sono soggette ad alcuna indagine statistica. Non esistono agli occhi dell’amministrazione: gli unici dati disponibili risalgono al 2023 e non sono esaustivi, si riferiscono soltanto alle donne trans e agli uomini omosessuali. È impossibile stimare l’abuso dei farmaci e degli ormoni o il grado di malessere delle donne trans in carcere: “Chi entra in carcere come me può solo limitarsi a fare delle valutazioni sulla propria esperienza empirica che ci dice che sì, queste persone soffrono tantissimo, ci raccontano di episodi di autolesionismo. Altre ci dicono che prendono psicofarmaci per sopportare la detenzione, prima non ne avevano avuta la necessità”, dice Stroppa. Gli studi - Ad aprile 2024 l’associazione Antigone ha aderito a un progetto finanziato dalla Commissione europea per elaborare uno studio in grado di descrivere le condizioni detentive di questa comunità. Alcune ricerche etnologiche sull’argomento che permettono di fare alcuni ragionamenti, comunque, esistono già: il ricercatore trans Carmine Ferrara ha svolto un’indagine nella sezione per le donne trans del carcere di Poggioreale a Napoli (ora chiusa e riaperta a Secondigliano). La ricerca ha promosso il dialogo e la condivisione delle esperienze cercando di far emergere come una istituzione totale genderizzata quale il carcere è si riflettesse nella vita delle donne trans. Per agevolare la riflessione, è stato proposto di disegnare i luoghi che abitano: il proprio corpo, la loro casa, il carcere. “Significativo e illuminante è il disegno di Brenda (nome di fantasia) che disegna la propria casa come una fortezza con il cancello e le torri come a raccontare il bisogno di difendersi dall’ambiente esterno. Il carcere, invece, lo raffigura con una metafora: un barattolo di vetro che ne contiene un altro al cui interno c’è una farfalla che non può volare a causa del poco spazio. Accanto la scritta “Il carcere e il mio corpo due prigioni!”, come se la condizione carceraria fosse l’amplificazione di una condizione detentiva interiore”, dice Ferrara a Domani. I tempi cambiano, dalla parte degli ermellini di Stefano Anastasia Il Manifesto, 2 luglio 2025 Ma che si aspettavano i Ministri Nordio e Piantedosi, che l’Ufficio del Massimario della Cassazione ignorasse il loro più significativo intervento legislativo in materia di sicurezza e ordine pubblico? O che ignorasse il coro di voci dissenzienti che contro di esso si è alzato non solo da parte di associazioni e movimenti per i diritti civili e sociali, ma anche dalla dottrina (l’Associazione dei professori di diritto penale e gli studiosi del diritto pubblico capitanati da ben tre ex-presidenti della Corte costituzionale) e dal mondo delle professioni giuridiche (Associazione nazionale magistrati e Unione delle Camere penali all’unisono)? L’Ufficio del Massimario ha tra le sue attribuzioni stabilite per legge quella di contribuire alla funzione istituzionale della Cassazione, di assicurare l’esatta osservanza della legge e l’uniforme interpretazione della legge, anche attraverso la redazione di relazioni sulle novità legislative. E questo il Massimario ha fatto con la relazione 33/2025 sul decreto-legge sicurezza e poi con quella sull’accordo Italia-Albania per la deportazione dei migranti irregolari. Essendo un ufficio del massimo organo giurisdizionale nazionale, esso svolge la sua funzione con la prudenza necessaria, e chi ha letto la relazione contestata non avrà mancato di notare che le critiche al decreto-legge sono tutte attribuite ai loro autori, esterni alla Cassazione, spesso rese davanti alle Camere, prima durante la discussione del disegno di legge e poi della legge di conversione del decreto che lo ha d’un tratto soppiantato. Se in quelle o in altre sedi, ovunque si svolga il dibattito pubblico, scientifico e dottrinario, le opinioni contrarie a questo o quell’aspetto del decreto-legge, o addirittura alla stessa legittimità della sua adozione, sono state ampiamente maggioritarie, se non unanimi, non è cosa che si possa contestare all’ufficio del Massimario. Se dunque il governo non ha convinto (quasi) nessuno (salvo, forse, i committenti di alcune sue previsioni più spiccatamente corporative, a difesa più degli agenti della pubblica sicurezza che della sicurezza pubblica), non è cosa di cui il governo può lamentarsi con altri che con se stesso: al Parlamento, purtroppo, può essere impedito di esprimersi, non ancora alle persone libere dal rapporto fiduciario inverso che vige nella nostra democrazia malata, in cui i parlamentari dipendono dal Governo e non il contrario. E ora, come si conviene in una democrazia ancora costituzionale, in cui non solo la parola è libera, ma la magistratura è indipendente e la Corte costituzionale non è appannaggio del Governo, si apre il gran ballo dell’interpretazione e delle valutazioni di legittimità del decreto, sulla sua procedura di adozione, sui nuovi reati, le nuove aggravanti e gli aumenti di pena, sul carcere per le detenute madri, sulla repressione delle manifestazioni non violente in strada, nelle carceri e nei Cpr, sul divieto di produzione e commercializzazione della cannabis light. Nordio, Piantedosi e i loro corifei se ne facciano una ragione e, invece di stracciarsi le vesti per un atto dovuto, cerchino argomenti credibili per giustificare davanti alle Corti quello che è stato definito il più grave attacco ai diritti civili e di libertà della storia dell’Italia repubblicana, evitando magari di aggravare ulteriormente la loro posizione, come gli chiede il solito Salvini, che ora vuole mettere mano anche al reato di tortura, per consentire ai poliziotti di “fare il proprio lavoro”, come se il loro lavoro fosse quello di usare violenza nei confronti delle persone fermate o detenute. “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”, diceva Gino Bartali, e con lui Sandro Margara, nel cui nome oggi si discuterà a Firenze dell’ordinamento penitenziario cinquant’anni dopo: ancora oggi un buon punto di partenza per ricominciare. Basta “assist” alle toghe: linea dura di Meloni con chi va allo scontro di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 2 luglio 2025 Dopo gli attacchi di alcuni ministri alla Cassazione la premier esige sobrietà, pensando al referendum. Giorgia Meloni aveva cercato di farlo capire in modo chiaro, ma evidentemente il messaggio non è arrivato ai suoi destinatari: quando la riforma della giustizia affronta dei tornanti decisivi, l’imperativo è quello di evitare polemiche autolesionistiche con le toghe. Soprattutto se non c’è una sentenza a giustificare toni esasperati. Quindi evitare scontri inutili e non offrire pretesti a chi aspetta al varco la separazione delle carriere per farla deragliare. Il caso esploso nei giorni scorsi, con il Massimario della Cassazione che ha espresso rilievi critici sul decreto sicurezza e sull’accordo con l’Albania, è emblematico. Si tratta, com’è noto, di valutazioni prive di valore giuridico vincolante. Un parere tecnico, formulato da sei magistrati della Corte, che di per sé non produce effetti né sulla giurisprudenza né sulla politica. Eppure è bastato a innescare reazioni scomposte da parte di due pedine centrali del governo: il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ha parlato - riferendosi da suo punto di vista al dl sicurezza - di “impostazione ideologica”, e il Guardasigilli Carlo Nordio, che ha evocato un “pregiudizio”, anch’esso ideologico. Il problema, dal punto di vista di Meloni, non è tanto ciò che ha detto il Massimario, quanto il fatto che a legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica siano stati gli stessi ministri, trasformando un documento interno in una grana politica. Secondo alcuni retroscena la premier avrebbe espresso “fastidio” per le reazioni eccessive e non coordinate, e che il richiamo alla sobrietà sia arrivato direttamente ai diretti interessati. Un’operazione chirurgica, ma necessaria: in ballo non c’è solo la riforma costituzionale della separazione delle carriere, ma l’intera architettura del rapporto tra politica e giustizia. In questo contesto, anche gli eccessi verbali di Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia, non sono più tollerabili. Dopo essersi lanciato in paralleli tra magistrati e partigiani delle Brigate Garibaldi, Delmastro è finito più volte nel mirino, senza che Palazzo Chigi lo difendesse apertamente. Anzi, la sensazione che trapela è che chi non si allinea alle direttive verrà, se non scaricato, quantomeno isolato. La prudenza di Meloni non è dettata da improvvisa reverenza verso le toghe, ma da un ragionamento politico. La memoria del disastro referendario del 2006 - quando Berlusconi fu sonoramente sconfitto sul suo pacchetto di riforme costituzionali - e quella del naufragio renziano del 2016 sono ancora vive. Due leader forti, entrambi convinti che il consenso popolare potesse piegare la magistratura, i sindacati e altri corpi (nel caso di Berlusconi vi era anche l’ostilità del Colle) sconfitti nel momento in cui hanno trasformato il referendum su una riforma in un referendum su se stessi. Meloni vuole evitare lo stesso errore. Il referendum sulla separazione delle carriere, che con ogni probabilità si terrà nel 2026, dovrà essere costruito con attenzione, evitando forzature e conflitti istituzionali. L’obiettivo è non alienare il sostegno dei moderati, che in una consultazione che non necessita di quorum possono risultare decisivi. Ma soprattutto non aprire una faglia con il Quirinale, che sull’indipendenza della magistratura ha sempre mantenuto una posizione di rigidità costituzionale. Va da sé che Mattarella auspichi toni bassi e nessuna escalation che possa compromettere l’equilibrio tra poteri dello Stato. È anche per questo che Meloni ha scelto di non commentare pubblicamente le parole del Massimario, lasciando che fossero i suoi a bruciarsi, per poi intervenire con un richiamo all’ordine. La polemica rischia ora di diventare un boomerang per chi, nel governo, ha intenzione di cavalcare l’antagonismo con le toghe. Il parere della Cassazione, ricordano giuristi e tecnici, non ha alcun valore vincolante e non comporta modifiche automatiche al decreto. Ma la reazione del Viminale e di via Arenula non ha certamente contribuito ad allontanare le tossine dal dibattito a Palazzo Madama sulla riforma. Nella maggioranza c’è chi, come il vicepresidente del Senato Francesco Paolo Sisto, cerca di minimizzare: “Quel parere è solo un orientamento, non una sentenza della Cassazione”, ha detto al Corriere, respingendo l’idea che il decreto sicurezza sia sotto scacco. Ma è chiaro che l’incidente ha lasciato il segno. Allo stesso modo, il portavoce azzurro Raffaele Nevi ha respinto in modo ruvido la proposta leghista di un ulteriore decreto sicurezza, affermando che “non si può fare una norma ogni giorno”. Nell’idea della premier e dei suoi più stretti collaboratori, il tempo delle improvvisazioni dovrebbe terminare, e chi continuerà a sbagliare stavolta pagherà il conto. Albania e dl Sicurezza: il ministro Nordio “incredulo” per rilievi noti da mesi di Vitalba Azzollini Il Domani, 2 luglio 2025 La relazione del Massimario della Cassazione sul decreto Albania raccoglie opinioni di esperti, molti dei quali erano stati auditi in parlamento. Nulla che Nordio, il quale si dice “incredulo”, già non conoscesse, o almeno non fosse in grado di conoscere. Dopo la relazione dell’Ufficio del massimario della Corte di cassazione sul decreto Sicurezza, il ministro Carlo Nordio si è detto “incredulo”. È probabile che egli abbia avuto la stessa reazione riguardo al report del Massimario sulla legge di ratifica del protocollo con l’Albania, da ultimo modificata nel marzo scorso. Ci si stupisce dell’incredulità del ministro: entrambi i rapporti raccolgono le opinioni di esperti, accademici, rappresentanti di enti e associazioni, molti dei quali erano stati auditi in parlamento durante l’iter di approvazione delle leggi in questione. Nulla che il ministro già non conoscesse, o almeno non fosse in grado di conoscere. Dunque, ci si può stupire - come fa Nordio - di pareri che erano noti da mesi e dei quali il legislatore avrebbe dovuto tenere conto per evitare eventuali vizi di costituzionalità, e invece li ha ignorati? Criticità emerse nelle audizioni - Ad esempio, riguardo al testo che trasforma la struttura di Gjadër in centro di permanenza per i rimpatri (Cpr), nel report del Massimario si rinvengono le critiche espresse dal professore Paolo Bonetti, in audizione, sull’assenza di disposizioni legislative “che precisino, in modo tassativo, i presupposti per disporre il trasferimento da e per il centro” albanese. Il fatto che le decisioni sui trasferimenti spettino “soltanto all’autorità di pubblica sicurezza (senza alcuna convalida dell’autorità giudiziaria)” appare in violazione della “riserva di legge in materia di stranieri prevista dall’articolo 10, comma 2 Cost. oltre che la riserva assoluta di legge circa i casi e i modi della restrizione della libertà personale e la riserva di giurisdizione previsti dall’articolo 13 Cost.”. Ulteriori criticità costituzionali, riportate nella relazione del Massimario, erano state già sottolineate in audizione anche dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) in merito a irragionevoli differenze di trattamento tra i migranti trattenuti nei Cpr in Albania rispetto a quelli in Cpr italiani. I primi, tra l’altro, “non hanno le medesime garanzie di tutela della salute”, poiché “non risulta possibile assicurare le cure che, in Italia, devono essere garantite dal Sistema sanitario nazionale”, e ciò appare in violazione degli articoli 3 e 10, comma 3, della Costituzione. Il professore Salvatore Curreri, sempre in audizione, aveva pure affermato che i migranti in Albania hanno contatti con i loro avvocati difensori solo da remoto e sono interrogati da un giudice in videoconferenza: tutto questo può minare l’effettiva garanzia del diritto di difesa, tutelato dall’articolo 24 della Costituzione. Anche questa critica è stata ripresa dal Massimario. Profili di incompatibilità tra la normativa italiana e la cosiddetta direttiva rimpatri erano stati esposti in audizione dal professore Roberto Zaccaria. Secondo tale direttiva, salvo casi particolari, “i rimpatri possono avvenire soltanto dal territorio degli stati membri”. Ma, come emerge dal report della Cassazione, pure ritrasferire gli stranieri in Italia con nave o aereo, per poi espellerli, presenta profili di illegittimità, determinando un trattenimento “della durata di diverse ore, se non addirittura di alcuni giorni”, che violerebbe l’articolo 13 della Costituzione. Questi sono solo alcuni dei molti esempi di vizi rilevati nelle audizioni e riportati nella relazione del Massimario. Le audizioni farsa - Le audizioni sono uno strumento importante nell’attività di produzione legislativa, attraverso il quale soggetti qualificati espongono opinioni competenti sul testo in discussione. Ciò permette al legislatore di acquisire elementi informativi che consentono di operare una valutazione sulla efficacia delle leggi, nonché sulle loro eventuali criticità. Ma fare audizioni si traduce in una farsa, se poi il legislatore prosegue dritto per la sua strada, senza curarsi dei pareri degli esperti anche su profili di legittimità. Ed è mistificatorio puntare il dito contro i “giudici politicizzati” o le “toghe rosse”, fingendo che i rilievi provengano non da studiosi, bensì da giudici della Cassazione. Più che l’incredulità di Nordio, vale quella dei cittadini di fronte all’ennesimo testo normativo che sembra presentare seri vizi di costituzionalità. E si poteva evitare. Ma così la Cassazione