Questo Piano carceri metterà davvero fine all’emergenza? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 luglio 2025 Da una parte c’è esultanza per l’assegnazione dei 700 milioni di euro al piano carceri, qualche osservatore guarda con attenzione neutra ai tempi previsti per i cantieri, ma non mancano gli interventi argomentati che mettono nel mirino scelte e omissioni del governo. Il punto di partenza è noto: con quasi 16.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, il sistema penitenziario italiano vive da anni in condizione di emergenza sovraffollamento. Il piano approvato dal Consiglio dei ministri promette meno di 10.000 nuovi posti entro il 2027, a fronte di un investimento superiore ai 700 milioni di euro. Un’impresa che, anche se cantierata senza ritardi, non basterebbe a riportare l’universo carcerario a dimensioni sostenibili. “Non c’è nulla di immediata applicazione, nessuna misura deflattiva mirata al sovraffollamento”, denuncia Samuele Ciambriello, Garante campano e portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali. Ciambriello sottolinea che i nuovi disegni di legge non soltanto non risolvono il problema, ma si scontrano con il Decreto Carceri del 7 agosto 2024, che ha inasprito le condizioni per la liberazione anticipata. Il risultato? Lo Stato ignora il dettato costituzionale e l’emergenza resta congelata. L’appello di Ciambriello tocca più punti. Primo: i 10.000 detenuti con meno di un anno di pena residua vengono ancora rimandati alla discrezionalità dei magistrati, senza automatismi di scarcerazione. Secondo: sul fronte edilizio si annunciano nuove carceri e moduli prefabbricati, ma si ignora del tutto il sotto organico di agenti di polizia penitenziaria, psicologi, psichiatri ed educatori. Terzo: il trasferimento in comunità terapeutiche per tossicodipendenti - previsto già lo scorso agosto - è rimasto sulla carta per mancanza di fondi e atti esecutivi. “Il governo cala il silenziatore e prosegue nella deriva panpenalista”, conclude Ciambriello, esortando la politica a non negare il carcere ma a fermare “la strage di vite e di diritti” dietro le sbarre. Anche Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, contesta la dipendenza esclusiva dalle soluzioni edilizie. Negli ultimi tre anni i detenuti sono aumentati di 5.000 unità e, mantenendo lo stesso ritmo, nel 2027 mancheranno altri 10.000 posti. Per recuperarne una parte, il governo propone la vendita di strutture storiche - “valorizzazione” per Roma, elegante eufemismo per “speculazione” - e l’uso di container come alloggi, soluzioni adatte a emergenze temporanee, non a chi vi resterà a lungo. Gonnella riprende un’osservazione già avanzata da Ciambriello: non è prevista alcuna misura per potenziare le risorse umane necessarie al funzionamento delle nuove strutture. Mancano direttori, educatori, medici, mediatori culturali e personale amministrativo. Senza queste figure, ogni nuovo blocco carcere rischia di restare un guscio vuoto: detenuti con pochissimi agenti di custodia, uno psicologo disposto ad ascoltarli, un educatore che li aiuti nel reinserimento. Il piano contempla poi altri posti grazie alla detenzione differenziata per tossicodipendenti e alcolisti, ma non introduce automatismi e lascia troppa discrezionalità ai giudici. Un’opportunità che andrebbe accompagnata da regole chiare e garanzie contro la privatizzazione del servizio sociale. In sintesi, per associazioni come Antigone il piano carceri conferma un’ambizione limitata e una visione datata: si interviene sull’involucro, non sul contenuto di un sistema che reclama misure deflattive, assistenza psicologica, formazione professionale e concrete prospettive di reinserimento. Delusione espressa anche da Nessuno Tocchi Caino, che con Rita Bernardini sperava almeno alla liberazione anticipata speciale. Grande preoccupazione arriva da Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale e Garante della Sardegna: oltre a denunciare l’inerzia del ministro Nordio e il disinteresse verso le indicazioni del Presidente Mattarella, mette in guardia sul fatto che oltre ai 92 detenuti destinati al 41 bis di Uta, aggiunge il timore che potrebbero essere aggiunti i famigerati moduli container. Un dramma nel dramma. Se la risposta è solo?detentiva di Renata Giordano Quotidiano di Sicilia, 26 luglio 2025 Il Piano del Governo prevede 60 interventi edilizi in tre anni per recuperare quasi 10mila posti. Bisagna (Antigone Sicilia): “Non è la soluzione, servono depenalizzazioni e misure alternative”. Sono 758 i milioni che il Governo ha deciso di stanziare per contrastare il sovraffollamento carcerario in Italia. Un piano di 60 interventi spalmati sul triennio 25-27 con l’obiettivo di colmare un gap di 9.696 posti mancanti nelle strutture penitenziarie. Il sistema carcerario italiano, infatti, a oggi ha un deficit di 15.697 posti detentivi, che il Governo vorrebbe recuperare agendo su due fronti. Da un lato attraverso il piano di edilizia carceraria presentato in Consiglio dei Ministri lo scorso 22 luglio dal commissario straordinario Marco Doglio. Dall’altro lato, ulteriori 5.000 posti verrebbero recuperati nell’arco di un quinquennio, attraverso la “strutturazione di operazioni di trasformazione/valorizzazione di carceri esistenti” ma obsolete, che verrebbero sostituite o riqualificate grazie al coinvolgimento di investitori. Insomma, l’idea di Palazzo Chigi è quella di ricorrere a inediti “fondi immobiliari carcerari”. Per fare questo si sta lavorando a un censimento dei 207 istituti penitenziari presenti sul suolo nazionale. Ad alleggerire la pressione dentro gli istituti di pena, la previsione di un regime di detenzione differenziata per i detenuti tossicodipendenti, purché ci sia una relazione tra lo stato di tossicodipendenza e il reato non grave compiuto. Tuttavia - ha precisato il ministro Carlo Nordio - non si tratta di un provvedimento che “obbedisce” alla logica dello sfoltimento carcerario: la sensibile riduzione che ne deriverebbe sarebbe solo un positivo effetto collaterale di una misura che vuole costituire “una visione meno carcero-centrica della sanzione penale rispetto a persone che più che essere delinquenti sono da curare”. In Sicilia esistono 23 istituti penitenziari che accolgono, secondo i dati del Ministero di Giustizia aggiornati al 30 giugno di quest’anno, 7.068 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 6.438. In maggiore sofferenza le case circondariali di Gela il cui indice di sovraffollamento è del 156,2%. Seguono le catanesi Piazza Lanza (147,7%) e Bicocca (139%), Agrigento (132,5%), Caltanissetta (+131,7%), Siracusa (127,9%) e il Pagliarelli di Palermo (116,4%). Non sono esenti nemmeno le case di reclusione, che ospitano coloro che devono scontare pene superiori a 5 anni. Tra tutte, Augusta registra un +160,4%. C’è da essere soddisfatti del piano del Governo? “No” secondo Giorgio Bisagna, presidente di Antigone Sicilia: “Sembra un panno bollente che, messo su un ustionato, ne aumenta soltanto l’ustione”. “Rispetto a un Governo che inasprisce le sanzioni per reati bagatellari - spiega Bisagna - è verosimile che aumenteranno i casi di detenzione: ‘Affidarsi alla via edilizia per risolvere i problemi delle carceri non è la soluzione. È stato presentato un programma che, col sistema delle opere pubbliche, durerà almeno 10 anni e, nel frattempo, non si è tenuto debitamente conto del trend in aumento. Nel 2027 potremmo rimanere comunque in simile difetto. Andiamo in direzione opposta a quello che si dovrebbe fare”. Quali sono le misure che occorrerebbero e che, invece, stanno mancando? “Depenalizzazione e amplificazione delle misure alternative, rinforzando gli organici dei servizi sociali, degli educatori e anche della magistratura di sorveglianza, un po’ il collo di bottiglia della questione, perché, sovraccarica di lavoro, non riesce a smaltire in tempi accettabili tutti i casi”. A questo proposito, il Ministro in conferenza stampa ha chiamato in causa la questione del sovraccarico di lavoro della magistratura rispetto al provvedimento sui tossicodipendenti… “Il problema è che mancano le strutture: un avvocato per trovare una struttura per mandare in misura alternativa un ragazzo assuntore di stupefacenti deve affrontare un calvario. Mancano le Rems, abbiamo un problema di mancanza a livello di assistenza psichiatrica. Invece di creare para-carceri, perché non si creano le strutture già previste dall’ordinamento penitenziario?”. Per il Governo, pronto a coprire il costo per mille tossicodipendenti, il problema è la mancanza di organico nella magistratura di sorveglianza… “Nella questione sul nodo carcerario la magistratura non è senza colpe. La situazione cambia da tribunale a tribunale, ma non tutti i tribunali di sorveglianza sono di manica larga con la concessione delle misure alternative. È un problema di cultura giuridica, ma anche di numeri, nel senso che sono sottorganico e hanno un lavoro cui fare fronte pazzeschi. Seguire la via della liberazione anticipata lineare e incondizionata, secondo Nordio, significherebbe una resa dello Stato…”. E in Sicilia? Qual è la situazione? “Sicuramente le circondariali sono tutte in sofferenza, ma anche alcune case di reclusione non se la passano meglio. Come se non bastasse, col caldo ogni anno si crea una situazione letteralmente infernale, dentro le celle si arriva a 40 gradi in estate. Hanno qualche ventilatore perché viene autorizzato l’acquisto a spese loro o viene donato dai volontari. Si pontifica, ma una parola per climatizzare le strutture carcerarie non è stata ancora detta”. Il Governo ha ringraziato il consiglio nazionale forense per aver donato 120 ventilatori. Basteranno? “La punizione prevista dalla legge è la privazione della libertà, non che si debba soffrire durante la detenzione. Il carcere non è un albergo, ma neppure deve essere un luogo di sadico compiacimento per la sofferenza delle persone. Anche il peggiore criminale è un essere umano, non si deve aspettare la misericordia del volontariato, ma è lo Stato che deve provvedere. Uno Stato che ringrazia perché altri hanno provveduto è uno Stato che ha già fallito. A meno che prendiamo come esempio quello sovietico o Trump che vuole gli alligatori, il modello a cui dobbiamo riferirci è un altro, cioè quello che ci impone la nostra Costituzione”. Carceri, un Piano che non restituisce umanità di Andrea Molteni chiesadimilano.it, 26 luglio 2025 Nel pieno dell’estate in cui sovraffollamento, inattività e isolamento inaspriscono la sofferenza che nel 2025 ha già causato 45 suicidi, i provvedimenti del Governo rischiano di aggravare la crisi del sistema penitenziario, mortificando la speranza “giubilare” che la condanna non leda anche la dignità umana. L’estate, per chi è detenuto, non è solo una stagione calda: è un inferno. Alle temperature estreme si somma la drastica riduzione delle attività educative, culturali e ricreative. Con l’arrivo delle ferie per operatori e volontari, per chi resta in carcere comincia uno dei periodi più duri dell’anno, contraddistinto da solitudine, inattività e isolamento. Le scuole chiudono, le proposte sportive e culturali si diradano, le occasioni di contatto con l’esterno si fanno rare. In molte sezioni penitenziarie, questo vuoto si traduce in una maggiore chiusura delle celle, da cui si esce solo per le poche ore d’aria previste dal regolamento. Ma “d’aria” è un eufemismo, se l’unico spazio disponibile è un cortile di cemento, magari pure privo di ombra. Il resto del tempo si trascorre in celle sovraffollate, soffocanti, per qualcuno, spesso per i più vulnerabili, senza nemmeno ventilatori, né frigoriferi per conservare l’acqua. I numeri - I numeri parlano chiaro. Al 30 giugno 2025, nei sette istituti penitenziari che hanno sede nel territorio della Diocesi ambrosiana erano recluse complessivamente 5.205 persone, a fronte di 3.425 posti disponibili. A Milano, la situazione è ancora più drammatica: 3.869 detenuti per 2.685 posti. D’altronde siamo nella regione italiana con il più alto numero di persone detenute, ben 8.992, più del 14% del totale nazionale. In alcune Casa circondariali (destinate alle persone non ancora condannate in via definitiva), per esempio a Brescia e a Milano San Vittore, la capienza effettiva è addirittura più che raddoppiata: per ogni posto disponibile, sono detenute almeno due persone. In queste condizioni di sovraffollamento, si finisce per trascorrere chiusi in cella fino a 22 ore al giorno, magari non potendo nemmeno stare tutti in piedi contemporaneamente, o dovendo mangiare a turno, in un clima che mette a dura prova corpo e mente. Il sovraffollamento e l’assenza di condizioni minime di vivibilità alimentano una sofferenza profonda, che troppo spesso si traduce in suicidi e atti di autolesionismo. Nei primi sei mesi di quest’anno, 45 persone si sono tolte la vita nelle carceri di tutta Italia. Un dato che dovrebbe turbare le coscienze. Un atto di autorevolezza - Con l’avvicinarsi del Giubileo dei detenuti, in molti, noi compresi, speravamo in provvedimenti di clemenza, espressamente chiesti da papa Francesco sin dalla Bolla di indizione del Giubileo della speranza, capaci di restituire dignità a chi è recluso e legittimità a un sistema penitenziario più volte condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Come ha ricordato il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, la clemenza non è una “brutta parola”, né un segno di debolezza delle istituzioni. È, al contrario, un atto di autorevolezza morale e giuridica di uno Stato che, sulla base di un chiaro mandato costituzionale, sa rispettare la dignità di chi è detenuto e di chi lavora nelle carceri. La certezza della pena, concetto prioritariamente e insistentemente invocato dalla politica quando si parla di sistema penale e detentivo