Le carceri senza aria né umanità: servono misure di giustizia di Samuele Ciambriello L’Edicola del Sud, 28 luglio 2025 Da decenni i numeri dei suicidi, del sovraffollamento, delle pessime condizioni igieniche sanitarie, dei detenuti chiusi per 20 ore al giorno nelle celle, delle poche misure alternative al carcere, dell’eccessivo uso del carcere preventivo ci inducono a pensare che è difficile parlare di un “carcere nella Costituzione”, perché semplicemente non esiste nella realtà. Non esiste, oggi, un carcere che incarni i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è un luogo ideale, secondo alcuni una mera utopia irrealizzabile, sicuramente un obiettivo ancora lontano ma, almeno io credo, essenziale per affrontare seriamente e realisticamente questo problema. Forse, allora, tutti dobbiamo avere il coraggio di parlare di un carcere fuori dalla Costituzione. Il Presidente della Repubblica, il 30 giugno, rivolgendosi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) ha espresso un richiamo forte rivolto al Governo e alla Politica in generale con cui, espressamente, ha sottolineato che le carceri non possono calpestare i diritti dei detenuti e “non devono essere una fabbrica di criminalità”. D’altronde, un criminale recuperato nella società è una garanzia di sicurezza per tutti e, soprattutto, un obiettivo costituzionale. Il sovraffollamento e i suicidi “sono un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Infine, ultimo appello concreto con specifico riguardo alla piaga citata, per il Presidente “le carceri sono sovraffollate anche per l’insufficiente ricorso all’applicazione di pene alternative e dell’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva”. L’emergenza è adesso di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2025 La vera emergenza è adesso e non si affronta con nuove carceri, ma con coraggio politico, depenalizzazione, misure alternative credibili e rispetto per la dignità umana. Aumentano le persone detenute, peggiorano le condizioni di vita, si moltiplicano le proteste, i suicidi e le segnalazioni di trattamenti inumani. È questa la fotografia impietosa che offre “L’emergenza è adesso”, Rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone, frutto di 86 visite negli istituti penitenziari italiani effettuate negli ultimi 12 mesi dal nostro Osservatorio. Al 30 giugno 2025 le persone detenute erano 62.728, in aumento di 1.248 unità rispetto all’anno precedente. A fronte di una capienza regolamentare di 51.276 posti, e con oltre 4.500 letti indisponibili, il tasso di affollamento reale si attesta al 134,3%. In ben 62 istituti il sovraffollamento supera il 150%, e in 8 casi addirittura il 190% - come a San Vittore, Foggia, Lodi e Roma Regina Coeli. Nel 35,3% degli istituti visitati c’erano celle in cui non erano garantiti 3mq a testa di spazio calpestabile. Mentre il Governo annuncia piani irrealistici e promesse che si ripetono da vent’anni, i numeri smascherano l’assenza di strategie efficaci. Il tanto decantato piano di edilizia penitenziaria prevede 7.000 nuovi posti entro fine anno, ma nell’ultimo anno ne sono stati realizzati appena 42. Di contro, i posti effettivi disponibili sono diminuiti di 394. Nel frattempo, la custodia chiusa riguarda oltre il 60% delle persone detenute, costrette a rimanere per ore in celle sovraffollate e bollenti. In piena estate, senza ventilazione adeguata e con accessi limitati all’acqua, la vita quotidiana in carcere è disumana. Le celle raggiungono i 37 gradi, con ventilatori acquistabili solo a pagamento e a numero limitato. Gravissima anche la situazione nelle carceri minorili, dove si dorme su materassi a terra, mancano le ore d’aria, e l’utilizzo di psicofarmaci è in allarmante crescita. Dopo l’entrata in vigore del Decreto Caivano, gli Istituti Penali per Minorenni hanno visto un aumento del 50% della popolazione detenuta in meno di tre anni. Oggi più del 60% dei ragazzi presenti è ancora in attesa di giudizio. Sono 91 i minorenni trasferiti in istituti per adulti solo nella prima metà del 2025. Tra i provvedimenti più recenti, il Governo ha approvato un disegno di legge che prevede la detenzione domiciliare in comunità terapeutica per le persone tossico o alcol-dipendenti con pena residua fino a 8 anni. Ma dietro l’apparente apertura si cela un’impostazione sbagliata: la nuova misura sostituisce l’affidamento in prova - già previsto per pene fino a 6 anni - con una forma comunque detentiva. In pratica, si sacrifica uno strumento più aperto e rieducativo in favore di un altro più restrittivo, escludendo tra l’altro le persone recidive con una pena superiore ai due anni, che rappresentano proprio la parte più fragile e bisognosa di supporto, in un sistema penitenziario dove il 62% dei detenuti è già stato almeno una volta in carcere. Una vera soluzione al problema può venire solo dalla depenalizzazione del consumo di sostanze, e da un rafforzamento delle misure comunitarie e socio-sanitarie. La condizione sanitaria non è migliore. Il 14,2% delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave, e il 21,7% assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Ma in 29 istituti il medico non è presente di notte. Manca personale, e anche se i concorsi sono stati banditi, il sovraffollamento rende ogni sforzo insufficiente. Il disagio si manifesta con numeri allarmanti: 22,3 atti di autolesionismo e 3,2 tentati suicidi ogni 100 detenuti. I suicidi registrati da inizio anno sono 45, un dato altissimo, secondo solo al 2024, l’anno peggiore di sempre. I soggetti più fragili - giovani, persone con disagio psichico, senza fissa dimora - pagano il prezzo più alto. A fronte di tutto ciò, le misure alternative esistono ma non vengono applicate abbastanza. Al 30 giugno erano 23.970 le persone con una pena residua sotto i 3 anni: potenzialmente idonee a scontare la pena fuori dal carcere, ma in larga parte dimenticate. Nel frattempo, più di 100.000 persone stanno scontando pene in esecuzione esterna, ma il dato non basta a frenare l’aumento in carcere. “Antigone denuncia da anni come la detenzione debba essere extrema ratio, non una scorciatoia repressiva. L’attuale Governo, invece, risponde all’emergenza con l’inasprimento delle pene, l’introduzione di nuovi reati, l’illusione di soluzioni edilizie e l’inascolto delle proteste. Il risultato è un sistema penitenziario fuori controllo, che non solo viola i diritti fondamentali, ma tradisce ogni finalità costituzionale della pena, mettendo a dura prova la vita delle persone detenute e degli operatori penitenziari” dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Serve una riforma radicale del sistema penitenziario. Antigone aveva già presentato nel 2022 una proposta per un nuovo regolamento, con interventi concreti per migliorare la vita quotidiana delle persone detenute. Chiediamo: più possibilità di contatti telefonici e video con l’esterno; un maggiore utilizzo delle tecnologie digitali; la drastica riduzione dell’isolamento come strumento disciplinare; la prevenzione degli abusi; la promozione della sorveglianza dinamica e di un sistema centrato sul rispetto della dignità umana. Link al Rapporto: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/Emergenzaadesso2025.pdf *Ufficio Stampa Associazione Antigone Del diritto, dei media e della corruzione di Giovanni Maria Flick Il Foglio, 28 luglio 2025 L’informazione, da valore fondamentale quale era, è diventata un prodotto commerciale e uno strumento politico. L’informazione acquisita in sede giudiziaria e investigativa non può diventare uno strumento etico di controllo generale della “moralità” di una persona per quanto “pubblica”. Le intercettazioni e il sequestro di corrispondenza devono essere indispensabili con riferimento all’investigazione su uno specifico reato. Lo strumento penale serve per accertare e se del caso punire fatti criminali, non per risolvere fenomeni sociali. Gli interventi del legislatore sono stati caotici e contraddittori. L’inchiesta di Milano e la grande confusione sotto il cielo della giustizia italiana. Le cronache giudiziarie di questi giorni; il richiamo - probabilmente a torto - di una nuova Tangentopoli a trent’anni di distanza dalla prima; l’esposizione di tesi difensive (giustificata anche dalla recente innovazione in tema di premessa doverosa ma discutibile alle misure cautelari); l’incentivo a strumentalizzazioni e fake news; la scarsa conoscenza delle regole e la curiosità. Sono tutti coefficienti di una confusione che richiede un minimo di chiarezza per la comprensione e riflessione sulle tesi che da più parti (accusa, difesa, opinione pubblica) si sovrappongono e si confrontano. Quindi richiede un richiamo sommario sia delle regole sul significato, obiettivi e disciplina dell’informazione sul tema e le sue premesse; sia soprattutto sulla disciplina sostanziale e sulla storia recente del tema della corruzione di cui discutiamo. Quanto all’informazione dei media è ampiamente noto che la pubblicazione di notizie vìola spesso norme mal scritte, ambigue e ipocrite sul segreto investigativo e sul divieto di pubblicazione degli atti d’indagine. In genere tali violazioni non sono perseguite, per molteplici ragioni. L’informazione compie “solo” il suo dovere quando pubblica notizie di interesse pubblico, purché rispettino “i limiti della verità (quanto meno putativa), della continenza e della pertinenza”. In tal caso non soltanto si beneficia della scriminante del diritto di cronaca rispetto ad attribuzioni oggettivamente diffamatorie, ancorché in sé “vere”. Ma si “scarica” sul provvedimento giudiziario il riscontro del requisito della verità del suo contenuto. La persona indagata è “presunta innocente” fino a sentenza definitiva, nel rispetto del decreto legislativo 188-2021 (una delle tante “riforme Cartabia”). Quel decreto attua una direttiva europea rivolta non ai giornalisti ma agli stati e alle autorità giudiziarie, affinché non vengano attribuite responsabilità come se fossero già accertate in sentenza; e non siano indicate come colpevoli persone non condannate definitivamente (spesso neppure imputate) secondo un principio da 75 anni nella nostra Costituzione. Definire il concetto di continenza spetta ai giornalisti, alla loro esperienza e professionalità; se necessario ai loro organi disciplinari o eventualmente al giudice. È continenza il rispetto dell’altro; l’esposizione di ciò che è utile o necessario perché io possa dire quello che penso o che ritengo sia di interesse pubblico. Altro discorso è la continenza degli atti giudiziari, che spesso manca anch’essa. Nel racconto giornalistico di indagini in corso - al di là delle tesi difensive o accusatorie - primeggia il contenuto delle intercettazioni e della corrispondenza tra gli indagati o tra indagati e soggetti terzi, anche grazie alla maggior frequentazione tra avvocati difensori e pubblici ministeri. Le intercettazioni e il sequestro di corrispondenza (quest’ultimo eseguito ormai prevalentemente tramite estrazione di copia di mail e messaggi dagli smartphone e dai pc) devono essere indispensabili con riferimento all’investigazione su uno specifico reato. Le ragioni che rendono l’argomento incandescente sono almeno quattro. La prima ragione: sono in gioco interessi primari dell’ordinamento: la libertà personale, la riservatezza, la sicurezza, l’accertamento di giustizia, il diritto di informazione e di cronaca. La seconda ragione: non sempre la questione riguarda delle norme, ma dei comportamenti. La legge già prevede il requisito della “assoluta indispensabilità” delle intercettazioni: non si possono utilizzare in altri procedimenti, salvo che l’intercettazione sia indispensabile e rilevante per accertare delitti specifici indicati dalla legge. Per il sequestro di dispositivi informatici e del loro contenuto occorre una disciplina aggiornata alle novità della tecnica, secondo le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nel 2023. Lo strumento penale serve per accertare e se del caso punire fatti criminali; non per risolvere fenomeni sociali. Tanto meno per fondare valutazioni di carattere etico o politico o “elettorale”, in nome di una pretesa “trasparenza” di tutti e/o a favore di tutti (magari con i social). La terza ragione: gli interventi del legislatore sono stati caotici e contraddittori. Le norme sono complicate e contorte come quelle sul merito dei comportamenti in esame. La quarta ragione: l’evoluzione tecnologica ha coinvolto tutti i mezzi di ricerca della prova, dalle analisi del Dna alle qualità delle riprese video, alla geolocalizzazione, agli strumenti di “forensic” e alla loro utilizzazione e applicazione ora anche “retroattiva”. Per le comunicazioni e le conversazioni private, alle intercettazioni telefoniche o ambientali “tradizionali” si è aggiunto “il captatore informatico” (trojan), di difficile controllabilità nell’uso. La maggior parte delle intercettazioni pubblicate dai media proviene dalle ordinanze di custodia cautelare. A seguito della recente modifica dell’art. 114 c.p.p. il mondo dei media ha parlato di nuova “legge-bavaglio”; la politica invece di misura necessaria per la riservatezza e il sereno svolgimento delle indagini preliminari. Entrambe le posizioni appaiono eccessivamente influenzate dall’appartenenza alle rispettive categorie. È certamente necessaria una maggiore responsabilizzazione dei giornalisti. Troppo spesso la “fame di notizie” conduce alla distruzione della reputazione di terzi estranei alle vicende; o spinge alla violazione dei più elementari principi di civiltà giuridica. Però non è tanto problematica la pubblicazione degli atti in sé, quanto il modo in cui le informazioni all’interno di quei provvedimenti vengono riportate. La continenza e la pertinenza - peraltro espressamente previste dalla legge - dovrebbero riguardare sia il pubblico ministero che chiede la misura, sia il giudice per le indagini preliminari che la concede. L’attività giudiziaria fornisce materiali appetibili per il mondo dell’informazione sotto molti profili. Quei materiali agevolano il controllo sociale e quello sui pubblici poteri da parte dei giornalisti: un compito primario dell’informazione in un paese libero. Ma soddisfano anche curiosità umanamente comprensibili, che dovrebbero essere sottoposte a un vaglio critico e a un rigoroso filtro deontologico. Resta fermo e difficilmente contestabile un principio di fondo che discende dai tre capisaldi fissati dalla Costituzione: il diritto a manifestare a tutti le proprie opinioni (articolo 21); quello di limitarle soltanto ad alcuni destinatari (articolo 15); il diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere; cogitationis poenam nemo patitur). L’informazione da valore fondamentale quale era è diventata un prodotto commerciale e uno strumento politico, entrambi ampiamente condizionati dal profitto e dal potere. Quanto meno l’informazione acquisita in sede giudiziaria e investigativa - con i suoi limiti, le sue possibilità e i suoi fini “di giustizia” - non può diventare uno strumento etico di controllo generale della “moralità” di una persona per quanto “pubblica”. Tanto più in un contesto che vede allargarsi la prevenzione dei reati rispetto alla loro repressione. Si parla tuttora di ruolo essenziale del “quarto potere” - quello dell’informazione - per la democrazia: ma quale “potere”? Perché quarto e rispetto a chi lo precede? Quale “informazione”? Sono realtà tutte da chiarire per consentire in primo luogo che giustizia, politica e informazione facciano ciascuna il proprio “mestiere” senza sovrapposizioni, ambiguità e strumentalizzazioni o “vendette”. Il dibattito richiede - almeno nella fase della ricostruzione di ciò che è successo - chiarezza, rispetto reciproco dei suoi protagonisti e soprattutto delle loro competenze istituzionali nonché dei loro diritti. La cronaca giudiziaria svolge tuttavia un ruolo particolarmente importante - e altrettanto delicato - in una società come la nostra. In essa per un verso manca una vera e propria cultura della legalità; per un altro verso l’indifferenza e l’ignoranza del rapporto fondamentale fra dignità, libertà e democrazia ha aperto le porte ad un pericoloso populismo penale. In materia di contrasto alla corruzione le imprese - soprattutto quelle di grandi dimensioni - si sono dotate di protocolli volti a garantire integrità, trasparenza e prevenzione anche nel rispetto di standard internazionali. A livello normativo si è verificato l’allargamento della operatività degli strumenti investigativi (cfr. il c.d. trojan) e della custodia preventiva. Si è consolidato il ricorso al “doppio binario” processuale per criminalità organizzata e corruzione. Si è affiancata al magistrato l’autorità nazionale anticorruzione con l’attribuzione di molteplici poteri. Non si è peraltro mantenuto l’impegno da essa richiesto di rafforzare i controlli di carattere amministrativo in sede di prevenzione nel momento in cui si è eliminato - per la sua genericità e “inutilità” pratica - lo strumento di controllo rappresentato dall’”abuso d’ufficio” (art. 323 c.p.). Un già presente in passato con l’eliminazione del reato di “interesse privato in atto d’ufficio” (art. 324 c.p.). L’anticipazione del “contraddittorio” per