Carceri, l’emergenza infinita che il Governo non vede di Enrico Cicchetti Il Foglio, 29 luglio 2025 Affollamento record, caldo insopportabile e suicidi in aumento. La vera emergenza è ora, e riguarda lo stato di diritto. Il rapporto di Antigone. C’è un’Italia che continua a restare fuori dal dibattito politico, eppure racconta meglio di altre l’idea che lo stato ha di sé: le carceri. L’ultimo rapporto di Antigone - presentato con un titolo che è già una dichiarazione d’intenti: “L’emergenza è adesso” - restituisce l’immagine di un sistema penitenziario al collasso. I numeri sono implacabili: 62.728 detenuti a fronte di 51.276 posti regolamentari. Ma di quei posti, più di 4.500 sono indisponibili. Significa che in realtà il tasso di affollamento sfiora il 134 per cento e, in alcuni istituti, tocca picchi che sfidano la decenza: 190 per cento a San Vittore, Foggia, Lodi e Regina Coeli. Non è solo questione di cifre. È la fotografia di vite compresse in spazi che non garantiscono nemmeno i 3 metri quadrati a testa stabiliti dalla Corte di Strasburgo come soglia minima per non scivolare nella tortura. È l’immagine di celle a 37 gradi d’estate, con ventilatori venduti a pagamento e accessi limitati all’acqua. È la descrizione di un regime chiuso - il 60 per cento dei detenuti passa gran parte della giornata recluso in cella - che trasforma la pena da afflittiva a insopportabile. Il governo risponde, come sempre, con annunci edilizi: 7.000 nuovi posti entro fine anno. Peccato che nell’ultimo anno ne siano stati realizzati appena 42. Nel frattempo i letti reali diminuiscono e le carceri minorili, gonfiate dal decreto Caivano, esplodono: un aumento del 50 per cento in meno di tre anni. A pagarne il prezzo sono ragazzi spesso in attesa di giudizio, che dormono su materassi a terra e vedono crescere il consumo di psicofarmaci. La sanità penitenziaria non se la passa meglio: il 14 per cento dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, un quinto assume psicofarmaci, ma in 29 istituti il medico di notte non c’è. Gli atti di autolesionismo sono 22 ogni 100 detenuti; i suicidi, 45 dall’inizio dell’anno. È un bollettino di guerra che riguarda soprattutto i più fragili: giovani, senzatetto, persone con disturbi psichiatrici. E nel resto d’Europa? L’Italia non è sola nel confrontarsi con problemi penitenziari, ma si distingue in negativo. Secondo i dati del Consiglio d’Europa, il nostro paese ha uno dei più alti tassi di sovraffollamento penitenziario tra gli stati membri. La media europea si attesta intorno al 90 per cento, con Francia e Belgio poco sopra la soglia critica del 100 per cento, ma è in Italia che l’emergenza è ormai strutturale. Non solo: mentre Germania, Olanda e paesi nordici hanno investito da tempo in misure alternative e in forme di giustizia riparativa, da noi la reclusione resta il default. In Norvegia, un detenuto ha in media 10 metri quadrati di spazio, accesso costante a istruzione, lavoro, contatti con l’esterno. In Italia, in molti istituti, non si riesce nemmeno a garantire il diritto alla doccia quotidiana. Eppure, come ricorda Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, le alternative esistono e sono sempre le stesse. Ci sono quasi 24 mila detenuti con pene residue sotto i tre anni: potenzialmente idonei a misure esterne, che però restano sottoutilizzate. Il nuovo disegno di legge del governo - detenzione domiciliare in comunità terapeutica per tossicodipendenti con pene fino a otto anni - suona come apertura, ma nasconde un paradosso: sostituisce l’affidamento in prova (più aperto, più rieducativo) con una misura comunque detentiva. Il garantismo non è buonismo: significa chiedersi se la pena serve davvero a ridurre il reato o solo a moltiplicare rancore e recidiva. Il punto politico è qui. L’esecutivo costruisce nuovi reati e annuncia nuove carceri, mentre sarebbe opportuno valutare una strada diversa, scrive l’ong: ridurre l’isolamento, aumentare i contatti con l’esterno, usare la tecnologia per tenere i detenuti dentro il tessuto sociale invece che tagliarlo. Non è utopia: è la Costituzione, quella che parla di pena come “rieducazione” e non come vendetta. La vera emergenza - conclude Antigone - non è domani, è ora. Ed è la misura del nostro stato di diritto: come trattiamo chi non ha più diritti, o pensa di non averne. Le carceri, oggi, dicono che quella misura l’abbiamo smarrita. Carceri abbandonate al caldo e nella puzza. Dal dl Nordio in poi il sovraffollamento è peggiorato di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2025 Un anno fa il ministro Nordio aveva presentato il Decreto Carceri: “Un passo molto importante, un rimedio al sovraffollamento carcerario”. Oggi abbiamo 1.248 detenuti in più. È stato reso pubblico stamattina il consueto rapporto di metà anno sulle carceri dell’associazione Antigone, frutto delle visite effettuate con il nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione nei primi sei mesi dell’anno. Quello che abbiamo visto con i nostri occhi fatica a emergere dai numeri. Celle minuscole dove vivono sei persone nel caldo più rovente, puzza di spazzatura in putrefazione che toglie il respiro, acqua corrente che manca. “Per il caldo torrido siamo costretti a buttare ogni giorno alimenti che non riusciamo a consumare, rischiando tutti i giorni una intossicazione alimentare”, ci scrivono alcuni detenuti. “Un detenuto, nella disperazione più totale”, ci racconta l’operatrice di un nostro sportello in carcere al termine dei colloqui, “ha dovuto tagliare i fili della TV per attaccarli al ventilatore; ventilatore che quasi nessuno ha”. E nella lettera di una mamma leggiamo: “Salve distinta associazione, mi rivolgo a voi con il cuore in mano di una madre e di una intera famiglia distrutta dal dolore. Mio figlio è in carcere da circa 3 settimane ed è affetto da disturbi psichici conseguenti all’uso di sostanze stupefacenti. Non può uscire in cortile, se non 2 ore alla settimana e la sua situazione di salute sta peggiorando. Ha solo 22 anni”. Disattenzione per i bisogni individuali anche dei più fragili, impossibilità di dare un senso al tempo trascorso in carcere. Se l’istituzione viola sistematicamente le leggi che dovrebbero governarla, come può insegnarne il rispetto? La legge penitenziaria garantisce un minimo di quattro ore d’aria giornaliere. Quei corpi che incontriamo in carcere durante le nostre visite sono spesso chiusi in cella quasi l’intera giornata. La legge prevede un minimo di spazio vitale a persona, ma la realtà è ben lontana. Su 189 carceri per adulti, solo 31 non soffrono oggi di sovraffollamento. In 62 istituti il tasso di affollamento supera il 150%, in otto supera il 190%. Il governo continua a prendere e annunciare misure senza senso e senza efficacia. Un anno fa il ministro Nordio aveva presentato il cosiddetto Decreto Carceri affermando che “è un passo molto importante, ci porta molto avanti nel reinserimento sociale ed è un rimedio al sovraffollamento carcerario”. Oggi abbiamo 1.248 detenuti in più di allora, le persone in cella vivono nell’abbandono, i suicidi sono stati 45 e non accennano a fermarsi. Lo scorso 22 luglio il Consiglio dei Ministri ha approvato una serie di misure, anche queste vendute come la soluzione a tutti i mali del carcere. Ma chi conosce la materia sa che dietro quelle parole si cela il vuoto. L’ampliamento delle telefonate concesse ai detenuti era già presente nel decreto dello scorso anno e la corrispondente modifica regolamentare sarebbe dovuta essere disposta entro sei mesi dalla sua entrata in vigore: non ne sono stati capaci, ha vinto l’inerzia, e quel che doveva essere compiuto sei mesi fa è oggi annunciato da Nordio come fosse una novità. La detenzione domiciliare in comunità terapeutica per detenuti tossicodipendenti è già prevista dal nostro ordinamento e la nuova aggiunta non migliorerà la situazione. La depenalizzazione del consumo di droga è la sola strada per risolvere il problema. Infine, il piano governativo di edilizia penitenziaria è la solita presa in giro. Ne parlava Berlusconi nei primi anni Duemila e da allora in tanti hanno promesso la costruzione di nuove carceri. Ma nessuno c’è mai riuscito. Troppe “mani nelle tasche degli italiani” bisogna infilare per costruire galere, riempirle di personale, pagare le utenze, manutenerle, farle funzionare. Non amo usare questo argomento, perché credo che una società sana debba usare il carcere in maniera residuale non in quanto costituisce una spesa ma in quanto non è la risposta adatta alla povertà, alla tossicodipendenza, all’immigrazione, al disagio psichiatrico. Ma essendo uno dei pochi argomenti che il governo sembra intendere, allora chiudiamo su questi due numeri. La legge di conversione del già citato decreto del luglio 2024 istituì un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, in carica fino al 31 dicembre 2025. Nordio annunciò la realizzazione di 7.000 nuovi posti. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro commentò che tutto questo è “la dimostrazione che non serviva uno svuotacarceri, ma un piano di edilizia penitenziaria”. Bene: a distanza di un anno l’aumento ufficiale dei posti detentivi è pari a 42 unità. Da oggi alla fine dell’anno andrebbero dunque realizzati i restanti 6.958 posti previsti. E, si badi, parlo di posti ufficiali, quelli scritti sulla carta, tra i quali però compaiono tante sezioni chiuse perché necessitanti manutenzioni che non vengono effettuate. Se guardiamo ai posti realmente disponibili, la capienza del sistema penitenziario è diminuita nell’ultimo anno di 394 unità. E mentre il governo continua a mentire, in carcere si muore: di caldo, di abbandono, di mancanza d’aria, di assenza di speranza, di disperazione. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone Edilizia penitenziaria, una storia di ricorsi e propaganda di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 29 luglio 2025 Sull’edilizia penitenziaria con un buon fact-checking sarebbe facile smontare la propaganda estiva che lo circonda. “Non si respira e la situazione sta diventando insostenibile. Dovreste venire a vedere in che condizioni viviamo”. È una delle testimonianze presenti nell’ultimo rapporto di Antigone. Il sovraffollamento non è una calamità naturale. È l’esito di politiche penali e penitenziarie stratificatesi nel tempo. Politiche securitarie, per certi versi classiste (si pensi alle norme che puniscono il vagabondaggio). Le statistiche criminali non giustificano la crescita della popolazione detenuta. Detto questo in premessa, la storia dell’edilizia penitenziaria italiana è in un quadrilatero di inefficienze, ricorsi, propaganda, corruzione, a partire dalle carceri d’oro degli anni 80 del secolo scorso. Citare sé stessi è sempre antipatico. Così scriveva Antigone nel suo rapporto di fine luglio 2001: “Al sovraffollamento il governo italiano ha inteso rispondere solo con politiche dirette alla costruzione di nuove carceri. Infatti con la legge n. 388 del 2000 sono stati individuati 22 nuove carceri da realizzare (tra cui San Vito al Tagliamento). Va detto che contestualmente con decreto del 30 gennaio 2001 il ministro della Giustizia ha individuato 21 istituti da dismettere. Coincidono con quelli nuovi, in più vi sarebbe il solo carcere di Pinerolo”. Teniamo in mente questi due luoghi, Pinerolo e San Vito al Tagliamento. A Pinerolo non è mai stato costruito alcun carcere e le carte del vecchio istituto sono oggi all’interno del bellissimo museo della memoria carceraria di Saluzzo, fortemente voluto dal prof. Claudio Sarzotti. San Vito, invece, è parte della propaganda del nuovo Governo. Così si legge in un comunicato del ministero dei Trasporti dello scorso 22 luglio, a un quarto di secolo della legge voluta dal governo Amato del 2000 che ne prevedeva la costruzione: “Il piano carceri del governo è diventato realtà…Si tratta di un risultato rilevante, fortemente voluto dal vicepremier e ministro Matteo Salvini. Particolarmente significativi sono gli interventi di manutenzione del carcere di Forlì e di costruzione del carcere di San Vito al Tagliamento”. Di vero e proprio modello ha parlato il ministro Nordio. Così, invece, scriveva Antigone nel 2024: “Dalla Relazione del ministero della Giustizia del 2023 apprendiamo che di nuove carceri non si parla quasi più. Unica eccezione il riferimento al “nuovo istituto di Pordenone in località San Vito al Tagliamento”, che viene però collocato “in un orizzonte temporale più ampio (un quinquennio)”, e del quale si parla già dagli anni 90 del secolo scorso, con gare d’appalto finite davanti al Tar e assegnazioni dei lavori poi revocate”. Un’operazione che forse prima o poi andrà in porto, ma che non ha nulla a che fare con l’emergenza sovraffollamento. Il governo ha parlato anche di container (la parola fa rabbrividire) da costruire in carceri come Rebibbia a Roma o Bollate a Milano, così snaturandole. Questo piano edilizio governativo, a cui non è stato associato un piano simmetrico di assunzioni, va anche contro il personale di Polizia Penitenziaria, la cui sofferenza è nel numero crescente di suicidi. Sull’edilizia penitenziaria con un buon fact-checking sarebbe facile smontare la propaganda estiva che lo circonda. Infine, tutti dobbiamo interrogarci su cosa significhi l’espressione ‘valorizzazione di carceri storiche’ di cui hanno parlato fonti governative. Ha il sapore della trasformazione di Regina Coeli e San Vittore in luoghi commerciali. Come i numeri dell’ultimo rapporto di Antigone testimoniano (tasso di affollamento del 134% tra i più alti in Europa, 45 suicidi nel 2025), avremmo bisogno di provvedimenti urgenti e sistemici: un indulto di due anni generalizzato, divieto di ingresso in carcere se non c’è posto regolamentare (proposte D’Elia e Magi), nuovo regolamento penitenziario nel nome dell’innovazione e dell’umanizzazione (basterebbe riprendere la proposta elaborata dal prof. Marco Ruotolo e non portata avanti dal governo Draghi). E ci vorrebbe anche un’autorità nazionale garante delle persone private della libertà indipendente che faccia (così come accadeva al tempo di Mauro Palma) l’autorità nazionale garante delle persone private della libertà indipendente. *Presidente dell’Associazione Antigone Minori in carcere, il 50% in più in 3 anni: crescono i dati e crollano i diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2025 Il decreto Caivano ha fatto saltare un sistema, considerato un modello. Il rapporto di Antigone fotografa un sistema al collasso: sovraffollamento al 134%, 45 suicidi in 7 mesi, celle con temperatura fino a 37 gradi e fallimenti dei decreti carcere. Detenuti in aumento, carceri minorili più affollate, condizioni di vita peggiorate. Crescono proteste, suicidi e denunce per trattamenti inumani. A raccontarlo è il nuovo rapporto di metà anno di Antigone, “L’emergenza è adesso”, che si apre con la voce di una madre: “Mio figlio è in carcere da tre settimane, ha disturba psichici. Può uscire in cortile solo due ore a settimana e la sua salute peggiora. Ha solo 22 anni”. È una delle tante testimonianze raccolte durante le 86 visite compiute nell’ultimo anno. Il titolo parla chiaro: il sistema penitenziario è al collasso, tra sovraffollamento, degrado crescente e un numero di suicidi che resta altissimo. A fine giugno 2025 i detenuti erano 62.728, a fronte di una capienza di 51.276 posti, che scende a 46.717 per inagibilità o lavori. Il tasso di sovraffollamento è del 134,3%: circa 16mila persone senza letto regolare. “Sono 62 gli istituti sopra il 150% di affollamento, 8 superano il 190%”, si legge nel rapporto. I casi peggiori: San Vittore femminile (236%), Foggia (214%), San Vittore maschile (213%). Solo 31 istituti su 190 sono sotto la soglia. Ma dietro i numeri ci sono le vite: “Siamo in celle da sei, con uno o due ventilatori. Non si respira. Negli uffici ci sono i pinguini, nelle sezioni il caldo è asfissiante”, racconta un operatore. Il dramma delle carceri minorili - Il sistema penitenziario minorile vive una crisi senza precedenti. Al 15 giugno 2025 sono 586 i giovani detenuti nei 17 Istituti Penali per Minorenni d’Italia, un aumento del 50% rispetto ai 392 dell’ottobre 2022, quando si insediò l’attuale governo. Per la prima volta nella storia, 8 istituti su 17 soffrono di sovraffollamento. Le condizioni sono drammatiche: “Abbiamo trovato materassi a terra, condizioni igieniche estremamente degradate, celle chiuse quasi l’intera giornata e assenza di attività significative, perfino quelle scolastiche”, denuncia Antigone. Spesso non vengono garantite nemmeno le ore d’aria previste dalla legge, mentre è molto elevato l’utilizzo di psicofarmaci. Dei 586 giovani detenuti, 355 (oltre il 60%) sono minorenni, percentuale che in passato era invertita prima del decreto Caivano. Tra questi, 53 sono infraquindicenni e 302 hanno tra i 16 ei 17 anni. Il 63,5% delle presenze riguarda persone senza sentenza definitiva, quindi presunte innocenti. Tale percentuale vendita quasi all’80% considerando i soli minorenni. I detenuti stranieri sono 275, il 46,9% del totale, di cui il 76% proviene dal Nordafrica ed è costituito sostanzialmente da minori non accompagnati. La crescita si è registrata soprattutto dopo l’entrata in vigore del decreto Caivano nel settembre 2023, che ha allargato la custodia cautelare per i minorenni e ristretto l’accesso alle alternative al carcere. Preoccupante anche il dato sui trasferimenti: nella prima metà del 2025 sono stati 91 i ragazzi trasferiti a strutture per adulti al compimento della maggiore età, quasi il doppio rispetto al periodo pre-Caivano, interrompendo così il percorso educativo. Il caldo che uccide - L’estate 2025 sta mettendo a durissima prova il sistema penitenziario italiano. Le temperature all’interno delle celle raggiungono i 37 gradi nei piani più alti di San Vittore, mentre i ventilatori - quando ci sono - costano 30 euro l’uno, una cifra spesso fuori portata per chi non ha mezzi propri. “Per il caldo torrido siamo costretti a buttare ogni giorno alimenti che non riusciamo a consumare, rischiando tutti i giorni un’intossicazione alimentare”, racconta un detenuto. La situazione è talmente critica che anche il personale penitenziario ne risente: “Le operatrici dello sportello sono dovuti uscire dalla stanza dei colloqui perché non riuscivano a respirare”, si legge nel rapporto. E quando l’acqua corrente è disponibile solo in alcune ore del giorno, la disperazione porta a gesti estremi: “Un detenuto ha dovuto tagliare i fili della Tv per attaccarli al ventilatore”. Il problema dello spazio vitale rimane critico: nel 35,3% degli istituti visitati da Antigone ci sono celle che non garantiscono i 3 metri quadri a persona previsti dalle normative europee. Una percentuale in aumento rispetto al 28,3% dell’anno precedente. “Non è questo il modo in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo calcola lo spazio disponibile nelle celle”, sottolinea il rapporto, spiegando che l’amministrazione penitenziaria usa criteri di calcolo diversi da quelli dei tribunali italiani ed europei. Il risultato è che migliaia di persone vivono in spazi inadeguati, spesso senza docce nelle celle, senza acqua calda e con servizi igienici al di sotto degli standard minimi. Il dramma dei suicidi e la repressione - Dall’inizio del 2025 al 25 luglio sono 45 le persone che si sono tolte la vita in carcere. Tra le vittime, due donne, 22 stranieri (quasi la metà), il più giovane aveva 20 anni. “Molti suicidi sono avvenuti nelle fasi delicate dell’ingresso e del fine pena”, osserva Antigone. “17 persone si sono tolte la vita dopo una breve permanenza in carcere, 5 erano detenute da pochi giorni”. Gli atti di autolesionismo sono cresciuti a 22,3 ogni 100 detenuti (contro i 17,4 dell’anno precedente), i tentati suicidi da 2,3 a 3,2 ogni 100 detenuti. La disperazione trova sfogo nelle proteste, che continua nonostante l’introduzione del nuovo reato di “rivolta penitenziaria” (fino a 8 anni di