e di politiche di sicurezza, non può prescindere dalla certezza del rispetto delle condizioni previste per la sua esecuzione. Eppure, il cosiddetto “Piano carceri” proposto dal ministro Guardasigilli Carlo Nordio nel corso del Consiglio dei Ministri a inizio settimana, ha prodotto solo misure timide, dettate da logiche sicuritarie e da una “passione punitiva” che rischia di aggravare ulteriormente la crisi del sistema penitenziario italiano, con provvedimenti in parte inattuabili, e comunque insufficienti ad affrontare per tempo un’emergenza che si fa ogni giorno più drammatica. Misure contradditorie - Nel campo penale, l’azione del Governo somiglia sempre più alla fatica di Sisifo. La recente nomina di un Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria e l’annuncio di migliaia di nuovi posti - i quali, nella migliore delle ipotesi, vedranno la luce solo nel 2027 - inseguono l’aumento senza precedenti della popolazione carceraria. Secondo l’associazione Antigone, negli ultimi tre anni in Italia il numero dei detenuti è aumentato di 5 mila unità. Nel frattempo, con decreti sempre più repressivi, l’esecutivo contribuisce a gonfiare quegli stessi numeri che poi afferma di voler ridurre. L’ultimo decreto legge Sicurezza, per esempio, ha suscitato una critica corale: penalisti, costituzionalisti, le Camere penali, il Consiglio superiore della magistratura e perfino la Corte suprema di Cassazione (relazione 33 del 2025) lo hanno bollato come espressione di un punitivismo crescente, tra nuovi reati e inasprimento delle pene. Ne scaturisce un paradosso evidente: da un lato si aumentano i reati e si accrescono le pene, dall’altro si rincorre l’emergenza con container nei cortili delle carceri e promesse di ampliamenti. Un Sisifo autolesionista, che il masso se lo getta a valle da sé. Nel Piano carceri si intravedono, almeno sulla carta, due misure deflattive. La prima è una “detenzione differenziata” per persone con dipendenze da alcol o droghe, che potrebbero accedere alla detenzione domiciliare in comunità terapeutiche per gli ultimi otto anni di pena, ma solo se il reato è direttamente legato alla dipendenza. Tuttavia, anche oggi esiste la possibilità di affidamento terapeutico per pene fino a sei anni, eppure restano in carcere persone con dipendenze certificate e residui inferiori a quel limite. Come si provi il legame tra il reato e la condizione di dipendenza sarà, poi, tutto da vedere. La seconda misura mira a semplificare le procedure per la liberazione anticipata. Ma, come ammesso dallo stesso Ministro, l’onere ricadrà sui tribunali di sorveglianza, già oggi gravemente in affanno. La prevista informatizzazione dei fascicoli personali dei detenuti, date le precedenti esperienze di digitalizzazione della giustizia, lascia più dubbi che certezze. Almeno una promessa si spera venga davvero mantenuta: l’aumento delle telefonate per le persone detenute. Con esso, servirebbe semplificare le procedure e ridurre i costi per permettere anche agli stranieri di restare in contatto con i propri cari. Resta dunque inesausto, nel tempo del Giubileo, il desiderio di misure davvero efficaci e rapide per affrontare seriamente la questione del sovraffollamento, restituire dignità alle carceri e umanità alla pena. La condanna può privare della libertà: ma non dovrebbe mai togliere la speranza. Lavoro in carcere, tra Costituzione e inerzia: cinquant’anni di una legge tradita di Giulio Cavalli La Nazione, 26 luglio 2025 A 50 anni dall’articolo 15, il lavoro in carcere resta un’eccezione: solo un detenuto su tre ha accesso a percorsi rieducativi. Il 26 luglio 1975 entrava in vigore la legge n. 354 sull’Ordinamento Penitenziario. L’articolo 15 di quella legge fu, all’epoca, un passaggio di rottura: “Il lavoro è uno degli elementi del trattamento rieducativo” e “salvo casi di impossibilità, ai condannati è assicurato il lavoro”. La norma si fondava sull’articolo 27 della Costituzione e imponeva una visione radicalmente diversa della detenzione: non più solo pena, ma percorso. Cinquant’anni dopo, il bilancio è una cronaca continuata di omissioni, distorsioni, fallimenti strutturali. Una legge chiara, sistematicamente disapplicata - La formulazione dell’art. 15 non lascia spazio ad ambiguità. Il lavoro deve essere rieducativo, non afflittivo, retribuito almeno per due terzi del corrispettivo previsto dai contratti collettivi, dotato delle stesse tutele assicurative e previdenziali del lavoro libero. Eppure, oggi come ieri, questi principi restano largamente disattesi. I dati più aggiornati (DAP 2024) dicono che solo il 34,3% dei 61.861 detenuti svolge un’attività lavorativa. Di questi, l’85% è impiegato in mansioni interne - pulizia, cucina, manutenzione - offerte direttamente dall’amministrazione penitenziaria, con compensi che si aggirano intorno ai 150 euro al mese. Niente minimi contrattuali. Niente tutele effettive. E fuori? Appena il 3,3% lavora con soggetti esterni. I progetti qualificati con cooperative e aziende sono l’eccezione virtuosa, non la regola. E non bastano a ribaltare il quadro: una legge che dovrebbe essere norma universale si è ridotta a privilegio territoriale e selettivo. Il paradosso penitenziario: più carceri, meno lavoro - Il fallimento dell’articolo 15 è anche il prodotto di precise scelte politiche. Il sovraffollamento strutturale - 62.400 presenze su 50.000 posti regolamentari nel 2025 - rende impraticabile qualsiasi progettualità. Gli spazi sono inadeguati, il personale educativo insufficiente, le figure specializzate assenti. L’emergenza continua ha divorato la progettazione: si investe in nuove celle, non in nuove possibilità. Il cosiddetto “Piano Sfolla Carceri”, varato dal governo Meloni, prevede 10.000 nuovi posti detentivi entro il 2027. Nessuna misura analoga per il lavoro. In parallelo, si riducono i fondi per gli sgravi fiscali previsti dalla legge Smuraglia, che dovrebbe incentivare le imprese ad assumere detenuti. Il credito d’imposta è sceso da 21 a 19 milioni di euro, segnale plastico di una disattenzione che è, ormai, disinvestimento strutturale. Il lavoro che rieduca esiste. Ma solo per pochi - Le esperienze positive non mancano: Bollate, Rieti, le cooperative sociali che operano dentro e fuori le mura, i progetti in collaborazione con le università e con il mondo produttivo. Ma i numeri sono minimi. E il sistema è talmente fragile che basta un cambio di direzione, un taglio di fondi o una circolare restrittiva a smontare anni di lavoro. Eppure, la letteratura scientifica è inequivocabile. Uno studio del CNEL mostra che il tasso di recidiva si riduce al 2-10% nei casi in cui il detenuto è coinvolto in un percorso lavorativo qualificato, contro il 60-68% del carcere tradizionale. Ogni euro investito nel lavoro produce un risparmio di 4,80 euro in costi giudiziari, detentivi e sociali. È la più efficace politica di sicurezza che abbiamo - eppure è trattata come opzionale. La clausola “salvo casi di impossibilità”, concepita per casi eccezionali, è diventata la normalità giustificativa. La carenza di fondi, di spazi, di progettazione è stata elevata a fatto ineluttabile. E così il diritto al lavoro è stato degradato a concessione: discrezionale, episodica, geograficamente diseguale. Chi entra in carcere, oggi, non ha davanti un percorso. Ha davanti un contenitore. Le riforme legislative si sono succedute - dalla legge Gozzini alla Smuraglia fino ai decreti del 2018 - ma senza un investimento strutturale, il mosaico normativo ha prodotto solo frammenti e disillusioni. Nessun piano nazionale per il lavoro penitenziario, nessun dipartimento dedicato, nessun monitoraggio pubblico dell’attuazione dell’art. 15. Il punto politico. La cultura punitiva ha progressivamente svuotato la visione costituzionale. L’art. 27 parla di pena come rieducazione. L’attuale narrazione politica parla di pena come neutralizzazione. Ogni proposta di rafforzamento del lavoro in carcere è oggi vista con sospetto, come debolezza. Il caso del femminicidio di Milano (maggio 2025) è stato usato per invocare lo smantellamento delle misure alternative. È il riflesso di un populismo penale che sacrifica i diritti sull’altare della paura. Cinquant’anni dopo, l’articolo 15 resta una promessa. Lavoro in carcere non è gentilezza, non è premio, non è clemenza. È diritto, è strategia di sicurezza pubblica, è dignità. Ma finché la politica non lo tratterà come tale, sarà solo una formula vuota incisa nella legge. Un anniversario da archiviare, non da celebrare. La vera commemorazione sarà il giorno in cui, in ogni carcere d’Italia, il lavoro sarà garantito come il pane. Fino ad allora, non si tratta di ricordare una riforma, ma di contare ogni giorno i suoi morti, i suoi suicidi, i suoi recidivi, il suo fallimento. Carcere e lavoro: come le cooperative sociali cambiano le regole del gioco di Alessandra Fabri italiacooperativa.it, 26 luglio 2025 Intervista a Stefano Granata, Presidente di Confcooperative Federsolidarietà. Presidente Granata, 189 cooperative, 11.500 posti di lavoro, 430 milioni di fatturato. I numeri della filiera giustizia di Confcooperative Federsolidarietà dimostrano che il modello funziona. Ma perché proprio le cooperative sociali riescono dove altri falliscono? Perché uniamo efficienza a solidarietà. Le cooperative sociali sono radicate nel territorio, conoscono i bisogni reali e lavorano in sinergia con istituzioni e imprese. Non siamo assistenzialisti: creiamo lavoro vero. La legge Smuraglia ci aiuta, ma è l’esperienza pluridecennale a fare la differenza. Il lavoro non è un premio, è l’unica alternativa alla recidiva. Noi lo creiamo ogni giorno. Detenuti che lavorano, ex detenuti assunti, migliaia di persone reinserite. Non sembra troppo bello per essere vero? È il nostro quotidiano, basato su un sistema serio. Abbiamo cooperative specializzate: tipo B per il lavoro, tipo A per servizi residenziali e riabilitazione. E cinque consorzi che fanno rete. Il segreto? Non abbandoniamo le persone dopo la scarcerazione. Oltre 3.000 ex detenuti restano con noi. La cooperazione sociale è un importante fattore di congiunzione, un ponte tra il carcere e la società per una vera riabilitazione sociale. Le aziende come rispondo? Stiamo costruendo un ponte concreto. Stiamo lavorando ad una piattaforma per profilare le competenze, offrire una rete di servizi per collegare le carceri alle imprese. Già oggi molte aziende collaborano, ma serve una regia nazionale. Il nostro CCNL della cooperazione sociale è il settimo in Italia per numero di lavoratori a cui viene applicato: questo dimostra che il modello funziona. Salute mentale e dipendenze. Il reinserimento dei detenuti funziona anche nelle situazioni più difficili? Sì, i dati ci danno ragione. Oltre 4.000 persone, in particolare con problemi di salute mentale o di dipendenza, usufruiscono dei nostri servizi residenziali. Non facciamo miracoli, ma offriamo percorsi personalizzati. Una cella costa 270 euro al giorno. Percorsi di formazione molto meno. E così lo Stato risparmia, le persone si riabilitano, la società nel complesso ci guadagna. La vostra ricetta per il futuro in tre punti? Più formazione dentro le carceri. Case di accoglienza per chi ha la possibilità di usufruire dei benefici delle misure alternative che siano palestre di autonomia. Un’alleanza con le imprese che guardi al dopo-carcere. La giustizia si fa insieme: Stato, terzo settore e privati. Così si spezza il circolo vizioso. Corpi esclusi e reclusi di Vittorio Lingiardi La Repubblica, 26 luglio 2025 “La politica dorme con l’aria condizionata”. La frase è di Gianni Alemanno, al momento detenuto a Rebibbia. L’ha letta nell’aula del Senato Michele Fina del Partito Democratico. Alemanno descrive le “celle forno” e la fortuna di chi possiede un ventilatore. Ma i problemi sono cronici, il caldo si limita ad ampliarli crudelmente. Pochi investimenti, sovraffollamento, mancanza di personale, malattie fisiche e disturbi mentali. “Carceri invivibili”, ha detto il Presidente Mattarella incontrando il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ha aggiunto: “Fermiamo i suicidi”, più di 120 tra il 2024 e il 2025. La realtà carceraria e la riflessione (politica, filosofica, psicologica) che dovrebbe accompagnarla interessa a pochi, con qualche volonterosa eccezione. Eppure la Costituzione dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Perché prevale l’idea della punizione? Forse la convinzione che si tratti di cittadini di serie B, che diventano serie C o D se stranieri? Come sempre, quando ti fai domande su un argomento, l’argomento poi ti viene a cercare. Per questo è importante farsi domande. Risposte, e altre domande, mi sono arrivate da libri che mi invitavano a riflettere non solo sulle leggi, ma anche sugli affetti. Libri capaci di sbloccare zone anchilosate del pensiero. Uno è stato, lo scorso anno, Ogni prigione è un’isola (Mondadori) di Daria Bignardi che mescolando storie private e storie pubbliche aggira le nostre difese e ci aiuta a capire che i temi di pochi sono temi di tutti. “Non è che mi piacciano”, dice delle prigioni, “al contrario. Ma dentro c’è la quintessenza della vita com’è: dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia”. Di amore (e di tutto il resto) parla Donatella Stasio nel suo nuovo libro L’amore in gabbia. La ricerca di libertà di un reduce dal carcere (Castelvecchi). Per anni responsabile della comunicazione e portavoce della Corte costituzionale, da sempre impegnata sui temi della giustizia, Stasio racconta il carcere attraverso l’esperienza “incarnata” di Gianluca, una vita in prigione, oggi piccolo imprenditore riuscito, ma per sempre segnato dall’esperienza di solitudine, porte chiuse, muri spessi, cieli interdetti, affettività rubata. È la storia di un corpo imprigionato che racconta, a chi in prigione non