la richiesta di misure cautelari da parte del pubblico ministero al Gip rappresenta un’ulteriore, probabile e inevitabile applicazione, in pratica, delle regole instauratesi nella prassi. La “informazione di garanzia” per l’interessato coinvolto nell’indagine è divenuta una sorta di “garanzia di informazione” per i terzi; una sorte “analoga” è prevedibile per il dibattito sulla misura cautelare. Le novità non sembrano tradursi tuttavia in un freno efficace alla corruzione. La reazione dell’opinione pubblica al fenomeno diminuisce in misura proporzionale alla scoperta e al contrasto di essa quando dai vertici e dalle figure di spicco dell’amministrazione pubblica e delle imprese si scende alla quotidianità della “piccola e media” corruzione. *** Quanto al merito della corruzione, l’incapacità della politica di affrontare e risolvere sia questioni sociali, sia offensive criminali costantemente nuove ha determinato una sempre più ingombrante “supplenza giudiziaria”. La corruzione però è cambiata profondamente nelle sue modalità, obiettivi e presupposti. Dagli inizi degli anni ‘90 la magistratura ricorreva al diritto penale societario e al falso in bilancio per colpire il terreno di Nerolandia, ossia la provvista di denaro per commettere o per occultare la corruzione di Tangentopoli e dei suoi rapporti criminosi con Mafia City da parte delle imprese, in uno con il delitto di finanziamento illecito dei partiti. Le riforme del 2012 e del 2015 hanno trasformato il volto della corruzione rispetto alla sua tradizione di scambio a due e al suo significato di lesione del prestigio della pubblica amministrazione. A ciò si è aggiunta l’evoluzione - se pure con esiti non soddisfacenti - della responsabilità degli enti da reato di cui al decreto legislativo n. 231-2001, che non a caso nasceva dalla legge delega 300-2000, di ratifica della Convenzione Ocse del 1997 sulla corruzione. La c.d. legge Severino ha sostituito il reato di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità con il delitto di corruzione fra privati; ha inserito la corruzione privata “attiva” nel novero dei reati suscettibili di generare la responsabilità per gli enti. Si è saldato così il legame fra compliance aziendale ed esigenza di prevenire fenomeni corruttivi anche nelle relazioni tra le società private. Con la legge “spazza-corrotti” invece sono state introdotte tra le altre previsioni la procedibilità di ufficio per i reati di corruzione e di istigazione alla corruzione fra privati; nonché l’aumento della durata delle sanzioni interdittive a carico di società responsabili ai sensi del decreto legislativo n. 2312001. Si era anche introdotta l’ostatività per i reati contro la Pa (come avviene per i reati di mafia e terrorismo), salva l’abolizione della previsione ad opera del governo attuale. Tra gli elementi più significativi di questa profonda trasformazione della corruzione vi sono il mercato globale e la sua dimensione internazionale; la lesione ai canoni di eguaglianza e competitività; la trasformazione delle tecniche corruttive anche alla luce del decentramento regionale e della privatizzazione delle modalità e decisioni di impiego del pubblico denaro; la “coincidenza” anche temporale fra la stagione delle “stragi di mafia” a Palermo e quella di Mani Pulite a Milano nel 1992; la risonanza internazionale di entrambe e la reazione nazionale, convenzionale e internazionale ad esse. La corruzione è ancora un problema del nostro paese e spesso si ricorre ad essa per governare o per ottenere benefici. Sono frequenti le inchieste giornalistiche e le indagini penali sui grandi appalti e sulle grandi opere. Al di là dell’accertamento delle responsabilità penali emerge come sia ancora debole il cordone di protezione della legalità e ancora più fragile il “palazzo di cristallo” della pubblica amministrazione. A essere maggiormente diffusa sul territorio - nonostante i sensazionalismi giornalistici della narrazione sul politico corrotto e sull’imprenditore corruttore - è la corruzione di piccolo taglio, il malcostume consolidato del dare o chiedere denaro in cambio di piccoli vantaggi. In questa dimensione si mantiene il rapporto sinallagmatico della corruzione classica collegata a un atto amministrativo, ossia a un comportamento specifico richiesto al pubblico ufficiale, spesso per accorciare i tempi ed evitare gli intralci del rapporto con la burocrazia. Quest’ultima forma di corruzione denota ulteriormente quella indifferenza verso la legalità - e diffidenza verso lo stato - che fa parte del comune sentire italiano. Richiedere un certificato senza prima aver chiesto all’amico di attivarsi se conosce “qualcuno che lavora lì”, viene visto come un’eccezione o una scelta ingenua. Alcune recenti vicende giudiziarie che hanno riguardato fenomeni corruttivi in ambito politico dimostrano che c’è ancora molto da fare per diffondere la cultura della legalità a tutti i livelli. Confermano che il contrasto alla corruzione tramite la minaccia penale non può e non deve trasformarsi in “eccesso di controllo” e in nuove e pericolose prospettive di delegittimazione del sistema politico in favore della riaffermazione del ruolo “pubblico” della magistratura penale. L’associazione della corruzione del grande gruppo imprenditoriale con le logiche della criminalità organizzata può essere fuorviante; rischia di far perdere l’attenzione sulla vera natura della corruzione di impresa. Quest’ultima corrompe perché conviene economicamente: costa meno commettere l’illecito piuttosto che rispettare la normativa di settore o i particolari requisiti del bando o della gara pubblica. La corruzione diventa scelta illecita di business. Su questo piano deve essere contrastata; ferma restando la distinzione tra omertà comune ad entrambi i protagonisti del “patto corruttivo”; fra esponenti della criminalità organizzata e imprenditori. La corruzione fra loro spesso è fondata su presupposti di comune convenienza e non solo di paura. In questo senso è particolarmente opportuna l’attenzione dedicata dall’autorità anticorruzione (Anac) al tema dei controlli preventivi sulla trasparenza e sul “ciclo di vita dei contratti pubblici”. Il problema del rapporto fra il processo al singolo e quello al sistema si polarizza soprattutto sul tema della corruzione, nell’ottica nazionale e in quella sovranazionale e comunitaria. Rientra in quest’ambito l’introduzione di fattispecie penali con scarsa tassatività come il traffico di influenze illecite - oggi oggetto di riforma per una sua migliore precisazione - e la c.d. corruzione per induzione. Quest’ultima rappresenta la risposta alla richiesta europea di una maggior chiarezza e semplicità nel rapporto fra corruzione e concussione, fra il privato concorrente o vittima e il pubblico operatore. Alla ipotesi già tradizionale della corruzione del pubblico ufficiale “per un atto contrario ai doveri di ufficio” si affianca quella “per l’esercizio della funzione”. Essa sostituisce la precedente ipotesi di “corruzione per un atto d’ufficio” rendendo meno tassativa l’indicazione della condotta delittuosa. Un ulteriore indebolimento al principio di tassatività di quest’ultima è rappresentato dalla plasticità, dalla elasticità e dalla fluidità dei controlli che le più recenti applicazioni di intelligenza artificiale propongono per il monitoraggio continuo e il controllo dello svolgimento dell’attività lavorativa con i processi di automazione e innovazione sempre più sviluppati per essa. Si è introdotta una terza ipotesi intermedia rispetto all’alternativa tradizionale (in linguaggio goliardico ma espressivo) quanto al corrispettivo: “gustavo (corruzione) o soffrivo (concussione) dandolo (per il privato); comunque godevo sempre prendendolo (per il pubblico operatore)”. Erano e sono evidenti le difficoltà di interpretazione e di applicazione in concreto della condotta di induzione e della distinzione fra il privato come autore nel reato o come vittima di esso. Sono stati introdotti altresì requisiti di accesso alle cariche pubbliche amministrative e misure patrimoniali per rafforzare la prevenzione della corruzione, nel quadro della sua repressione penale anche a livello sovranazionale e comunitario, in una prospettiva di tutela della par condicio per l’accesso a risorse pubbliche nel mercato e fra concorrenti. Viene però da chiedersi quale sia ed entro quali limiti possa definirsi un confine fra lecito e illecito nel rapporto fra pubblico e privato in un sistema in cui non è regolata la rappresentanza di interessi, ossia l’attività di lobbying. Occorre anche distinguere i diversi poteri riconosciuti al pubblico ufficiale a seconda del suo ruolo e dei suoi poteri. Ad esempio è più agevole individuare una violazione di legge da parte di chi svolge una attività discrezionale su base tecnica, disciplinata da specifici parametri. Non è semplice invece individuare i limiti dell’attività squisitamente politica del decisore pubblico (ossia del vertice dell’amministrazione) quando non vi sia una richiesta o promessa di denaro ma una legittima ricerca del consenso in una alternativa legittima di scelta. Sembra riproporsi il problema già affrontato in materia di diritto penale di impresa: l’incerto confine fra rischio di impresa e rischio penale. Qual è il limite fra rischio politico (ossia perdita del consenso elettorale e responsabilità di fronte ai cittadini) e rischio penale per il politico che cerca consenso, soprattutto in tempi di sempre più frequenti “verifiche elettorali”? Lo spazio lasciato vuoto dall’abolizione dell’abuso d’ufficio - di per sé ragionevole, perché vi si ricorreva troppo spesso con eccessivo zelo - in assenza di un intervento sui rimedi amministrativi, in un rapporto trasparente fra pubblico e privato, può effettivamente essere colmato da un’interpretazione “estensiva” della corruzione. Ciò può verificarsi più facilmente quando l’utilità tratta dal pubblico ufficiale non debba più essere necessariamente ed esclusivamente economica, ma possa dilatarsi e occultarsi in manovre tecnicamente (o “algoritmicamente”) sempre più artificiose. Non sempre è possibile una specificazione a carattere normativo del comportamento del pubblico ufficiale, per delimitare il suo legittimo spazio di discrezionalità in una scelta di contenuto o colore politico possibile. Ma su questo tema occorrerà ritornare con una riflessione più serena di quella che caratterizza il confronto-scontro soprattutto “elettorale” di questi tempi sul problema giustizia. La “riforma della giustizia”, ovvero la truffa delle etichette di Domenico Gallo volerelaluna.it, 28 luglio 2025 Con la scontata approvazione, il 22 luglio, da parte del Senato si è conclusa la prima parte del percorso parlamentare del disegno di riforma costituzionale “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” proposto dal Governo Meloni e divulgato all’opinione pubblica come “riforma della Giustizia” o separazione delle carriere”. A questo punto, a meno di improbabili ripensamenti o di crisi di governo, dobbiamo considerare consolidato il testo approvato dal Senato e prevedere che il secondo passaggio alla Camera e al Senato concluderà l’iter della riforma nel giro di qualche mese. Di conseguenza dobbiamo prepararci al referendum che dovrebbe svolgersi nella primavera del 2026. Non era mai accaduto nella storia parlamentare che una riforma della Costituzione venisse approvata nel testo proposto dal Governo senza che venisse consentito al Parlamento di approvare un solo emendamento. Un testo governativo immodificabile dal Parlamento per una riforma da approvare a passo di carica, che - evidentemente - costituisce una priorità politica assoluta per questa maggioranza. La prima operazione da compiere è fare pulizia delle parole e dei concetti falsi e ingannevoli. Innanzitutto bisogna spiegare che quella in discussione non è una riforma della giustizia. La riforma Nordio non ha nulla a che vedere con le questioni attinenti al funzionamento del servizio giustizia, non interviene sulla durata dei processi, sulle dotazioni amministrative degli uffici giudiziari, sull’edilizia, sul potenziamento dei riti alternativi, sulle carenze di personale. Non è insomma una riforma volta a migliorare la qualità del servizio giustizia a tutela dei diritti dei cittadini. Ugualmente falsa e ingannevole è la denominazione della riforma come “separazione delle carriere”. In questo caso si tratta di una vera e propria truffa delle etichette. La separazione delle carriere è stata portata a termine, a Costituzione invariata, con la riforma Cartabia (art. 12 della legge n. 71/2022), che ha definitivamente separato i percorsi professionali dei magistrati inquirenti e giudicanti. L’oggetto della riforma non è la separazione delle carriere ma la riscrittura del titolo IV della Costituzione all’unico scopo di restringere o abbattere le garanzie di indipendenza dell’esercizio della giurisdizione. In sostanza, quella di Nordio-Meloni è una riforma dell’indipendenza del potere giudiziario. Il titolo IV della Costituzione sull’ordinamento giurisdizionale definisce in modo molto più organico e completo che in altre costituzioni moderne il principio della separazione dei poteri, creando uno zoccolo duro di pluralismo istituzionale che non può essere superato. Nel disegno costituzionale, l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere, viene assicurata dall’autogoverno, attribuito a un organo di rilievo costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, al quale spettano: “le assunzioni, le assegnazioni e i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 107). “Il Consiglio superiore è presieduto dal Presidente della Repubblica, ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di Cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune” (art. 104). Il titolo IV cella Carta ha operato una netta cesura rispetto al vecchio ordinamento monarchico-liberale nel quale le scarse garanzie di indipendenza dei giudici e la soggezione dei pubblici ministeri al potere politico avevano impedito che la magistratura potesse esercitare resistenza all’avvento della dittatura fascista. Le norme che garantiscono l’indipendenza del giudiziario (titolo IV) e quelle che assoggettano l’esercizio dei poteri al controllo di costituzionalità (titolo VI) incarnano le garanzie antitotalitarie della Costituzione. Non a caso ci furono delle resistenze a dare attuazione alla disciplina costituzionale della magistratura: il Consiglio Superiore fu istituito solo dieci anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, in virtù della legge 24 marzo 1958 n. 195, e cominciò a operare nel 1959 (entro una camicia di forza che ne pregiudicava fortemente le funzioni). Nel corso del tempo, con la crescita dell’indipendenza reale della magistratura, favorita dal dibattito culturale in seno all’associazionismo di giudici e pubblici ministeri, è aumentata la capacità di controllo giudiziario dei fenomeni degenerativi. Ciò ha consentito di sventare le varie minacce che hanno attraversato le istituzioni dagli anni Sessanta agli anni Ottanta del secolo scorso. A cominciare da quel “tintinnar di sciabole” cui fece cenno il leader socialista Pietro Nenni in occasione della formazione del secondo governo Moro del 23 luglio 1964, per passare poi alla stagione della strategia della tensione dove, con grande difficoltà, le indagini della magistratura hanno scoperchiato il vaso di Pandora delle deviazioni istituzionali dei servizi segreti, fino alle parole finali dell’ultima sentenza della Corte d’assise di Bologna (6 aprile 2022) che ha fatto luce sui mandanti, annidati anche nelle istituzioni, della strage del 2 agosto 1980. La stagione di “mani pulite” ha confermato la capacità dell’autorità giudiziaria di estendere il controllo di legalità anche in quei santuari del potere politico rimasti per lungo tempo inviolabili. Il ruolo del Consiglio Superiore, in quanto garante dell’indipendenza della magistratura, è stato oggetto di violenti conflitti politici. Clamoroso fu il conflitto con il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che arrivò al punto di minacciare l’intervento dei carabinieri per impedire che il plenum del Consiglio trattasse degli argomenti che lui aveva vietato. In un’intervista nel 1991 Cossiga dichiarò: “Feci schierare un battaglione mobile di carabinieri in assetto antisommossa, al comando di un generale di brigata”. Ma l’esigenza di rendere l’esercizio della giurisdizione subordinato all’indirizzo politico era già emersa già nel 1981 con la scoperta del “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli. Si trattava di un progetto che mirava a spegnere la democrazia italiana attraverso un’azione riservata che, pur escludendo il ricorso a un colpo di Stato di tipo greco, mirava a sovvertire le istituzioni democratiche. Per l’ordinamento della magistratura era prevista una riforma particolarmente “moderna” articolata su una serie di passi finalizzati a ricondurre l’esercizio della giurisdizione sotto il controllo del potere politico, eliminando lo scandalo del “potere diviso” postulato dalla Costituzione repubblicana. Attraverso una riforma della Costituzione, il Piano di rinascita democratica prevedeva la separazione delle carriere