reclusione). “La minaccia di sanzioni non ha avuto effetto deterrente”, nota il rapporto, “confermando che l’inasprimento delle pene non riduce i reati”. Le rivolte del 2025 vanno da quella di Genova Marassi, dove un centinaio di detenuti ha protestato per difendere un compagno seviziato, a quelle di Spoleto, Terni, Brissogne, Como, Prato, Rieti e Rebibbia. Politiche governative fallimentari - Antigone è durissima: “L’attuale governo è privo di strategie efficaci per affrontare i problemi delle carceri”. Il “decreto Carceri” del luglio 2024 è fallito: invece di diminuire, le protezioni sono aumentati di 1.248 unità in un anno, mentre l’elenco delle strutture per il reinserimento sociale non è mai stato adottato. Anche la promessa di costruire nuove carceri si rivela illusoria: la capienza ufficiale è cresciuta di soli 42 posti in un anno, mentre quelli effettivamente disponibili sono diminuiti di 394 unità per inagibilità. I numeri certificano il fallimento: secondo il Cnel, il tasso di recidiva è al 68,7%, ma può scendere al 2% per chi ha avuto opportunità di inserimento professionale. Al 31 dicembre 2021, solo il 38% dei detenuti era alla prima esperienza, il 62% era già stato incarcerato almeno una volta. Anche il personale penitenziario vive una crisi: manca l’8,7% degli agenti previsti, con un rapporto di 2 detenuti per ogni agente, contro l’1,5 teorico. Gli educatori sono 935 contro i 1.040 necessari, con una media di 66,7 detenuti per operatore. Una spirale senza fine - Il rapporto Antigone documenta come il governo ha risposto alle emergenze sociali con una strategia meramente repressiva, introducendo 14 nuovi reati e inasprendo le pene esistenti. Dal decreto Rave al decreto Caivano, dal decreto Sicurezza alle nuove norme sui reati contro gli animali, l’approccio è sempre lo stesso: più carcere per tutti. “Il sovraffollamento è conseguenza diretta degli interventi repressivi del governo”, denuncia l’associazione. Un circolo vizioso che alimenta sé stesso: più repressione significa più detenuti, più detenuti significano condizioni peggiori, condizioni peggiori generano più violenza e proteste, che vengono represse con nuovo carcere. Le misure alternative, che coinvolgono oltre 100mila persone, dimostrano che esistono alternative credibili. Ma servono investimenti e volontà politica per svilupparle. L’emergenza non è più rimandabile: le carceri del nostro Paese hanno bisogno di una riforma che rimetta al centro la dignità umana e la funzione rieducativa della pena. Carceri fuori controllo, l’emergenza ignorata di un Governo senza strategie di Marika Ikonomu Il Domani, 29 luglio 2025 Il tasso di affollamento nazionale è al 134,3 per cento, ma in 62 istituti supera il 150 per cento e in otto strutture il 190 per cento. La ricerca raccoglie i risultati di 86 visite in 12 mesi. Negli istituti per minorenni dall’insediamento dell’esecutivo le presenze sono aumentate del 50 per cento, complice il decreto Caivano: “Negli Ipm ragazzi in stato di abbandono” e “condizioni di vita degradate”. Venite a vedere le condizioni in cui viviamo. È la richiesta di una persona a colloquio con lo sportello di Antigone, che racconta di una quotidianità “insostenibile” in carcere, in “celle da sei con uno o due ventilatori”, dove “non si respira”. Le testimonianze raccolte dall’associazione restituiscono un sistema penitenziario arrivato al collasso, “fuori controllo”, in cui “aumentano le persone detenute, peggiorano le condizioni di vita, si moltiplicano le proteste, i suicidi e le segnalazioni di trattamenti inumani”. Il rapporto di metà anno dell’associazione Antigone “L’emergenza è adesso”, risultato di 86 visite negli istituti penitenziari negli ultimi 12 mesi, dipinge il quadro di un’emergenza ignorata, che - spiega il presidente Patrizio Gonnella - “non si affronta con nuove carceri, ma con coraggio politico, depenalizzazione, misure alternative credibili e rispetto per la dignità umana”. Un rispetto che, secondo un’altra testimonianza, non esiste: “Mi rivolgo a voi con il cuore in mano di una madre e di una intera famiglia distrutta dal dolore. Mio figlio è in carcere da circa 3 settimane ed è affetto da disturbi psichici conseguenti all’uso di sostanze stupefacenti. Non può uscire in cortile, se non 2 ore alla settimana e la sua situazione di salute sta peggiorando. Ha solo 22 anni”. Gli Ipm - È con il governo Meloni che gli istituti penitenziari minorili hanno raggiunto il sovraffollamento, almeno 8 su 17 istituti. Soprattutto, scrive Antigone, a causa del decreto Caivano, entrato in vigore nel settembre 2023: da un lato ha aumentato le possibilità di custodia cautelare per i minorenni, dall’altro ha ristretto l’accesso alle alternative al carcere. I numeri sarebbero stati ancora più alti se alcuni minori, diventati nel frattempo maggiorenni, non fossero stati trasferiti nelle carceri per adulti, “interrompendo il percorso educativo” e impedendo loro di scontare la pena negli Ipm fino ai 25 anni, come prevede la legge. Al 15 giugno 2025, i giovani detenuti erano 586, di cui 23 ragazze, reclusi in 17 istituti e una sezione. Quest’ultima è stata aperta a Bologna nel carcere per adulti: una decisione “estremamente preoccupante”, denuncia l’associazione, perché va “a rompere in maniera mai accaduta prima il principio della distinzione tra la risposta penale rivolta agli adulti e quella rivolta ai ragazzi”. L’aumento delle presenze è del 50 per cento rispetto a ottobre 2022, quando si è insediato l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Allora le carceri minorili ospitavano 392 persone. Oggi invece Antigone racconta di materassi a terra, celle chiuse, assenza di attività persino quelle scolastiche, spesso senza la garanzia delle ore d’aria e un elevato uso di psicofarmaci. Tre detenuti su cinque sono minorenni. Il 63,5 per cento sono giovani senza una sentenza definitiva e, quindi, presunti innocenti. Il sistema della giustizia minorile è in crisi e per questo Antigone, insieme a Libera e Defence for Children Italia, ha lanciato un appello per denunciare “lo stato di abbandono che colpisce i ragazzi in Ipm” e “le condizioni di vita degradate”. Senza strategie - Una cosa è certa per l’associazione. Il governo “è sostanzialmente privo di strategie efficaci per affrontare i problemi delle carceri italiane”, a partire dai provvedimenti più recenti. Le carceri stanno scoppiando: il tasso di affollamento nazionale è al 134,3 per cento, ma in 62 istituti supera il 150 per cento. Soprattutto, supera il 190 per cento in ben otto strutture: tra questi, Milano San Vittore femminile, 236 per cento, Foggia, al 214, Milano San Vittore maschile (213), Lodi (205). Gli istituti non sovraffollati sono ormai solo 31. Di fronte a questi numeri, la soluzione per l’associazione “non può essere la costruzione di nuove carceri, ma deve piuttosto passare per un uso differente dello strumento detentivo”. Recludere deve essere, lo dicono anche gli organismi internazionali, uno strumento di extrema ratio. E, per Antigone, nessuno dei provvedimenti adottati è in grado di far fronte alla situazione. Quello che per il ministro della Giustizia Carlo Nordio era “un passo molto importante” che ci avrebbe portato “molto avanti nel reinserimento sociale” e avrebbe costituito “un rimedio al sovraffollamento carcerario”, così non è stato. Se il decreto del 4 luglio 2024 prevedeva l’istituzione di un elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale, questa lista non è ancora stata adottata. L’idea di mandare i detenuti stranieri a scontare la pena nel loro paese d’origine - non originale, perché proposta da molti in passato - violerebbe “in maniera inaccettabile i loro diritti fondamentali”. E, poi, i 7mila posti in più annunciati da Nordio: “Un programma imponente”, che sarà “realizzato speditamente”. Invece, al 30 giugno 2024 i posti ufficiali erano 51.234, un anno dopo sono 51.276: 42 in più, a fronte di 394 posti effettivi in meno. In sei mesi il governo dovrebbe realizzare i restanti 6.958 posti. Il piano edilizia illustrato dal commissario del governo è “sbagliato e irrealistico”, segnala Antigone. Infine, lo scorso 22 luglio il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge con cui propone di introdurre la detenzione domiciliare in comunità terapeutica per detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti con un residuo di pena fino a otto anni. Ma, fa notare il rapporto, esiste già la misura dell’affidamento in prova (alternativa alla detenzione) per questi detenuti con un residuo pena fino a sei anni, “tuttavia, le carceri sono piene di detenuti tossicodipendenti con residui pena ben più bassi”. La misura varata dal governo non riuscirà quindi a migliorare la situazione, anzi, avrà sacrificato una misura più aperta. Dunque, l’unica strada è “la depenalizzazione del consumo di droga”. Interventi repressivi - Il sovraffollamento è conseguenza diretta delle misure repressive e securitarie con cui il governo Meloni ha risposto agli eventi di cronaca, colpendo le fasce più vulnerabili della popolazione. Dal decreto Rave, a Cutro, al ddl sulla maternità surrogata e il decreto Caivano, o ancora il decreto Sicurezza con cui sono stati introdotti 14 nuovi reati e inasprite alcune aggravanti. Al contempo, “nonostante la crescita delle misure alternative e di comunità”, si legge, “la loro applicazione risulta ancora fortemente sottodimensionata rispetto al potenziale”. Al 15 giugno le persone in carico all’Ufficio per l’esecuzione penale esterna erano 100.639, 10mila in più rispetto al 2024. Condizioni di vita degradanti - “Il caldo era asfissiante”, mentre “negli uffici ci sono i pinguini”. Un’altra testimonianza raccolta da Antigone mostra condizioni allarmanti: “La puzza di spazzatura è tremenda anche perché, in attesa che la ritirino, la lasciano nei corridoi”, in una sezione “l’acqua corrente è disponibile solo in alcune ore del giorno” e “un detenuto, nella disperazione più totale, ha dovuto tagliare i fili della tv per attaccarli al ventilatore”. Nell’oltre 35 per cento degli istituti visitati c’erano celle in cui non vengono assicurati i 3 metri quadri a testa di spazio calpestabile. La mancanza dello spazio vitale in cella ha portato l’Italia a essere condannata più volte per trattamento inumano e degradante, dai suoi stessi tribunali. A rendere la situazione ancora più insostenibile e “incandescente”, come ogni anno, è l’arrivo dell’estate, “un periodo particolarmente complesso per le persone detenute”, spiega Antigone: molte attività vengono sospese e la solitudine viene percepita in maniera ancora più forte; e le temperature all’interno delle strutture sono spesso estreme. Come a San Vittore dove nei piani più alti sono stati raggiunti 37 gradi. E, “a fronte del caldo torrido la custodia chiusa appare un accanimento intollerabile”. Ciò ha portato a undici suicidi nei soli mesi di giugno e luglio. In tutto, il dossier di Ristretti Orizzonti ne ha contati 45 dall’inizio dell’anno. Quasi il 70 per cento è avvenuto in sezioni a custodia chiusa, almeno quattro in celle di isolamento. Ogni cento detenuti ci sono 3,2 tentativi di suicidio. Il Governo sta rendendo le carceri minorili più simili a quelle per adulti di Luca Sofri ilpost.it, 29 luglio 2025 La giustizia minorile italiana è stata a lungo considerata un’eccellenza: dopo il decreto Caivano le cose stanno cambiando. Dal 2022 a oggi, cioè da quando si è insediato il governo di Giorgia Meloni, il numero di giovani detenuti nelle carceri minorili in Italia è aumentato del 50 per cento: secondo dati aggiornati al 15 giugno dell’associazione Antigone, che si occupa di diritti delle persone detenute, sono 586 (quasi tutti uomini: solo 23 sono donne). Prima dell’insediamento del governo di Meloni erano 392. Anche se tecnicamente si chiamano “Istituti penali per minorenni” (IPM), nelle carceri minorili italiane non ci sono solo minorenni: al momento quelli che hanno meno di 18 anni sono 355, circa il 60 per cento del totale. Negli IPM vengono detenute in custodia cautelare (cioè prima di aver subìto una condanna) o per scontare una pena le persone minorenni, oppure quelle fino a 25 anni che hanno commesso un reato prima di compierne 18. Secondo i dati di Antigone, attualmente in 8 dei 17 IPM italiani ci sono condizioni critiche di sovraffollamento. È un dato rilevante, mai registrato in passato secondo l’associazione: fino a prima dell’insediamento di questo governo il sovraffollamento era un problema soprattutto delle carceri per adulti. I dati di Antigone sono contenuti in un rapporto di metà anno sulle carceri diffuso il 28 luglio, realizzato anche grazie a 86 visite nelle carceri fatte dall’associazione nell’ultimo anno. Tra le molte questioni analizzate, il rapporto di Antigone descrive un grave deterioramento della giustizia minorile in Italia. È una situazione che desta più preoccupazioni di altre - pur molto problematiche - perché in Italia la giustizia minorile è stata a lungo considerata da molti giuristi un’eccellenza europea, per il modo in cui per anni si è riusciti ad applicare le pene con una funzione rieducativa e non punitiva. La rieducazione dei detenuti per favorire il loro reinserimento nella società libera sarebbe lo scopo anche delle carceri per adulti ed è un principio costituzionale (art. 27), ma la sua importanza è ancora più accentuata nelle norme che regolano la giustizia minorile. Il rapporto di Antigone certifica invece che negli ultimi anni le carceri minorili stanno venendo trasformate in qualcosa di sempre più simile a quelle per adulti, che sono a loro volta in condizioni quasi disperate. Su questa trasformazione ha avuto un impatto molto evidente il cosiddetto “decreto Caivano”, con cui nel settembre del 2023 il governo introdusse nuove misure per contrastare la criminalità minorile: prese il nome da un comune a nord di Napoli di cui in quel periodo si parlò moltissimo, per un caso di stupro ai danni di due ragazzine di 10 e 12 anni di cui erano accusati alcuni adolescenti. Il decreto Caivano ha aumentato le pene per le persone minorenni e ha reso più facile che finiscano in carcere. Tra i provvedimenti più significativi del decreto Caivano c’è infatti la riduzione delle possibilità fino a quel momento previste, per i giovani detenuti, di scontare la pena fuori dal carcere. Sono cambiate innanzitutto le regole per la custodia cautelare, cioè la detenzione ordinata dal giudice prima del processo o prima della fine delle indagini, se si ritiene che la persona indagata possa commettere altri reati, scappare o “inquinare” le prove: il decreto ha abbassato la soglia dalla quale è possibile applicare la custodia cautelare in carcere per i minori, e permette di ordinare il carcere preventivo anche per reati che prevedono pene di almeno 6 anni (prima erano 9 anni). Secondo il ministero dell’Interno, comunque, negli ultimi anni è anche aumentato il numero di segnalazioni di reati violenti commessi da minorenni, ma i problemi del decreto Caivano sono in ogni caso indipendenti da questi dati. Il rapporto di Antigone dice che il 63,5 per cento delle presenze negli IPM italiani, quindi quasi due su tre, riguarda persone prive di una sentenza definitiva, e dunque persone al momento innocenti. La percentuale sale all’80 per cento se si considerano solo i detenuti che non hanno ancora compiuto 18 anni. Il decreto Caivano ha inoltre ridotto i casi in cui si può ricorrere alla cosiddetta “messa alla prova”, un istituto che per certi reati di minore “allarme sociale” permette alla persona accusata di evitare il processo, se accetta di svolgere lavori di pubblica utilità e iniziare un percorso per eliminare le conseguenze pericolose che derivano dal reato in questione. La messa alla prova esiste sia per i minorenni che per gli adulti e vi si può accedere una sola volta. È una possibilità ritenuta particolarmente importante nella giustizia minorile, perché si addice meglio all’obiettivo di far riflettere la persona minorenne sul reato commesso e favorire la sua rieducazione. Prima dell’entrata in vigore del decreto Caivano i giudici potevano valutare caso per caso se un minorenne si dimostrava realmente pentito, e dunque recuperabile, e potevano applicare la messa alla prova e affidarlo ai servizi della giustizia minorile per un percorso rieducativo. In caso contrario il minore veniva punito con la detenzione. Ora la messa alla prova è esclusa per vari reati, anche molto diversi tra loro per gravità. Inizialmente il governo l’aveva esclusa in maniera indiscriminata sia per reati come la violenza sessuale di gruppo aggravata sia per reati meno gravi, come lo spaccio di lieve entità, ma su questa parte del decreto Caivano dal 2023 a oggi sono state sollevate varie questioni di costituzionalità. Finora la Corte ha respinto quelle sui reati più gravi, ma a inizio luglio di quest’anno ha dichiarato incostituzionale l’esclusione della messa alla prova per lo spaccio di lieve entità. Gli effetti del decreto in ogni caso si sono concretizzati in dati molto evidenti: il rapporto di Antigone dice che si è invertito il rapporto tra percentuale di giovani adulti e minorenni detenuti: oggi, come detto, i minorenni sono oltre il 60 per cento dei detenuti negli IPM italiani, e il rapporto di Antigone dice che in molti casi sono accusati di reati per cui prima dell’entrata in vigore del decreto si sarebbero potute trovare soluzioni alternative alla detenzione. Sempre secondo Antigone, nella prima metà del 2025 91 giovani detenuti sono stati trasferiti dagli IPM alle carceri per adulti, quasi il doppio di quanto avveniva mediamente prima dell’approvazione decreto Caivano. Come detto negli IPM si può restare fino al compimento dei 25 anni: è ancora così, ma il decreto Caivano ha facilitato la possibilità di trasferire i neodiciottenni nelle carceri per adulti. Basta che il comportamento dei detenuto in questione sia considerato problematico o minaccioso per la sicurezza: un criterio estremamente suscettibile di interpretazioni e in ogni caso discutibile, perché i comportamenti problematici possono essere proprio quelli che necessitano di maggiore accompagnamento. A questo proposito bisogna anche tener conto di chi sono e che storie hanno i giovani detenuti nelle carceri italiane: il rapporto di Antigone dice che il 46,9 per cento sono stranieri, per tre quarti provenienti dal Nordafrica e in gran parte minori stranieri non accompagnati, quindi persone migranti arrivate in Italia da sole, senza adulti di riferimento. Il fatto che detenuti di questo tipo vengano trasferiti nelle carceri per adulti è un problema: negli IPM esistono generalmente percorsi educativi personalizzati, volti a promuovere la socializzazione, la crescita personale, l’apprendimento e lo sviluppo di competenze. Spostare un 18enne in un carcere per adulti significa interrompere questo percorso, verosimilmente poco dopo il suo inizio (secondo i dati di Antigone, dei 586 giovani detenuti, 302 hanno tra i 16 e i 17 anni di età) e in un momento critico per la sua riuscita. Secondo Antigone, tra il 2024 e il 2025 nelle carceri per adulti si sono suicidati quattro ragazzi di 20 anni. La commistione delle carceri minorili con quelle per adulti si vede anche in alcuni fatti concreti successi di recente: quest’anno per esempio al carcere “Dozza” di Bologna, un carcere per adulti, una sezione è stata trasformata in un’area dedicata ad accogliere circa 50 diciottenni trasferiti da minorili sovraffollati. Il provvedimento, approvato dal ministero della Giustizia, aveva in teoria l’intento di continuare a cercare di dividere giovani e adulti in carcere: nella pratica la misura è molto contestata proprio perché infrange il principio della distinzione tra la risposta penale rivolta agli adulti e quella rivolta ai ragazzi, “in maniera mai accaduta prima”, scrive Antigone. Più in generale, il rapporto di Antigone descrive una situazione per cui anche negli IPM, e anche per via del sovraffollamento, le risorse prima