c’è stato, chi è, in sintesi, un carcerato: un corpo - biologico, relazionale, affettivo - escluso e recluso. In un Paese dove troppo spesso sentiamo dire “buttate la chiave”, L’amore in gabbia è un libro che prende quella chiave per aprire la cella e farne una stanza senza “più pareti, ma alberi infiniti quando sei vicino a me”. La canzone di Mina mi viene in mente perché Stasi”) ci spinge a pensare, foucaultianamente, a come il potere interviene sulle forme d’amore. “Lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività”, dice ancora Mattarella. Qui penso al volume “Donne in carcere. Ricerche e progetti per Rebibbia” (Lettera Ventidue) di Pisana Posocco, docente alla Sapienza di Progettazione architettonica e urbana. Posocco ha coordinato il progetto della Casa per l’affettività e la maternità inaugurata pochi anni fa da Renzo Piano nel carcere femminile di Rebibbia. “Una piccola cosa, una scintilla in un tema complesso. Ma tante scintille insieme possono cambiare le cose”. Il mio viaggio tra libri e prigioni finisce con “Il gabbio. Storie di umanità reclusa” (Mimesis). Lo ha appena scritto Gianluca Biggio, per vent’anni psicologo a Regina Coeli. Un racconto sensoriale sulla vita delle persone in carcere: i silenzi, le parole, i rumori, gli odori, i dolori. Un viaggio di realtà e finzione che ancora una volta ci con segna al corpo del prigioniero, alla sua pelle, dunque alla sua verità. Quei 9 metri quadrati immaginari: in cella i diritti non hanno spazio di Fabio Falbo* Il Dubbio, 26 luglio 2025 In Italia, sulla carta, ogni persona detenuta dovrebbe avere diritto a 9 metri quadrati di spazio vitale. È un numero che sembra ragionevole, quasi rassicurante. Ma come spesso accade, tra la norma e la realtà si apre un abisso. E in quel vuoto, fatto di cemento, letti a castello e finestre sbarrate, vivono circa 63.000 persone. La misura della dignità è stabilita dal ministero della Giustizia come la capienza regolamentare delle carceri italiane che si basa su un criterio semplice: 9 metri quadrati per la prima persona detenuta in cella sin gola, e se allocata nella cella multipla il calcolo è 5 metri quadrati per ogni persona detenuta aggiuntiva. Questo standard, in linea con le raccomandazioni europee, dovrebbe garantire condizioni di vita dignitose. Ma c’è un problema, nessuno sa davvero quanti metri quadrati siano effettivamente disponibili nelle carceri italiane. Non esiste, ad oggi, un dato pubblico ufficiale che indichi la superficie fisica complessiva degli istituti penitenziari, per lo più delle celle di tutti i 190 istituti di pena. Si conosce la capienza massi ma regolamentare dei posti (circa 51.300), ma non lo spazio reale e che comunque non va intesa come capienza massima tollerabile che è tutt’altra cosa. Una lacuna grave, soprattutto in un sistema che si fonda - almeno formalmente - sul principio della rieducazione, visto i numeri che non tornano. Facciamo due conti, se volessimo rispettare gli standard minimi per le circa 63.000 persone detenute, servirebbero oltre I milione di metri quadrati. Ma le stime più ottimistiche parlano di circa 359.000 metri quadrati realmente disponibili. Il risultato? Celle sovraffollate, spazi comuni ridotti all’osso, e una quotidianità che spesso rasenta la disumanità. Il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura ha più volte richiamato l’Italia, chiedendo che ogni persona detenuta abbia almeno 4 metri quadrati netti in celle condivise. Ma in molte strutture, soprattutto nel Sud, questa soglia è un miraggio, è come un carcere che non si vede. Il problema non è solo numerico, è culturale, in Italia, il carcere resta un mondo opaco, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica, eppure, è un pezzo di società. Dentro ci sono persone che un giorno torneranno fuori. E il modo in cui vivono oggi influenzerà il modo in cui vivranno domani. Ci sono storie come quella di Fabio Falbo, laureato in Giurisprudenza, attivo in progetti culturali e legali che si sta occupando anche di questi dati capziosi, che mostrano il divario tra teoria e realtà, come anche quelle storie di abbandono, di disagio psichico, di suicidi. Solo nel 2024, sono stati oltre 80 le persone detenute morti in carcere, molti per cause evitabili. Purtroppo nella terra della legalità carceraria la trasparenza manca. È lecito chiedersi: perché il ministero non pubblica i dati sulla superficie reale delle celle carcere? Perché non esiste una mappa aggiornata degli spazi, delle celle, delle condizioni igieniche? In un’epoca in cui tutto è tracciabile, il carcere resta un’eccezione, eppure, la trasparenza è un diritto, non solo per le persone detenute, ma per tutti i cittadini, visto che il carcere è un luogo pubblico, finanziato con soldi pubblici, e regolato da leggi che parlano di dignità, diritti e reinserimento. Come si vogliono far rispettare le leggi se proprio chi vigila negli istituti di pena li rispetta? A supporto di questa affermazione vi è stata una richiesta di Fabio Falbo ‘ Lo Scrivano di Rebibbia’ sia al Magistrato di Sorveglianza di Roma e successivamente al Tribunale di Sorveglianza di Roma in sede di reclamo e di appello dello stesso per effettuare una perizia di parte o di ufficio per misurare lo spazio calpestabile delle celie multiple e singole di Rebibbia visto i dati riportati e capziosi sottoscritti da chi non ha le competenze a farle non essendo iscritti in nessun albo. Ebbene oltre ai rigetti e alle spese la richiesta non è stata accolta, è come dire comando io le tue sono solo parole e visto che gli stessi vigilano negli istituti di pena non potranno mai affermare che le struttur e sono non solo sovraffollate ma non rispettano quei minimi criteri riportati in un qualsiasi ordinamento penitenziario che si rispetti. Voi lettori vi domanderete ma il Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio (Stefano Anastasia), quello Comunale di Roma Capitale (Valentina Calderone) e non per ultimo l’associazione Antigone (avvocato Dario Di Cecca) sono a conoscenza di tutto ciò? Ebbene sì ma ad oggi e dopo tutte le varie richieste e solleciti si aspetta da anni un loro intervento quantomeno per vedere con gli occhi e non con il metro la capienza effettiva e quindi sottoscrivere un documento in difesa di chi è lasciato a morire e perire senza difesa alcuna. È vero che la speranza è l’ultima a morire e sono certo che questi Garanti o l’Associazione in questione se hanno il piacere di leggere e magari intervenire, i numeri del e presenze in carcere possono scendere non di tanto ma neanche di poco. Questi diritti calpestati non sono solo quelli di Fabio Falbo ma rispecchiano i diritti calpestati di tutte quelle persone detenute in tutte le 190 strutture penitenziarie visti i dati ministeriali che indicano un sovraffollamento dal 133% a oltre il 200%. Quindi questi immaginari 9 metri quadrati da dove saltano fuori? *Detenuto nel carcere di Rebibbia Alemanno scrive a Meloni: “Il Piano del Governo per i detenuti non risolve i problemi” La Repubblica, 26 luglio 2025 Cara presidente Meloni, “nessuna delle misure adottate” dal Consiglio dei ministri sull’emergenza carceraria “ha la forza di dare una risposta ai problemi”. Firmato, Gianni Alemanno. L’ex sindaco di Roma scrive dal carcere di Rebibbia, dove sconta una pena per “traffico d’influenze”, una lettera aperta alla premier. A quattro mani, firmata con Fabio Falbo, detenuto da quasi vent’anni: “ha scontato una parte della sua pena in alta sicurezza - dice l’ex ministro - si è laureato in Giurisprudenza in carcere e con le conoscenze acquisite offre assistenza legale alle altre persone detenute, in qualità di scrivano del nostro Braccio”. Lontani i tempi della comune militanza nel Movimento sociale italiano. Alemanno, dalla cella, si rivolge a Meloni per criticare il piano carceri varato il 22 luglio uno degli ultimi Consigli di ministri. Un piano che prevede “1.472 nuovi posti che coprono a stento quelli che saranno le nuove persone detenute da qui alla fine dell’anno”, secondo i due detenuti. Contestano “le promesse, fatte anche dal ministro Nordio nel corso del suo mandato, della costruzione di nuovi carceri che non si sono mai visti, neanche in minima parte e certamente non in tempi così rapidi”, come quelli che il governo prevede entro il 2027 (3 mila e 716 posti nuovi e 5 mila e 980 posti recuperati). Per quanto riguarda il piano per facilitare l’accesso dei detenuti tossicodipendenti in comunità, “i tempi sono lunghi” e gli esiti “incerti”, scrivono Alemanno e Falbo. “Dopo il necessario iter parlamentare - almeno sei mesi per essere ottimisti - queste nuove norme, sicuramente opportune, si dovranno misurare con la disponibilità di posti dentro le comunità terapeutiche - dato attualmente ignoto - e con i finanziamenti necessari per avviare i percorsi di trattamento”. E dunque, concludono Alemanno e Falbo, “gli interventi proposti per fronteggiare il sovraffollamento carcerario sono lenti, incerti e molto aleatori. Nel frattempo questo sovraffollamento che nel corso del governo Meloni è passato dal 107,4%, al 133% - continuerà a crescere”. La sinistra partecipi alla riforma della Giustizia di Tommaso Nannicini La Stampa, 26 luglio 2025 Le parole sono importanti. E in politica ancor di più. Non è vero che, nell’era delle fake news e delle verità alternative, chi ricopre un ruolo pubblico può dire tutto e il contrario di tutto. Quando si gratta sotto la superficie, la sostanza continua a pesare come un macigno. Nel dibattito sulla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri - riforma promossa dall’attuale maggioranza - ci sono due argomentazioni ricorrenti, due nuvole di parole, che le forze di opposizione farebbero bene a evitare. Pena, gratta che ti gratto, una perdita complessiva di credibilità per chi si candida a governare. La prima argomentazione è che la riforma mina al cuore la nostra democrazia, perché era prevista anche nel “Piano di rinascita democratica” della P2 di Licio Gelli. Per essere poi ripresa da Berlusconi e ora da Nordio. Ma che c’entra? La separazione delle carriere è sostenuta da illustri giuristi, intellettuali e rappresentanti della società civile da decenni. Tutti piduisti antidemocratici? La mozione Martina - che nel 2019 fu votata dal 36% degli iscritti al Pd e dal 22% dei partecipanti alle primarie - proponeva testualmente: “La realizzazione di un processo basato sulla parità delle parti e la terzietà del giudice è il nostro progetto in materia di giustizia penale. Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale”. La mozione fu promossa da una fetta rilevante dell’attuale gruppo dirigente del Pd. Tutti piduisti antidemocratici? E poi, nel Piano Gelli c’era tanta roba. Anche il taglio dei parlamentari, fortemente voluto (e ottenuto) dal Movimento 5 Stelle. Nessuno li ha accusati di perseguire piani occulti o manovre massoniche. Perché sollevare il sospetto solo sulla separazione delle carriere? Evidentemente, perché non si hanno argomentazioni più solide. E chi ascolta lo capisce. La seconda argomentazione è che il principio della separazione delle carriere può anche essere valido, ma l’attuale maggioranza lo applica all’interno di una riforma pasticciata. Insomma: potremmo anche discuterne, ma non così. Il “noncosismo” è la nuova frontiera del trasformismo nel centrosinistra, soprattutto nel Pd. Visto che devo giustificare i miei cambiamenti di linea per compiacere la leadership del momento, dico che il problema sta nei commi, nei cavilli attuativi, non nel principio generale. Il premierato? Ci sta, ma non così. La partecipazione dei lavoratori in azienda? Ci sta, ma non così. E via snocciolando. Con l’effetto collaterale, però, che gran parte dei politici d’opposizione sembrano maestrini con la matita blu più che legislatori. Così si fugge dalla sostanza dell’indirizzo politico, senza mai rispondere alla domanda centrale: sul principio della separazione delle carriere siete d’accordo o no? In verità, da un’ottica di centrosinistra, si può tranquillamente criticare la riforma della maggioranza, non votandola, rimarcando però la validità del principio della separazione delle carriere. Che non è un attacco alla magistratura, ma il naturale completamento della riforma Vassalli del 1989, che trasformò il processo penale italiano in senso accusatorio. Giudice e pubblico ministero dovrebbero avere ruoli distinti: il primo terzo e imparziale, il secondo parte nel processo. Eppure, continuano a condividere concorsi, carriere e organi di autogoverno, in un cortocircuito che tradisce lo spirito della riforma. La cultura della giurisdizione unitaria - secondo cui giudici e pubblici ministeri appartengono a un unico corpo, interscambiabile - contraddice il principio del contraddittorio, che presuppone una netta distinzione tra chi giudica e chi accusa. Se sono “colleghi”, formati insieme, valutati insieme, gestiti dallo stesso consiglio, è difficile evitare almeno l’ombra del sospetto: che si assomiglino troppo, che condividano approcci, linguaggi, priorità. Separare le carriere significa sgombrare il campo da questa ambiguità, rendendo più chiaro il ruolo di ciascuna delle parti. Per carità: questa è una linea politica, che a sua volta può essere criticata, sempre da un’ottica di centrosinistra. Ma a patto di restare sul merito della questione. Dicendo da che parte si sta e perché. Non invocando complotti massonici o dando lezioni sui commi. Perché le parole, appunto, sono importanti. Riforma giustizia, i segnali dei pm al Pd e quella “prova d’amore” di Franceschini sul referendum di Francesco Verderami Corriere della Sera, 26 luglio 2025 Il dem chiede prudenza e ipotizza il rinvio del voto sulla riforma. Al Senato Dario Franceschini non ha parlato al governo, si è rivolto ai magistrati. È raro che l’ex ministro della Cultura intervenga