di magistrati giudicanti e magistrati inquirenti, la sottoposizione di questi ultimi al controllo del ministro della giustizia e la neutralizzazione dell’autogoverno dei magistrati, mediante la sottoposizione del Consiglio superiore della magistratura al controllo del Parlamento. In attesa delle modifiche costituzionali il piano suggeriva di intervenire con urgenza per introdurre la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati, il divieto di nominare sulla stampa i magistrati comunque investiti di procedimenti giudiziari e gli esami psicoattitudinali per l’accesso alla carriera. La profezia nera di Licio Gelli non è mai tramontata: come un fiume carsico è affiorata più volta in diversi contesti politici e adesso ha trovato piena soddisfazione con la riforma costituzionale Nordio/Meloni. L’insofferenza di questo potere politico verso il controllo di legalità esercitato da una magistratura indipendente, resa plasticamente evidente dalla valanga di insulti e minacce ai giudici e pubblici ministeri vomitate dai vertici politici ogni volta che vengono adottati provvedimenti sgraditi, è il movente di questo attacco alla giurisdizione: la riforma dell’assetto costituzionale della magistratura è la soluzione. Poiché il Consiglio superiore è la bestia nera, la riforma lo depotenzia dividendolo in tre parti, un Consiglio per i magistrati del pubblico ministero, uno per i magistrati giudicanti e uno, denominato Alta Corte disciplinare, competente per i provvedimenti disciplinari. Non basta la divisione in tre parti. La funzione di questi tre organi viene ulteriormente svilita cancellando la rappresentanza del corpo dei magistrati dagli organi di “autogoverno”, attraverso l’introduzione del criterio del sorteggio secco dei componenti togati. In definitiva la rottura del modello costituzionale dell’unicità della magistratura e l’invenzione di tre organi composti da membri sorteggiati, cancella l’autogoverno e rende oscura e non trasparente l’attività di gestione della magistratura. Si creano così le condizioni per un impoverimento culturale e ideale del corpo dei magistrati, che diventeranno sempre più “funzionari” ministeriali e sempre meno garanti di ultima istanza dei diritti inviolabili dei cittadini. Dietro questo progetto di riforma vi è la palese ispirazione ad abbattere il livello di indipendenza reale della magistratura per porre rimedio allo “scandalo del potere diviso”. Sbarazzarsi dei poteri di controllo è il passaggio obbligato per la trasformazione di un ordinamento democratico in una democrazia illiberale sul modello ungherese o turco. Di qui l’importanza della mobilitazione per impedire la svolta autoritaria in itinere e per cancellare la riforma Nordio/Meloni, quando interverrà, con il referendum costituzionale. Giustizia, se la sinistra si arrocca la destra trionferà di Lorenzo Castellani Il Domani, 28 luglio 2025 Se una parte consistente della popolazione italiana è insoddisfatta dell’operato del potere giudiziario e una fazione politica propone una riforma e l’altra non propone nulla, aumentano le probabilità che questa riforma in futuro veda la luce. È il “paradosso di Tocqueville”, applicato alla magistratura. L’accelerazione verso l’approvazione finale della riforma costituzionale della giustizia scoperchia un vaso di Pandora per tutta la politica italiana. La riforma della giustizia, che va avanti più spedita rispetto al premierato e che è potenzialmente più incisiva della scatola vuota dell’autonomia regionale, mostra che nel centrodestra una reale unità di intenti sulle riforme istituzionali c’è soltanto in questo ambito. Ciò non soltanto perché tutti i partiti della coalizione, dall’era Berlusconi in poi, sono stati coinvolti da inchieste giudiziarie ma perché l’argomento tende a compattare l’elettorato di centrodestra molto più di quanto non lo facciano le altre riforme istituzionali. Un recente sondaggio dell’Istituto Piepoli mostra come il 49 per cento degli intervistati abbia nulla o poca fiducia nella magistratura, percentuale che sale al 60 per cento tra quelli che si dichiarano di centrodestra. Il referendum confermativo resta difficile da vincere, ma questi numeri indicano che, non essendoci il quorum, la partita è potenzialmente aperta. I riflessi nel centrosinistra - La riforma della giustizia mostra dei riflessi ancora più interessanti nel campo del centrosinistra. Le inchieste a carico della giunta Sala e quelle, comunicate con perfetto tempismo dalla procura proprio all’inizio della campagna elettorale, a carico del candidato del centrosinistra alla presidenza della regione Marche Matteo Ricci mostra come nessuno sia immune dalle inchieste della magistratura. Nemmeno coloro che più difendono la corporazione dei magistrati e lo status quo del potere giudiziario. Mentre a destra le inchieste tendono a rafforzare la compattezza dell’alleanza, a sinistra alimentano divisioni tra l’ala, formata dal Movimento 5 Stelle, Avs e parti del Pd, più incline al giustizialismo e quella, dei democratici moderati e dei potenziali alleati centristi, che reclama garantismo. È una spaccatura che crea problemi alla segretaria del Pd. La posizione di Elly Schlein è ulteriormente complicata dalla posizione garantista assunta, con astuzia, dalla presidente del Consiglio rispetto al sindaco di Milano. Nonostante Beppe Sala sia espressione del centrosinistra, Giorgia Meloni ha sottolineato che un avviso di garanzia non comporta la richiesta di dimissioni. Schlein per ora ha difeso Sala, pur con delle cautele, così come Ricci, ma l’opposizione ad oltranza verso qualunque riforma della giustizia mostra le contraddizioni a cui va incontro la potenziale alleanza di centrosinistra. Qui andrebbe aperta anche una riflessione interna proprio al mondo intellettuale della sinistra: per quanto tempo si può difendere ad oltranza il potere giudiziario dopo gli scandali, gli eccessi e la politicizzazione che lo ha attraversato in questi anni? Il paradosso di Tocqueville - Ciò non significa dover essere d’accordo con la riforma Nordio, ma ragionare quantomeno sui cambiamenti che la sinistra proporrebbe se andasse al governo. Invece l’atteggiamento di grandissima parte dell’intellighenzia è di muro totale contro qualsiasi riforma della giustizia pur quando il potere requirente mette a repentaglio la classe politica della sinistra stessa. Davvero basta soltanto aspettare che la giustizia faccia il suo corso mentre le inchieste condizionano l’azione politica? Va bene che le indagini vengano rese pubbliche al via di una campagna elettorale come nelle Marche o che gli atti di conversazioni private vengano veicolati alla stampa come accade nel caso milanese? Non riconoscere un problema di convivenza tra giustizia e politica significa fare un favore alla destra. La sinistra italiana rischia infatti che si verifichi il cosiddetto “paradosso di Tocqueville” per cui l’indebolimento della legittimità di una istituzione, e la magistratura italiana oggi ha una legittimità molto più debole rispetto al passato, porta ad una richiesta di riforma da parte di molti, e se questo cambiamento non si realizza cresce il rischio che in futuro la riforma possa essere più radicale e rivoluzionaria. Attualizzando il paradosso si può dire che se una parte consistente della popolazione italiana è insoddisfatta dell’operato del potere giudiziario e una fazione politica propone una riforma e l’altra non propone nulla, aumentano le probabilità che questa riforma, o magari una ancor più radicale, in futuro veda la luce. L’atteggiamento, immobilista e conservativo, della sinistra nel suo complesso accresce le possibilità che la destra ce la faccia al referendum, magari allargando il proprio elettorato a quello centrista. Oggi non è forse lo scenario più probabile, ma la somma di inchieste sulla politica e indecisioni a sinistra contribuiscono a far crescere le possibilità che la riforma Nordio possa trovare la maggioranza al referendum. A quel punto il centrodestra avrebbe realizzato un pezzo importante del ridisegno costituzionale che ha in mente, aprendo la via a nuove modifiche della Carta se restasse, come possibile, ancora al potere in futuro. È l’alto costo del paradosso di Tocqueville. Femminicidi e reati, meglio copiare il modello spagnolo di Carlo Rimini Corriere della Sera, 28 luglio 2025 Le statistiche mostrano una significativa riduzione dei femminicidi in Spagna. Con una capillare e costosa rete di attenzione ai “reati sentinella”. Introdurre un reato invece non costa niente. Il Senato ha approvato il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio e lo punisce con l’ergastolo. La nuova legge porterà ad una diminuzione dei femminicidi? No. Da anni in Italia si susseguono leggi volte a contrastare la violenza di genere, senza significativi miglioramenti. Il nuovo reato non cambierà le cose. Il problema non è solo italiano, ma ha una estensione mondiale. Vi è un solo Stato nel quale le statistiche mostrano una significativa riduzione dei femminicidi: la Spagna. Da un report pubblicato dal ministero per l’Uguaglianza spagnolo emerge che i femminicidi dal 2003 al 2024 sono diminuiti del 30%. Come si è ottenuto questo risultato? Nel 2004 è stata approvata una legge organica sulla violenza di genere. Per contrastare i femminicidi, grandissima attenzione è dedicata alle forme meno gravi di aggressività verso le donne. Il femminicidio è infatti spesso preceduto da una serie di comportamenti “sentinella”, in sé poco gravi, ma chiari sintomi dell’attitudine del futuro femminicida. Le pene previste sono lievi, ma catalogare questi comportamenti come reato consente alla polizia specializzata di mettere sotto controllo il responsabile, al quale quindi viene impedito di agire indisturbato. È stato istituito un numero telefonico sempre operativo al quale le donne possono informalmente rivolgersi per segnalare comportamenti o semplici paure. Un grande numero di operatori specializzati raccoglie queste segnalazioni: qualche volta interviene, qualche volta si limita ad osservare con discrezione. Quando i reati “sentinella” vengono commessi, l’osservazione e l’intervento si traducono in forme pressanti di controllo e protezione. Tutto ciò costa molto denaro. In Spagna, al ministero per l’Uguaglianza è stato assegnato un budget di 600 milioni di euro l’anno, in costante aumento. Dalla nuova legge italiana, invece, non potranno derivare maggiori oneri per le finanze pubbliche. Sono previsti solo tre capitoli di spesa per un totale di 636.000 euro l’anno. Affrontare un problema costa, prevedere un nuovo reato non costa nulla ma non risolve il problema. Tredici anni per notificare una sentenza: è la resa della giustizia di Lirio Abbate La Repubblica, 28 luglio 2025 Un uomo condannato a oltre tre anni per reati gravi (rapina aggravata, resistenza a pubblico ufficiale) non sconterà nemmeno un giorno di pena che gli era stata inflitta e non pagherà nemmeno la multa di 600 mila euro che gli era stata imposta come pena accessoria. Non perché ha beneficiato di amnistia o indulto. Non per un errore giudiziario. Ma perché la sua sentenza, emessa nel 2012 e divenuta definitiva pochi mesi dopo, è stata notificata solo nel giugno 2025. Tredici anni dopo. Quando ormai tutto è prescritto. Accade a Prato. E purtroppo non è un caso isolato. Dietro questa storia, documentata dagli atti della procura della Repubblica e dall’ufficio esecuzioni penali, si apre un varco inquietante in quello che dovrebbe essere il presidio più saldo dello Stato: la giustizia. Nella cancelleria del tribunale giacciono oltre diecimila sentenze in attesa dell’attestazione di irrevocabilità, un passaggio burocratico essenziale che, in molti casi, blocca l’intero iter esecutivo. Senza questa certificazione, infatti, le sentenze di condanna non possono essere trasmesse al pubblico ministero o al procuratore generale competente, i soli titolati a dare esecuzione al provvedimento. Una mole di arretrato che rischia di rallentare - se non paralizzare - l’effettiva applicazione della giustizia, trasformando decisioni definitive in atti sospesi nel limbo amministrativo. Una parte di esse, ora lo sappiamo, riguarda reati gravissimi: violenze sessuali, abusi su minori, corruzione, reati contro la pubblica amministrazione. Tutto prescritto. La presidente del tribunale Lucia Schiaretti che si è insediata un anno fa, ha denunciato la situazione al Consiglio superiore della magistratura. Ha scritto al ministero della Giustizia. Ha spiegato che la pianta organica è dimezzata, che le cancellerie non riescono a tenere il passo del lavoro giudiziario. Che si continua a produrre sentenze che non arriveranno mai alla fase esecutiva. Che la giustizia, così, è una finzione. Ma nulla è accaduto. Nessun intervento d’urgenza. Nessun piano straordinario per evitare che migliaia di condanne diventino carta straccia. Solo silenzi, inerzia, distanza. Nel frattempo, il ministro Carlo Nordio parla d’altro. La sua agenda politica è occupata da una riforma che secondo lui promette di cambiare l’architettura costituzionale della magistratura: separazione delle carriere, revisione del Csm. Una trasformazione radicale che, sempre a suo dire, restituirà ai cittadini una giustizia più equa, più efficiente, più rispettosa dei diritti. Ma basterà dividere i pubblici ministeri dai giudici per impedire che una sentenza venga notificata con tredici anni di ritardo? Basterà modificare il Csm per garantire che una violenza sessuale non cada in prescrizione per assenza di personale nelle cancellerie? La risposta, se si ha il coraggio di guardare la realtà, è no. La giustizia italiana non è ferma per eccesso di potere, ma per carenza di strumenti. Non per il troppo attivismo dei magistrati, ma per l’inerzia delle strutture amministrative. A Prato, i magistrati hanno fatto il loro dovere: indagato, processato, condannato. Sono gli uffici di via Arenula che si sono dimenticati di chiudere il cerchio. E allora la domanda è: che idea di giustizia ha questo governo? Che valore dà a una sentenza, se poi non si preoccupa di farla eseguire? Che rispetto ha per le vittime, per i cittadini, se tollera che i condannati restino liberi per una dimenticanza? In gioco non c’è solo un caso isolato. C’è la possibilità che l’eccezione diventi regola. Che il disordine si faccia struttura. Che il cittadino perda fiducia, e con essa la speranza in uno Stato che protegge, che punisce, che ripara. Si dice che “la giustizia è un servizio”. Ma se quel servizio si interrompe per tredici anni, e nessuno se ne accorge, forse non è più un disservizio. È un fallimento. E il ministro Nordio, tutto questo, lo sa? Sardegna. Trattative tra Governo e Regione per distribuire i detenuti al 41-bis destinati a Uta di Francesco Zizi La Nuova Sardegna, 28 luglio 2025 Trattative tra governo e Regione per distribuire i detenuti al 41-bis destinati a Uta. Un piano ancora in via di definizione, ma le indiscrezioni sono chiare: i 92 detenuti al 41-bis destinati alla Sardegna non resteranno tutti nel carcere di Uta. Il ministero della Giustizia, insieme alla regione Sardegna, stanno lavorando a una rimodulazione degli arrivi, che prevede la distribuzione dei boss mafiosi in altre strutture detentive italiane. Fonti del ministero e della regione confermano che il confronto è aperto e che la strada della collaborazione istituzionale è stata imboccata per spegnere le polemiche esplose appena trapelata la notizia del trasferimento massiccio de detenuti sottoposti a carcere duro. Il piano iniziale, che prevedeva l’arrivo di 92 detenuti nel carcere di Uta, aveva sollevato proteste di politici locali e deputati, sindacati, cittadini e associazioni, preoccupati per le conseguenze in termini di sicurezza, sovraffollamento e pressione sul sistema carcerario sardo. Ora, fonti riservate assicurano che la decisione non è più rigida come appariva all’inizio. Non ci sarà un solo istituto a ospitare tutti i detenuti, la Sardegna farà la sua parte, ma il carico sarà distribuito anche altrove. In concreto, una parte dei 92 mafiosi verrà effettivamente portata a Uta, ma altri potrebbero essere destinati anche ai penitenziari di Bancali, a Sassari, e di Badu e Carros a Nuoro, dove esistono sezioni adatte a detenuti ad alta pericolosità. La differenza sostanziale è che non si tratterà più di un trasferimento “in blocco”, ma di un riequilibrio nazionale. La Sardegna, da sempre considerata una “isola - prigione” per la sua insularità, ha già pagato in passato il prezzo di questo ruolo strategico, ospitando in percentuale significativa boss mafiosi e terroristi. Per questo motivo, sempre secondo le indiscrezioni trapelate, la Regione avrebbe chiesto l’apertura di un confronto più ampio con il Governo, che preveda anche forme di compensazione. Tra tutte, l’aumento dell’organico del personale penitenziario: agenti, funzionari, educatori, psicologi e medici, che attualmente scarseggiano nei penitenziari sardi. Le interlocuzioni tra Ministero e la Regione proseguono in queste ore, mentre al Parlamento il tema è diventato terreno di scontro politico. Il deputato ed ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha chiesto che il ministro Nordio riferisca in Aula: “L’idea di trasferire in massa 92 