a disposizione dei giovani detenuti sono sempre meno, con un generale peggioramento delle loro condizioni: è molto elevato l’utilizzo degli psicofarmaci, le condizioni igieniche sono spesso pessime, in vari istituti sono stati allestiti dei materassi a terra perché non bastavano i posti letto, mancano sufficienti attività formative e scolastiche per tutti e spesso non vengono garantite le ore d’aria previste dalla legge. “Il Piano carceri dell’esecutivo è spaventoso e sbagliato, serve il numero chiuso” di Luciana Cimino Il Manifesto, 29 luglio 2025 “Non è pigiando persone nei container, privandole degli spazi di socialità, che si fa reinserimento sociale. La destra idolatra la certezza della pena senza la certezza del diritto”. “Ci troviamo davanti alla bancarotta dello Stato di diritto e della democrazia”. Riccardo Magi, leader di Più Europa, giusto venerdì ha presentato una proposta di legge per il numero chiuso nelle carceri, in netta controtendenza rispetto alle politiche penitenziarie adottate dal governo Meloni. Cosa prevede? Con gli altri partiti di minoranza (eccetto il M5S) abbiamo messo sul tavolo del Parlamento una serie di strumenti di riforma del sistema carcerario che non può più essere gestito in maniera emergenziale. La nostra proposta dice che nessuno può essere incarcerato se non c’è un posto letto conforme agli standard minimi di abitabilità e alla dignità umana. In caso contrario si accede automaticamente alle misure alternative, eccetto per i reati più gravi come quelli contro la persona o ostativi. Il numero chiuso è previsto dalla legge: tutti i luoghi pubblici hanno una capienza oltre la quale non si può andare. Perché se un locale, per esempio, organizza una serata con troppa gente scatta immediatamente l’intervento della questura e per i penitenziari no? Dopo i rilievi del presidente Mattarella, l’esecutivo ha comunicato la seconda parte del suo piano carceri: costruire altri posti, anche mediante l’uso di container, nei cortili degli istituti. Con il resto delle opposizioni avete contestato questa soluzione. È spaventosa e sbagliata. Il paradigma del governo è l’implementazione delle strutture esistenti e, non solo non avrà effetti immediati (ricordo che a Rebibbia non è ancora in funzione il container in costruzione da due anni), ma è impermeabile al problema del trattamento delle persone che la destra non si pone. Si sottrarranno ai detenuti i già pochi spazi destinati alla socialità in una situazione in cui il personale è molto sottodimensionato: mancano agenti, operatori, medici, psichiatri, mediatori. Non è pigiando persone nei container che si fa trattamento e reinserimento sociale. Il ministro della Giustizia Nordio ha inserito tra le nuove misure la detenzione alternativa per le persone tossicodipendenti. Le strutture che si occupano di percorsi di recupero sono scettiche... Le norme sono state scritte in maniera confusa e sembrano voler creare un percorso di accesso alle comunità parallelo a quello pubblico o accreditato con il Servizio sanitario nazionale. Ma i servizi ci sono già, mancano le risorse. Tutto questo è inutile all’interno del percorso ideologico che segue il governo sulle droghe, che li ha portati ad aumentare le pene per i reati di lieve entità al punto da non concedere l’accesso alle misure alternative. Sulla questione degli stupefacenti, considerati tutti in un unico calderone, si segue la linea punitiva del sottosegretario Mantovani, che fu uno degli autori della legge Fini - Giovanardi. Tra decreto Caivano e decreto sicurezza sembra difficile pensare che la destra abbia una strategia contro il sovraffollamento delle carceri... Non è una calamità naturale, un’alluvione improvvisa: la situazione disumana delle celle è da anni sotto gli occhi di tutti e continua a peggiorare, come dimostra anche la fotografia impietosa che ha scattato Antigone nel suo rapporto. Questo impone un’assunzione di responsabilità delle istituzioni. Il fenomeno è esploso per norme criminogene che affrontano il dissenso e la marginalità attraverso la leva penale con la conseguenza che i ragazzini dormono per terra persino nelle carceri minorili. Oppure portano, come dimostra anche il rapporto Antigone, a una prevalenza della detenzione “sociale”: nelle celle ci stanno i poveri. Questo non è solo un approccio controproducente, è criminale. E una lesione democratica profonda che va sanata. Invece ci troviamo in una situazione folle in cui il sovraffollamento è uno dei motivi dell’illegalità del sistema italiano e il guardasigilli risponde che serve a prevenire i suicidi. Dopo il fallimento del piano carceri di un anno fa, il centrosinistra si aspettava che Nordio avrebbe accolto alcune proposte... Ci avevamo sperato ma ci deve essere stato uno scontro dentro FdI in cui ha prevalso la linea “manettara” che idolatra la certezza della pena senza la certezza del diritto: ha vinto Delmastro e ha perso Alemanno, che scrive dal carcere cose che meritano attenzione a interlocutori sordi. “Le Comunità per tossicodipendenti sono strutture di cura, non luoghi alternativi alla detenzione” di Gigliola Alfaro agensir.it, 29 luglio 2025 Il presidente della Fict Luciano Squillaci spiega cosa cambierebbe per i detenuti con tossicodipendenza nel sistema attuale se diventasse legge il ddl approvato in Cdm. Il 30 luglio il Dipartimento per le politiche antidroga ha convocato le 5 reti delle comunità terapeutiche per illustrare nel dettaglio la parte del Piano che le riguarda. Una detenzione differenziata per i tossicodipendenti e alcoldipendenti: è al centro del disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 22 luglio, tra le misure del “Piano carceri”. Degli oltre 62mila detenuti presenti nelle carceri italiane “il 31,93% ha una dipendenza da sostanze stupefacenti o alcoliche”, ha sottolineato il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel corso della conferenza stampa a Palazzo Chigi dopo il Cdm. Per il Guardasigilli, nel caso della detenzione differenziata per i tossicodipendenti, “la parola chiave è recupero. Parliamo di detenzione in strutture certificate e credibili, sostanzialmente in comunità, e di detenuti che non hanno commesso reati gravi, ma reati cosiddetti ‘minori’ e che comunque hanno una relazione con la condizione di tossicodipendenza o alcoldipendenza: scippi, furti, piccole rapine, violazioni di domicilio”. In una stima “a spanne” Nordio ha parlato di potenziali 10mila detenuti che potrebbero usufruire di queste misure, ma che la spesa attualmente sarebbe coperta per mille. Di queste disposizioni, che comunque dovranno passare al vaglio del Parlamento, parliamo con Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict). Cosa ne pensa di questo disegno di legge? Lo leggiamo come un provvedimento positivo perché c’è un’attenzione per questa fascia di detenuti. Per noi ogni giorno in più di carcere per una persona tossicodipendente è un giorno di troppo, è un giorno perduto. Il Dipartimento per le politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei ministri in collaborazione con il Ministero di Giustizia ha convocato per il prossimo 30 luglio le 5 reti delle comunità terapeutiche per illustrarci nel dettaglio la parte che riguarda i detenuti con dipendenze del Piano carcere. Una nota negativa è che sia un disegno di legge: significa che i detenuti con tossicodipendenza continueranno a passare in carcere l’estate con tutto quello che ne consegue. Cosa comporterà per le comunità terapeutiche se il ddl diventasse legge? In primo luogo, le comunità terapeutiche già dal 1990 - cioè da quando è stato approvato il decreto legislativo 309/90 che è l’attuale legge che porta avanti il sistema dei servizi privato accreditato - accolgono persone agli arresti o in detenzione domiciliare, quindi non è una novità per noi lavorare con persone che hanno provvedimenti giudiziari. Questo disegno di legge aumenta la platea degli aventi diritto perché alza ad 8 anni di pena detentiva da scontare quello che oggi è previsto a 6 anni per quanto riguarda le persone che hanno commesso reati strettamente correlati alle dipendenze. Sono esclusi tutti quei reati per così dire aggravati, cioè quelli all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, che restano nei limiti dei 4 anni di pena massima o residua da scontare. In parole povere, sostanzialmente il decreto legislativo del 1990 prevede la possibilità di andare in comunità per le persone che abbiano una pena massima di 6 anni o comunque un residuo di 6 anni da scontare. Se questo disegno di legge presentato nel Piano carceri diventerà legge, sarà aumentato a 8 anni invece di 6, quindi sicuramente c’è una buona risposta per una certa platea di persone, ma non per tutte: avrei preferito che fosse allargato anche alle persone che in qualche modo hanno commesso dei reati relativamente più importanti, ma che hanno comunque commesso questi reati perché necessitavano di soldi o perché erano all’interno di una rete di spaccio. Intanto prendiamo l’aspetto positivo di quest’ulteriore possibilità che secondo le stime aumenterebbe di circa mille persone i detenuti all’interno delle comunità. Ci sono questi posti attualmente a disposizione? Le comunità terapeutiche in questo momento per la gran parte sono già piene, nel senso che già all’interno delle comunità terapeutiche, tra persone con provvedimenti giudiziari, che ripeto accogliamo già da 35 anni, e persone libere, i posti letto accreditati sono già quasi totalmente pieni. Per cui questi ulteriori mille posti necessitano senza dubbio di nuovi investimenti anche in termini di risorse e su questo speriamo di avere qualche delucidazione il 30 luglio, quando saremo a Palazzo Chigi. Per il resto è condivisibile il ddl? Un elemento che va chiarito è che le comunità terapeutiche non sono, non possono e non debbono diventare una mera alternativa al carcere, cioè non possono essere semplicemente un posto dove sostare in attesa di scontare la pena. Le comunità terapeutiche sono servizi sanitari accreditati all’interno dei quali si svolgono percorsi terapeutici individualizzati, che ovviamente necessitano di una adesione da parte della persona, la cosiddetta “compliance”, cioè un’adesione da parte della persona al programma terapeutico. Significa che noi siamo ben lieti di accogliere persone che vengono dal carcere purché abbiano intenzione di curarsi e che non siano persone che vengono solo per non stare in carcere, che già è una motivazione, ma che ci sia perlomeno un orientamento da parte della persona di sottoporsi a un programma terapeutico. Questi elementi per noi sono basilari, non possiamo pensare alle comunità terapeutiche semplicemente come luoghi svuota carcere. Ci sono altri aspetti del ddl interessanti? Un altro fatto positivo di questo disegno di legge senza dubbio è il fatto che dovrebbero accelerarsi i tempi per la scelta della comunità ed è previsto anche per chi è sottoposto agli arresti, cioè per chi è ancora in fase cautelare. Questo crediamo che sia un aspetto importante perché le carceri in questo momento sono tutto meno che un luogo dove poter fare rieducazione, ce lo dobbiamo dire in maniera molto chiara: una persona con problemi di dipendenza che va in carcere non può che peggiorare la sua situazione e lo dimostrano i suicidi dell’ultimo anno in carcere. Pertanto, noi diamo una lettura sicuramente positiva del ddl e siamo pronti a fare la nostra parte, purché sia chiaro, lo ribadisco, che le comunità non sono luoghi alternativi alla detenzione e basta, ma mantengono quella dimensione di cura, di riabilitazione educativa che è la parte centrale del percorso di comunità e poi che ci siano le risorse per poter accogliere, perché in questo momento i posti letto e i budget che vengono utilizzati per coprire i posti letto in tutte le regioni sono deficitari. L’accompagnamento che offrite ai detenuti con tossicodipendenza è diverso da quello per gli altri che liberamente sono entrati in comunità? No, da diversi anni attiviamo i percorsi individualizzati, per cui per ogni persona il percorso è diverso, però tutta la parte degli interventi di gruppo e delle attività non ha nulla di diverso. Certo, molto spesso ci scontriamo con la miopia di alcuni tribunali, non tanto quelli di sorveglianza, che si occupano dei detenuti con provvedimento definitivo, quanto i tribunali ordinari o le corti d’appello, che si occupano di coloro i quali sono all’interno delle comunità in attesa di giudizio, in fase cautelare, agli arresti domiciliari e non in detenzione domiciliare. Per queste persone molto spesso abbiamo difficoltà a ottenere per esempio i permessi per le uscite, che per noi sono basilari perché fanno parte del percorso, le attività sportive, ludico-ricreative, le giornate a mare. Infatti, il percorso terapeutico educa al lavoro, al rispetto delle regole, ma anche al corretto utilizzo del tempo libero. Quindi spesso ci scontriamo con delle rigidità che sono legate a esigenze cautelari che francamente noi non vediamo per le persone che sono in comunità, sarebbe utile e importante che ci sia anche un intervento autorevole da parte del Ministero, ferma restando l’assoluta indipendenza dei giudici. Concluso il periodo in comunità per i detenuti, proseguite un accompagnamento? Accompagniamo queste persone nella fase del reinserimento sociale e lavorativo, abbiamo una serie di contatti, di collegamenti con imprese e società e ci muoviamo di conseguenza. Ma questo vale anche per le persone libere. Secondo noi ci dovrebbe essere una ben maggiore attenzione da parte del decisore politico proprio nella fase del reinserimento, invece non ci sono di fatto risorse, come se la parte del reinserimento sociale e lavorativo esulasse dal percorso terapeutico; al contrario è una parte fondamentale e per questo lo facciamo lo stesso. Rileggere Margara per capire l’inutilità del Piano carceri di Nordio di Giulia Melani L’Unità, 29 luglio 2025 Nove anni fa, il 29 luglio 2016, ci lasciava Alessandro Margara: giurista e magistrato di sorveglianza fiorentino, un vero maestro per molte e molti suoi colleghi più giovani. Per una stagione purtroppo troppo breve, ma comunque significativa, basti pensare al nuovo Regolamento dell’Ordinamento penitenziario, è stato Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Successivamente, Presidente della Fondazione Michelucci e, infine, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della regione Toscana. Una vita spesa per le persone detenute, tanto nella sua attività di magistrato che nel ricchissimo patrimonio di scritti, che dal 2015 si trovano raccolti nel volume a cura di Franco Corleone “La Giustizia e il senso di umanità. Antologia di scritti su opg, droghe e magistratura di sorveglianza” (Fondazione Michelucci Press), riedito in una versione ampliata nel 2022. Il 26 luglio 2025, l’Ordinamento penitenziario, la riforma che ha orientato verso il rispetto dei principi costituzionali la pena detentiva e che ha avuto tra i suoi ispiratori proprio Alessandro Margara, ha compiuto 50 anni di vita. Un compleanno in cui c’è stato ben poco da festeggiare. Il 2025 è stato e continua ad essere un anno orribile per il carcere, segnato dai numeri crescenti di un sovraffollamento sempre più insostenibile, dalle condizioni detentive disumane, dall’affermazione, con il decreto sicurezza convertito in legge l’11 giugno, di un’idea di carcere disciplinare in cui nessuna forma pacifica di protesta e manifestazione del dissenso è più ammessa, un carcere che, sempre grazie al decreto sicurezza, potrà continuare ad espandersi e potrà anche accogliere donne incinte, neonate e neonati e bimbe e bimbi piccolissimi. Un compleanno che cade, inoltre, in un luglio caldo e tremendo in cui si sono contati sei suicidi in carcere in un solo mese. Pochi giorni prima del cinquantennale dell’ordinamento, il 22 luglio, il Consiglio dei ministri ha approvato il piano carceri del sedicente garantista Carlo Nordio: un altro tassello di una politica penale e penitenziaria reazionaria e autoritaria. Il piano carceri si articola su tre principali assi: un disegno di legge che introduce una nuova forma di detenzione domiciliare per alcoldipendenti e tossicodipendenti; un pacchetto di modifiche minute al regolamento di esecuzione e un programma di edilizia penitenziaria. Nessun provvedimento di clemenza, nessuno sconto di pena, nessun ampliamento della liberazione anticipata, nessun intervento generalizzato, bensì moduli prefabbricati a occupare gli spazi esterni di prigioni già claustrofobiche, qualche colloquio in più, una procedura snellita per la concessione della liberazione anticipata e infine una assai discutibile nuova detenzione domiciliare per persone tossicodipendenti. La nuova detenzione domiciliare sarebbe applicabile per pene residue fino a otto anni, ridotti a quattro nelle ipotesi di reati ostativi (4 bis o.p.), sulla base di un programma che dovrà essere vagliato da una commissione di valutazione, che dovrà accertare l’effettiva e attuale condizione di dipendenza e anche la correlazione tra la dipendenza e la commissione del reato (sic!). Riflettendo sulla proposta attuale, tornano in mente le parole di Margara nel 2007, in relazione alla proposta di potenziamento dei percorsi giudiziari per un più efficace utilizzo delle misure alternative. Margara, allora, in un articolo dal titolo - “Retorica della cura e realtà della contenzione” - rilevava quanto fosse critica la scelta di non intervenire sulle politiche penali sulle droghe, bensì di mettere mano al limite di ammissibilità alle misure alternative, alzandolo. Affermava Margara: “lo sbandierato allargamento è fittizio: operazione di propaganda”. Oggi come allora, l’ampliamento lascia fuori tutti quei detenuti che hanno commesso uno dei reati della lista sempre più ampia di cui all’art. 4 bis, recentemente ulteriormente arricchita con il nuovissimo reato di rivolta penitenziaria. Ancora, Margara rilevava come il provvedimento non andasse a sciogliere le difficoltà pratiche nell’accesso alle alternative al carcere: dalla difficoltà di certificazione di tossicodipendenza alla valutazione dell’idoneità del programma terapeutico, a cui, per questa nuova ipotesi di detenzione domiciliare si aggiungerà il vaglio della commissione di valutazione che dovrà accertare l’effettività e attualità della dipendenza e persino la correlazione causale con il reato commesso. Chissà cosa direbbe Grazia Zuffa oggi di questo balzo indietro, di questo ritorno - e chissà se mai ce ne eravamo davvero liberati - alla figura della persona che consuma droghe come in completa balia della sostanza, che per lei o lui agisce. Quanto è utile oggi rileggere gli scritti di Grazia contenuti nella raccolta “Stigma e Pregiudizio. Uno sguardo dissacrante sulle droghe” (edizioni Menabò, 2025). Con ogni probabilità, se dovesse diventare legge, questa misura sarà del tutto inefficace nella presunta funzione deflattiva, ma produrrà gli effetti simbolici attesi: negare ogni soggettività alla persona che usa droghe o, per dirla con Margara, portare avanti una retorica di cura in una realtà di contenzione, sempre più forte. Dobbiamo vigilare e opporci a queste misure, continuando a rendere il pensiero e le parole di Margara e di Zuffa armi vive per le battaglie da portare avanti. Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali: “Manifestazione pubblica per il 30 luglio” La Notizia, 29 luglio 2025 Tra suicidi, fughe e sovraffollamento, l’emergenza carceri sembra sempre più lontana da una soluzione. Per questo la Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali ha indetto “nella Giornata del 30 luglio una manifestazione per sensibilizzare l’opinione pubblica e per sollecitare la politica nel suo complesso, e non soltanto il Governo, a mettere in campo soluzioni immediate e concrete alle accorate parole inequivocabili del Presidente della Repubblica sul tema delle carceri”. A un mese esatto dall’appello del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante l’incontro con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il portavoce dei garanti territoriali ricorda che attualmente sui 62.000 detenuti in Italia, 7913 hanno un residuo pena inferiore ad un anno e che non hanno reati ostativi. Ancora, il portavoce ricorda che ci sono 1348 detenuti che hanno una pena inflitta a meno di un anno. I 100 garanti territoriali, regionali, provinciali e comunali ricordano altresì che in tutta Italia per i 46.000 detenuti definitivi ci sono appena 250 magistrati nei 29 Tribunali di Sorveglianza e nei 58 Uffici di Sorveglianza, sono sottorganico anche rispetto al personale di supporto”. Lo dichiara Tiziana Silletti, Garante regionale della Basilicata delle vittime di reato e delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. “La Regione Basilicata - prosegue Silletti - da parte sua non resta a guardare e nei giorni del 30 e 31 luglio parteciperò, insieme alla Garante provinciale di Potenza, Carmen D’Anzi, alla mobilitazione nazionale attraverso due iniziative istituzionali presso le case Circondariali di Potenza e Matera. La scelta delle due sedi non intende oscurare gli altri Istituti Penitenziari della Basilicata ma, l’intento è quello di mettere in risalto durante i due eventi, tutta la situazione in cui versano le Case Circondariali della Regione le quali, verranno visitate personalmente secondo un calendario strutturato”. “In Basilicata - evidenzia la Garante regionale - l’affollamento delle Carceri è pari al 158%. Nella Casa Circondariale di Matera si registra un totale di 179 detenuti su 132 posti regolamentari, a Melfi secondo i dati del Ministero della Giustizia, si registrano 92 detenuti, a Potenza 165 detenuti su 105 posti regolamentari, l’IPM di Potenza invece registra 18 minori detenuti”. “Nel ruolo di primo Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della Basilicata - conclude Silletti - ritengo sia strettamente necessario accogliere il ‘grido’ di ognuno di loro, persone, nel senso etimologico della parola, che parlano attraverso drammi e sofferenze che vengono spesso da lontano e che toccano non solo le loro vite personali e loro famiglie ma tutto il tessuto sociale delle nostre comunità e della nostra Regione. Persone, che hanno diritto come stabilito dall’art.27 della Costituzione Italiana, l’Ordinamento Penitenziario (Legge 354/1975) e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu), alla vita e all’integrità fisica, alla salute, alla preghiera, al lavoro, etc. ma soprattutto hanno diritto al trattamento umanitario e al rispetto della dignità che con tutte le nostre forze garantiremo attraverso il nostro lavoro e il nostro impegno umanitario e istituzionale”. Fondazione “Con il Sud” dona 1.200 ventilatori a colonna alle carceri del Sud Italia fondazioneconilsud.it, 29 luglio 2025 Stefano Consiglio: Con questa azione concreta, sebbene parziale rispetto alle reali esigenze degli istituti di pena meridionali, vogliamo alzare il livello di attenzione sulle condizioni delle carceri italiane. “Abbassiamo la temperatura per alzare il livello di dignità”. Con questo auspicio, la Fondazione con il Sud ha deciso di acquistare e donare 1.200 “ventilatori a colonnina” alle carceri del Sud Italia. La Fondazione è impegnata da anni nella promozione e sostegno di iniziative e progetti per l’inserimento socio-lavorativo di persone detenute attraverso bandi ad hoc. Il lavoro, oltre a restituire dignità al tempo trascorso in carcere per scontare la propria pena, è l’elemento principale che riduce drasticamente le percentuali di recidive, che si verificano in quasi il 70% dei casi tra chi non lavora e solo nel 2% tra chi ha vissuto un’esperienza lavorativa. Da considerare, inoltre, le ricadute positive sull’autostima e sul benessere. Ciò acquista ancora più importanza se si considerano gli allarmanti dati sul fenomeno dell’autolesionismo e dei suicidi in carcere: secondo i dati del Consiglio d’Europa, nel 2022 il tasso di suicidi nelle carceri italiane era più del doppio della media europea (15 casi ogni 10.000 persone detenute, a fronte di una media di 7,2 casi). Nel 2025 si contano già 134 decessi in carcere per suicidi, carenza nell’assistenza sanitaria, morti per cause non chiare, overdose (dati “Morire di carcere”, Ristretti.org) “Le temperature molto alte di queste settimane diventano drammaticamente più insostenibili in un contesto come quello carcerario in cui al caldo si aggiungono altri fattori, su tutti il sovraffollamento, che possono contribuire, tra l’altro, a creare tensioni e incidenti” sottolinea Stefano Consiglio, presidente della Fondazione con il Sud. “Crediamo nel principio rieducativo della pena e siamo impegnati nel sostenere azioni e progetti che offrano una seconda opportunità alle persone detenute, confortati anche dai risultati evidenti di abbattimento della recidiva. Se è vero che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, allora occorre fare tanto. In queste settimane di caldo intenso, donando i ventilatori, una piccola azione concreta sebbene parziale rispetto alle reali esigenze degli istituti di pena meridionali, vogliamo alzare un po’ il livello di civiltà e di attenzione sulle condizioni delle carceri italiane”. I dispositivi sono stati donati dalla Fondazione con il Sud partendo dall’esempio della recente donazione di ventilatori al carcere di Uta in provincia di Cagliari da parte della Fondazione Domus de Luna, coinvolta nella gestione operativa dell’iniziativa grazie anche alla partecipazione attiva di Trony nel reperimento e nella distribuzione dei ventilatori. Si ringraziano Ugo Bressanello e Carla Ghiani di Domus de Luna e Luciana Delle Donne di Made in Carcere per la collaborazione e l’impegno profuso per l’iniziativa, i provveditori, i dirigenti e i direttori degli istituti di pena che hanno accolto positivamente e con entusiasmo la proposta della Fondazione con il Sud collaborando affinché potesse concretizzarsi velocemente. I dispositivi donati dalla Fondazione Con il Sud andranno ad oltre 40 istituti penali e strutture con popolazione maschile, femminile, minorile e in particolare nelle Case circondariali di Matera, Potenza, Melfi, San Severo, Trani, Taranto, Lecce, Sassari, Messina, Barcellona Pozzo di Gotto, Caltagirone, Caltanissetta, Castelvetrano, Gela, Giarre, Piazza Armerina, Ragusa, “P. Di Lorenzo” di Agrigento, “Piazza Lanza” di Catania, “Bicocca” di Catania, “L. Bodenza” di Enna, “A. Lorusso - Pagliarelli” di Palermo, “A. Burrafato” di Termini Imerese, “P. Cerulli” di Trapani, “Antimo Graziano” di Avellino, “Michele Gaglione” di Benevento, “Giuseppe Salvia” di Napoli Poggioreale, “Antonio Caputo” di Salerno, “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere; nelle Case di reclusione di Oristano, Palermo Ucciardone, Augusta, Favignana, Noto, San Cataldo, Sciacca, Siracusa; negli Istituti Penali Minorili di Nisida e di Airola e nelle Sartorie esterne e officine creative di Lecce e Lequile. Roma. Sovraffollamento nelle carceri, il sindaco Gualtieri: “Ormai è insostenibile” di Emiliano Pretto dire.it, 29 luglio 2025 È stata presentata nella Capitale la relazione annuale 2024 del Garante dei detenuti di Roma. “La capienza regolamentare della casa circondariale Rebibbia Nuovo complesso è di 1.170 posti, ma i posti realmente disponibili sono 1.057 (10 in meno rispetto a quelli disponibili al 31 dicembre del 2023) e quelli realmente occupati erano 1.548. Al 30 giugno 2025 i posti occupati risultavano essere 1.571. All’istituto di reclusione la capienza regolamentare è di 445 posti, ma quelli realmente disponibili sono 317. Al 31 dicembre 2024 i posti occupati erano 284. Al 30 giugno 2025 i posti occupati risultavano essere 281?. Sono alcune delle cifre sul carcere di Rebibbia contenute nella relazione annuale 2024 del Garante dei detenuti di Roma, presentato in Campidoglio dalla stessa Garante Valentina Calderone alla presenza del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e della presidente dell’Assemblea capitolina, Svetlana Celli. Ed ancora: nella cosiddetta Terza casa “la capienza regolamentare è di 172 posti, ma quelli realmente disponibili sono 132. Al 31 dicembre 2024 i posti occupati erano 80. Al 30 giugno 2025 i posti occupati risultavano essere 72. Infine nel carcere femminile la capienza regolamentare è di 272 posti, ma quelli realmente disponibili sono 265. Al 31 dicembre 2024 i posti occupati erano 378. Al 30 giugno 2025- riporta sempre la relazione- i posti occupati risultavano essere 369”. “La capienza regolamentare dell’istituto carcerario di Regina Coeli è di 628. Al 31 dicembre 2024 i posti effettivamente disponibili erano 566 e i posti occupati erano 1.051. Al 30 giugno 2025 i posti occupati risultavano essere 1.092?, continua la relazione. “È da segnalare come, per la prima volta da anni, si registra sovraffollamento anche nelle strutture detentive per minorenni. Al 31 dicembre 2024 le presenze registrate a Casal del Marmo erano 63”. “Cercheremo di cogliere i suggerimenti della relazione. Ma la situazione è drammatica, con condizioni di vita difficilissime e un sovraffollamento oramai insostenibile. E le misure del Governo non sembrano essere sufficienti per risolvere i numerosi problemi della popolazione carceraria”. Così il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, nel corso nella presentazione del rapporto annuale 2024 del Garante dei detenuti di Roma. Gualtieri e la presidente dell’Assemblea capitolina, Svetlana Celli, hanno ricordato alcune misure prese da Roma Capitale a favore della popolazione detenuta. “Nel 2024- hanno spiegato- è stato siglato un protocollo d’intesa tra Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Città Metropolitana, confluito poi nel Polo unico della formazione con Roma Capitale, e la Garante, allo scopo di riattivare, per la prima volta dopo diversi anni un programma pubblico di formazione professionale rivolto alle persone detenute che prevede l’avvio di percorsi formativi per 35 persone, il primo dei quali in collaborazione con Ama”. “Su iniziativa dell’Assemblea Capitolina - è stato poi aggiunto - e con la direttiva 4 del 9 luglio 2024 dell’assessora alle Politiche Sociali Barbara Funari, sono stati stanziati 35.000 euro per l’acquisto e l’erogazione di un kit di uscita destinato a persone in condizione di fragilità economico-sociale e prossimi al fine pena, ciascuno composto da un borsone trolley, un carnet di 8 biglietti integrati per il trasporto pubblico a Roma Capitale, un carnet di buoni pasto del valore di 100 euro, una guida, offerta dalla Comunità di Sant’Egidio, con indicazioni su servizi essenziali (vitto, alloggio, igiene) presenti sul territorio”. Da sottolineare infine l’organizzazione di corsi Haccp e di sicurezza sul lavoro per un totale di 164 ore di formazione e le numerose visite di monitoraggio a tutela dei diritti presso le diverse strutture della Garante che ha effettuato oltre 170 accessi negli istituti penali per adulti e minori, CPR e case di accoglienza/case famiglia. “Come Istituzioni stiamo facendo un lavoro importate per migliorare le condizioni di vita dei detenuti- ha ricordato Celli- vorrei citare anche che l’Aula ha voluto riportare il Garante all’interno del Consiglio e che il 23 settembre si terrà una seduta straordinaria dell’Assemblea dentro Rebibbia”. Firenze. Sollicciano, la relazione della Commissione: “Non garantite condizioni di vita dignitose” di Niccolò Gramigni La Nazione, 29 luglio 2025 Il testo presentato in Consiglio comunale. Tante le osservazioni delle opposizioni. Sul carcere di Sollicciano “a fronte di alcune dotazioni minime garantite, le condizioni abitative e l’accesso a spazi collettivi sono insufficienti per rispondere ai bisogni educativi, sociali e relazionali della popolazione detenuta. Interventi di adeguamento infrastrutturale e di potenziamento degli spazi di socialità e formazione risultano quindi urgenti e prioritari”. La relazione della commissione politiche sociali e della salute, illustrata in Consiglio comunale, è chiara. Parla di problemi su problemi: sovraffollamento, infiltrazioni d’acqua, infestazioni di topi, malfunzionamenti di acqua calda. Si descrive Sollicciano come “un ambiente profondamente patogeno, incapace di garantire condizioni di vita dignitose”. Cosa può fare il Consiglio comunale? Qualche proposta è stata annunciata anche dal presidente della commissione Edoardo Amato. Tra queste c’è la realizzazione di una Consulta per Sollicciano che metta insieme gli enti del terzo settore e le realtà della società civile impegnate con attività all’interno degli Istituti, che possa agire in termini di coordinamento e massimizzazione dell’efficacia degli interventi promossi. Il Comune, si spiega ancora, “può e deve assumere un ruolo strategico, diventando cerniera tra dentro e fuori, tra il tempo della detenzione e quello della restituzione sociale”. Ma è fondamentale che il Ministero collabori: “Il nostro percorso si sarebbe dovuto concludere con l’audizione del ministro Nordio o comunque di una persona delegata dal Ministero”, spiega Amato. Il Garante dei detenuti Giancarlo Parissi rende bene l’idea dei problemi che ci sono dentro Sollicciano: “È un grandissimo condominio con più di 1000 abitanti dentro, dove succedono spessissimo incidenti, anche di tipo strutturale”. L’assessore al welfare Nicola Paulesu chiede di dare “valore e continuità all’importante lavoro di approfondimento”. L’importante è cercare di arrivare a fatti concreti e la Consulta potrebbe essere uno di questi. Concretezza viene chiesta dalle opposizioni: “Si passi alla concretezza delle azioni”, dice Cecilia Del Re di Fd. Francesco Casini e Francesco Grazzini di Iv parlano di “responsabilità per risultati tangibili entro la fine del mandato”, per Fi, Lista Schmidt e Fdi “lavoro e formazione sono le chiavi per rieducazione e reinserimento”, Dmitrij Palagi di Spc vorrebbe che “Firenze” sperimentasse “pene alternative alla detenzione”. Roma. Detenuto picchiato a Rebibbia è in coma da un mese, ricoverato al Policlinico di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 29 luglio 2025 L’appello della sorella: “Chi sa parli”. Francesco Valeriano ha riportato gravissime lesioni al cervello, ma nessuno ha avvisato la famiglia. Entra nel carcere di Rebibbia in seguito all’arresto per stalking e finisce in coma al Policlinico Umberto I. É la storia di Francesco Valeriano, 45 enne di Fondi, cameriere, affetto da tossicodipendenza e ora ridotto alla stregua di un “vegetale” senza che i fatti siano neppure stati denunciati. É la sorella Antonella a lanciare un appello: “Chi sa parli. Cosa è successo a mio fratello?” Il 15 aprile scorso alle otto del mattino le forze dell’ordine suonano alla porta di Francesco. L’accusa è di atti persecutori nei confronti dell’ex moglie. Scatta l’arresto. Il quarantacinquenne entra nel carcere di Cassino dove resta per circa un mese e mezzo. Quindi il trasferimento: “Non sappiamo i motivi ma viene portato a Rebibbia”. Venti giorni trascorrono con i problemi di sempre e di tutti in un carcere che ha superato i 1.200 detenuti. Il pestaggio, le lesioni al cervello - Si arriva al 30 giugno, data del pestaggio. Chi è stato? Compagni di cella? Gli agenti? L’avvocato, disattento o forse negligente, non sporge neppure denuncia dice la sorella: “Vengo avvisata direttamente dall’ospedale. Gli unici che dimostrano umanità sono i medici del Policlinico”. Ma la diagnosi è severa: Francesco ha riportato lesioni al cervello, in più è sottoposto a una tracheotomia, insomma non tornerà quello che era”. Dal carcere silenzio. Non è chiaro neppure se sia stata attivata indagine interna: “Cercando su internet ho trovato il numero del garante dei detenuti regionale (Stefano Anastasia che ha promesso assistenza legale alla famiglia, ndr). Sono sola”. Oggi, intanto, la garante nazionale, Irma Conti, sarà in visita al Policlinico: “Farò il necessario - giura Antonella - perché mio fratello abbia giustizia”. Cagliari. Detenuti in regime di 41-bis a Uta, il pg Luigi Patronaggio: “Potenziale criticità per l’isola” di Francesco Zizi La Nuova Sardegna, 29 luglio 2025 Il commento del procuratore generale di Cagliari. Proseguono le trattative tra regione e Governo per distribuire i detenuti. Proseguono in queste ore le trattative tra Regione e ministero della Giustizia per la rimodulazione dell’arrivo dei detenuti al 41-bis nel carcere di Uta. Secondo le indiscrezioni trapelate ieri i boss mafiosi dovrebbero essere distribuiti in varie carceri italiane, tra cui appunto Uta, ma anche il carcere di Bancali a Sassari a quello di Badu e Carros di Nuoro. Sulla questione si esprime anche il procuratore generale di Cagliari Luigi Patronaggio, evidenziando alcune criticità che il trasferimento massiccio potrebbe portare. “L’annunziata apertura di un nuovo reparto da 92 posti destinato a soggetti condannati sottoposti al regime duro, costituisce una potenziale criticità per l’organizzazione giudiziaria e penitenziaria nonché per l’intero territorio sardo”. Il procuratore specifica che non si vogliono criticare le legittime scelte del ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, quanto evidenziare alcune problematiche conosciute a chi opera nel territorio. “L’apertura della nuova sezione impone innanzitutto un incremento quantitativo e qualitativo degli uffici giudiziari preposti alla gestione di un segmento così problematico della popolazione carceraria. Una tipologia di detenuti molto agguerrita da un punto di vista tecnico, sempre pronta a sfruttare ogni maglia larga del sistema” conclude il procuratore. A queste problematiche si aggiungono quelle già risapute sulle infiltrazioni mafiose nell’isola. Negli ultimi mesi lo stesso Patronaggio aveva definito la Sardegna “a forte rischio di sviluppo mafioso”. Le organizzazioni criminali, specialmente quelle camorristiche, negli ultimi anni hanno investito milioni di euro in commercio e ristorazione su tutti, per riciclare il denaro proveniente, come evidenziato da un rapporto della Dia di qualche mese fa, soprattutto dal traffico di sostanza stupefacenti, che rimane ancora la fonte di maggior profitto. Le istituzioni locali, negli ultimi anni hanno alzato la guardia, siglando protocolli d’intesa volti al contrasto delle infiltrazioni mafiose. L’ultimo, quello di qualche giorno fa siglato tra quattro comuni del Sud Sardegna: Cagliari, Quartu, Pula e Villasimius, tutti comuni a forte vocazione turistica. Il protocollo definisce uno stabile modello di collaborazione e cooperazione per rafforzare l’azione amministrativa di prevenzione e contrasto di eventuali fenomeni di riciclaggio, usura, estorsione e, più in generale, dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia del territorio, in particolare nel campo turistico-alberghiero e della ristorazione. Un allarme che non può essere ignorato, specie in un momento in cui la criminalità organizzata ha dimostrato di sapersi infiltrare silenziosamente. L’arrivo di altri detenuti al carcere di Uta, rischia di trasformare la casa circondariale Ettore Scalas in un polo nazionale per la detenzione speciale, con conseguenze non solo sulla gestione interna della struttura, ma su tutta la rete dei servizi pubblici locali. Torino. Il Cpr di corso Brunelleschi costa 11mila euro al giorno: rimpatriati in 28, su 196 ospiti di Teresa Cioffi Corriere di Torino, 29 luglio 2025 Per il mantenimento del Cpr di corso Brunelleschi vengono spesi oltre 11 mila euro al giorno. “Praticamente 280 euro a persona, come un hotel” azzarda in Sala dell’orologio Pierino Crema (Pd) durante la seduta della Commissione Legalità. Si è riunita ieri a Palazzo di Città per la presentazione del report sui costi del Centro di Permanenza per i Rimpatri di corso Brunelleschi. È stato riaperto lo scorso marzo, dopo un anno di chiusura e lavori. Ad oggi è gestito dalla Cooperativa Sociale Sanitalia Service, che aveva vinto l’appalto da 8 milioni e 400 mila euro per due anni. Quest’anno, a fine di