in Aula, ma c’è un motivo se l’ha ritenuto necessario. Proprio mentre le Camere votavano la separazione delle carriere, il Pd era finito al centro di un’attenzione particolare da parte delle procure di mezza Italia. Se non c’è stata casualità nella sua decisione, è perché Franceschini non ha ritenuto casuale quell’attivismo giudiziario. Che a suo parere non è frutto di “un’unica regia”, ma è dettato da una serie di “singoli segnali” che “separatamente e in modo autonomo” trasmettono “lo stesso messaggio”: un appello a far fronte comune contro la riforma costituzionale scritta dal governo, una richiesta di solidarietà non formale che si esaurisca nel semplice dissenso in Parlamento. Insomma, una sorta di prova d’amore. Così il dirigente dem ha chiesto la parola per dire alle toghe di aver colto il loro messaggio e contemporaneamente per invitarle a cogliere il suo. L’ha fatto con un lessico d’altri tempi, privo di enfasi e retorica. Un linguaggio criptato a cui le Camere da moltissimi anni ormai non sono più abituate. D’altronde era quello che voleva il “giovane Trotsky”, soprannome con cui Franceschini veniva additato quando militava nella Dc, dove faceva il rivoluzionario e intanto apprendeva il lessico iniziatico del potere. Che è lo strumento per le comunicazioni riservate. Per questo è riuscito a rivolgersi riservatamente ai magistrati attraverso un discorso pubblico. Li ha rassicurati e garantiti sul punto cruciale della riforma che mira a colpire il potere delle toghe e che non è la separazione delle carriere. L’ex ministro infatti ha attaccato il meccanismo del sorteggio scelto dal governo per selezionare i componenti del Csm, “che potrebbe portare all’anarchia”. E poi ha difeso il controverso sistema delle correnti interne alla magistratura, che a suo giudizio invece “svolgono un’opera di mediazione e di bilanciamento”. Ma la prova d’amore è arrivata quando ha anticipato che la battaglia referendaria sarà “tutta politica”. “Non ci metteremo a contestare i singoli aspetti della riforma. E dovremo evitare i tecnicismi”, aveva anticipato Franceschini ai compagni di partito: “Dovremo dire che bisogna fermare le pericolose tentazioni autoritarie della destra”. “Sarà un referendum pro o contro Meloni”, avrebbe spiegato più tardi in Aula. “E loro perderanno”. Seguendo un destino che ha accomunato quanti in passato hanno varato riforme costituzionali a maggioranza, bocciate poi dagli elettori. Questo sarebbe “il miglior viatico” per una successiva vittoria del centrosinistra alle Politiche, con la garanzia di poter scegliere “ancora una volta” il capo dello Stato. Franceschini è convinto di aver “aperto una breccia” dopo il suo intervento al Senato. E soprattutto di aver suscitato timori e perplessità nello schieramento avverso. Ne ha parlato con un alto magistrato, al quale ha confidato che “la presidente del Consiglio starebbe meditando di rallentare l’iter della riforma in Parlamento, per evitare che il referendum si tenga prima delle elezioni e fare in modo che si svolga dopo il voto”. Non è dato sapere da chi l’ex ministro abbia raccolto questa indiscrezione. O se si sia trattato di un wishfull thinking, sfruttato per rassicurare il suo interlocutore. Di certo c’è che con il discorso in Parlamento è riuscito a far sapere alle toghe di aver colto il loro messaggio. E di aver trasmesso anche il suo. Perché Franceschini coglie un rischio in certe azioni giudiziarie, “con le quali i magistrati rimarcano la forza del loro potere”. Alcune inchieste potrebbero infatti “compromettere il risultato della battaglia” contro la riforma del governo. L’esercizio della giurisdizione è delicato e una gestione che possa risultare fuori misura finirebbe per “fornire munizioni ideologiche e politiche ai sostenitori” della legge sulla separazione delle carriere, fino a “giustificare” la sua necessità agli occhi dell’opinione pubblica. È questo il passaggio più importante del messaggio alle toghe: sta nel “fermatevi” con il quale Franceschini si schiera dalla parte della magistratura ma consigliandole prudenza. Lo fa con l’abilità di un politico consumato, e come tale pronto a smentire perché non può consentire che emerga ciò che davvero pensa. E riservatamente dice. Ddl Giustizia: alla riforma manca solo l’avanzamento per merito di Bruno Vespa La Nazione, 26 luglio 2025 Separazione delle carriere: il sorteggio ha l’obiettivo di scardinare le correnti. L’Anm nervosa per aver perso una storica battaglia. È solo funzionale alla polemica di giornata se il pubblico ministero Carlo Nordio fosse contrario alla separazione delle carriere nel 1994 e se ne sia pentito pubblicamente nel 1995. L’episodio ci ricorda tuttavia che sono passati trent’anni tondi da quando Berlusconi pose il problema. Si capisce perciò la soddisfazione del centrodestra - e segnatamente di Forza Italia - perché un percorso così lungo e tormentato vada verso la conclusione e la furiosa reazione della magistratura associata che si avvia a perdere una storica battaglia. La nascita di due distinti consigli superiori, più che a scindere definitivamente le funzioni dei magistrati (già con la legge Cartabia era stato abolito il salto frequente dalla funzione requirente del pm da quella giudicante), serve a evitare gli inquinamenti e il gioco correntizio nelle promozioni e soprattutto nel giudizio disciplinare sui colleghi. L’estrazione a sorte dei componenti dei due consigli superiori ha il proposito di smantellare le correnti, o comunque di indebolirle fortemente. Per mettere d’accordo le diverse componenti, la sostituzione del procuratore della Repubblica, poniamo, di Torino, era ferma in attesa che scadesse l’incarico del presidente del tribunale, poniamo, di Milano e del capo dei giudici delle indagini preliminari, poniamo, di Palermo, per poter attivare uno scambio che penalizzava le correnti pro tempore più deboli e soprattutto i magistrati non militanti nelle diverse aree. Quando era il dominus della magistratura associata, Luca Palamara (poi vittima dei suoi colleghi Robespierre) mi disse: “Il sorteggio ci ammazzerebbe”. È la prova che si tratta di una misura più che opportuna. L’altra riforma decisiva è l’istituzione di un’Alta corte disciplinare composta da membri laici e magistrati (in larga maggioranza) diversi dai componenti dei due consigli superiori e anch’essi sorteggiati. Oggi un presidente del tribunale può essere intimidito nel dar torto a un pubblico ministero membro del Consiglio giudiziario che deve giudicarlo. A chi obietta che il sorteggio prescinde dal merito, si può rispondere che oggi spesso il merito è stabilito dalle correnti (valga per tutto la memorabile bocciatura che Giovanni Falcone ricevette dal Csm nel 1988 nella scelta del consigliere istruttore di Palermo). E che oggi sono sorteggiati i componenti del Tribunale dei ministri che funziona senza particolare anomalie. Non è vero che la riforma indebolisce il pubblico ministero, la cui casta può perfino essere rafforzata da un Consiglio superiore separato. Si può invece obiettare che la riforma è mutilata di un tassello fondamentale: l’avanzamento di carriera per merito. Oggi il 99.2 per cento dei magistrati riceve un giudizio positivo dai colleghi (Cartabia dixit). Un caso tra le molte migliaia: i magistrati che inquisirono e condannarono Enzo Tortora hanno raggiunto tutti il massimo della carriera e uno di essi diventò membro del Csm. Se si stabilisse che oltre - poniamo - un venti per cento di richieste di rinvio a giudizio o di sentenze riformate la carriera del magistrato fosse rallentata, come accade in qualunque mestiere, si farebbe una scelta di civiltà e di buon senso. Duello con il capo delle toghe di sinistra. Parla Silvia Albano, presidente di Md di Claudio Cerasa Il Foglio, 26 luglio 2025 “Referendum sulla giustizia? Parteciperemo alla campagna referendaria”. Separazione delle carriere, aggettivi di troppo nelle sentenze, esondazioni dei pm messe a nudo e confine tra intervento in politica e interventismo con i governi. E qualche sorpresa. Colloquio con la presidente di Magistratura democratica. Abbiamo fatto una piccola pazzia e abbiamo tentato di sfidare a duello uno dei magistrati più conosciuti d’Italia, che questo giornale, nei mesi passati, ha criticato con forza. Abbiamo tentato questa piccola pazzia per provare a incalzare un magistrato che ha fatto notizia per aver sfidato il governo, con un fatto concreto, e che ha messo in campo la propria azione, con orgoglio, per indicare al potere legislativo e al potere esecutivo qual è, su un ambito preciso, il confine che la politica non deve superare. Il magistrato in questione è piuttosto famoso. Si chiama Silvia Albano, è nata a Padova, è un magistrato ordinario, lavora al tribunale di Roma, nella sezione immigrazione, a novembre ha fatto scalpore per aver contribuito a scardinare il famoso “modello albanese”, promosso dal governo, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti all’interno del centro italiano di permanenza per il rimpatrio di Gjadër. In quei giorni, in molti, compreso questo giornale, si sono chiesti se quell’azione non sia stata un’esondazione da parte della magistratura, un tentativo di voler avere in modo discrezionale l’ultima parola su un tema su cui forse l’ultima parola spetterebbe a chi è stato eletto per legiferare, e dopo qualche mese di dialogo e di battibecco la dottoressa Albano ha accettato di confrontarsi con noi, ingaggiando un duello tosto ma costruttivo e stimolante. La dottoressa Albano non è solo il magistrato divenuto famoso per il caso Albania ma è un magistrato importante anche per il suo ruolo all’interno di una delle correnti della magistratura più famose del mondo: Md, Magistratura democratica, storica corrente progressista. Albano sa cosa pensa questo giornale delle correnti della magistratura, più o meno tutto il male possibile, ma con sportività ha accettato di confrontarsi anche su questo punto. E anche su molti altri. Su alcuni punti, la presidente di Md ci ha sorpreso, offrendo spunti di garantismo tutt’altro che scontati, anche su alcuni fatti di cronaca che hanno monopolizzato l’attenzione dei media negli ultimi giorni (Milano e non solo). Su altri punti, invece, la presidente di Md ha scelto di non sorprendere, mettendo in campo una visione del ruolo che deve avere oggi la magistratura tosta, dirompente, che farà discutere, specie per i giudizi sul governo Meloni. La nostra conversazione con Albano, per rompere il ghiaccio, inizia subito dalla sostanza, e da una domanda volutamente provocatoria. Dottoressa, ma ha davvero torto la politica quando sostiene che in Italia esiste una parte della magistratura che abbia una sua agenda politica, e che quella magistratura a volte tenda a mostrare le proprie convinzioni all’interno delle proprie indagini? “Sinceramente - dice Albano - non credo proprio che ci sia una parte della magistratura che abbia una propria agenda politica, forse bisognerebbe togliersi le lenti del preconcetto quando si guarda all’attività giudiziaria. Quando nell’attività giudiziaria si toccano temi sensibili, quali la politica o i migranti si tende a giudicare non i fatti o il contenuto dei provvedimenti, ma a indagare su come la pensa il giudice o il pm, se è di sinistra o di destra. Salvo abbia assolto Salvini, allora nessuno discetta sull’orientamento politico del collegio giudicante. La trovo una pratica pericolosa e gratuitamente delegittimante, fermo restando che, invece, la critica al contenuto dei provvedimenti è sempre legittima ed è positiva: aiuta la giurisdizione e la giurisprudenza a evolversi. Lo facciamo da sempre anche all’interno della magistratura, basta leggere la nostra rivista, Questione Giustizia”. Lei, riprendiamo noi, è una garantista, lo dice spesso, lo rivendica. Ma da garantisti possiamo convenire sul fatto che un magistrato che usa gli ingranaggi della giustizia per alimentare il processo mediatico è un magistrato che non sta facendo bene il proprio lavoro? Le offriamo due passaggi di un libro di Bruti Liberati, ex capo della procura di Milano. Primo: “Quando il pubblico ministero, invece di cercare i reati e le prove, si preoccupa di inseguire i mali della società, le devianze, i comportamenti eticamente riprovevoli, si rischia di travalicare il confine tra l’accertamento giurisdizionale e la missione morale, con l’effetto perverso di trasformare ogni inchiesta in un processo di costume”. E ancora: “La spettacolarizzazione dell’azione penale, alimentata da dichiarazioni enfatiche e da narrazioni suggestive, contribuisce a spostare l’attenzione dall’illecito accertato ai presunti disvalori, facendo perdere di vista la necessità della prova e la distinzione tra responsabilità penale e giudizi etici”. E’ d’accordo con lui? “Sono assolutamente d’accordo con lui, rilevo che non sempre questa critica viene avanzata a ragione e sulla base di dati di fatto, spesso resta molto generica”. Ma quando Silvia Albano legge troppi aggettivi e troppi avverbi in un’ordinanza, non pensa anche che ci sia puzza di bruciato? Ogni riferimento a fatti accaduti a Milano non è puramente casuale. “Credo sia importante mantenere un linguaggio sobrio nei provvedimenti, ma non esageratamente tecnico. Un linguaggio comprensibile non solo dal destinatario del provvedimento, ma da chiunque si trovi a leggerlo”. La dottoressa Albano ha mostrato grande diffidenza nei confronti della riforma della magistratura (eufemismo). Eppure il governo, facciamo notare noi, in fondo non ha fatto altro che essere coerente con una promessa elettorale: separare le carriere e combattere il potere delle correnti nella magistratura. Se gli elettori sono arrivati a chiedere una svolta di questo tipo, non sarebbe forse il caso di pensare che difendere lo status quo non sia davvero il modo migliore di difendere l’indipendenza