Le carceri e le “iniziative” del Governo: tra l’annuncio e la soluzione c’è di mezzo l’elettore di Gianluca Filice terzultimafermata.blog, 27 luglio 2025 Nell’autunno del 2023, ad un anno dall’insediamento del Governo Meloni, il Ministero della Giustizia promuoveva, di concerto con il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel), il progetto “Recidiva Zero”, un’iniziativa avviata con l’obiettivo di ridurre il tasso di recidiva tra le persone detenute tramite percorsi strutturati di studio, formazione e lavoro all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari. L’ambizioso progetto punta all’ampliamento delle opportunità di lavoro per i detenuti nelle carceri italiane in ossequio all’articolo 27 della Costituzione, nella parte in cui attribuisce alla pena una tensione funzionale alla rieducazione del reo. I soggetti coinvolti, oltre al Cnel ed il Ministero della Giustizia, sono il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), 16 organizzazioni rappresentanti di categorie produttive con le quali è stato siglato un protocollo d’intesa per rendere strutturali le iniziative di reinserimento a fronte di misure di incentivazione per l’assunzione di detenuti e per attività produttive in carcere, numerose cooperative sociali, imprese e associazioni che partecipano ai percorsi di inserimento lavorativo, le Regioni ed il mondo accademico, per migliorare le condizioni utili a favorire l’istruzione universitaria in carcere. L’iniziativa, che ha ottenuto anche il sostegno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, include formazione scolastica, professionale, lavoro retribuito, con una particolare attenzione alla continuità e alla qualità dei percorsi. La seconda giornata di studio, svoltasi a Roma il 17 giugno di quest’anno, ha registrato la presenza, tra gli altri, del Ministro Carlo Nordio e del Sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, promotore del progetto iniziale; mentre la prima edizione (aprile 2024) ha rappresentato il momento iniziale di discussione e presentazione del progetto, avviato ufficialmente con l’accordo del 13 giugno 2023, in seno al quale sono state poste le basi per i programmi di studio, formazione e lavoro in carcere e fuori dal carcere, a margine dell’incontro di quest’anno è stato siglato un protocollo d’intesa tra il Cnel e 16 organizzazioni rappresentanti le categorie produttive per l’adesione al Segretariato permanente per l’inclusione economica, sociale e lavorativa delle persone private della libertà personale. Questo ulteriore passaggio dovrebbe segnare una nuova alleanza strutturale e rafforzare partnership utili a stabilizzare e ampliare concretamente le azioni di formazione e lavoro per la riduzione della recidiva. I principali dati oggettivi ricavabili dal progetto riferiscono che la popolazione detenuta coinvolta in attività lavorative è circa il 34,3% (21.235 detenuti su circa 61.861 al 31 dicembre 2024). Di questi, l’85% lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria prevalendo lavori interni al carcere, mentre solo poco più di mille casi riguardano attività extramurarie; il tasso di recidiva per i detenuti che partecipano a percorsi di lavoro e formazione è molto basso, attorno al 2%, a fronte di un tasso di recidiva generale del 68-70%. Il Ministro Nordio ha espresso il proprio convinto sostegno alla iniziativa affermando che, al concetto di rieducazione, il progetto coniuga quello di utilità: per il condannato, che in tal modo potrà acquisire abilità professionali da mettere a frutto una volta espiata la pena, per le aziende, che faticano a trovare maestranze in settori imprenditoriali nei quali “gli italiani non vogliono più prestarsi”, per la collettività, che potrà avvantaggiarsi del reinserimento di soggetti che abbandoneranno uno stile di vita basato su attività illecite, guadagnandone tutti in termini di maggior sicurezza. In particolare, riferisce il Ministro, “Le statistiche indicano che una buona percentuale di suicidi, che sono un po’ il flagello della carcerazione - non solo di quella italiana ma di tutto il mondo - avviene tra detenuti che non sono appena entrati in carcere (e sarebbe più comprensibile il contrario: perché a inizio pena, quando ti ammanettano e ti sbattono in una cella, ti cade il mondo addosso e probabilmente la tentazione di togliersi la vita è forte)”. Eppure, contrariamente a quanto affermato, secondo l’ultimo dato del Consiglio d’Europa, nel 2022 il tasso di suicidi nelle carceri italiane è più del doppio della media europea: 15 casi ogni 10.000 persone detenute, a fronte di una media di 7,2 e, inoltre, i casi di suicidi tra le persone da poco entrate in carcere non sono affatto pochi, infatti, circa la metà è avvenuta nei primi sei mesi di detenzione. Anche l’intervento del sottosegretario al ministero della Giustizia, Andrea Ostellari, ha fatto registrare un passaggio sul delicato tema dei suicidi in carcere, individuando proprio i progetti sul tavolo dei lavori quali strumenti idonei a ridare speranza e fiducia ai detenuti in prospettiva di un più facile e rapido reinserimento nella società civile, attraverso il rafforzamento degli incentivi per le imprese che assumono detenuti o ex detenuti già previsti dalla legge n. 193/2000, c.d. Legge Smuraglia[2], oltre alla “creazione dell’Elenco Nazionale Unico delle Strutture Esterne, che permetteranno ai soggetti privi di domicilio di poter entrare in un nuovo circuito per partecipare a programmi di formazione e lavoro …. Contando sul fatto che gran parte del lavoro dovrà essere fatto dal Commissario Straordinario per l’Edilizia Carceraria”. Proprio in ordine al piano edilizio di recente portato in Consiglio dei Ministri dal Guardasigilli per risolvere il problema del sovraffollamento, il Commissario Straordinario, Marco Doglio, ha stimato 9.696 nuovi posti nei prossimi tre anni, realizzati in 6o interventi edilizi, per un costo stimato di 758 milioni, in larga parte già coperto. A questi si aggiungono ulteriori 5.000 posti previsti con operazioni di valorizzazione e trasformazione degli istituti non più funzionali, con l’obiettivo di creare nuovi posti tramite la costruzione di nuove carceri o l’ampliamento di quelli attuali, comportando la risposta un complessivo soddisfacimento del fabbisogno di circa 15.000 posti. In base al progetto, entro il 2027 verranno realizzati i primi 1.500 container, 400 dei quali da installare subito in via sperimentale. L’obiettivo finale sarebbe quello di ricavare, in tal modo, buona parte dei circa 10 mila posti letto in più al costo di € 83.000 ciascuno. Da più parti, tuttavia, è stato eccepito che i tempi necessari all’intervento non garantiscono tempestiva soluzione al sovraffollamento, oltre al fatto che i moduli in progettazione andrebbero ad occupare spazi oggi destinati alla socialità che, in tal modo, subirebbe una ulteriore compressione. Accanto agli interventi strutturali, il Governo intende, poi, favorire la possibilità, per chi ha problemi di tossicodipendenza o alcolismo (la popolazione carceraria affetta da tali problematiche si aggira intono al 30%) un accesso rapido alla detenzione domiciliare nelle comunità di recupero che saranno inserite in un Albo che avrà il compito di conservare l’elenco di quelle ritenute idonee. La Relazione tecnica del Ddl stima che la possibilità di accesso per il primo anno si attesterà sul migliaio di persone. “La novità - ha affermato l’altro Sottosegretario alla Giustizia, Alfredo Mantovano - sta nel fatto che il nuovo istituto amplia il tetto di pena fino a otto anni, prevede come alternativa al carcere soltanto la detenzione domiciliare in una comunità di recupero e stabilisce che se ne può fruire soltanto una volta”. Eppure, il Presidente della Federazione Italiana delle Comunità terapeutiche, Luciano Squillaci, evidenzia che l’adesione volontaria dei detenuti ai percorsi di recupero presuppone che i richiedenti vogliano percorrere quella strada nella consapevolezza di quello che comporta, non potendo contare su presidi fisici o umani che impongano il trattamento terapeutico e, tantomeno, il mantenimento della restrizione in struttura, senza contare il rischio, paventato da più operatori nel settore, di una “privatizzazione della pena”. Ad un anno di distanza dalla emanazione del decreto c.d. “carcere sicuro” (decreto-legge n. 92 del 4 luglio 2024, convertito nella legge n. 112/2024), il Governo torna sul tema del sovraffollamento attraverso la valorizzazione dell’istituto della liberazione anticipata; quella annunciata da Carlo Nordio non è certamente “lineare e incondizionata” (suonerebbe come una resa dello Stato), ma si risolve nella sola introduzione di una procedura più rapida per la concessione del beneficio della liberazione anticipata, già previsto dall’ordinamento penitenziario, anche attraverso la creazione di una cartella personalizzata digitale dove andranno inseriti tutti i dati del carcerato, dal “fine pena” ai passaggi trattamentali che possono consentire la sua liberazione. In sostanza non cambia nulla rispetto alla disciplina previgente, l’emanando provvedimento rappresenta l’attuazione dell’art. 5 del decreto n. 92/2024, convertito nella legge n. 112/2024) che non innovava sul sistema esistente ma si limitava a chiarire il calcolo della pena e rivedeva le procedure amministrative per la richiesta di accesso che già, all’epoca, aveva reso chiaro il concetto che nulla sarebbe cambiato in termini deflattivi per la popolazione carceraria. Risulta singolare che, per ottenerla, sia il detenuto a doversi attivare facendone richiesta, sempre a patto che non si sia già visto respingere una precedente domanda, e il provvedimento deve essere adottato dai magistrati di sorveglianza nonostante il Ministro abbia istituito una task force per coordinare le operazioni che devono svolgersi in contatto diretto con i direttori degli istituti che avranno l’onere di informare il magistrato di sorveglianza. Ebbene, non si può certo disconoscere che dal suo insediamento l’attuale Governo, in tema di esecuzione penale, si sia dovuto confrontare con una situazione già complessivamente deteriorata e gravemente compromessa ma quello che appare ormai intollerabile è la frattura che corre tra gli annunci che hanno caratterizzato l’azione politica da tre anni a questa parte e le inumane e non più tollerabili condizioni nelle quali vivono i soggetti privati della libertà personale. Senza entrare nel merito di ogni novità o progetto legislativo (non fatichiamo a riconoscere che alcuni rappresentano sulla carta soluzioni ragionevoli ed auspicabili), notiamo che, di fronte ai numeri del sovraffollamento e dei sucidi in carcere, la politica si dimostra profondamente insensibile. Il carcere, lo sappiamo bene, non è argomento spendibile per larghissima parte della politica di ogni colore, lo testimoniano, da decenni, le infime condizioni strutturali dei nostri istituti di pena ed anche la carenza di organico che affligge tanto il personale interno (assistenti sociali, psicologi, medici, operatori di polizia, personale amministrativo), quanto quello degli uffici della magistratura di sorveglianza (basti pensare che il CSM, nel pubblicare i posti vacanti dei giudicanti del primo grado, il 16 luglio ha deliberato l’assegnazione di 35 magistrati nel Distretto di Roma, uno solo dei quali all’Ufficio di sorveglianza, nonostante la grave ed, ormai, endemica scopertura) ma, a questo punto, procrastinare interventi radicali che incidano immediatamente sulla sicurezza dei detenuti - ma anche dei detenenti - significa legittimare quei trattamenti disumani vietati dall’art. 3 della Cedu e dall’art. 27 della Costituzione italiana. Ai proclami non seguono mai azioni concrete oggettivamente riscontrabili e sostenute da investimenti economici e, del resto, numeri impietosi ci raccontano una storia diversa da quella narrata, fatta di una sofferenza diversa ed ulteriore rispetto a quella legittimamente distribuita dal sistema ordinamentale. Numeri che dicono che in questi mille giorni di Governo Meloni i detenuti sono passati ad essere da 56.225 (31 ottobre 2022) a 62.728 (30 giugno 2025) quindi 6503 persone in più nelle carceri a fronte di soli 126 posti in più creati dalle politiche governative condite di vuoti ed ipocriti proclami (caserme trasformate e nuove carceri da costruire), il tutto con il sostanziale avallo di chi dovrebbe istituzionalmente vigilare per individuare criticità e trovare soluzioni per risolverle Amnistia e indulto per risolvere qui e ora (citazione di Francesco Petrelli, presidente UCPI, convegno cpr) e non domani forse, perché ora la gente muore non fra un anno… e qualcuno avverta il Garante Nazionale. “La confusione tra rigore e sicurezza che non aiuta gli italiani” di Alessandra Servidori ilsussidiario.net, 27 luglio 2025 Per gli italiani la pena carceraria è diventata sinonimo di protezione e sicurezza, ma non è questa la sua funzione originaria. In questi giorni si sta parlando molto di giustizia, a seguito del via libera del Senato al ddl costituzionale Meloni-Nordio che riforma la magistratura, sancendo la separazione delle carriere tra giudici e Pm. Tuttavia, in settimana è stato approvato dal Consiglio dei ministri un importante decreto in materia di carceri. Diventa allora molto interessante sapere cosa pensano gli italiani della funzione della pena, dell’indulto e di come la politica dovrebbe affrontare il tema. Ne abbiamo parlato che Arnaldo Ferrari Nasi, sociologo e analista, che con la sua Analisi Politica ha da poco realizzato un sondaggio su questi argomenti, con interessanti paragoni storici. Dalle risposte emerge che l’idea punitiva della pena rimane prevalente tra gli italiani, oggi come dieci anni fa. C’è davvero così tanta immobilità nella nostra società? Effettivamente, i dati mostrano una sorprendente stabilità. Il 43% degli italiani indica la punizione come la funzione principale della pena, una percentuale pressoché uguale a dieci anni fa. Nonostante i cambiamenti sociali, le crisi e il dibattito pubblico, l’idea che chi sbaglia debba pagare continua a essere centrale. Questo dice molto sulla paura diffusa e sulla richiesta di certezza, che tuttora prevalgono su altre logiche, come la rieducazione. Colpisce che la quota di chi punta sulla rieducazione sia solo del 31%. Non le sembra in contrasto con quanto prevede la Costituzione? Sì, lo è. La nostra Costituzione parla chiaramente di rieducazione come scopo della pena. Eppure, solo poco più di un italiano su quattro la indica come priorità. Si tratta di una distanza storica, quasi “culturale”, tra le norme scritte e la percezione collettiva. Anche negli ultimi anni, con tanta attenzione mediatica sul tema, le percentuali non si sono mosse più di tanto. Quali sono, tra i dati raccolti, quelli che ritiene più sorprendenti? Il fatto che l’idea della punizione severa sia ampiamente condivisa anche tra le donne risulta essere contro intuitivo. Di solito si immagina che la richiesta di rigorosità provenga maggiormente dal mondo maschile, ma non è così: molte donne, anzi, si dimostrano ancora più intransigenti. Un altro dato sorprendente riguarda l’età: i giovani sono più aperti alla prevenzione e alla riabilitazione, ma la fascia 40-60 anni è quella che spinge maggiormente per pene più dure, mentre tra gli anziani cresce la richiesta che la pena venga sempre scontata per intero. A livello politico, invece, le differenze sono nette? Decisamente sì, anche se con alcune sorprese. La Lega guida il fronte delle pene severe, mentre Forza Italia e Fratelli d’Italia sono più orientate a rafforzare la certezza della pena e il funzionamento del sistema. Nel centrosinistra la riabilitazione è più presente, ma, e qui sta il dato inatteso, il 45% degli elettori del Movimento 5 Stelle chiede punizione, una quota superiore anche a Fratelli d’Italia. Un altro aspetto interessante riguarda le soluzioni per risolvere il problema delle carceri sovraffollate. Cosa ci dicono gli italiani? Anche qui le percentuali parlano chiaro. Negli ultimi vent’anni, la risposta plebiscitaria è sempre stata: “Costruire nuove strutture carcerarie” piuttosto che ricorrere ad amnistie o indulti. Nel 2014 addirittura il 76% si dichiarava favorevole a nuove strutture, nonostante il dibattito sull’indulto fosse accesissimo. Esiste una convinzione radicata che chi sbaglia debba scontare interamente la pena, senza scappatoie. Tornando alla funzione della pena: il tema della protezione della società è in lieve crescita. Che significato ha? La fiducia nelle istituzioni vacilla mentre si diffondono sentimenti di vulnerabilità. Cresce la richiesta di garanzie, più che di punizioni. Sfiducia e timori spiegano l’aumento di chi crede nella pena come protezione. Tuttavia, essa confonde rigore con sicurezza, dimenticando che altrove severità estreme coesistono con alti tassi di criminalità. L’equilibrio è la via maestra, bilanciando fermezza e recupero in un sistema equo. Ma davvero rigidità significa meno crimini? No, ci sono evidenze che contraddicono questa teoria. Gli Stati Uniti, patria di pene esemplari, registrano reati in numeri spropositati rispetto a noi. Più che le “minacce”, conta la probabilità di venir puniti. Ciò che serve è un approccio equilibrato, che unisca durezza a prevenzione e reinserimento sociale. Cosa dovrebbe trarre la politica da questi dati? È ora di riconoscere che alcune convinzioni sono dure a morire. Cambiare le leggi non basta, bisogna lavorare sul sentire comune. Servono onestà e lungimiranza nel parlare di errori passati e futuro migliore, quando sarebbe più semplice invocare solo rigore. È così che si costruisce vera sicurezza, non con più sbarre, ma con una società più equa. Estate rovente nelle carceri, il ministero della Giustizia tenta la strada delle pene alternative di Giuseppe Ariola L’Identità, 27 luglio 2025 Nel cuore di un’estate segnata da caldo estremo e carceri allo stremo, il ministero della Giustizia ha provato a rompere l’impasse con un primo, forse timido, ma significativo passo. Secondo una ricognizione interna, ben 10.105 detenuti definitivi potrebbero accedere a misure alternative alla detenzione. Si tratta di una platea precisa: persone con una pena residua sotto i due anni, non condannate per reati ostativi (quelli più gravi, come mafia e terrorismo), e che non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi negli ultimi 12 mesi. Non servono nuove leggi. È il dato più politico di tutti: la deflazione carceraria potrebbe cominciare subito, sfruttando le maglie dell’ordinamento attuale. Per questo il dicastero guidato da Carlo Nordio ha insediato una task force che, in stretto raccordo con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari, lavorerà fino a settembre per definire caso per caso la posizione dei detenuti “liberabili”. Una “quarta gamba” - così la definiscono fonti interne al Ministero - da aggiungere alle tre direttrici già delineate dalla strategia Nordio: riduzione dei detenuti in attesa di giudizio (oggi al 15%), trasferimento dei tossicodipendenti verso comunità terapeutiche (25%) e rimpatrio degli stranieri detenuti nei Paesi d’origine (altro 25%). Tre idee ancora sulla carta: servono modifiche normative, accordi bilaterali o almeno protocolli operativi con enti e comunità. La quarta gamba, invece, è quella che poggia su terreno già solido. Non si tratterebbe di una sanatoria generalizzata. I beneficiari sarebbero coloro che, a norma di legge, già potrebbero essere ammessi alla detenzione domiciliare, all’affidamento in prova ai servizi sociali, alla semilibertà o alla liberazione anticipata. Il tutto senza alterare il dettato normativo esistente, ma puntando a velocizzare i procedimenti e a rafforzare la macchina amministrativa. Perché è lì che si gioca, in gran parte, la partita. Le carceri italiane contano oggi quasi 63mila detenuti a fronte di 47mila posti disponibili. Uno scarto strutturale che incide sul clima interno agli istituti, favorisce tensioni, episodi di violenza e suicidi, e mina alle fondamenta i percorsi di recupero. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha denunciato più volte, ma la situazione non è mai realmente cambiata. Da qui la necessità - percepita finalmente come urgente anche ai piani alti del Ministero - di trovare vie di fuga concrete da un sistema al collasso. La scelta, però, si muove su un crinale politico molto delicato. L’eventualità di uno “svuota carceri” genera malumori nella maggioranza, intanto, però, si lavora sottotraccia. Per rendere credibile l’operazione, a via Arenula si valuta un rafforzamento degli organici della magistratura di sorveglianza, da anni sottodimensionati. Altro nodo: l’assenza di un’abitazione presso cui scontare i domiciliari per molti potenziali beneficiari. Una questione non secondaria. Per questo il ministero ha stanziato 2 milioni di euro per la Regione Abruzzo: serviranno ad attivare percorsi di orientamento, formazione e housing sociale per chi si prepara a uscire dal carcere. Un esperimento replicabile altrove. Il vero banco di prova sarà la concretezza. La task force si riunirà ogni settimana fino a settembre. Se i numeri diventeranno fatti, sarà il primo passo di una svolta silenziosa ma storica: dimostrare che svuotare le carceri non significa abbandonare la sicurezza, ma recuperare l’efficacia della pena. Sovraffollamento carcerario: il Consiglio nazionale Forense rilancia il ruolo degli avvocati di Sara Occhipinti altalex.com, 27 luglio 2025 Diffuse linee guida nazionali per garantire i diritti dei detenuti e favorire il loro reinserimento. Il 14 luglio 2025 si è tenuto il primo incontro operativo promosso dalla Commissione del CNF per le persone private della libertà personale. Per affrontare l’emergenza dovuta al sovraffollamento carcerario e al trend crescente di suicidi, il Consiglio nazionale Forense intende rilanciare l’azione dell’avvocatura nel sistema penitenziario, diffondendo linee guida nazionali per un’azione capillare a garanzia dei diritti dei detenuti e presentando proposte operative per il loro reinserimento sociale. “Tutti gli avvocati devono essere in prima linea per garantire tutela della salute, socialità, trattamento ed affettività in carcere”. L’appello arriva dal Presidente del Consiglio Nazionale Forense, Francesco Greco, a margine dell’incontro operativo del 14 luglio scorso, promosso dalla Commissione per le persone private della libertà personale, insieme ai referenti Carceri degli Ordini degli Avvocati, con l’obiettivo di dare vita ad una Rete nazionale dedicata ad affrontare in modo sistemico le criticità dell’esecuzione penale. Per il CNF, occorre rafforzare la presenza dell’Avvocatura in tutte le fasi, dal procedimento davanti al Tribunale di Sorveglianza fino ai tavoli regionali per la sanità penitenziaria, in modo da costituire un presidio giuridico e civile a garanzia dei diritti, della legalità e della dignità anche oltre le mura del carcere. L’avvocatura istituzionale, esordisce il Presidente Greco, deve dare risposte concrete per contribuire a risolvere un’emergenza insostenibile, dovuta al sovraffollamento degli istituti penitenziari, con oltre 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza massima delle carceri e ad un trend costante di suicidi (37 dall’inizio dell’anno). Appena qualche giorno fa, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, durante il question time al Senato, aveva respinto l’idea di risolvere l’emergenza carceraria con la liberazione anticipata, escludendo decisamente qualunque correlazione tra sovraffollamento carcerario e crescita del numero di suicidi nelle carceri. Ma i 37 suicidi già avvenuti da inizio anno costituiscono un numero inammissibile per l’Avvocatura, che ha individuato 15 linee guida da diffondere a tutti gli Ordini Forensi, per armonizzare l’azione degli avvocati nei territori e in particolare per monitorare costantemente le condizioni detentive e sanitarie, realizzare protocolli per la prevenzione dei suicidi, assicurare uniformità nei colloqui difensore-detenuto, garantire il diritto all’affettività, favorire l’inclusione sociale e rafforzare le misure alternative. “Lo Stato non può chiedere legalità se è il primo a violarla, come avviene oggi nelle carceri sovraffollate e inadeguate”, denuncia la Coordinatrice della Commissione CNF per le persone private della libertà personale, Francesca Palma. Il CNF comunica che sono già 100 gli Ordini che hanno nominato referenti per le carceri e 24 hanno istituito una commissione dedicata. L’obiettivo è quello di estendere questo modello con commissioni autonome ma coordinate, e capaci di rispondere alle specificità locali adottando le linee guida nazionali, ma anche di assicurare la presenza dell’avvocatura ai tavoli regionali per la sanità penitenziaria, come accade già in Veneto e in Umbria, e di istituire Osservatori distrettuali presso i Tribunali di sorveglianza, per velocizzare l’esame delle istanze e rafforzare il diritto di difesa. Sul piano operativo il CNF propone anche la stipula di convenzioni con le imprese per l’inserimento lavorativo, l’istituzione di sportelli per i diritti (dall’anagrafe all’INPS), la previsione di percorsi di reinserimento anche attraverso borse lavoro. 50° Ordinamento penitenziario: Seac, “le sfide attuali richiedono risposte profonde e una visione lungimirante” agensir.it, 27 luglio 2025 “Ricorrono oggi i 50 anni dall’approvazione dell’Ordinamento penitenziario (legge 354 del 26 luglio 1975), una riforma di portata storica che ha posto le basi per un sistema penale ispirato ai principi costituzionali di umanità della pena, risocializzazione del condannato e tutela dei diritti fondamentali delle persone private della libertà”. Lo ricorda in una nota il Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario - Seac Odv. “Già lo scorso novembre, in occasione del 55° convegno nazionale, il Seac - Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario aveva voluto sottolineare il valore di questo anniversario, ribadendo l’urgenza di dare piena attuazione ai principi della riforma e promuovere una riflessione ampia e condivisa sul senso della pena, sulle condizioni attuali della detenzione e sul contributo della società civile”, prosegue la nota. A cinquant’anni dalla sua approvazione, “quell’impianto normativo continua a costituire un punto di riferimento essenziale per ogni analisi giuridica, politica e culturale sulla funzione della pena e sul ruolo del carcere nella società contemporanea”, sostiene il Seac, secondo cui “le sfide che attraversano oggi il sistema penitenziario - il sovraffollamento, la carenza di personale, l’altissimo numero di suicidi, il crescente disagio psichico tra le persone detenute, la scarsità di risorse, le criticità sanitarie, ecc. - richiedono risposte profonde e una visione lungimirante, capace di restituire nuova luce ai principi e agli obiettivi che avevano ispirato la legge del 1975”. Il Seac conclude: “Questo cinquantenario rappresenta un’occasione preziosa per rinnovare un impegno condiviso, civile e istituzionale, verso una giustizia fedele alla Costituzione, capace di riconoscere la fragilità, promuovere percorsi di responsabilizzazione e offrire concrete opportunità di cambiamento e reinserimento”. La maturità di saper cambiare idea di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 luglio 2025 Il dibattito politico sulla separazione delle carriere ha riproposto l’antico quesito sull’opportunità o meno di cambiare idea dopo che l’Associazione Magistrati ha ricordato al Guardasigilli Carlo Nordio che anche lui, molti anni fa, era contrario al provvedimento che ora lo vede tra i principali sostenitori. In questo articolo, redatto nel marzo 2017 per le pagine culturali de Il Messaggero, proprio Carlo Nordio rivendicava il diritto di poter cambiare idea ed elencava una serie di precedenti illustri. Ve lo riproponiamo come contributo al dibattito in corso. Una delle caratteristiche del nostro Parlamento è il cosiddetto cambio di casacca di molti dei suoi componenti. In effetti, nell’arco di una legislatura, una buona percentuale di deputati e senatori emigrano da un partito, o da un gruppo a un altro. La giustificazione che ne danno gli autori si fonda, generalmente, su un detto di origine incerta: che soltanto i morti e gli stupidi non cambiano idea. Come tutti gli aforismi è in parte vero e in parte no: persone intelligentissime hanno mantenuto per tutta la vita le stesse opinioni. Altrettanti filosofi, scienziati, religiosi, hanno invece sconfessato il proprio credo, magari mutandolo più volte nel corso degli anni. Al di là delle battute derivate dalla convenienza politica, questo fenomeno ci deve ispirare alcune considerazioni. Ma prima di esporle, vediamo due esempi illustri: Albert Einstein e Julius R. (Oppie) Oppenheimer. Di Einstein non occorre dire nulla. Fu il più grande scienziato del 900 e, con Newton e Galileo, il più rivoluzionario nella storia della scienza. Oppenheimer fu un fisico quasi altrettanto geniale, più eclettico anche se meno innovativo del suo vecchio collega. Fu un bimbo prodigio, si dice che a cinque anni leggesse Omero in greco. A trenta aveva già una fama mondiale. A trentotto Roosevelt gli affido l’incarico di costruire la bomba atomica. Ed è proprio qui che i due uomini cambiarono idea. Einstein era un pacifista convinto. Nondimeno nell’agosto del ‘39, ancor prima dello scoppio della guerra, scrisse una lettera a Roosevelt invitandolo a sviluppare gli studi sulla fissione nucleare, nel fondato timore che i nazisti stessero facendo altrettanto. In pratica, suggerì al Presidente di costruire la bomba atomica. Roosevelt non parve occuparsene, e Einstein gli scrisse ancora. Poi, anche a seguito dell’attacco a Pearl Harbor, Roosevelt si decise. La direzione militare fu affidata a un roccioso generale, Leslie Groves. Quella scientifica, appunto a Oppenheimer. Le conseguenze furono le esplosioni di Alamogordo, Hiroshima e Nagasaki. Successivamente, i due scienziati si pentirono, e non furono i soli. Leo Szilard e altri tentarono anche di scongiurare il lancio sul Giappone. Fermi, al contrario, lo suggerì. Edward Teller andò oltre: costruì la bomba all’idrogeno e patrocinò negli anni 80 il sistema di star wars che piacque a Ronald Reagan e che - assieme ad altre circostanze- determinò il collasso dell’URSS. Il lettore può scegliere chi, tra questi geni, fosse il più intelligente, o il più realista. Ma torniamo al diritto di cambiare idea. L’Einstein che propose la costruzione della bomba, non era un fanciullo ingenuo. Al contrario, aveva già elaborato tutte le teorie che lo avrebbero reso così celebre. Si può anche dire che, dopo gli anni 40, non produsse nulla di paragonabile a quanto aveva prodotto prima. Lo stesso per Oppenheimer, che dopo la guerra si dedicò all’insegnamento, senza rilevanti risultati nella ricerca. Naturalmente entrambi conoscevano benissimo la potenza terrificante dell’ordigno. Allora la domanda è: chi era il vero Einstein: quello che volle la bomba, o quello che poi la rinnegò? Chi era il vero Oppie: quello che la costruì o quello che, dopo, confessò di aver conosciuto il peccato? Proviamo a rispondere, o meglio a trarne alcune considerazioni. La prima è l’importanza del caso. Perché soltanto il caso ha fatto dei due scienziati due pacifisti. Se fossero morti prima, li ricorderemmo come creatori del più spaventoso strumento di morte. Questo concetto, naturalmente, vale per centinaia di eroi della Storia. Se Churchill fosse morto nei primi anni trenta, ora sarebbe citato come uno dei tanti voltagabbana emarginati e delusi. E se Mussolini fosse stato ucciso dopo la conferenza di Monaco, forse sarebbe menzionato tra i beati costruttori di pace. Così va il destino. La seconda è la relatività dei giudizi. Einstein e Oppie, come si è detto, erano dei geni sia quando vollero sia quando ripudiarono l’arma fatale. Il che significa che si può esser favorevoli o contrari al nucleare militare pur essendo intelligentissimi. E se così è, è assurdo imbarcarsi in infinite discussioni teoriche sui pro e sui contro. Ognuno la pensa come gli pare. Lo stesso, per fare un altro esempio, si può dire della pena di morte. Pertini e Scalfaro erano contrari da Presidenti della Repubblica: ma il primo la fece eseguire nei confronti del Duce, il secondo la chiese come magistrato nel clima postbellico. E quasi nessuno protestò contro le impiccagioni di Norimberga. Si dirà che erano circostanze eccezionali. No. Nelle questioni di principio non ci sono circostanze eccezionali: altrimenti non sono più questioni di principio. La terza è che, davanti a queste contraddizioni, possiamo veder il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno. Nel primo caso, possiamo sprofondare nello scetticismo più corrosivo e sconsolato. Se tutte le idee sono ugualmente sostenibili, non solo non esiste alcuna certezza logica, ma nemmeno etica e tantomeno religiosa. Dovremmo rifugiarci nell’orticello individualistico di Antistene e di Pirrone, disprezzando il mondo o comunque evitandolo come un intruso molesto. Dubitando di tutto, anche di dubitare, non ci resterebbe che vivere alla giornata, godendo dei piaceri disponibili, come suggerisce la Bibbia, nel libro di Cohelet: non è un pensiero blasfemo, ma certo è un pensiero sgradevole. Ma dalle stesse premesse possiamo anche trarre conclusioni opposte. Da questo conflitto di idee possiamo dedurre che non solo la nostra ragione ha delle potenzialità illimitate, ma soprattutto che il vero, forse l’unico suo grande nemico è il dogmatismo acritico e cieco. L’esempio di uomini di straordinario ingegno e di grande onestà intellettuale che hanno avuto idee opposte, e spesso le hanno cambiate, è un forte antidoto contro la tentazione di un’inerzia rassegnata, che ci renderebbe vili, e di un’ostinazione fanatica, che ci renderebbe intolleranti. E che in fondo, tra le mille contraddizioni della nostra natura imperfetta, la libertà di pensare, di sbagliare, e di correggerci è il nostro più stimolante privilegio. E Nordio buttò via la chiave di Giulio Lolli bandieragialla.it, 27 luglio 2025 Da circa trent’anni, con l’avvento di Mani pulite, la verità giudiziaria è stata sostituita da processi sommari condotti da giornalisti e opinionisti i quali, amando suonare il piffero di pubblici ministeri con l’incanto della manetta facile, hanno distrutto centinaia di vite e carriere. Il Governo Meloni sembrava voler porre rimedio agli eccessi mediatico-giudiziari del passato, attraverso l’approvazione di una legge che limita la pubblicazione delle intercettazioni e delle ordinanze cautelari. In realtà la poderosa macchina mediatica di cui dispone l’attuale esecutivo (Rai, Mediaset, Gruppo Angelucci, Mondadori ecc.) continua oggi a condannare e assolvere, facendolo non più per simpatia, antipatia o guadagnare share, ma univocamente in base all’appartenenza politica dell’imputato di turno. Se quest’ultimo è un politico di centrodestra, o fa parte di una categoria cara a quell’area (burocrate o impresario legato al governo, membro delle forze dell’ordine, vendicatore, possibilmente armato, di reati subiti ecc.) sarà inesorabilmente una vittima delle toghe rosse; se invece è un politico o un appartenente ad una categoria vicino alla sinistra (attivista delle ONG, immigrato, manifestante, disoccupato, fuori gender classico, detenuto), sarà un pericoloso delinquente che deve marcire in una cella. “Buttare via la chiave” rappresenta, infatti, il picco elaborativo sulla questione penitenziaria partorita da buona parte di quella classe dirigente che l’attuale esecutivo ha nominato per gestire l’Amministrazione penitenziaria, il più icastico dei quali è il sottosegretario con delega alle carceri Andrea Delmastro. Il mega giustizialista che gode nel vedere mancare il respiro ai detenuti, ma non si dimette nemmeno dopo essere stato condannato (nuovamente visto che lo era già stato per guida in stato di ebrezza) a 8 mesi di reclusione e un anno di interdizione dai pubblici uffici per violazione di segreto d’ufficio. Se i vari guai di Delmastro sono l’ennesimo imbarazzo per il Governo Meloni, la fuga di Andrea Cavallari, il giovane condannato a 11 anni di reclusione per i fatti di Corinaldo, che ha fatto perdere le sue tracce durante un permesso concesso per discutere la laurea, rappresenta il caso perfetto sia per avvalorare la tesi del “devono marcire in carcere” (che proprio per essere semplicistica tra semplicismi viene accolta anche dalla maggior parte dell’opinione pubblica), sia per attaccare la magistratura. Intere trasmissioni televisive e titoli dei giornali sono stati dedicati a massacrare la Magistratura di sorveglianza (e a catena educatori, criminologi e, ovviamente, i detenuti) che ha osato sbagliare uno dei circa 30.000 permessi positivamente finalizzati annualmente in Italia, i quali contribuiscono concretamente a rendere più sicuro il nostro Paese. Perché è questa la verità che il Governo Meloni, tutto ordine e sicurezza, tiene deliberatamente nascosta all’opinione pubblica: torna a delinquere il 69% di chi sconta la pena interamente in carcere e solo il 15% di chi lavora all’esterno o ha usufruito di benefici e misure alternative. Dati dirimenti che anche la RAI - emittente di Stato cui spetta il compito di mettere al corrente gli italiani di molte cose delle quali sono in genere digiuni - ha mai divulgato. Ancora peggio della vuotaggine mediatica è riuscito a fare l’ondivago ministro Nordio, che solamente due anni fa chiedeva ai magistrati di “lavorare per superare una visione carcerocentrica della pena” e oggi avvia un’istruttoria contro un magistrato che ha semplicemente seguito le sue stesse indicazioni oltre che le direttive dell’Ordinamento penitenziario. Pochi giorni prima, sempre presso l’Alma Mater di Bologna, un giovane ergastolano aveva discusso la sua tesi di laurea libero come Cavallari; un fatto che nessun giornalista aveva rimarcato anche perché non era stato né il primo né, si spera, l’ultimo. Viene infine da chiedersi quali feroci ispettori verrebbero inviati dal Nordio che ha permesso al torturatore libico Al Masri (del quale chi scrive è stato vittima e testimone chiave presso la Corte Penale Internazionale) di essere liberato e ritornare trionfante su un volo di Stato in Libia insieme a tre dei suoi peggiori sgherri; dal ministro che ha appena affermato, in riferimento al caso Cavallari, che la certezza della pena, un dovere per le vittime, “è diventata una astrazione metafisica”. Qualunque cosa essa sia, è ciò che hanno ricevuto le donne e gli uomini attualmente nelle mani di Al Masri, che avrebbero potuto godere di un barlume di speranza se Nordio avesse agito come fanno, a volte anche sbagliando, centinaia di magistrati di sorveglianza ogni giorno: con dignità, onore e rispetto della Costituzione nella quale, come ricordato dallo stesso Nordio prima del caso Cavallari, la parola carcere non esiste. Separazione delle carriere: la “madre di tutte le riforme” non produrrà alcun beneficio concreto di Luca Puerari La Provincia di Cremona, 27 luglio 2025 Il rischio concreto è che si stia utilizzando una questione simbolica, ideologica, per mascherare l’incapacità - o forse la mancata volontà - di affrontare i veri problemi del sistema giudiziario italiano. Mentre il governo e la sua maggioranza parlamentare proseguono con determinazione - qualcuno direbbe ostinazione - l’iter verso l’approvazione della riforma sulla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, non si placano le critiche da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati e di una significativa parte dell’opposizione. Il provvedimento, che modifica l’assetto costituzionale della magistratura italiana, viene presentato come la ‘madre di tutte le riforme’, destinata - secondo le parole della premier Giorgia Meloni - a “ridare dignità alla magistratura” e a “porre fine alla deriva correntizia all’interno del CSM”. Affermazioni forti, retoricamente efficaci, ma che non reggono a un’analisi più approfondita e disincantata. Il tema della dignità della magistratura è certamente centrale, ma è difficile sostenere che questa dipenda dalla collocazione istituzionale del pubblico ministero. Anzi, il rischio concreto è che si stia utilizzando una questione simbolica, ideologica, per mascherare l’incapacità - o forse la mancata volontà - di affrontare i veri problemi della giustizia italiana: la lentezza cronica dei procedimenti e l’incertezza della pena. I cittadini, infatti, percepiscono quotidianamente una giustizia che non funziona. Processi che durano anni, udienze che saltano per mancanza di personale o strutture, sentenze che arrivano quando ormai hanno perso ogni efficacia deterrente o riparatoria. Il dramma della giustizia italiana è tutto qui. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte condannato l’Italia per l’eccessiva durata dei procedimenti civili e penali. Eppure, su questi nodi strutturali la riforma in discussione tace. Separare le carriere tra pubblici ministeri e giudici non produrrà alcun effetto concreto su questi fronti: non renderà più veloci i processi, non aumenterà l’efficienza degli uffici giudiziari, non rafforzerà la certezza della pena. È una riforma che incide sulla forma, non sulla sostanza. Una bandiera ideologica piantata per mostrare i muscoli, più che una risposta concreta a esigenze reali. Uno degli argomenti usati a sostegno della separazione è quello delle cosiddette ‘porte girevoli’: magistrati che passano da una funzione all’altra, creando presunti conflitti di interesse o ambiguità istituzionali. Ma anche questo punto, se guardato con i numeri in mano, si rivela un falso problema. I dati mostrano che la percentuale di magistrati che cambiano ruolo (da requirente a giudicante o viceversa) è estremamente bassa: secondo l’ultima rilevazione, si tratta di poco più del 2% del totale. Non si può dunque parlare di un fenomeno che mina la credibilità o l’indipendenza della magistratura. La realtà è che la quasi totalità dei magistrati resta nell’ambito in cui ha scelto di operare all’inizio della propria carriera. E dunque la riforma rischia di correggere un’anomalia inesistente. A rendere ancora più discutibile l’operazione politica è il paradosso rappresentato dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Oggi uno dei più accesi promotori della riforma, nel 1994 firmava un manifesto in cui si dichiarava contrario alla separazione delle carriere. All’epoca, da magistrato in attività, sosteneva che una tale misura avrebbe compromesso l’equilibrio fra le funzioni e reso il pubblico ministero troppo esposto alle influenze politiche. Cosa è cambiato in trent’anni? È forse cambiata la natura del pubblico ministero, o è cambiato soltanto il contesto politico in cui quella posizione viene oggi assunta? Questo mutamento di opinione solleva interrogativi legittimi: la riforma risponde a una visione coerente della giustizia o a un calcolo politico legato al momento? Serve a migliorare il sistema o a ridimensionare un potere ritenuto scomodo se non addirittura fastidioso? Tra le preoccupazioni più serie sollevate dagli oppositori, c’è quella relativa all’autonomia del pubblico ministero. Con la separazione delle carriere, e con la creazione di due distinti Consigli superiori (uno per i giudici, l’altro per i pm), si teme che il pm venga di fatto assoggettato al potere esecutivo, o comunque reso più permeabile alle sue pressioni. Una trasformazione profonda e pericolosa, che potrebbe mettere in discussione l’equilibrio tra i poteri dello Stato. In un Paese che ha conosciuto stagioni buie di interferenze e di commistioni tra politica e giustizia, l’autonomia e l’indipendenza del pm sono un presidio di legalità e di democrazia. È vero che in altri ordinamenti - come quello statunitense - il pubblico ministero è un organo gerarchicamente dipendente dal governo. Ma è anche vero che si tratta di sistemi giuridici e costituzionali profondamente diversi, dove esistono contrappesi e controlli che in Italia non sono presenti. Importare modelli senza tener conto del contesto rischia di produrre distorsioni gravi, innescando processi difficili da governare e da invertire. L’impressione che si ha - e l’ha detto con chiarezza anche Matteo Renzi, che pure si è dichiarato favorevole alla separazione delle carriere - è che questa riforma per la maggioranza sia ‘una bandiera da piantare’. Una bandiera, appunto. Un simbolo identitario più che una soluzione strutturale. Ma la giustizia, per essere riformata, ha bisogno di interventi radicali su altri fronti: primo fra tutti investimenti in personale e tecnologia. La separazione delle carriere non risolve nulla di tutto questo. E rischia anzi di introdurre nuovi problemi, dividendo ulteriormente una magistratura già sotto pressione, e spingendo il sistema verso una deriva di politicizzazione ancora più marcata. Per tutte queste ragioni la riforma sembra più una risposta alle paure - o alle ossessioni - di una parte del mondo politico che un progetto per il futuro della giustizia. E questo è forse il segnale più allarmante perché la giustizia non può essere il campo di battaglia per vendette incrociate o riforme identitarie. Ha bisogno di visione e di scelte che guardino ai bisogni dei cittadini. E chissà che non siano proprio loro, i cittadini, a doversi pronunciare sulla riforma in un referendum che giorno dopo giorno appare sempre più probabile. Separazione delle carriere, la campagna referendaria di Nordio è già cominciata di Mario Di Vito Il Manifesto, 27 luglio 2025 Il ministro si fa intervistare pure dal Secolo. Ne ha per tutti, dalle toghe a Franceschini. La promessa di “imbarazzare” l’Anm. E la paura che il Pd prepari colpi bassi. Il documento ripescato dall’Anm nei suoi archivi, quello del 1994 in cui l’allora pm di Venezia Carlo Nordio firmava contro la separazione delle carriere dei magistrati, sarebbe stata solo una notiziola divertente e niente più, ma a quanto pare il guardasigilli ha deciso di farla diventare la storia dell’estate. Prova ne sia il fatto che da quando le toghe hanno riesumato la vicenda, il ministro non fa che rilasciare interviste per smentire, spiegare, circostanziare il suo cambio di opinione. Ieri, a discussione all’apparenza esaurita, è arrivato l’ennesimo rilancio in una lunga chiacchierata con il Secolo d’Italia, il quotidiano del fu Msi. Insomma, visto che la partita parlamentare è blindata, forse il ministro ha deciso di cominciare subito la campagna referendaria sulla sua riforma. E lo stile di gioco è già chiaro: un attacco al giorno, una polemica sopra l’altra, senza preoccuparsi di sembrare ridicoli o ridondanti. “Io ho cambiato idea 30 anni fa, da allora ci ho scritto 5 libri e dozzine di articoli con una certa coerenza”, si autoassolve Nordio davanti al direttore Antonio Rapisarda. Ma vari magistrati, per non parlare dei politici, l’hanno cambiata molto più di recente. Ne faremo la raccolta, e credo che l’Anm ne sarà imbarazzata”. Gli esempi citati vanno dalla dem Debora Serracchiani - in passato favorevole alla separazione - al pentastellato Federico Cafiero de Raho, che quando era magistrato pare fosse un sostenitore del sorteggio del Csm. Tutto divertente, ma andare a pesca delle contraddizioni vere o presunte dei vari attori in campo è il modo migliore per togliere al dibattito ogni connotato politico. Perché il problema non è mai (o quasi) l’oggetto del contendere - che sia una riforma costituzionale o una delibera di consiglio comunale sulla viabilità - ma il suo portato nel dibattito pubblico. E poi c’è sempre da considerare il livello degli interpreti: la separazione delle carriere di Luigi Ferrajoli non è la stessa di cui si parla ora, così come l’abolizione del Senato di Ingrao non aveva molto a che fare con quella di Renzi. Nella sua intervista al Secolo, per il resto, dopo aver elegantemente definito “di sconcertante sciatteria e petulante ripetitività” gli interventi delle opposizioni sulla sua riforma, Nordio se l’è presa con Dario Franceschini, la cui logica non sarebbe “folle” come quella degli altri ma “dannatamente pericolosa”. E perché mai? Risposta: “In pratica ha chiamato a raccolta le opposizioni e la magistratura per conferire al referendum un significato esclusivamente politico, come quello che di fatto fece cadere Renzi”. Il che è vero solo in parte: nel suo intervento in Senato, nel giorno in cui la riforma è passata in prima lettura, Franceschini ha paragonato la voglia di “pieni poteri” di Meloni a quella proclamata da Salvini nel 2019, ricordando alla prima che il referendum costituzionale potrebbe essere la sua fine come la folle estate del Papeete lo fu per il leghista. Un discorso duro, certo, ma questa presunta chiamata a raccolta dei magistrati non viene da lì, bensì da un retroscena uscito sul Corriere della Sera giovedì, in cui si raccontava di un Franceschini impegnato a scambiarsi messaggi in codice con le toghe, tra inchieste come quelle di Milano e di Pesaro e futuri intrecci che portano fino alle politiche del 2027 e all’elezione del successore di Mattarella nel 2029. Non che il rischio di un abbraccio troppo stretto tra magistrati e opposizioni non esista, anche perché gli attacchi del governo ai giudici sono talmente numerosi e talmente ravvicinati nel tempo che quasi è impossibile distinguere la difesa della giurisdizione dalla quotidianità politica, e la campagna referendaria rischia di appiattire del tutto le due posizioni. E però, sul Foglio, sempre giovedì, il segretario dell’Anm Rocco Maruotti (Area Dg) ha già chiarito bene il punto: “Quella dei partiti sarà sicuramente una campagna diversa dalla nostra, perché diverso è il ruolo che svolgono nella società. Ed è giusto che questa differenza permanga e resti evidente”. Sarebbe bello ma sarà difficile. Il referendum - atteso per la primavera del 2026 - avrà un significato inevitabilmente politico. Sia perché parliamo dell’unica possibilità del governo di portare a casa una riforma, sia perché quando verrà il tempo di andare in televi, pochissimi proveranno a ragionare sul ruolo del pm nel rito accusatorio o sui problemi del Csm. La domanda che verrà posta di continuo, in decine di modi diversi, sarà un’altra, molto più semplice: state dalla parte del governo o dei magistrati? Gaia Tortora: “Basta vite intrappolate dai teoremi” di Dalila Di Dio Secolo d’Italia, 27 luglio 2025 “Ecco perché la separazione delle carriere è un passo decisivo verso la giustizia giusta”. La conduttrice e volto di La7, figlia del grande Enzo Tortora, affida al Secolo d’Italia le sue riflessioni sulla riforma della giustizia: “Capisco la resistenza al cambiamento di una parte della magistratura: però questa continua resistenza su tutto rischia di alimentare quella sfiducia che oggi abbiamo tra i cittadini, perché la resistenza della magistratura è su tutto”. Con il sì ottenuto in Senato questa settimana, si completa la prima fase dell’iter di approvazione di una riforma della giustizia attesa da decenni che attua, finalmente, la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Adesso, trattandosi di legge di revisione costituzionale, si dovrà attendere il secondo passaggio in entrambi i rami del Parlamento e, visti i numeri, il referendum, verosimilmente nel 2026. È una riforma di cui si discute da oltre 30 anni, naturale conseguenza del passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, avvenuto nel 1988, che sino ad ora nessuno era riuscito a concretizzare. Nonostante l’opposizione di parte della magistratura e della sinistra, il Governo è andato avanti dimostrando di voler davvero portare a compimento una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, necessaria a garantire che il processo penale sia giusto, come dispone la Costituzione. Ne abbiamo discusso con Gaia Tortora - giornalista, conduttrice di La7 e figlia del compianto Enzo - da sempre impegnata sul tema con determinazione ma anche con grande equilibrio, nonostante l’ingiustizia subita dal padre che rimasta nella storia come una delle pagine più buie per la magistratura ma anche per il giornalismo, che si avventò su quella vicenda senza alcuno scrupolo, segnando quello che fu forse il primo esempio di spettacolarizzazione della giustizia in Italia. Un momento storico per chiunque si dica veramente garantista, eppure l’Anm sostiene che lo scopo della riforma sia “avere una magistratura addomesticata e subalterna che rinunci al proprio compito di controllo della legalità”. Come si spiega l’opposizione così strenua di certa magistratura a un provvedimento che mira ad attuare il giusto processo sancito dall’art. 111 della Costituzione? “Questo sinceramente non mi stupisce moltissimo, questa è stata sempre una riforma osteggiata e criticata, a prescindere da chi provasse a farla. Per quanto mi riguarda, non vedo un tentativo di delegittimare la magistratura, anzi, al contrario mi sembra un modo per rendere più trasparenti i ruoli nel processo penale. Chi accusa e chi giudica, a mio parere, non dovrebbero far parte dello stesso ordine, condividere la stessa carriera, essere governati dallo stesso organo. Comprendo la preoccupazione espressa, tra l’altro, solo da una parte della magistratura ma non la condivido. Si parla di magistratura “addomesticata” ma a me non sembra, non vedo neanche una possibilità di controllo dell’Esecutivo sul potere giudiziario. Al contrario, un rafforzamento delle sue garanzie di imparzialità e credibilità soprattutto agli occhi dei cittadini”. C’è chi, più o meno in malafede, confonde i piani parlando di efficienza della giustizia e spiegando come questa riforma non velocizzerà i processi, dimenticando che non si tratta di una questione di efficienza ma di giustizia. Dalle pagine di Repubblica, Michele Serra qualche giorno fa ha affermato: “Non sono mai riuscito a sentire o a leggere un solo discorso convincente, a favore della separazione delle carriere”. Cosa si sente di rispondergli? “Nessuno deve convincere l’altro delle sue ragioni, ognuno è libero di dire o pensare ciò che vuole, in una democrazia con libertà di pensiero e di espressione. Se vogliamo far passare questo referendum, bisogna entrare nel merito altrimenti si rischia di farne un argomento di propaganda politica, cosa molto rischiosa”. Quella della responsabilità dei magistrati per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni è una delle questioni più spinose. Troppo spesso la difesa dell’indipendenza della magistratura si è tradotta in impunità. In un sistema in cui i controllori sono nominati da e tra i controllati, con logiche correntizie, probabilmente è inevitabile. È per questo che, come evidenziava qualche giorno fa il Ministro Nordio, la magistratura teme tanto l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare esterna al CSM? “Il fatto che i controllori attuali siano scelti dagli stessi magistrati, all’interno del CSM crea senza dubbio un sistema in cui il meccanismo di autoregolamentazione può risultare poco trasparente, poco efficace agli occhi di tutti. Per questo l’idea di istituire l’Alta Corte per me rappresenta sicuramente un passo avanti verso una maggiore trasparenza e credibilità all’interno del sistema giudiziario. Anche in questo io non vedo un tentativo di mettere in discussione l’indipendenza della magistratura ma un modo per garantire a chi giudica di essere soggetto a un controllo serio e imparziale. Capisco la resistenza a questo tipo di cambiamento di una parte della magistratura però questa continua resistenza su tutto rischia di alimentare quella sfiducia che oggi abbiamo tra i cittadini, perché la resistenza della magistratura è su tutto. Ci hanno provato anche altri, con altre formule, ma ogni volta che si prova a cambiare qualcosa c’è una resistenza su tutto il fronte”. Quella dei magistrati sembra essere l’unica categoria immune agli scandali che la coinvolgono. Il “verminaio” venuto alla luce con il caso Palamara è passato come un temporale estivo, senza lasciare strascichi e con una generale impunità dei soggetti coinvolti. Rosario Livatino disse dei magistrati: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Quanto è credibile oggi una magistratura in balia delle correnti, costantemente pronta allo scontro politico, anche a suon di sentenze ideologiche, con il Governo? “Agli occhi dei cittadini, la magistratura non sta passando un bel momento per quanto riguarda la credibilità. Ci sono sondaggi ogni giorno…C’è un protagonismo nella magistratura ma non riguarda tutti. Il Paese è strapieno di magistrati che lavorano in silenzio e tra mille difficoltà”. In un sistema in cui magistrati che godono di fama e credibilità predicano che “non esistono innocenti ma solo colpevoli contro cui non è stata raggiunta la prova”, ha ancora senso parlare di presunzione di non colpevolezza? Se persino chi è preposto all’amministrazione della giustizia in nome del popolo abiura ai più elementari principio del garantismo, come ci si può aspettare che le persone comuni ne comprendano l’importanza? “Davigo, dopo quella frase, ha provato sulla sua pelle cosa voglia dire e comunque io rimango garantista anche per Davigo. Lui non rappresenta tutti i magistrati. Avrei mille motivi per mettere al rogo tutta la magistratura per quello che è successo a mio padre ma non è così, perché non bisogna fare per tutta la magistratura un unico discorso, Davigo è Davigo, poi ce ne sono altri che ragionano in altro modo. Il suo è un nome importante, che fa share, ma potrei nominare Colombo o lo stesso Di Pietro, che hanno posizioni diverse. Io non ho la ricetta per il garantismo, ma penso che più elementi uno riesce a prendere da più giornali o più siti più riesce ad avere un’idea completa e allargata. Su questo tema, uno scatto in avanti va fatto anche dai giornalisti che troppo spesso per appartenenza politica raccontano le vicende giudiziarie dalla prospettiva di questa o quella parte politica ma la giustizia secondo me non è questo”. Lo stigma che accompagna chi è sottoposto a indagini è, il più delle volte, incancellabile. Neppure un’assoluzione piena, spesso, basta a lavare via il sospetto, alimentato da fiumi di inchiostro che riempiono le pagine dei giornali. Il segreto istruttorio è lettera morta e nessuno si preoccupa di individuare e sanzionare i responsabili. Da giornalista, qual è secondo lei il limite invalicabile nel raccontare una notizia di cronaca giudiziaria? “In altri Paesi, a cominciare dalla Germania, c’è un rispetto per la giustizia sconosciuto in Italia. Non se ne fa oggetto di propaganda politica e non esistono talk show incentrati su casi di cronaca in cui tutti diventiamo inquirenti, genetisti, avvocati, con un impazzimento generale che porta a condannare le persone fuori dalle aule di giustizia. Non è normale quello che sta accadendo. In altri Paesi c’è un rispetto e una comprensione della giustizia che nel loro DNA è altro rispetto a quello che vediamo in Italia. E nessuno grida al bavaglio”. Con ogni probabilità, dopo l’approvazione, la riforma dell’ordinamento giudiziario passerà al vaglio popolare con il referendum costituzionale. L’Associazione nazionale magistrati è già in campagna referendaria, il suo presidente è pressoché onnipresente sui media e la comunicazione è tutta improntata alla lotta