giugno, le persone trattenute erano 60 su una disponibilità di 70 posti. Dall’apertura ad oggi, invece, sono stati 196 i trattenuti. Di questi solamente 28 sono stati effettivamente rimpatriati. Ecco quindi spiegata l’ironia nelle parole del consigliere Crema: il Cpr costa come un hotel ma, di fatto, non funziona. “Non viene garantita la dignità degli ospiti” ribadisce Jacopo Rosatelli, assessore alle Politiche sociali che è entrato nel Cpr ad aprile. Allora aveva parlato di “docce bollenti, nessun filtro tra bagni e letti, tre telefoni disponuti nibili per tutti gli ospiti”. Mentre l’eurodeputata Ilaria Salis ha visitato ieri la struttura dichiarando che “il Cpr va chiuso”, Rosatelli tornerà ad agosto per un ulteriore monitoraggio sulla qualità della vita degli ospiti. Intanto la garante di Torino, Monica Gallo, parla in termini quantitativi. “La spesa giornaliera per il mantenimento del Cpr è di 11 mila euro escludendo i costi di manutenzione, del personale che lavora in struttura e le spese dei trasferimenti”. La garante non parla di rimpatri, fermi a 28. Piuttosto di trasferimenti che, al 30 giugno 2025, sono stati 60: 10 trattesono stati spostati in carcere, 39 in altri Cpr, 11 nel centro di Gjader in Albania (costato otre 47 milioni). Le persone rilasciate sono state 78, 10 per ragioni sanitarie. E la maggior parte dei rilasciati provengono dal Marocco. Si tratta della provenienza più diffusa nel Cpr di Corso Brunelleschi, dove la maggioranza è under 40. “A giugno il 54% degli ospiti proveniva dal Marocco e questo è significativo - conclude Gallo. Molti non possono essere rimpatriati, anche se vengono portati in Cpr. Questo perché, da almeno un anno, il Marocco ha quasi completamente interrotto ogni forma di collaborazione con l’Italia relativa al rimpatrio dei propri cittadini espulsi”. Anche Gallo con probabilità tornerà in visita al Cpr. Il suo mandato sarebbe scaduto il 31 luglio, ma verrà prorogato per un mese. A settembre è programmata la nuova nomina e Monica Gallo sarà chiamata a lasciare l’incarico dopo dieci anni. Monza. Carcere, lavoro e diritti: aprono due sportelli per ridare dignità ai detenuti d Cristina Bertolini Il Giorno, 29 luglio 2025 Non solo corsi di riqualificazione per poter trovare un lavoro una volta scontata la pena: i 735 reclusi nel carcere di Monza potranno ottenere un documento di identità e avvalersi di servizi per le pratiche familiari. La città entra in carcere con due sportelli a servizio degli “invisibili”. È stato firmato lunedì 28 luglio il protocollo d’intesa per realizzare uno Sportello lavoro e uno Sportello diritti nella Casa circondariale di Monza. Il documento è stato siglato dal sindaco Paolo Pilotto, dalla direttrice di via Sanquirico Cosima Buccoliero, da Afol Monza e Brianza rappresentata da Silvia Costa e dai rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil Walter Palvarini, Mirco Scaccabarozzi e Giancarlo Pagani. Lo Sportello diritti è finalizzato a facilitare la fruizione dei servizi pubblici del Comune di Monza alle persone che si trovano in stato di privazione della propria libertà personale e offre orientamento e consulenza per le prestazioni sociali e sui differenti servizi. Lo Sportello lavoro, come spiega Silvia Costa, responsabile del Centro per l’impiego Afol di Monza, è gestito da un operatore che una volta alla settimana entra in carcere per prendere in carico i bisogni dei detenuti in vista di una riqualificazione professionale: avvia colloqui di accoglienza, valutazione, orientamento, stesura di curriculum e interventi finalizzati al reinserimento lavorativo. In collaborazione con i propri uffici Afol, con Fondazione Clerici, Energheia, Scuola Borsa e altri enti del territorio costruisce percorsi individuali. Lo strumento utilizzato è il programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori), per far sì che chi esce dal carcere conosca un mestiere e possa ricollocarsi nella società civile. Il tutto sotto la regia della direttrice della Casa circondariale Cosima Buccoliero. Corsi offerti: dalla sartoria al verde - “Con i partner sono stati offerti corsi per la sicurezza sul lavoro, spendibili sia in carcere che fuori - spiega Costa - corsi di sartoria che poi trovano impiego nelle aziende di legno arredo di Meda e dintorni, sempre alla ricerca di cucitori e tappezzieri per imbottiti”. Tanti anche i percorsi per manutentori del verde, insieme alla Scuola Paolo Borsa, o il laboratorio di falegnameria, a quattro mani con l’istituto Meroni di Lissone. Dopo il lavoro di front office, i funzionari offrono una serie di certificati e servizi amministrativi di back office, per mettere in moto la macchina burocratica. Avere i documenti in ordine è presupposto fondamentale per non essere invisibili alla “società di fuori”. Carta identità per i 735 detenuti - Per questo, da tre settimane, l’Ufficio servizi al cittadino (ufficio anagrafe e servizi demografici) ha attivato per il carcere uno strumento meccanico/digitale per fornire la Carta d’identità elettronica (Cie) per tutti i cittadini di Monza e Brianza reclusi, cioè circa un terzo dei 735 detenuti; per altrettanti di altre province il percorso si può attivare grazie all’Anpr (Anagrafe nazionale popolazione residente) che permette la collaborazione tra i comuni italiani. Restano fuori al momento circa 200 detenuti senza documenti che durante la detenzione risultano residenti presso la Casa circondariale. Una volta al mese due operatori dello Sportello diritti del cittadino entrano in carcere per offrire servizi anagrafici come l’autenticazione di firme, per documenti necessari ai familiari, oppure per pratiche dello Stato civile. Per esempio grazie al loro aiuto un detenuto potrà convolare a nozze con il partner del cuore che aspetta fuori, oppure, potrà svolgere le pratiche di riconoscimento dei figli. Lo Spid non può essere utilizzato in carcere, non avendo i detenuti lo smartphone disponibile, ma con la Cie si può fare domanda per benefici, sussidi o per accedere a un bando di assegnazione di una casa popolare. Dettagli dell’intesa - L’intesa, valida fino al 31 dicembre 2027, prevede un tavolo di coordinamento fra gli enti sottoscrittori del protocollo e il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Quello di oggi è un passo in avanti nel segno dei diritti che appartengono anche a coloro temporaneamente privati della libertà - spiega il sindaco Paolo Pilotto - Sono convinto che fornire opportunità concrete di ricominciare sia il dovere delle Istituzioni”. Un’amara estate italiana, Chet Baker nel carcere di Lucca di Giovanna Taverni Il Domani, 29 luglio 2025 Quando Chet Baker suonava la tromba nel carcere di Lucca, la gente si fermava in strada, sotto le mura della casa circondariale di San Giorgio, perché era favoloso ascoltare Chet suonare, proprio come lo è ancora oggi, non ci stanchiamo mai di ascoltare la tromba di Chet Baker, che ha un suono così speciale, doloroso, l’effetto di una bambagia avvolgente. La leggenda narra che un visionario passante registrò addirittura un bootleg dalla strada con il suono di quella tromba, “Chet Baker, dentro le mura”, ma di quella registrazione si fa fatica a trovare traccia. Chet Baker trascorse più di un anno nel carcere di San Giorgio, il giudice gli aveva concesso di suonare un paio di ore al giorno e lui si faceva bastare il tempo. Era il 1960. In carcere i detenuti gli chiedevano di suonare i successi italiani dell’epoca; Chet li accontentava, poi si ritirava nel suo iperuranio a suonare la musica che gli tirava fuori l’anima, il jazz. Perché se il blues è un tirarsi fuori la tristezza e i diavoli dall’anima, il jazz non ci va poi lontano a buttare fuori le bruciature della vita. E Chet Baker era un bruciato, un pifferaio magico che richiamava intorno a sé immaginifici ascoltatori e problemi vaganti, arresti e disavventure, eroina e jamming session. Di quei mesi, dell’arresto di Lucca, delle tasche piene di droga, della fame di musica che brucia in vena, Chet Baker ha scritto nei suoi quaderni di memorie, venuti alla luce solo un decennio dopo la sua morte (in Italia pubblicati da minimum fax col titolo “Come se avessi le ali”). Baker era arrivato in Italia insieme alla compagna Halema e al figlio Chesney, a cui dedicherà una ninnananna cantata in italiano, Chetty’s Lullaby, composta nei giorni del carcere, e incisa solo nel 1962, durante le registrazioni di Chet Is Back! negli studi Rca di Roma. Nelle sue memorie Baker appunta che in Italia aveva cominciato a diventare dipendente da un farmaco tedesco, il Jetrium, “la cosa più vicina alla roba che abbia mai provato”. Così aveva cominciato a fare avanti e indietro in aereo dalla Germania per andare a comprare il Jetrium. Il tempo di Chet Baker era all’epoca scandito da concerti, dipendenze, e scappatelle con la ballerina Carol Jackson, che diventerà poco alla volta una presenza importante nella sua vita. Una sera di lavoro in un locale sulle spiagge della Versilia, Baker aveva incontrato il dottor Lippi Francesconi, direttore di una clinica a Lucca, e deciso di andare da lui per provare a disintossicarsi. Che non riuscisse a liberarsi dalle dipendenze, Chet lo racconta senza filtri: “l’eroina mi piaceva molto, e ne feci uso quasi continuamente, in una forma o nell’altra, per vent’anni”. Gli amici e gli impresari lo aiutavano a rifornirsi, e intanto lui vedeva le sue vene che “collassavano e scomparivano sempre di più”. Quasi non le trovava più. Alla fine di un caldo luglio del 1960, Baker era alla guida di una Fiat in noleggio, si fermò a una pompa di benzina e andò al bagno per bucarsi. Era dentro da tre quarti d’ora nell’incapacità di trovare una vena quando la polizia bussò alla porta. In quella occasione Chet venne trattenuto e interrogato ma non ancora arrestato. Il giorno dopo la notizia arrivò sui titoli dei giornali locali, il mostro venne sbattuto in prima pagina e fu aperta un’inchiesta per possesso di droga e introduzione illegale di farmaci in Italia. In agosto Chet Baker venne arrestato e messo dentro nel carcere di Lucca. Di quei giorni si è detto, scritto, documentato, filtrato. Le parole di Baker sono le più dirette. “Mi misero in infermeria per dieci giorni, poi mi trasferirono in una cella d’isolamento dove passai i sei mesi successivi. Non c’era nessuno che parlasse una sola parola d’inglese. Di notte, dall’altra parte del cortile, sentivo Halema piangere in continuazione”, scrive il trombettista nei suoi appunti di memorie e sembra di vederlo il giovane Baker nella sua cella a cercare di capire come ci è finito dentro un carcere in Italia. Non era quella l’estate italiana che vendono nelle brochure di viaggio, e forse l’estate italiana è un miraggio che non esiste, una fantasia dei Gran Tour estinti nei taccuini degli scrittori del romanticismo, un enorme parco giochi mostro che ti inghiotte. Nei suoi diari Chet Baker annota l’indispensabile, non si dilunga mai troppo, salta in avanti le settimane e i mesi, ci mette dentro solo i particolari che ritiene importanti. Il prete della prigione, padre Ricci, che gli leggeva di nascosto tutta la posta e censurava le lettere coprendo le parole con l’inchiostro nero. Un ex partigiano iugoslavo con cui si fermava volentieri a giocare a scacchi. Un fornello elettrico illegale che possedevano alle celle. I libri che gli spediva Carol in carcere, e che lui si metteva a leggere con una lampadina da cinque watt. Soprattutto Chet Baker ricorda la sua tromba, che poteva suonare un paio di ore al giorno: “Scrissi trentadue canzoni, e il tempo passò veloce”. Tra quelle canzoni ci sarebbero Motivo su raggio di luna e Il mio domani. Il suono indispensabile - Per un musicista il suo strumento è un’estensione del proprio corpo, e così era per Chet Baker la cui mano era legata alla tromba, farci vibrare le labbra dentro era anche un modo per sentir passare veloce il tempo, e forse la punizione più dura per Chet in carcere (più dell’isolamento) sarebbe stata separarsi dalla sua tromba, l’incapacità di convertire in suono quello che stava bloccato dentro. La musica può essere un potente antidoto alla tristezza: questo americano bianco dell’Oklahoma che si era messo a suonare la musica jazz, aveva dimostrato talento, era un irrequieto ma aveva trovato il modo di uscire dal baratro con la musica, e con la sua musica faceva uscire dal baratro anche chi lo ascoltava, bastava un giro delicato di note di tromba o una My Funny Valentine cantata quasi sussurrando parole, come dalla fine della terra. Chet Baker aveva pure una voce bellissima, e gli impresari lo sapevano. Fuori dalla prigione lo stavano tutti già aspettando. Chi voleva farci un film, chi un disco, chi un servizio di fotografie. Alcuni produttori erano già andati a parlargli in prigione, si erano accordati, gli avevano versato anticipi. Quando Chet tornò libero aveva imparato due cose: l’italiano e il grande gioco della macchina tritatutto. “Lo stesso giornale che aveva provocato tutto il casino diede grosso risalto alla mia scarcerazione”, annota nei suoi quaderni di ricordi. E ancora: “I paparazzi seguivano me e Carol dovunque, scattando centinaia di foto”. Nessuno voleva lasciarsi sfuggire quella faccia giovane e alienata alla James Dean. La Rca Italia lo portò a suonare insieme a Ennio Morricone, il governo italiano gli chiese di realizzare colonne sonore per alcuni documentari. Ma Chet Baker voleva altre cose, un club tutto suo o una qualsiasi nuova avventura. Non era fatto per starsene fermo. Avrebbe perduto tutti i denti. Sarebbe morto in circostanze misteriose. Qualunque cosa andava bene, gli bastava muoversi, portarsi dietro la tromba e suonare. La pdl sul consenso informato è blindata, tra audizioni cancellate ed emendamenti lampo di Simone Alliva Il Domani, 29 luglio 2025 La strategia della commissione Cultura della Camera, mentre si avvicina la scadenza del 5 agosto per gli emendamenti alla legge che vuole cancellare l’educazione affettiva, sessuale e l’inclusione Lgbt nelle scuole: potranno essere presentate solo memorie scritte. Salta il dialogo con sindacati, studenti ed esperti. E le opposizioni attaccano. Una strategia congeniata, quella della destra al governo: promesse di dialogo e poi, nel silenzio della burocrazia parlamentare, la serratura che scatta. Martedì 5 agosto sarà il termine ultimo per gli emendamenti alla proposta di legge sul consenso informato nelle scuole. Una scadenza calata come una lama sul lavoro delle opposizioni e della società civile. Le audizioni, annunciate e promesse, non ci saranno. O meglio: gli esperti potranno solo depositare delle “memorie scritte”, prove di dialogo archiviate con una pec. “Un vero e proprio blitz”, commentano i capigruppo in commissione Cultura alla Camera Antonio Caso (M5s), Irene Manzi (Pd), Elisabetta Piccolotti (Avs). Le audizioni servono, nel lavoro delle Commissioni, a raccogliere pareri, esperienze, proposte. Invitano esperti, associazioni, rappresentanze sociali. Servono, in democrazia, a costruire leggi sulla realtà. A fondare le decisioni non sull’ideologia, ma sul vissuto. Eppure qui la realtà viene messa alla porta. Un lavorio da parte degli uffici della Lega in commissione Cultura alla Camera che passa attraverso i comunicati stampa che dai primi di luglio al 23 “spingono” la legge che prevede in sintesi il blocco dell’educazione sessuo-affettiva nelle scuole. Il 16 luglio il Carroccio ha annunciato con entusiasmo le audizioni di “Non si tocca la famiglia”, associazione già ospitata al ministero dell’Istruzione da Giuseppe Valditara che ha accolto una petizione per fermare “le propagande ideologiche” nelle scuole. E ancora le testimonianze del mondo del Family Day come di Aldo Rocco Vitale, autore anti-gender e avvocato vicino a Mantovano, “Articolo 26”, “Pro-Vita e Famiglia” rappresentata nelle vesti di Filippo Savarese e “Generazione Famiglia” (sigla dove si cela di fatto la sezione “scuola” sempre della lobby di Pro-Vita). In commissione, la portavoce Maria Rachele Ruiu - portavoce anche di Pro Vita - ha chiesto che venisse vietata “ogni forma di educazione sessuale e ogni approccio di genere nei programmi scolastici, anche nei libri”. Voci critiche silenziate - Poche le voci critiche ammesse degli esperti: Giulia Ponsiglione in rappresentanza dell’associazione nazionale presidi (ANP), Ludovico Abbaticchio, garante infanzia Puglia che ha definito come “anacronistica” la proposta di Valditara e Rossella Silvestre di ActionAid Italia. Il 23 luglio con un comunicato stampa il deputato della Lega Rossano Sasso ha attaccato l’opposizione: per dire “no al preciso disegno politico di Schlein e Conte di voler promuovere l’ideologia gender nelle scuole”. Adesso la maggioranza ha annunciato di voler sostituire le audizioni con delle “memorie scritte” per accelerare. Le associazioni escluse non sono dettagli: Save the Children, Agedo (Associazione Genitori di Omosessuali), i sindacati della scuola, le organizzazioni studentesche, Educare alle differenze. Tutti tagliati fuori. Come se non esistessero. Le opposizioni in una nota puntano il dito contro Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura (noto alle cronache per la sua crociata contro il cartone animato Peppa Pig, reo di aver mostrato in una puntata “due mamme”): “Un attacco alla libertà educativa mascherato da tutela. Mollicone sta cercando di blindare un disegno di legge ideologico come quello sul consenso informato nelle scuole, senza dibattito, senza ascolto, senza confronto. Così si aggira il Parlamento, si tradisce il ruolo delle istituzioni e si nega ogni spirito di confronto e dialogo con il mondo della scuola”. “È uno dei tanti atti di prepotenza che abbiamo visto in questi mesi, ma sicuramente il più grave”, commenta a Domani Irene Manzi, deputata e capogruppo del Partito democratico nella commissione Cultura e Scuola. “Le sedute della Camera si concluderanno presto, ma non c’è alcuna urgenza: avevamo anche proposto di rinviare a settembre il termine per la presentazione degli emendamenti, in modo da avere il tempo di ascoltare davvero le associazioni. Invece c’è stata una chiusura totale. Faccio un appello al relatore: serve un’azione di buon senso”. Il provvedimento spaventa gli esperti: associazioni come Educare alle differenze, già sulle pagine di Domani, hanno denunciato il rischio che questo disegno di legge possa minare l’autonomia scolastica. “Le proposte presentate da Sasso e Amorese, agganciate nominalmente al testo base del ministro Valditara sul consenso informato, ci preoccupano profondamente”, spiega Manzi. “Sasso parla di affettività, Amorese di etica, ma non è chiaro cosa si potrà ancora fare o non fare a scuola. Stanno giocando con una materia delicatissima, che riguarda le relazioni tra scuola e famiglie, e il percorso educativo degli studenti. In nome dell’ideologia, non si rendono conto della pericolosità di ciò che stanno facendo”. Senza idee né identità, la scuola ascolti Cacciari di Gianni Oliva La Stampa, 29 luglio 2025 Si apre la discussione sui problemi del sistema formativo. Mali aggrovigliati di una scuola senza identità. Massimo Cacciari ne ha tracciato un profilo giustamente severo su La Stampa di ieri, descrivendo un sistema oppresso dalla burocrazia e ingessato in un metodologismo astratto, dove il successo formativo si misura solo sulla percentuale di coloro che finiscono il corso negli anni previsti e dove lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale, quella di investire nella formazione. Difficile non concordare con il pessimismo che emerge dalle sue riflessioni. Nella deriva della nostra scuola ci sono tuttavia passaggi che richiamano a precise responsabilità politiche. Il primo, di carattere generale, è il “sessantottismo”, cioè la riduzione di ciò che erano state le rivendicazioni del ‘68 a “volgarizzazioni” sin troppo semplicistiche. Contestare il classismo del sistema, la selezione fondata sulle origini sociali, l’algida distanza tra “cattedra e “banchi”, così come