mafiosi in Sardegna è molto pericolosa, bisogna capire chi l’ha concepita e con quale visione”. Al coro delle proteste si sono uniti esponenti del Movimento 5 Stelle, del Partito Democratico e anche alcuni parlamentari del centrodestra sardo, che hanno chiesto “trasparenza e rispetto per il territorio e per l’organico dei penitenziari”. Anche il sindaco di Uta Giacomo Porcu nei giorni scorsi ha dichiarato chiaramente la sua contrarietà, definendola: “Una scelta calata dall’alto senza interlocuzioni con il territorio” e ha ricordato le parole del procuratore generale di Cagliari che aveva definito la Sardegna già “a forte rischio di sviluppo mafioso”. Liguria. “Rinchiusi come bestie”, le strazianti lettere dei detenuti nelle carceri di Aurora Bottino primocanale.it, 28 luglio 2025 Nelle lettere stati d’animo, segnalazioni, denunce e richieste di aiuto. Dal carcere arrivano sulla scrivania del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della Liguria Doriano Saracino. “Siamo rinchiusi come bestie, nella saletta il tavolo è rotto e non ci sono neanche le sedie. Nessuno sa cosa farsene di noi”. È solo una riga della lunga lettera firmata da un detenuto del carcere di Marassi spedita a Doriano Saracino, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della Liguria. Non è la prima e non sarà sicuramente l’ultima: dall’inizio dell’anno sono state 53, alcune scritte dalla stessa persona. Richieste d’aiuto, denunce, difficoltà: i messaggi dei detenuti sono tutti diversi e arrivano da tutte le carceri della Liguria. Così, tra una lettera e l’altra, c’è chi denuncia le condizioni del penitenziario tra sovraffollamento e la muffa, e chi invece racconta della paura della vita dopo il penitenziario, senza futuro o prospettive. Le lettere raccontano storie intime, dolori, speranze ma anche relazioni. Saracino e il suo ufficio risponde a tutti: “Una soluzione unica, uguale per tutti, non c’è. Leggiamo e nella maggior parte dei casi, quando è possibile, ci muoviamo” spiega il garante. “Vediamo se è possibile la presa di contatto con gli operatori che possono occuparsi del detenuto al momento della scarcerazione, oppure andiamo a fare un colloquio con la persona che ha chiesto determinate incontri con noi, se ci sono elementi che meritano di essere approfonditi lo facciamo e se ci sono dei riscontri significativi, in certi casi ci sono già stati in passato degli esposti alla magistratura per dei fatti che abbiamo ritenuto gravi seguiamo l’iter”. “Rispondiamo anche laddove non è semplice rispondere. A volte non c’è molto che si possa concretamente fare ma è importante che le richieste che arrivano a noi non vengano considerate messaggi infilati in una bottiglia, del tipo: se arriva qualcuno bene, se non arriva si è perso. Anche questo non è facile perché l’ufficio non ha una grande struttura, siamo in pochi e le richieste sono tante”. Alle lettere infatti, si sommano le e-mail e le telefonate di parenti o di persone che da semilibere possono comunicare direttamente con loro, più tutte le richieste di persone che incontrano durante le visite nelle carceri. Lo scorso anno sono state 330 le persone incontrate in carcere del garante, numero a cui si deve sommare anche quelle incontrate nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e le detenzioni domiciliari. Oltre al tempo e alle risorse, c’è il peso psicologico di un lavoro fondamentale: “Ci si confronta spesso con il dolore, con il fallimento, sia della società che delle persone. Il mio approccio - continua Saracino - è ‘fallirò ancora, ma fallirò meglio’: sapere che nella vita le cadute ci sono, ma che si può cambiare e migliorare sempre è l’unico modo per mantenere l’ottimismo e la fiducia davanti a tutti questi drammi. È un modo per resistere culturalmente a un clima che in qualche modo insiste nel dire che per queste persone occorre gettare via la chiave”. “Se vogliamo buttare via la chiave non dimentichiamoci che queste persone anche con la “chiave buttata” prima o poi usciranno, perché la pena termina. E allora la domanda che pongo è: come vogliamo che escano? La risposta a questa domanda è collegata all’altra domanda: come vogliamo che stiano dentro? Non quanto stiano dentro e per cosa ma come. La verità è che per far sì che la pena abbia un senso, occorre che ci siano delle condizioni minime rispettate, che spesso non ci sono, ma soprattutto anche qualcosa in più: corsi di formazione professionale, housing sociale e tutte le iniziative che insieme a tanti enti stiamo cercando di mettere in atto in questi anni”. Bologna. Il Garante: “Riaprono due carceri minorili, quindi si può chiudere la sezione alla Dozza” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 28 luglio 2025 La sfida del Garante: “Riaprono due carceri minorili, quindi si può chiudere la sezione alla Dozza”. Roberto Cavalieri: “Lavori conclusi a L’Aquila e Lecce, ora basta con la soluzione ponte a Bologna. Che si è rivelata fallimentare”. Per il garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri, la riapertura delle carceri minorili di Lecce e L’Aquila, l’1 e il 15 settembre, “è una buona notizia per Bologna”. Anzi “eccellente”, visto che adesso “potrà essere chiusa la sezione per giovani detenuti della Dozza”. Esperimento che non esita a definire, “oltre che inutile, anche fallimentare”. Il suo non è un auspicio, ma una sfida “a quelli che a suo tempo dissero che quella di Bologna era una soluzione ponte, proprio in attesa della conclusione dei lavori nelle altre carceri minorili”. Il garante ricorda gli impegni assunti dal Capo del Dipartimento giustizia minorile e di comunità Antonio Sangermano e dal sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari che avevano parlato di “soluzione temporanea” e di “ritorno alla normalità entro l’estate”. Alla chiusura della sezione per i ragazzi alla Dozza, auspicata dal garante, credono poco i vertici della Fp-Cgil, Antonio Soletta e Salvatore Bianco, preoccupati per l’ormai certo trasferimento di parte del personale nei nuovi istituti. Per il sindacato degli agenti della penitenziaria “la mobilità del personale, disposta con interpello straordinario, per la prossima apertura degli Istituti per minorenni de L’ Aquila e di Lecce, sarà un problema”. Perché avverrà “ancora in pieno piano ferie estive” e a Bologna “verranno a mancare ben 9 unità di personale del ruolo agenti-assistenti in sole due settimane” e così “l’istituto bolognese è quello che pagherà un prezzo insostenibile”. La Fp-Cgil definisce “l’apertura di una sezione per giovani-adulti alla Dozza, una decisione poco lungimirante e dispendiosa in termini economici e di risorse umane”. Cavalieri, poi, ricorda come l’apertura della sezione alla Dozza sia stata fatta, col parere contrario degli stessi garanti, delle istituzioni locali e delle associazioni, per far fronte al sovraffollamento degli istituti minorili d’Italia, “cosa che, con l’apertura di Lecce e L’Aquila, viene meno”. Ora, coerentemente con le promesse del tempo, “la sezione va chiusa”. Era già, continua Cavalieri, “una soluzione che mostrava i suoi limiti sulla carta, limiti che si sono trasformati in fallimento nei fatti. A questo punto bisogna che questa storia finisca e che progetti del genere vengano definitivamente messi da parte”. Tra l’altro, conclude il garante “c’è la necessita di restituire la sezione giovani adulti il prima possibile all’amministrazione penitenziaria in modo da farla occupare dagli adulti e ridurre la tensione del sovraffollamento nelle carceri della regione”. Ferrara. Detenuti in uscita dal carcere per ripulire parchi e strade di Stefano Ciervo La Nuova Ferrara, 28 luglio 2025 Ampliato il progetto di Comune e associazioni: una trentina di aree in “cura”. I reclusi escono in bici in autonomia, lavorano e pranzano all’esterno. Escono dal carcere di via Arginone in bici, raggiungono in gruppo l’area verde dove sono impegnati, si mettono a lavorare di buona lena per l’intera mattinata: poi pranzo alla mensa di Viale K e rientro in carcere, sempre in autonomia. È la routine trisettimanale di un gruppo di detenuti della casa circondariale ferrarese, che sono coinvolti nel progetto “Verde libero” con un nutrito gruppo di associazioni, la direzione del carcere e lo stesso Comune di Ferrara per un fattivo percorso che può fare tanto per il loro reinserimento. Sabato erano impegnati nella zona a sfalciamento ridotto 21 novembre, in via Ferrarese, “di solito ci concentriamo sulle annaffiature, ma in questi giorni non ce n’è bisogno visto il clima - racconta Tommaso Mantovani, ex consigliere comunale M5s e referente di una delle associazioni coinvolte nel progetto - Abbiamo effettuato un po’ di sarchiatura e pulizia generale dell’area”. Negli altri giorni previsti dalla convenzione, il martedì, il giovedì e appunto il sabato, vengono coinvolte una trentina tra aree verdi, strade con fossi e ciclabili (anche per la pulizia caditoie), parchi e sedi associative. La convenzione è attiva dal 2023 e un paio di settimane fa è stata rinnovata, incrementando sia le associazioni partecipanti che le aree da sistemare: tra le altre sono state aggiunte il Parco Urbano, piazza Ariostea, via Beethoven e Porta Catena. I lavori previsti sono creazione e manutenzione di aiuole, di aree verdi, annaffiatura di piante e aiuole, piccole potature, messa a dimora di alberi e arbusti, pulizia delle aree verdi da foglie e rifiuti, diserbo manuale dei marciapiedi. La convenzione regola ogni particolare dell’attività. I detenuti che ne beneficiano, da 3 a 6 al giorno, sono individuati dalla Casa circondariale, e devono rispettare in maniera rigida i tempi di spostamento all’esterno del carcere: arrivano sul luogo di lavoro in maniera autonoma e senza attrezzature, sono responsabili della loro bici. “Non esiste alcuna responsabilità né civile né penale nei confronti di queste persone - chiarisce il vademecum per i volontari - Un eventuale mancato rientro al carcere alla fine del tempo di uscita previsto sarà gestito direttamente dal carcere”. Con il recente ampliamento, le associazioni coinvolte sono una quindicina, da Progea ai Lions. Aversa (Ce). Diritti detenuti, emergenza sovraffollamento e reinserimento: un evento nel carcere larampa.news, 28 luglio 2025 Mercoledì 30 luglio, a partire dalle ore 10:30, la Casa circondariale di Aversa sarà teatro di un’importante iniziativa di ascolto, confronto e impegno promossa dal Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Provincia di Caserta, Don Salvatore Saggiomo. L’evento si inserisce nel quadro della mobilitazione nazionale organizzata dalla Conferenza dei Garanti territoriali per richiamare l’attenzione sullo stato del sistema penitenziario italiano. La mattinata si aprirà con un incontro riservato tra il Garante e una delegazione di detenuti, cui seguirà una tavola rotonda con la partecipazione dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. Al centro del confronto, temi cruciali come le condizioni detentive, le prospettive di reinserimento sociale, la progettualità futura del carcere e, in particolare, l’annosa questione del sovraffollamento penitenziario. Alle ore 12 è prevista una conferenza stampa pubblica all’esterno dell’istituto penitenziario di Aversa. All’incontro prenderanno parte, oltre al Garante Saggiomo, anche esponenti politici locali, rappresentanti delle istituzioni e membri della società civile. L’obiettivo è dare voce al dibattito sui diritti delle persone detenute, promuovendo un modello di giustizia che non sia solo punitivo, ma anche rieducativo. Nel presentare l’iniziativa, Don Salvatore Saggiomo ha dichiarato: “Uniamo le nostre voci al grido inascoltato di chi vive dietro le sbarre. Non possiamo restare indifferenti di fronte alle troppe morti in carcere e a un sistema che mostra solo il volto vendicativo dello Stato, anziché favorire il cambiamento e il reinserimento delle persone detenute.” L’evento aversano si colloca all’interno di una più ampia mobilitazione nazionale volta a stimolare una riflessione pubblica sulla funzione rieducativa della pena, sancita dalla Costituzione, e sull’urgenza di politiche capaci di tutelare la dignità umana anche nei luoghi di privazione della libertà. Salerno. Alla Casa circondariale presentazione di “Resto al Sud 2.0.” Ristretti Orizzonti, 28 luglio 2025 Si terrà martedì 29 luglio 2025 alle ore 13:30 il workshop inerente alla valorizzazione di idee e di nuove opportunità con Resto al Sud 2.0, in coerenza con gli obiettivi strategici del progetto S.O.F.U. 2 in corso di attuazione. Si replica pertanto l’incontro di lunedì 28 luglio alle ore 18:00, in occasione di un workshop pubblico presso l’Hub della Creatività e della Comunicazione, in Viale Verdi ad Arbostella (Salerno) per consolidare collaborazioni e creare ponti tra a ambienti fragili e strutture innovative e creative. L’iniziativa fortemente voluta dei Detenuti si terrà nell’aula didattica S.O.F.U. della Casa Circondariale “Antonio Caputo” a Fuorni di Salerno. L’incontro è rivolto agli iscritti al Progetto S.O.F.U. 2 che hanno in corso la redazione di “business idea”, alle educatrici e ad altre risorse umane del Penitenziario destinatari e/o interessati ad attività di orientamento e formazione per utenze speciali. L’iniziativa rientra tra le azioni dell’Hub S.O.F.U. allestito nella struttura Penitenziaria a Fuorni. Un ambiente creativo e innovativo habitat ideale per definire nuove attività, redigere curriculum vitae per presentarsi e richiedere colloqui di lavoro, alimentare l’attività di brainstorming e la partecipazione attiva, stimolare la creatività e lo sviluppo di business idea, erogare attività di co progettazione, coaching e fundraising. L’organizzazione ed i materiali del workshop sono curati da Angelina Quagliano e Maria D’Amato, i contenuti saranno sviluppati da Vincenzo Quagliano ideatore del progetto S.O.F.U.; sono previsti inoltre gli interventi degli iscritti al programma S.O.F.U. 2 ed un confronto conclusivo. Il progetto Sportello di Orientamento e Formazione per Utenze Speciali è a titolarità della E.T.S. Socrates scuola di formazione accreditata dalla Regione Campania, prevede l’implementazione di attività e iniziative innovative per l’ambiente penitenziario, tese a coinvolgere contesti più fragili dove la progettazione e la visione del futuro passa prima di tutto dalla restituzione della dignità e delle opportunità. Massa Carrara. Nelle “Parole liberate” il grido del carcere di Roberto Oligeri La Nazione, 28 luglio 2025 Giovedì a Rometta la serata conclusiva del concorso di testi. Canzoni scritte nei penitenziari e musicate dai cantanti. “Parole liberate 2025”: i testi dei detenuti diventano canzoni con i Jalisse, Nuovo Normale e Teresa Plantamura. Giovedì alle 21 in piazza dei Parchia a Rometta a Fivizzano serata musicale con il progetto ‘Parole liberate’. Si tratta del seguito di un bando dell’omonima Associazione emanato dal ministero della Giustizia, in cui si propone ai detenuti di scrivere un testo che diventa canzone. Le parole liberate dei detenuti sono state musicate ed interpretate da oltre 30 artisti e i brani realizzati sono stati inclusi in 2 album prodotti dall’etichetta Baracca & Burattini. Fra gli artisti Bandabardò, Morgan, Petra Magoni. I 2 album sono stati presentati alla Camera, hanno vinto il Premio Lunezia 2022 ed il Cremona Award 2024 e “Parole liberate” s’è classificato al 2° e 3° posto alle Targhe Tenco. Importante anche il riconoscimento del ministero della Cultura in quanto l’associazione per 2 anni, è arrivata prima tra 600 partecipanti. Quest’anno, “Parole liberate 2025”, giunge nel cuore della Lunigiana portando testi di detenuti che divengono canzoni e lo fa con i Jalisse, Nuovo Normale e Teresa Plantamura. Giovedì quindi a Rometta di Fivizzano il pubblico conoscerà “Vieni a cercarmi”, il testo scelto dalla giuria del premio. “C’è stato inviato, insieme ad altri 2 testi ed un modulo firmato dalla detenuta Elena Scaini il 31 dicembre 2024, ultimo giorno utile per partecipare al bando - afferma il referente dell’Associazione. Due mesi dopo, Elena ha posto fine alla sua esistenza suicidandosi all’interno del carcere di Mantova. Ritireranno la targa i familiari e sarà presente l’assistente che la seguiva nelle sue attività artistiche. Il caso ha voluto che i Jalisse avessero scelto in precedenza un altro testo della stessa detenuta per musicarlo ed interpretarlo nell’ultimo Parole Liberate volume 3 che uscirà all’inizio del 2026. Un’anteprima del brano sarà eseguita a Fivizzano insieme ai brani del loro repertorio”. La Spezia e Lunigiana è stato selezionato nel bando “Cultura plurale, sostenibile ed inclusiva”. Il progetto è realizzato grazie a Fondazione Carispe. L’evento a Piazza dei Parchi ha la collaborazione ed il sostegno di Parco Nazionale 5 Terre-Area Marina Protetta, Parco Alpi Apuane-Unesco Global Geopark, Parco Nazionale Appennino Tosco-Emiliano e del Comune di Fivizzano. L’ingresso è libero. Leggere insieme oltre le sbarre di Sara Scarafia Robinson - La Repubblica, 28 luglio 2025 A Padova, nel penitenziario di Due Palazzi, ci sono tanti circoli, uno in arabo. Si vedono ogni settimana, condividendo anche l’Odissea ad alta voce. Carcere Due Palazzi, Padova, interno giorno. Nella