dà ai giudici la linea su ogni nuova legge di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 2 luglio 2025 L’incredulità reciproca fra Nordio e Anm o la Presidente Cassano stupita per lo stupore del Ministro segnano una nuova frontiera dello scontro fra politica e magistratura, da sempre latente, ma deflagrato dopo l’approvazione, per ora solo in prima lettura, della separazione delle carriere e del sorteggio per la composizione del Csm. L’ultimo casus belli è la relazione del Massimario sulla legge di conversione del d. l. sicurezza appena entrata in vigore. Mi rendo conto che tale provvedimento contenga norme così illiberali da suscitare immediatamente reazioni sdegnate, ma la questione di metodo è forse ancora più importante di quella di merito, considerato che le nuove disposizioni verranno presto scrutinate dalla Corte costituzionale. La polemica in atto non deve fare passare in secondo piano la vera posta in gioco, rappresentata dall’indipendenza interna della magistratura. La domanda da porsi, al netto di ogni considerazione sui contenuti del d. l. sicurezza e della relazione, è la seguente: perché il Massimario si pronuncia, con un tomo di 129 pagine scritto in tempi record, su temi che la Cassazione affronterà, forse, tra qualche anno? A che titolo scrive il Massimario se non c’è nulla da massimare, mancando ovviamente la giurisprudenza sul d. l. sicurezza e meno che mai la giurisprudenza di Cassazione? La risposta, abbastanza scontata, è che il Massimario ha voluto fornire una interpretazione preventiva del testo di legge al di fuori di ogni compito giurisdizionale. Secondo la Presidente della Cassazione, l’intento sarebbe, invece, quello di offrire una traccia da mettere “a disposizione di tutti i giudici per migliorare complessivamente la qualità dell’interpretazione delle leggi”. Affermazione non del tutto neutra che sottende, forse inconsapevolmente, una riserva di ortodossia ermeneutica in favore della Cassazione. L’idea che i giudici del Massimario siano i primi interpreti dei nuovi testi legislativi, prima ancora che si formi la giurisprudenza di merito o di legittimità, pone un secondo interrogativo: questa esegesi “a prima lettura” rientra nei compiti dell’Ufficio? Secondo l’ordinamento giudiziario, le attribuzioni dell’Ufficio del massimario e del ruolo “sono stabilite dal Primo Presidente della Corte sentito il Procuratore generale” (art. 68, 3° comma r. d. 12/ 41). In base al regolamento del Primo Presidente, compito del Massimario, come peraltro risulta dallo stesso sito della Corte di Cassazione, è “l’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, condotta allo scopo di creare un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte di Cassazione) necessaria per il miglior esercizio della funzione nomofilattica della stessa Corte”. Tale attività, ossia favorire la nomofilachia della Cassazione, “si articola” anche nella redazione di relazioni “su novità legislative, specie se di immediata incidenza sul giudizio di legittimità”. Stando ai compiti istituzionali, chiaramente delineati in funzione delle specifiche attribuzioni della Corte Suprema, risulta difficile immaginare che la relazione sul d. l. sicurezza possa essere di ausilio alla nomofilachia interna della Cassazione e al lavoro dei giudici di legittimità, posto che di tale materia per anni non dovranno occuparsi. Questo mi sembra il cuore del problema: se il d. l. sicurezza non impatta attualmente sul lavoro della Cassazione, allora riprende forza l’idea che il reale intento sia quello di condizionare le giurisdizioni di merito prima ancora che si formi una giurisprudenza di legittimità. È riduttivo liquidare la questione affermando che si tratta di un lavoro dottrinale o addirittura di mera ricognizione dottrinale, peraltro distorta dalla incompletezza bibliografica e dalla scelta degli autori di riferimento (vizio manifesto nel lavoro sulla riforma Cartabia). Tutti sappiamo che l’interpretazione pseudo dottrinale del Massimario viene intesa dai giudici come una sorta di anticipazione dei futuri orientamenti della giurisprudenza di legittimità, con il conseguente peso che finisce per assumere in un sistema che è stato pervicacemente costruito su un modello gerarchico, giustificato dal falso mito della prevedibilità delle decisioni e del vincolo del precedente. Detto per inciso, proprio quel modello favorirà l’avvento dell’intelligenza artificiale ossia il passaggio dal giudice automa, mero fruitore di massime e relazioni, all’automa giudice, che nell’algoritmo custodisce tutto lo scibile del Massimario. La Costituzione, che oggi va di moda invocare per opporsi alla separazione delle carriere, impone, però, un diverso modello di giurisdizione, senza vincoli derivanti dai precedenti superiori e distinguendo i giudici solo per le funzioni svolte. Si chiama indipendenza interna della magistratura, valore non inferiore a quello della indipendenza esterna dalla politica. Prevengo l’obiezione che il Massimario da tempo si occupa di testi di legge appena varati, basti pensare ai già citati volumi sulla riforma Cartabia, ma bisogna anche notare che allora le nuove norme incidevano direttamente sul lavoro della Cassazione (ad esempio, il regolamento preventivo di competenza e la “revisione europea”). Ad ogni modo, anche ammettendo che si tratti di una prassi antecedente al d. l. sicurezza, ciò non toglie che, come ricorda Giuliano Scarselli, “se l’opinione sulla legge è data dalla dottrina, quella opinione non è mai in grado di limitare l’indipendenza del giudice, visto che nessun giudice è tenuto a seguire il pensiero (peraltro normalmente nemmeno uniforme) della dottrina. Ma se la Corte di Cassazione, attraverso l’Ufficio del Massimario, si rende essa stessa dottrina, allora lì, a mio parere, il problema si pone, perché quell’orientamento può invece condizionare la libertà dei giudici”. *Ordinario di Diritto Processuale Penale Università Milano Bicocca Cassese: “Il cosiddetto Massimario è un ufficio che non prende decisioni, esprime solo giudizi” di Raffaele Marmo La Nazione, 2 luglio 2025 Nuove tensioni tra Forza Italia e Lega sul decreto Sicurezza, azzurri contrari a fare una seconda versione. Ancora aria tesa nel governo e nella maggioranza, segnatamente tra Forza Italia e la Lega. Raffaele Nevi, portavoce degli azzurri e vice-capogruppo vicario alla Camera, mette i classici puntini sulle ‘i’: “Abbiamo sempre detto che il tema della sicurezza ha bisogno di una costante attenzione da parte della politica e delle istituzioni perché ci sono elementi e problematiche che emergono continuamente, ma non si può certo fare una norma ogni giorno” Nevi, di fatto, boccia la proposta della Lega di un secondo provvedimento (decreto) sul tema della sicurezza. “Dobbiamo essere attenti a costruire leggi e norme che funzionino e poi monitorare con attenzione l’attuazione di ciò che il Parlamento ha approvato”, prosegue. Quanto alla possibile bocciatura della Consulta dopo il pronunciamento di una parte della Corte di Cassazione sul decreto sicurezza appena convertito in legge dal Parlamento, Nevi sottolinea: “La Corte Costituzionale fa quello che vuole, il problema è che quella che si è pronunciata non è nemmeno una sezione della Cassazione, ma un ufficio studi che ha fatto delle osservazioni. Attendiamo le sentenze vere e le valuteremo. Stiamo tutti più tranquilli e cerchiamo di applicare bene e serenamente le norme appena approvate attuandole nel modo migliore, senza fare un decreto ogni giorno. I decreti il governo li fa solo quando c’è necessità e urgenza”. Replica Roberto Vannacci, vicesegretario e europarlamentare della Lega: “Le leggi vengono fatte quando ve ne è la necessità e, sotto la forma di decreti, quando ve ne è anche l’urgenza”, è la sottolineatura: “Se vi sarà la necessità e l’urgenza di legiferare nuovamente in tema di sicurezza, alla luce dell’evolversi della situazione, sarà un precipuo e inderogabile dovere farlo. Non vi sono vincoli temporali nella promulgazione delle norme, ma solo la necessità di rispondere ai bisogni dei cittadini, i quali sembrerebbero proprio essere assetati di sicurezza e di giustizia”. La lega, lunedì, aveva prospettato l’idea di un altro provvedimento per aumentare la sicurezza che “tuteli” le forze dell’Ordine. Professore, il caso originato dai pareri del Massimario della Cassazione sui decreti sicurezza e Albania ha rilanciato le tensioni tra politica e magistratura: qual è la sua valutazione? “Da un lato, penso che si sia fatto molto rumore per nulla, perché il cosiddetto Massimario è un ufficio, composto di circa 80 persone, che non prende decisioni, esprime solo giudizi - spiega Sabino Cassese, unanimemente considerato uno dei autorevoli giuristi italiani -. Dall’altro, questo caso ha segnalato la presenza di un diverso problema, che ha due facce: primo il compito del Massimario riguarda la giurisprudenza, non la legislazione; secondo, la massimazione è un’attività molto criticata in tutti i Paesi dove si fa un uso critico e filologicamente corretto della giurisprudenza”. Vuol dire che l’Ufficio si è mosso al di fuori delle sue competenze? “Chi legga la normativa interna sul Massimario può notare che per esso sono definiti i seguenti compiti: l’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, analisi articolata nelle seguenti attività: lettura, selezione e massimazione dei provvedimenti civili e penali; redazione di concise “notizie di decisione”; segnalazione dei contrasti, della avvenuta risoluzione degli stessi e degli orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità, nonché delle più rilevanti novità normative; redazione delle relazioni per i ricorsi assegnati alle sezioni Unite, che impongano la risoluzione di contrasti; redazione di sintetiche relazioni informative, ove necessarie per i ricorsi rimessi alle sezioni Unite; assistenza di studio e contributo alla formazione dei ruoli di udienza delle sezioni; relazioni periodiche sulle decisioni relative ai principali orientamenti della Corte di Cassazione; relazioni, anche di ufficio, su novità legislative, specie se di immediata incidenza sul giudizio di legittimità; approfondimenti scientifici e relazioni tematiche, richiesti dai presidenti di sezione previo concerto con il Direttore dell’Ufficio del massimario; studi di rilievo comparatistico; rassegne di giurisprudenza”. A quali giudizi conducono queste premesse? “Come si vede, il Massimario deve interessarsi delle sentenze, e solo molto limitatamente, e solo a scopo di segnalazione, delle novità legislative. Non è l’ufficio studi del Parlamento, ma l’ufficio studi della Cassazione. Quanto alla massimazione, cioè alla sintesi del contenuto prescrittivo delle sentenze, questa è attività apprezzata da coloro che non leggono le sentenze e molto criticata dagli osservatori stranieri dei nostri usi della giurisprudenza”. Basta poco perché si riaccenda lo scontro sulla giustizia: che costi ha per il Paese e le istituzioni questo conflitto permanente? “Quello che viene chiamato scontro sulla giustizia deriva dall’attivismo di un ristretto numero di magistrati militanti, che, grazie all’organizzazione correntizia, si sono trasformati in una sorta di agitatori permanenti. Purtroppo, il conflitto finisce per far perdere di vista il problema fondamentale della giustizia in Italia, che è quello del grande ritardo, della scarsa produttività e dell’altissimo numero di questioni pendenti”. Sono decenni che la politica cerca un opportuno riequilibrio dei poteri con la magistratura: perché non ci si arriva? “Non ci si arriva perché, da un lato, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che vanno salvaguardati come elementi fondamentali dello Stato di diritto, vengono interpretati come autogoverno della magistratura (ciò spinge in particolare i magistrati militanti a divenire attivisti); dall’altro, perché la politica in generale vede ogni intervento della magistratura come una forma di limitazione della propria azione”. La separazione delle carriere come voluta da questo governo può andare nella direzione giusta? “È un intervento necessario perché è la conseguenza organizzativa di un ordinamento funzionale, che distingue nettamente chi accusa da chi decide. Ma, nello stesso tempo, non è quello prioritario, che consisterebbe in una riforma organizzativa e funzionale che consenta di avere la decisione finale entro un termine massimo di un anno, come prescritto in altri ordinamenti”. Non ritiene che anche la previsione di tanti nuovi reati finisca per attribuire nuovi poteri ai pm e, dunque, faccia espandere l’area del penale nella vita civile? “Questa domanda è collegata al problema per cosiddetto decreto sicurezza, sul quale il mio giudizio è il seguente. Esso tutela beni che è necessario garantire, come la libertà di circolazione delle persone negli spazi pubblici, la proprietà dei privati e altri beni che la Costituzione garantisce. Tuttavia, stabilendo o aumentando le sanzioni penali, aumenta le cosiddette fattispecie criminali, che sono già molte. Nello stesso tempo, è uno strumento che si ritorce sulla stessa maggioranza di governo, perché affida la tutela di tali interessi privati o pubblici degni di essere garantiti, a magistrati, cioè il corpo nel quale sono più presenti coloro che si oppongono agli orientamenti del governo. Quindi, può diventare per il governo un vero e proprio boomerang. Alcuni di quegli interessi pubblici o privati degni di tutela avrebbero potuto essere garantiti attraverso sanzioni amministrative anche molto severe, gestite dalla stessa amministrazione pubblica”. Ddl Nordio, sì al primo articolo dopo due settimane di “aula” di Errico Novi Il Dubbio, 2 luglio 2025 Respinta ieri al Senato una piccola quota dei 1.363 emendamenti alla separazione delle carriere, e solo grazie al “canguro” (contestato da opposizioni e Anm). Non c’è nulla di nuovo, ma ogni volta in cui la scena si ripete fa sempre un certo effetto: Anm e partiti d’opposizione si ritrovano ancora una volta allineati e coperti nel protestare contro la separazione delle carriere. Stavolta il senso dell’invettiva riguarda il prevedibile, diciamo pure inevitabile ricorso della maggioranza, nell’esame del ddl Nordio in Aula al Senato, al “canguro”, cioè allo stratagemma regolamentare che consente l’accorpamento delle votazioni. Vengono abbinati (e dunque “smaltiti”) non solo gli emendamenti perfettamente identici, ma anche quelli dal contenuto “sostanzialmente” analogo. Il punto è che le proposte di modifica sono oltre 1.363, presentate ovviamente tutte dalle minoranze parlamentari. Senza l’accelerazione, l’esame della riforma Nordio assumerebbe tratti da poema omerico. Legittimo l’ostruzionismo, come sembra legittimo il ricorso alla semplificazione. Nel combinato disposto, la risultante ieri è stata la bocciatura dei soli emendamenti, appena 35, relativi all’articolo 1 della riforma: articolo che dunque nella prima serata è stato approvato, tra varie rimostranze rivolte dai senatori di Pd e Movimento 5 Stelle alla presidente di turno Licia Ronzulli. La dialettica contrasta col silenzio assoluto (neppure un iscritto a parlare, non una mezza replica) dei senatori di maggioranza. Si ricomincia oggi alle 10: difficile fare previsioni, ma non sembra quotatissima l’ipotesi che sia questa la giornata del sì finale, a Palazzo Madama. Si tratterebbe d’altronde solo del completamento della prima “navetta”. Se tutto filerà liscio, al referendum confermativo si arriverà tra marzo e aprile 2026. Roba ormai arcinota. Com’è nota, per tornare alla premessa, la consonanza fra Anm e centrosinistra, che promette di vivacizzarsi proprio in coincidenza con