fece don Milani nella Lettera a una professoressa, significava porre al centro dell’attenzione il tema della “scuola e del “sapere” per lanciare la sfida di un modello di istruzione nuovo: i figli bocciati dei contadini appenninici, raccolti a Barbiana, studiavano in una dimensione di gruppo anziché nella competizione per il voto più alto; imparavano l’italiano attraverso il linguaggio della Costituzione o dei quotidiani, anziché nelle pagine del Manzoni; applicavano la matematica calcolando le voci delle buste-paga, il valore d’acquisto dei salari, l’andamento dei prezzi. Barbiana non poteva e non voleva essere una risposta ai problemi, ma era uno spunto per cominciare a porsi domande e cercare soluzioni al modello gentiliano, che allora era vecchio di mezzo secolo (e oggi di ben 102 anni, visto che fu varato nel 1923). I movimenti che in quella stagione occuparono università e istituti superiori erano l’espressione di un disagio che proprio Lettera a una professoressa aveva reso esplicito. La politica non seppe o non volle rispondere: anziché una riforma del sistema formativo, furono via via “tolti dei pezzi” all’esistente, sgomberando il campo dai motivi di maggiore frizione. È nata così la liberalizzazione degli accessi alle università, con il risultato di facoltà all’improvviso investite da numeri decuplicati di iscritti, costrette ad immettere in cattedra senza selezione docenti giovanissimi, spesso privi della preparazione necessaria (e destinati a “bloccare” le carriere universitarie alla generazione immediatamente successiva); è nata così la maturità con due scritti e due orali (su quattro materie sorteggiate), con il risultato che nell’ultimo anno nessuno studiava le discipline non caratterizzanti; è nata così la progressiva sostituzione delle interrogazioni orali o degli elaborati scritti con i test a crocette, che hanno come effetto immediato la disabitudine all’elaborazione organica del pensiero. Colpa del ‘68 e delle sue degenerazioni? O non piuttosto colpa della classe dirigente della Prima Repubblica, incapace di essere davvero “classe dirigente” e, dunque, di elaborare un progetto nuovo anziché smantellare l’impianto vecchio? Inutile ripercorrere le conseguenze di tutto questo: sono sotto l’occhio di chiunque abbia dimestichezza con la scuola (come docente, studente o genitore). Un secondo passaggio chiave è stata la riforma delle “tre i” (inglese, impresa, informatica), o riforma Moratti, varata nel 2003 (anche se i ritardi nei decreti attuativi e i cambi di maggioranza hanno impedito che il percorso si realizzasse per intero). L’idea di fondo era preparare i giovani in funzione del loro inserimento nel mondo del lavoro: tanta informatica, perché è il fondamento della nostra contemporaneità tecnologica; tanta impresa, con i suoi valori di efficientismo, tagli degli sprechi, flessibilità, crescita; alternanza scuola-lavoro, per abituarsi alla realtà verso la quale ci si prepara. Si trattava di etichette buone per la campagna elettorale, inventate senza fare i conti con la realtà (dove sono i laureati in informatica pronti ad andare ad insegnare a 1.400 euro al mese? Perché un imprenditore dovrebbe organizzare in modo serio l’alternanza, distaccando a sue spese qualche dipendente come formatore? Che cosa significa, nel concreto, educare all’efficientismo o alla flessibilità?). A parte ogni considerazione tecnica, è questo lo scopo della scuola? Preparare al lavoro? Non è invece quello di preparare i giovani a inserirsi nella società, che certamente è fatta di lavoro, ma prima ancora di conoscenze, di consapevolezze, di curiosità intellettuali, di responsabilità sociali? Che, cioè, è fatta di “cultura”? Anche in questo caso i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la riforma delle “tre i” ha smantellato l’istruzione umanistica senza sostituirla con altro. Meno storia, meno filosofia, meno italiano, “un’infarinatura di impressioni generiche” (come la chiama Cacciari). E l’unica “i” davvero essenziale, l’inglese, continua ad essere lingua straniera, anziché essere insegnata sin dalle elementari come “lingua 2”. Semplicemente, oggi si fa “meno” quello che prima si faceva “un po’ di più” (al netto delle doverose eccezioni, perché, nel marasma della scuola, ci sono ancora docenti che mantengono la “barra dritta”!). La Consulta non esclude il diritto all’eutanasia di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 29 luglio 2025 La Corte non sembra essersi pronunciata nel merito ma aver dichiarato la questione inammissibile per ragioni puramente processuali. La sentenza della Corte costituzionale anticipata dal comunicato di venerdì scorso interviene nuovamente sulla materia del fine vita, dopo le sentenze del 2019 e del 2024 che però riguardavano la fattispecie del suicidio assistito, mentre quella annunciata venerdì riguarda l’omicidio del consenziente, e cioè l’eutanasia. Laddove la differenza, secondo le definizioni del Comitato Nazionale per la Bioetica, è questa: per eutanasia bisogna intendere “l’atto con cui un medico o altra persona somministra farmaci su libera richiesta del soggetto consapevole e informato, con lo scopo di provocare intenzionalmente la morte immediata del richiedente”, anticipandola “al fine di togliere la sofferenza”; per suicidio assistito, il suicidio compiuto “grazie alla determinante collaborazione di un terzo, che può anche essere un medico, il quale prescrive e porge il prodotto letale”. Cos’aveva detto la Corte, nelle due sentenze precedenti? Lo sappiamo: aveva detto che, se è vero che l’agevolazione del suicidio nel nostro ordinamento non è possibile per regola generale, a certe condizioni può tuttavia diventare lecita. In particolare: la persona che chiede di essere aiutata a morire dev’essere “affetta da una patologia irreversibile” che sia “fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili” e dev’essere “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”, salvo dover essere “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Ed è attualmente in discussione in Parlamento il testo di una legge che, proprio nel rispetto di questi princìpi, per la prima volta in Italia fornisca al suicidio assistito una disciplina compiuta. Ma la legge in discussione parla solo di suicidio assistito, e non anche di eutanasia; né sull’eutanasia si era ancora mai espressa la Corte. Lo ha fatto, nella sentenza anticipata dal comunicato, in relazione al caso di una persona che, pur trovandosi nelle condizioni che legittimerebbero il suicidio assistito, “versa tuttavia nell’impossibilità di procedere all’autosomministrazione del farmaco letale, in quanto priva dell’uso degli arti, a causa della progressione della malattia, e non essendo reperibile sul mercato la strumentazione necessaria all’attuazione autonoma del suicidio assistito”. La Corte ha dichiarato la questione inammissibile: e questa decisione è stata subito intesa perlopiù come negazione di un diritto all’eutanasia, quantomeno da coloro che all’eutanasia sono contrari. Ma è un’interpretazione scorretta, solo strumentale, perché in realtà la Corte non ha negato il diritto all’eutanasia in quanto tale, bensì ha rilevato che, nella fattispecie, il giudice che le ha rimesso la questione non ha adeguatamente motivato “in merito alla reperibilità di un dispositivo di autosomministrazione farmacologica azionabile dal paziente che abbia perso l’uso degli arti”. In altri termini, la richiesta dell’affermazione di un diritto all’eutanasia non sembra essere stata respinta in quanto infondata, nel merito, bensì in quanto inammissibile, per ragioni puramente processuali. Bisognerà leggere le motivazioni, d’accordo, ma nel merito la Corte non sembra essersi pronunciata: il diritto all’eutanasia non è stato affermato, ma non è stato neppure escluso. E semmai quello che la Corte, nel merito, ha ritenuto di aggiungere è che alla persona che si trovi nelle condizioni che legittimano il suicidio assistito va comunque attribuito il “diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale”; e che questo diritto “include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego”. La questione, insomma, quanto all’eutanasia rimane identica a quella che era; e quindi il punto rimane sempre quello del mistero che ognuno di noi rappresenta per sé stesso, prima ancora che per gli altri. Attraverso le sentenze sul suicidio assistito (ivi compresa quella anticipata venerdì scorso, nella parte relativa al dovere di accompagnamento del Servizio sanitario nazionale) la Corte ha voluto affermare la necessità, da parte della legge, di riconoscere e proteggere questo mistero, facendosene carico e prendendosene cura: e la medesima necessità non potrebbe essere riconosciuta anche in relazione all’eutanasia? Certo, la legge dovrebbe sempre saper pronunciare una parola che accoglie, ascolta, si apre, ma dovrebbe farlo a maggior ragione davanti al mistero della vita e della morte: e non sarebbe comunque giusto, adesso, che il Parlamento recepisse una parola simile anche in relazione all’eutanasia, fornendo all’intera materia del fine vita, una volta per tutte, una disciplina organica e completa? Migranti. Caso Albania, il Viminale nega le informazioni sui rimpatri di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 luglio 2025 No all’accesso civico sul Cpr di Gjader. Per sapere qual è la base normativa del rimpatrio di cinque cittadini egiziani avvenuto il 9 maggio scorso, nella prima e finora unica deportazione direttamente da Tirana, il manifesto aveva avanzato una richiesta di accesso civico. Voleva semplicemente sapere quali accordi tra Italia e Albania permettono questa prassi. Un’operazione che, comunque, solleva vari dubbi di compatibilità con la direttiva rimpatri: basti pensare che secondo la Cassazione, la quale ha interpellato la Corte di giustizia Ue, la compatibilità è incerta perfino sul solo trasferimento a Gjader, quindi fuori dal territorio nazionale, dei migranti “irregolari”. Appellandosi al decreto del ministero dell’Interno del 16 marzo 2022 - quando al Viminale c’era Luciana Lamorgese e al governo i giallorossi, tanto per dire quanto sia trasversale l’ostruzionismo al lavoro giornalistico nel campo dell’immigrazione - le autorità hanno negato la richiesta. Il richiamo è all’articolo 2 del provvedimento, quello che individua le “Categorie di documenti inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali”. In questo caso il problema principale sarebbe relativo all’ultimo punto, per il quale vengono menzionate anche alcune linee guida dell’Autorità nazionale anti-corruzione. La risposta, protocollata venerdì scorso, viene dal dipartimento di pubblica sicurezza, direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere. Secondo la stessa “tali Intese, stipulate tra le Autorità italiane ed albanesi, forniscono dettagli tecnico/operativi relativi alle attività di rimpatrio” e per questo non sono “ostensibili”. L’unica richiesta di informazione a cui il Viminale ha dato seguito riguarda il coinvolgimento dell’agenzia europea per le frontiere esterne: “L’Italia non ha ancora ricevuto alcun tipo di supporto nell’effettuazione di rimpatri dal territorio albanese dall’Agenzia Frontex”. Può essere sintomo della scelta del governo di fare da solo, ma resta il sospetto che il motivo della mancata cooperazione sia proprio la dubbia legittimità di questa prassi alla luce delle norme Ue. Intanto la deputata Pd Rachele Scarpa ha depositato un’interrogazione per chiedere un chiarimento rispetto alle “gravi incongruenze emerse sui dati relativi agli eventi critici registrati nel Cpr di Gjader”. A un accesso civico della testata Altreconomia è stato risposto che erano quattro nei primi 48 giorni di operatività del centro, dalle ispezioni realizzate dalla parlamentare ne risultano 35 nelle prime due settimane. In tv si parla di guerra senza alcun dolore di Oscar Iarussi Avvenire, 29 luglio 2025 “Restate con noi, torniamo tra pochissimo, dopo la pubblicità…”. A seguire i telegiornali o i programmi serali cosiddetti “di approfondimento” si coglie una divaricazione crescente tra l’idea di morte e quella di guerra, dall’Ucraina a Gaza, fino al recente conflitto missilistico tra Israele-USA e Iran. È uno scollamento concettuale tanto più evidente quando scrolliamo i video di Instagram e Facebook, laddove il monito iniziale che talora mette in guardia dalla violenza delle immagini serve sì e no a esorcizzare la visione di una strage o dell’assassinio attuato da un drone. Vi assistiamo senza batter ciglio, prima di passare a tutt’altro contenuto e spesso frivolo. Si direbbe una regressione antropologica da cui deriva anche l’incapacità di distinguere il virtuale dal reale e il vero dal falso. Siamo al di là della pur terribile nozione di “morte in diretta”, un tempo considerata un tabù dal critico cinematografico francese André Bazin, secondo il quale la morte e l’orgasmo non sarebbero rappresentabili sullo schermo in virtù della loro natura intima e irripetibile. Invece oggi viviamo in preda alla distratta pulsione di “vedere tutto”, che equivale a non contemplare alcunché, tradendo il templum e la sacralità palesi nell’etimo del verbo. Il risultato è una sorta di cecità sociale o uno sguardo febbrile e opacizzato incapace di cogliere il cuore delle cose. “Vedere tutto” è il tipico frutto di un delirio di onnipotenza, che, ricorrente nei sistemi totalitari (il Panopticon carcerario analizzato da Michel Foucault), adesso appare diluito, “democratizzato”, banalizzato. La modalità dell’Homo videns di cui scrisse Giovanni Sartori (Laterza 1997) considera fuori luogo ogni cautela e ammette il climax quale unica figura retorica. L’acme, l’apice, la hybris sono sempre provvisori, puntualmente destinati a venire sormontati da un nuovo eccesso nella corsa all’effetto prodigioso e, specularmente, all’immiserimento del valore della vita umana. Donde l’abitudine abbastanza sconcertante di parlare di guerra sorridendo in tv. Esperti o presunti tali di missili, di armi nucleari, di morte procurata in un istante dicono la loro con un ghigno. Ecco conduttori orgogliosi della potenza militare sul campo e ospiti quien sabe perché là, l’uno contro l’altro armati di opinioni sprezzanti... Più show che talk, oltre il dolore e un po’ anche oltre il pudore. Mentre i morti e i vivi, a Gaza e altrove, sono ormai fuori fuoco (nel senso fotografico, non bellico), un flusso ininterrotto di polemologi/polemisti amplifica la diatriba e la rende “virale”. È una meta-guerra, che trascende gli eventi e statuisce un codice autonomo con i suoi personaggi, cui il pubblico si affeziona sino a tifare per l’uno o per l’altro secondo un modello perfezionato durante gli anni del Covid. Tali personaggi nutrono i trend sui social e diventano maschere in commedia, o, peggio, maschere in tragedia. D’altro canto, non sappiamo alcunché del terrore nei rifugi sotterranei quando risuonano le sirene di allarme, o della fame e del freddo sofferti dai profughi. Una grande intellettuale, la newyorchese Susan Sontag, nel saggio “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori 2003, Nottempo 2021) s’interroga intorno a un dilemma tragico: è possibile la riproduzione del dolore? Come si può fotografare o filmare la guerra senza farle perdere verità o produrre voyeurismo? Ancora una volta: quando diamo per scontato di capire o vedere tutto, siamo invero ciechi rispetto all’Altro, alla violenza perpetrata sulle vittime. Già, dov’è finita la vera guerra? Dove i corpi, la carne, il sangue, il calore, i pensieri, le paure, i sentimenti, le parole sussurrate fra le rovine? Restate con noi, torniamo tra pochissimo, dopo la pubblicità. Stati Uniti. La rivoluzione dolce di Baltimora (e la guerra ai poveri di Trump) di Leonardo Fiorentini L’Unità, 29 luglio 2025 Un approccio diverso che punta a ridurre la violenza tutelando i rapporti sociali, il lavoro, la casa. Insomma, a salvare le vite libere piuttosto che continuare a rinchiuderle in galera. Mentre in vista della campagna per le elezioni di midterm il presidente americano apre una nuova stagione di repressione sociale. Cinque. Tanti sono stati gli omicidi registrati nel mese di aprile 2025 a Baltimora. Un numero che, preso isolatamente, potrebbe dire poco. Ma nel contesto di una città di quasi 600.000 abitanti che nel 2019 contava 348 omicidi (quando in tutta Italia se ne registrarono 315), rappresenta un evento storico: è il dato mensile più basso registrato da quando, negli anni 70, si iniziarono a raccogliere statistiche. Un dato che non è isolato. I primi sei mesi del 2025 confermano una tendenza ormai consolidata: gli omicidi continuano a calare, le sparatorie anche. Da gennaio a giugno 2025 si sono contati 68 omicidi, contro gli 88 dello stesso periodo nel 2024. Le sparatorie non letali sono scese del 27%, e il totale degli omicidi si è ridotto di circa un quarto rispetto all’anno precedente. Se si guarda all’intero mandato dell’attuale sindaco Brandon Scott, il crollo è ancora più netto: -40% di omicidi e -43% di sparatorie rispetto al 2020. Nel raccontare cosa sta succedendo a Baltimora, il rischio è quello di lasciarsi andare al trionfalismo. Lo sa bene il sindaco Scott, che pur celebrando i risultati non smette di ripetere che “cinque omicidi in un mese sono ancora cinque di troppo”. Ma, proprio per questo, vale la pena di approfondire ciò che è accaduto nella città, già protagonista della serie The Wire. Baltimora non ha mai avuto una storia facile, guadagnandosi negli anni anche il soprannome di “Bulletmore”, per la frequenza di sparatorie. È una città segnata da decenni di disinvestimenti pubblici, segregazione razziale, esclusione sociale, e naturalmente dalla repressione della war on drugs. Dopo le rivolte del 2015 seguite al decesso di Freddie Gray - per la cui morte, avvenuta mentre era in custodia su un cellulare della polizia, nessun poliziotto è stato considerato colpevole - il tasso di omicidi esplose, superando di nuovo i 300 casi l’anno. La risposta non poteva più essere solo più polizia o più carcere. Serviva un cambio di paradigma. Ed è qui che, con l’elezione di Brandon Scott nel 2020, prende forma un approccio nuovo alla violenza urbana. Da una parte è stata avviata una strategia che individua i gruppi più coinvolti nelle dinamiche violente e li coinvolge direttamente, offrendo alternative reali - opportunità e percorsi di uscita, supporto sociale - ma anche mettendo in chiaro le conseguenze di nuovi atti violenti. Una combinazione di ascolto, responsabilizzazione e deterrenza, con al centro figure chiave come educatori di strada, ex detenuti e pari in grado di stabilire un contatto credibile con chi vive ai margini. Dall’altra parte politiche che puntano a un approccio di salute pubblica al problema della violenza. Questo significa investire in programmi per i giovani, in servizi di salute mentale, di riduzione del danno da dipendenze. E ancora in spazi sicuri nei quartieri più emarginati, in politiche abitative, in alternative al carcere. Un ruolo importante lo ha avuto anche la scelta di non perseguire i reati minori, a partire da prostituzione e uso di droghe, da parte dell’allora procuratrice generale della Città, Marilyn Mosby. La decisione, assunta nel 2019, in pieno Covid, nel tentativo di frenare la diffusione del virus nelle carceri cittadine, venne poi confermata anche dopo l’emergenza. Il calo anche dei reati più gravi e violenti convinse che andava interrotta quella spirale di emarginazione e violenza che politiche di “tolleranza zero” non fanno altro che esacerbare. La chiave è dunque l’integrazione. Non solo polizia, non solo welfare, non solo prevenzione: ma una rete coordinata tra istituzioni pubbliche, comunità locali, polizia, operatori sociali, ricercatori e cittadini. Il tutto orientato a un obiettivo comune: ridurre la violenza puntando a salvare i rapporti sociali, il lavoro, la casa. Salvando le vite libere, piuttosto che continuare a rinchiuderle in galera. I risultati