biblioteca della casa circondariale Bruna sta leggendo a voce alta L’Odissea. Ad ascoltarla ci sono dieci detenuti. Uno di loro alza la mano. Vuole sapere di più su Telemaco e gli altri fanno sì con la testa: “Dicci di più”. In questo gruppo di lettura molto speciale, uno dei quattro attivi dentro il penitenziario, Itaca è la libertà. E in quel figlio che cerca il genitore ci sono gli affetti lì fuori, il mondo che sta cambiando lasciandoli fuori. Da quando Robinson ha creato un indirizzo mail dedicato ai gruppi di lettura, ogni settimana arrivano storie bellissime da tutta Italia. Ma è la prima volta che a scriverci è un’associazione di volontari che guida i book club tra i detenuti. In questo caso Granelli di senape, che collabora con la cooperativa Altra città che gestisce la biblioteca del carcere. Le regole naturalmente sono tutte diverse: ogni gruppo si vede, se non ci sono intoppi, una volta a settimana, una decina di persone per volta suddivise per sezioni. Hanno tra i 20 e i 70 anni, sono italiani e stranieri. Si legge insieme lo stesso libro, ma ad alta voce perché in cella i ritmi della lettura solitaria non sono facili per tutti. Per partecipare bisogna fare “la domandina”; una volta arrivati in sala biblioteca, mettersi in ascolto, settimana dopo settimana. In questo carcere che ospita più o meno 600 detenuti, si scontano pene lunghe. Chi è dentro ha sulle spalle accuse pesanti: droga, criminalità organizzata, reati sessuali. Ma bisogna ascoltare i volontari per abbandonare qualsiasi prospettiva retorica. Agnese Solero, insegnante di italiano e storia nei licei, da quindici anni volontaria nella biblioteca del Due Palazzi, mette subito le mani avanti di fronte a parole come “perdono” o “redenzione”. “Non è questo il senso del gruppo di lettura in carcere”. E allora qual è, Agnese? “È uno spazio di libertà e di socialità, anzitutto. È un tempo durante il quale è possibile parlare d’altro a partire dalla letteratura. È un momento di riflessione, dove non c’è giudizio”. Quest’anno L’Odissea ha permesso di esplorare tanti argomenti delicati: l’infanzia, il ritorno, il rapporto con le donne. “Molti si sono identificati di volta in volta con un personaggio rielaborando la loro personale odissea”. Un altro gruppo ha letto Tempo di uccidere di Ennio Flaiano e una selezione di poesie sulla nostalgia. Sono gli stessi che dentro al gruppo di lettura hanno portato avanti un laboratorio di scrittura dal tema “i primi dieci anni della nostra vita”. In un altro circolo, i detenuti hanno letto Il pericolo di un’unica storia di Chimamanda Ngozi Adichie. C’è un gruppo, invece, che si concentra di più sull’attualità: saggi e articoli di giornale. “Dall’Intelligenza artificiale al rapporto dei giovani con i cellulari -continua Solero - non dimentichiamo che chi sta scontando la pena ha figli, nipoti, affetti. Ecco, forse se c’è un senso in quello che facciamo è quello di cercare di trasmettere l’idea che c’è un modo per stare ancora nel mondo, che dentro e fuori sono la stessa cosa”. C’è poi un’esperienza interculturale: il gruppo di lettura in arabo nato dalla collaborazione con le associazioni Un ponte per e Lina ben Mhenni di Tunisi che aderiscono al progetto Kutub Hurra. “Leggiamo in arabo e in italiano - racconta il volontario Sandro Fusi Botticelli, che ha scritto al nostro indirizzo robinsongdl@repubblica.it - c’è una mediatrice della cooperativa Orizzonti ad aiutarci. Lo scopo è anche quello di diffondere un punto di vista laico a partire dalla letteratura araba”. Tra i testi letti quest’anno, “Uomini sotto il sole” di Ghassan Kanafani. “A fine lettura abbiamo visto il film”. I gruppi in italiano hanno affrontato leMetamorfosi di Ovidio, Marguerite Yourcenar, ma anche libri contemporanei come Naufraghi senza volto di Cristina Cattaneo. “Per me essere qui - dice Agnese - è una scelta politica. È un’esperienza di accettazione. Molte delle persone che partecipano ai gruppi di lettura non hanno mai aperto un libro”. L’incontro con la bellezza può rendere migliori? Solero non lo sa. Ma, quando racconta la storia del detenuto che prima è diventato volontario nella biblioteca del carcere e poi, scontata la pena, bibliotecario per davvero nelle scuole e all’archivio comunale, sorride. Gruppi di lettura e pratiche di resistenza in giro per l’Italia di Maria Teresa Carbone Alias - Il Manifesto, 28 luglio 2025 “Libri insieme. Viaggio nelle nuove comunità della conoscenza”, per Laterza un saggio di Chiara Faggiolani. Sulla diffusione dei reading parties, le feste dove i partecipanti leggono in silenzio i loro libri, tenendo per la fine chiacchiere e bevande, Ignacio Echevarría ha scritto su El Español: “Non posso fare a meno di vedervi un altro sintomo del lento ma inesorabile tramonto della cultura del libro”. Non c’è nulla di male in questa pratica, precisa il critico spagnolo, convinto però che si tratti di un esercizio “esibizionista”, dove “la presenza degli altri costituisce un fattore di controllo reciproco, funge da promemoria dell’imperativo culturale della lettura, e lo fa con modi e vincoli temporali” simili “all’obbligo che tanti sentono di andare in palestra”. Con Echevarría non concorderebbe Chiara Faggiolani, autrice di un bel saggio, “Libri insieme. Viaggio nelle nuove comunità della conoscenza” (Laterza, pp. 161, euro 16), dove si parla anche - non solo - di reading parties. Ribaltando l’immagine corrente (e sostenuta dai dati) dell’Italia come paese poco incline alla lettura, Faggiolani racconta infatti la storia di tante iniziative che, dalle Alpi alle isole, ruotano intorno ai libri, non solo veicoli di sapere, ma potenti mezzi di connessione fra persone che altrimenti non si sarebbero incontrate. Sono “le nuove comunità della conoscenza” cui fa riferimento il sottotitolo del saggio, diverse tra loro, ma accomunate dalla stessa “urgenza di intervenire”. Al centro, in tutti i casi, l’idea che “in una società dominata da standard da raggiungere, performance da dimostrare e modelli di felicità imposti dall’esterno, i valori fondamentali siano la gentilezza, l’empatia, la solidarietà, la cura reciproca e l’intelligenza collettiva - e che la lettura abbia a che fare con ciascuno di questi aspetti”. Sono molte, spesso entusiasmanti, le storie narrate da Faggiolani nel suo viaggio. Come la Biblioteca di condominio Aler “Falcone e Borsellino”, avviata a Milano da alcuni cittadini per combattere l’illegalità perché “solo attraverso la cultura possono davvero cambiare le cose”, cui fa da contraltare nella napoletana Forcella la Biblioteca a porte aperte “Annalisa Durante”, che prende nome da una ragazza uccisa accidentalmente in uno scontro di camorra. O come il gruppo romano Strategie prenestine, nato dal desiderio di “trovare un’alternativa alle forme tradizionali di lettura condivisa, a partire dall’incrocio di punti di vista di differenti identità, non solo generazionali, ma anche socioeconomiche e professionali”. O infine come “Sapienza libera tutt*”, il progetto che la prima università di Roma attiva da anni in carcere, coinvolgendo studenti, docenti, bibliotecari e volontari. Siamo lontani dall’esibizionismo evocato da Echevarría, e tuttavia la nota finale di Faggiolani, improntata alla passione e alla sincerità che attraversano il libro, non nasconde la “malinconia prematura” provata dall’autrice pensando che queste iniziative sono esposte a un probabile declino, come di frequente avviene nelle pratiche di innovazione sociale. Per evitarlo, scrive Faggiolani, bisogna avere una strategia basata sul rischio calcolato, un po’ come il giocatore di Risiko che intende invadere la Kamchatka - e dunque, nel caso specifico, creazione di reti, sostegni economici, formazione di “dinamizzatori di lettura”. Come non essere d’accordo? E però, come non constatare con Echevarría che la crisi c’è, ed è profonda? Oltre diecimila i club “terapeutici” - “Ecco s’avanza uno strano lettore”: con questo titolo nel 2012 la biblioteca di Cologno Monzese apriva le porte a uno dei primi convegni italiani sui gruppi di lettura. Oggi nessuno parlerebbe più di “stranezza” e ai club del libro (ormai oltre diecimila secondo uno studio condotto da Chiara Faggiolani) si attribuiscono proprietà terapeutiche per l’editoria del paese. Non a caso, varie case editrici hanno attivato i loro gruppi di lettura: tra le altre, la piccola Keller di Rovereto, che per il suo “Booklub” ha ideato (forse prima al mondo) dei mazzi di carte con domande e stimoli per sollecitare i lettori più timidi. Se i libri sono spazi della empatia di Maria Teresa Carbone Alias - Il Manifesto, 28 luglio 2025 Una intervista con la psicoanalista spagnola Lola López Mondéjar: “La letteratura, come il cinema, permette di abitare la mente dell’altro, superando stereotipi e pregiudizi”. In un’intervista a El País Lola López Mondéjar, psicoanalista e autrice di un saggio, Sin relato. Atrofia de la capacidad narrativa y crisis de la subjetividad, che ha vinto nel 2024 il Premio Anagrama per la saggistica, ha detto che “i gruppi di lettura sono spazi rivoluzionari”. In occasione di un ciclo di incontri da lei tenuti presso l’Instituto Cervantes di Roma le abbiamo chiesto di argomentare meglio questa posizione. Negli ultimi anni la diffusione dei club del libro ha messo in risalto la dimensione “sociale” della lettura. Eppure, leggere resta un’attività solitaria. Come spiega questa contraddizione? In realtà i club del libro uniscono i due aspetti: da un lato, la solitudine creativa e riflessiva della lettura individuale; dall’altro, la possibilità di condividere e confrontare interpretazioni diverse, che arricchiscono la comprensione del testo. Il confronto permette di uscire da una visione personale o superficiale grazie all’apporto degli altri partecipanti e della persona che coordina, il cui ruolo consiste appunto nello stimolare l’esplorazione di nuovi scenari interpretativi. Nei gruppi, però, non c’è il rischio che si ritrovino lettrici e lettori con gusti affini e che quindi le scelte si rivelino prevedibili e poco stimolanti? Può succedere, ma nella mia esperienza è vero il contrario: le differenze fra i partecipanti, se non sono molto marcate, arricchiscono il gruppo e aiutano a cambiare prospettiva, come nel caso dello sguardo femminista che alcuni cominciano ad accogliere solo col tempo. Tuttavia, chi avverte una distanza troppo grande dal sentire comune spesso abbandona il gruppo. Questo crea una certa omogeneità, ma di solito resta comunque lo spazio per lavorare sulle differenze. A proposito dello sguardo femminista, almeno nei gruppi di lettura italiani la presenza maschile è ridotta: sono pochi gli uomini che aderiscono e spesso se ne allontanano dopo pochi incontri. Cosa ne pensa? Credo sia una perdita. Andrebbe valorizzato l’ascolto di tutte le differenze: alle donne, tra l’altro, potrebbe giovare sentire punti di vista maschili, non come opposizione, ma come ricchezza. Spesso la posizione femminista viene vista come “giusta” di default, ma non si può ridurre tutto a uno schema binario. Credo che nel tardo capitalismo molte donne, per adattarsi e affermarsi, abbiano adottato comportamenti “maschili”, il che rende più difficile discutere apertamente queste dinamiche. La società odierna impone spesso modelli individualisti, ed è difficile trovare spazi di vero confronto. Secondo lei ha senso sostenere che “quello che conta è leggere”, o si dovrebbe distinguere fra i vari tipi di libri? Leggere è sempre positivo, ma le fonti prescrittive - come la tv o i social - spesso orientano verso letteratura d’intrattenimento piuttosto che di qualità. Nei gruppi che ho seguito noto che, pur partendo da romanzi “leggeri”, molti arrivano ad apprezzare testi complessi, ma solo se esiste un percorso, una guida, o un contesto formativo. Diversamente, si resta sempre nell’ambito del già noto, perché lo richiedono i meccanismi di mercato e le abitudini di consumo. Credo che le istituzioni debbano promuovere la buona letteratura, offrire un ideale e non solo rispondere alle richieste immediate del pubblico. Ritiene sia possibile trasmettere la passione della lettura a chi non legge? È possibile, anche se è molto difficile oggi, perché bisogna competere con le tante “dipendenze” proposte dalla società, soprattutto digitali. Credo che, come avviene per la lingua, anche l’amore per la lettura si trasmetta per contagio: attraverso una figura di riferimento appassionata, che sia un insegnante, un genitore, o un amico. Se non si incontra una persona del genere, difficilmente nasce l’interesse. Inoltre, la lettura sugli schermi è spesso superficiale: gli studenti oggi faticano con i testi complessi, proprio perché manca la pratica della profondità. Davanti alle difficoltà della lettura, cosa si può fare per aiutare i ragazzi a non arrendersi? Viviamo in una società accelerata: fermarsi per leggere un testo complesso richiede sforzo, tempo e anche il coraggio di stare da soli con sé stessi. Si è perso il valore della lentezza e della concentrazione. Oggi ci sembra normale non riuscire a leggere due pagine senza distrarci. La prima sfida è proprio educare a rallentare, a prestare attenzione. Solo così si può accedere alle domande profonde che la lettura pone, su di sé e sugli altri. Un suo saggio è intitolato “Invulnerables e invertebrados”. A chi si riferisce? Mi riferisco a chi, per adattarsi alla società odierna, reprime vulnerabilità, empatia e relazioni profonde con gli altri. Questo porta a una sorta di “anestesia morale”: diventiamo impermeabili, evitiamo la sofferenza altrui per proteggerci, ma così rischiamo di perdere la capacità di entrare in relazione autentica, anche attraverso la lettura. Quindi pensa che l’empatia, anche fisica, possa nascere dai libri? Sì, assolutamente. Leggendo storie di altre persone - ad esempio migranti o minoranze - è più facile comprendere e sentire “dall’interno” le loro vite, invece di percepirle come estranee. La letteratura - come il cinema - permette di abitare la mente dell’altro, superando stereotipi e pregiudizi. Per questo credo che i gruppi di lettura siano luoghi rivoluzionari: permettono di aprire orizzonti nuovi e aiutano ad accogliere la complessità dell’esperienza, perché parlare di libri è parlare della vita. “Made in Carcere”, il libro che racconta come si crea sviluppo sostenibile nei penitenziari di Marco Quarantelli Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2025 Luciana Delle Donne e Micol Ferrara raccontano come una onlus insegna a realizzare borse e accessori offrendo “una seconda chance a detenute e tessuti”, partendo da materiali di scarto. Esiste un “mondo scomodo”, un antro oscuro scavato nelle nostre coscienze nel quale raramente si ha voglia di affondare lo sguardo, quello dei penitenziari. In questo universo fatto di passati difficili e dolori difficilmente cancellabili che corre parallelo alle nostre vite, lavora una onlus chiamata “Made in Carcere” che prova a creare bellezza. Partendo da materiali di scarto, le sue volontarie insegnano alle ospiti a realizzare manufatti “diversa(mente) utili” come borse e accessori offrendo, scrivono in un bel volume pubblicato da poco Luciana Delle Donne e Micol Ferrara, “una seconda chance a detenute e tessuti”. Il libro si intitola Sprigiona il valore! - Made in Carcere e la rivoluzione del Benessere Interno Lordo, è edito da Franco Angeli e racconta questa esperienza. Il social brand Made in Carcere nasce nel 2007 nella sezione femminile dell’Istituto Penitenziario di Lecce per volere di Luciana Delle Donne - insignita nel 2023 da Sergio Mattarella dell’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana -, quindi viene esportato nelle strutture di Trani, Bari e Matera dalla cooperativa sociale Officina Creativa. Diciotto anni investiti in progetti di risocializzazione delle detenute, basati su manualità e libertà creativa per raggiungere quello che è e deve essere l’obiettivo della detenzione - il reinserimento nella società - lungo un solco che tende verso il carcere consapevole, una comunità aperta in cui la riabilitazione prende la forma di opportunità educative, formative e lavorative. Con uno scopo principale, contrastare la tendenza individuata fin dal 2005 da Zigmunt Bauman: “Chi è respinto una volta è respinto per sempre. Per un ex detenuto scarcerato con la condizionale il ritorno alla società è quasi impossibile e il ritorno in galera è quasi certo (…). In sintesi le carceri, come tante altre istituzioni sociali, sono passate dal compito di riciclare i rifiuti a quello di smaltirli”. Con un doppio avvilente risultato. Le difficili condizioni in cui si vive nelle strutture italiane rendono difficile i processi di rieducazione e risocializzazione, un insuccesso reso palese dai dati relativi al tasso di recidività che in Italia sfiora il 70%. In direzione contraria a questa tendenza vanno i progetti di “Made in Carcere” - che da anni è al centro di interessi d studiosi di diverse discipline -, nei quali i rifiuti solidi vengono riutilizzati per produrre valore e le artefici di questo processo di trasformazione virtuosa sono coloro che, spesso e nella maniera più ingiusta, la società considera i propri materiali di scarto: chi finisce dietro le sbarre. Il libro