la campagna referendaria. “In questi minuti al Senato si sta votando la riforma costituzionale sulla magistratura. E la maggioranza lo sta facendo usando il canguro”, ha scritto sul social “X” il “sindacato” delle toghe. Secondo il quale il “canguro” serve a “impedire la discussione e l’esame di tutte le proposte di modifica presentate” e per “procedere a una rapida approvazione”. Ma “ridurre al massimo gli spazi di discussione e aggirare le proposte di modifica”, secondo l’Associazione magistrati, “non porterà a un sistema più efficiente e non gioverà ai diritti dei cittadini”. Dai partiti di opposizione i rilievi sono arrivati, come si diceva, sempre sulla questione di metodo, Se ne sono fatti carico l’ex sottosegretario dem alla Giustizia Andrea Giorgis, che di mestiere fa il professore di Diritto costituzionale, e il capogruppo pentastellato Stefano Patuanelli. Il primo ha chiesto alla presidente forzista Ronzulli “sulla base di quale criterio, precisamente, lei decide di applicare il cosiddetto canguro: dovremmo essere in grado di prevedere i criteri con i quali vengono messe in votazione solo alcune parole” di un emendamento “che, se bocciate, precludono la messa ai voti di altre proposte di modifica”. Obiezione analoga dall’ex ministro M5S allo Sviluppo economico: “La cosa che va chiarita è: possiamo avere un quadro preventivo rispetto a tutte le volte che il canguro verrà utilizzato nelle votazioni e gli effetti sul fascicolo? È centrale, per il dibattito”. Ronzulli ha replicato che è “prassi costante” verificare, prima di ogni votazione, se il successivo emendamento non sia da considerarsi già assorbito da una di quelle precedenti. Non si possono tacere un altro paio di dettagli. Il senatore Pd Michele Fina ha spiazzato l’alleanza di governo, e il gruppo di FdI soprattutto, con la citazione dell’ultima lettera appena pervenuta da Rebibbia (e pubblicata su questo numero del giornale, ndr) a firma di Gianni Alemanno: “Un atto d’accusa contro la politica che “dorme con l’aria condizionata”, scrive l’ex sindaco di Roma”, giustapposto alla “descrizione dettagliata della vita in cella, tra il caldo torrido di queste settimane e il sovraffollamento degli istituti di pena: non so se noi qui stiamo parlando davvero dei problemi principali della giustizia”, ha chiosato Fina. L’altra nota riguarda le osservazioni che, sul testo della riforma Nordio, sono arrivate dall’Ufficio studi di Palazzo Madama: al di là di qualche limatura, colpisce il rilievo sulla neo-introdotta Alta Corte disciplinare, le cui decisioni potranno essere appellate dai magistrati solo dinanzi all’Alta Corte stessa. S’intravede una contraddizione col comma dell’articolo 111 secondo cui “contro le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge”. Non è chiarissimo se si tratti di uno stridore insostenibile. A essere chiaro è però il fatto che né il ministro della Giustizia né la premier Meloni, né il centrodestra in generale hanno intenzione di “bruciarsi” uno dei quattro passaggi parlamentari richiesti per inserire nella Carta il “divorzio” giudici- pm. Idea Lega-FdI: una norma anti sette e santoni (con pene altissime) di Valentina Stella Il Dubbio, 2 luglio 2025 I due partiti di maggioranza lanciano il reato di manipolazione mentale, al via la discussione al Senato. La proposta piace anche a Nordio, ma già nel 1981 la Consulta bocciò il reato di plagio. Introdurre il reato di manipolazione mentale: è quello che chiedono Lega e Fratelli d’Italia. Sono stati infatti presentati due ddl, uno a prima firma della senatrice del Carroccio Tilde Minasi, l’altro del senatore del partito della premier, Sergio Rastrelli. Entrambe le proposte di modifica normativa puntano ad inserire nel codice penale il nuovo articolo 613 quater che dovrebbe punire tutti quei guru, santoni, maestri che si approfittano di soggetti psicologicamente deboli sottraendo loro denaro, ottenendo prestazioni sessuali, riducendoli in schiavitù in cambio di una presunta purificazione spirituale o della risoluzione di problemi personali, familiari, lavorativi. Come? Attraverso, ad esempio, il love bombing o la trance ipnotica. Le pene previste sono altissime. La Lega chiede che tali condotte vengano punite con la reclusione da tre a otto anni. E se il fatto è commesso in danno di persona minore di anni diciotto, la pena non può essere inferiore a sei anni di reclusione. Rastrelli invece chiede carcere da cinque a quindici anni e una multa da 5.000 a 20.000 euro. La pena è aumentata da un terzo alla metà qualora il reato sia commesso nei confronti di persona minore di età o con ridotta capacità di intendere e volere. Su tale previsione si trova d’accordo anche il Ministro della Giustizia Carlo Nordio che lo scorso gennaio alla Camera disse che bisogna colmare il vuoto normativo relativo alle organizzazioni settarie. Alla faccia del diritto penale minimo e liberale. Comunque, la discussione sui due ddl è stata avviata oggi nella commissione Giustizia di Palazzo Madama. Le iniziative parlamentari partono dal presupposto che ci sarebbe un “vero e proprio allarme sociale” legato alle psicosette. Nel ddl di Rastrelli si riportano anche dati statistici del “Codacons, aggiornati al 2022, che stimano in Italia la presenza di oltre 500 tra sette e psicosette, e che a seguito della pandemia, e con l’arrivo dell’era digitale, si sarebbe moltiplicato, tant’è che oggi vi sarebbero in Italia circa 1.500 tra sette e psico-sette”. Eppure in passato era stata la Corte Costituzionale a bocciare il reato di plagio. Si tratta della sentenza n. 96 del 9 aprile 1981 che dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 cp che puniva chiunque sottoponeva una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione. Il caso riguardava Emilio Grasso, sacerdote appartenente al Movimento carismatico, accusato da alcuni genitori di aver plagiato i figli minorenni. Il 2 ottobre 1978 il Giudice istruttore presso il Tribunale di Roma sollevò presso la Corte Costituzionale una questione di legittimità costituzionale. La norma fu ritenuta in contrasto con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, consacrato nell’art. 25 della Costituzione. In pratica era inverificabile il fatto contemplato dalla fattispecie, era impossibile accertarlo con criteri logico-razionali ed inoltre c’era l’intollerabile rischio di arbitri dell’organo giudicante. Piccola nota storica: a rappresentare l’imputato di plagio c’era Mauro Mellini, parlamentare nel 1976 con il Partito radicale; a sostenere le ragioni delle parti civili l’ex ministro Giovanni Maria Flick. Negli ultimi decenni in Italia sono stati poi depositati in Parlamento diversi disegni di legge per reintrodurre il reato di plagio psicologico, ma gli iter non si sono mai conclusi poiché la fattispecie è troppo indeterminata. Addirittura nel 1992 fu l’allora Ministro Giuliano Vassalli a dar vita alla cosiddetta Commissione Pagliaro per un nuovo codice penale con cui si voleva, altresì reintrodurre il reato di plagio, ma il progetto fu poi abortito. Comunque nonostante l’abrogazione dell’art. 603 c.p., il diritto penale offre comunque tutele in situazioni di manipolazione o suggestione, soprattutto nei confronti di persone fragili o vulnerabili. In particolare, la giurisprudenza si è espressa in relazione alla circonvenzione di incapace e all’omicidio del consenziente, sottolineando come anche una minorata capacità psichica possa viziare il consenso. Inoltre, ai fini dell’imputabilità, anche i disturbi della personalità possono essere rilevanti, purché incidano concretamente sulla capacità di intendere e di volere. Ma questa è tutta un’altra storia. “Questa commissione Antimafia andrebbe chiusa”, dice Giovanni Fiandaca di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 luglio 2025 Per il giurista la commissione parlamentare guidata da Colosimo “svolge indagini su Via D’Amelio che spettano ai pm: è diventata uno strumento di confusiva sovrapposizione rispetto al lavoro della magistratura”. La pista mafia e appalti? “Un mito aprioristico come la Trattativa”. “Questa commissione Antimafia la chiuderei. È diventata uno strumento di confusiva sovrapposizione rispetto ad alcune indagini in corso. Invade terreni che non le competono”. È netta la posizione di Giovanni Fiandaca, emerito di Diritto penale all’Università di Palermo, nei confronti dell’attività condotta dalla commissione parlamentare presieduta da Chiara Colosimo, incentrata sulla strage di Via D’Amelio e sull’indagine mafia e appalti. “La vera funzione della commissione Antimafia sarebbe quella di svolgere indagini sul fenomeno generale delle mafie, verificare l’adeguatezza delle leggi, suggerire miglioramenti o modifiche, studiare possibili interventi socio-economici da realizzare in funzione preventiva, non concentrarsi su un’indagine specifica come sta accadendo ora, cercando di acquisire elementi di verità al di là di ciò che i processi sono giunti a fare”, dice Fiandaca al Foglio. Da quando si è insediata, la commissione Antimafia ha infatti concentrato le sue attenzioni sull’indagine mafia e appalti, condotta agli inizi degli anni Novanta dall’allora comandante del Ros dei Carabinieri, Mario Mori, e dal colonnello Giuseppe De Donno su indicazione prima di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino. Proprio su ciò che è avvenuto attorno a questa indagine, che venne in gran parte archiviata subito dopo la strage di Via D’Amelio, si sono focalizzati i pm di Caltanissetta, che sono giunti a iscrivere nel registro degli indagati persino l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’ex sostituto procuratore a Palermo, Gioacchino Natoli. Per Fiandaca si sta assistendo a un “allineamento deprecabile tra la procura di Caltanissetta e la commissione Antimafia”: “Sembra che entrambe convergano nel sostenere la tesi del ruolo centrale delle indagini sugli appalti per spiegare la strage di Via D’Amelio, col risultato che si sovrappongono due verità aprioristiche: c’è il centrodestra, con la procura di Caltanissetta che ne ha sposato le posizioni, che prospetta l’indagine sugli appalti come ragione giustificatrice della strage in cui venne ucciso Borsellino, poi ci sono i vari magistrati alla Scarpinato e forze politiche di centrosinistra che tendono a ridimensionare questa verità e a riprospettare, nonostante la bocciatura in Cassazione, l’altro mito della Trattativa. Quindi ci sono due miti aprioristici e contrapposti”, afferma Fiandaca. “Ma è possibile che il Consiglio superiore della magistratura, il ministro della Giustizia Carlo Nordio o altri esponenti politici non dicano niente su questa interazione perversa?”, si chiede Fiandaca. Qualcuno potrebbe dirle che c’è una sentenza, quella del processo Borsellino-ter, che individua l’attenzione posta da Borsellino all’inchiesta mafia e appalti come un possibile elemento che avrebbe indotto Cosa nostra a uccidere il magistrato. “Ma nella sentenza c’è la prospettazione di una mera ipotesi astratta. Non c’è alcun elemento concreto che accrediti questa ricostruzione”, risponde il giurista. Fiandaca è critico anche sulla procura di Caltanissetta, che ha fatto perquisire tre abitazioni dell’ex procuratore nisseno Giovanni Tinebra, morto nel 2017, alla ricerca dell’agenda rossa di Borsellino: “Bisogna essere molto prudenti prima di muovere ipotesi molto infamanti contro soggetti deceduti, che quindi non possono difendersi, coinvolgendo anche i famigliari. Inoltre mi sembra che la procura enfatizzi in maniera eccessiva la presunta appartenenza di Tinebra a un gruppo massonico di Nicosia, che con tutto il rispetto non è il centro del mondo”. Insomma, i teoremi non finiscono mai. Non ci fu alcun abuso di potere, ma non importa: Lucano decade da sindaco di Riace di Simona Musco Il Dubbio, 2 luglio 2025 Il Tribunale di Locri applica la Legge Severino: nonostante l’assenza di aggravanti e pene accessorie, la condanna per falso in atto pubblico basta a escluderlo dalla carica. I legali preparano il ricorso. “Ormai ci sono abituato”. Lo dice quasi sorridendo, Mimmo Lucano, che da oggi, secondo il Tribunale di Locri, dovrà limitarsi a fare l’europarlamentare, perché il sindaco di Riace non lo può fare più. Il tutto in base ad una interpretazione della Legge Severino in virtù della quale non importa che il giudice penale abbia escluso l’abuso di potere e non ritenuto opportune le pene accessorie: la condanna a 18 mesi, pena sospesa, nel processo Xenia (che lo scagionò da tutte le accuse più infamanti) per un falso in una determina - rimasta un semplice foglio di carta senza alcun effetto pratico sulle casse dello Stato - vale la decadenza dalla carica di primo cittadino. Per “valorizzare al massimo grado la “disciplina” e l’”onore”“, sulla base dell’interpretazione che la Corte costituzionale dà della norma. La sentenza - gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Saitta stanno già lavorando al ricorso - è lapidaria: “La condotta criminosa che ha portato alla condanna definitiva del Lucano, ad avviso del Collegio, comportava ictu oculi l’abuso dei poteri certificatori connessi alla sua posizione di pubblico ufficiale, e il mero riferimento all’articolo 479 c.p. è sufficiente ad apportarne adeguata contestazione, poiché il reato ivi descritto concerne la condotta del pubblico ufficiale”. E Lucano, appunto, è stato condannato per avere in qualità di sindaco, “attestato falsamente di aver effettuato i controlli sui rendiconti propedeutici all’erogazione dei finanziamenti relativi al rimborso dei costi di gestione dei progetti Cas (essendo stato assolto in relazione ai fatti contestati per gli altri) asseverandoli, dunque, pur in assenza dei presupposti”. Rimborsi, per la cronaca, mai ricevuti, a fronte di spese effettivamente fatte per l’accoglienza. Per il collegio, “si è così verificata la causa di decadenza”. E per quanto “persuasive”, le argomentazioni della difesa, si può concludere, secondo il Tribunale, per la considerazione opposta: cioè che quell’abuso ci sia stato. L’articolo 10 lettera d) del decreto Lgs 235/ 2012 stabilisce che un sindaco decade se condannato definitivamente a una pena superiore a sei mesi per delitti commessi con abuso di potere o violazione dei doveri pubblici. Come spiegato dai due difensori, però, per applicare la decadenza è necessaria la presenza congiunta di due requisiti: entità della condanna e condotta criminosa. Tuttavia, l’accertamento della condotta non spetta all’organo amministrativo, ma solo al giudice penale, come ribadito dal parere del ministero dell’Interno del 2020. Nel caso di Mimmo Lucano, né la Corte di Appello né la Cassazione hanno menzionato l’abuso di potere, e la sentenza d’appello ha anche annullato la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Il che significherebbe che i giudici hanno escluso la condotta necessaria per applicare la Severino. Interpellato da Il Dubbio, Lucano - che proprio ieri stava ripristinando la scritta “Città dell’accoglienza” eliminata dal suo predecessore - dice di voler andare avanti e di considerare la questione politica, una sua antica battaglia con il Viminale. Chiaro il commento dell’avvocato Daqua, secondo qui il Tribunale sarebbe andato oltre il proprio compito: “Rispettiamo la sentenza emessa dal Tribunale Civile di Locri, così come abbiamo rispettato quelle emessa dalla sezione penale del medesimo Tribunale che aveva condannato Lucano ad oltre 13 anni di reclusione - ha evidenziato il legale -. Come in quel caso, anche ora riteniamo che la decisione sia ingiusta per questo presenteremo gravame nelle forme e nei termini di legge. Oggetto del ricorso non era l’esistenza o meno del reato di falso ideologico, ma se detto reato sia stato commesso, o meno, con “abuso di potere o in violazione dei doveri inerenti alle funzioni”, valutazione che compete solo al giudice penale non potendo, il giudice della decadenza, sostituirsi ad esso. Non è tecnicamente condivisibile - ha aggiunto Daqua - l’assunto del Tribunale secondo cui l’art. 479 c.p. contiene in se detta condotta. Se così fosse la legge Severino avrebbe inserito detto articolo tra quelli espressamente collegati alla decadenza”. Inoltre, “la Corte di Appello, proprio perché aveva esclusa detta condotta, ha ritenuto esistente il reato di cui all’articolo 479 c.p. ma non ha applicato la sanzione di cui dell’art. 31 cod. pen. secondo il quale ogni condanna per delitti commessi con l’abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o ad un pubblico servizio importa l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. Interdizione, esclusa dalla corte di appello a comprova, quindi, che la condanna subita non è legata ad alcun abuso di potere voluto dalla legge Severino per la dichiarazione di decadenza. Ed il tribunale, consapevole di ciò, ha “superato” l’eccezione entrando nel merito ritenendo “un errore” la non applicazione del citato art. 31 c.p. L’operazione ermeneutica - ha concluso - oltre ad essere errata non è ammessa dalla legge altrimenti, anche la difesa, avrebbe potuto entrare nel merito della sentenza del giudice penale contestando l’erroneità della condanna”. Stupefacenti, sospensione procedimento e messa alla prova per spaccio di lieve entità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2025 La Consulta, sentenza numero 90, depositata oggi, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’articolo 168-bis del codice penale, È incostituzionale l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità o piccolo spaccio dalla messa alla prova. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza numero 90, depositata oggi, con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 168-bis del codice penale, nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, qualificato di lieve entità, previsto dall’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti. Le questioni sono state sollevate dai Tribunali di Padova e Bolzano, che hanno censurato, in combinato disposto, l’articolo 168-bis, primo comma, del codice penale, l’articolo 550, secondo comma, del codice di procedura penale e l’articolo 73, comma 5, del Testo unico stupefacenti, come modificato dal decreto-legge numero 123 del 2023. Quest’ultimo ha innalzato le sanzioni del reato di piccolo spaccio, prevedendo la reclusione da sei mesi a cinque anni (in luogo dei quattro anni stabiliti in precedenza). Tale innalzamento sanzionatorio ha, così, fissato un massimo edittale superiore alla soglia richiesta dall’articolo 168-bis del codice penale per l’ammissione alla messa alla prova (istituto che impone, con il consenso dell’imputato, un lavoro annuale o biennale di pubblica utilità, sospendendo il processo penale). Per i tribunali rimettenti, l’effetto preclusivo determinato dalle norme censurate dovrebbe ritenersi illegittimo per diverse ragioni: sia perché violerebbe il finalismo rieducativo della pena, non permettendo all’imputato di riparare alla propria condotta attraverso un programma appositamente elaborato che riduca il pericolo di reiterazione dell’illecito; sia per disparità di trattamento con il reato di “istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti”. Quest’ultimo reato, nonostante sia sanzionato con una pena detentiva maggiore rispetto al piccolo spaccio nel massimo e nel minimo edittale, rientra, al contrario di questo, tra le fattispecie per cui può essere disposta la messa alla prova. La Corte, dopo aver rilevato che la questione non concerne la nuova cornice edittale del reato e aver circoscritto la questione al solo articolo 168-bis, primo comma, del codice penale, l’ha accolta in riferimento all’articolo 3 della Costituzione. È infatti irragionevole e foriero di disparità di trattamento che, tra i due reati a confronto, l’accesso alla messa alla prova sia precluso per la fattispecie meno grave (il piccolo spaccio), mentre per quella più grave (l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti) sia, in astratto, ammissibile. L’esclusione del reato di piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova ha così determinato un’anomalia, ribaltando la scala di gravità tra le due figure criminose in comparazione, entrambe attinenti alla materia degli stupefacenti e preposte alla tutela dei medesimi beni giuridici. Peraltro - continua la sentenza - l’esclusione del piccolo spaccio dall’ammissione alla messa alla prova, che coniuga in sé una funzione premiale e una forte vocazione risocializzante, frustra anche le finalità di deflazione giudiziaria che detto istituto persegue, in particolare, per i reati di minore gravità e di facile accertamento, come quello in esame. Caporalato, esigenza cautelare della detenzione sussiste in caso di spregiudicato sfruttamento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 luglio 2025 I connotati della condotta possono ben giustificare la restrizione in carcere nella fase delle indagini poiché il trattamento privo di qualsiasi rispetto, non solo in termini retributivi, depone per l’influenzabilità dei testimoni. Sì alle esigenze cautelari nei confronti di chi sfrutta i lavoratori stranieri irregolari che proprio in ragione della loro condizione sono influenzabili nell’ambito di rapporti di forza quali il caporalato essendo sussistente il rischio di inquinamento probatorio. Così la Cassazione penale - con la sentenza n. 24298/2025 - ha confermato i presupposti della misura cautelare personale della detenzione per l’imputato ex articolo 603 bis del Codice penale del reato di intermediazione illecita e sfruttamento di lavoratori. Il ricorrente era accusato di sfruttare stranieri indiani privi del permesso di soggiorno, sottopagati, impiegati ben oltre il normale orario di lavoro per gli agricoli, privati dei dovuti riposi e permessi, non formati e lasciati esposti a ogni pericolo vista l’assenza di qualsiasi requisito in ambito di sicurezza lavoro. Riguardo alla paga questa veniva corrisposta in misura di 5,50 euro all’ora mentre gli importi minimi previsti per gli operai agricoli nella provincia era superiore a 7 euro per contratti a tempo indeterminato e di 10, 25 euro nel caso di tempo determinato. Inoltre, non venivano pagate le ore di straordinario, i giorni festivi così come le domeniche lavorate in particolare nei periodi di maggiore lavoro (dalla primavera sino all’autunno). Mancava poi il rispetto dei tempi di pausa oltre alla sostanziale violazione della normativa sull’orario di lavoro, considerato che i braccianti lavoravano otto ore al giorno per sei giorni, quindi per 48 ore settimanali, a fronte delle 39 previste per la categoria. Ulteriori illegalità dimostravano la sostanziale mancanza di umanità e rispetto del datore di lavoro e la conseguente sottomissione alle sue imposizioni dei braccianti oggetto dei rapporti di caporalato. Da cui deriva il rischio di inquinamento probatorio per la prevedibile ipotesi in cui il capo avrebbe potuto sottoporre a indebite pressioni i lavoratori, che ormai avevano assunto il ruolo di testimoni nella vicenda. E a tal proposito i giudici rilevano - come indice di attualità del pericolo -la circostanza che uno degli stranieri irregolari avesse già se non ritrattato, ammorbidito, le accuse verso il ricorrente. In effetti, i prestatori d’opera - oltre al ricatto economico - erano stati privati anche delle condizioni minime di salubrità del luogo di lavoro: l’assenza di bagni (i lavoratori hanno dichiarato che alcune toilette erano presenti nei pressi del magazzino, ma erano sprovvisti di servizi igienici quando lavoravano nei campi) e di luoghi per il cambio di vestiti e di docce o rubinetti per lavarsi. Con riguardo allo sfruttamento della situazione di bisogno dei lavoratori, si è attribuito rilievo al fatto che si trattava di indiani senza permesso di soggiorno bisognosi di lavorare, che erano stati assunti a seguito di un colloquio, senza che nulla fosse precisato con riferimento alle modalità di lavoro, agli orari e alla paga, ritenuto ulteriore indice della condotta di approfittamento. Campania. L’emergenza nelle carceri: anche in dieci in una cella con temperature a 40 gradi di Paolo Popoli La Repubblica, 2 luglio 2025 Sono duemila i detenuti in più in Campania, con record a Poggioreale. Cinque i suicidi registrati dall’inizio di quest’anno. Nei giorni del grande caldo con temperature di 40 gradi, nello spazio di una cella nel carcere di Poggioreale vivono e dormono insieme otto detenuti, talvolta anche dieci. Una situazione al limite, specchio del disagio e di quelle condizioni “insostenibili per il sovraffollamento” nelle carceri italiane denunciate dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante l’incontro al Quirinale con gli agenti della polizia penitenziaria e il capo del Dap Stefano Carmine De Michele. Sono duemila i detenuti in più rispetto ai posti disponibili negli istituti di pena della regione con cinque suicidi da inizio anno, di cui due a Poggioreale che accoglie 2.140 detenuti su 1.358 posti: una percentuale di sovraffollamento pari al 155 per cento, come Salerno e Benevento, venti punti in più rispetto alla media nazionale (134 per cento). Il consiglio regionale della Campania ha intanto donato 200 ventilatori ai detenuti di Poggioreale. Lo scorso anno, nella casa circondariale intitolata a Giuseppe Salvia, il vicedirettore ucciso dalla Nco di Raffaele Cutolo, sono state quattro le persone che si sono tolte la vita. E undici sono quelle in Campania a fronte di 214 tentativi di suicidio. “Un’emergenza sociale”, la definisce il Capo dello Stato quando cita i 38 casi di suicidio in Italia da inizio anno e i 91 del 2024, di cui 7 agenti e 44 detenuti stranieri. “E non dimentichiamo le morti in carcere, 20 lo scorso anno in Campania”, ricorda il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, portavoce nazionale dei 93 garanti in Italia. È di ieri la notizia di un detenuto di Poggioreale, 39 anni, morto per infarto: sei mesi ancora e sarebbe uscito. Non mancano le buone pratiche, le iniziative virtuose e l’impegno che anche Mattarella ha evidenziato da parte di agenti e dirigenti. “Ma le carceri restano in queste condizioni una discarica sociale”, aggiunge Ciambriello, ieri in visita all’istituto per minori di Airola dove una benefattrice ha donato un biliardino ai 26 ragazzi attualmente detenuti. “Ci vogliono certezza della pena e dignità della pena - continua - e in carcere non dovrebbero esserci i soggetti fragili come i tossicodipendenti e i malati con disturbi psichici, o chi deve scontare solo un anno, ossia circa mille detenuti in Campania. Servono misure alternative: solo così si fa diventare il carcere rieducativo, e non vendicativo, come vuole la Costituzione”. Su 7.604 detenuti in Campania per oltre 5.400 posti ci sono almeno 500 agenti in meno: 3.264 in servizio rispetto ai 3.706 in organico. E il sovraffollamento è alla base di molte tensioni registrate negli istituti. La mancanza di personale specializzato si fa più forte negli istituti per minori dove mancano educatori e altre figure simili, o ancora nei casi di assistenza medica. Solo due gli psicologici per i 400 malati con disturbi psichici di Poggioreale, nessuno per i 362 tra Ariano Irpino, Benevento, Airola, Arienzo e Sant’Angelo dei Lombardi. Il governo punta a creare strutture diverse per i tossicodipendenti (1.704 in Campania) e di far scontare la pena nei propri paesi per gli stranieri, 892 quelli in regione, 20 mila in Italia. “Ma i rimpatri lo scorso anno sono stati 575 - commenta Ciambriello - In ogni modo, serve prevenzione, soprattutto nei casi dei tossicodipendenti”. Più di 3 mila sono le visite esterne saltate. La giunta della Camera Penale di Napoli chiede un incontro con il direttore di Poggioreale per “i ritardi e le disfunzioni nei colloqui, una lesione delle prerogative difensive”. A settembre aprono tre nuovi istituti per minori in Italia e nel 2026 quello a Santa Maria Capua Vetere che si aggiunge ai 17 Ipm in regione con 99 minori, 70 a Nisida. “Ma la risposta al sovraffollamento - conclude Ciambriello - non può essere la creazione di nuove strutture. Servono invece progetti per il recupero della persona, per il lavoro e per la socialità”. Sicilia. Case per i detenuti con bambini al seguito, la Regione pubblica l’Avviso cataniatoday.it, 2 luglio 2025 L’assessorato regionale della Famiglia e delle Politiche sociali ha pubblicato l’avviso per finanziare, con oltre 294 mila euro un progetto volto alla sperimentazione di un modello integrato di accoglienza residenziale, presa in carico multidisciplinare, accompagnamento alla genitorialità e graduale reinserimento sociale di genitori sottoposti a misure alternative alla detenzione, accompagnati da bambini, secondo quanto disposto dall’autorità giudiziaria. Si tratta di fondi trasferiti dal ministero della Giustizia alla Sicilia. Il progetto, che dovrà avere una durata tra 18 e 24 mesi, è destinato a genitori, con bambini al seguito, per i quali l’autorità giudiziaria competente abbia disposto una misura alternativa alla detenzione in struttura residenziale extra-carceraria. Sono previsti percorsi di inclusione e autonomia finalizzati al reinserimento sociale, con attenzione alla protezione del minore attraverso il rafforzamento delle competenze genitoriali e delle condizioni socio-economiche del genitore. L’istanza potrà essere presentata dagli enti iscritti al Registro unico nazionale del terzo settore, che abbiano una consolidata esperienza nella progettazione e nell’attuazione di interventi in ambito residenziale a favore di persone detenute e nel loro reinserimento sociale e che posseggano la sede legale e/o operativa nel territorio della Regione. “Vogliamo garantire - dice l’assessore Nuccia Albano - un supporto strutturato e continuativo capace di rispondere in maniera efficace e integrata ai bisogni complessi di questi genitori e dei loro figli attraverso l’attivazione di percorsi educativi, lavorativi, abitativi e psicosociali personalizzati. La misura ha una duplice finalità: evitare la presenza di bambini in carcere e tutelare la genitorialità e l’infanzia, in linea con la normativa europea e nazionale”. Scarica l’Avviso: https://www.regione.sicilia.it/sites/default/files/2025-06/001693-S8.pdf Milano. “Mio figlio, detenuto fragile. Mi batto per la sua sopravvivenza” di Alessandra Zanardi Il Giorno, 2 luglio 2025 Giacomo, 25 anni, ha un disturbo borderline: deve ricevere cure in comunità, la soluzione non è la Rems. “Mai più casi come quello di Giacomo Trimarco, suicida in carcere. Anche le persone con quadri psichici complessi hanno il diritto di ricevere cure adeguate”. Maria Corinna Gorlani, milanese, è la mamma di Giacomo, un 25enne con disturbo borderline che lo porta a commettere reati, attualmente detenuto nel carcere di Pavia. Gorlani è anche vicepresidente di “Famiglie in rete”, associazione che promuove i diritti dei malati psichiatrici e delle loro famiglie. Un sottogruppo dell’associazione, “Ci siamo anche noi”, si concentra sui borderline a basso funzionamento. Persone che, a causa del loro disturbo, hanno difficoltà a gestire lavoro, studio, relazioni sociali e percorsi di recupero, “ma che comunque meritano attenzione e aiuto”. Maria racconta la storia di suo figlio, che per altro, durante una prima detenzione al Beccaria aveva conosciuto il suo omonimo Giacomo Trimarco, un altro detenuto con disturbo