della magistratura? “Fermo restando che venire eletti e avere la maggioranza non significa poter disporre di un potere illimitato (si tratta di un fondamento dello stato costituzionale di diritto sancito dall’art 1 della Costituzione), ma di un potere da esercitarsi nei limiti sanciti dalle fonti sovraordinate dell’ordinamento, che costituiscono un limite anche per il legislatore, la separazione delle carriere può voler dire tante cose e non necessariamente essere tradotta nel testo di riforma costituzionale approvato. Né credo che chi ha votato potesse avere contezza delle possibili alternative sul piano tecnico per raggiungere questo obiettivo. Eventualmente realizzabile, come affermato dalla stessa Corte costituzionale e da esimi costituzionalisti, anche con legge ordinaria. Quindi parliamo di questa riforma, del testo approvato e che verrà sottoposto a referendum. Il cuore della riforma non riguarda, infatti, la separazione delle carriere, il vero obiettivo - come autorevolmente affermato dal prof. Roberto Romboli - è invece quello di modificare alla radice la natura e il ruolo finora svolto dal Csm, attorno al quale e grazie al quale si è realizzata, dopo il 1958, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nel nostro paese. Non dimentichiamo, poi, che se la riforma passerà al vaglio del referendum bisognerà riscrivere tutte le norme sull’ordinamento giudiziario attraverso le quali i pericoli che denunciamo potranno essere ulteriormente aggravati”. Separare le carriere, facciamo notare alla dottoressa Albano, non è solo un tema di carattere giuridico. È anche un tema di carattere culturale. La terzietà non è solo un fatto, è una percezione: se il giudice e il pm si formano insieme, si scambiano ruoli, condividono lo stesso Csm, come può l’imputato sentirsi davvero giudicato da un arbitro imparziale? “Come affermato da un avvocato di lungo corso come il prof. Franco Coppi, non credo proprio che il tema sia questo, che ci sia il timore di un giudice non imparziale perché appartiene allo stesso ordine giudiziario cui appartiene il pm. Il cittadino dovrebbe allora temere a maggior ragione che non lo sia il giudice di appello o di Cassazione, visto che gli si chiede di riformare un provvedimento redatto da un collega ancora più vicino del pm. Il timore è poi smentito dai fatti, il 40 per cento di assoluzioni, in casi anche molto sensibili e rilevanti per la credibilità dell’azione della procura, sta lì a dimostrare il contrario. Il tema è allora proprio il sistema che vogliamo. I nostri costituenti hanno disegnato un sistema con un pm indipendente appartenente all’ordine giudiziario, la riforma del processo penale del 1989 non ha previsto un sistema accusatorio puro, come nei sistemi anglosassoni dove il pm è l’avvocato della Polizia, deputato a sostenere sempre e comunque l’accusa. Il nostro sistema, a mio parere, tutela i diritti dell’indagato, che è la parte debole, soprattutto nella fase delle indagini preliminari. In quella fase non potrà mai esserci una parità delle parti: il pm dispone della Polizia giudiziaria, perquisizioni, sequestri, ha un grande potere che la parte privata non ha né potrà avere, per questo è importante che il pm resti un organo di garanzia anche dei diritti dell’indagato, che il suo compito istituzionale sia la ricerca della verità essendo obbligato a raccogliere prove anche a favore dell’indagato. Obbligato a verificare la notizia di reato acquisita dalla Polizia potendo chiedere l’archiviazione all’esito delle indagini. Allontanare il pm dalla giurisdizione e dalla sua cultura significa avvicinarlo alla Polizia e fare un danno ai cittadini. Vanno combattute le distorsioni, che sicuramente ci sono state. Fare il pm per tutta la vita, come ora accade perché la separazione delle funzioni c’è di fatto da tempo, penso che non aiuti, ma aumenti il rischio di appiattimento del pm sulle tesi della Polizia, con la quale inevitabilmente lavora fianco a fianco”. Proviamo a fare un passo in avanti, con Albano, e capire fino a che punto una corrente della magistratura può muoversi nel portare avanti le proprie idee, anche arrivando a un conflitto politico con il governo di turno. E dunque chiediamo: se la riforma passerà anche in seconda lettura e vi sarà un referendum, lei considererebbe un dovere civico partecipare alla campagna referendaria per suggerire di votare contro la riforma, per provare a fermarla, o sarebbe improprio? Albano risponde con onestà, con decisione, e spiegando perché, dal suo punto di vista, entrare nell’agone del dibattito pubblico non è un problema per un magistrato: è un diritto. “Certo - dice Albano - considero un dovere civico dei magistrati, che meglio di altri hanno gli strumenti tecnici per rappresentare ciò che la riforma comporterà per i diritti dei cittadini, partecipare al dibattito pubblico e alla campagna referendaria”. Tempo fa Albano ha detto che i magistrati in tasca non hanno il libretto di Mao né il Capitale di Marx, ma solo la Costituzione. Bella frase. Ma questa frase ci spinge a provocarla: se davvero i magistrati amano così tanto la Costituzione, possiamo dire dunque che ogni magistrato che non fa tutto il necessario per rispettare l’articolo 27 della Costituzione - l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva - e l’articolo 15 della Costituzione, nel passaggio in cui stabilisce quanto sia miserabile spacciare per diritto di cronaca il diritto allo sputtanamento (la libertà e la segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni sono inviolabili e la loro limitazione può avvenire non in modo sistematico ma solo in seguito a un atto motivato dell’autorità giudiziaria), andrebbe ripreso e sanzionato con forza? Albano risponde, ma dribblando un po’ la domanda. “Esistono per casi del genere fattispecie tipiche di illecito disciplinare previste dal decreto legislativo n. 109 del 2006. Ricordo che l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati spetta al ministro della Giustizia e al procuratore generale presso la Corte di cassazione”. Garantismo, si diceva. Quando vi è una fuga di notizie da una procura lei vede, da parte degli organi inquirenti, sempre un grande desiderio di verificare, attraverso un’indagine, cosa è successo? A Milano, per capirci, il sindaco Sala ha saputo dell’indagine a suo carico dai giornali. Vi è stata una fuga di notizie. Non risulta che la procura abbia aperto un’indagine. “Non capisco bene la domanda. Comunque, quando vi sono fughe di notizie su indagini in corso bisognerebbe verificare da dove effettivamente provengano, non sempre dalle procure direi, anche in questo caso è prevista la responsabilità disciplinare del magistrato responsabile”. La conversazione con la dottoressa Albano inizia amichevolmente a scaldarsi e cogliamo l’attimo per entrare a gamba tesa in un altro ambito: come si definisce un limite, nella magistratura, tra il diritto a esprimere opinioni politiche e la trasformazione delle proprie opinioni politiche in un motore della magistratura? Mesi fa, un collega di Silvia Albano, Nello Rossi, già presidente di Magistratura democratica, già segretario dell’Associazione nazionale magistrati, spiegò che il ruolo del magistrato oggi deve intendersi in prima linea sulla base di questa convinzione. In moltissimi campi della vita sociale ed economica - ha scritto Rossi - “è il giudiziario a intervenire in esclusiva, o almeno in prima battuta, nella ricerca di soluzioni di problemi inediti talora incancreniti dalla paralisi e dall’inerzia della politica”. E per poter offrire, da magistrati, “un ruolo di garanzia dei diritti e della dignità delle persone e delle molte minoranze che popolano le moderne società” l’ex capo dell’Anm aveva individuato una piattaforma precisa. “In società in cui ciascun individuo può ritrovarsi a far parte di una delle molte minoranze che compongano la collettività è fortissima l’esigenza di una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone”. Un nuovo fronte di resistenza della magistratura. Chiediamo ad Albano: si tratta di una linea corretta o troppo interventista? “‘Una magistratura che assolva un incisivo ruolo di garanzia dei diritti individuali e della dignità delle persone’ riporto testualmente. In che senso interventista? Mi pare proprio il ruolo che la magistratura è chiamata a svolgere sulla base della nostra Costituzione. In un contesto in cui l’universalismo dei diritti è ancora vigente (almeno nell’ordinamento giuridico) la magistratura assolve al ruolo di garanzia e tutela dei diritti di ogni persona, qualsiasi sia il suo status. Sono principalmente le minoranze ad avere bisogno di una magistratura indipendente dal potere, ma sicuramente non solo loro. I diritti inviolabili che integrano la dignità della persona umana vanno sempre difesi e tutelati”. Con le sue sentenze, la dottoressa Albano ha avuto un ruolo importante nell’andare a illuminare quelli che ha ritenuto essere atti illegittimi fatti dal governo sul tema dei paesi sicuri e sul tema dei rimpatri. Ma rispetto a quei temi, per quanto ci riguarda, una domanda è d’obbligo: ma la politica ha ancora il diritto di considerare irregolare un migrante che arriva in Italia, senza averne il permesso, senza avere il diritto di chiedere asilo, oppure chiunque arriva in Italia deve essere considerato automaticamente regolare per il semplice fatto che l’autorità giudiziaria considera in modo discrezionale non sicuri paesi definiti invece sicuri dal governo? “La definizione di paese sicuro è contenuta nella direttiva Ue, recepita dal decreto legislativo n. 25/2008. Per definire un paese sicuro devono esistere i presupposti previsti dalla legge, il potere politico è competente a stilare l’elenco, ma quando stila quell’elenco deve rispettare la legge e il diritto dell’Unione che prevale anche sulla legge interna. Il giudice ha il dovere di verificare la legittimità della designazione. Lo hanno affermato con grande chiarezza la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte di cassazione. Quindi direi che le chiacchiere stanno a zero: quando il giudice effettua questa verifica fa semplicemente il proprio lavoro. La nostra Costituzione, le norme Ue e la Convenzione di Ginevra stabiliscono che nessuno può esser respinto senza dargli la possibilità di chiedere asilo. E’ un diritto fondamentale, che la Costituzione inserisce nella prima parte (art. 10 comma 3), quella che non è soggetta a revisione costituzionale perché sancisce diritti inalienabili. Mi rendo conto che può cozzare con alcune scelte politiche, ma, ripeto, il potere della maggioranza è limitato dal diritto, altrimenti non saremmo più in democrazia. Purtroppo alla magistratura spetta il compito di farlo rispettare, anche contro il volere della maggioranza politica di turno. A garanzia dei diritti di tutti”. Il professor Flick, giurista, uomo di sinistra, ex presidente della Corte, giorni fa ha messo, sul nostro giornale, a tema una questione che per molti magistrati è un tabù: la presenza di una magistratura che non si limita a occuparsi di reati ma che sceglie di occuparsi di fenomeni, facendo dunque prevalere nella sua azione un obiettivo non più legato al solo rispetto del codice penale e delle sue garanzie in tema di legge, reato, responsabilità personale e pena, ma legato a un pericoloso rispetto del codice etico. Secondo Flick, poi, l’eccesso nell’uso delle misure di prevenzione, come l’amministrazione giudiziaria senza reato accertato, rappresenta un problema per il paese perché mina il principio di legalità, sostituendo la certezza del diritto con il sospetto, e perché permette, come è successo a Milano con molte inchieste, di “passare dalla repressione di fatti penalmente rilevanti a interventi su fenomeni fondati su giudizi di contesto, percezioni di rischio o finalità etico-sociali”. “E così facendo il diritto penale diventa uno strumento di moralizzazione preventiva, con effetti distorsivi sia sulla responsabilità e sulla libertà d’impresa, sia sulla tutela dei diritti fondamentali”. Come si può, da magistrato, dire che il professor Flick abbia torto? Albano ci risponde sorprendendoci. “Il codice delle misure di prevenzione è stato adottato dal legislatore, non certo dalla magistratura. I presupposti per applicarle sono disciplinati dalla legge ed è previsto che possano essere in determinati casi applicate a chi non ha subìto condanne. Certamente ha permesso di raggiungere grandi risultati per lo smantellamento del sistema economico mafioso. A me non piace, trovo ad esempio che sia un ostacolo per i parenti anche alla lontana di famiglie mafiose per potersi affrancare da quel sistema. Le misure di prevenzione hanno superato verifiche di legittimità costituzionale - con alcune limitazioni - o con le norme sovranazionali, e sono stati proprio i giudici a chiederle, ma si tratta di misure oltremodo afflittive applicabili su presupposti molto labili a volte, non credo sia accettabile in un sistema che vorrebbe essere garantista e liberale. Come non mi piace il Daspo che la legge Sicurezza allarga a dismisura anche a chi non abbia subìto condanne, ma una semplice denuncia. Lo trovo incostituzionale perché limita gravemente la libertà di circolazione sulla base di circostanze non accertate, ma appunto sulla base di un semplice sospetto. Però direi che più che con la magistratura se la dovrebbe prendere con chi ha fatto queste leggi”. Se il governo dovesse scegliere di procedere verso l’inappellabilità del primo grado sarebbe uno scandalo? “Credo che la ragione di chi ritiene che con l’assoluzione in primo grado non si potrebbe arrivare a una condanna in appello perché non verrebbe eliminato ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell’imputato abbia un suo fondamento sul quale vale sicuramente la pena di ragionare, non dimenticando però che ci sono