racconta questo modello di sviluppo sostenibile totalmente diverso dal classico progetto di beneficienza e imperniato su una vera impresa sociale capace di promuovere il “Benessere Interno Lordo” delle sue protagoniste, che ricostruiscono la loro vita e mettono le basi per un futuro lontano dalla cella abbattendo la recidiva grazie al lavoro in un contesto in cui il Bil è strettamente connesso alla creazione di valore: quello delle donne impegnate nella manifattura, del recupero di tessuti scartati e del prodotto finale. Oltre che dell’articolo 27 della Costituzione, che diventa principio di azione, motore immobile di un cambiamento: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Carmen? Gasparotto, la volontaria nelle carceri femminili che ha raccolto in un libro 60 racconti di Mirella Piccin Il Gazzettino, 28 luglio 2025 “Sguardi - storie brevi scritte sulla pelle”. Ha operato nella Casa circondariale di Trieste con le donne. Nata a Taiedo e residente da alcuni anni a Trieste per motivi di lavoro, Carmen Gasparotto ha scritto un nuovo libro, intitolato “Sguardi - storie brevi scritte sulla pelle”, in cui racconta la sua esperienza come volontaria in carcere. Dietro le sbarre, ha scoperto le persone nella loro verità, nella loro essenza, ma anche nella loro parte peggiore, non lo nega. Ma sempre con la convinzione che “l’uomo non è il suo peccato né il suo reato: è figlio di Dio”. La postfazione del libro è di Giovanni Grandi, professore ordinario di Filosofia Morale all’Università di Trieste. Gasparotto ha scritto 60 microracconti, corredati dalle illustrazioni di Lisa Palleva, giovane tatuatrice di talento diplomata in Tatuaggio Artistico all’Accademia delle Belle Arti di Udine, che opera con il proprio studio a Fiume Veneto. Con disegni dal tratto leggero, quasi una filigrana, Lisa ha dato corpo e interpretazione alle singole storie. “Nei miei Sguardi non c’è quasi nulla di inventato sottolinea Carmen. Tutto è colto d’improvviso nella rivelazione che la realtà mette di colpo davanti agli occhi. Lampi di immagini, eventi colti in modo inatteso, attimi in cui l’esistenza rivela il suo volto, tragico, comico, struggente, incantevole, cinico, candido”. “Molte delle storie raccolte in questo libro sono pezzetti di mondo dai quali mi sono sentita chiamata - continua l’autrice -. Diversi racconti nascono dalla mia esperienza come volontaria alla casa circondariale di Trieste “Ernesto Mari”, che ha al suo interno l’unica sezione femminile della nostra regione”. La sezione femminile si trova al penultimo e ultimo piano della struttura, che ospitano rispettivamente le celle e uno spazio mansardato utilizzato come area comune. Le celle sono otto, ciascuna pensata per quattro persone. La maggior parte di esse ha letti a castello e in tutte c’è un piccolo bagno separato comprensivo di wc, lavandino e bidet. Le docce, invece, sono fuori dalle celle come nelle sezioni maschili. Sono alcuni dati tratti da Internet dall’associazione Antigone, che è autorizzata dal Ministero della Giustizia a visitare i quasi 200 Istituti penitenziari italiani. Carmen racconta la sua conoscenza diretta come volontaria: “In carcere incontro persone, non reati; questo il principio che mi guida precisa -. Stare in ascolto dell’altro restituendo dignità e superando la cultura della “pena” permette a noi volontari di offrire possibilità”. Per la scrittrice, “in un luogo come il carcere, dove gli orologi sono immobili, si può cambiare per un incontro, per le parole che sono altro da quelle dei compagni di cella, per lo studio, per la possibilità di lavorare. Le donne in carcere rappresentano il 4% di tutta la popolazione carceraria. Vale anche per il carcere di Trieste dove le donne non superano quasi mai il numero di 20 - racconta - e dove il sovraffollamento è una costante”. Carmen rileva che “storicamente c’è stato un disinteresse, prima di tutto culturale, ad affrontare la questione della donna nell’accezione di rea. Gli aspetti emozionali sono una forte componente comunicativa delle storie di ogni donna che nella vita detentiva paga anche la propria residualità numerica. Non ci sono mariti o fidanzati nei discorsi delle donne. Non ci sono “mogli” per loro che si precipitino con biancheria pulita e qualche carezza a placare l’angoscia”. Sintassi del sospetto: come la propaganda si insinua nel linguaggio di Iacopo Benevieri giustiziaparole.wordpress.com, 28 luglio 2025 Appunti di Linguistica Giudiziaria. Sui muri di Roma è andato in scena, per qualche giorno, un piccolo dramma semantico a cielo aperto. Nessuna tragedia greca, nessuna epifania. Solo manifesti - rettangoli di plastica e veleno - incollati con la sicurezza di chi confida nell’inerzia cognitiva del prossimo. “Scippi in metro? Ora finisci in galera senza scuse”. E accanto, l’immagine di una persona dalle sembianze che ricorda un rom, generato dall’intelligenza artificiale ma con tutto il corredo simbolico del “colpevole ideale”. Ancora: “Occupi una casa? Ti buttiamo fuori in 24 ore”. E lì, un catalogo umano dell’ansia identitaria: migranti, rom, un “alternativo” sceso da un quadro di Otto Dix, con l’occhio stralunato di chi osa vivere ai margini. Ora, sia chiaro: non è in ciò che viene detto che si consuma la propaganda populista. È in ciò che viene suggerito. Siamo nel regno delle implicature - quella raffinata arte linguistica, descritta da Paul Grice, che permette di trasmettere un messaggio senza mai esplicitarlo. Così il mittente può sempre dirsi innocente, come Pilato: “Ho scritto solo ciò che ho scritto”. Ma la mente del destinatario è già altrove. Ha collegato. Ha concluso. Ha creduto. In fondo, lo sapeva anche Kafka: “Le gabbie esistono per gli uccelli che vi entrano da soli”. E queste gabbie retoriche sono state progettate proprio per questo: far sì che tu ci entri di tua spontanea volontà. Che tu presupponga il senso, senza accorgerti della trappola. Il trucco? Far sembrare ovvio ciò che andrebbe discusso. Più l’informazione è discutibile, più funziona se è implicita. “Chi ruba nella metro è rom”, “chi occupa casa è migrante”: lo slogan non lo dice. Ma lo mostra. E il tuo cervello, grato di non dover pensare troppo, completa l’opera. È la “pigrizia semantica” di cui parlava Roland Barthes: la lingua come strumento di potere non perché grida, ma perché organizza il pensiero altrui. Un potere che non si impone, si presuppone. Così, mentre il manifesto parla di giustizia, la mente registra identità. Non legge: riconosce. Non riflette: applica lo schema. E nel silenzio del non detto, l’equazione “identità=reati” si imprime. È il potere della metafora visiva, dell’accostamento fraudolento, della sintassi insinuante. Lo scriveva Umberto Eco, “il non detto è ciò che regola il detto” e oggi non è neppure una novità. Già nel Ventennio, il regime fascista aveva intuito il potere dell’accostamento insinuante: i manifesti dell’epoca - pur senza proclami razziali espliciti fino al 1938 - presentavano il nemico interno attraverso tratti caricaturali, costumi “altri”, corpi deviazionisti. Era la forma visiva della propaganda: un non detto visivo che precedeva e predisponeva il consenso. La retorica si naturalizzava: il nemico appariva tale prima ancora di essere nominato. Oggi, come allora, la propaganda si affida all’estetica. E all’implicito. In conclusione, dovremmo smettere di preoccuparci delle parole in stampatello. Quelle fanno rumore, ma almeno si vedono. A preoccuparci, piuttosto, dovrebbero essere le parole non dette. Quelle che si insinuano nei pensieri, che si depositano come polvere nel linguaggio quotidiano. Quelle che passano inosservate - e proprio per questo agiscono. “Il vero nemico dell’umanità,” scriveva Elias Canetti, “è colui che non parla per farsi capire, ma per farsi accettare.” E nulla, più delle implicature, lavora in questa direzione. Una neo-lingua dell’intolleranza in guanti bianchi. Il razzismo che non urla più, ma ammicca. Il pregiudizio che si veste di efficienza, di ordine, di giustizia. E mentre lo accetti, tu ne diventi parte. Perché non lo hai scelto: lo hai digerito. Educare è liberare, ma la politica lo ignora. Folle la scuola che insegue il sistema produttivo di Massimo Cacciari La Stampa, 28 luglio 2025 La rivoluzione richiede pensiero critico, l’istruzione non sia ossessionata dagli sbocchi occupazionali. Quale dovrebbe essere il compito fondamentale di uno Stato? La risposta che ci proviene dalle voci che stanno all’origine della nostra civiltà è una sola: nutrire, allevare ed educare i giovani. Nutrire e allevare il loro corpo, formare ed educare la loro anima. Nella loro indissolubile unità. Di che cosa infatti dovrebbe avere massima cura una città, una polis retta secondo ragione, se non della propria forza e della propria durata? E che cosa le garantisce se non nuove generazioni attrezzate in tutti i sensi ad affrontare anche l’imprevedibile? È un’idea gerontocratica dell’educazione quella che la riduce essenzialmente a trasmissione di saperi. Educare, come dice la stessa parola, significa trarre fuori dal giovane la potenza che già è in lui, aprire la sua mente, i suoi occhi, e non informarlo di ciò che padri e nonni hanno compreso e vissuto. Educare significa liberare. Il peccato mortale della nostra politica consiste nell’ignorare tutto ciò. Il suo fallimento è palese, ma ci si ostina a nasconderlo. I dati lo denunciano impietosamente. La sfiducia nelle capacità formative del nostro sistema cresce con disarmante regolarità. I laureati nella fascia d’età 25/34 anni sono il 30% (ma al Sud solo il 20%), il 10% in meno rispetto alla media europea. Di questi laureati quelli che prendono la via dell’emigrazione crescono ogni anno dall’inizio del nuovo millennio, passando da qualche centinaio a parecchie migliaia. Chi trova lavoro in patria lo ottiene, nella stragrande maggioranza dei casi, irregolare e sottopagato. E per ogni capitolo di questo dramma il Sud vede peggiorare la propria situazione rispetto al Centro-Nord. Sono dati a disposizione di tutti, non opinioni. La formazione delle nuove generazioni non rappresenta la priorità della nostra politica. E una politica che nella sua agenda non esprime questa priorità cessa di avere un qualsiasi futuro. Non si tratta soltanto di investimenti, di difendere almeno il potere d’acquisto degli stipendi di personale e insegnanti, di armare il cervello dei giovani piuttosto che riarmare eserciti per far guerre per interposta persona. Né la crisi della scuola italiana può essere semplicemente trattata come un capitolo del progressivo esaurirsi delle politiche di Welfare, del venire meno della volontà stessa da parte dello Stato di garantire a tutti i servizi essenziali. Nella sua politica per la scuola una classe dirigente ha sempre espresso, cosciente o no, nel modo più chiaro il proprio livello culturale e la propria strategia complessiva. L’assetto della scuola è lo specchio più veritiero della sua qualità. Quale idea di società emerge dagli attuali ordinamenti? Una confusa contrapposizione al modello classista gentiliano ha condotto a inseguire quello di una scuola “al servizio” del sistema economico-produttivo. Una scuola che tradisce il suo stesso etimo per diventare nec-otium, negozio, una sorta di pre-lavoro. Modello non solo culturalmente odioso, ma semplicemente idiota, poiché esso prefigura una scuola che si troverà sempre in costante ritardo rispetto alle trasformazioni organizzative e tecnologiche. Se la scuola deve essere nec-otium la si chiuda e si promuovano soltanto forme di learn-by-doing gestite da imprese e società, al loro interno. La rivoluzione tecnologica (e delle stesse forme di vita) in cui viviamo richiede persone capaci di capire, apprendere rapidamente, educate a un pensiero critico, pronte nel cogliere i segni del salto, della discontinuità nei processi economici e sociali. Altro che adattarsi allo stato presente e integrarsi in esso. Tutto si tiene. Una scuola, a tutti i gradi, che persegue l’obbiettivo di addomesticare il giovane al mercato, ossessionata dalla peregrina idea dello “sbocco occupazionale”, sarà necessariamente il trionfo dell’ordinamento burocratico, del controllismo formale. L’oppressione burocratica schiaccia l’autonomia didattica, omologa al basso, rende vacua chiacchiera ogni selezione meritocratica. L’insegnante ha sempre meno tempo per leggere, studiare, continuare a formarsi; produzione di riunioni per mezzo di riunioni, redazione di piani e progetti, rendiconti continui non sulle proprie conoscenze, ma sull’osservanza di procedure e metodi soffocano il suo spirito di iniziativa. Come ha bene spiegato Ivano Dionigi nel suo libro “Magister” ormai la scuola non la fanno i maestri, ma i ministri. È il sistema dell’universale sorveglianza. Tutto si svolge sotto il timore della punizione. Non hai seguito la regola, non hai riempito con diligenza i moduli prescritti, la controversia legale, magari fino al Tar, sta in agguato. Per essere tranquilli, obbedisci ai comandamenti ministeriali, per quanto stupidi possano essere e anche se ciò ostacola fino a impedirla la tua volontà di crescita intellettuale, di cambiare, di innovare dove le cose non ti sembra funzionino. Bada anzitutto al “successo formativo”, che si misura sulla percentuale degli studenti che finiscono il corso negli anni previsti. “Successo formativo” significa perciò non avere “bocciati”, non avere “fuori corso”. Il “sindacato Famiglia” vigila che così sia. La meritocrazia può attendere, anche perché quale meritocrazia potrebbe esserci in un regime che non ha alcuna politica per un reale diritto allo studio? L’astratto metodologismo imperante determina anche i piani di studio. La competenza disciplinare lascia il posto a indigeribili melting pot specie nelle materie cosiddette umanistiche, infarinature di impressioni generiche su letteratura, arte, storia, invece di letture dirette, poche ma solide, conoscenze specifiche, limitate ma reali, fondate. Il “politicamente corretto” completerà l’opera di metamorfosi della conoscenza disciplinare in chiacchiera universalistica. Così non si educa il giovane e così lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale. Docenti e studenti debbono allearsi nel combattere questa intollerabile situazione. Solo da questa lotta può nascere anche una nuova èlite politica, una nuova classe dirigente del Paese. Abbandonati alla malavita: l’abisso dei ragazzi migranti di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro Il Domani, 28 luglio 2025 Storie dei minori arrivati da soli in Italia dal Mediterraneo e passati dai centri di prima accoglienza. Fuggono appena possono. Iniziano così un calvario tra sostanze pesanti, spaccio e asservimento ai clan. Barak non ne può più, picchiato e abusato dal padre in un villaggio in Tunisia. A 11 anni non ha amici, a scuola ci va poco o nulla: la sua vita sono lavoro e botte. Ha una rabbia dentro che non sa controllare. E allora scappa, va a Tunisi e lì per strada trova altri ragazzini, stessa rabbia e stessa fame. “Vieni in Italia che ti troviamo lavoro noi”, gli dice a un certo punto una voce. A 11 anni Barak (nome di fantasia a sua tutela) non ha già più niente da perdere: prende la barca insieme ad altri adulti e bambini e arriva in Sicilia nell’agosto del 2023, un mese prima di compiere 12 anni. È così piccolo che non entra nel circuito minori stranieri ma in quello per la tutela dei minori tout court. Ma Barak scappa anche da lì. Riappare a Firenze dove incontra Mario Landi, neuropsichiatra infantile, direttore dell’Unità Funzionale Complessa Salute Mentale Infanzia e Adolescenza di Firenze. “All’inizio eravamo riusciti a fare con lui un lavoro importante”, racconta il professore. “Era in un centro di tutela per minorenni sotto i 14 anni ed era diventato ‘il braccio destro’ dell’educatrice: parlava benissimo italiano e si stava integrando”. Ma giunto il momento di trasferirsi in un centro di seconda accoglienza Barak non regge e scappa. Ancora. “Sappiamo che si è inserito in circuiti criminali. Dopo un po’ è riapparso a Firenze, ma totalmente regredito a un comportamento anti sociale e aggressivo. A un certo punto ha attaccato un’operatrice e, sicuramente per il senso di colpa, è fuggito di nuovo”. Le ultime notizie lo danno a Milano, probabilmente sfruttato per spaccio o microcriminalità: a settembre compirà 14 anni e diventerà imputabile. Gli operatori e operatrici di Firenze hanno provato a chiamare la madre: “Diciamo che sapeva benissimo che il figlio era problematico e ci ha fatto capire che ce lo ‘mollava’ volentieri”. Non è un caso isolato: famiglie che coscientemente mandano bambini con problemi in Italia. “Del resto in Tunisia la sua unica fine sarebbe stata il carcere”, chiosa Landi. Nè è l’unico paese di provenienza per questi ‘casi’: “Nell’ultimo decennio abbiamo visto un flusso analogo dall’Egitto: ci si ‘libera’ a volte di bambini e ragazzi con problematiche che non si sanno gestire”, dice Vincenzo Guidetti, docente di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’Adolescenza all’Università La Sapienza di Roma. E ricorre sempre più spesso una parola che finora non veniva usata per la migrazione dei minori: tratta. “Vengono portati a Firenze da una criminalità organizzata e