di personalità, poi suicida a San Vittore nel 2022. Quando ha deciso di togliersi la vita, Trimarco aveva 21 anni ed era in attesa del trasferimento in una Rems, una struttura sanitaria per autori di reato affetti da disturbi mentali. Il figlio di Maria Gorlani invece è in attesa del trasferimento in una comunità terapeutica specializzata. Nel frattempo, però, la famiglia teme che la sua fragilità possa peggiorare. Come vi siete accorti del problema di Giacomo? “Le prime manifestazioni del disturbo di personalità si sono avute già durante l’infanzia, ma è con l’adolescenza che i problemi si sono accentuati, tant’è che Giacomo non è riuscito a finire la terza media e ha dovuto sostenere l’esame da privatista. A 13 anni era un campione di basket, ma già allora i suoi avversari approfittavano del suo temperamento per provocarlo e farlo ammonire. Ha dovuto mollare”. Poi cos’è successo? “A 17 anni è arrivata una condanna per maltrattamenti in famiglia. Non siamo stati noi a denunciarlo, ma i vicini di casa e anche alcuni passanti, dopo aver assistito alle sue crisi di rabbia. Giacomo è perciò finito in comunità. In una prima struttura veniva pesantemente sedato, faticava persino a parlare. Nella seconda e nella terza è stato più volte denunciato per i suoi comportamenti. Così, per lui si sono aperte le porte del carcere minorile. Da allora è iniziato un percorso tra i più sofferti, dentro e fuori di cella. Attualmente, dopo un periodo a Bollate, è detenuto a Pavia. È in attesa del trasferimento in una comunità terapeutica, ma intanto la sua situazione è peggiorata. Compie gesti di autolesionismo, ha il petto e le braccia piene di cicatrici. Episodi raccontati anche in due libri che lui stesso ha scritto”. Veniamo alle Rems. Cosa pensa del fatto che i posti sono limitati e alcune richieste d’inserimento restano inevase? “Le Rems erano nate come luoghi di transito, nei quali perfezionare la diagnosi e impostare un progetto terapeutico da completare poi sul territorio, ad esempio nei Cps. Erano dimensionate per una permanenza media di sei mesi, mentre ora le persone ci restano anni. La soluzione non è aumentare il numero di posti in queste strutture, bensì gli sbocchi sul territorio”. Un altro tema è il sovraffollamento delle carceri... “Non solo. Mancano agenti di polizia penitenziaria, medici, psichiatri, psicologi ed educatori. I contatti col mondo esterno sono limitati: 6 ore di colloquio al mese, una telefonata di dieci minuti alla settimana. E le condizioni igienico-sanitarie sono al limite, si pensi solo al caldo”. Terni. Una stanza protetta in carcere per accogliere i detenuti con partner e figli di Catia Turrioni Corriere dell’Umbria, 2 luglio 2025 Più umanità dietro le sbarre. È già stata presentata una richiesta formale di sovvenzione al ministero della Giustizia per finanziare la realizzazione dei moduli abitativi. Al carcere di vocabolo Sabbione di Terni si aspetta in tempi brevi il via libera per la realizzazione dei cosiddetti moduli abitativi per l’affettività, spazi più ampi e strutturati rispetto alla cosiddetta stanza dell’amore, pensati per accogliere non solo i partner, ma anche i figli dei detenuti. A Sabbione, come è noto, esiste un luogo speciale, simbolo di umanità dietro le sbarre: la cosiddetta stanza dell’amore, uno spazio pensato per consentire ai detenuti di incontrare i propri partner in un ambiente riservato e dignitoso, favorendo il mantenimento dei legami affettivi nonostante la detenzione. Eppure, questo spazio è stato utilizzato solo due volte, precisamente il 19 e 20 aprile scorso. Ma oltre al partner ora si è pensato anche ai rapporti di genitorialità e quindi all’esigenza di nuovi moduli abitativi. Si tratta di ambienti protetti, che consentono incontri di più lunga durata in un clima familiare, contribuendo a mantenere vivi i legami genitoriali e a sostenere il percorso rieducativo. Il progetto è ambizioso, ma senza fondi non può decollare. È già stata presentata una richiesta formale di sovvenzione al ministero della Giustizia per finanziare la realizzazione di questi nuovi moduli. Il tema dell’affettività in carcere non è secondario e infatti il mantenimento dei legami familiari è uno dei principali fattori protettivi contro la recidiva. Figli che possono incontrare il proprio genitore detenuto in un contesto più accogliente e rispettoso non vivono quell’esperienza come un trauma, ma come un momento di continuità affettiva. E i detenuti, a loro volta, mantengono più viva la motivazione a migliorare, a collaborare con l’istituto e a immaginare una vita fuori dalle mura carcerarie. La “stanza dell’amore” è stato dunque solo un primo passo, ma adesso è atteso un ulteriore passo in avanti. Serve dunque uno sforzo congiunto tra istituzioni, operatori penitenziari e società civile per trasformare le buone intenzioni in realtà quotidiana. L’attesa ora è tutta per una risposta concreta da Roma in modo che i fondi arrivino e il carcere non resti indietro in un processo di umanizzazione sempre più urgente. Dunque si guarda avanti e la speranza è che nei prossimi mesi oltre agli incontri tra partner ci possano essere spazi nuovi dove i reclusi possono incontrare i propri figli. Certo è che il carcere di Sabbione deve fare i conti anche con altre criticità che hanno bisogno di trovare una soluzione come ad esempio il sovraffollamento e non solo. Sanremo (Im). Carcere, il medico denuncia “Venti detenuti in infermeria” di Giovanna Loccatelli La Stampa, 2 luglio 2025 Il provveditore Antonio Galati non ha notizie di accadimenti di rilievo a Sanremo. “Abbiamo paura” le nette parole di Lorenzo Vigo, medico in servizio nel carcere sanremese di Valle Armea. “Ieri intorno alle 13, 30 si sono presentati in infermeria 20 detenuti, la situazione era fuori controllo. Dovrebbero venire uno alla volta”. Vigo spiega che i detenuti hanno poi iniziato a dare in escandescenza: “Hanno inveito contro di noi. Uno di loro ha rotto una sedia e ci ha minacciato di morte”. Gli infermieri hanno dato l’allarme chiamando le forze dell’ordine esterne al carcere. “Un clima di tensione”, rincara la dose Vigo, “che non è più sostenibile: si può lavorare in queste condizioni?”. Una domanda retorica che lascia l’amaro in bocca: “Siamo in pochi, un dottore per turno, ci sono tre turni. Nel pomeriggio tre infermieri separatamente vanno nei vari settori del carcere per le terapie di somministrazione”. Racconta che ci sono “pochi agenti rispetto al numero dei detenuti che sono circa 270”. I detenuti si presentano in infermeria in venti semplicemente perché “non sono controllati da nessuno, arrivano senza essere chiamati, come se nulla fosse” chiarisce. Come è stato ristabilito l’ordine? “Sono arrivati trenta agenti di polizia penitenziaria che hanno calmato gli animi e portato via i detenuti” delucida il medico. Gli episodi del genere si ripetono ormai da anni: “Negli ultimi tre la situazione è degenerata e nessuno interviene”. Casi di emergenza si susseguono uno dopo l’altro, afferma: “Ieri una persona ha dato fuoco alla cella. È stato portato in pronto soccorso”. Anche le infermiere sono molto preoccupate, incalza: “Spesso vanno a casa piangendo”. Una denuncia chiara e netta: “Il carcere va resettato, è in balia dei detenuti”. E le persone che ci lavorano versano in una situazione di estrema insicurezza e angoscia: “Ora ci saranno, ad occhio, un poliziotto ogni dieci reclusi: non va bene” rincara la dose il medico. Mentre parla si sentono di sottofondo persone che urlano: “I detenuti vanno in giro, nessuno li controlla: le sembra normale?”. I principali problemi: sovraffollamento e pochi agenti penitenziari. Ma perché nessuno interviene? Contattato il provveditore regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Mario Antonio Galati, la risposta è lapidaria e spiazzante: “Non ho notizie di accadimenti di rilievo a Sanremo”. Come è possibile? Treviso. I detenuti scrivono al vescovo: “Noi, piccola Chiesa che vive in carcere” di Francesco Dal Mas Avvenire, 2 luglio 2025 Nell’Anno giubilare dal penitenziario un appello alla comunità cristiana locale perché aiuti chi ha commesso errori a ripartire. “Vorremmo così tanto che il popolo di cui ci sentiamo parte sapesse che dietro al muro del carcere ci siamo anche noi, la piccola Chiesa in carcere che è in un cammino di consapevolezza e responsabilità, che parte dal pentimento e prova a rinascere e ricostruire esistenze”. Così scrivono i detenuti del carcere di Treviso al vescovo Michele Tomasi e ai fedeli della diocesi, col desiderio di partecipare al Giubileo della Speranza. “Con umiltà, ci rivolgiamo a voi, sorelle e fratelli della diocesi: che sia questo tempo - è l’augurio che aggiungono - un tempo speciale anche per aprire una porta, superare un muro, cercando di capire le vite altrui, liberi da pregiudizi, così che ci sia concretamente qualcuno capace di vedere l’uomo oltre il suo errore”. La risposta del vescovo è arrivata immediata. Anche grazie alla quotidianità delle relazioni tra la comunità del penitenziario (come quella del carcere minorile) con la Chiesa di Treviso (e della diocesi di Vittorio Veneto, sempre in provincia). “Ci chiedete di riconoscere la vostra presenza nel cuore delle nostre comunità. Con il vostro appello volete aiutarci a non essere indifferenti, ad assumerci il rischio di vedervi e di ascoltarvi - scrive il vescovo -. Non negate responsabilità e colpe, ci date una testimonianza di percorsi impegnativi e lunghi di presa di coscienza del male commesso, e di assunzione di responsabilità. Si tratta, fin dove possibile, di rimediare al male commesso, di percorrere vie esigenti di riconciliazione, di coinvolgere la comunità intera per ritessere reti di relazioni che possano permettere nuova fiducia. Ci chiedete di dare spazio concreto alla fragilità della condizione umana, di prendervi sul serio come persone, partendo dal vostro impegno a prendere sul serio le persone colpite e ferite da comportamenti sbagliati, da scelte colpevoli”. Parole che sono come ponti tra dentro e fuori la prigione, sostenute dall’impegno del cappellano del carcere, assieme agli altri membri della cappellania, ai volontari di Comunione e liberazione e all’associazione Prima pietra. “Per permettere alle persone detenute di riappropriarsi gradualmente della loro vita c’è la possibilità di permessi, in giornata o per più giorni - spiegano i membri della cappellania del carcere di Treviso -. Per beneficiarne sono necessari luoghi che li accolgano, in particolar modo per chi non ha alcun riferimento esterno al carcere. Per molti esiste lo stesso problema una volta conclusa la detenzione. L’appello, concretamente, è a compiere “gesti giubilari” capaci di far emergere la disponibilità di comunità che possano rispondere a simili esigenze, mettendo a disposizione ambienti e accoglienza, animate dal desiderio di incontro e di dare possibilità a persone detenute o ex-detenute di ripartire”. Il vescovo rassicura, nella sua lettera: “Cerchiamo insieme le ragioni di una speranza quotidiana e troviamo insieme la direzione in cui possano muoversi i nostri passi, per ritessere sempre di nuovo legami di comunità - specifica Tomasi -. In occasione di alcune visite in carcere mi avete aperto il vostro cuore, e mi avete espresso i vostri bisogni, come avete fatto in questa vostra lettera. Voi percepite urgente, allora come ora, la presenza di “luoghi dove poter essere accolti, ascoltati e aiutati in un percorso di un vero reinserimento nella società”. Nell’Anno giubilare, conclude il presule, “condivido con voi e con la diocesi l’impegno a trovare spazi per venire incontro in modo ordinato e sostenibile a questa necessità. Se riusciremo in questo sforzo, verrà giovamento a tutta la comunità, che vedrà nascere anche dal fallimento e dalla colpa frutti di rigenerazione. La cappellania del carcere e la Caritas diocesana ci aiuteranno a coordinare le disponibilità che nasceranno in diocesi. Sarà, credo, un contributo a diffondere quella pace di Cristo che parte cambiando i cuori e giunge fino a mutare le strutture della nostra vita associata. Sarà un passo importante, frutto della “pace del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente”. Alessandra Cecchin, direttore dell’Ufficio diocesano per le comunicazioni sociali di Treviso, ricorda che c’è una finestra che da quattro anni, in diocesi, si cerca di tenere aperta anche grazie a una rubrica, “Condannati a vivere”, curata insieme dal settimanale diocesano, “La Vita del popolo”, dalla cappellania del carcere e dalla Caritas. Vi si trova il racconto della vita e dei progetti all’interno sia della Casa circondariale che dell’Istituto penale minorile, dando voce a detenuti, personale, famiglie dei detenuti, volontari. “Sono molteplici le attività che condividiamo - dice Marcello Daniotti della Caritas -. Dalla preparazione alle liturgie alla catechesi, con la cappellania, alle attività di animazione in collaborazione con la Cooperativa “Alternativa” e il volontariato. Sono coinvolti i detenuti, ma anche le loro famiglie. E assieme al vescovo cerchiamo spazi per la post detenzione e il reinserimento”. Milano. Storia di G., che si laurea con 110 e lode in carcere. E che non si volta dall’altra parte di Zita Dazzi La Repubblica, 2 luglio 2025 Dopo l’arresto aveva ripreso gli studi universitari e mentre era al lavoro esterno aveva conosciuto un giovane fragile bisognoso di aiuto, finito poi anche lui in cella. Ha preso 110 e lode e si è laureato in legge. Non ci sarebbe niente di strano se non fosse che il ragazzo, che chiameremo col nome di fantasia Giovanni, ha studiato e ha scritto la sua tesi in cella. “Ha ripreso a studiare mentre era in carcere a Bollate dove sì è costituito per un debito che aveva con la giustizia per un fatto avvenuto 10 anni prima. A Bollate ha rimesso insieme pezzi. Ha ripreso l’università e ha ricomunicato a dipingere. E poi ha osservato l’umanità che aveva attorno. Tanto”, ha raccontato su Facebook la sua legale, Antonella Calcaterra, che lo ha seguito nel percorso giudiziario e che ieri era alla Statale per la cerimonia e la proclamazione del nuovo “dottore in Giurisprudenza”. Ma la storia, che già sarebbe bella così, ha un’ulteriore particolarità. Giovanni, mentre studiava e lavorava fuori dal carcere usufruendo delle misure alternative alla detenzione, ha conosciuto un altro ragazzo, con un deficit cognitivo e ne è diventato amico. Restandolo anche quando questo ragazzo ha avuto problemi con la giustizia a sua volta, finendo a San Vittore. La legale Calcaterra è orgogliosa: “L’amico col deficit cognitivo nemmeno riusciva a capire quello che gli era capitato, ma Giovanni l’ha aiutato. Questa è una di quelle belle vicende che fioriscono in carcere dove l’umanità è un bene prezioso. Il mio assistito ha una grande sensibilità e grazie ad essa è riuscito ad aiutare un’altra persona in difficoltà, mettendo in moto anche una mobilitazione dal basso, con il supporto del municipio di quartiere e del Cps. Ora Giovanni deve finire di scontare la sua pena “in affidamento esterno”, una misura che consente il reinserimento sociale vero. Poi disegnerà il suo futuro che sarà bello per le doti di umanità che ha già dimostrato”. Il ragazzo che si è laureato ha chiesto alla sua legale di aiutare l’amico “che ora è fuori dalla cella con un programma di cura messo insieme grazie al supporto di tante persone che non si voltano dall’altra parte. Oggi eravamo lì ad ascoltare la proclamazione di laurea, orgogliosi di lui. Io soprattutto per quello sguardo non voltato di fronte a chi stava peggio di lui. Queste sono storie belle che danno ancora senso al lavoro che facciamo. In un momento tanto faticoso”. Il carcere di Bollate è uno dei più avanzati in Italia per i trattamenti di rieducazione e il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti. Ogni giorno escono in 200 per andare a lavorare per costruirsi un domani diverso. L’avvocata è stata travolta dai messaggi di sostegno sul web: “Non me l’aspettavo, sinceramente, ma fa molto piacere vedere che il lavoro fatto con impegno e col cuore viene riconosciuto. Ora spero per entrambi i due ragazzi un pieno reinserimento sociale e che altri prendano esempio da questa vicenda”. Pace e giustizia, la sfida dei preti di frontiera di Luca Kocci Il Manifesto, 2 luglio 2025 Un percorso di lettura attraverso dei nuovi volumi dedicati a Balducci, Mazzolari, Turoldo, Dossetti e Milani. In uno scenario in cui “la minaccia di morte” ci sta venendo incontro “come una selva di missili o come catastrofe dell’equilibrio ecologico”, la nascita di un nuovo “uomo planetario” è l’unica possibilità per evitare la fine del mondo. La “profezia” di Ernesto Balducci è datata 1985, quando esce L’Uomo planetario, summa del pensiero dello scolopio toscano che ora meritoriamente, dopo 40 anni, l’editore Gabrielli ripubblica (L’uomo planetario. Etica laica e fedi religiose sul crinale apocalittico, a cura di Pietro Domenico Giovannoni, pp. 254, euro 18). Balducci, e con lui Mazzolari, Turoldo, Dossetti e Milani appartengono a quel gruppo di “preti di frontiera”, per anni osteggiati dalle gerarchie ecclesiastiche, che non hanno mai smesso di parlare ai credenti più aperti e ai laici disposti a confrontarsi con chi proviene da un mondo altro e, partendo dal Vangelo, affronta grandi temi come pace e giustizia. Oltre al testo di Balducci, sono diverse le novità editoriali arrivate in libreria. Giorgio Vecchio, docente di Storia contemporanea all’università di Parma, pubblica il primo volume di quella che è la più completa biografia di Mazzolari (Don Primo Mazzolari. Una biografia. 