contro il Governo. Si tratta di un argomento delicato e molto tecnico. Come pensa si possa riuscire a far passare il messaggio? “Il tema andrebbe allargato e purtroppo è un tema che da trent’anni, da Berlusconi in avanti è sempre stato impossibile dividere dalla politica, anche perché la politica non ha mai fatto nulla per restare sul tema: perché sicuramente c’è sempre stata una parte politica che, a volte, ha fatto delle leggi non riuscendo a far capire che riguardavano tutti e non erano solo per se stessa. È sempre stato un grande tema politicizzato. Per questo io dico sempre che la giustizia va restituita ai cittadini, perché è qualcosa che riguarda tutti i cittadini, non dovrebbe avere un titolo. Quando sento dire chiamiamola riforma Berlusconi…ma neanche Tortora! Io che forse avrei qualche diritto sono stata una di quelle che ha detto togliamo i nomi, dobbiamo depoliticizzare. Anche se comprendo che una parte politica magari pensa al suo riferimento, se in questo Paese vogliamo fare un passo avanti, vanno tolte le personalizzazioni e va restituita la giustizia a tutti i cittadini, come è giusto che sia. Come per altri temi, come l’immigrazione, non c’è verso in questo Paese di fare un discorso stando sul merito, perché è un grande tema di propaganda politica, ed è complicatissimo. Alla fine quello che conta sono le vite che rimangono intrappolate in un meccanismo in cui sai quando e come entri e non sai quando e come ne uscirai, purtroppo”. Nel suo libro, “Testa alta, e avanti: in cerca di giustizia, storia della mia famiglia”, racconta la vicenda giudiziaria che ha riguardato suo padre Enzo Tortora. Il calvario di un uomo onesto e perbene, costretto a difendersi da accuse infamanti, condannato in primo grado e poi assolto da tutte le accuse. Non c’è niente che possa riparare all’ingiustizia subita dalla sua famiglia ma possiamo dire che il percorso intrapreso dal Governo è quello giusto per far sì che quello che è accaduto a suo padre non accada mai più? “La separazione delle carriere per me è un passo avanti nel quadro di una riforma della giustizia che dovrà essere inevitabilmente più ampia, con personale, fondi e velocizzazione dei processi. Spero che venga istituita quella giornata per le vittime degli errori giudiziari che non è nulla di pericoloso ma, nelle mie intenzioni, è una giornata in cui insieme, anche con la magistratura, possiamo andare a spiegare perché accadono certe cose e come si possono evitare. Spero che il Governo riesca a inserire anche questo, sarebbe un bel passo. Tanti hanno provato a realizzare la separazione delle carriere e si sono fermati, probabilmente non hanno avuto la forza né il coraggio di rompere quella barriera. La riforma era nel programma di questo Governo e, numeri alla mano, procederà spedita nelle prossime letture. Occhio al referendum”. Sicilia. Carceri nel caos, il Codacons chiede l’intervento urgente del Ministro Quotidiano di Sicilia, 27 luglio 2025 Il Dipartimento Sicurezza dell’associazione ha quindi inviato una lettera formale al Ministro della Giustizia, sollecitando ispezioni immediate. Il Codacons, tramite il proprio Dipartimento Nazionale Sicurezza, lancia l’allarme sulle gravissime criticità rilevate in diverse carceri siciliane, in particolare a Brucoli e Trapani, dove si sono verificati episodi che mettono in luce condizioni al limite della sopravvivenza e della dignità umana. Nella casa di reclusione di Brucoli, i detenuti vivrebbero da giorni senza acqua corrente né energia elettrica. Celle al buio, infermeria non funzionante, servizi igienici fuori uso: secondo quanto riportato da “La Repubblica”, ai reclusi non resterebbe altra scelta se non acquistare acqua potabile a proprie spese. Un quadro desolante che compromette ogni tutela sanitaria e igienica di base. Nel carcere Pietro Cerulli di Trapani, un giovane detenuto tunisino si è tolto la vita. Aveva già manifestato fragilità psichiche e comportamenti autolesionistici, ma nessun intervento tempestivo è riuscito a evitarne il drammatico gesto. Sempre a Brucoli, un altro detenuto avrebbe tentato il suicidio, fermato solo grazie all’intervento di altri reclusi. La denuncia del Codacons tocca anche il carcere di Siracusa, dove il Garante dei detenuti ha segnalato una grave infestazione da cimici. Gli interventi di disinfestazione si sono rivelati inefficaci, poiché le celle non vengono svuotate abbastanza a lungo, lasciando materassi e biancheria infestati da uova e parassiti. “Non è tollerabile che in Italia si possa morire in carcere per abbandono istituzionale. Celle senza luce né acqua, nessuna assistenza sanitaria, condizioni psicologiche al limite: questa è una violazione inaccettabile dei diritti umani”, denuncia il Codacons. Il Dipartimento Sicurezza dell’associazione ha quindi inviato una lettera formale al Ministro della Giustizia, sollecitando ispezioni immediate, l’accertamento delle responsabilità e misure urgenti per ristabilire condizioni minime di dignità, igiene e sicurezza per detenuti e personale penitenziario. Lazio. 420mila euro di fondi regionali per migliorare le condizioni di vita dei detenuti studio93.it, 27 luglio 2025 420mila euro di fondi per migliorare le condizioni di vita dei detenuti della nostra regionale. La Giunta regionale del Lazio ha stanziato la somma per interventi ed azioni a sostegno della popolazione detenuta. Le risorse saranno erogate attraverso un avviso pubblico, “Costruire Futuro 2025”, rivolto ad associazioni del terzo settore, previa presentazione di una progettualità. Nello specifico, 250mila euro sono destinati ad interventi di natura trattamentale volti a migliorare la qualità della vita intramuraria, 120mila euro sono destinati ad interventi assistenziali extra LEA nel campo odontoiatrico, anche attraverso l’utilizzo di odontoambulanza e 50mila euro a interventi di supporto previdenziale e socioassistenziale per i detenuti nel Lazio. Tra gli interventi in programma si segnalano quelli finalizzati al mantenimento e allo sviluppo dei legami affettivi volti a migliorare la qualità dell’incontro tra la persona detenuta e la famiglia, la promozione della genitorialità responsabile, percorsi volti a ridurre la recidiva nei reati di genere, percorsi di informazione, di orientamento e di formazione. E ancora: attività e laboratori artistici, teatrali, musicali, creativi ed espressivi, interventi di sostegno e supporto ai detenuti stranieri viste le loro specifiche esigenze legate alla loro situazione culturale, linguistica e sociale, percorsi di informazione, di orientamento e di formazione. “Abbiamo lavorato in stretto raccordo con il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise e con il Garante regionale per i detenuti per mettere in campo misure realmente utili per migliorare la vita dei detenuti negli istituti penitenziari della Regione, a partire dal servizio di odontoambulanza che ha riscosso grande apprezzamento e per questo è stato deciso di proseguire la sperimentazione pilota con eventuale ampliamento del numero di istituti interessati. Solo nelle ultime settimane si sono registrati due suicidi nelle carceri del Lazio e questo non più accettabile: attraverso queste misure vogliamo rendere più sopportabile la detenzione, garantire un clima migliore anche a vantaggio degli operatori che vi lavorano e creare le condizioni per un reinserimento sociale, grazie anche alle misure a sostegno del diritto allo studio e della formazione, per aiutare i condannati a ritrovare la speranza di un futuro migliore e di un nuovo inizio”, dichiara l’assessore Luisa Regimenti. Firenze. Un altro atto d’accusa su Sollicciano: oltre cento celle inagibili di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 27 luglio 2025 In Consiglio comunale la relazione della commissione. Più di 100 celle inagibili, con fino a sette detenuti per cella, alcuni dei quali costretti a dormire su materassi posati per terra. Lo dice la relazione della commissione delle Politiche sociali del Comune su Sollicciano: un carcere che, dice quel dossier, cade a pezzi. Nelle celle di Sollicciano “spesso si trovano a convivere sei o sette persone in spazi pensati e progettati per quattro, con meno di quattro metri quadrati a disposizione per ciascun individuo, anche con materassi a terra, in violazione degli standard europei”. È impietoso il contenuto della relazione su Sollicciano che la commissione politiche sociali presenterà domani in Consiglio comunale. Una relazione che, una volta di più, sottolinea le drammatiche criticità strutturali del penitenziario fiorentino. Nel testo, alla luce dei sopralluoghi svolti, viene sottolineata “la carenza di docce all’interno delle celle” e anche laddove sono presenti “non sempre l’acqua calda è garantita”. E infatti, viene aggiunto, “igiene e pulizia sono rese ancora più complicate da una dotazione ridotta all’essenziale: una scopa e una paletta, un litro di detersivo al mese e cinque rotoli di carta igienica. Tutto il resto - stracci, spugne, sacchetti - sono a carico delle persone detenute”. E proprio su questo, il presidente della Commissione Edoardo Amato (Pd), ha ricordato con sconcerto di aver visto, durante una visita al carcere, “un detenuto che si è ritrovato a pulire il bagno della cella con la propria maglietta in mancanza di altro”. Nel complesso, secondo la relazione, “l’edificio è fatiscente: le celle e le aree comuni presentano segni evidenti di degrado, con frequenti perdite d’acqua, malfunzionamenti nei bagni e impianti idraulici e fognari non funzionanti, oltre alla scarsità di acqua calda, soprattutto nei mesi invernali”. E poi: “Gli infissi e le facciate sono in condizioni critiche, i vetri dei corridoi sono rotti, la pioggia penetra nei reparti. Le infestazioni di cimici e parassiti nei materassi e nella biancheria e la presenza di muffe sui muri delle celle, segnalate da detenute e operatori, aggravano la situazione igienico-sanitaria”. Su un totale di 358 celle, sono ben 105 quelle che risultano non disponibili. Non va meglio per gli spazi comuni, “che in teoria dovrebbero ospitare attività teatrali, sportive o relazionali, ma sono largamente sottoutilizzati. Le aree comuni risultano inadeguate alla socializzazione e allo svolgimento di attività collettive. Sono spesso sporche, con la presenza di ratti, scarafaggi e odori nauseanti”. Nella relazione anche la testimonianza di alcuni reclusi: “Noi detenuti - dicono - ci ingegniamo a costruire attrezzi sportivi con bidoni, pezzi di legno, manici di scopa”. Per quanto riguarda le attività lavorative dei carcerati, “al 31 dicembre 2023 si attestano al 31,5%, in lieve diminuzione rispetto al 33,3% registrato nell’aprile precedente. E nel 2024, la media di persone detenute lavoranti è pari al 28,4%”. Secondo i consiglieri che hanno visitato Sollicciano, “gli interventi ministeriali (come la manutenzione delle facciate, l’installazione di pannelli solari e la sostituzione degli infissi), non hanno inciso in modo significativo sulle condizioni di vita”. Il presidente Amato ha proposto di “costruire una governance stabile attraverso la creazione di un tavolo permanente con tutti i soggetti istituzionali coinvolti, dal ministero al comune, al fine di velocizzare la programmazione”. Inoltre, aggiunge “vorremmo creare una consulta delle associazioni che operano dentro Sollicciano”. Siracusa. Il Garante dei detenuti: “Da 5 giorni manca l’acqua nel carcere di Brucoli” Giornale di Sicilia, 27 luglio 2025 Da cinque giorni nel carcere di Brucoli, ad Augusta, nel Siracusano, l’acqua arriva a singhiozzo: “Precisamente dalle 18 fino al mattino presto del giorno successivo” spiega Giovanni Villari, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Siracusa. L’allarme è stato lanciato da alcuni familiari che hanno denunciato le condizioni invivibili della struttura penitenziaria durante il giorno: al buio e senza acqua. “Manca l’energia elettrica in tutto l’istituto da lunedì scorso - spiega Villari - sembra per un intervento di manutenzione straordinaria. E di conseguenza l’autoclave non può funzionare per portare l’acqua ai detenuti. Con questo caldo per 598 persone, quasi il doppio rispetto alla capienza, la situazione è drammatica”. Nel carcere di contrada Cavadonna, a Siracusa, la situazione non è migliore: “Circa 700 detenuti, rispetto ad una capienza di 575, sono costretti a convivere con le cimici. Una contaminazione di materassi, lenzuola, vestiti. La direzione ha provveduto con una sorta di disinfestazione ma non si riescono a eliminare. Un caso simile è accaduto anche a Rebibbia: bisognerebbe sigillare le celle una per una e intervenire. Ma non sembra fattibile: le celle che prima erano occupate da tre persone adesso ne ospitano cinque”. Reggio Calabria. La nostra denuncia sullo stato di profonda sofferenza della popolazione detenuta di Giovanna Beatrice Araniti e Alberto Schepis* camerapenaledireggiocalabria.it, 27 luglio 2025 La Camera Penale di Reggio Calabria, nell’ambito dell’iniziativa “Ristretti in Agosto” promossa dall’Unione delle Camere Penali Italiane e dall’Osservatorio Nazionale Carcere, ha organizzato nella giornata del 24 luglio 2025 una visita alle carceri reggine di Arghillà e San Pietro, anticipando, in questo particolare momento emergenziale ed in seguito ai gravi fatti verificatisi nel plesso di Arghillà, il consueto appuntamento di agosto, con l’intento di aprire un ponte di dialogo effettivo e produttivo fra i reclusi e le Istituzioni, al tal fine, coinvolgendo nell’evento i Rappresentanti della Magistratura di Sorveglianza (Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Dott.ssa Daniela Tortorella ed il Magistrato di Sorveglianza, Dott. Ilaria Montanaro) e della Politica (l’Europarlamentare, On. Giusi Princi), oltre i Rappresentanti Istituzionali delle due Case Circondariali (il Direttore, Dott. Rosario Tortorella, le due Vicedirettrici, Dott.sse Roberta Velletri e Marianna Stendardo, ed i Comandanti e Vicecomandanti di Reparto) e dell’Area Sanitaria (il Dirigente sanitario, Dott. Nicola Pangallo e lo staff medico ed infermieristico) ed i rappresentanti dell’Area pedagogico-trattamentale. La Camera Penale vuole dare un segno forte e concreto della presenza dell’Avvocatura nella lotta per l’affermazione dei fondamentali diritti dei soggetti detenuti, le cui drammatiche condizioni hanno determinato, negli ultimi anni, una serie impressionanti di suicidi, o casi isolati di reazioni sbagliate all’insegna della violenza e non già del dialogo pacifico (nei cui confronti si esprime severa censura), determinate forse dal sovraffollamento, dallo scoramento e dal senso di impotenza dinanzi all’indifferenza della classe politica dirigente del nostro Paese, che ha adottato provvedimenti distanti da quelli sostenuti ed auspicati dall’Avvocatura, bypassando le disumane condizioni di vita dei ristretti. In questo momento, in cui le carceri stanno “esplodendo”, la visita della Camera Penale non è stata effettuata in maniera formalistica, per ripetere un vuoto rituale, ma si è cercato di dare alla stessa un profilo più operativo e sostanziale, con l’intento di poter essere effettivo veicolo fra il Carcere e le Istituzioni - essendo precipuo compito dell’Avvocatura quello di tutelare i fondamentali diritti dei cittadini, di essere il loro portavoce nei confronti delle Istituzioni, sostenendo ed affiancando i ristretti nelle loro battaglie per l’affermazione dei fondamentali diritti umani, sia che si trovino ad affrontare un processo penale, finendo in carcere come giudicabili, sia che si trovino in espiazione pena. Le due visite si sono svolte in un clima di grande serenità, improntate al dialogo, al confronto costruttivo, alla possibilità di risolvere alcune problematiche essenziali per la vivibilità interna agli Istituti, pur apprezzando gli sforzi encomiabili di chi quotidianamente cerca di impegnarsi al massimo per assicurare un trattamento dignitoso ed umano agli stessi, nonché per sperimentare delle proposte che possano assicurare un futuro lavorativo ai reclusi, nella prospettiva di un futuro reinserimento sociale, con l’adozione di tutti gli strumenti disponibili e col coinvolgimento della società civile e delle imprese, per evitare problemi di recidivanza. Sono state affrontate e discusse le gravi problematiche legate soprattutto alla mancanza di risorse, alla grave carenza di organico, sia degli Uffici di Sorveglianza (incredibilmente esclusi dai vantaggi di altri Uffici in cui sono stati applicati i neo assunti dell’Ufficio del Processo), sia del Personale interno agli Istituti Penitenziari. Le peggiori condizioni sono state rilevate nel plesso di Arghillà, con celle sovraffollate e poco organico all’interno dei reparti: a fronte di una capienza dell’Istituto di 280 /290 persone, ad oggi le 3 Sezioni (di 120 detenuti ciascuno) constano complessivamente di 360 detenuti, oltre i 43 detenuti che sono nella sezione protetti, dunque poco più di 400 persone, quasi il doppio della capienza consentita. Il personale penitenziario nel plesso di Arghillà è al di sotto del 30% rispetto al numero corretto di Agenti che dovrebbero essere presenti per gestire la popolazione carceraria. Difatti, sono presenti in totale 124 tra agenti e dirigenti e, per la vigilanza di ogni Sezione, solo 2 per ogni turnazione di lavoro. Concretamente difficoltoso gestire un numero così elevato ed eterogeneo di detenuti con poche unità interne. Un terzo della popolazione carceraria è costituito da cittadini stranieri e solo 10 detenuti ammessi al lavoro esterno ex art. 21 O.P.; un solo soggetto in regime di 14 bis O.P. Sono emerse gravi difficoltà sul fronte trattamentale, necessitando di un’implementazione del numero di docenti, anche su base volontaria e, al netto della possibilità di frequentare all’interno la Scuola Alberghiera e l’Istituto Artistico, non sussistono tutta una serie di attività e maestranze, finalizzate alla crescita personale e culturale, presenti, invece, in altri Istituti, e finalizzate a garantire una futura occupazione, nonostante gli ampi spazi presenti nel plesso di Arghillà. Sarebbe, inoltre, necessario riuscire ad avviare laboratori creativi, di scrittura, musica, pittura, teatro, nonché di altre attività trattamentali possibili, con un aumento dell’organico. Molte le lamentele dei detenuti del plesso di San Pietro in relazione alle difficoltà di completare gli studi dopo il secondo superiore ed alla la mancanza di corsi professionali ed attività trattamentali. Difficili le condizioni in cui operano il Dirigente Sanitario e gli operatori Sanitari, data la carenza di personale sanitario e la circostanza che sono rimaste lettera morta le continue richieste del Dirigente sanitario all’Asp per l’invio di personale sanitario, in aggiunta alle poche unità presenti che devono occuparsi di una serie di incombenze e garantire l’assistenza sanitaria di base e le urgenze. Nell’Istituto di San Pietro vi è un laboratorio di radiologia - rimasto fermo per circa un anno e mezzo in quanto mancante di un semplice modem - e ad Arghillà, un ambulatorio di psicologia e psichiatria al fine di dare supporto agli utenti che vi necessitano e finanche un laboratorio di odontoiatria, ma vi è la difficoltà alle volte di acquistare i farmaci e, dato il numero elevato di detenuti, di evadere le richieste di tutti celermente. Nonostante l’encomiabile impegno profuso per assicurare a tutti l’assistenza necessaria - con l’attivazione di uno sportello telematico di telemedicina, presso i plessi di Arghillà e Reggio, unico in Calabria (sistema collegato con i nosocomi di Polistena e Gioia Tauro in grado di ottimizzare i tempi di elaborazione dei risultati specialistici e la realizzazione di un piccolo laboratorio di analisi interno, l’allestimento della sala odontoiatrica, e