immediatamente integrati nel circuito criminale”, spiega un operatore che vuole rimanere anonimo. “Quel che siamo riusciti a capire sul campo, senza mezzi e con un po’ di competenze, è che a volte i ragazzi con precedenti, principalmente di Tunisia e Marocco, vengono invitati caldamente a venire in Italia”. L’esca? “Vieni, tanto nel tuo paese non ci puoi più stare, se ti fermano un’altra volta finisci in galera, mentre in Italia ti troviamo lavoro noi”. Il “lavoro” criminale, lo spaccio o altre attività, frutta di più e diventa “concorrenziale” rispetto all’offerta dell’accoglienza, dove “ci sono tappe da seguire ed è difficilissimo lavorare prima dei 18 anni”, dice Luca Scopetti, referente anti-tratta e assistente sociale della cooperativa Parsec di Roma. Mentre i 50 euro in palio per effettuare la consegna di uno zaino da un punto all’altro della città fanno gola - e il pagamento spesso è anche in vestiti e scarpe nuove: uno status symbol per ragazzi che non sono altro che adolescenti. “Solo i giovani musulmani, molto religiosi, non cadono in tentazione”. “È stato arrestato per spaccio”, raccontano Laura e Carlo, due tutori che a Firenze seguono un ragazzo tunisino in messa alla prova. “Lo hanno messo in una comunità a Terni, ma appena può torna a Firenze: si vede che qui ha un giro. Questi ragazzi di strada vengono dagli stessi quartieri: lui in carcere ha trovato amici che conosceva già in Tunisia”. L’Anci, associazione nazionale dei comuni, registra il rientro dell’emergenza dell’accoglienza per minorenni stranieri non accompagnati: il numero di presenze è stabilmente al di sotto delle 20mila unità (16.556 al 31 maggio), l’affanno per l’accoglienza - vera e propria “crisi” tra politica ed enti locali solo due estati fa - è diminuito. Il problema ora è “una maggiore complessità della presa in carico”. I minori che arrivano sono più fragili dal punto di vista psico-sociale e sempre più spesso coinvolti in reti di tratta e sfruttamento. “Appaiono in significativa crescita episodi che espongono i minori soli a rischi di sfruttamento, tratta, violenza o coinvolgimento in percorsi di criminalità con ricadute sulla sicurezza” loro, dei loro coetanei “e in alcuni casi anche sulle condizioni di sicurezza e benessere dei territori in cui sono accolti, soprattutto nelle medie e grandi città”, dice l’Anci. A Firenze “ci sono i minori male accompagnati, usati dalla criminalità perché in caso di condanna subiscono pene più lievi”, aggiunge Salvatore Calleri della Fondazione Caponnetto che da tempo denuncia l’aumento del fenomeno mafioso straniero. Il rischio sarebbe anche quello dell’arrivo della famigerata moccro-mafia (mafia marocchina) che in Olanda e Belgio domina lo spaccio di stupefacenti. A Roma il fenomeno è gestito direttamente dalla ‘mala’ locale ma con effetti molto visibili sul territorio, tanto da spingere il governo guidato da Giorgia Meloni a portare il ‘modello Caivano’ in uno dei quartieri più ‘caldi’: il Quarticciolo. Un simbolo anche per la lotta dei comitati locali, che, sotto la sigla “Quarticciolo ribelle”, da anni fanno da supplente allo Stato con un ambulatorio di quartiere, la palestra popolare e il dopo scuola. “Lo spaccio di cocaina si è spostato su Telegram e per strada è arrivato il crack”, racconta un attivista. “Un tipo di droga per consumatori più marginali, che restano in zona e con un ‘craving’ (desiderio incontenibile di assumere una sostanza, ndr) così veloce e potente da farli diventare violenti. La prima settimana hanno un aspetto normale. La seconda barcollano e la terza sono zombie”. Ma soprattutto sono cambiati gli spacciatori, gli ultimi anelli della catena: ora ci sono molti minorenni o neo maggiorenni del Maghreb. “C’è chi dice che il passaparola sul Quarticciolo arriva addirittura da Lampedusa”, chiosa sempre lo stesso attivista. Il problema è soprattutto di relazione con il territorio. “Con gli spacciatori locali si riusciva a fare mediazione: qualche parente in comune, qualcuno andato a scuola con qualcun altro lo si trovava sempre. Questi ragazzi invece arrivano, restano poche settimane e se ne vanno”. Stazionano in gruppi da 10/15 su una via interna - e solo il fatto di essere gruppo intimidisce. “Chi comanda non è cambiato”, ma usare ragazzi stranieri costa molto meno: Non devi pagare la difesa legale se vanno in carcere né mantenere la famiglia. Prendono un decimo rispetto a un italiano e dopo due mesi se ne vanno. I ragazzi non usano tanto il crack ma gli psicofarmaci che ormai vengono venduti in piazza assieme al resto. Anche a Roma dilagano Rivotril e Lyrica. Non solo tra i minori ma tra tutte le persone in strada, racconta chi lavora sul campo. Roba economica, di facile reperimento e con effetto immediato che risponde ai bisogni dei ragazzi, presa insieme ad alcol e altre sostanze. Come si trova? L’ipotesi è di persone psichiatriche e senza fissa dimora che riescono a reperirne in quantità cospicua. Lyrica, in particolare, è un medicinale con svariati usi, anche per i dolori cronici, quindi ancora più semplice da reperire. Sul fatto che la dipendenza parta già da prima del viaggio non ci sono certezze, ma il sospetto, in particolare sulla rotta balcanica, che siano i trafficanti stessi a somministrare psicofarmaci per velocizzare e attutire dolori e paure. D’altro canto quella è una rotta in cui capita di essere percossi, e tanto, dalle forze dell’ordine. Né in Italia c’è una presa in carico di queste dipendenze: un po’ per lo stigma, un po’ perché sono ancora più difficili da riconoscere e manca la consapevolezza dei ragazzi, visto che non si tratta di droghe riconosciute. “Lyrica e Rivotril”, confermano dalle unità di strada della cooperativa Cat di Firenze. “Troviamo i blister per terra, nelle zone di spaccio”. Non sono classificati in maniera differenziata nei sequestri degli psicofarmaci quindi non si trovano nei report della polizia e della Dcsa (Direzione centrale dei servizi antidroga), ma scorrendo i titoli dei quotidiani locali i casi più frequenti di sequestri avvengono a Genova, in Veneto e ora anche in Emilia Romagna. Resta per il momento ancora un fenomeno sottotraccia. “A molti ragazzi danno questi psicofarmaci per il viaggio. O in alcuni casi è più accettabile della droga classica”. Anna Paola Lacatena è dirigente del Dipartimento Dipendenze patologiche della Asl di Taranto, ma anche giornalista e sociologa e ha lavorato sul traffico degli psicofarmaci in Africa. La Libia è un hub, Marocco, Tunisia ed Egitto il mercato. E in Italia? Una pasticca di Rivotril da 2 milligrammi è il dosaggio più alto: si può trovare a 50 centesimi, un euro sul mercato nero. “Il nome generico è clonazepan, una benzodiazepina normalmente usata per curare crisi epilettiche ma che ha anche effetto ansiolitico”, spiega Lacatena. “In grosse quantità dà coraggio e disinibisce: viene chiamata la droga della rapina”. Il Lyrica è l’altro farmaco molto diffuso tra minori stranieri non accompagnati. Mischiato con alcool e altre droghe come crack e cocaina. Il problema è che non ci sono competenze specifiche nei centri per minori e anche i pochi Servizi per le dipendenze (Serd) sono ingolfati dai controlli su alcol e altre sostanze. “Non si rendono conto di avere un problema” racconta David (nome di fantasia) operatore in centri per minori a Roma dal 2019. “Abbiamo trovato un ragazzo con il Rivotril addosso: ci ha detto di averle avute ‘al mercato nero’ come se fosse la cosa più normale del mondo. Qualche giorno dopo ha persino chiesto la ricetta al medico della Asl da cui lo avevamo portato: pensava di essere andato lì per quello”. Perché Leone XIV sui migranti ci invita a ribaltare la prospettiva di Paolo Lambruschi Avvenire, 28 luglio 2025 Allargare lo sguardo delle comunità, guardare a chi arriva nei nostri Paesi come a una risorsa, partendo dalla fede spesso in comune che abbiamo: il messaggio di Prevost è un invito alle coscienze. I migranti sono una benedizione divina in un mondo in cui sono necessarie la condivisione e la cooperazione contro ogni forma di chiusura e di nazionalismo. E le nazioni devono accoglierli come messaggeri di speranza. La forza del discorso di papa Leone XIV, diramato per la 111° Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 4 e 5 ottobre, è quella di ribaltare in modo spiazzante la nostra prospettiva prendendo come esempio la speranza fortissima che anima il cammino dei migranti e che deve animare il Giubileo. Papa Francesco non a caso aveva fatto coincidere Giubileo dei migranti e dei missionari - non la giornata - coniugando i temi della speranza, della migrazione e della missione. Da qui parte il discorso di grande continuità di Papa Leone, mettendo in evidenza anzitutto le cause immutate della migrazione in un contesto globale segnato da guerre, violenze, ingiustizie e cambiamenti climatici che causano la mobilità forzata di milioni di esseri umani, con cifre in aumento costante da 10 anni e che registrano picchi da record dal 1945. Il primo Papa nordamericano stigmatizza la tendenza generalizzata a curare esclusivamente gli interessi di comunità circoscritte perché questo “costituisce una seria minaccia alla condivisione di responsabilità, alla cooperazione multilaterale, alla realizzazione del bene comune e alla solidarietà globale a vantaggio di tutta la famiglia umana”. Chiusure pericolose, come la rinnovata corsa agli armamenti - tema caro ai predecessori - e di fronte alle teorie di “devastazione globale e scenari spaventosi” il rimedio è far crescere il desiderio di pace nel cuore dei più. Secondo papa Leone molti migranti, rifugiati e sfollati sono testimoni privilegiati della speranza attraverso il loro quotidiano affidarsi a Dio. Lo abbiamo visto molte volte nelle pagine ingiallite e sgualcite dei testi religiosi ritrovati in fondo al Mediterraneo come unico lascito dei tanti naufragi. Bibbie dove annotazioni e preghiere struggenti davanti alla prospettiva di morire una fede autentica in Dio diventano messaggi dall’eternità e migranti e rifugiati diventano messaggeri di speranza per la loro tenacia in cui cogliere la testimonianza “eroica” di una fede spesso così forte da donare loro la forza di sfidare la morte nelle diverse rotte migratorie contemporanee. Non parla d’invasione, il discorso del Papa, anzi. Ma sottolinea la forza dell’accoglienza e richiama la Chiesa a restare aperta, a mantenere la dimensione “pellegrina ed errante”, mettendo in guardia le comunità cristiane dalla tentazione di sedentarizzazione che porta a smettere di essere nel mondo e diventare del mondo. Tentazione non nuova e presente nelle prime comunità cristiane che venivano richiamate da san Paolo. A migranti e rifugiati cattolici Papa Leone affida il compito di diventare missionari di speranza nei paesi che li accolgono portando nuovi percorsi di fede dove il messaggio di Cristo non è ancora arrivato, avviando dialoghi interreligiosi fatti di quotidianità e di ricerca di valori comuni. Ma chiede ai migranti credenti - ed è un discorso che si adatta perfettamente alle comunità occidentali, Italia compresa - “di contribuire a rivitalizzare comunità ecclesiali irrigidite e appesantite in cui avanza minacciosamente il deserto spirituale”. C’è qui un importante richiamo a San Paolo VI che parlava nella Evangelii nuntiandi della missione realizzata dai migranti e un sostegno continuo frutto di un’efficace cooperazione interecclesiale che in Europa si è realizzata soprattutto tra Italia Germania, Svizzera e Francia iniziate negli anni 60 e 70 quando i migranti eravamo noi e siamo tornati ad esserlo. Migranti come opportunità da accogliere, migranti come risorsa, appunto. Di più, la loro presenza viene definita nel messaggio come una “benedizione divina”, appunto, un’occasione per aprirsi alla grazia che dona nuova energia e speranza alla Chiesa. E poi le meravigliose parole della lettera di San Paolo agli ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni praticandola senza saperlo hanno accolto degli angeli”. Un discorso forte e incoraggiante dove la speranza che li supporta va presa ad esempio perché diventa promessa di un presente e di un futuro in cui sia riconosciuta la dignità di tutti. Stati Uniti. È record di migranti nelle carceri e per quelle private volano i profitti di Anna Lombardi La Repubblica, 28 luglio 2025 A giugno gli irregolari finiti in prigione erano 60.254, il 20 per cento in più rispetto a gennaio. Ma altro che criminali: il 71 per cento non ha precedenti penali. Il pugno duro sull’immigrazione promosso da Donald Trump ha portato un numero record di migranti irregolari nelle carceri americane. Soprattutto in quelle private, facendo volare i profitti. Lo dice un’analisi dell’Afp basata sui dati ufficiali. A giugno, ad affollare i penitenziari statunitensi erano ben 60.254 detenuti: un numero impressionante, salito del 20 per cento rispetto ai 40.500 di gennaio, quando Trump era appena entrato alla Casa Bianca. Con buona pace del fatto di aver promesso una stretta sui criminali, il 71 per cento di quelli che si ritrovano nei centri di detenzione non ha precedenti penali: anche questo un balzo, rispetto al 54 dell’anno scorso. Ma il dato più inquietante è che le detenzioni di massa stanno già facendo crescere i profitti delle aziende private che controllano molte delle strutture: ben 62 su 200. Le due compagnie più grandi, Geo Group e CoreCivic, che gestiscono rispettivamente 25 e 17 centri, sono addirittura quotate in borsa. E grazie alla volontà di Trump di fare della lotta all’immigrazione una priorità assoluta - promettendo la più grande campagna di espulsioni nella storia americana - hanno potuto firmare nuovi contratti da 153 milioni di dollari. Facendo schizzare il valore delle loro azioni, cresciute rispettivamente del 75 e del 69 per cento. In questo contesto, non passa certo inosservato che Geo Group abbia donato 3,6 milioni di dollari ai repubblicani nel 2024. E che la procuratrice generale Pam Bondi - sì, insomma, la ministra della Giustizia - è stata una lobbista del gruppo fin dal 2019. Per finanziare il piano della Casa Bianca, il Congresso degli Stati Uniti ha recentemente stanziato 45 miliardi di dollari. Da utilizzare appunto per aprire ancora nuovi “centri di detenzione” atti a contenere fino a 100mila detenuti entro la fine dell’anno, ovvero più del doppio del numero di posti disponibili nel 2024. D’altronde, il numero di queste carceri destinate a persone arrestate dall’Ice, l’infame polizia anti-immigrati, è già aumentato: passato dai 107 di gennaio ai 200 di giugno. Fra queste c’è pure l’ormai famigerata “Alligator Alcatraz”, il supercarcere dove sono finiti anche due italiani, assemblato in appena 8 giorni con prefabbricati, tende e roulotte, inaugurato il 1° luglio nel cuore delle malsane paludi della Florida circondate da alligatori. Da tempo Donald Trump ha annunciato l’intenzione di usare il carcere di Guantanamo - quello sull’isola di Cuba reso celebre per aver ospitato presunti terroristi di Al Qaeda che sia Barack Obama che Joe Biden avevano promesso di chiudere - per portarci i migranti “più pericolosi”. Il progetto è di installare addirittura 30mila posti letto, ma per fortuna l’obiettivo è ancora lontano dall’essere raggiunto (a giugno sono arrivati in quell’infausto posto mediamente 22 persone al giorno). L’allarme di Human Rights Watch - In un contesto così efferato, va da sé che le condizioni di detenzione sono sempre più preoccupanti: Human Rights Watch ha pubblicato lunedì scorso un rapporto in cui denuncia le “pratiche abusive” di almeno tre centri di detenzione. La Ong ha descritto celle sovraffollate, immerse nel gelo o nel calore, disperati che dormono sul pavimento in celle senza finestre ma costantemente illuminate a giorno da luci fluorescenti, privi di ogni servizio igienico di base. Venezuela. Alberto. Trentini chiama casa: “Sono vivo ma non resisto più” di Giuliano Foschini La Repubblica, 28 luglio 2025 Il cooperante, in carcere da 254 giorni a Caracas, ha parlato con i familiari. Il vice ministro degli Esteri Cirielli: “Speriamo che si giunga presto alla scarcerazione”. “Ciao mamma, sono Alberto, sono vivo. Papà, sta bene?”