anche i diritti delle vittime. Ma, credo, che a eventuali gravi vizi della motivazione della sentenza di primo grado (violazione di legge, travisamento delle prove, contraddittorietà della motivazione, ecc.) si possa ovviare con il ricorso per Cassazione, che non può certo essere limitato per il pm senza modificare l’art. 111 della Costituzione a norma del quale qualsiasi provvedimento decisorio è impugnabile in Cassazione per violazione di legge. La legge ‘Pecorella’ aveva abrogato la possibilità per il pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, è stata però dichiarata incostituzionale per violazione del principio di parità delle parti”. L’onorevole Enrico Costa ha notato che presidente dell’Anm, il dottor Cesare Parodi, ha invitato a denunciare i casi di degenerazione correntizia al Csm, o ad astenersi dal gettare discredito sul Csm. Il presidente Parodi lascia intendere, secondo Costa, che il Csm fondi le sue scelte sul merito. Ma se è così, come mai il 99,6 per cento dei magistrati ha dal Csm una valutazione di professionalità “positiva”, nonostante la legge stabilisca che questa valutazione debba tenere conto dell’attività svolta e nell’attività svolta rientrino gli arresti ingiusti, per i quali lo stato ha pagato quasi un miliardo di euro dal 1992 a oggi e oltre trentamila persone sono state rovinate? “Non ho in questo momento contezza dei numeri di cui parla, ma parto dal presupposto che siano corretti. Sicuramente la degenerazione correntizia non c’entra nulla con le valutazioni di professionalità. Veniamo valutati ogni 4 anni attraverso un procedimento complesso, che comprende il parere del capo dell’ufficio, quello del Consiglio giudiziario - alla cui formazione partecipano ora anche gli avvocati - e la valutazione finale da parte del Csm. Ricevere un parere negativo ha conseguenze molto gravi, perché alla seconda valutazione negativa si viene rimossi dall’ordine giudiziario, quindi è riservato a cadute gravi di professionalità che non so se nei casi che lei cita ci siano effettivamente state. Mentre una valutazione non positiva comporta una sorta di sospensione del giudizio e una successiva verifica in ordine alla permanenza o meno delle criticità riscontrate. Comunque ci sono tutti gli strumenti per promuovere questa verifica da parte dei soggetti coinvolti”. Si dice spesso che la perdita di credibilità con cui deve fare i conti la magistratura in Italia oggi la si debba all’”aggressione che ha ricevuto dalla politica”. Ci dice però, con un po’ di autocritica, cosa la magistratura secondo lei in questi anni ha sottovalutato e cosa ha sbagliato e cosa ha fatto la magistratura da sola per perdere un po’ della sua fondamentale credibilità? “Non c’è dubbio che ci siano state occasioni in cui la magistratura ha prestato il fianco a critiche e che non si siano fatti abbastanza i conti con quello che è emerso con il famoso scandalo dell’Hotel Champagne. Ma c’è una differenza fondamentale tra le critiche e le invettive che di fatto delegittimano l’ordine giudiziario nel suo complesso, istituzione che costituisce un architrave del nostro stato di diritto. La sua autorevolezza ed efficacia si fonda sulla fiducia dei cittadini, non sul consenso. E la delegittimazione porta inevitabilmente a una chiusura corporativa da parte della magistratura, dannosa per tutti, perché la capacità autocritica fa crescere e aiuta a riconoscere e a non ripetere gli errori eventualmente commessi”. Lei è d’accordo quando si chiede alla magistratura di stare attenta a non criminalizzare il mestiere della politica e a non trasformare la logica del profitto in un peccato fino a prova contraria? “Io credo che un’indagine serva a valutare se sussistono o meno fatti di reato. Mi pare che di regola sia così”. Siamo alla fine della nostra conversazione e poniamo ad Albano la più politica delle domande. Dottoressa, lei guida una delle correnti più importanti del nostro paese. Ci può dire in cosa si sente progressista e in cosa pensa che il governo Meloni stia andando verso una direzione pericolosa? Albano sorride e si lascia andare. “Ci dà un’importanza che forse non abbiamo, lo prendo come un gradito complimento. Mi pare si stia mettendo in pratica un progetto che visto nel suo complesso scardina gli architravi sui quali è stata costruita la nostra democrazia costituzionale. Penso all’autonomia differenziata, alla riforma del premierato, alla riforma della giustizia, alla legge sicurezza. Cambia non solo l’equilibrio tra i diversi poteri dello stato, così sapientemente disegnato dai nostri costituenti nella preoccupazione di garantire che non si potesse più giungere a una dittatura della maggioranza, ma anche il rapporto tra potere e cittadini, da questo punto di vista devono essere letti insieme la legge Sicurezza e l’abrogazione dell’abuso d’ufficio che era un argine contro gli abusi del potere nei confronti dei singoli. Si vuole un potere assoluto della maggioranza, insofferente al conflitto, ai diritti dei singoli nel momento in cui intralciano il potere e ai controlli, che siano giudiziari o della libera stampa. Credo che ogni sincero liberale dovrebbe essere preoccupato. Penso che il progetto contenuto nella nostra Carta costituzionale, frutto di una sintesi felice tra le diverse culture rappresentate dai partiti usciti dalla Resistenza al fascismo, sia ancora in grado di garantire il progresso della nostra società e della nostra democrazia, l’espansione dei diritti di tutti”. Esondazioni delle procure, rapporto tra poteri dello stato, ruolo delle correnti nella magistratura, visioni diverse del garantismo. La conversazione con la dottoressa Albano finisce qui. Ma una domanda resta sullo sfondo: quando la magistratura sceglie di schierarsi contro alcune riforme di un governo, come si definisce un limite tra il diritto a esprimere opinioni politiche e la trasformazione delle proprie opinioni politiche in un motore della magistratura? Ecco cinque ragioni per dire no alla legge sul femminicidio di Aurora Matteucci Il Dubbio, 26 luglio 2025 Quando si tratta di aumentare reati e pene, in nome di una sicurezza pubblica che non ha niente a che fare con la sicurezza sociale, tutti scalpitano ad arrivare per primi. In un recente articolo comparso su Lucy dell’aprile scorso “le motivazioni della sentenza Turetta e il femminismo punitivo” la sociologa Valeria Verdolini si poneva questa domanda: “Perché chiediamo al diritto penale di risolvere problemi di ordine culturale?”. Aggiungo: perché lo chiediamo, per giunta, ad un diritto penale vendicativo, bellico cui affidiamo in via esclusiva il compito di proteggerci da ogni male? È la domanda delle domande che interroga, da anni ormai, chiunque abbia a cuore il mantenimento di un cordone di protezione per i principi costituzionali. Lo ha scritto molto bene Maria Luisa Boccia su quadernitre “critica al panpenalismo”: “Governare con la paura, è questo il nocciolo del patto tra il potere (legittimato all’uso del monopolio della forza) e governati/e (garantiti/e nella loro sicurezza). In società attraversate da crescenti disuguaglianze, con un legame sociale indebolito, serve spostare rabbia e sofferenza dalle cause reali alla minaccia dell’altro. Il racconto mediatico della cronaca quotidiana alimenta l’immaginario populista della tolleranza zero: basta con gli sconti di pena, le attenuanti, le misure alternative, gli indulti, le amnistie. Allarghiamo l’area del crimine e della sicurezza: più reati, sentenze più severe, pene più alte e certe, più carcere, più ergastolo”. Il panpenalismo è vivo e vegeto e lascia in bocca l’amara consapevolezza dell’arretramento della politica di fronte ai grandi interrogativi della contemporaneità. Uno di questi, per restare in tema, è: come superare l’ordine egemonico del dominio patriarcale? Nel migliore dei mondi possibili avremmo sentito dire: “Agendo sul piano sociale, sull’irrobustimento dell’empowerment femminile, sulla parità salariale, sui programmi educativi nelle scuole, sulla decostruzione del maschilismo tossico”. Quello che, invece, sentiamo dire, è: col carcere duro, con la pena massima, con una stretta formidabile sulle garanzie processuali. Si potrebbe obiettare, anzi molte obiettano: nel migliore dei mondi possibili, però, le donne non muoiono per mano di uomo. Ed è vero. Hanno ragione. Ma serve l’ergastolo? Niente affatto. Eppure, il 23 luglio, il Senato ha approvato il ddl sul femminicidio che, per l’appunto, introduce un’autonoma fattispecie di reato punita con la pena massima. Il sì, ce lo potevamo immaginare, è stato bipartisan. Del resto, il piatto era troppo ghiotto. Correre dietro alla destra sulla politica criminale è ormai un evergreen della nostra sinistra. Quando si tratta di aumentare reati e pene, in nome di una sicurezza pubblica che non ha niente a che fare con la sicurezza sociale, tutti scalpitano ad arrivare per primi. Va detto che in effetti i risultati elettorali, purtroppo, continuano a premiare questo atteggiamento. Ed allora, a furia di stare dalla parte “controintuitiva” del pensiero (come va di moda dire oggi) si finisce con lo stancarsi. E davvero repetita iuvant? Se non è bastato neppure l’appello delle docenti universitarie - ottanta! - che hanno gridato allo scandalo di un testo incostituzionale con un documento che metteva a nudo tutta l’ipocrisia del ricorso al penale massimo? Se non sono bastate le critiche mosse da un fronte compatto di penaliste, di sociologhe, di filosofe, di femministe? Il dado è tratto: non ci vorrà molto perché questa gestazione estiva partorisca il mostro di un testo palesemente sbagliato. Eppure, occorre ripeterci ancora e ancora, fino a sgolarsi, almeno per promuovere una contropropaganda. Ecco lo slogan: il deciso NO alla legge sul femminicidio spiegato punto per punto. Uno: ci fanno credere che con la nuova legge uccidere una donna diventerà finalmente reato punito con l’ergastolo: falso. L’ergastolo esiste già (pensiamo alla condanna di Turetta, di Impagniatiello). E allora perché incaponirsi con un nuovo reato? Semplicemente per dare l’illusione che si abbiano a cuore le donne che, al contrario, continuano a morire nonostante gli aumenti vertiginosi delle pene di questi ultimi anni. Due: Si sostiene che il fenomeno vada nominato. Femminicidio. Ma non basta che entri nel lessico corrente (ci sono voluti quasi 50 anni perché ciò accadesse, da quando lo ha fatto, nel 1976, Diana Russel). Occorre nominarlo nel codice penale. L’obiettivo vero, quindi, non è culturale. Si vogliono educare i giudici a riconoscerlo limitandone il più possibile la valutazione (sia mai che qualche attenuante scappasse dalla penna) come se i femminicidi oggi restassero tutti impuniti sotto l’etichetta del 575 aggravato, il “vecchio” omicidio per intendersi. Dunque: non interessa dare esecuzione alla regola del “se mi nomini esisto” - che vale per la declinazione di un linguaggio rispettoso dei generi -. Piuttosto (si legge nel libro bianco per la formazione della violenza di genere a cura della ministra Roccella, manifesto politico che ha anticipato la nuova legge) lo si vuole nominare come si è fatto con la mafia. In sostanza si intende legittimare, mediante l’introduzione del nuovo reato, il c.d. diritto penale d’eccezione, o bellico, un nuovo binario per tipologia di vittima secondo un rovesciamento di prospettiva. È il diritto penale a fare da volano al cambiamento culturale, non, come dovrebbe essere, il contrario. Al bando l’extrema ratio, allora (quel principio liberale secondo cui il diritto penale interviene per ultimo, quando l’ordinamento non è in grado di affrontare un fenomeno con altri strumenti). Siamo in guerra, il pugno è duro, tutto vale e tutto si tiene. Non è una novità. Codice Rosso e Legge Roccella (che hanno inasprito pene e ridotto al lumicino le garanzie processuali) rispondevano esattamente a questa logica. Sono morte meno donne da allora? Niente affatto. Vogliamo nominare più correttamente l’omicidio? Riscriviamo il reato e diciamo che chiunque uccide una persona (non un uomo come è scritto oggi) è punito etc... Tre: un po’ di sincerità, per favore. Davvero crediamo alla favola che un uomo violento si lasci intimidire dalla minaccia della sanzione massima? È notizia di questi giorni che a Pisa un uomo ha ucciso la moglie e si è ucciso. Notizia che una stampa poco attenta ha liquidato come tragedia della depressione (quella di lui, del femminicida: lo possiamo usare questo termine, lo dobbiamo usare, non c’è bisogno, però, di costruirci attorno un reato). È talmente spaventoso che l’uomo della porta accanto possa uccidere la propria compagna che nell’immediato si è portati, sbagliando, a ricercarne origini patologiche, quel qualcosa che non va, che spiega l’anormalità del gesto e ci fa sentire al sicuro. Ma ormai lo sappiamo. Il femminicidio è espressione di un dominio maschile sul corpo, sulla vita, sulla libertà delle donne. Dunque, non è un’emergenza di oggi, ma una piaga strutturale. E allora perché insistere con la solita escalation di repressione penale ad invarianza finanziaria? Il numero degli uomini che dopo aver ucciso una donna si tolgono la vita è altissimo anche se non disponiamo di statistiche certe. Serve l’ergastolo? Niente affatto. È una legge ipocrita? Sì. Quattro: il nuovo 577 bis punisce chi uccide una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione, di controllo, di possesso o di dominio, in relazione al suo rifiuto di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali. Domanda: e se ad essere ucciso per lo stesso scopo è una persona che ancora non ha ultimato la transizione? Niente da fare. Al prossimo giro. Inventeranno un nuovo reato anche per questo, forse non il governo Meloni, ma chissà, prima o poi. Non oggi. La verità è che uccidere una donna non può essere considerato più grave che