parlano chiaro. Nei quartieri in cui sono attive le politiche integrate, l’indice di clearance - cioè i casi risolti dalla polizia - è salito al 64%, grazie al miglior rapporto con le comunità. E mentre scendono gli omicidi e le sparatorie, calano anche altri reati: furti d’auto, rapine, incendi dolosi. Tutto bene, dunque? Non del tutto. Perché il successo di Baltimora si regge su un equilibrio fragile, messo a dura prova dal ritorno della retorica law & order, che mette in discussione quanto conquistato. Qui entra in campo il Presidente Trump, che giovedì scorso ha emanato un ordine esecutivo presentato come una misura per ristabilire l’ordine e la sicurezza nelle città americane, ma che si configura nei fatti come una strategia repressiva che criminalizza la povertà e la salute mentale e mina i diritti fondamentali delle persone più vulnerabili. L’ordine impone innanzitutto restrizioni federali sui programmi di housing che non prevedano trattamenti obbligatori, ponendo sotto attacco diretto quelli ispirati all’approccio Housing First, ritenuti troppo permissivi. Poi vincola i fondi federali per città e stati all’adozione di politiche restrittive sul “vagabondaggio”, con il divieto di accampamenti, consumo di sostanze in luogo pubblico, permanenza prolungata in spazi urbani. Trump ordina al proprio Procuratore Generale di espandere le pratiche di civil commitment, ovvero la possibilità di sottoporre forzatamente le persone a trattamenti sanitari o ricoveri obbligatori se ritenute incapaci di prendersi cura di sé, incentivando l’uso di tribunali speciali per droga e salute mentale, con percorsi giudiziari paralleli volti al “recupero”, ma obbligatori e coercitivi. Inoltre pone il divieto di usare i fondi federali per la riduzione del danno o per le stanze del consumo sicuro “che facilitano solo l’uso illegale di droghe e i danni che ne derivano”. Infine, richiede, in barba al diritto alla privacy, una maggiore condivisione dei dati sanitari tra strutture mediche e autorità pubbliche, in funzione della sicurezza e dell’ordine urbano. Negli USA sono stati stimati nel 2024 oltre 770.000 senzatetto, di cui circa il 36% senza alcuna forma di riparo. Come ha sottolineato la American Civil Liberties Union (ACLU) “utilizzare i finanziamenti federali per alimentare approcci crudeli e inefficaci al problema dei senzatetto non risolverà questa crisi”. Perché, al di là dell’evidente disprezzo per la povertà e per diritti e dignità delle persone più vulnerabili, il punto è questo. Non solo si dimenticano le convenzioni internazionali sui diritti umani, ma si ignorano esperienze decennali di pratica sul campo che hanno dato evidenza di efficacia nel campo della salute mentale, dell’assistenza e della casa. Il tutto per dar spazio alla propaganda securitaria. Perché la mossa di Trump va collocata nel quadro della campagna elettorale per le midterm del 2026, in cui il Presidente punta a riconquistare consenso con una linea dura sull’ordine urbano. La retorica è quindi quella della guerra ai “criminali da marciapiede”, in piena continuità con le posizioni contro i migranti. Così l’attacco ai programmi Housing First è puramente ideologico. Diversi studi hanno dimostrato che questo modello - che offre una casa stabile senza condizioni pregiudiziali - è il più efficace nell’affrontare la problematica dei senza fissa dimora, in particolare di quelli di lungo corso, a patto di essere adeguatamente finanziato. Ma per Trump e i suoi alleati, l’idea che la casa possa essere un diritto, e non una ricompensa a seguito di chissà quali meriti, è inaccettabile. Trump apre così una nuova stagione di repressione sociale. La marginalità e il disagio non sono più degni di comprensione o assistenza: l’obbiettivo primario è espellerli dalla vista, che sia costringendoli in percorsi obbligatori di cura mentale o trasferendoli in quelle “città tendopoli” cupamente evocate dal candidato Trump durante la campagna presidenziale dello scorso anno. Circondate da discariche, come sta già succedendo, oppure magari in mezzo al deserto: veri e propri campi di concentramento, lontani dalla vista e dal cuore. Sulla facciata di questo presente distopico rimane l’esaltazione, puramente formale, del diritto alla sicurezza, sventolato per pura propaganda; sul retro i diritti umani, trasformati in privilegi da guadagnare. Punire la povertà non significa certo cancellare i poveri, tantomeno prevenire reati. Anzi, l’uso della repressione penale, dei trattamenti sanitari obbligatori, della marginalizzazione che ne consegue non farà altro che peggiorare la situazione. Per questo quello che sta accadendo a Baltimora ha un valore più ampio e va difeso. Non solo perché dimostra che le città possono davvero cambiare, se cambiano le politiche. Ma anche perché ci ricorda che la sicurezza - quella vera, quella che salva le vite umane e la vita nei quartieri - non si costruisce con le manette, ma con più cura, più ascolto, più responsabilità condivisa. Baltimora è un esempio concreto che un’altra strada è possibile. E funziona. Ucraina. Dall’arresto arbitrario alla tortura di Claudia Bettiol valigiablu.it, 29 luglio 2025 Cosa succede ai civili ucraini detenuti nei territori occupati dalla Russia e cosa dovrebbe fare l’Europa. “Jevhen Matveev, sindaco della città di Dniprorudne, regione di Zaporižžja. È stato catturato a inizio invasione perché si è rifiutato di cooperare con i militari russi, poi torturato e infine ucciso in prigionia; almeno il suo corpo è ritornato”, racconta Nataliia Jaš?uk, Senior War Consequences Officer al Centro per le libertà civili - associazione ucraina che si occupa di diritti umani, vincitrice del Nobel per la Pace 2022 - snocciolando una carrellata di nomi e informazioni su persone, civili e militari, finite nella morsa della prigionia in Russia e nei territori occupati, Crimea inclusa. “Ci sono poi intere famiglie”, Nataliia indica altre fotografie da un opuscolo intitolato Prisoner’s Voice del 2023. “Una persona con disabilità permanente che è stata rapita, uno studente, un operaio, un informatico che è fuggito dall’occupazione in Crimea, un uomo che ha tentato di salvare la moglie, morta poi tra le sue braccia. Storie di tutti i tipi. Andrij, Mykola, Serhi”. “Anche donne?”, chiedo timidamente. “Anche donne. Iryna Horobtsova, volontaria di Cherson: l’hanno portata via sotto gli occhi dei genitori, tenuta in isolamento, senza documenti, senza informazioni per più di un anno. E poi ci hanno costruito un ‘caso fittizio’. E l’hanno condannata, secondo la ‘loro’ legge, come spia”. Queste sono solo alcune delle storie arrivate tra le mani di Nataliia e degli operatori umanitari che si occupano, come lei, di diritti umani in una delle associazioni più attive in Ucraina. La maggior parte dei casi di prigionia, spiega Jaš?uk, avviene nei territori occupati, dove si stima ci siano circa 16mila persone detenute illegalmente. Ma le cifre sono approssimative, come lo sono quelle dei minori rapiti e deportati. I nuovi casi registrano famiglie sfaldate, civili interrogati, trattenuti, torturati, poi magari rilasciati; altri vengono trasferiti chissà dove e, dopo uno o due anni di prigionia, condannati per casi montati. Oltre ai militari, ci sono prigionieri civili, cittadini che abita(va)no nelle regioni controllate dal governo di Kiev, più o meno lontane dalla linea del fronte: Sumy, ?ernihiv, Charkiv, Cherson, Zaporižžja. Ma anche della regione della capitale. “Solo nell’oblast’ di Kiev, in un mese e mezzo di occupazione, hanno rapito circa 500 persone”, aggiunge Nataliia che, insieme a colleghi e volontari, continua l’opera di ricerca. Ricerca di prigionieri, ma anche di giustizia. “Questa è la guerra più documentata nella storia dell’umanità. Nel nostro database, realizzato insieme ai nostri partner, abbiamo più di 88mila episodi di crimini di guerra. Non sono solo numeri. Dietro ci sono destini umani specifici”, spiegava Oleksandra Matvij?uk, direttrice del Centro per le libertà civili in un’intervista. Le sfumature della detenzione politica: civili vs militari - Nel contesto attuale della guerra russa in Ucraina, civili e militari sono detenuti nelle stesse condizioni, spesso insieme, senza alcuna distinzione; è però importante capire che non fanno esattamente parte della stessa categoria di prigionieri politici, che si basa essenzialmente sullo status giuridico e istituzionale della persona al momento della detenzione, nonché sul contesto in cui si verifica la privazione della libertà (nel caso di civili può trattarsi di giornalisti, attivisti o manifestanti; nel secondo di militari, di persone appartenenti alle forze armate, di sicurezza o paramilitari). Un aspetto che gli stessi russi, i carcerieri, tendono a confondere. Con la differenza che, nel loro caso, la confusione è voluta. “Sono chiaramente tutte persone che sono state catturate, in modo diretto o meno, in situazioni più o meno complesse”, spiega Jaš?uk. “La situazione più difficile riguarda coloro che vengono arrestati nelle zone occupate e poi trattenuti per lunghi periodi senza motivo chiaro, spesso sotto accuse pesanti e ingiustificate. Questo vale anche per alcuni prigionieri militari, che subiscono condizioni particolarmente dure. Tuttavia, per comodità mentale o per una certa semplificazione, si parla solo di ‘prigionieri di guerra’ quando si fa riferimento a chi è stato catturato. Ma questo termine si applica davvero solo ai militari. Le persone civili non possono essere considerate prigionieri di guerra, perché non sono combattenti. Questi civili sono vittime di rapimenti, detenzioni arbitrarie, persecuzioni legali infondate e altri abusi”. In realtà, esistono molteplici status legali e situazioni che li riguardano. “Forse è più facile per le persone comprendere il concetto di ‘prigioniero’ come un eroe, come una persona che ha combattuto e che è stata catturata. Ma dietro a questo termine, spesso si nascondono persone comuni, civili, che soffrono in silenzio e che non hanno una vera rappresentanza”, cerca di chiarire Jaš?uk. La conoscenza della situazione dei civili è solitamente molto limitata. Nonostante alcune organizzazioni per i diritti umani si occupino di loro, la portata del problema resta poco visibile. In Ucraina, l’Unione delle famiglie delle vittime del Cremlino è una realtà che cerca di far luce su queste situazioni, insieme a organizzazioni come il gruppo in difesa dei diritti umani di Charkiv (KHPG). “Ci sono due ragioni, correlate, per cui i civili non vengono rilasciati. In primo luogo, perché equivarrebbe ad ammettere un crimine. La seconda è la riluttanza a mostrare ancora una volta i propri crimini”, spiega Maksym Kolesnikov, ex prigioniero di guerra che presta servizio nelle forze armate ucraine dal 2015. Originario di Donec’k, Kolesnikov è stato catturato il 20 marzo 2022 durante la battaglia di Kiev. Dopo dieci mesi di prigionia, è stato rilasciato in uno scambio nel febbraio 2023. Secondo la sua testimonianza erano oltre 500 i detenuti, civili e militari. “All’inizio ci hanno portato in Bielorussia, in un campo di filtraggio, per circa due giorni. Da lì nella città di Novozybkov, nella regione russa di Brjansk, in un centro di detenzione preventiva. I russi spacciano i civili ucraini per personale militare: l’esercito russo gli fa semplicemente indossare l’uniforme delle forze armate ucraine”, spiega Kolesnikov ricordando che, secondo le regole di guerra, i civili non dovrebbero essere catturati perché non sono militari, e ciò viola le convenzioni internazionali. Le testimonianze di chi torna dalla prigionia russa - Traumi fisici e psicologici, difficoltà nel tornare alla vita “normale” (se tale possiamo definire quella di un paese in guerra) e mancanza di un sostegno sistematico da parte dello stato. Sono queste le sfide e gli ostacoli che devono affrontare coloro che hanno subito le prigioni russe, la reclusione in seminterrati o cantine buie e, spesso, violenze e torture. Cosa attende una persona dopo il rilascio e di cosa ha bisogno, fisicamente, emotivamente, legalmente? Quale ruolo possono svolgere la società, le comunità e i volontari? Tutte domande a cui hanno cercato di rispondere Maksym Butkevy?, difensore dei diritti umani ucraino, giornalista, attivista della società civile, rilasciato dalla prigionia russa nell’ottobre 2024, e Maksym Kolesnikov, ex prigioniero di guerra, durante uno degli incontri sui diritti umani al festival del film documentario Docudays. “Il sostegno medico e psicologico congiunti sono fondamentali”, afferma Butkevy?, dopo aver dichiarato che il reinserimento iniziale, a cui si è sottoposto per quattro settimane in un centro di riabilitazione per personale militare, è stato molto importante per lui. Cofondatore del Centro per i diritti umani Zmina e di Hromads’ke Radio, all’inizio di marzo 2022 Butkevy? si è arruolato come volontario nelle forze armate ucraine; a luglio dello stesso anno è stato catturato dall’esercito russo e condannato a 13 anni di carcere con accuse prefabbricate. È stato rilasciato in uno scambio di prigionieri di guerra nell’ottobre 2024. La parte più difficile della riabilitazione, come raccontano Butkevy? e Kolesnikov, è l’assistenza psicologica, soprattutto perché molte persone ritengono di non averne bisogno. Inoltre, alcuni hanno anche bisogno di assistenza sociale e legale, soprattutto se provengono da territori occupati e hanno effettivamente perso tutto. “La mia riabilitazione è durata circa tre settimane: identificazione dei problemi, visita medica, esami, test psicologici”, condivide Kolesnikov, che al ritorno della prigionia pesava 32 chili in meno. In materia di riabilitazione e di reintegrazione, se per i militari esiste un protocollo ben definito, per i civili tutto questo non c’è. “Ma va creato!”, sottolinea Jaš?uk. “Procuratori e investigatori devono registrare i crimini commessi e agire secondo la Convenzione di Istanbul. Tutto questo deve essere fatto da specialisti, da esperti. E noi li abbiamo. Ma siamo ben consapevoli che, dati i numeri attuali e quelli che ci saranno quando queste persone torneranno, non ne avremo abbastanza comunque. Il sistema è da potenziare”. Ci sono organizzazioni non governative, fondazioni e organizzazioni religiose che aiutano. Uno degli obiettivi raggiunti in seno all’Ucraina è la modifica alla legislazione affinché i civili tornati in libertà siano tutelati e non possano essere mobilitati. Un traguardo non indifferente. “Tuttavia, anche qui emerge un problema profondo e strutturale. Parliamo di persone che arrivano soprattutto dalle zone occupate. Le loro storie sono molto diverse: c’è chi è riuscito a fuggire, chi ha riscattato un familiare con mezzi propri, chi è stato liberato in modi meno formali. Ma c’è un elemento comune: subiscono violenze di ogni genere, finché non vengono spezzate psicologicamente. E quando vengono completamente ‘distrutte’, se ai carcerieri serve ottenere qualcosa - un’impresa, un’abitazione, un veicolo, qualsiasi bene - trovano il modo di far firmare loro documenti o cedere tutto quello che hanno in cambio della promessa di libertà. Quella persona, ormai privata di tutto, spesso prende la difficile decisione di tornare nei territori controllati dall’Ucraina. E qui inizia un nuovo calvario: non riesce a dimostrare di essere stata prigioniera, torturata, detenuta illegalmente. Non ha nessuna prova, nessuna registrazione ufficiale, niente che attesti la sua esperienza perché il suo nome non appare nemmeno nelle ‘liste nere’. E chi poteva testimoniarlo è rimasto nelle zone occupate. Così si entra in un circolo vizioso: lo stato non ha ancora una procedura chiara, efficace, per riconoscere queste vittime invisibili. Questa è una lacuna che dobbiamo colmare. Perché, finché non ci sarà un sistema che riconosce e protegge anche queste persone, la giustizia resterà incompleta, e il ritorno alla libertà sarà solo parziale”. Senza contare, poi, che queste persone molto spesso non hanno nemmeno un posto dove andare, perché il loro territorio è occupato e tornare lì (se un tetto sopra la testa ce l’hanno ancora) vorrebbe dire mettere a rischio la propria vita. La linea europea sui prigionieri politici rimpatriati - Alona Maksymenko, collega di Nataliia Jaš?uk, ha contribuito a mettere in luce le soluzioni necessarie per una buona reintegrazione delle persone che tornano dalla prigionia. Innanzitutto, l’accesso immediato a cure e aiuti: mettere in atto e seguire programmi che includano assistenza medica, psicologica, acquisizione di documenti e sostegno finanziario, con particolare attenzione alle famiglie, sono punti cruciali. Tutto ciò deve, tuttavia, avvenire in maniera trasparente e nel contesto di leggi e procedure ben chiare. Alcune linee guida sono state stilate nella legge sul piano di reintegrazione, approvata il 15 marzo 2024, che dovrebbe garantire un sistema stabile per sostenere il rilascio e i diritti dei prigionieri liberati. Le autorità governative e le istituzioni (ministeri, commissioni, organizzazioni governative) dovrebbero infatti lavorare in perfetta sintonia con la società civile, colmando ciascuno i propri vuoti per fornire assistenza economica, legale e sociale. Un passo ulteriore va fatto cercando anche il sostegno internazionale. Sin dall’annessione illegale della Crimea del 2014, l’Unione europea impone sanzioni economiche e giuridiche per esercitare pressione sulla Russia nel contesto del conflitto con l’Ucraina (finora sono 18 i pacchetti di sanzioni adottati, l’ultimo nel luglio 2025). Questi sono indubbiamente strumenti chiave volti a mettere in ginocchio l’economia russa e a enfatizzare il reato di aggressione. A tal proposito, la creazione di un Tribunale speciale per il crimine di aggressione contro l’Ucraina, annunciata nel 2023 e sostenuta politicamente e finanziariamente da Bruxelles, mira a colmare un vuoto lasciato dalla Corte penale internazionale, che non può perseguire Mosca per il crimine di aggressione a causa di limiti giurisdizionali (la Russia non è parte dello Statuto di Roma). Il tribunale dovrebbe vedere la luce entro la fine del 2025 e avrà il compito di giudicare l’élite politica e militare russa ritenuta responsabile della guerra, rafforzando il principio dell’irresponsabilità zero anche per i leader di Stati potenti. Secondo Oleksandra Matvij?uk un’istituzione di questo tipo è necessaria e si tratta di una decisione politica in senso lato: “Se vogliamo prevenire le guerre in futuro, dobbiamo punire gli Stati e i leader che le scatenano oggi. C’è stato un solo precedente di questo tipo, i tribunali di Norimberga e Tokyo. [... ] Ricordo però Norimberga è un tribunale dei vincitori: ha processato i criminali di guerra nazisti dopo la caduta del regime. E per quanto triste possa essere, è stata stabilita una norma tacita secondo cui la giustizia è un privilegio dei vincitori. Ma la giustizia non è un privilegio. La giustizia è un diritto umano fondamentale”. Pur non incidendo direttamente sul destino dei prigionieri ucraini detenuti oggi in Russia, questo strumento giuridico rappresenta un primo tassello essenziale nella costruzione di un futuro quadro di giustizia e responsabilità internazionale. Infatti, se Bruxelles si è lanciata contro Mosca in tal senso - seppur registrando ad oggi risultati limitati nel punire la Russia a causa di compromessi da evasione sistemica, diversificazione verso partner non allineati e fragilità interne nell’applicazione - è vero anche che resta invece poco chiaro l’impatto effettivo di iniziative europee in sostegno a Kiev rivolte, in particolare, alla questione dei prigionieri politici rimpatriati, di cui poco si parla anche fuori dall’Ucraina: al momento, infatti, non esistono programmi centralizzati e strutturati che garantiscano un accesso diretto a supporto psicologico o socio-economico per chi torna dalla prigionia. In assenza di tutto ciò, l’accesso a tali misure rimane in gran parte gestito da attori nazionali ucraini, Ong e agenzie