la sala di radiologia presso il carcere di San Pietro), è stata ripetutamente evidenziata dagli stessi Operatori sanitari la necessità di un’implementazione del personale medico ed infermieristico, dal momento che le richieste ed i bandi vanno deserti e, per quanto umanamente si cerchi di fare l’impossibile, un numero di richieste ed assistenza così elevato non possono essere soddisfatte dall’esiguo personale medico; ma, ovviamente, tali carenze giammai possono essere fatte ricadere sui detenuti, il cui non negoziabile diritto alla salute va costantemente assicurato. Nonostante le adesioni dei detenuti, non vengono, poi, svolte attività di volontariato, se non per iniziative personali, ma al di fuori di protocolli di Giustizia Riparativa e manca totalmente una convenzione con delle Aziende del territorio al fine di poter dare lavoro ai coloro che accedono alle misure alternative. Tuttavia, la Presidente del Tribunale di Sorveglianza ha informato i presenti dell’attivazione di un progetto in tal senso, con la collaborazione della locale Prefettura, in corso di attuazione. Anche i rappresentanti dell’Osservatorio hanno evidenziato l’importanza del coinvolgimento delle imprese nei progetti di assunzione dei detenuti o ex detenuti, quando lasceranno il carcere, ed i vantaggi fiscali, spesso ignorati dalle stesse. Migliore la situazione delle celle a San Pietro, ma con riproposizione delle stesse problematiche in ambito sanitario, trattamentale e di opportunità. L’On. Princi - sollecitata dai presenti a farsi portavoce delle richieste dei detenuti e dei soggetti istituzionali presenti - si è fermata a parlare con gli stessi, attuando una sorta di contraddittorio con i soggetti istituzionali presenti, riscontrando necessità, difficoltà, carenze, ed ha particolarmente apprezzato il laboratorio di Sartoria nel reparto femminile di San Pietro, oggetto di un progetto concreto, con il coinvolgimento anche del settore maschile, e la possibilità di lanciare una linea “fashion”, con sponsorizzazione da parte della stessa Europarlamentare e della Camera Penale in un prossimo futuro. Si esprime viva soddisfazione per l’esito della visita, dal momento che “l’incontro tra diverse tipologie di Operatori nel settore, ed il coinvolgimento, sul fronte politico, dell’On. Princi - date le condanne dell’Italia da parte della Corte Edu sulle condizioni dei detenuti-, è stato indubbiamente proficuo e costruttivo, sia perché ha consentito di comprendere meglio le problematiche all’interno dei due Istituti, di cogliere diverse prospettive, di avere un confronto diretto sulle stesse, di soppesare possibili iniziative tese a migliorare le condizioni detentive, col coinvolgimento degli stessi detenuti, nonché ad implementare, con le risorse disponibili, la formazione ed il trattamento, dovendo sempre porre al centro del sistema il recupero dell’individuo, operando sinergicamente insieme per raggiungere l’obiettivo”. L’Avvocatura non smetterà mai di lottare per ciò in cui crede vivamente, accanto ai più fragili, a chi si vorrebbe dimenticare e chiudere in freddi e vuoti progetti di edilizia penitenziaria, senza curarsi dell’Uomo, delle sue esigenze, dell’affettività negata e, nell’attraversare i Reparti, circondati dai murales dipinti dai detenuti o dai disegni vivaci, scorgendo libri lasciati sui tavoli utilizzati per dare sfogo all’immaginazione e vivere così altre vite, da frasi appese sulle porte delle celle (“#andràtuttobene”), non può fare a meno di scorgere, nonostante tutto, quell’umanità che immane e che occorre coltivare per il recupero effettivo dell’Individuo, nonostante sia abbrutita dalle circostanze, dal caso, dalle difficoltà, dalla tragica realtà, respirando, nonostante il buio pesto in cui ci si ritrova in certi luoghi, quel filo di speranza che lo squarcia, come un raggio di luce e che dà vita. *Camera penale di Reggio Calabria Bergamo. Casa e lavoro: una seconda possibilità per 200 detenuti Corriere della Sera, 27 luglio 2025 “Persone ai margini, sovraffollamento carcerario come problema sociale urgente”. Rivolto a chi può scontare la pena, il progetto “E uscimmo a riveder le stelle” prevede un percorso di formazione e reinserimento. Fondazione Comunità Bergamasca e Opera Bonomelli. L’obiettivo, nel giro di un anno, è dare una seconda possibilità di vita e lavoro a 200 tra uomini e donne che scontano la condanna con misure alternative al carcere. Non a caso, il progetto si chiama “E uscimmo a riveder le stelle” ed è rivolto a persone segnalate dal carcere e dall’Ufficio di Esecuzione penale esterna (Uepe). È promosso dalla Fondazione della Comunità Bergamasca con la Fondazione Opera Bonomelli come ente capofila e coinvolge altri soggetti, tra associazioni e comuni. Prevede uno stanziamento di 235 mila euro. La prima fase, all’interno del carcere, serve per costruire i prerequisiti: attività di mediazione culturale, formazione alla sicurezza sul lavoro, attività di produzione orticola negli spazi della casa circondariale, mantenimento delle relazioni familiari della persona detenuta, attività sportive (calcio e pallavolo), proposta di un percorso formativo per Sarto Artigianale all’interno del laboratorio tessile “Ricucendo”. La seconda prevede l’avvio di percorsi di orientamento al lavoro, consolidamento di competenze professionali e inserimento lavorativo; accoglienza residenziale e abitativa; laboratori culturali, spazi di aggregazione, consulenza psichiatrica, supporto economico alle reti familiari. Presa in carico, ingaggio e accompagnamento della persona sono di competenza dell’Agente di rete, operatore che funge da ponte tra il carcere e i progetti di inclusione territoriale. Obiettivo della terza fase, è costruire rapporti con le realtà territoriali provinciali. Osvaldo Ranica, presidente Fondazione della Comunità Bergamasca: “Per accompagnare coloro che vivono in condizione di fragilità e marginalità è necessario costruire un sistema integrato di azioni di contrasto ai processi di esclusione. Anche le persone fragili devono essere supportate nel raggiungimento di un benessere, fatto di partecipazione attiva alla vita della comunità e accoglienza nelle relazioni”. Giacomo Invernizzi, direttore della Fondazione Opera Bonomelli: “Questo progetto rappresenta un’importante opportunità per le persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, in un momento in cui il sovraffollamento carcerario è un problema sociale urgente”. Roma. La Lega attacca il Comune di Roma: “Censurati i nostri manifesti sulla Sicurezza” di Natalia Distefano Corriere della Sera, 27 luglio 2025 Il Campidoglio: “Contengono stereotipi etnici”. Il Campidoglio ha richiesto la rimozione dei manifesti perché “contro le norme sui contenuti etici” scatenando l’ira del partito di Salvini. “A seguito di segnalazioni ricevute da cittadini” il Comune di Roma ha chiesto alla società per la rimozione dei manifesti di intervenire su quelli affissi nella Capitale dalla Lega, relativi al decreto Sicurezza. I messaggi che hanno acceso il disappunto dei cittadini - e del Campidoglio - sono questi: ““Scippi in metro? Ora finisci in galera senza scuse”, nel quale uno scippatore è rappresentato da una persona di etnia rom scortata da un agente di polizia all’interno di un vagone della metropolitana; “Occupi una casa? Ti buttiamo fuori in 24 ore”, nel quale gli occupanti sono individuati in una persona di colore, una di etnia rom e una persona “alternativa”. Lega: “È censura, un caso di bavaglio comunista” - Ma l’iniziativa dell’amministrazione capitolina ha mandato su tutte le furie la Lega, che si dice pronta a contestarla in tutte le sedi. “Si tratta di censura - dice il leghista Davide Bordoni, segretario regionale di partito nel Lazio - i nostri consiglieri comunali presenteranno un’interrogazione e abbiamo dato mandato agli avvocati per un eventuale risarcimento dei danni”. Protesta il partito di Matteo Salvini, che in una nota accusa: “Si tratta di un evidente caso di bavaglio comunista, un attentato alla democrazia, un atto di arroganza, uno sfregio alla libertà di opinione, un attacco a chi lavora e ha pagato le affissioni”. Per tutti questi motivi, avvertono dalla Lega, “faremo di tutto per non farci imbavagliare: il Campidoglio, anziché preoccuparsi dei manifesti della Lega, dovrebbe dirottare le energie per risolvere i problemi delle periferie o bloccare i malviventi che scippano nelle metro. Oppure il Comune di Roma pensa davvero sia urgente sguinzagliare la Polizia Locale per dare la caccia ai manifesti della Lega?”. Le regole in fatto di manifesti parlano chiaro: l’art. 12-bis del Regolamento in materia di pubblicità, di cui alla n. 141/2020, dispone il divieto di “esposizione pubblicitaria il cui contenuto contenga stereotipi e disparità di genere, veicoli messaggi sessisti, violenti o rappresenti la mercificazione del corpo femminile. È altresì vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto sia lesivo del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso, dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, delle abilità fisiche e psichiche. È altresì vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto promuova il gioco d’azzardo”. La replica del Campidoglio: “Violano le norme sui contenuti etici” - Secca, dunque, la risposta del Campidoglio: “I manifesti della Lega sono stati rimossi perché violano le norme vigenti circa i contenuti etici delle pubblicità”. In sostanza: conterrebbero chiari stereotipi legati all’appartenenza etnica. “Si tratta di un atto adottato autonomamente dagli uffici competenti, a seguito di esposti pervenuti da cittadini: non si tratta dunque di censura, ma dell’applicazione puntuale delle norme vigenti”, precisano dal Comune di Roma. “Resta ovviamente possibile presentare formale ricorso contro la decisione o proseguire la campagna pubblicitaria, modificando i contenuti in modo da renderli conformi al Regolamento”, conclude il Campidoglio. I manifesti saranno affissi in tutta Italia - La Lega non ci sta e cerca l’ultima parola: “Mentre a Milano il Pd si scandalizzava per i filmati delle scippatrici nella metro (ne parlava Monica Romano e ora la sinistra meneghina ha ben altro genere di problemi...), a Roma il Pd censura i manifesti della Lega sul decreto Sicurezza perché contengono immagini prodotte con l’IA. In pratica, la sinistra vieta sia le immagini reali che quelle artificiali. Tutto pur di nascondere la verità. Il Partito Democratico difende chi scippa, chi ruba, chi imbratta, chi occupa le case? Reagiremo democraticamente in tutte le sedi per difendere la libertà di opinione e di espressione”, fa sapere la Lega. Che infine annuncia: “Siamo di fronte a una violenza inaudita: partirà una massiccia campagna non solo a Roma ma in tutta Italia e verranno diffusi nuovi manifesti. E sono in produzione magliette ad hoc”, conclude il Carroccio. Magi: “Pronta la denuncia contro la Lega” - Nel contenzioso interviene anche il segretario di Più Europa, Riccardo Magi: “Abbiamo predisposto una denuncia alla Procura della Repubblica per chiedere l’apertura di un’indagine sui manifesti della Lega, in quanto contenenti messaggi apertamente discriminatori, razzisti e lesivi della dignità umana”. Secondo Magi le immagini, diffuse anche dai canali social ufficiali del ministro Matteo Salvini e accompagnate da dichiarazioni denigratorie, “assimilano la figura della donna rom a una ladra, l’uomo nero a un occupante abusivo, e un giovane attivista con i dread a un criminale ambientale. Si tratta di una comunicazione politica costruita su stereotipi etnici e sociali, con un chiaro intento di istigare l’odio, la paura e il disprezzo verso categorie marginalizzate”. Più Europa fa sapere che depositerà la denuncia: “Questa campagna, orchestrata con mezzi pubblici e in spazi pubblici, non è propaganda elettorale: è propaganda d’odio e non può essere tollerata. È una strategia nota: criminalizzare la povertà e chi la denuncia, e offrire come capro espiatorio i più deboli. Non resteremo in silenzio mentre si legittima l’odio attraverso le istituzioni”. Treviso. I detenuti di Santa Bona scrivono alla diocesi e il vescovo risponde di Gigliola Alfaro agensir.it, 27 luglio 2025 I carcerati parlano del loro bisogno “di essere visti e accolti” e chiedono spazi per ricominciare, sia durante i permessi sia a fine pena. Mons. Tomasi li ringrazia della loro testimonianza. Uno scambio di lettere, tra la piccola, sconosciuta porzione di Chiesa formata da un gruppo di battezzati che vivono detenuti nella casa circondariale di Santa Bona, a Treviso, e la Chiesa diocesana. Nell’anno del Giubileo della speranza i detenuti hanno scritto alla diocesi una lettera aperta, a loro ha risposto il vescovo di Treviso, mons. Michele Tomasi, a nome della diocesi tutta. In questo Giubileo, il cappellano del carcere, gli altri membri della cappellania e i volontari di Comunione e liberazione e dell’associazione Prima pietra hanno proposto, ai detenuti disponibili al confronto, un’occasione di riflessione comune su cosa possa significare vivere un Giubileo dentro un carcere e come ciascuno, a partire dalla propria condizione, possa mettersi in cammino verso una conversione possibile. Dal percorso ne è nata una lettera scritta dalla “Chiesa che vive in carcere” alla Chiesa diocesana tutta. “Un messaggio autentico - dicono don Piero Zardo, cappellano della casa circondariale, e don Bruno Baratto, direttore di Caritas Tarvisina -, maturato nel silenzio e nella riflessione, che racconta il cammino personale di tanti uomini che desiderano ricominciare. Non chiede sconti, ma ascolto. Non pretende risposte facili, ma condivisione. È un invito a superare il pregiudizio, a riconoscere che la fede può germogliare ovunque, anche nei luoghi e nelle situazioni meno attese, quando si apre lo spazio per il cambiamento”. I detenuti parlano della loro esperienza, senza negare le proprie colpe e “la sofferenza che anche noi abbiamo provocato”, ma, anzi, guardando al tempo speciale del Giubileo per crescere in una maggiore consapevolezza e responsabilità. Ricordano la morte di Papa Francesco, “che abbiamo sentito tanto vicino a noi”, e l’elezione di Leone XIV. Condividono riflessioni, nella speranza di superare quei muri di indifferenza, pregiudizio e paura che possono esserci rispetto al mondo che vive “dietro le sbarre”. Sono grati per la presenza e l’impegno di operatori e volontari. Due le figure evangeliche che i detenuti evocano: quella del centurione romano sotto la croce di Gesù, che lo riconosce come Figlio di Dio vedendo come è morto, e quella del buon ladrone che, “dopo una vita disastrosa, riceve lo sguardo misericordioso di Gesù, proprio sulla croce accanto a Lui”. Chiedono che “cresca la comunione tra noi” e si rivolgono ai fedeli della diocesi anche con la richiesta di un aiuto concreto: “Donare accoglienza e disponibilità verso coloro tra di noi che, in permesso di uscita, o terminata la detenzione, si ritrovano senza un luogo dove risiedere o con relazioni assai fragili. Non chiediamo di correre assieme, ma di fare un primo passo, anche lento, ma concreto, per essere insieme pellegrini di speranza”. “Per permettere alle persone detenute di riappropriarsi gradualmente della loro vita, al di là dei reati commessi, c’è la possibilità di permessi, in giornata o per più giorni - spiegano i membri della cappellania del carcere di Treviso -. Per beneficiarne sono necessari luoghi che li accolgano, in particolar modo per chi non ha alcun riferimento esterno al carcere. Per molti esiste lo stesso problema una volta conclusa la detenzione”. L’appello è per “gesti giubilari” capaci di “far emergere la disponibilità di comunità che possano rispondere a simili esigenze, mettendo a disposizione ambienti e accoglienza, animate dal desiderio di incontro e di dare possibilità a persone detenute o ex-detenute di ripartire, per un reinserimento nella società e nella comunità”. “Sappiamo che mettersi in gioco è un rischio - concludono i detenuti nella loro lettera - ma con umiltà vi diciamo che abbiamo bisogno di essere visti e accolti. Così da essere sostenuti anche noi nel poter accogliere noi stessi e il nostro vissuto e affidarlo al Signore, insieme. Vi sentiamo sorelle e fratelli, tutti”. Nella sua risposta, mons. Tomasi esprime gratitudine per aver condiviso difficoltà, aspettative e speranze. “Ci chiedete di riconoscere la vostra presenza nel cuore delle nostre comunità. Con il vostro appello volete aiutarci a non essere indifferenti, ad assumerci il rischio di vedervi e di ascoltarvi - scrive il vescovo. Non negate responsabilità e colpe, ci date una testimonianza di percorsi impegnativi e lunghi di presa di coscienza del male commesso, di assunzione di responsabilità. Si tratta, fin dove possibile, di rimediare al male commesso, di percorrere vie esigenti di riconciliazione, di coinvolgere la comunità intera per ritessere reti di relazioni che possano permettere nuova fiducia. Ci chiedete di dare spazio concreto alla fragilità della condizione umana, di prendervi sul serio come persone, partendo dal vostro impegno a prendere sul serio le persone colpite e ferite da comportamenti sbagliati, da scelte colpevoli”. Il presule si dice grato della testimonianza in cui è possibile “scoprire sempre di nuovo il volto di Cristo, la bellezza della sua proposta, la verità sull’esistenza, che deriva dall’ascolto senza ostacoli del suo Vangelo”, e “attingere senza merito e senza pretesa alla misericordia che scaturisce dalla Croce stessa di Cristo”. Ricordando l’immagine della Speranza che Papa Francesco ha affidato ai detenuti di Rebibbia, il vescovo spiega che quell’àncora con cui è spesso rappresentata, alla cui corda è necessario aggrapparsi, altro non è che “la Croce di Cristo, segno di apparente sconfitta, ma strumento definitivo di vittoria sul male e sulla morte. Ecco che dalla forza della Croce nascono l’impegno di volontari e operatori, di tanti professionisti “che si impegnano in condizioni spesso difficili, a garantire giustizia e rispetto della dignità di ogni persona”. Mons. Tomasi ricorda anche la consolazione che nasce dalla Croce “per coloro che sono vittime di male e di violenza, perché non si sentano soli e abbandonati”, e il sostegno “per le vostre famiglie, che hanno bisogno della vostra presenza, e che scontano il peso di una lontananza spesso difficile da affrontare. È accanto alla Croce di Cristo, sulla croce del buon ladrone, che voi intuite di poter trovare le fonti della vostra speranza”. “Cerchiamo insieme le ragioni di una speranza quotidiana e troviamo insieme la direzione in cui possano muoversi i nostri passi, per ritessere sempre di nuovo legami di comunità - aggiunge -. In occasione di alcune visite in carcere mi avete aperto il vostro cuore e mi avete espresso i vostri bisogni, come avete fatto in questa vostra lettera. Voi percepite urgente, allora come ora, la presenza di luoghi dove poter essere accolti, ascoltati e aiutati in un percorso di un vero reinserimento nella società”. “Nell’Anno giubilare - conclude mons. Tomasi - condivido con voi e con la diocesi l’impegno a trovare spazi di questo tipo, per venire incontro in modo ordinato e sostenibile a questa necessità. Se riusciremo in questo sforzo, verrà giovamento a tutta la comunità, che vedrà nascere anche dal fallimento e dalla colpa frutti di rigenerazione. La cappellania del carcere e la Caritas diocesana ci aiuteranno a coordinare le disponibilità che nasceranno in diocesi. Sarà, credo, un contributo a diffondere quella pace di Cristo che parte cambiando i cuori e giunge fino a mutare le strutture della nostra vita associata”. Napoli. Dal carcere alla sartoria: il riscatto delle lavoratrici di Pozzuoli di Sharon Di Carlo tg24.sky.it, 27 luglio 2025 Maria e Amalia