1890-1932, Morcelliana, pp. 276, euro 25). Lo studio di Vecchio supera le definizioni totalizzanti e contraddittorie che, a seconda dei tempi, sono state affibbiate al parroco di Bozzolo: “obbedientissimo”, “ribelle”, “tradizionalista”, “innovatore”. E delinea un profilo a 360 gradi di Mazzolari. “Sembra esserci sempre qualcosa di troppo in tutte queste definizioni - scrive l’autore - che finiscono per pietrificare una vita (che pure fu ricca di contraddizioni, come tutte le vite degli esseri umani), inchiodandola a una sola nota, positiva o negativa che sia”. Sempre di Mazzolari, Edb pubblica La Resistenza dei cristiani (ancora a cura di Vecchio, pp. 124, euro 15) e recupera alcuni testi rari e preziosi sul carcere, tema centrale nell’azione pastorale del prete cremonese, richiuso per brevi periodi nelle galere fasciste (Oltre le sbarre, il fratello. Il carcere e la giustizia, a cura di Bruno Bignami e Umberto Zanaboni, pp. 136, euro 14). “Noi gente benpensante e ben vestita facciamo presto a trovare naturale che chi ha sbagliato paghi, quando al mattino, tra due sorsi di caffè, leggiamo sbadatamente la cronaca giudiziaria”, scrive Mazzolari, con una prosa da cui emerge il volto dell’essere umano, del “fratello”, sfigurato dalla gabbia del detenuto. David Maria Turoldo. Vita di un poeta ribelle (Ts edizioni, pp. 368, euro 29) è il titolo del libro di Mario Lancisi, giornalista e scrittore che ha attraversato le vicende del cattolicesimo fiorentino conciliare e postconciliare. Non è una biografia “scientifica” (per questa c’è Mariangela Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza 1916-1992, Morcelliana) ma la storia di Turoldo e dei “folli di Dio” - a cui Lancisi anni fa dedicò un altro volume - che “incendiarono la Chiesa dell’onnipotenza di papa Pacelli e la società italiana del dopoguerra”. C’è un anno chiave, il 1954 (quando Turoldo fu esiliato a Firenze e Milani a Barbiana, mentre Montini, futuro Paolo VI, veniva allontanato dalla Segreteria di Stato vaticana e trasferito a Milano), e un blocco, quello del “partito romano”, che sognava un cattolicesimo conservatore e un’alleanza tra Dc e destra fascista. Attorno a questo nodo si dipana la storia di Turoldo, attraverso i punti nodali della sua vita: la Resistenza, il Concilio, l’obiezione di coscienza alle armi e alla guerra, la poesia. È una biografia politica di Giuseppe Dossetti quella di Rocco Gumina, che analizza la fase dell’impegno di Dossetti nella Resistenza, alla Costituente e nella Dc - dove era il leader della sinistra sociale - nel 1958 abbandonata per la vita monastica (Giuseppe Dossetti: tra intenzione e fine. Gli anni dell’impegno politico 1943-1958, Il pozzo di Giacobbe, pp. 162, euro 20). Tre mezzi - Resistenza, Costituzione e Dc - per il raggiungimento di un fine, “una democrazia sostanziale” capace di includere tutti i cittadini. Obiettivo che appare oggi sempre più frantumato e che rende ancora attuale la “testimonianza credente del Dossetti politico”. Infine don Milani, visto con gli occhi di Adele Corradi, la “professoressa diversa da tutte le altre”, l’unica ammessa a Barbiana, morta centenaria 7 mesi fa: un libro postumo su Barbiana e sulla scuola di ieri e di oggi, con prefazione di Goffredo Fofi (Don Lorenzo, qualcosa da ridire, Edizioni Clichy, pp. 184, euro 22). Martina Oppelli e il terzo no al suicidio assistito. Lei: “Ora valuto l’opzione della Svizzera” di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 2 luglio 2025 Martina Oppelli, malata di sclerosi multipla da oltre 20 anni, ha ricevuto il terzo diniego da parte dell’azienda sanitaria triestina. La replica: “Affrontare un’altra estate in queste condizioni è una sofferenza estrema”. L’Azienda sanitaria di Trieste ha negato per la terza volta il suicidio assistito a Martina Oppelli, una donna tetraplegica che da 20 anni è affetta da sclerosi multipla. “Voglio smettere di soffrire, ora valuto di andare in Svizzera”, ha affermato la 49enne triestina, che ha presentato una nuova opposizione al diniego tramite i suoi legali. “Asugi continua a negare l’esistenza di trattamenti di sostegno vitale e conferma il divieto di accesso alla morte medicalmente assistita, ignorando le sentenze della Corte costituzionale”, ha detto l’avvocato Filomena Gallo. “Così facendo, infligge a Martina un trattamento disumano che equivale a una forma di tortura”. Il terzo diniego - Oppelli ha ricevuto il 4 giugno il terzo no alla richiesta di attivare la procedura di verifica delle condizioni per accedere al suicidio medicalmente assistito: non avrebbe alcun trattamento di sostegno vitale in corso. Nonostante le sue condizioni cliniche siano in costante peggioramento e nonostante la sua completa dipendenza da una assistenza continuativa e da presidi medici (farmaci e macchina della tosse), la commissione medica ha nuovamente escluso la sussistenza del cosiddetto “trattamento di sostegno vitale”, necessario per poter accedere legalmente alla morte volontaria assistita in Italia, sulla base della sentenza 242/2019 della Corte costituzionale. Il 19 giugno, Oppelli - assistita dal team legale coordinato da Filomena Gallo, avvocata e Segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni - ha presentato un’opposizione al diniego, accompagnata da una diffida e messa in mora nei confronti dell’azienda sanitaria. L’azienda sanitaria ha risposto che sarà “immediatamente avviata una nuova procedura di valutazione”. “Altri Paesi hanno risposto al mio appello” - “Ammetto di non aver considerato di essere obbligata a subire l’ennesima insostenibile estate”, ha detto Oppelli. “Eppure, ho tutti i requisiti previsti dalla norma e dalle sentenze a ora presenti in Italia per poter usufruire di questo diritto. Un diritto al quale avrei preferito non dovermi mai appellare io, quella della resistenza a oltranza con un po’ di esuberanza. Io che, come altre creature con diagnosi nefaste, adoro la vita fino a succhiarne anche l’ultima goccia di linfa vitale. Ciò che mi rimane è solo una grande stanchezza e lo sconforto per aver creduto nel senso civico di uno Stato laico che dovrebbe concedere al cittadino consapevole, autodeterminato, allo stremo delle proprie forze, di porre fine a una sofferenza per la quale nessuno è in grado di proporre soluzioni plausibili che io non abbia già sperimentato. Probabilmente saranno altri a poterne usufruire, a poterne gioire. E io, chissà, dovrò intraprendere un ultimo faticosissimo viaggio verso un paese non troppo lontano che ha già recepito la supplica di compassione di chi è stato condannato a soffrire a oltranza”. Un chiaro riferimento alla Svizzera. La sua legale: “Violata la giurisprudenza costituzionale” - “Con questo terzo diniego, Asugi dimostra di avere una posizione immotivatamente ostruzionistica, che contrasta apertamente con la giurisprudenza costituzionale”, ha detto la sua legale. “Oppelli vive una condizione di totale dipendenza da caregiver per lo svolgimento di ogni singola attività quotidiana, comprese le funzioni biologiche primarie, utilizza quotidianamente la macchina della tosse per evitare il soffocamento ed è sottoposta a una terapia farmacologica con innegabile funzione salvavita. Secondo la sentenza della Corte costituzionale 135 del 2024, questi sono presidi che costituiscono “trattamenti di sostegno vitale” perché “la loro sospensione determinerebbe la morte del paziente in un breve lasso di tempo”. Asugi, ignorando tutto ciò, sta infliggendo a Martina un trattamento che si traduce in tortura”. La raccolta firme dell’associazione Luca Coscioni per una legge - Intanto, è partita la raccolta firme promossa dall’Associazione Luca Coscioni per la legge di iniziativa popolare sul fine vita. L’obiettivo è quello di raccogliere 50mila firme entro il 15 luglio per poi approdare con la legge in Senato il 17 luglio, data in cui inizierà la discussione del testo proposto dalla maggioranza di governo. La proposta di legge dell’Associazione punta a legalizzare tutte le scelte di fine vita, inclusa l’eutanasia, con il pieno coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, dando tempi certi ai malati. Migranti. Ecco tutte le contraddizioni del decreto flussi di Paolo Lambruschi Avvenire, 2 luglio 2025 Per la seconda volta da quando è al governo, l’esecutivo Meloni ha dovuto accogliere obtorto collo le richieste di favorire l’ingresso di manodopera dall’estero avanzate da una parte della sua base. Il nuovo decreto Flussi approvato ieri in Consiglio dei ministri contiene novità positive, ma è soprattutto lo specchio delle contraddizioni della maggioranza sull’immigrazione. Per la seconda volta da quando è al governo, l’esecutivo di Giorgia Meloni ha dovuto accogliere obtorto collo le richieste di favorire l’ingresso di manodopera dall’estero avanzate da una parte della sua base elettorale - quella dei piccoli e medi imprenditori - emanando un decreto Flussi che farà entrare nel triennio 2026-28 un numero decisamente superiore di lavoratori stranieri non comunitari rispetto ai precedenti governi. Dai 450 mila dell’ultimo decreto di tre anni fa, tetto raggiunto dopo lunghe trattative e insufficiente a detta delle associazioni datoriali, si è arrivati ieri a circa mezzo milione di lavoratori previsti nei prossimi tre anni. È una buona notizia, perché il Governo non solo prende atto della realtà e delle esigenze del nostro mercato del lavoro, ma allarga le possibilità di ingresso legale di stranieri nel nostro Paese, che resta la via maestra - al di là degli strumenti tecnici scelti - per favorire l’integrazione degli immigrati. L’azione politica dell’esecutivo è, però, in contraddizione evidente con le dichiarazioni di chiusura all’ingresso di nuovi immigrati - che rispondono alle esigenze securitarie e “placano” le paure di una parte della cittadinanza, altro serbatoio di voti - ritenendo che sul mercato del lavoro l’offerta sia già saturata dagli immigrati presenti e dagli italiani in cerca di occupazione. Ma la realtà è ben diversa, dati alla mano. E smentisce al solito le chiacchiere e le fake news da talk show e i proclami dei politici. Soprattutto nei comparti interessati dal decreto Flussi, quindi l’agricoltura, il lavoro domestico e quello stagionale, che sono sempre alla ricerca di mano d’opera e che i lavoratori italiani evitano come la peste ormai da anni preferendo emigrare nei Paesi dell’Ue dove trovano paghe più alte e condizioni migliori. Il governo, viste le esperienze negative degli anni scorsi soprattutto in Campania ha garantito inoltre che nel prossimo triennio correrà ai ripari vigilando per prevenire le truffe. Resta da capire come, vista l’attuale carenza di controllori. L’assenza di personale nelle questure è alla base per esempio della lunghissima fase di esame delle domande della sanatoria 2020 protrattasi per più di 5 anni. Dati recenti della campagna “Ero Straniero” hanno poi rivelato che l’anno scorso solo il 10% scarso delle domande dei 120 mila lavoratori entrati con il decreto flussi nel 2023 con contratti di lavoro si è trasformato in permesso di soggiorno. A questo aggiungiamo le code inaccettabili e spesso inutili anche per i banali rinnovi dei permessi di soggiorno dei lavoratori e le attese di mesi per l’esame della domanda di protezione che costringono centinaia di richiedenti asilo a dormire in strada con il conseguente degrado e l’aumento dell’insicurezza percepita e reale. Non è solo un problema di burocrazia, ma di volontà politica. Anni di allarme sbarchi e di conseguente strumentalizzazione dell’immigrazione vista solo come emergenza dai due schieramenti anche se coinvolge numeri ridotti (al 30 giugno siamo a 29mila persone, 3mila in più del 2024) hanno portato gli italiani a disinteressarsi della maggioranza dei regolari mentre purtroppo l’opinione pubblica si è in larga parte assuefatta ai morti e alle torture. Il caso Albania con gli sprechi di denaro per i centri di detenzione esternalizzati è da manuale. Segno che prima che un problema politico, l’immigrazione resta un problema culturale. Ma affrontarlo solo in termini securitari o emergenziali per poi strizzare l’occhio alle imprese allargando le maglie degli ingressi è una politica di corto respiro, sganciata dalla realtà di una Italia ormai mutata. Il dibattito aggira così in modo spericolato i nodi veri della integrazione e della riforma della legge Bossi Fini che risale al 2001 ed è palesemente inadeguata per le esigenze produttive del Paese come per quelle del welfare. Pensare al superamento della norma coinvolgendo le associazioni di categoria, i sindacati e il terzo settore puntando a un testo innovativo in Europa che incentivi gli ingressi di flussi di regolari assesterebbe un colpo micidiale ai trafficanti e arginerebbe il fenomeno degli irregolari arrivati con visto turistico che vanno ad alimentare il lavoro nero a ogni livello. Sarebbe un’operazione a costi limitati dalla quale avrebbero da perdere solo quei politici e i loro megafoni che hanno costruito le loro carriere alimentando le paure in ogni modo. Migranti. Chiedono un medico: picchiati e sedati al Cpr di Macomer di Angela Nocioni L’Unità, 2 luglio 2025 Non vogliono testimoni. Non vogliono nemmeno medici per casi gravi al Cpr di Macomer, le celle illegali per migranti in provincia di Nuoro, Sardegna. È stata necessaria l’altra notte una discussione con la dirigente dell’ente gestore del Cpr - la cooperativa Officine sociali che gestisce anche il centro di San Gervasio - perché i barellieri dell’ambulanza potessero soccorrere Hassan, marocchino con una gamba ingessata, che due pile del telecomando e una lametta ha dovuto ingerire per veder arrivare un’ambulanza chiesta invano per giorni. Lui racconta di essere stato