. È cominciata così la telefonata a casa di Alberto Trentini, il cooperante italiano arrestato in Venezuela il 15 novembre scorso senza alcuna reale ragione, e che da allora è detenuto a El Rodeo, una prigione dei servizi di Caracas. Trentini aveva chiamato casa in questi quasi nove mesi, soltanto una volta, nel maggio scorso. Da allora il silenzio totale, tanto che si temeva per la sua vita e il suo stato di salute. La telefonata di ieri, seppur di pochi minuti, è stata quindi una grande sorpresa e boccata d’ossigeno per la famiglia, seppur nella disperazione di una lontananza forzata: Trentini è usato, di fatto, come merce di scambio politico tra il governo venezuelano e quello italiano. Che, non a caso, in questi mesi, sta cercando di compiere alcuni sforzi nel riconoscere l’esecutivo guidato da Maduro. “A nome del governo italiano, esprimo sollievo per la telefonata di Alberto ai suoi familiari” ha detto ieri il vice ministro degli Esteri, Edmondo Cirielli. “Speriamo però che si giunga preso alla scarcerazione”. Tradotto dal diplomatichese, significa che l’Italia spera che si stia realmente muovendo qualcosa e che possa portare nel giro di poche settimane alla liberazione del nostro connazionale. Il dossier è seguito direttamente dal sottosegretario alla presidenza, Alfredo Mantovano. E da tutta la Farnesina, a partire dal ministro Antonio Tajani. Che, non a caso, proprio ieri ha nominato un inviato speciale per i detenuti italiani in Venezula: si tratta del direttore generale per gli italiani nel mondo, Luigi Vignali, un diplomatico di grandissima esperienza che da anni gestisce i dossier più delicati in giro per il mondo. Trentini è in discrete condizioni di salute, gli vengono dati i farmaci di cui ha bisogno, ma come hanno raccontato a Repubblica alcuni suoi vecchi compagni di cella è stremato dalle condizioni in cui i detenuti sono costretti a vivere a El Rodeo e dice di non avere più le forze per resistere. “Pur nella costante angoscia siamo sollevati per aver potuto sentire, per pochi minuti, la voce di Alberto ed esprimiamo gratitudine nei confronti delle istituzioni che in Italia e in Venezuela si stanno adoperando per la liberazione di Alberto, da oltre otto mesi detenuto a Caracas. Speriamo di poterlo riabbracciare presto a casa” ha detto la mamma di Alberto, Armanda, insieme con l’avvocato Alessandra Ballerini. Caso Trentini, Tajani nomina un nuovo inviato per i detenuti italiani in Venezuela di Giuliano Foschini La Repubblica, 28 luglio 2025 L’incarico a Luigi Vignali. Il ministro degli Esteri: “Ci sono una quindicina di italiani che sono detenuti nelle carceri venezuelane”. Il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, d’intesa con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha nominato il nuovo direttore generale per gli Italiani nel mondo, Luigi Vignali, inviato speciale della Farnesina per i detenuti italiani in Venezuela. A renderlo noto in una nota, la Farnesina. Sempre in Venezuela è detenuto ormai da 253 giorni il cooperante italiano Alberto Trentini. Il ministro Tajani ha dichiarato: “Ci sono una quindicina di italiani che sono detenuti nelle carceri venezuelane. Fra questi c’è anche il cooperante Trentini, che poi ha avuto la possibilità anche ieri di parlare con la mamma, questo è un fatto positivo. L’inviato speciale dovrà dialogare per vedere come potere ottenere la liberazione di prigionieri politici che non hanno commesso a nostro parere reati. Stiamo lavorando per fare in modo che possano essere liberati e possano tornare a casa”. Immediata la reazione di Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera: “Silenzio di Palazzo Chigi, sussurri della Farnesina. Tajani fa sapere che seguono il caso e che Alberto starebbe bene, insieme ad altri detenuti politici italiani di cui non si ha notizia. Chi sono, perché non si ha notizia di loro? È stato nominato poi un inviato speciale per i detenuti in Venezuela, Luigi Vignali, a cui auguriamo buon lavoro, evidentemente non bastano le risorse diplomatiche esistenti, la nostra preoccupazione è forte, ricordo che il cooperante veneziano Alberto Trentini non ha mai svolto attività politica, è atteso da troppo tempo dalla sua famiglia e dalla sua comunità”. Così a Gaza i giornalisti sono bersagli, centinaia di morti per non testimoniare di Rula Jebreal La Stampa, 28 luglio 2025 Il Governo israeliano lascerà entrare la stampa internazionale solo quando sarà terminato il massacro. Nel conflitto sono stati uccisi più cronisti di quanti ne siano morti in tutte le principali guerre del Novecento e dei primi anni Duemila. Difendere la libertà di espressione, documentare e raccontare le verità scomode, significa riconoscere il valore e la dignità di ogni vita umana. In 22 mesi di genocidio a Gaza Israele ha ucciso centinaia di giornalisti palestinesi. A Gaza sono stati uccisi più giornalisti di quanti ne siano morti durante tutte le principali guerre del Novecento e dei primi anni Duemila messe insieme. Questi guardiani e guardiane della verità sono stati e sono i testimoni scomodi dello sterminio in corso a Gaza. Operatori dell’informazione che hanno documentato in modo sistematico i massacri e gli atti terroristici israeliani. Hanno raccontato le storie delle vittime innocenti e fatto vedere al mondo le verità che Israele credeva di poter seppellire sotto centinaia di tonnellate di missili e bombe, in quello che le Nazioni Unite hanno chiamato un cimitero a cielo aperto. Questo è diventata oggi Gaza, dopo che per anni è stata un carcere a cielo aperto. I morti fra i giornalisti palestinesi non sono “danni collaterali”. Sono bersagli, vittime di azioni mirate e in alcuni casi annunciate, nei loro confronti come nei confronti delle loro famiglie. Negli ultimi giorni Israele ha preso di mira il cameraman Adam abu Harbid, bombardando la sua tenda. Oltre a lui ha ucciso sua moglie e sua figlia di tre anni. Ma, per la prima volta nella Storia, i nostri colleghi palestinesi non rischiano più la vita soltanto sotto le bombe israeliane; stanno morendo anche di stenti. La fame pianificata e voluta come tecnica di genocidio, con il blocco totale degli aiuti umanitari, del cibo, dell’acqua, anche del latte in polvere, fa parte di una strategia di militarizzazione attentamente pianificata dal governo israeliano. I ministri israeliani si vantano di queste loro invenzioni. Amihai Eliyahu, ministro del patrimonio di Gerusalemme, ha detto che l’esercito deve trovare i modi più dolorosi per uccidere i civili di Gaza. “Ucciderli non è sufficiente”. Ha aggiunto: “Il governo si sta muovendo per garantire che Gaza sia cancellata; stiamo cancellando questo male, tutta Gaza diventerà ebraica”. Il generale Eiland Giora, in un articolo pubblicato da un quotidiano israeliano, a dicembre del 2023 ha invocato l’uso della fame, delle infezioni e delle malattie come armi per ridurre la popolazione. C’è un motivo per cui Israele vieta l’ingresso ai giornalisti internazionali a Gaza: non vuole testimoni che possano rimanere vivi. Il piano è che i giornalisti palestinesi muoiano, come l’insieme della popolazione. Tutti, uno alla volta con le bombe mirate, o collassando per gruppi, a causa della fame e della sete. Sono testimoni che prevede comunque di eliminare, in un modo o in un altro, con un po’ di pazienza, questione di mesi al massimo. Lo stesso vale per gli operatori sanitari, i medici, i cuochi, gli insegnanti. Tutta la società civile di Gaza sta per essere spazzata via dalla carestia. Il processo è già nella sua fase più letale, ha superato il punto critico, quello dopo il quale anche la reintroduzione degli alimenti non è più sufficiente a impedire il cedimento del sistema immunitario, perché l’organismo non è più in grado di assorbire il nutrimento. Le immagini che vediamo ora, le immagini devastanti dei bambini catatonici, con i ventri gonfi e gli arti scheletrici, le vediamo grazie ai giornalisti palestinesi. Man mano che collasseranno, non riceveremo più notizie da Gaza. Israele vuole che non vediamo più nulla di Gaza. C’è da credere che nell’idea di Netanyahu i giornalisti internazionali torneranno a Gaza soltanto quando potranno raccontare i grandi investimenti e i lavori in corso per la costruzione della Gaza Riviera. A quel punto, come solerti P.R. quando tutti i giubbotti “press” intrisi di sangue dei colleghi palestinesi saranno stati seppelliti, i giornalisti occidentali torneranno a Gaza. E alloggeranno in hotel 5 stelle, costruiti sopra quelle macerie e le fosse comuni dei bambini palestinesi. Il sistema mediatico ha fabbricato il consenso per questo genocidio con solerzia, in tutti questi mesi. E con la complicità di tanti. Trasmissioni televisive che in anni non hanno mai dato voce ai loro colleghi palestinesi. Non hanno mai mostrato il loro punto di vista. Non hanno mai realmente trattato le donne, gli uomini e i bambini palestinesi come soggetti e come esseri umani, ma semplicemente come lo “scenario di guerra” all’interno del quale Israele giocava le sue carte: cioè, faceva “il lavoro sporco” per conto della civiltà occidentale. Il genocidio è iniziato con la bugia sui 40 neonati israeliani decapitati, con quella sul quartier generale di Hamas sotto l’ospedale Al-Shifa e poi sotto tutti gli ospedali distrutti, con i massacri non definiti massacri ma “errori tecnici”, con i bombardamenti delle chiese, con l’esecuzione di 14 soccorritori, con i bambini uccisi mentre erano in fila per l’acqua e per il pane. Le bugie sono state ripetute a pappagallo dagli apologeti e dagli stenografi di Israele, e l’ammissione della verità è arrivata sempre con grande ritardo, una volta raggiunto lo scopo: consentire le esecuzioni di massa da parte israeliana. Pochissimi hanno letto le parole di colleghi come Hossam Shabat, ucciso a marzo di quest’anno. Affidate a una lettera d’addio, scritta a soli 23 anni perché sapeva di avere un missile puntato sul giubbotto. In quella lettera parla della sua missione, documentare ciò che stava accadendo a Gaza. Scrive che è stato un onore, per lui, dedicare ogni minuto della sua vita, negli ultimi due anni, al popolo palestinese. Di aver dormito sui marciapiedi, di aver sofferto la fame per raccontare al mondo le atrocità commesse dall’esercito israeliano. Prima di giustiziarlo, Israele lo ha minacciato. Così fa con tutti. Lo ha fatto con il collega Mohammed Baalousha che ha documentato, all’inizio della campagna genocidaria, che i neonati erano stati lasciati a morire nelle incubatrici senza energia dall’esercito israeliano (e non dal personale dell’ospedale, come aveva detto inizialmente l’esercito). Sta minacciando in queste ore il collega Anas Al Sharif, per il crimine di aver documentato l’uccisione di civili affamati, in fila per un po’ di farina. Sono oltre mille i palestinesi uccisi tra maggio e luglio davanti ai centri americani-israeliani di distribuzione del cibo. Anas ha fatto vedere al mondo l’immagine dei bambini scheletrici, dei loro corpi ormai pelle e ossa. Quelle immagini hanno cominciato a girare per il mondo e hanno fatto scattare le minacce dell’esercito israeliano. Quanti giornalisti italiani hanno fatto il suo nome? Quante trasmissioni televisive italiane hanno parlato di lui? Ignorare ed escludere le voci dei giornalisti palestinesi dal dibattito pubblico contribuisce a cancellare e disumanizzare tutta la popolazione palestinese, proprio mentre sta subendo uno sterminio. I leader europei sanno per certo che il governo israeliano continuerà a usare la fame come arma di sterminio, finché gli Stati Uniti non interromperanno i sussidi militari e finché loro stessi non sospenderanno l’accordo di associazione con Israele. Nonostante questo, si limitano a dichiarazioni di mera circostanza, una performance, per contenere la rabbia della pubblica opinione. La missione dei media, nel mezzo di questa ignavia della politica, non è quella di mantenere equidistanza. Ci può forse essere equidistanza fra il consentire un genocidio e l’impedirlo? La missione è quella di dire ai cittadini tutte le verità, anche le più scomode purché siano verità, affinché la pubblica opinione possa formarsi una sua consapevolezza e agire per salvare vite umane, facendo pressione sulla politica. Se i media si fingono equidistanti, allora stanno coprendo il genocidio. Israele sta cercando di distruggere le prove del più grande crimine di questo secolo e di eliminare tutti i testimoni, i veri custodi di un’enorme quantità di informazioni e testimonianze. I primi a recarsi sui luoghi del massacro, a ricostruire l’identità delle vittime degli attacchi. Tutte testimonianze su cui Israele vuole far calare il blackout mediatico. Se il mestiere che facciamo ha ancora un senso noi giornalisti abbiamo il dovere di onorare il sacrificio dei colleghi e colleghe palestinesi, rompere il blackout mediatico e collaborare con loro, coinvolgendoli nel dibattito pubblico prima che sia troppo tardi. La ritirata francese e i padroni in Africa di Domenico Quirico La Stampa, 28 luglio 2025 Dal Senegal al Mali, la Francia rimuove gli eserciti e termina i suoi due secoli di influenza. Via libera ai nuovi padroni: la Cina, la Russia e la Jihad. A forza di non morire c’è sempre qualcosa da raccontare. Per esempio la ritirata, la fuga dei francesi dall’Africa. Dopo due secoli di soperchierie, saccheggi e massacri fisici e culturali era ora che la FranceAfrique sparisse come merita, senza patetica cerchia di piangenti e senza nessuna benedizione. Ricordate De Gaulle: la Francia senza l’Africa è un paesuccio, una potenza di terzo ordine? Bene. Adesso è certificato, la profezia è, finalmente una realtà! Il Generale aveva inventato una geniale, finta decolonizzazione, finte indipendenze accovacciate sotto il consueto tran tran: Parigi comanda gli altri obbediscono. Finito. Defunto. Anche i trinceristi patetici ma tignosi (e pericolosi) dei rimasugli di Grandeur dovranno rassegnarsi. Le colonie di quella che un tempo era l’Africa equatoriale francese, con il ritiro dal Senegal del contingente militare che presidiava le eventuali mattane dei sudditi, sono uscite dalla Storia. Restano alcuni dettagli di questa indelicata “fraternité” in via anch’essi di liquidazione: il francese sostituito con le lingue locali e, ultimo e definitivo, la abolizione del franco Cfa con cui Parigi ha messo un nodo scorsoio attorno all’economia di questi eterni poveri. Ci vorrà tempo ma accadrà. Restano due francobolli: il Gabon e Gibuti, giusto per mandare la Legione a perfezionare l’abbronzatura. In Africa, in Algeria, i francesi di Luigi Filippo erano arrivati nel 1830 facendosi largo a furia di massacri, l’anticipazione di un metodo. È una fine senza gloria, miserabile come la Storia che qui è stata scritta e riscritta a gusto e comodo dei padroni, un mondo di violenza che ha ritmato instancabilmente la distruzione di tutto ciò che esisteva prima. Non ci sono date da stampare sulle bandiere o le lapidi, o i macroniani filari di parole da pronunciare, perché non c’è nulla da dire su una sconfitta così totale. Nessuna potenza coloniale, neppure il Portogallo che pure era anch’esso un Paese del Terzo mondo, ha sottosviluppato l’Africa con la astuta metodicità, la ferocia predatoria, l’arroganza razzista della Francia. Il tutto ben nascosto sotto l’ipocrisia più sfacciata. Gli ultimi a seppellire le rodate bugie dei presidenti di destra e di sinistra, Mitterrand, Chirac, Sarkozy, Hollande, Macron, sono stati i senegalesi. Il Senegal, il fedelissimo Senegal! dove è stato creato “l’evolué” da manuale, il suddito obbediente, integrato, più francese dei francesi replicato mille volge, Senghor, il presidente poeta. Ormai quei sudditi non esistono più, le nuove generazioni hanno compreso a caro prezzo che bisogna cacciar via i “monsieur afrique” e i loro soci in affari, i collaborazionisti travestiti da presidenti “democratici” con cui si faceva a metà del bottino. Arriveranno altri ladroni, certo, i russi, i cinesi, ma ora lo sanno, hanno scoperto il gioco, saranno loro a dettar le regole. E questo vale anche per le seduzioni dei vari Piani Mattei, delle interessate carità firmate Unione europea. Quello che resta di questa “fraternité” francese è un giudizio senza appello: Paesi afflitti dalla carestia e dalla guerra, l’eredità voluta di faide tribali ed etniche, moltitudini di migranti disperati, jihadismi, da Al Qaida all’Isis, che punteggiano le carte del Sahel di califfati, i soldati russi nei fortini della Legione, e i cinesi che esercitano, per ora, il loro imperialismo degli affari e delle materie prime. L’eredità francese è anche una avversione radicata e profonda verso i bianchi che coinvolge tutto l’occidente, considerato corresponsabile dello sfruttamento e del predominio di classi dirigenti corrotte e feroci. Ad approfittare di questa colossale bancarotta storica e politica sono i jihadisti che applicano ora nuove ambiziose tattiche come isolare e assediare le città. Nel Mali i miliziani del “Gruppo di sostegno all’Islam e ai mussulmani”, la branca saheliana di Al Qaeda, sta svuotando metodicamente decine e decine di villaggi. Accusati di aver collaborato con l’esercito tutti gli abitanti, uomini donne bambini, devono andarsene. I nomi non ci dicono niente: Kassa Berda, Kassa Saou, Darou, Beledaga Dagodji... Non esistono più: vuoti, abbandonati, l’aria ronza, la sabbia si arroventa, in una luce e in un silenzio che grida. Dagodji era un bel villaggio, grazie ai soldi degli emigrati c’era una scuola, un serbatoio dell’acqua: è scomparso. A Talataye al mercato del sabato venivano allevatori e commercianti da tutto il Sahel. I combattenti dello Stato islamico del grande Sahara “hanno bruciato tutto per costringere gli abitanti a partire. Anche gli uccelli”, dicono, sono scappati da Talataye. I fuggiaschi sono almeno 700 mila, tutta l’architettura territoriale del Mali sparisce. I gruppi jihadisti impongono le loro leggi: sharia, tassazione, emiri. Un amico fuggito da Dagodji mi annuncia: ho tenuto le chiavi di casa mia. Un giorno tornerò per ricostruire. Nel 1948 i palestinesi si affidavano alla stessa speranza. Ogni villaggio che diventa un fantasma senza uomini è un frammento di memoria che scompare, tradizioni, racconti, riti funebri, le feste del raccolto e della semina. Ecco che cosa hanno lasciato due secoli di fraternità francese.