aprono le porte del laboratorio campano di Palingen. Per loro, oltre a un modo dignitoso di scontare la pena, la macchina da cucire è diventata in pochi anni la più grande opportunità di reinserimento sociale. Il reportage. Storie di riscatto. Maria e Amalia dopo lunghi anni trascorsi in carcere stanno concludendo la loro pena detentiva lavorando nel laboratorio sartoriale Palingen di Pozzuoli. Ad entrambe nel 2024 è stato concesso l’affidamento in prova ai servizi sociali, una misura alternativa al carcere. Maria, con una condanna di quattro anni e due mesi, a settembre tornerà in libertà; ancora due anni invece da scontare per Amalia dopo l’arresto nel 2021 per riciclaggio a stampo camorristico. Ad aprire la porta della sartoria è Amalia. Capelli biondi raccolti da una fascia che stinge una lunga coda di cavallo. Venendoci incontro appoggia su una sedia una tazzina di caffè ancora fumante, qualche goccia finisce sulla rafia della seduta. Con un sorriso delicatamente disinvolto ci accompagna all’interno del laboratorio, dove conosciamo anche Maria. Un metro giallo da sarta arrotolato al collo e un paio di occhiali appoggiati sulla punta del naso. Canticchia Maria. Finisce di stirare un grembiule pronto per essere consegnato, torna nella sua postazione, ripone la testa china, e riaccende la macchina per cucire. È in questo piccolo laboratorio nel centro di Pozzuoli che Maria e Amalia stanno concludendo la loro pena detentiva lavorando come sarte. Ad entrambe nel 2024 è stato concesso, per buona condotta, l’affidamento in prova ai servizi sociali, una misura che consente di scontare la condanna fuori dal penitenziario, seguendo un programma di reinserimento sociale. Amalia inumidisce con un panno la macchia di caffè gocciolato prima sulla sedia, abbottona al meglio il suo camice da lavoro che indossa orgogliosamente, si siede, e noi accendiamo la telecamera. Parte dal giorno dell’arresto. I suoi occhi diventano subito lucidi. Era il 15 ottobre del 2021, quando nel cuore della notte svegliò sua figlia promettendole che sarebbe tornata presto. Passarono tre lunghi anni da quell’abbraccio, al primo colloquio in carcere. Amalia si commuove e prende fiato. Ma non vuole fermarsi. Racconta di come sua figlia sia stato l’unico pensiero a darle forza durante la detenzione, del lungo percorso affrontato con le psicologhe per affrontare la sofferenza del distacco e del senso di colpa di averla lasciata sola. Amalia e il compagno erano entrambi in carcere: la figlia, ancora una bambina, viveva sola con la nonna. Mi dice che all’inizio non sapeva che la mamma fosse in carcere. Nelle prime videochiamate - fatte in sostituzione ai colloqui durante la pandemia di Covid-19 - si infilava il camice che utilizzava per lavorare all’interno dell’istituto penitenziario, dicendole di essere impegnata nelle pulizie di un albergo. Ma la notizia dell’arresto di Amalia era su tutti i giornali. Un giorno la piccola le confida di aver scoperto la verità ma di non preoccuparsi, non si sarebbe mai vergognata di lei. Amalia abbozza un sorriso e sospira. Il secondo giorno di detenzione ha chiesto subito di poter lavorare. Ha spiegato che era necessario per poter comprare beni essenziali, come un bagnoschiuma, e soprattutto per sostenere sua figlia e la madre anziana fuori dal carcere. In passato Amalia aveva lavorato come operaia in una fabbrica, sapeva cucire. Abilità, questa, che l’ha aiutata ad ottenere subito un impiego come sarta prima all’interno dell’istituto penitenziario di Pozzuoli, poi nel carcere Pasquale Mandato di Secondigliano dove nel 2024 è stata trasferita la sezione femminile a causa dello sciame sismico ai Campi Flegrei. Ancora due anni di pena da scontare per Amalia, che racconta le difficoltà che sta incontrando nel graduale reinserimento nella società. Attualmente vive in casa della madre e sta cercando una nuova sistemazione. Un contratto però che non riesce a firmare per mancanza di fiducia da parte dei proprietari degli immobili. Secondo Amalia, infatti, l’avere un contratto regolare e una busta paga, non basta agli occhi di chi la vede ancora come una detenuta. Quel che non manca mai qui è il profumo di caffè. A mettere la moka sul fornello, è Marco Maria Mazio fondatore del laboratorio Palingen di Pozzuoli. Mi racconta come è iniziato il progetto, a partire dal nome che si ispira al concetto spirituale della Palingenesi, sinonimo di rinascita. L’obiettivo è quello di dare una seconda possibilità a detenuti ed ex detenuti, in particolar modo donne, con un piano organizzato in tre fasi. Innanzitutto, le donne detenute svolgono un percorso di formazione all’interno della sartoria al termine del quale ottengono un certificato rilasciato da un ente di formazione accreditato, spiega Marco. In seguito, una parte delle detenute, viene inclusa nel gruppo di sarte regolarmente assunte e retribuite da Palingen che lavorano nella sartoria interna alla casa di reclusione. Infine, le detenute che terminano la pena o ottengono una misura detentiva alternativa, possono proseguire la loro crescita professionale nel laboratorio esterno al carcere. E questo è stato il percorso anche di Maria. Si alza dalla sua postazione e viene verso di noi, si intreccia le dita nei lunghi capelli corvino, e si toglie gli occhiali. Maria con una condanna di quattro anni e due mesi, a settembre finirà la pena. Ed è proprio da questo che vuole partire. Mi racconta che il suo primo giorno di libertà completa sarà di sabato, e che uscirà con le amiche. Andrà a ballare. Poi torna agli anni passati in carcere. Racconta di come i primi dieci mesi siano stati infernali, soprattutto la convivenza in cella con altre dieci detenute, ognuna con le proprie abitudine e condanne. Ha subito diversi sgarbi dalle compagne di cella. Dal sale sul cuscino, alle lenzuola buttate sul pavimento, a sgradevoli provocazioni verbali. Anche Maria ha immediatamente iniziato a lavorare. Ago e filo la facevano sentire libera, fuori dal carcere. A casa. Un’esperienza che l’ha cambiata profondamente quella della detenzione. Oggi sente di essere più forte e paradossalmente più libera. Libera di esprime la sua opinione, di decidere della propria vita senza. Prima abbassava la testa racconta Maria, oggi non lo fa più. Salutiamo Maria, Amalia e Marco. Lasciamo il laboratorio Palingen di Pozzuoli e ci dirigiamo verso Napoli, al carcere Pasquale Mandato di Secondigliano, per conoscere la direttrice Giulia Russo. Entriamo nel suo ufficio e ci accomodiamo. Ci racconta di come la detenzione al femminile porti con sé problemi ulteriori rispetto a quella maschile. A partire dal ricordo di essere madre, dell’essere moglie o figlia. Un ricordo a volte così prepotente che anche la mancanza di libertà passa in secondo piano. Soprattutto se la detenuta è l’unica fonte di sostegno economico per la famiglia. Lavoro, quindi, che diventa una boccata d’ossigeno. Racconta che all’interno del carcere di Secondigliano c’è un ufficio dedicato al lavoro dei detenuti. Una commissione interna che permetta la raccolta di richieste e l’elaborazione di quest’ultime, per poi stilare una graduatoria definitiva, valutando elementi oggettivi e soggettivi del detenuto richiedente. Contratti a tempo determinato, stipulati con la direzione del carcere, per garantire un turnover che si muove attorno ad una media di 6-12 mesi. Stipendi quelli dei detenuti, spiega la direttrice, che si muovono su un terzo di quello che viene dato all’esterno. Quindi una paga di circa 8,90 euro all’ora, oltre alla copertura assicurativa, assegni famigliari, ferie, e Tfr parcellizzato. Napoli. Carcere di Secondigliano, “Non invano” il murale per ricordare chi è stato ucciso di Raffaele Sardo La Repubblica, 27 luglio 2025 Un’ampia distesa di girasoli colorati che sale verso il cielo. È il murale che accoglie da oggi chi varca la soglia del carcere “Pasquale Mandato” di Secondigliano e che ha come titolo “Non Invano hanno soffiato i venti”, ispirato ad una poesia di Sergej Aleksandrovic Esenin. Questi versi, intrisi di dolore e bellezza, hanno fatto da seme al progetto artistico e umano che oggi si fa visibile su uno dei padiglioni del carcere. Il murale, realizzato dal collettivo artistico Orticanoodles con il coordinamento di Inward - Osservatorio nazionale sulla creatività urbana, diretto da Luca Borriello, è realizzato su due facciate: Una visibile dall’esterno, rivolta alla città di Napoli, l’altra che si affaccia sul cortile interno e può essere contemplata dai detenuti. Una doppia prospettiva che unisce l’interno e l’esterno, chi è recluso e chi è libero, in un gesto di apertura, ascolto e riconciliazione. L’opera, inaugurata stamattina, nasce dalla volontà della Fondazione Polis della Regione Campania, presieduta da don Tonino Palmese, di trasformare la memoria in speranza, il lutto in seme di giustizia. Inserito in un percorso di giustizia riparativa, il murale ha coinvolto detenuti del carcere, familiari delle vittime innocenti, Libera, il Coordinamento campano dei familiari delle vittime e il Garante regionale Samuele Ciambriello. La direttrice del carcere, Giulia Russo, a capo di uno dei più grandi istituti penitenziari d’Italia, ha parlato della complessità della struttura che dirige: un carcere con circa 1.500 detenuti, di cui 950 sottoposti al regime di alta sicurezza, affiliati alle principali organizzazioni criminali del paese - dalla camorra alla mafia, dalla ‘ndrangheta alla Sacra Corona Unita, fino all’Anonima Sarda. “Questo murale - ha sostenuto la direttrice - - non è solo arte, è il punto finale di un lavoro profondo con i nostri detenuti verso la giustizia riparativa.” Ha ricordato le visite di Lucia Borsellino, Maria Grazia Mandato e tanti altri familiari di vittime innocenti. Russo, ha parlato anche del significato più alto della riconciliazione: “Il perdono non si chiede semplicemente, si può dare solo se chi lo chiede ha fatto un percorso di autocoscienza. Questa è la misura etica più alta di una società civile”. Visibilmente commosso, don Tonino Palmese ha definito l’inaugurazione “una delle giornate più belle” della sua vita. Ha parlato della potenza trasformativa del lutto e della rigenerazione, vissuti anche all’interno del carcere: “Ho visto lacrime di riabilitazione e risurrezione. Il carcere può essere luogo di speranza, se lo si guarda con occhi capaci di vedere oltre la colpa”. Con un intervento appassionato e provocatorio Nel suo intervento, don Tonino Palmese ha condiviso una riflessione profonda sul significato della “autorità debole”: quella che non si impone, ma che nasce dal dolore vissuto e dalla dignità conservata. “Obbediamo a Dio non perché è il capo dei capi, ma perché è un’autorità debole”, ha detto. Ed è così che, con lo stesso spirito, afferma di “obbedire” ai familiari delle vittime e ai detenuti, riconoscendoli come portatori di una verità fondata sulla sofferenza e sul cambiamento. Ha raccontato un rituale personale, intimo: i tre baci alla madre negli ultimi tempi della sua vita - sulla fronte, sulla pancia, sui piedi - come segno di gratitudine per averlo pensato, accolto e servito. “Credo sia lì che ho imparato l’importanza dell’autorità debole”, ha confessato con tono emozionato. Don Tonino ha poi ricordato come le vittime avrebbero avuto ogni diritto di chiudersi nel dolore e nel rancore, ma hanno invece scelto di donarsi, di partecipare, di costruire ponti. Ha pronunciato con rispetto e riconoscenza i nomi di molti familiari presenti, evidenziando come la loro presenza non sia un gesto di perdono, ma di generosità umana. “Se il perdono verrà, sarà gioia. Se non verrà, sarà noia. Ma quello che conta è che oggi loro sono qui, e si sono donati”, ha concluso. Per Bruno Vallefuoco - familiare di vittima, IL murale “Non invano” esprime un dolore che accomuna: “La tempesta non l’ha vissuta solo chi è stato vittima, ma anche chi si trova dall’altra parte”, riconoscendo nei detenuti un percorso umano che può condividere il peso della sofferenza e della trasformazione. Nel suo intervento, Giuseppe Granata, presidente del Coordinamento Familiari Vittime Innocenti, ha espresso con forza la volontà non solo di ricordare, ma di trasformare il dolore in azione civica. Granata ha evidenziato il lavoro della Fondazione Polis, nata accanto all’associazione dei familiari fondata nel 2007, e ha ringraziato con calore don Tonino Palmese per il suo contributo generoso e disinteressato. All’iniziativa erano presenti, tra gli altri, diversi familiari di vittime innocenti, gli autori del murale, Andrea e Walter, Maria Grazia Mandato, figlia di Pasquale a cui è intitolato il carcere e i vertici di Carabinieri, finanza, polizia, esercito e polizia penitenziaria. Al dibattito che ne è seguito, hanno portato il loro contributo anche la senatrice Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato del Movimento 5 Stelle, Luca Borriello, direttore Inward, Osservatorio nazionale sulla creatività urbana, don Enzo Cozzolino - Parroco di S. Sebastiano Martire - San Sebastiano al Vesuvio, Maria Rosaria Covelli, presidente della Corte d’Appello, Lucia Castellano, provveditore regionale per la Campania del Ministero della Giustizia, Patrizia Mirra, presidente del Tribunale di Sorveglianza e alcuni detenuti del carcere di Secondigliano. Riapre la “Libera Università di Alcatraz”, una nuova vita per le donne vittime di violenza di Michele Razzetti vanityfair.it, 27 luglio 2025 Mentre Trump costruisce un immaginario basato su dolore ed esclusione, in Italia grazie alla famiglia Fo Alcatraz diventa sinonimo di inclusione, guarigione e un futuro migliore. Non è immediato pensare che oltre alla tristemente nota prigione statunitense, proprio in Italia possa esistere una Libera Università di Alcatraz. Un cortocircuito lessicale che merita qualche spiegazione, perché di fatto quella che sorge in una frazione del paese umbro di Gubbio non è neanche un’università. No, ma in compenso è stata ed è un sacco di altre cose. Nata alla fine degli anni Settanta come una sorta di comune istituita da Jacopo Fo, figlio del premio Nobel Dario Fo e di Franca Rame, nel tempo ha assunto le forme di un centro culturale sperimentale di tutto rilievo con, tra le molte cose, corsi di teatro tenuti da Fo e Rame e di scrittura creativa - primo nel suo genere in Italia - con Stefano Benni e Dacia Maraini. Successivamente si innesta l’attività ricettiva: un agriturismo diffuso dove si offrono attività piuttosto insolite, come lo yoga demenziale e il watsu, e ci si imbatte in una serie di opere d’arte curiose, in orologi a vento e piste per gigantesche biglie di legno. Sebbene la vocazione sociale faccia da sempre parte di questo luogo - qui venivano ospitate gratuitamente o a prezzi simbolici molte persone in difficoltà economica o con disabilità fisiche e mentali - da agosto 2025 l’Alcatraz italiana è qualcosa di molto di più. È diventata, infatti, l’epicentro del progetto Kore de Alcatraz, che si propone di aiutare le donne vittime di violenza a riscostruire la propria indipendenza, in un Paese dove solo nel 2024 si sono registrati 113 femminicidi, di cui 99 in contesti dove dovrebbe regnare l’amore come la casa e la famiglia. E così è in qualche modo rincuorante che mentre oltreoceano, per volere dell’amministrazione guidata da Donald Trump, apre un luogo all’insegna del dolore e dell’esclusione come Alligator Alcatraz, in Italia rinasca un’omonima realtà che parla di inclusione e amore per il prossimo (“la violenza è inutile e soprattutto faticosa” e “anche le formiche hanno i loro diritti” si legge in un vecchio statuto di questo luogo). La rinascita della Libera Università di Alcatraz - “Questo posto doveva rimanere aperto”: ripete spesso queste parole nel corso della nostra chiacchierata Mattea Fo, nipote di Dario Fo e Franca Rame, e presidente della Fondazione che porta il cognome dei nonni. Già, perché prima dal 2019, anno in cui sono state fermate le attività ricettive, sono stati molti gli anni in cui questo albergo diffuso nella valle di Santa Cristina ha accolto ospiti da tutto il mondo. “Era un parco giochi per me quando ero piccola, il luogo dove venivo a trovare mio papà ma anche per divertirmi”, ci racconta. “All’inizio della guerra per qualche mese abbiamo ospitato qui 26 persone fra donne e bambini dall’Ucraina; così abbiamo realizzato che questo posto doveva continuare a immettere energia buona nel mondo”. Un’idea che inizia a prendere forma e diventa presto ambiziosa: ad agosto 2025 riapre la parte ricettiva, a ottobre il ristorante, nel 2026 l’intenzione è quella di riattivare l’agricamping. Un anno, quest’ultimo, dalla forte valenza simbolica: proprio nel 2026, infatti, ricorre il centenario della nascita di Dario Fo e per celebrarlo, grazie anche alla collaborazione della Regione Umbria, sono previste rappresentazioni teatrali, mostre, giornate di studio e proiezioni in cento paesi del mondo. Di progetti simili a questo ce ne sono - per fortuna - molti, ma il modo in cui Mattea e il marito Stefano Bertea intendono gestire la Libera Università di Alcatraz è fuori dall’ordinario. Sì, perché qui, grazie a una collaborazione con Kore, associazione no profit di InterSOS, troveranno un’occasione di rinascita donne - una cinquantina, a pieno regime - che hanno subito violenza e sono approdate nei Centri Anti Violenza. “In questa decisione sicuramente ha un ruolo il lascito e il vissuto di mia nonna Franca Rame, che nel 1973 fu rapita e violentata da quattro fascisti dietro commissione di un comando dei carabinieri. Le donne vittime di violenza hanno davvero bisogno di progetti che contribuiscano a una vera ricostruzione. Alcune di loro scappano di casa, si nascondono per un periodo in cui non hanno neanche il cellulare e dopo rischiano di tornare dall’ex compagno violento, banalmente perché non hanno alternative. Oppure dai genitori, dove c’è la possibilità che vengano colpevolizzate come donne che non hanno saputo tenersi il marito”. Consapevoli di questi scenari, Mattea e Stefano vogliono mettere a disposizione un luogo dove le donne, attraverso un lavoro dignitoso e attività formative, possano ricostruirsi con i loro tempi. Servizio di sala, cucina, ma anche produzione etica e trasformazione di prodotti agricoli e sartoriali sono solo alcune delle attività in cui potrebbero essere coinvolte. “Se l’offerta di lavoro per queste donne è solo la fabbrica notturna, ma io ho dei bambini piccoli, come faccio? Qui vogliamo creare un sistema, un circuito virtuoso nel quale abbiano un posto dove formarsi, lavorare e trovare un alloggio nelle vicinanze. E dove intravedere un futuro diverso”. Da un punto di vista pratico qui arrivano donne che sono state prese in carico dai Centri Anti Violenza. Non solo umbre, ma potenzialmente da tutta Italia. C’è come in tutti i lavori un colloquio e poi si avviano le pratiche per quello che tecnicamente viene chiamato inserimento lavorativo protetto. Una formula nella quale è insita anche una delicatezza e un rispetto - auspicabili in tutto il mondo del lavoro - superiori alla media: “se un giorno non riesci a lavorare, non ti puntiamo un fucile alla tempia”, specifica Stefano. “Purtroppo il sistema attuale ci porta a pensare che un datore di lavoro che ti permette di prenderti i tuoi tempi in caso di fragilità ti sta mentendo: te lo dice per poi licenziarti”, prosegue Mattea. “Non siamo abituati a fidarci dell’altro al lavoro. Qui proviamo a mettere in pratica un altro modello: lavoriamo tutti per un obiettivo comune e chi lavora è prima di tutto una persona”. Gli scogli burocratici e le lungaggini non sono trascurabili, ma il progetto prosegue e agosto 2025 vedrà l’ingresso della prima donna vittima di violenza. Quando chiediamo a Mattea Fo come si sente nel sapere che negli Stati Uniti ci sia un posto che porta lo stesso nome di quello della sua famiglia, ci osserva per qualche secondo con il suo sguardo denso di profondità e dolcezza e poi ci spiega che per lei “è allucinante. Però non possiamo mettere la testa sotto la sabbia, ma anzi dobbiamo impegnarci ancora di più a diffondere nel mondo energie buone, anche se siamo lontani: mi piace pensare che un battito di ali di farfalla in Umbria possa generare un uragano - positivo - dall’altra parte dell’oceano”. Informati e sereni è possibile? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 27 luglio 2025 L’ansia è un’industria, piena di risorse. La politica - non solo in Italia - specula sulle nostre paure. Spaventarci e fingere di rassicurarci: un meccanismo che porta voti. Al podcast “Radio Italians”, figlio di questa rubrica, è arrivato un vocale interessante. Lo ha inviato Filippo, giovane audiolettore di Lucca. Ha percorso un tratto della via Francigena: diciotto giorni di cammino fra Lucca e Roma. Dice di essersi ripulito la mente, e teme di ricominciare la dieta quotidiana di pessime notizie, ansie, minacce. Filippo chiude con una domanda: “È possibile essere, insieme, aggiornati e sereni?”. La mia risposta? Sì, è possibile. Ma non è facile. L’ansia è un’industria, piena di risorse. La politica - non solo in Italia - specula sulle nostre paure. Spaventarci e fingere di rassicurarci: un meccanismo che porta voti. Pensate all’immigrazione. Si fa poco per regolarla e organizzarla; meglio lanciare allarmi scomposti (a destra) o rassicurazioni ipocrite (a sinistra). Poi ci sono gli errori e gli orrori del mondo là fuori. Guerre, invasioni, stragi, crudeltà: pensate a Gaza. O a Donald Trump, il presidente più ansiogeno della storia americana. In Italia, pensate alle violenze, agli incidenti sul lavoro, alle morti in vacanza, alle inchieste (chi ama Milano in questi giorni vuole capire, e non è un’operazione indolore). Poi ci sono gli algoritmi: hanno imparato che rabbia e ansia creano dipendenza; che la dipendenza allunga il tempo di permanenza sui social; che più tempo passiamo là sopra, più diventiamo preziosi per le piattaforme, avide di dati da vendere alla pubblicità. E quando non ci pensano gli algoritmi, facciamo da soli. L’ossessione collettiva per la cronaca nera è masochista, per una società in cerca di serenità. E qui, forse, ci avviciniamo alla soluzione. Proviamo a sgombrare la nostra vita dalle ansie inutili, quelle che qualcuno spaccia per intrattenimento. Avremo il tempo e la calma per affrontare le ansie necessarie: informarsi su quanto accade in Italia e nel mondo è difficile, ma doveroso. L’alternativa è trasformare la vita quotidiana in una vacanza mentale: narcisista, isolata, superficiale. E destinata a finir male. Perché mentre noi ci gingilliamo tra social, true crime, aperitivi e centri estetici (ma quanti sono?!), c’è chi tira dritto col suo progetto. Fare di noi un gregge di pecore ignoranti, e portarlo dove vuole. Se la rimozione dai social diventa censura di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi La Repubblica, 27 luglio 2025 Un profilo Facebook può essere rimosso, in modo provvisorio o permanente, generalmente in tre modi: dal proprietario del profilo stesso, dall’Autorità Giudiziaria e da Meta. È a proposito di quest’ultima ipotesi che si è detto e scritto molto. Si sa, infatti, che Facebook ha la facoltà di rimuovere un account quando si viola la policy (per esempio pubblicando post violenti o che incitano all’odio) e quando vengono violati gli standard della community (utilizzando falsi profili, nomi fittizi o pubblicando dello spam). A fronte di una chiarezza apparente dei criteri con cui queste cancellazioni vengono effettuate, persiste una poca trasparenza circa i meccanismi interni di valutazione: chi o cosa opera quella scelta, sulla base di quali segnalazioni, con quali criteri e con quali ripercussioni. Era il 2016 quando a Michele Rech, Zerocalcare, fu rimosso l’account fb a causa di un post sulla commemorazione di Carlo Giuliani. Il vignettista, infatti, pubblicò la locandina di un’iniziativa e sotto al post, in poco tempo, comparvero centinaia di commenti d’odio e insulti. Fb rimosse il post definitivamente e, per un periodo, rimosse anche il profilo privato e quello pubblico di Zerocalcare. Ripristinato il profilo, l’episodio fu considerato a tutti gli effetti un “linciaggio virtuale” organizzato, si disse, da account di estrema destra. In un articolo pubblicato da Lucy sulla Cultura lo scorso gennaio, Paolo Ruta racconta la sua esperienza di moderatore dei contenuti della piattaforma Meta. Lui e i colleghi (oltre a un articolato sistema di algoritmi) ogni giorno dovevano valutare quali contenuti potessero essere pubblicati e quali, invece, violavano gli standard della piattaforma. Ruta fornisce un’analisi critica dell’intero processo decisionale, sottolineando anche l’impatto emotivamente devastante prodotto dall’esposizione quotidiana a contenuti violenti. Le linee guida fornite ai moderatori, scrive Ruta, in un primo momento erano abbastanza generiche, tanto da rendere impossibile l’interpretazione della complessità di post, immagini e commenti. Poi, negli anni, il sistema di moderazione è migliorato tanto da “ridurre il margine di errore al 2%”. Ciò, chiosa Ruta, non ha reso Facebook un posto sicuro. Negli ultimi anni Meta ha progressivamente ridotto il lavoro umano, delegando alle macchine il processo di moderazione e, quindi, di selezione di profili e contenuti sulla base delle segnalazioni. Per dimostrare la propria trasparenza, Meta ha poi istituito un organismo definito indipendente, l’Oversight Board, che ha il compito di monitorare ulteriormente la selezione dei post in base alla policy dell’azienda. Detto ciò, come giustamente fa notare Ruta, l’indipendenza dell’organismo è poco credibile, dal momento che a finanziarlo è Meta stesso. Come si è visto nel caso di Zerocalcare, per quanto astratte e lontane sembrino queste dinamiche, esse hanno dirette conseguenze nella vita - non solo virtuale - delle persone e, soprattutto, sul loro lavoro. Un caso recente che, a nostro parere, solleva forti perplessità è quello riguardante Damiano Aliprandi: giornalista del Dubbio, punto di riferimento per chiunque si avvicini al mondo del carcere, Aliprandi ha scritto molto anche sul periodo della “mafia stragista”. Importanti le sue inchieste sulla criminalità organizzata, sul falso pentito dell’indagine relativa all’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta e sul lavoro delle relative commissioni parlamentari. Recentemente, il suo nome è apparso in un servizio di Report in cui venivano pubblicate delle intercettazioni della Procura di Firenze nell’ambito di un’indagine sul generale Mario Mori. Report ha fatto riferimento a delle fonti anonime che avrebbero lasciato intendere come Mori volesse pilotare le nomine della Commissione antimafia nominando dei consulenti a lui graditi, citando tra questi anche lo stesso Aliprandi. Il servizio è stato oggetto di numerose critiche, poiché considerato sensazionalistico e tendenzioso, oltre che potenzialmente pericoloso per l’incolumità delle persone superficialmente citate. Cosa c’entra questo con la rimozione sistematica dell’account di Aliprandi è difficile dire, ma è evidente che al centro della censura ci sia il suo lavoro, dal momento che l’uso delle pagine social da parte dell’interessato è esclusivamente professionale. Per tre volte il suo profilo è stato segnalato, tanto da portare alla rimozione definitiva di un account su cui Aliprandi da anni aveva pubblicato e condiviso materiale. L’unico modo per tornare sulla piattaforma è stato creare un profilo ex-novo, anche quello puntualmente segnalato. Sentenze (e leggi) sull’eutanasia di Niccolo Nisivoccia Corriere della Sera, 27 luglio 2025 La legge in discussione in Parlamento dovrebbe fornire ora al suicidio assistito, per la prima volta in Italia, una disciplina organica e completa. La sentenza della Corte anticipata venerdì interviene nuovamente sulla materia del fine vita, dopo le sentenze del 2019 e del 2024: ma quelle sentenze riguardavano la fattispecie del suicidio assistito, mentre la sentenza annunciata venerdì riguarda l’omicidio del consenziente, e cioè l’eutanasia. Nelle sentenze precedenti la Corte aveva stabilito il principio secondo cui l’agevolazione del suicidio nel nostro ordinamento non è possibile per regola generale, e tuttavia a certe condizioni può diventare lecita; ed è proprio nel rispetto di questo principio che la legge in discussione in Parlamento dovrebbe fornire ora al suicidio assistito, per la prima volta in Italia, una disciplina organica. Ma la legge in discussione parla solo di suicidio assistito, e non anche di eutanasia; né sull’eutanasia si era ancora mai espressa la Corte. Lo ha fatto, appunto, nella sentenza anticipata l’altro giorno, in relazione al caso di una persona che, pur trovandosi nelle condizioni che legittimerebbero il suicidio assistito, “versa tuttavia nell’impossibilità di procedere all’autosomministrazione del farmaco letale, in quanto priva dell’uso degli arti (…) e non essendo reperibile sul mercato la necessaria strumentazione all’attuazione autonoma del suicidio assistito”. La Corte ha dichiarato la questione inammissibile: e questa decisione è stata subito interpretata perlopiù come negazione di un diritto all’eutanasia, soprattutto da coloro che all’eutanasia sono contrari. Ma a ben vedere è un’interpretazione solo strumentale, perché in realtà la richiesta dell’affermazione di un diritto all’eutanasia non sembra essere stata respinta in quanto infondata nel merito, bensì in quanto inammissibile per ragioni processuali. E semmai quello che la Corte ha ritenuto di aggiungere, nel merito, è che alla persona che si trovi nelle condizioni che legittimano il suicidio assistito va comunque attribuito il “diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale”. La questione, insomma, rimane identica a quella che era: il punto rimane sempre quello del mistero che ognuno di noi rappresenta per sé stesso, prima ancora che per gli altri. Attraverso le sentenze sul suicidio assistito (ivi compresa quella anticipata venerdì, nella parte relativa al dovere di accompagnamento del Servizio sanitario nazionale) la Corte ha voluto affermare la necessità, da parte della legge, di riconoscere e proteggere questo mistero, piuttosto che pretendere di scardinarlo autoritativamente: e la medesima necessità non potrebbe essere affermata anche in relazione all’eutanasia? Certo, la legge dovrebbe sempre pronunciare parole che ascoltano e si aprono, ma dovrebbe farlo a maggior ragione davanti al mistero della vita e della morte: e non sarebbe comunque giusto che il Parlamento recepisse parole simili anche in relazione all’eutanasia, fornendo all’intera materia del fine vita una disciplina organica una volta per tutte? Il fine vita e la politica che pretende obbedienza di Andrea Malaguti La Stampa, 27 luglio 2025 È come se Laura Santi ci avesse riportati sulla terra, risvegliandoci da una specie d’ipnosi collettiva. Come se in questo mondo sconvolto dalla violenza di massa, con la sua morte - la scelta di nuotare fuori dalla vita - Laura avesse rimesso al centro l’essere umano e il suo senso, restituendone la drammatica bellezza. Andate a riprendere il pezzo straordinario scritto per La Stampa da Francesca Mannocchi mercoledì scorso. È una di quelle letture che hanno la forza di cambiare il nostro rapporto con la realtà. Di migliorarlo. Asciutto, intenso, straziante, pulito. Racconta di Laura, 50 anni, giornalista, malata di sclerosi multipla. Sua amica. Del suo amore intenso per la vita. Della sua curiosità. Di una mente rapida, che conosce la meraviglia e il dolore. Di un corpo che la tradisce. Che le dice “basta, pensa quello che vuoi, ma io qui non ci voglio più stare”. Di notti che sono inferni. Di crisi epilettiche, spasmi, movimenti inconsulti, piaghe, ferite. In una progressione inarrestabile e, soprattutto, irreversibile. Della sua battaglia per decidere da sola quando andarsene. Un diritto che qualunque essere vivente, che non sia malato, ha nei fatti. Chi è malato no. Pensavo ingenuamente che la sua testimonianza e il racconto di Francesca Mannocchi avrebbero dato la spinta definitiva alla legge, eternamente attesa, sul fine vita. Usciamo dalla preistoria, come abbiamo fatto con il divorzio e con l’aborto mezzo secolo fa. Che ci serve di più? Che cosa c’è oltre questa testimonianza che si aggiunge a migliaia di altre testimonianze? Di quali altre parole abbiamo bisogno? Tanto più che, come rivelano con chiarezza i sondaggi di Alessandra Ghisleri, il 75% degli italiani invoca il diritto all’autodeterminazione per la propria uscita di scena. Per la società civile non è più un dibattito. Per la politica incivile lo è ancora. La dittatura di una sensibilità ultra-minoritaria che ha presa sui Palazzi. Nella foga tanto legittima quanto discutibile di riformare la giustizia alla radice, separando le carriere di giudici e pubblici ministeri e di ridefinire i compiti del Consiglio superiore della magistratura - come se fossimo sotto il giogo di una dittatura cilena - la maggioranza rinvia a settembre (e probabilmente a mai) le decisioni su chi è prigioniero del proprio corpo e del proprio dolore. Lasciando ancora una volta allo Stato la titolarità sulle nostre scelte definitive. È la fotografia di una sconfitta. Le priorità sono chiare. Più importante difendere i colletti bianchi che i colletti di tutti. Più rilevante lo scontro sulle presunte Toghe Rosse (che da Milano alle Marche hanno evidentemente lasciato spazio alle Toghe Blu) che sulla sofferenza intollerabile di chi viene divorato e soffocato dai propri muscoli e dalle proprie cellule fuori controllo. Impossibile non notare la storica difficoltà delle destre sui temi etici, la radicale incapacità riformista. Persino l’ala liberale del mondo berlusconiano fece le barricate sul caso di Eluana Englaro, costretta a un limbo vegetativo per diciassette anni e umiliata con frasi assurde del tipo: “La vogliono assassinare. La ragazza ha un bell’aspetto e ha funzioni attive come il ciclo mestruale”. Era il 2009. Da allora qualcosa è cambiato. Ma è un cammino lentissimo. “Solo per la politica il fine vita è ancora un tabù. Per la gente comune, le persone come noi, non lo è di sicuro. Al contrario. Vogliamo avere voce in capitolo. Se ci fosse un referendum avremmo una risposta inequivocabile”. Mi sono attaccato al telefono e ho chiamato Vito Mancuso, teologo, intellettuale, scrittore, ma soprattutto pensatore libero e nostro editorialista. Volevo sapere che cosa ne pensa lui di questa enormità preistorica dalla quale chi guida l’Italia sembra non volerci liberare. “Il no al fine vita, i continui rinvii, sono l’ultima roccaforte di quella tendenza premoderna che pretende di governare la vita dei singoli. Lo specchio di una mentalità per cui la parola decisiva non è libertà, ovvero autodeterminazione, ma ordine, ovvero obbedienza”. Una tendenza mondiale, a guardarci bene. Perché succede in Italia? Per un riflesso automatico. La volontà di conformarsi alla visione ufficiale della Chiesa. “Non sono un politologo. Non ho una risposta precisa. Ma suppongo che anche il fine vita faccia parte del pacchetto “tradizione, Dio, Patria e Famiglia” delle destre. Valori che si immaginano di difendere anche se non corrispondono più alla propria sensibilità. Un po’ quello che succede con i family-day. Grandi proclami. Ma poi, se vai a vedere le vite private, fatichi a trovare una forma di coerenza”. Un doppio registro che in queste ore impressiona ancora di più. Da una parte i pronunciamenti solenni e drammatici che si ripetono ogni volta che si alza la posta per la giustizia che insidia il Potere, dall’altra il silenzio imbarazzato su un tema universale come il fine vita. Come se il governo ci avesse rinunciato. Come se questa destra orgogliosamente muscolare non avesse la forza di infastidire quelle micro-categorie che sostenevano Fratelli d’Italia quando era al 4%. I Pro-Vita, i No-Vax, i balneari, i taxisti. Come se non ci fosse il coraggio di un’azione più alta. Ecumenica, verrebbe da dire, se la parola non evocasse nuovamente il legame con il Vaticano. E se con Papa Francesco ci si poteva aspettare che prima o poi dicesse: “Siete liberi, chi sono io per giudicare?”, con Leone XIV è improbabile che questo stesso spazio sia disponibile. Un vicolo cieco? La scelta di Laura Santi dice di no. “La morte è solo l’ultima pagina del nostro libro e Laura Santi è riuscita a immaginarla usando la stessa calligrafia con cui ha definito ogni giorno della sua vita. È stata coraggiosa e coerente. E in qualche modo, nella sofferenza della sua malattia, anche fortunata. Non tutti in Italia possono ancora scrivere il proprio finale”, dice Mancuso. A che cosa serve la politica, se non a dare un segno di vicinanza ai cittadini, a risolvere le questioni che agitano i loro sonni e condizionano le loro vite? Perché è più facile ridefinire i compiti del Consiglio superiore della magistratura che dire a chi sta male: “Sono al tuo fianco”. Nelle ore in cui i giudici studiano le carte sui grattacieli di Milano mi è tornata in mente una frase dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer applicabile a qualunque scelta di governo: “L’architettura è solo un pretesto. L’importante è la vita, importante è l’uomo, questo strano animale che possiede anima e sentimento e fame di giustizia e bellezza”. Non molto diverso dall’ultima richiesta di Laura Santi: “Mi vedete? Mi comprendete? Mi lasciate decidere?”