uccidere una qualsiasi altra persona che si identifichi con un genere diverso. Lo impone il principio di uguaglianza (art. 3 Costituzione). Cinque: la giustizia penale diviene affare privato. La parola della pubblica accusa non basta più: è sottoposta al placet della vittima, persino sul progetto di pena concordato con l’imputato. La sua è la parola che pesa. La nostra Costituzione, però, impedisce di applicare l’occhio per occhio. Per questo l’istanza di punizione non può che essere di esclusiva mano pubblica. Assolto ma confiscato, a 81 anni non ho una casa: così lo stato distrugge intere famiglie di Giuseppe Pontoriero L’Unità, 26 luglio 2025 La mia vicenda inizia nel 2009, quando due clienti, di cui ero consulente, vengono indagati per riciclaggio di denaro proveniente dalla cosca Spagnolo e nell’indagine vengo coinvolto anch’io, essendo in quel periodo anche amministratore di una loro società. Mentre opto per il patteggiamento, gli altri imputati seguono il processo ordinario che li vede assolti perché il fatto non sussiste. Una volta scoperte le loro assoluzioni, chiedo la revisione del patteggiamento e ottengo la medesima assoluzione. Nonostante ciò, vengo etichettato indelebilmente come il contabile della mafia. Da quel momento, subisco continui controlli, anche da parte della Guardia di Finanza e da uno di essi scaturisce una nuova inquisizione, un nuovo processo. Questa volta per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti che, seppur si prescriva, si conclude con una condanna per evasione di circa 100.000 euro. Purtroppo, prima del processo di revisione, subisco una misura di prevenzione che si conclude con la confisca totalitaria delle due società di famiglia, risalenti al 1988. Tentiamo la revocazione che viene dichiarata inammissibile perché, secondo la corte, doveva essere proposta entro il termine perentorio di sei mesi dall’assoluzione degli altri due coimputati, vanificando quindi l’assoluzione. La Cassazione annulla con rinvio per un nuovo giudizio, in quanto la corte di merito non può non tenere conto dell’assoluzione che si è cristallizzata a seguito di un giudizio ad personam, dal quale è logico far decorrere il termine per la proposizione della domanda di revocazione. Intanto passa un altro anno inutilmente. Nel nuovo giudizio, dopo diversi rinvii, finalmente si celebra la tanto attesa udienza. Dopo appena un mese l’ennesima doccia fredda. La Corte rigetta la revocazione. Viene riconosciuto che a mio carico non ci siano reati legati alla criminalità organizzata, che la prima evasione risalga al 2004 e che quindi prima di tale anno risulti incensurato, ma si ipotizza che sarebbe realistico ritenere che, non reati, non fatti ma “schemi comportamentali” si possano estendere agli anni precedenti, giustificando la confisca di tutti i nostri beni, anche quelli acquisiti prima del 2004. Si sono scritte sentenze con un gioco di parole che hanno avuto l’effetto di disintegrare il passato mio e di mia moglie e di annientare il futuro di mia figlia e dei miei nipoti. È stata attribuita dai magistrati una sproporzione al nostro nucleo famigliare di oltre un milione di euro ma quella sproporzione tra entrate e uscite è un calcolo a scalare, ciò vuol dire che per ogni anno è già riportato il risultato dell’anno precedente e non è una semplice addizione di somme. Infatti la stessa Dia, effettuando il corretto calcolo matematico a scalare, aveva indicato una sproporzione di circa 17.000 euro. Se non c’è certezza nel diritto, c’è nella matematica che non è un’opinione. Se un calcolo a scalare è pari a 17.000 non ci si può inventare un valore esponenziale di oltre un milione per sostenere la sproporzione e giustificare la confisca di un patrimonio intero. Perché dietro questi errori, ci sono delle vite, con cui non si può giocare, come con i numeri o con le parole. Non c’è giorno o momento in cui mi domando il motivo per il quale ci è capitato tutto questo. Perché sono nato in Calabria? Perché ho commesso la leggerezza di amministrare una società in nome e per conto di due soggetti assolti perché il fatto non sussiste e io a mia volta? Perché? Viviamo in una dittatura che ha calpestato la mia dignità di essere considerata una persona rispettabile. Sulla base di ipotesi, di errori matematici, dell’opinione soggettiva di un magistrato su schemi comportamentali di un soggetto qualunque, lo Stato annichilisce intere famiglie, si impossessa di tutto ciò che possiedi, ti umilia, getta fango sui giornali e ti abbandona per strada, senza curarsi né delle tue ragioni né delle tue condizioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e, a ottant’uno anni, mi ritrovo senza casa. Con difficoltà, ho voluto raccontare gli anni più dolorosi della mia vita, per rivolgere un appello a quanti stanno vivendo lo stesso incubo, per incentivare a denunciare queste sopraffazioni, perché solo dalla conoscenza, dall’informazione e dal confronto si può portare alla luce questo mondo sommerso e solo scuotendo le coscienze si può finalmente trovare giustizia, non solo per gli innocenti che le subiscono ma per il bene e il futuro economico e sociale dell’intera comunità. Le misure di prevenzione sul palcoscenico dove verrà smascherato il regime dell’antimafia Roberto Disma L’Unità, 26 luglio 2025 Sono trascorsi oltre dieci anni da quando il giornalismo locale ha scoperchiato un esercizio arbitrario e prepotente di sequestri e confische nella Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo: beni sequestrati col pretesto dell’antimafia e trasformati in un vero e proprio bancomat per giudici, amministratori giudiziari, coadiutori e affini. L’eco delle testate nazionali, necessario per le proporzioni dello scandalo, ha consentito che la pericolosa inchiesta non si riducesse a delle urla nel deserto - con relativa vicenda giudiziaria durata nove anni sulle spalle del giornalista Pino Maniaci, prima di un’assoluzione con formula piena riconfermata in Appello dall’infamante accusa di estorsione - e la Procura di Caltanissetta si è attivata per smantellare in sede giudiziaria il cosiddetto “cerchio magico” di Silvana Saguto. Questo è quanto accaduto, confermato e senza possibilità di smentita. Che la reazione sia stata intrapresa da una piccola emittente come Telejato è tanto amaro quanto naturale: solo Davide affronta Golia, e per non vanificare la lotta delle vittime è necessario che il popolo sia padrone della narrazione e della memoria che viene tramandata. Infatti, nonostante l’attenzione dei media nazionali, ancora oggi il sospetto che il caso palermitano non sia affatto isolato e che esista un sistema rodato e distribuito nel Paese viene a malapena vociferato in sporadici episodi di piccole fonti d’informazione locale. Un altro aspetto su cui ancora oggi si tace è un vero e proprio segreto di Pulcinella: le correlazioni tra sequestri, confische e le sezioni della Fallimentare e delle Esecuzioni Immobiliari. È un dato di fatto, forte di numerosi episodi e della stessa giurisprudenza, che l’amministrazione giudiziaria di un bene confiscato intenzionata ad arricchirsi nutre un vivo interesse affinché il bene venga spolpato all’osso nel più breve tempo possibile, perché una volta fallito non vige l’obbligo di rendicontazione. Se non è possibile discutere di questo, forse per non urtare il popolo di scandalizzati di pasoliniana memoria, è del tutto inconcepibile lo scandalo celato nell’ultima fase, quella delle aste giudiziarie, con metodi di partecipazione e assegnazione talmente ambigui che nessuno si sogna di aprire bocca al riguardo, protetti da una cortina giuridica fumosa, blindata, inviolabile e soprattutto legale, che impedisce l’avvio di un’azione giudiziaria. La politica, che avrebbe tanti strumenti per intervenire, quando è chiamata in causa sembra reagire come un coscritto al fronte. Più che un disinteresse, dalle reazioni di Cafiero De Raho al ricorso alla CEDU della famiglia Cavallotti o dalla risposta giuridichese e inconcludente di Andrea Delmastro all’interrogazione parlamentare presentata da Roberto Giachetti, sembra che la politica abbia paura di affrontare l’argomento, ed è inquietante per un sistema in cui è impossibile non domandarsi quanto la mafia, quella vera, non sia direttamente o indirettamente coinvolta. Questo è il tasto più intoccabile e spaventoso per quanto corrisponda al naturale corso delle devianze: la mafia che si veste di antimafia in un patto di reciproca sopravvivenza. Perché la politica si sente legittimata a non approfondire? La risposta è semplice, quasi banale: manca un approccio culturale. A prescindere da quanto il mondo sia preparato ad accettare la verità, la consapevolezza si alimenta di canali irrazionali e inarrestabili: la volontà di garantire una giustizia alle vittime, di porre i riflettori su quest’ultimo capitolo della Questione Meridionale, di dare una chiara collocazione culturale al fenomeno; perché no, sulle assi di un palcoscenico. Dove il re viene denudato e la maschera del potere viene giudicata da una platea, dove la borghesia casca da tempo immemore nel tranello della mondanità e viene schiaffeggiata dalla memoria e dalle parole, il teatro rappresenta il battesimo di una presa di consapevolezza sociale e definitiva. L’immortalità della narrazione scenica libera la testimonianza dalla temporaneità della cronaca, rende il pubblico giudicante di ciò che vede e giudicato da quel che sente, in un presente ancora oggi troppo condizionato dal passato per guardare al futuro. Ed è proprio l’Arte a stimolare l’immaginazione, nel suo gioco è d’obbligo spingere il pensiero critico oltre ogni materialismo per far emergere quella suprema verità che, citando Eduardo De Filippo, in teatro è stata e sarà sempre la sublime finzione. Sarà fatto, sarà in scena. Stalking, non è contestabile l’aggravante di aver commesso il fatto alla presenza di minori di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2025 L’aggravante in caso di atti persecutori è prevista solo se il reato è commesso in danno di persona minorenne. Inoltre la circostanza contestabile perché ha assistito all’illecito un minore riguarda solo i delitti colposi. In caso di stalking - che è reato contro la libertà morale - non è applicabile la circostanza aggravante comune prevista per tutti i reati colposi contro la vita, l’incolumità individuale e la libertà personale di aver commesso il fatto alla presenza di minori. Da ciò discende che l’aggravante “comune” prevista dall’articolo 61, comma 1, n. 11 quinquies, del Codice penale non sia contestabile a chi commette atti persecutori in presenza di persone minorenni. Infatti, il reato previsto dall’articolo 612-bis del Codice penale al suo terzo comma contempla un’ipotesi di aggravante “specifica” a cosiddetto effetto speciale rispetto alla norma generale sulle circostanze che aggravano il reato. Per tali motivi la Cassazione penale - con la sentenza n. 27288/2025 - ha annullato in parte la condanna del ricorrente cui era stata applicata l’aggravante dell’articolo 61 del Cp. con rinvio al giudice per rideterminare (rectius, ridurre) la pena irrogata. Infatti, nel caso risolto, l’imputato aveva commesso alcuni degli atti persecutori mentre la vittima era in compagnia dei proprI figli minori. Ma l’autore del reato non aveva agito mai direttamente contro gli stessi. Infatti, nel caso dello stalking l’aggravante relativa al coinvolgimento nel reato di persone minorenni contempla solo l’ipotesi che la condotta punibile stessa sia stata agita contro il soggetto minore e non meramente alla sua presenza. Liguria. La sentenza della Consulta è ignorata, il diritto all’affettività in carcere resta un tabù di Erica Manna La Repubblica, 26 luglio 2025 Il garante Doriano Saracino: “A Marassi è tutto oscuro, altrove i garanti sono stati interessati nell’ideazione di questi spazi. Qui non siamo stati coinvolti”. Il progetto di una stanza dell’affettività nel carcere di Marassi esiste. Una struttura prefabbricata, non lontano dall’area in cui è presente il teatro dell’Arca: un luogo - dotato di bagno - a cui sarebbe possibile accedere dall’ingresso laterale, per garantire una maggiore privacy. Il costo è intorno ai 20 mila euro. Eppure, nonostante siano state finalmente pubblicate ad aprile le linee guida del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, (l’ente del Ministero della Giustizia che si occupa di carceri) che prevedono che nelle singole carceri gli spazi siano individuati dai provveditorati regionali, in Liguria non ne esiste ancora nessuno. E, del progetto dentro Marassi, nel momento in cui scriviamo questo articolo, il garante delle persone private della libertà Doriano Saracino non sa ancora nulla: “Purtroppo è tutto oscuro - rimarca Saracino - a differenza di altri provveditorati in Italia, dove i garanti sono stati interessati nella progettazione di questi spazi, non siamo stati coinvolti. Nonostante io abbia chiesto in diverse occasioni delucidazioni”. A Pontedecimo, spiega Saracino, la direttrice ha identificato uno spazio dove allestire la camera dell’affettività, non lontano dall’area colloqui. “La mia richiesta - rimarca il garante - è che non siano solo un luogo dove esercitare il proprio diritto alla sessualità. Ma anche spazi di incontro con i figli e il coniuge, aspetto che le linee guida sembrano escludere. Esercitare la sfera affettiva è fondamentale, per chi è dentro. E poi, non sarebbe un modo per tutelare la famiglia, un diritto protetto dalla Costituzione?”