umanitarie, più che da programmi Ue diretti. I prigionieri politici di Crimea - Il Centro per le libertà civili, insieme ad altre realtà, si occupa anche dei prigionieri politici ucraini della penisola, in particolar modo dei tatari di Crimea. “Al momento ci sono più di 200 casi relativi alla Crimea, i cui cittadini vengono condannati per motivi politici. Inoltre, hanno iniziato da tempo a perseguire gli avvocati dei tatari di Crimea, privandoli della licenza di avvocato affinché non potessero difendere la loro stessa gente in Crimea”. Uno dei casi più importanti e clamorosi è quello di due avvocati, Lili Hemedži e Rustem Kamiljev, ai quali sono state revocate le licenze e che sono stati poi perquisiti e sottoposti a pressioni. La loro battaglia continua ancora oggi. Non gli permettono di lavorare, di rappresentare gli interessi dei tatari di Crimea. Li perseguitano costantemente. Parallelamente, il caso più noto di prigionia politica tra i crimeani è quello di Nariman Celâl, giornalista e attivista politico nato a Navoiy, nell’allora Repubblica Socialista Sovietica Uzbeka, e che nel 1989 ha fatto ritorno in Crimea con i suoi genitori. Collaboratore per il canale televisivo ATR e per il quotidiano Avdet, dal 2013 è il primo vicepresidente del Mejlis, l’organo di rappresentazione del popolo tataro di Crimea, a capo dell’Unità di informazione e analisi. È stato arrestato il 4 settembre 2021 per il presunto “sabotaggio di un gasdotto in Crimea, nel villaggio di Pereval’ne e accusato ai sensi dell’articolo 281, paragrafo 2, del Codice penale russo, che prevede la reclusione da 10 a 20 anni. Il 28 giugno 2024 Celâl è riuscito a tornare in Ucraina e lo scorso maggio è stato nominato dal presidente ucraino ambasciatore in Turchia. La sua storia ha un lieto fine che molti suoi colleghi, familiari e amici, non hanno. Viene raccontata nella raccolta documentaria Voci libere della Crimea (Vil’ni holosy Krymu), che narra le storie di sedici giornalisti e attivisti di origine prevalentemente crimeana e/o tatara, detenuti in Crimea per motivi politici dall’occupazione russa. Il volume, frutto di una collaborazione tra Ukrainian PEN, The Ukrainians Media, Vivat e il Centro per i Diritti Umani ZMINA (con il sostegno del National Endowment for Democracy), nasce dall’iniziativa #SolidarityWords lanciata nel 2021, con l’obiettivo di documentare e far conoscere le vicende dei prigionieri politici crimeani. Tutte le detenzioni, spesso punite con condanne da 7 fino a 19 anni, sono state motivate da accuse quali “terrorismo”, “estremismo” o “sabotaggio”, ritenute arbitrarie e funzionali alla repressione dell’informazione e del dissenso. Il libro, curato a più mani - tra cui si annovera il contributo dell’antropologa Olesja Jarem?uk - si distingue per il suo valore umano e storico: non solo mette in luce le atrocità subite (torture, processi iniqui, sofferenze carcerarie) ma tratteggia anche la resilienza e il coraggio dei protagonisti, che considerano l’impegno civico, la democrazia e la giustizia elementi inscindibili dalla loro identità crimeana. Prigionieri nell’oblio - La situazione dei prigionieri politici ucraini, sia civili che militari, resta drammatica: decine di migliaia di cittadini sono detenuti in Russia e nelle zone occupate, spesso senza alcun riconoscimento giuridico, accusati di reati pretestuosi come terrorismo o spionaggio e sottoposti a torture sistematiche in centri di detenzione estrema come quello di Taganrog. La tragica morte della giornalista ucraina Viktoriia Roš?yna, avvenuta in un carcere russo, testimonia la brutalità del sistema repressivo di Mosca. Denunciare questi crimini di guerra, ottenere la liberazione di tutti i prigionieri politici e fornire assistenza concreta a loro e alle loro famiglie, è a dir poco necessario. Ciò si può fare mantenendo alta l’attenzione nazionale e internazionale sulla loro situazione e spingendo l’Unione europea a istituire programmi di supporto concreti, mirati e coordinati. Infatti, nonostante le dichiarazioni di sostegno politico e i fondi destinati all’Ucraina, il ruolo dell’Unione nella questione dei prigionieri politici ucraini resta ancora marginale e poco strutturato. Bruxelles dovrebbe considerare di promuovere all’unanimità e più attivamente la creazione di un meccanismo di monitoraggio internazionale sulle condizioni di detenzione, sostenere con fondi dedicati i programmi di reintegrazione e riabilitazione per i prigionieri rientrati, e spingere per l’introduzione e la messa in atto di sanzioni mirate contro funzionari russi coinvolti in detenzioni arbitrarie. Inoltre, un’iniziativa diplomatica coordinata a livello Ue potrebbe contribuire a rafforzare la pressione multilaterale sulla Russia, al fine di garantire il rispetto dei diritti umani. Paesi quali Polonia e Paesi Bassi, che sono tra i principali promotori di risoluzioni europee sul riconoscimento della responsabilità russa per i crimini di guerra, illustrano come un impegno costante, sia a livello nazionale che europeo, possa contribuire a sviluppare strumenti di assistenza indispensabili. Consenso all’invio della newsletter: Dai il tuo consenso affinché Valigia Blu possa usare le informazioni che fornisci allo scopo di inviarti la newsletter settimanale e una comunicazione annuale relativa al nostro crowdfunding. Come revocare il consenso: Puoi revocare il consenso all’invio della newsletter in ogni momento, utilizzando l’apposito link di cancellazione nella email o scrivendo a info@valigiablu.it. Per maggiori informazioni leggi l’informativa privacy su www.valigiablu.it. Sarebbe, quindi, opportuno che l’agenda delle azioni politiche europee di oggi sul tema dei prigionieri fosse più concreta e visibile, e non meramente simbolica. Gaza. Per la prima volta le Ong israeliane accusano Israele di genocidio di Luca Foschi Avvenire, 29 luglio 2025 B’Tselem e Physicians for Human Rights (Phr) utilizzano la parola per descrivere le politiche attuate dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese nella Striscia. “Non avremmo mai immaginato di scrivere questo rapporto, ma negli ultimi mesi abbiamo visto una realtà che non ci ha lasciato nessuna scelta se non quella di riconoscere la verità: Israele sta commettendo un genocidio”. Lo ha detto in ebraico, arabo e inglese la presidente dell’Ong B’Tselem, Orly Noy. È la prima volta che due Ong israeliane, B’Tselem e Physicians for Human Rights (Phr), utilizzano la parola genocidio per descrivere le politiche attuate dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese nella Striscia di Gaza. L’occasione è stata la pubblicazione di due studi che raccolgono una considerevole mole di dati, testimonianze e documenti, presentati alla stampa riunitasi nella sala conferenze dell’hotel Ambassador, nel quartiere di Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est. “Per ventidue mesi gli ospedali sono stati attaccati, ai pazienti sono state negati trattamenti salva-vita e gli aiuti sono stati impediti. Questo è un chiaro modello volto alla distruzione di un popolo. È nostro dovere di medici affrontare la verità e fare tutto ciò che è in nostro potere per proteggere i nostri colleghi, che a Gaza rischiano la vita per salvare le persone in condizioni impossibili”, ha affermato Guy Shalev, direttore esecutivo di Phr. Il nostro genocidio e Distruzione delle condizioni di vita: una analisi medica del genocidio di Gaza, da ieri disponibili in rete, sono due report di 88 e 65 pagine, rispettivamente. Entrambi, sostengono i rappresentanti delle due Ong, sono attraversati dallo stesso schema di fondo: la lunga storia di violenza, discriminazione e isolamento cui sono stati sottoposti i palestinesi nel regime di occupazione militare ha creato le condizioni perché il sistema politico, culturale e sociale israeliano, innescato dall’attacco terroristico del 7 ottobre, reagisse con pratiche che chiaramente esulano dal diritto internazionale, fino all’estrema conseguenza del genocidio. Le ricerche affondano nel passato e paventano un’estensione dei metodi utilizzati nella Striscia alla Cisgiordania, già parzialmente in atto. “Niente ti prepara per il momento in cui realizzi di essere parte di una società che sta commettendo un genocidio. È un momento molto doloroso per noi”, ha spiegato con la voce rotta Yuli Novak, direttrice esecutiva di B’Tselem. In risposta alle domande dei giornalisti sul concetto di “intenzionalità”, fondamentale perché il genocidio possa avere spessore legale, Novak ha detto: “Sappiamo dalla storia che il sistema legale internazionale arriva alle conclusioni con grave ritardo, quando il danno è già stato fatto. Tutti hanno sentito il nostro presidente, il primo ministro, il ministro della Difesa distribuire le colpe di Hamas su tutta la popolazione di Gaza. Li abbiamo sentiti chiamare i gazawi “animali umani” e “amalek”, i “nemici eterni”. Abbiamo sentito le stesse parole poi dai comandanti sul campo, cantate dai soldati: “non esistono innocenti, Gaza deve essere distrutta”. Abbiamo visto i risultati. Dobbiamo guardare all’intento non solo come legali, ma come persone con occhi, cuore e mente”. “È come se nella Striscia Israele stesse seguendo un manuale: l’ordine di evacuazione degli ospedali getta centinaia di persone bisognose di cure in mezzo alla strada. Poi l’ospedale viene bombardato, e cessa di funzionare. Dal 7 ottobre sono 36 gli ospedali distrutti”, spiega Aseel Aburass, direttrice delle ricerche sul campo per Phr. Che aggiunge: “Il nostro rapporto si concentra sull’articolo 2c della Convenzione sul genocidio: la deliberata intenzione di creare condizioni di vita insostenibili, capaci di determinare la distruzione di un gruppo. Questa definizione legale riconosce che il genocidio possa verificarsi attraverso azioni che colpiscono le infrastrutture, non soltanto attraverso i massacri”. Secondo lo studio, sarebbero almeno 1.500 gli operatori sanitari uccisi, 300 gli arrestati. Numerose le proteste, i richiami ufficiali portati all’attenzione del governo di Tel Aviv e della comunità internazionale in questi ventidue mesi, confermano tutti i relatori. Nessuna azione decisiva è seguita. “I nostri operatori a Gaza e in Cisgiordania hanno pagato personalmente per le loro ricerche. Molti dei loro familiari sono stati uccisi o feriti. I nostri colleghi israeliani hanno sofferto e soffriranno l’isolamento”, ha sottolineato Kareem Jubran, da due decenni a capo del lavoro di ricerca sul campo per B’Tselem. Qualcosa sta cambiando, tuttavia, nella percezione degli israeliani, anche se “sono pochi, ancora pochi a voler vedere”, afferma Yuli Novak. Allo stesso modo comincia a mostrare importanti cedimenti il muro di colpevole passività della comunità internazionale. “È difficile superare la linea, perché superarla smantella la nostra identità profonda, ci dice chi siamo, e cosa vogliamo essere. Ma quando ciò avviene diventa chiarissimo ciò che devi fare. Spero che molte persone possano presto intraprendere la strada che porta alla fine del genocidio”. Iran. L’attacco israeliano contro la prigione di Evin va indagato come crimine di guerra di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 29 luglio 2025 Non è emersa alcuna credibile prova che il carcere costituisse un obiettivo militare. Gli attacchi, avvenuti in un giorno lavorativo e in un orario di visite - hanno ucciso o ferito decine di civili. “Stanno sganciando bombe su di noi. Alcune persone sono ferite, le finestre sono in frantumi, siamo tutti sparpagliati … Adesso hanno colpito ancora. Non so, a me pare una cosa intenzionale. Ma bombardare una prigione è una cosa priva di logica e incompatibile con ogni codice di condotta. Loro [le autorità della prigione] hanno chiuso la porta e non abbiamo alcuna notizia”. Sono le parole dette, in una concitata telefonata ai familiari, dal dissidente politico iraniano Mohammad Mourizad, dall’interno della sezione 8 della prigione di Evin, a Teheran. È solo una delle molteplici fonti - tra cui immagini satellitari, foto e video validati e testimonianze dall’esterno e dall’interno del centro penitenziario - che hanno portato Amnesty International a concludere che l’attacco intenzionale, portato a termine a più riprese il 23 giugno da Israele contro la prigione di Evin, abbia costituito una grave violazione del diritto internazionale umanitario e debba essere indagato come crimine di guerra. Ai sensi delle norme che regolano lo svolgimento dei conflitti, una prigione o un luogo di detenzione sono considerati obiettivi civili. Non è emersa alcuna credibile prova che la prigione di Evin costituisse un legittimo obiettivo militare. Gli attacchi, avvenuti in un giorno lavorativo e in un orario in cui buona parte del carcere era piena di civili - tra cui familiari in visita ai prigionieri - hanno ucciso o ferito decine di civili e causato gravi danni e distruzioni in almeno sei zone del complesso penitenziario. Ore dopo, l’esercito israeliano ha confermato gli attacchi e alti funzionari israeliani se ne sono compiaciuti sulle piattaforme social. Ad esempio, il ministro degli Affari esteri Gideoon Sa’ar ha scritto su X: “Avevamo ammonito l’Iran più volte: non attaccate i civili. Hanno continuato, anche stamattina. La nostra risposta: Donna, Vita Libertà”. Il post era accompagnato da un video, asseritamente proveniente da una telecamera a circuito chiuso della prigione, che ne mostrava l’ingresso saltato in aria. Analizzando il video, Amnesty International ha verificato che le immagini erano state manipolate digitalmente, probabilmente a partire da una vecchia fotografia dell’ingresso della prigione. Il video è stato inizialmente pubblicato su canali Telegram in lingua persiana, ma l’organizzazione per i diritti umani non ha potuto rintracciare la fonte originale. Al momento degli attacchi, a Evin c’erano 1500-2000 prigionieri, tra i quali difensori dei diritti umani, manifestanti, dissidenti, fedeli di minoranze religiose perseguitate e cittadini stranieri o con doppio passaporto, questi ultimi spesso imprigionati dalle autorità iraniane per esercitare pressioni diplomatiche. La prigione di Evin si trova in un’area piena di edifici residenziali prossimi ai suoi lati orientale e meridionale. Un abitante del posto ha descritto ad Amnesty International cos’è avvenuto dopo l’attacco: “Improvvisamente ho sentito un rumore terrificante. Ho guardato dalla finestra e ho visto fumo e polvere salire dalla prigione di Evin. Tanto il rumore quanto il fumo e la polvere che si sollevavano erano terribili. E io che credevo che la nostra abitazione sarebbe stata al sicuro proprio perché era vicina alla prigione… Non ci potevo credere!”. Finora le autorità hanno reso noti i nomi di 57 civili uccisi negli attacchi, tra i quali quelli di cinque operatrici sociali, di 13 ragazzi che stavano svolgendo il servizio militare obbligatorio come guardie penitenziarie o nell’amministrazione, di altre 36 persone (30 uomini e sei donne) che lavoravano nella prigione e del figlio di una delle operatrici sociali. Dopo essere state criticate per non aver fornito dettagli sulle persone detenute, sui loro familiari e sugli abitanti uccisi, il 14 luglio le autorità hanno diffuso un rapporto contenente i nomi di due persone: Mehrangiz Imanpour, un’abitante, e Hasti Mohammadi, una donna che faceva volontariato per raccogliere soldi per saldare i debiti dei prigionieri. Amnesty International aveva già verificato che Mehrangiz Imanpour era stata uccisa e aveva ottenuto i nomi di altre tre vittime: Masoud Behbahani (un prigioniero), Leila Jafarzadeh (coniuge di un prigioniero, per la cui scarcerazione stava versando la cauzione) e Ali Asghar Pazouki (un passante). Nella parte centrale della prigione di Evin l’ambulatorio medico, la cucina centrale, la sezione 4 degli uomini e la sezione 209 contenente celle d’isolamento per donne e uomini gestite dal ministero dell’Intelligence nonché la sezione donne hanno riportato gravi danni. Le prove video verificate da Amnesty International confermano le dichiarazioni delle difensore dei diritti umani Narges Mohammadi e Sepideh Gholian, entrambe in Iran, le quali hanno riferito ad Amnesty International che più testimoni, dalla prigione di Evin, hanno parlato di gravi danni all’ambulatorio. Narges Mohammadi ha dichiarato che detenuti della sezione 4, situata di fronte all’ambulatorio, le hanno detto che l’ambulanza della prigione era stata distrutta: ciò è stato anche confermato da video che mostrano veicoli distrutti nei pressi dell’ambulatorio. I prigionieri le hanno anche detto che una persona con gravi ustioni sul corpo è crollata a terra mentre stava fuggendo dall’ambulatorio. Due prigionieri, Abdolfazi Ghodiani e Mehdi Mahmoudian, sopravvissuti agli attacchi israeliani e poi trasferiti nel Penitenziario maggiore di Teheran, hanno scritto una lettera da questa prigione, diventata pubblica il 1° luglio: “La prigione di Evin è stata colpita da diverse, consecutive esplosioni, due o tre delle quali nei pressi della sezione 4. Quando i prigionieri sono usciti dalla porta della sezione hanno visto l’ambulatorio medico in fiamme. I prigionieri hanno recuperato dalle macerie 15-20 corpi: personale medico, prigionieri, staff amministrativo, guardie e agenti”. Saeedeh Makarem, una medica volontaria presso la prigione di Evin, è rimasta ferita riportando anche ustioni. In una serie di post pubblicati su Instagram a luglio ha raccontato come è stata aiutata dai prigionieri: Mi hanno trascinata verso l’angolo del muro, ero semi-cosciente. Mi hanno portato acqua e una coperta, steccato una gamba e pulito il volto dal sangue. Avrebbero potuto fuggire, ma non lo hanno fatto. Mi hanno salvata”. Il dissidente ed ex prigioniero di coscienza Hossein Razagh ha detto ad Amnesty International che i detenuti della sezione 4 gli hanno raccontato che la forza dell’esplosione li ha scagliati contro il muro e che hanno riportato ferite al capo e al volto. Secondo le ricerche di Amnesty International, l’esplosione ha coinvolto anche gli uffici del personale della sezione 209, intrappolando sotto le macerie alcuni agenti e guardie. Le autorità iraniane non hanno fornito alcuna informazione sulla sorte e sulla destinazione delle persone detenute nelle celle d’isolamento della sezione 209, facendo sorgere timori sulla loro possibile morte o sul loro possibile ferimento. Attraverso una fonte informata dei fatti, Amnesty International ha avuto conferma della morte di un prigioniero della sezione 4, Masoud Behbahani, di 71 anni. Ha avuto un infarto dopo che l’esplosione lo ha scagliato via da una sedia e diversi prigionieri sono caduti sopra di lui. Invece di essere portato subito in ospedale, è stato trasferito nel Penitenziario maggiore di Teheran, dove è morto a seguito di un secondo infarto. Amnesty International ha analizzato anche un’immagine scattata all’interno della sezione femminile in cui si vedono i danni al soffitto e all’impianto elettrico. Un’immagine satellitare analizzata da Amnesty International mostra la distruzione di una strada e di due mura di sicurezza nella zona nord della prigione, nei pressi di un edificio al cui interno si trovano le sezioni 240 e 241, note per la presenza di centinaia di celle d’isolamento. Tuttavia, non sono reperibili immagini sulle condizioni dell’edificio e le autorità non hanno diffuso alcuna informazione sulla sorte dei prigionieri che si trovavano all’interno. Amnesty International ha parlato con famiglie di prigionieri che hanno riferito di danni alla sezione 8, vicina alle sezioni 240 e 241. L’avvocata per i diritti umani Nasrin Sotoudeh ha detto ad Amnesty International che il suo coniuge arbitrariamente detenuto, il difensore dei diritti umani Reza Khandan, e altri prigionieri sono rimasti feriti a causa delle macerie cadute nel cortile. La prossima settimana analizzeremo le violazioni del diritto internazionale umanitario commesse dalle forze iraniane nei loro attacchi contro Israele. *Portavoce di Amnesty International Italia