. Migranti. I Radicali Blengino e Piscolla allontanati dall’hotspot di Lampedusa: “Che nascondono?” La Repubblica, 27 luglio 2025 Per i due esponenti nazionali del partito è la prova che lo Stato ha qualcosa da non fare vedere: “Da settimane chiediamo formalmente di entrare, come già facciamo regolarmente nelle carceri italiane, ma il ministero dell’Interno e la prefettura hanno scelto la via del silenzio e dell’opacità”. Poi, dopo un giorno, il via libera all’ingresso. “Nonostante il silenzio e il diniego del ministero dell’Interno” Matteo Piantedosi, ieri sera il segretario di Radicali Italiani Filippo Blengino e Bianca Piscolla, membro della Giunta nazionale, si “sono recati comunque all’hotspot di Lampedusa per tentare di verificare, almeno dall’esterno, le condizioni in cui vengono trattenute le persone migranti”, ma “una volta giunti nei pressi delle recinzioni, in un’area pubblica e priva di divieti, sono stati fermati e allontanati dall’esercito”. E’ quanto si legge in una nota dei Radicali Italiani. “Da settimane chiediamo formalmente di entrare nell’hotspot, come già facciamo regolarmente nelle carceri italiane - dichiara Blengino - ma il ministero dell’Interno e la Prefettura hanno scelto la via del silenzio e dell’opacità. Così abbiamo deciso di andare lo stesso: ci siamo avvicinati alle recinzioni per ascoltare direttamente chi vive dietro quel filo spinato. Volevamo solo vedere, sentire, testimoniare. L’intervento immediato dell’esercito, che ci ha identificati e allontanati, è la prova che lo Stato ha qualcosa da nascondere”. “Abbiamo rispettato la legge e ci siamo allontanati - conclude Blengino - ma chi continua a violarla è lo Stato stesso, che da anni sospende diritti e legalità nei Cpr e negli hotspot. Si recludono persone che non hanno commesso alcun reato, in condizioni disumane, nel silenzio e nell’ombra, per paura di perdere consenso. Nel Paese dei Cpr, chi chiede trasparenza viene trattato da sovversivo”. Solamente dopo diverse ore e dopo il clamore mediatico suscitato è arrivato il via libera alla visita. “Dopo giorni di silenzio e opacità - dichiara Filippo Blengino - solo oggi, poche ore dopo la nostra visita all’esterno dell’hotspot di Lampedusa e il clamore seguito al nostro allontanamento da parte dell’Esercito, la Prefettura ci ha autorizzati a entrare. Una decisione che sa di beffa: non risponde alla nostra istanza formale, ma al rumore sollevato da articoli, immagini e indignazione pubblica. È bastato avvicinarci per essere trattati come una minaccia. Come se volere vedere fosse già un reato. Nei prossimi giorni entreremo nell’hotspot e continueremo a denunciare ciò che da anni si vuole nascondere: violazioni sistematiche dei diritti umani in luoghi che somigliano sempre più a zone franche di legalità”. Volontariato o spettacolo dell’ego? di Diego Battistessa* Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2025 Attenti al boom estivo dei giovani che vanno a “fare del bene”. Non basta “la buona volontà”: servono competenze specifiche, formazione settoriale, etica della cura e capacità di analisi critica. La professionalizzazione non è in contraddizione con l’impegno solidale: al contrario, è ciò che permette di moltiplicare l’impatto ed evitare danni involontari. In un’epoca segnata da crisi globali, tagli alla cooperazione e derive populiste, la solidarietà internazionale dovrebbe essere più urgente, più radicale e più trasformativa che mai. Eppure, molte iniziative di volontariato sembrano oggi allontanarsi da questi ideali. Al contrario: sempre più spesso si trasformano in palcoscenici dove a dominare non è la giustizia sociale, ma l’ego del volontario. Tra white saviourism, volunturismo e capitalismo emozionale, il volontariato rischia di diventare uno spettacolo narcisista, più attento alla narrazione del “io ho aiutato” che all’impatto reale sulle comunità coinvolte. Il medico e cooperante Iñaki Alegría, su El País nel luglio 2025 nell’articolo “El negocio de sentirse bien en verano”, spiega come si stia assistendo a un vero e proprio boom del volontariato estivo, spesso senza alcuna formazione adeguata, soprattutto in ambito medico. Giovani provenienti dal Nord globale si recano in Paesi impoveriti per “fare del bene”, con risultati talvolta disastrosi: sistemi sanitari locali interferiti, comunità trattate come oggetti esotici da fotografare, bambini trasformati in protagonisti inconsapevoli di contenuti social destinati al consumo online. A rafforzare questa critica, la giornalista Martina Merlino, sempre su El País nel 2021, già metteva a fuoco un’altra dimensione: quella delle narrazioni. Nell’articolo “¿Por qué los blancos siempre tienen que ser los protagonistas de la historia?”, Merlino denunciava come la comunicazione umanitaria mainstream insista nel rappresentare l’operatore bianco come eroe, mentre le persone locali vengono sistematicamente marginalizzate, ridotte a comparse passive. Una narrazione tossica che perpetua gerarchie coloniali e rafforza un’idea di superiorità culturale mai davvero decostruita. Il problema non è nuovo. Già nel 2018, il giornalista Martín Caparrós parlava di volunturismo come “turismo emozionale” che muove milioni di euro, in cui l’obiettivo non è il cambiamento sistemico, ma la costruzione di una biografia personale “impegnata” da esibire sui social e nei colloqui di lavoro. Una logica che riduce la solidarietà a consumo, le comunità a scenario, e la giustizia a sentimento individuale. Tuttavia, la trasformazione è possibile. Lo dimostrano realtà che stanno costruendo modelli nuovi, decoloniali, partecipativi e femministi. Tra queste, spicca Acápacá, piattaforma latinoamericana che lavora per la trasformazione delle pratiche di cooperazione internazionale. Attraverso ricerca, formazione, e il Foro Permanente Latinoamericano para la Decolonización de la Cooperación, Acápacá promuove un approccio basato su giustizia, corresponsabilità e riconoscimento dei saperi e delle leadership locali. Niente più “aiutare gli altri”: si tratta piuttosto di costruire insieme, in ascolto reciproco, rompendo le asimmetrie storiche. Un altro esempio virtuoso viene dalla Norvegia, con la famosa campagna Radi-Aid dell’ong SAIH. Il loro video virale “African for Norway”, in cui giovani africani mandano aiuti invernali ai poveri norvegesi “che soffrono per il freddo”, capovolge i ruoli e svela l’assurdità delle narrazioni salvifiche occidentali. Ironico, potente, educativo. Un invito a ridefinire i codici della comunicazione, per raccontare la cooperazione non come missione individuale, ma come relazione orizzontale. Ma come si costruisce, allora, un volontariato decoloniale? La chiave sta, innanzitutto, nello spostare il centro. Non siamo noi i protagonisti. Il volontariato non è un atto di eroismo, ma un processo collettivo di apprendimento, di accompagnamento, di costruzione di legami. Richiede formazione reale, conoscenza dei contesti, capacità di lavorare in équipe con attori locali. Soprattutto nei contesti fragili o complessi - come quelli segnati da povertà strutturale, conflitti o esclusione storica - improvvisarsi è pericoloso. Non basta “la buona volontà”: servono competenze specifiche, formazione settoriale, etica della cura e capacità di analisi critica. La professionalizzazione non è in contraddizione con l’impegno solidale: al contrario, è ciò che permette di moltiplicare l’impatto ed evitare danni involontari. E poi, è davvero necessario viaggiare per migliaia di chilometri per “fare la differenza”? In molti casi, no. Ciò che spesso viene ignorato - anche perché meno “instagrammabile” - è che la solidarietà comincia da vicino. Nei quartieri delle nostre città, nelle campagne italiane, nei piccoli centri urbani, esistono decine di iniziative che lavorano quotidianamente per l’inclusione, la giustizia sociale, il sostegno ai più vulnerabili. Progetti di mutuo appoggio, supporto alle persone migranti, cura delle persone anziane, educazione popolare, lotta alla povertà. Serve quindi ripensare anche il dove e il perché del nostro impegno perché la vera trasformazione può non aver bisogno di migliaia di chilometri, né di applausi digitali, ma di tempo, di relazioni, di ascolto. Perché in fondo, la vera solidarietà non nasce dal bisogno di sentirsi buoni, ma dalla volontà di mettere in discussione il proprio privilegio, fare spazio, accompagnare senza invadere. È una pratica esigente, ma profondamente necessaria, in un mondo che ha bisogno di relazioni nuove, non di vecchie carità in abiti moderni. Se vogliamo che il volontariato sia davvero una leva di cambiamento - e non l’ennesima espressione del capitalismo dell’ego - è tempo di rivedere linguaggi, posture, intenzioni. Ripartendo non da chi “aiuta”, ma da chi ogni giorno, anche vicino a noi, costruisce giustizia, dignità e comunità. *Latinoamericanista, reporter, analista politico Gaza e Ucraina, i due pesi e le due misure dell’Occidente di Nathalie Tocci La Stampa, 27 luglio 2025 È tardi, troppo tardi, per parlare di “catastrofe umanitaria”, di “indicibile e indifendibile sofferenza e carestia”, di “scene grottesche di bambini presi di mira” e dell’”inaccettabilità” dei “troppi morti civili” a Gaza. Sono giuste le critiche dell’Alto rappresentante dell’Ue Kaja Kallas e del primo ministro britannico Keir Starmer, giusto il “disgusto” del ministro degli Esteri britannico David Lammy, condivisibile l’appello del presidente francese Emmanuel Macron affinché la guerra cessi immediatamente e i civili vengano salvati. O meglio, le loro parole sarebbero state giuste se pronunciate un anno e mezzo fa. Oggi non più. Il tempo delle critiche è passato. Ed è passato il tempo di azioni giuste, ma meramente simboliche, come il riconoscimento dello Stato palestinese. È passato il tempo degli aggettivi, anche i più forti, delle descrizioni ambigue riguardo ciò che sta accadendo. Ci sono parole chiare, con definizioni e implicazioni giuridiche nette, per dare un nome a ciò che Israele sta commettendo nella Striscia di Gaza. Si chiamano crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La Corte internazionale di giustizia, già nel dicembre 2023, aveva affermato che esisteva il rischio plausibile di genocidio a Gaza. Non è facile dimostrare un genocidio. Non “bastano” le morti, anche se molte. Serve dimostrare l’intento dietro quelle uccisioni, ossia quello di distruggere, in tutto o in parte, una nazione, un’etnia o gruppo razziale o religioso. Purtroppo nel caso della guerra a Gaza, l’intento di Israele non è difficile da dimostrare. Sin dall’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, esponenti del governo israeliano, tuttora in carica, non hanno lesinato dichiarazioni e nascosto documenti che sottolineano l’intento. È per questo che la Corte ha reputato plausibile il crimine di genocidio. Plausibile sì; non certo. Perché quell’intento non solo deve essere dimostrato ma deve anche essere dimostrabilmente eseguito. E questo può richiedere del tempo. Con ogni giorno che passa quel tempo scorre, e col suo scorrere, la plausibilità di quell’accusa diventa più concreta. Ed è per questo che, come spiega uno dei più grandi studiosi di genocidio, l’israeliano Omer Bartov, esiste un consenso crescente tra gli esperti della materia che ciò che sta accadendo a Gaza è proprio un genocidio. Ripeto, spetterà alla Corte, e solo alla Corte, pronunciarsi in modo definitivo sulla questione. Ma è finito il tempo in cui si può far finta di niente. Questo pone due domande, tragiche ed esistenziali. Anzitutto, com’è possibile che la vittima del più grande genocidio di tutti i tempi, ossia l’Olocausto, si sia trasformata in carnefice, possibilmente colpevole dello stesso crimine? Possiamo accusare il governo israeliano, ridurre tutto alle colpe del primo ministro Benjamin Netanyahu e dei ministri estremisti del suo governo. Ma non sarebbe onesto. L’autorevole sondaggista israeliana Dahlia Scheindlin spiega bene come la società israeliana, che di certo non vive sotto una dittatura come quella russa, cinese o nordcoreana, ha piena libertà di vedere e sentire ciò che tutti noi vediamo e sentiamo su Gaza. Per quanto la stampa internazionale non possa accedere liberamente alla Striscia, video, immagini e storie dei gazawi uccisi, mutilati, affamati e denutriti sono ampiamente disponibili sui nostri schermi. Come lo sono sugli schermi degli israeliani. Che scelgono di non vedere, di non sentire, di non credere. Come è possibile che tutto ciò stia avvenendo? Di risposte possibili, di orientamento diverso, ce ne sono. C’è chi parla del trauma alla radice dello Stato di Israele - l’Olocausto e l’antisemitismo -, che ne anima l’esistenza e la legittimazione. Quel trauma riportato a galla dal 7 ottobre, come se non esistesse né un prima né un dopo, alimentato quotidianamente dallo Stato e dai media con storie e immagini, e dalla sorte degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas, mentre tutto il resto, a partire da Gaza, scompare. C’è chi, invece, attribuisce ciò che sta accadendo al logoramento della democrazia israeliana, causata dall’effetto tossico di un’occupazione che prosegue dal 1967. Le spiegazioni logiche esistono, tuttavia appaiono inadeguate o insufficienti a racchiudere l’enormità di ciò che sta avvenendo. C’è poi la seconda domanda, che riguarda noi, italiani, europei, occidentali e membri della comunità internazionale. Perché due pesi e due misure nelle guerre in Ucraina e a Gaza? Perché solo ora le critiche che lentamente diventano più forti, perché solo adesso gli appelli concertati all’accesso umanitario, come quello dei 28 Stati firmatari, Italia inclusa? E soprattutto, perché ancora oggi l’ostinato rifiuto di considerare sanzioni economiche o embarghi militari, o anche solo di procedere con la sospensione del trattamento commerciale preferenziale di Israele da parte dell’Ue? Per distrazione? Per interesse? Per razzismo? Anche qui, c’è forse un briciolo di verità in ciascuna di queste spiegazioni, eppure la nostra passività rimane sconcertante. Mi chiedo come giudicheremo in futuro questo momento storico, come racconteremo il nostro silenzio e la nostra complicità ai nostri figli. E non ho risposta, solo vergogna. Bufera sul no di Palazzo Chigi al riconoscimento della Palestina. Ma la maggioranza è compatta di Miriam Di Peri La Repubblica, 27 luglio 2025 Salvini concorda con le parole della premier a Repubblica: un favore ad Hamas. Insorge l’opposizione. Conte a FdI: non voltate lo sguardo. “Gravi e inaccettabili” per il centrosinistra, “concrete e senza speculazioni” per il centrodestra. Le parole di Giorgia Meloni a Repubblica sul riconoscimento dello stato della Palestina hanno sollevato un vespaio e riacceso il dibattito attorno alla posizione dell’Italia rispetto al massacro in corso a Gaza. La premier ha preso le distanze dalla posizione di Emmanuel Macron, pronto a riconoscere lo stato di Palestina: “Io credo che il suo riconoscimento, senza che ci sia uno Stato della Palestina, possa addirittura essere controproducente per l’obiettivo”. Una linea condivisa anche con Matteo Salvini, secondo cui un riconoscimento adesso “sarebbe un regalo ad Hamas”. Ma a insorgere è il centrosinistra: per la capogruppo del Pd alla Camera, Chiara Braga, si tratta di una posizione che “isola l’Italia in Europa e l’avvicina alla peggiore America di sempre, quella di Trump”. Braga punta il dito sulla maggioranza, “dove sono note le simpatie per Netanyahu”. Insomma, a fronte delle immagini che arrivano dalla Striscia e contro cui il Paese reale si mobilita invocando il cessate il fuoco, per l’esponente dem quella di Meloni è “una politica estera di piccolo cabotaggio, mentre a Gaza si continua a morire senza che la premier abbia mosso un dito”. Sulla stessa linea il co-portavoce di Avs, Angelo Bonelli, che interviene dalla conferenza di Londra per l’alleanza globale per la Palestina: “Dire che “non è il momento” e che sarebbe “controproducente”, mentre a Gaza si continua a morire di fame e sotto le bombe, è il segno di una totale subalternità politica e morale al carnefice Netanyahu e alla destra israeliana”. Per Riccardo Magi, segretario di +Europa, si tratta di un atto di “miopia politica”. Ma il botta e risposta più duro è tra il leader 5S, Giuseppe Conte, e i vertici di FdI. Per l’ex premier, Meloni “si è tolta la maschera e ha detto che i palestinesi ad oggi non hanno diritto al riconoscimento di un proprio Stato”. Per Conte si tratta di una “tesi miserevole che ignora il sistematico piano di sterminio e deportazione con cui il governo israeliano sabota soluzioni che muovono verso il principio dei due popoli-due Stati. La giustificazione codarda di chi chiude gli occhi davanti alle violente espansioni dei coloni ebrei in Cisgiordania, patrocinate dall’esercito israeliano nel silenzio della comunità internazionale. Un atto di sudditanza - l’ennesimo - verso il criminale di guerra Netanyahu”. In uno dei suoi post Conte allega l’immagine di un bambino palestinese visibilmente denutrito. Così, mentre dai canali social di FdI parte l’accusa di sciacallaggio, è il responsabile organizzazione di via della Scrofa, Giovanni Donzelli, a raccontare la storia del bambino, mostrando un’immagine che lo ritrae in salute: “Tutti a gridare che Meloni è vigliacca su Gaza utilizzando la foto di questo bambino. Ma Osama Al-Raqab, malato di fibrosi cistica, ora sta bene. Sapete dove è adesso - conclude - curato e coccolato? Nella nostra Italia”. Gaza, parole a perdere davanti all’abominio di Paolo Giordano Corriere della Sera, 27 luglio 2025 Anche tentare una descrizione è strano, riduttivo. Perché siamo oltre la possibilità di rappresentazione, fuori dalla portata massima delle parole. Arrivati a questo punto dovremmo avere il coraggio di lasciarci sopraffare. Smettere di difenderci, almeno individualmente, dall’abominio storico di una popolazione senza vie di scampo, che non sopravvive più fra le macerie dei bombardamenti, senza cibo né requisiti minimi di dignità. Anche tentare questa descrizione di Gaza è strano, riduttivo. Perché siamo oltre la possibilità di rappresentazione, fuori dalla portata massima delle parole. Nelle ultime settimane perfino gli operatori delle Ong che lavorano nella Striscia, quei pochi, sembrano ormai a corto di frasi. Spesso non lanciano più allarmi. Ricorrono a espressioni iperboliche invece, “mai visto prima”, “senza precedenti”, “oltre”. Come se il trauma e la spossatezza li avessero ammutoliti o non trovassero termini di paragone adeguati nell’immaginario comune. Legami possibili con la nostra quotidianità. Noi, da qui, pensiamo a loro lì, alla popolazione palestinese intrappolata, e non ci siamo mai sentiti a tal punto irrilevanti. Cosa ci farà questo nel lungo termine, cosa farà alla nostra civiltà e in particolare alle nuove generazioni, è tutto da scoprire. Molte persone che conosco, anche colleghe e colleghi, invitano ad alzare la voce su Gaza, a “farsi sentire”. Non è che non stia accadendo e non è che non sia accaduto. Ma andrebbe guardato con altrettanta fermezza il bilancio, fino a qui, dell’essersi “fatti sentire”. Il modo in cui il dissenso ha prodotto effetti reali o, al contrario, è stato riassorbito a ogni passo. Prima e durante le elezioni, ad esempio, c’erano i disordini nei campus americani e in misura ridotta nelle nostre università. Sono stati energici e hanno creato quel minimo d’instabilità utile a livello internazionale. Ma sono anche stati, già mentre si svolgevano, un esempio di come ogni mobilitazione su Gaza lontano da Gaza venisse istantaneamente ridotta a simulacro. Trasformata dalla politica e dai media nell’oggetto stesso della controversia. Sganciata da ciò che denunciava e quindi, in definitiva, disinnescata. È successo in seguito con la nave di Greta Thunberg, con i manifestanti al valico di Rafah eccetera. Purtroppo la “cosa in sé” è da tempo inguardabile. E la monotonia tragica dei filmati che ci raggiungono dalla Striscia rende necessario variare di continuo il dibattito, spostandolo ora su una polemica accessoria ora su un’altra. L’occupazione militare israeliana si è accompagnata dal principio alla neutralizzazione di ogni dissenso. Le critiche sono state fatte apparire oziose, se non addirittura sospette. Tanto, nella vera Gaza, non poteva e non può metterci piede nessuno. C’è dell’altro. Osservando come si è evoluta la mobilitazione per la Palestina in ventidue mesi, in Europa e negli Stati Uniti, si ha l’impressione di una consequenzialità recisa fra il sentimento collettivo e l’iniziativa politica. Neppure la decisione improvvisa di Macron di riconoscere lo stato palestinese appare legata a un intensificarsi della pressione popolare sul tema. Ha il merito di essere quanto meno un’azione, l’attestazione da parte di un capo di stato della sofferenza che viene prodotta anche in questo preciso momento e che in questo preciso momento andrebbe fermata. Ma sembra provenire da una misura colma interiore, personale, tutta sua. Altrettanto personali, per non dire capricciose, sono le esternazioni di Trump (anche sull’Ucraina se è per questo). Mentre da noi non si registra da parte del governo nessuna necessità anche solo di accogliere lo sgomento diffuso su Gaza, nessuna proporzionalità nei toni, nessuna misurazione recente del polso dell’elettorato. Sebbene il polso, con una carestia indotta che fa da sottofondo alla nostra estate, sia decisamente cambiato. La crisi profonda non è solo della rappresentazione, quindi, ma anche della rappresentatività. Il potere esecutivo - in questo tempo di invasioni senza fine, di occupazioni sfrenate, di fame e sete usate come armi in sfregio a ogni regola - è diventato lontano e incomprensibile. Anzi, non sembra più riconoscere fra i suoi obblighi impliciti quello di essere prossimo e compreso. E così, davanti all’eccidio, noi restiamo non solo privi di parole ma anche di chi dovrebbe averle per noi.