picchiato e poi sedato pesantemente (le sedazioni di questo genere sono illegali) perché chiedeva di poter essere visto da un medico a causa di un forte dolore alla gamba che non passa con nulla. Per protesta, all’ennesimo diniego e lasciato in cella di isolamento, ha iniziato lo sciopero della fame e della sete. Visita medica ancora negata. Solo dopo aver ingoiato la lametta è stata chiamata l’ambulanza. Ha passato la notte in ospedale, ed è subito stato riportato in detenzione (illegale) nel Cpr. Gli attivisti di “Lasciateci entrare” che tentano di far conoscere cosa accade nei Cpr in tutta Italia, hanno denunciato che sia Hassan sia un algerino di nome Hamza sarebbero stati messi in isolamento e pesantemente sedati dopo aver tentato una protesta il 27 giugno. Hassan si è svegliato il 29 giugno, Hamza ieri era ancora in isolamento. Raccontano gli attivisti che 24 e il 25 giugno scorso “dopo una protesta verbale dei detenuti che reclamavano assistenza medica, c’è stata un’irruzione delle forze dell’ordine che ha causato il ferimento di almeno due persone che sono state portate in ospedale”. Hassan, che chiedeva invano assistenza medica, dopo una discussione con un operatore del Cpr, più di una settimana fa era riuscito a farsi vedere in ospedale. E sono stati i medici dell’ospedale a chiedere per lui una visita specialistica per le condizioni della gamba. Visita che l’ente gestore del Cpr gli ha impedito. Il 27 giugno i detenuti protestano ancora per avere assistenza medica e danno fuoco a un materasso. Le forze dell’ordine arrivano e le botte più pesanti toccano proprio ai due che chiedono assistenza. Racconta Yasmine Accardo, attivista di Memoria mediterranea: “Da come ci hanno raccontato, i due vengono portati in isolamento e Hamza viene picchiato da diversi poliziotti. Sempre in isolamento vengono sottoposti a due punture di sedativi da parte del personale medico sanitario del centro. Da quel momento sono stati per giorni in stato letargico”. “Questa è l’ennesima dimostrazione - aggiunge che pensare di poter riformare i Cpr è insensato. Vanno chiusi e basta. Sono patogeni e creano violenza costante fisica e psicologica verso i detenuti. L’abuso di sedazioni pesanti per inebetire completamente i detenuti è la regola”. Hamza ieri era ancora in stato letargico. L’iniezione di sedativi è di quattro giorni fa. Migranti. Nel carcere italiano in Albania ora c’è tutto, tranne i detenuti di Giansandro Merli Il Manifesto, 2 luglio 2025 Una nuova direttrice, un educatore, un funzionario e 22 agenti ma Gjader non può partire. Sul primo penitenziario extraterritoriale restano diversi dubbi giuridici. C’è un carcere dove problemi di sovraffollamento, carenza di personale e mancanza di posti letto non esistono: si trova a Gjader, accanto al Cpr e al centro di trattenimento per richiedenti asilo. È il primo penitenziario italiano aperto all’estero, in Albania. Inaugurato a metà ottobre 2024, nell’ambito del protocollo migranti tra Roma e Tirana, non ha mai visto un detenuto. Il mese scorso, comunque, sono stati nominati una direttrice, un educatore e un amministrativo. Teresa Mascolo è passata dal vertice della casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso a quello della struttura d’oltre Adriatico. Ha dato il cambio a Silvana Salani Sergi - già direttrice di Regina Coeli e poi dirigente al provveditorato dell’amministrazione penitenziaria del Lazio - che nei primi mesi aveva svolto le funzioni necessarie all’avviamento amministrativo della struttura. Per le quali serviva una figura dedicata. Altra cosa è la gestione ordinaria di un carcere vuoto. Le autorità italiane avrebbero potuto indicare una reggenza da un’altra prigione. È già successo per le piccole, questa è piccolissima: sei stanze da quattro posti. Del resto sui centri albanesi sono competenti magistratura e prefettura della capitale. “Quello di Gjader mi piace chiamarlo: penitenziario fantasma autoreggente. Ci sono zero detenuti e 22 unità di polizia penitenziaria. Più di quelle del carcere dell’isola di Gorgona, dove i reclusi sono 90”, afferma Gennarino De Fazio. Il segretario generale di Uilpa Polizia denuncia “un oscurantismo senza precedenti: non ci forniscono notizie quando le chiediamo e cercano di dissuadere la nostra comunicazione con il personale”. Tra le ipotesi al vaglio del guardasigilli Carlo Nordio per fronteggiare il sovraffollamento carcerario, denunciato lunedì dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, c’è anche il trasferimento degli stranieri nei paesi di origine. Per due volte, al termine delle visite di dicembre 2024 e marzo 2025, il senatore di Iv Matteo Renzi ha proposto di usare i centri d’oltre Adriatico, nella loro interezza, per i circa duemila detenuti albanesi in prigione in Italia. “A fronte di uno spreco di soldi pazzesco - ribadisce al manifesto - è l’unica soluzione per evitare l’intervento della Corte dei conti”. Davanti al tribunale contabile sono stati presentati diversi esposti relativi alle strutture albanesi. Un fatto che preoccupa il governo: sul progetto, anche se per altri motivi, è già andato a sbattere contro le decisioni di diversi tribunali, dal primo al terzo grado. In ogni caso dai ministeri di Giustizia e Interno negano che l’ipotesi di trasferire dei detenuti sia mai stata presa in considerazione. Almeno finora. Nell’ambito dell’intesa con Tirana il carcere era stato pensato per i migranti accusati di eventuali reati commessi nelle altre due strutture. Reati da compiere necessariamente in concorso, perché ai sensi della Convenzione europea per i diritti umani (Cedu) è vietata la reclusione in completo isolamento. Perfino le autorità di Ankara hanno dovuto rinchiudere altre persone con il leader curdo Abdullah Ocalan, nell’isola prigione di Imrali. A sollevare dubbi giuridici sul penitenziario da 24 posti di Gjader è il professore ordinario in diritto penale dell’università di Brescia Luca Masera. “L’unico riferimento normativo si trova nella legge di ratifica del protocollo, con la definizione di “idonee strutture” per l’applicazione delle misure cautelari - afferma - È vero che per un nuovo penitenziario in Italia è sufficiente una determinazione del ministro della Giustizia, ma questa è la prima prigione aperta all’estero. Un così basso grado di precisazione del legislatore è inammissibile”. Su tutto il progetto Albania gravano intanto le decisioni della Corte di giustizia Ue. Quella sui paesi sicuri è già stata redatta ma, in maniera inusuale, dovrebbe essere pubblicata solo dopo l’estate. Al recente rinvio della Cassazione relativo alla seconda fase del protocollo, sui migranti “irregolari” già presenti in Italia, deve ancora essere assegnata la procedura. Gli ermellini hanno chiesto quella d’urgenza, la più veloce, che si risolverebbe in qualche mese. Altrimenti ci vorrà molto di più. Per decidere se applicarla i giudici del Lussemburgo hanno sollecitato maggiori informazioni: in particolare vogliono sapere se i due migranti da cui sono nati i ricorsi sono attualmente liberi o trattenuti (condizione che aumenterebbe l’esigenza di celerità). “Si trovano entrambi in libertà”, dice l’avvocata Cristina Durigon, che difende i cittadini stranieri. I 23 anni della Carta di Roma con un deferimento Onu dell’Italia alle porte di Massimiliano Sfregola Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2025 In un altro contesto, accostare il nome di Roma allo Statuto della Corte dell’Aia sarebbe stato motivo di orgoglio; oggi i tribunali internazionali sono percepiti come un ostacolo. Ricordare il 23º anniversario della firma della Carta di Roma con un possibile deferimento all’Onu dell’Italia non è certo ciò che ci saremmo aspettati. In un altro contesto, accostare il nome di Roma allo Statuto della Corte dell’Aia sarebbe stato motivo di orgoglio; oggi, invece, i tribunali internazionali sono percepiti come un ostacolo alla competizione tra Stati e la giustizia come un fardello da cui i governi cercano in ogni modo di liberarsi. Il deferimento è una questione seria, e l’indagine condotta di recente dalla Procura dell’Aia ha smontato, punto per punto e con rigore tecnico, le motivazioni addotte dal governo Meloni per giustificare il rilascio del torturatore Almasri. Il vero problema, in questo caso, è l’ostinazione arrogante di un esecutivo che si rifiuta di ammettere di aver ignorato regole che, 23 anni fa, si era solennemente impegnato a rispettare, sacrificando tutto ciò per interessi ben lontani da quelli nazionali. Basti pensare al fatto che l’ambasciatore italiano all’Aia, quello incaricato di tenere i rapporti con la Corte sia un fedelissimo del primo politico che la stessa ritiene potenzialmente responsabile: il ministro Carlo Nordio. Questo è un chiaro segnale del disinteresse dell’esecutivo verso qualunque norma che possa ostacolare la sua politica miope in materia di migrazioni e rapporti con paesi instabili dell’area mediterranea. La CPI (Corte Penale Internazionale) non è certo un monumento al miracolo della giustizia globale: in 23 anni ha prodotto più carriere garantite, stage prestigiosi e spese ingenti che risultati tangibili. Tuttavia, ciò riflette più la confusione degli obiettivi e gli enormi ostacoli posti dagli stessi Stati membri, che non un fallimento totale del progetto di una corte universale per giudicare i crimini contro l’umanità. La pace globale può funzionare solo con un meccanismo sanzionatorio riconosciuto da tutti, non con l’arbitrarietà imposta dall’opportunismo politico. ?La Corte non produce grandi risultati perché gli Stati ne ostacolano il funzionamento: cercano di non distruggerla apertamente, ma di ridurla all’irrilevanza - formalmente attiva, ma inefficace. E così, al 23º anniversario, ci troviamo a discutere delle minacce in stile gangster rivolte ai suoi giudici e funzionari da parte della nuova amministrazione statunitense, che applica loro sanzioni pensate per signori della guerra e terroristi, solo perché il tribunale osa esercitare la sua autonomia verso un alleato. O dobbiamo assistere al doppio standard europeo: si applaude il mandato d’arresto per il premier russo Putin, ma si ignora quello per il premier israeliano Netanyahu. Oggi più che mai è necessario un tribunale di ultima istanza per i diritti umani; un osservatore che abbia potere di intervenire laddove i sistemi nazionali non funzionano o scelgono di non farlo; in una fase di opportunismi nazionali, derive autoritarie e mercato senza freni, l’ICC sembra davvero un fossile del ‘900 destinato ad essere spazzato via dal turbine del riarmo e dei conflitti globali. Eppure è uno dei pochi fari democratici rimasti per chi non si rassegna al suono delle armi come unica forma di politica rimasta. Armi di Stato, il piano Fincantieri: due stabilimenti per la produzione militare di Alessandro Barbera La Stampa, 2 luglio 2025 I grandi fondi d’investimento Usa cercano occasioni nel settore della difesa per partecipare alla ricca torta degli armamenti. Roma, primi giorni di giugno. Gli emissari di un grande fondo di investimento americano attivo nella Difesa sono nella Capitale per appuntamenti nei palazzi romani. Il messaggio è più o meno questo: “Siamo interessati a investire in Italia”. Quali siano le risposte non è dato saperlo, di certo c’è che dopo l’ultimo vertice Nato il business della difesa è la gallina delle uova d’oro del prossimo decennio. Spiega una fonte italiana del settore che chiede di non essere citata: “Fino a poche settimane fa era difficile trovare banche disposte a finanziare progetti. Ora ci piovono direttamente offerte da parte degli investitori”. Giusto o sbagliato, siamo entrati in una nuova era: gli Stati Uniti non hanno più intenzione di essere l’ombrello delle minacce che incombono sull’Europa. Sin dal 2018 Donald Trump lamenta di aver pagato il conto della Nato per tutti, salvo omettere un dettaglio: la metà dell’intera spesa militare europea va in armamenti acquistati dall’altra parte dell’Atlantico. La questione l’ha sollevata due giorni fa su questo giornale il presidente dell’Aiad, l’associazione delle aziende italiane produttrici di armamenti, Giuseppe Cossiga: se la politica non si assumerà la responsabilità di fare delle scelte, gli oltre cinquanta miliardi di spesa aggiuntiva annua in difesa continuerà ad andare a vantaggio dell’industria a stelle e strisce. Di aziende italiane in grado di competere nel settore l’Italia ce ne sono diverse, due delle quali conosciute in tutto il mondo e controllate dallo Stato: Leonardo e Fincantieri. La prima - due giorni fa - ha annunciato di aver chiesto la consulenza di Morgan Stanley per l’acquisizione in tandem con la tedesca Rheinmetall di Iveco Defense. La seconda - leader mondiale della cantieristica navale - è pronta a rafforzare la parte di produzione militare, che oggi vale il 30 per cento del suo fatturato. Due stabilimenti - quelli di Castellammare di Stabia e Palermo - in parte dedicati alla produzione di navi civili, potrebbero essere compiutamente dedicati alla costruzione di mezzi per il pattugliamento: la scorsa settimana la Marina italiana ne ha fatto un ordine per due, una commessa da settecento milioni di euro per sostituirne altrettante cedute all’Indonesia. Secondo le stime che circolano nel settore e fatte proprie dal Wall Street Journal, Fincantieri è in grado di costruire fregate in un tempo di un terzo inferiore a quello dei concorrenti americani. Poiché la materia non riscuote successo presso l’opinione pubblica, sulla questione della spesa militare il governo Meloni fin qui si è mostrato molto prudente. Ha rinunciato ad attivare la clausola di salvaguardia per scorporare le spese sulla difesa, lamentando l’impossibilità di poterlo fare finché non sarà chiusa la procedura di infrazione per deficit eccessivo. Ha accettato di buon grado la decisione dell’ultimo vertice dell’Aja, salvo dover fare i conti con i mal di pancia dell’alleato leghista. “È uno sforzo insostenibile”, aveva commentato a caldo il responsabile economico del partito Alberto Bagnai. Ieri la svolta improvvisa del leader Matteo Salvini: “Con buon senso e nel tempo” l’obiettivo del 5 per cento del Pil per la difesa entro il 2035 “è realizzabile”. Per raggiungere quella soglia il governo deve aumentare di 1,5 punti la spesa per truppe e armamenti, altrettanto per la più generica voce infrastrutture per la difesa. “Questo ha un senso”, dice il leader del Carroccio “il non senso sarebbe metterci fretta rispettando le norme europee del Patto di stabilità per andare a comprare armi in Francia e Germania”. Del discorso di Salvini è chiaro un passaggio, che può essere tradotto così: se mi si chiede di accettare l’aumento della spesa militare, almeno vada all’industria nazionale. Fin qui un altro esponente del Carroccio - il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti - ha posto il problema in termini diversi. Parlando a inizio giugno a un forum del settore, ha detto che “la difesa viene riconosciuta come un bene comune europeo”, dunque “si apre la strada a forme di finanziamento comuni”. Dipendesse da lui, la strada da percorrere dovrebbe essere quella dei progetti condivisi, evitando così il paradosso di un continente che spende - lo ha stimato l’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli - il 5,8 per cento in più della Russia senza avere né un esercito comune, né la forza di Mosca. Per il momento Giorgetti e chi la pensa come lui deve fare i conti con un’Unione che ha scelto di dedicare solo 150 dei 750 miliardi del piano “Rearm Europe” a progetti comuni. C’è chi è convinto di qui alla fine dell’anno la Commissione europea tirerà fuori dal cappello un nuovo Recovery plan dedicato alla difesa. Nel frattempo i grandi Paesi procedono in ordine sparso: la già citata Rheinmetall (che ha già stabilimenti in Italia) sta valutando la riconversione dell’ex stabilimento Volkswagen di Osnabrück, in Belgio si discute un destino simile per un ex fabbrica Audi, nel fratempo chiusa. A inizio giugno il ministro francese Sébastien Lecornu ha annunciato una partnership con Renault (di cui è azionista al 15 per cento) per produrre droni in Ucraina. Per il momento il governo Meloni ha deciso solo di rinviare al 2027 l’aumento della spesa pubblica necessaria a rispettare gli impegni con la Nato. Nel Paese europeo che registra il più basso consenso a favore di più spese militari, meno se ne parla, meglio è. L’ex fabbricante di armi: “Ho prodotto milioni di mine, ci lasciano in guerra per sempre” di Simonetta Sciandivasci La Stampa, 2 luglio 2025 Vito Alfieri Fontana, a capo della Tecnovar di Bari: “L’uscita di Kiev da Ottawa avrà un effetto a catena”. Fino ai primi anni Novanta, l’Italia è stata uno dei maggiori produttori di mine antiuomo al mondo. Il modello TS-50, il più esportato, imitato e richiesto, della produzione italiana, lo ha progettato Vito Alfieri Fontana, ingegnere e fabbricante di armi oggi in pensione, a capo della Tecnovar di Bari fino al 1993, quando chiuse, diventando la prima delle aziende italiane a dire addio a quel mercato, poco dopo la moratoria del governo contro le mine antiuomo e poco prima dell’adesione del Paese alla convenzione di Ottawa del 1997, quella dalla quale Kiev si è appena ritirata. Da allora, Fontana è passato dall’altra parte: è diventato uno sminatore a servizio della Ong Intersos, ha disinnescato migliaia di mine in Kosovo, Serbia e Bosnia. “Quando spiegai a mio figlio il mio mestiere, mi disse: papà, allora sei un assassino”, scrive in Ero l’uomo della guerra, il libro in cui racconta la sua storia e quella recente dell’industria bellica italiana, e che è uscito per Laterza due anni fa, quando le mine antiuomo, sebbene avessimo la guerra in Ucraina negli occhi, erano per noi un remoto affare per artificieri, e non l’ennesima allerta. Fontana, le mine servono? “Da un punto di vista militare, un campo minato è poco efficace: non è che un confine. Un confine ostile”. Allora perché l’Ucraina si sfila da Ottawa? “Forse c’è in vista un cambiamento governativo o un qualche accordo. Non riesco a trovare un altro motivo, visto come sta andando la guerra e visto che i campi minati dai russi, sono minati anche per i russi: sono un’insidia per entrambi gli eserciti. Contrastarli con altri campi minati vuol dire stabilizzare il fronte. Vuol dire che non si combatte più in quelle zone, e che quindi, forse, si trova un accordo. Ci saranno vittime civili, chi ha preso questa decisione lo sa”. È ipotizzabile un effetto a catena? Polonia, Lituania, Estonia, Finlandia, Lettonia hanno già espresso la volontà di tirarsi fuori da Ottawa... “Le Nazioni Unite non consentono di aiutare o finanziare progetti di sminamento nei Paesi che decidono di uscire da Ottawa. Quindi, l’Italia non potrà più supportare lo sminamento in Ucraina. Per questo un effetto valanga è probabile: si sfilerà la Germania, poi la Nato”. Un disastro... “Un disastro. Sta passando l’idea che il trattato di Ottawa sia stato fatto da quattro fricchettoni che volevano la pace nel mondo, invece fu una cosa molto seria, in tempi in cui le nazioni parlavano tra loro, stringevano accordi e sapevano che rispettarli era l’unico modo per impedire che la legge del più forte trionfasse”. Però, Usa, Israele, Cina, Russia non hanno mai aderito al patto di Ottawa... “Dal 1997 al 2007 le Ong interloquivano con la Russia, e c’erano buone speranze di ottenere una sua adesione, anche parziale, che avrebbe trascinato dentro anche la Cina. Tutto è saltato con Putin”. E gli Stati Uniti? “Sono sempre stati sordi”. Cosa ha diminuito la forza del trattato? “L’adesione non è vincolante. Ci si può sfilare quando si vuole, e così in trent’anni nessuno si è impegnato a elaborare uno strumento non letale per il controllo del territorio che fosse un’alternativa operativa alle mine”. Il fatto che costa poco produrle ma tanto rimuoverle può aver avuto un peso? “In verità, sminare non è esoso come un tempo. Una mina può costare 3 dollari, il costo dello sminamento lo deve pensare al metro quadro, e non supera i 50 centesimi al metro quadro. In più, oggi, prima di bonificare al cento per cento un’area minata si fanno saggi statistici e studi che di solito riducono la zona di intervento del 90 per cento. Siamo in grado di togliere mine alla stessa velocità con cui vengono messe: questo mi impedisce di cedere alla disperazione”. È pericoloso sminare? “La vita di tutta la squadra dipende dal comportamento di ciascun membro. Gli incidenti, quando capitano, sono il più delle volte mortali”. Ha detto di non aver mai usato antidepressivi perché le sono bastati i Balcani... “In Kosovo, nel 1999, è iniziata la mia rinascita. Ogni giorno toglievo un metro quadro alla guerra e lo restituivo alla pace: era incredibilmente appagante”. Oggi dove si producono e vendono più mine? “In India e Pakistan”. E in quali ce ne sono di più? “Al confine tra Iran e Iraq, in Polonia. In Italia ogni anno vengono rimossi dai 10 ai 15 mila ordigni della Seconda Guerra mondiale che sono potenzialmente pericolosi. L’importante non è toglierli tutti, ma ridurre l’impatto per la popolazione. Mi sono reso conto del segno che lasciano le guerre quando, in Bosnia, abbiamo bonificato un’area vicino a una fortezza medievale usata in tutte le epoche: prima le mine, poi proiettili, palle di cannone, speroni di cavalieri, frecce. La guerra è un mostro invincibile: puoi solo recintarlo affinché non morda”. C’è un ruolo delle mine nell’ecocidio? “No. Se un campo agricolo non viene curato e sfruttato per anni, ha una capacità biologica eccezionale: quando viene sminato, è ambitissimo dai contadini. Resta un tema di ecologia dell’orrore: non puoi lavorare la tua terra perché qualcuno l’ha minata”. Come creò la “sua” TS-50? “Non posso dirlo: la legge italiana non consente il trasferimento di tecnologie”. Era in grado di calibrare un ordigno affinché ammazzasse o ferisse solamente? “Dipendeva da cosa chiedeva l’esercito committente, nel mio caso italiano o egiziano: in base a quello, aumentavo o diminuivo la carica esplosiva. Era facile. Il nostro obiettivo non era l’uomo ma una piastra d’acciaio, 50 cm per 3 mm. Se dopo l’esplosione quella piastra veniva forata, la mina andava bene. Così spersonalizzavamo l’obiettivo: da essere un bimbo, diventava una piastra d’acciaio. Nella realtà, però, purtroppo, veniva colpito il bimbo”. E i soldati? “Anche, certo. Era come giocare al gatto col topo. Li immaginavo gattonare per non saltare in aria e ideavo meccanismi per prenderli in contropiede”. Che orrore... “Lo so. Non che sia una giustificazione, ma sono pensieri che hai quando devi battere una concorrenza. Io dovevo creare mine che avessero un surplus. Se avessi lavorato per un arsenale di Stato, probabilmente sarebbe stato diverso. Le armi non dovrebbero mai farle i privati: le guerre le fanno gli Stati, perché le armi le devono produrre i privati?”. Ci sono stati governi italiani più solerti nel chiedere armi? “No, tutti hanno rispettato le programmazioni quinquennali dell’approvvigionamento. E tutti si sono ugualmente adoperati per lo sminamento”. Lei crede in Dio? “Sì. Prima per forma, ora convintamente”. Dorme? “Faccio moltissimi incubi”. Stati Uniti. Trump rinchiude gli immigrati nella gabbia: è l’Alcatraz degli alligatori di Angela Napoletano Avvenire, 2 luglio 2025 La prigione sorge su una remota pista d’atterraggio nel parco nazionale delle Everglades e potrà ospitare fino a 5mila persone. Il presidente degli Usa in visita: “Fantastica”. Zanzare, pantere, pitoni, serpenti e coccodrilli. È in una palude a sud di Miami, in Florida, che è stato costruito un nuovo centro di detenzione per migranti irregolari. L’”Alcatraz degli alligatori”, così è stata soprannominata la struttura, potrà ospitare fino a 5mila persone. A inaugurarla, ieri, è stato il presidente Donald Trump che è riuscito a fare dell’ironia sullo scenario che attende gli “ospiti”: “Se volessero evadere, dovrebbero imparare a correre in questo modo per fuggire agli alligatori - ha sottolineato mimando una traiettoria a zigzag - così le loro chance di sopravvivere aumenterebbero dell’uno per cento”. L’Alcatraz subtropicale sorge su una remota pista d’atterraggio nel parco nazionale delle Everglades. Alla Florida costerà circa 450 milioni di dollari all’anno, cifra che verrà in parte rimborsata dalla Federal Emergency Management Agency. Il governatore repubblicano Ron DeSantis ha fatto ricorso ai poteri di emergenza di cui beneficiava durante la crisi migratoria dell’era Biden per requisire i terreni e accelerarne la realizzazione. Il modo in cui ha aggirando leggi e regolamenti per vederlo sorgere (quasi completo) nel giro di una settimana gli è costato accuse di abuso di potere. Nessuno Stato si è mosso con più aggressività della Florida per allinearsi alla stretta anti migratoria di Trump. DeSantis, va ricordato, è il leader repubblicano che ha sfidato Trump alle primarie del Grand Old Party incalzandolo proprio sull’immigrazione. In campagna elettorale, lo punzecchiava ricordandogli di non essere riuscito, durante il primo mandato, a mantenere una promessa:costruire a spese del Messico il muro al confine meridionale degli Usa. Il tycoon, tornato alla Casa Bianca, ha tramato dietro le quinte con i deputati locali per isolarlo. Come infastidito, così sintetizzano gli addetti ai lavori, dal suo attivismo. DeSantis, proprio in materia di deportazioni, ha cercato addirittura di intestarsi poteri tradizionalmente riservati al governo federale. Il parlamento locale gli ha opposto un raro “no” ma ha poi varato una propria legge sull’immigrazione. Ieri, all’inaugurazione del centro, Trump e DeSantis hanno ostentato piena sintonia. “Fantastico, hai fatto tutto così in fretta” si è complimentato il presidente, aggiungendo: “Hai molti poliziotti sotto forma di alligatori. Non devi neppure pagarli troppo”. Da parte sua, il governatore si è detto “felice” di lavorare con il capo del partito congratulandosi con lui per la rapidità con cui ha attuato le misure sui confini. Poco dopo, è arrivato da Washington anche il via libera del Senato alla legge di bilancio che il tycoon vuole “regalare” agli Usa per la festa del 4 luglio. Il testo è passato in neppure 48 ore. “Salvato” in extremis dal voto del vicepresidente JD Vance che ha compensato il “no” di tre ribelli. La parola finale spetta alla Camera che, così ha promesso lo speaker Mike Johnson, farà di tutto per consegnare al Paese (e alla Casa Bianca) la “Big beautiful bill” per l’Indipendenza. Medio Oriente. La Ghf è un sistema mortale, per le ong va chiusa subito di Eliana Riva Il Manifesto, 2 luglio 2025 L’Appello. Più di 170 organizzazioni umanitarie internazionali hanno chiesto la chiusura immediata delle operazioni della fondazione israelo-americana che a Gaza gestisce il meccanismo armato degli aiuti umanitari. Più di 170 organizzazioni umanitarie internazionali hanno chiesto la chiusura immediata delle operazioni della Ghf, la fondazione israelo-americana che a Gaza gestisce il meccanismo armato degli aiuti umanitari. Save the Children, Amnesty international, Medici senza frontiere, Oxfam e tantissime altre ong hanno pubblicato un comunicato congiunto per denunciare il sistema mortale della Gaza Humanitarian Foundation, che sotto la guida di un leader evangelico trumpiano controlla quattro centri di distribuzione cibo nel sud e nel centro della Striscia. Il piano, definito dalle organizzazioni “un’alternativa mortale e controllata dai militari, che non protegge i civili né soddisfa i bisogni di base”, ha causato la morte di quasi seicento persone. “I 400 punti di distribuzione che operavano durante il cessate il fuoco temporaneo in tutta Gaza - si legge nel comunicato - sono stati ora sostituiti da soli quattro siti di distribuzione controllati dai militari, costringendo due milioni di persone in zone sovraffollate e militarizzate dove affrontano spari quotidiani e omicidi di massa, mentre cercano di accedere al cibo e gli vengono negate altre forniture salvavita”. L’esercito ha confermato lunedì di aver aperto il fuoco contro i civili in attesa del cibo. Lo ha fatto a suo modo, dichiarando che in merito agli “incidenti in cui sono stati segnalati danni ai civili”, i militari a Gaza hanno ricevuto istruzioni “a seguito delle lezioni apprese”. Un mese per imparare che se si spara su una folla, finisce che le persone muoiono. Ma neanche l’evidenza empirica basta: almeno altre tredici persone sono state uccise ieri in attesa del cibo. A cui si aggiungono le decine di vittime dei bombardamenti incessanti. L’esercito ha fatto sapere di aver colpito 140 volte Gaza nella sola giornata di lunedì. Ieri almeno 65 palestinesi sono stati uccisi. 81 secondo fonti ospedaliere di Al Jazeera. A Khan Younis sono stati bombardati edifici residenziali e tende per sfollati. A Jabaliya, nel nord, i quadricotteri israeliani hanno colpito un gruppo di persone che si trovava per strada. Nel campo profughi di Maghazi gli aerei hanno bombardato l’ennesima scuola delle Nazioni unite convertita in rifugio per i profughi. L’Onu ha ricordato che l’82% di Gaza è sotto ordine di evacuazione forzata e che le strutture utilizzate dagli sfollati non possono essere prese di mira. Il presidente Usa, Donald Trump, è tornato ieri a ribadire che presto ci sarà un accordo di cessate il fuoco. Potrebbe essere annunciato durante la visita del premier israeliano Benjamin Netanyahu a Washington, la prossima settimana. Lunedì i due alleati discuteranno di Gaza e dell’intero Medio Oriente. Fonti del quotidiano israeliano Haaretz confermano ciò di cui da qualche giorno si sta parlando: in cambio del cessate il fuoco, Tel Aviv potrebbe chiedere una “compensazione diplomatica”. Ossia, accordi vantaggiosi con altri paesi del Medio Oriente. Per cominciare, il patto di normalizzazione con l’Arabia saudita, una formalizzazione importantissima per Trump ma difficile da annunciare con l’attacco a Gaza ancora in corso. Non solo, però, l’allargamento degli Accordi di Abramo. Sarebbe in gioco anche il mantenimento delle aree occupate in Siria. Sappiamo che l’autoproclamato presidente siriano Ahmad Sharaa ha chiesto a Trump di convincere lo stato ebraico a ritirarsi dai territori nazionali. Ma Tel Aviv vorrebbe rimanere almeno sulle alture del Golan siriano occupato e il tycoon potrebbe permetterglielo, in un quadro di “compensazione” per la fine dei bombardamenti sulla Striscia. Rimane lo scoglio del cessate il fuoco permanente. Hamas, questa volta, non si accontenta di una promessa vaga, come quella che Netanyahu si è rimangiato il 17 marzo, quando ha rotto la tregua. Ma la libertà di riprendere gli attacchi dopo il rilascio degli ostaggi sarebbe l’unica cosa, insieme alla “compensazione diplomatica”, in grado di tenere a bada gli alleati di governo più estremisti. Il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir e quello delle finanze, Bezalel Smotrich, sono tornati a dichiarare pubblicamente che gli attacchi a Gaza non devono terminare. Netanyahu si sarebbe detto disponibile a essere più flessibile su alcune clausole dell’accordo se avrà il via libera sulla ripresa dei combattimenti. In Cisgiordania, intanto, ieri sono stati uccisi altri due palestinesi, tra cui un ragazzo di 15 anni. Dal 7 ottobre 2023 Israele ha ammazzato mille persone nel territorio palestinese occupato.