. La sentenza - Era gennaio dell’anno scorso, quando una sentenza della Corte Costituzionale dichiarava illegittimo il divieto assoluto all’affettività (e anche alla sessualità) in carcere: la norma a cui ci si riferiva, infatti, imponeva il controllo a vista sui detenuti durante i colloqui con i loro coniugi o conviventi. Dopo la sentenza, però, per un anno e mezzo la situazione - in mancanza di linee guida - era rimasta cristallizzata. Perché la Corte non aveva indicato chi avesse il compito di individuare spazi idonei e di allestirli. Adesso, invece, le linee guida ci sono. Ma a oggi solo 32 istituti penitenziari su 189, in Italia, si sono dotati della camera dell’affettività. Appena il 17 per cento. E le linee guida non indicano un limite di tempo preciso entro il quale le case circondariali dovranno allestire questi spazi. Come funzionano - Le camere dell’affettività danno diritto ai detenuti - in assenza di impedimenti dettati da motivi di sicurezza - di avere colloqui con i loro coniugi, persone con cui sono uniti civilmente o conviventi stabili fino a prima dell’arresto, senza supervisione. Una volta al mese, per due ore al massimo. Negli spazi individuati dovrebbe essere allestita una camera arredata con un letto e servizi igienici: ma non sarà possibile chiudersi dentro dall’interno, e la stanza sarà sorvegliata da fuori. “I diritti non devono essere colpiti, sarebbe una punizione anche per i partner - è il ragionamento di Doriano Saracino - se pensiamo, poi, che in carcere è consentito sposarsi, sarebbe un controsenso impedire spazi di affettività”. Le criticità, però, esistono: “Un tema delicato è quello dei sex offender a Pontedecimo - aggiunge il garante - è una questione delicata, ma la mia riflessione è che anche loro potrebbero aver mantenuto un rapporto con un coniuge o un partner. Questi detenuti però non possono entrare in contatto con altri reclusi per motivi di sicurezza. Se venissero fatti entrare a Marassi per accedere alla stanza dell’affettività, in che modalità questo potrebbe avvenire senza mettere a rischio la loro sicurezza? Sono aspetti che vanno studiati”. Il tema arriva in Regione - Un primo sì intanto è arrivato: Selena Candia - capogruppo di Avs in consiglio regionale, che nelle scorse settimane ha visitato la casa circondariale di Marassi nell’ambito dell’iniziativa di Nessuno tocchi Caino - aveva promesso di portare la questione in discussione, con la presentazione di un emendamento in occasione dell’assestamento di bilancio. Nella manovra di bilancio licenziata l’altro ieri dal consiglio regionale, dunque, c’è anche il via libera alla sperimentazione di una stanza per l’affettività nelle carceri liguri. “Il provveditore per l’amministrazione penitenziaria ha individuato Marassi per ospitare una delle prime stanze dell’affettività, per consentire ai detenuti di incontrare i partner in condizioni di sicurezza - sottolinea Candia - è una misura necessaria per garantire i diritti delle persone recluse, senza intaccare il provvedimento restrittivo, che è stata riconosciuta dalla legge. Purtroppo nel carcere di Marassi mancano gli spazi negli edifici attuali. L’unica soluzione fattibile è quella di installare un prefabbricato con servizi igienici all’interno del penitenziario, in modo da assicurare sia la vigilanza esterna sia la riservatezza dell’incontro. È un progetto importante: per tutelare il diritto all’affettività e anche per prevenire tensioni”. Trapani. Giovane detenuto straniero suicida, aveva dato segni di fragilità psichica La Sicilia, 26 luglio 2025 “È successo al carcere Pietro Cerulli di Trapani che un giovane tunisino questa notte ha deciso di togliersi la vita”. Lo rende noto Pino Apprendi, Garante dei detenuti di Palermo, spiegando che “il giovane aveva già dato segni di fragilità con altri tentativi e atti di autolesionismo”. L’uomo, di 29 anni, era accusato di reati connessi alla detenzione e allo spaccio di stupefacenti: si è impiccato ieri sera nella sua cella e a nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari. “Nei giorni scorsi - aggiunge Apprendi - il parlamentare Marco Grimaldi e Pierpaolo Montalto avevano descritto il grave disagio che si vive in quel carcere, da una parte i detenuti e dall’altra il personale della Polizia Penitenziaria. La situazione è diventata esplosiva, oggi il Garante di Siracusa Giovanni Villari ha constatato che al carcere di Brucoli manca acqua e luce da 5 giorni. Da 3 mesi si è dimesso il Garante regionale Consolo e non è stato sostituito, forse perché è un incarico non retribuito, altrimenti avrebbero fatto a gara per essere nominati. Chi deve intervenire? Di chi la responsabilità? Il Ministro Nordio fa provvedimenti spot ininfluenti. Mercoledì 30 luglio aderiamo alla iniziativa nazionale dei Garanti Territoriali con un presidio alle 10,30 davanti il tribunale di Palermo”. Debora Serracchiani, responsabile nazionale Giustizia del PD, e Giovanna Iacono deputata Dem del collegio di Trapani hanno annunciato che presenteranno un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in merito a questa ultima tragedia per chiedere conto della gestione di quella che è divenuta ormai una vera e propria emergenza suicidi nelle carceri italiane, e in particolare nella struttura trapanese. “Chiederemo al ministro di chiarire quali misure di prevenzione siano state adottate nella Casa circondariale di Trapani dopo i precedenti casi di tentativi di suicidio e di autolesionismo e cosa intende fare rispetto all’inadeguatezza di quei luoghi ormai sempre più invivibili e a rischio collasso. Abbiamo chiesto più volte al governo di farsi carico di misure straordinarie e di investimenti concreti per fermare l’emergenza carceraria in Italia, e per tutelare la vita e la dignità delle persone detenute. Non possiamo più tollerare - concludono - che le carceri continuino a essere dei luoghi di morte e di disperazione e in cui i diritti della persona vengono quotidianamente mortificati e annullati”. Trapani. Un carcere dove si muore di Rino Giacalone liberainformazione.org, 26 luglio 2025 Trapani, suicida un tunisino detenuto nella casa circondariale “Pietro Cerulli”, dove regnano condizioni disumane per i carcerati e gli agenti che vi lavorano, mentre il ministero della Giustizia resta “latitante”. Aveva trent’anni, era tunisino, si trovava in cella per reati di spaccio, ma le sue condizioni avrebbero voluto che fosse magari ricoverato in una struttura sanitaria o in una comunità protetta. Aveva tentato il suicidio, era stato in ospedale, tornato in cella ha insistito nel suo volere di farla finita, stavolta riuscendoci. Era affetto da patologie psichiche, ma non si capisce come mai restava in carcere. Adesso ci sono le interrogazioni parlamentari, presentate al ministro della Giustizia Nordio, attendiamo le sue risposte. Ma il punto è un altro. Non è solo sulla morte di questo detenuto che Nordio deve rispondere. Deve spiegare perché soldi per il carcere di Trapani il suo ministero non ne trova. Qualche mese addietro una indagine della Procura di Trapani portò ad alzare il velo su alcune segrete vicende che sarebbero avvenute dentro questa casa di reclusione. Alcuni agenti sono stati arrestati con l’accusa di aver torturato dei detenuti. Una vicenda giudiziaria ancora aperta, ma non è di questo che vogliamo oggi scrivere. Quella indagine portò alla chiusura di un reparto del carcere, riconosciuto essere inadeguato, inagibile, non frequentabile. A distanza di mesi quel reparto resta chiuso, in un carcere sovraffollato. Nessuno si occupa del suo ripristino. L’emergenza giustizia non esiste per chi è qui rinchiuso o per gli agenti e gli operatori penitenziari che qui lavorano. È questo il vero tema. È l’argomento principe, qui si violano le norme penali sulla rieducazione, qui chi lavora lo fa oltre ogni limite di sopportazione. La mortificazione della persona, è questo quello di cui si dovrebbe discutere. Ma passerà anche l’indignazione per quest’ultimo triste episodio, e si tornerà al solito andazzo. Può essere giusto tutto questo? Pensiamo proprio di no. Parla Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. Ci ricorda che ad oggi in Italia sono 44 (più uno ammesso al lavoro all’esterno e un altro in una Rems) la tragica conta dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere 3 operatori. “Una mattanza senza fine, mentre il ministro della giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni - aggiunge De Fazio - continuano a pestare l’acqua nel mortaio annunciando provvedimenti, per lo più triti e ritriti, di sicura inefficacia, al pari di quello adottato un anno fa (decreto-legge 92/2024)”. La situazione a Trapani è drammatica. “Ci sono 524 reclusi sono stipati in 497 posti disponibili, mentre gli operatori di polizia penitenziaria assegnati sono 260, quando ne servirebbero almeno 417, con un deficit di oltre il 35%, - aggiunge il segretario della Uilpa - tanto che capita che un solo agente debba occuparsi, per esempio, di sorvegliare a vista ben 4 detenuti contemporaneamente” Il “dramma della detenzione in Italia”. Così scrivono in una nota congiunta Debora Serracchiani, responsabile nazionale Giustizia del PD, e Giovanna Iacono deputata Dem: “Presenteremo un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in merito a questa ultima tragedia per chiedere conto della gestione di quella che è divenuta ormai una vera e propria emergenza suicidi nelle carceri italiane, e in particolare nella struttura trapanese. Chiederemo al ministro di chiarire quali misure di prevenzione siano state adottate nella Casa circondariale di Trapani dopo i precedenti casi di tentativi di suicidio e di autolesionismo e cosa intende fare rispetto all’inadeguatezza di quei luoghi ormai sempre più invivibili e a rischio collasso”. “Abbiamo chiesto più volte al governo di farsi carico di misure straordinarie e di investimenti concreti per fermare l’emergenza carceraria in Italia, e per tutelare la vita e la dignità delle persone detenute. Non possiamo più tollerare - concludono - che le carceri continuino a essere dei luoghi di morte e di disperazione e in cui i diritti della persona vengono quotidianamente mortificati e annullati”. Proprio nel carcere di Trapani pochi giorni addietro erano venuti a far visita ispettiva due esponenti di AVS, il deputato Marco Grimaldi e il segretario regionale Pierpaolo Montalto, avvocato penalista. “Solo pochi giorni fa - scrivono - avevamo denunciato le condizioni inaccettabili del carcere di Trapani, l’assenza di un’adeguata assistenza sanitaria per la salute mentale dei detenuti e, soprattutto, la presenza tra la popolazione carceraria di soggetti con evidenti patologie psichiatriche o con palesi disturbi psichici. Oggi apprendiamo la tragica notizia del suicidio di un ragazzo di 30 anni che aveva già manifestato gravi disagi mentali. Un suicidio che appare come l’inevitabile conseguenza della condizione disumana in cui i detenuti sono costretti a vivere la loro carcerazione. Ci aspettiamo, a questo punto, immediati interventi di tutte le istituzioni competenti, perché la serie di drammatici eventi che si sono verificati nel carcere di Trapani si interrompa e vengano trovate soluzioni concrete, subito. Soluzioni reali per tutelare la popolazione carceraria, ma anche per migliorare le condizioni di lavoro di chi presta servizio dentro un “non luogo” reso invivibile da degrado, alienazione e sofferenza. Quanto abbiamo visto con i nostri occhi nel carcere Cerulli, non è in alcun modo compatibile né con il rispetto della nostra Costituzione, né con qualsiasi tutela dei più basilari diritti umani. Se vogliamo davvero mostrare rispetto per questa ennesima vittima, un ragazzo che era stato affidato alla responsabilità dello Stato, le condizioni vergognose del carcere di Trapani devono cambiare radicalmente e nel più breve tempo possibile”. Il carcere di Trapani un luogo tremendo, lontano dai pensieri di chi Governa. Un luogo di abbandono e illegalità. Nessuna delle autorità competenti a intervenire si accorge del contesto ambientale: 40 gradi all’interno delle celle, blackout elettrici, sporcizia e degrado ovunque. La totale assenza di un’assistenza sanitaria e psichiatrica adeguata. Pierpaolo Montalto è chiaro nell’evidenziare una situazione “di gravità inaudita, che viola la Costituzione e svuota completamente il carcere della sua funzione rieducativa”. Celle minuscole con cinque persone stipate come in un forno, detenuti imbottiti di psicofarmaci come il Rivotril, totale assenza di supporto educativo, psicologico e medico. “Abbiamo incontrato detenuti che da mesi attendono la visita del Sert, che non hanno mai parlato con un educatore. E c’è chi dovrebbe stare in ospedale, non dietro le sbarre”. Tra le anomalie più gravi, anche l’orario dell’”ora d’aria” imposta tra le 13:00 e le 15:00, sotto il sole cocente, e la cena servita alle 15:00 del pomeriggio per carenza di personale. Proprio ieri sul Corriere.it, la rubrica delle opinioni ha ospitato, sul tema dei suicidi in carcere, un articolo firmato da un magistrato, Filippo Messana, già consigliere della Corte di Appello e magistrato di sorveglianza. “L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature dell’attività di osservazione e del processo di reinserimento sociale in corso. E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente, e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile”. Trapani. In cella senza acqua e luce: l’inferno di Brucoli di Paola Pottino La Repubblica, 26 luglio 2025 Un giovane tunisino, detenuto nel carcere Pietro Cerulli di Trapani ieri notte si è tolto la vita: “Aveva già dato segni di fragilità con altri tentativi e atti di autolesionismo”, racconta Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo. Nello stesso giorno, un altro giovane, detenuto nel carcere di Brucoli, con un laccio delle scarpe tra le mani ha minacciato di stringerlo al collo. Giovanni Villari, garante dei detenuti del carcere Cavadonna di Siracusa e della casa di reclusione di Brucoli, lancia un appello accorato per le condizioni dei detenuti nelle carceri dell’Isola. Nella casa di reclusione di Brucoli da lunedì sono senza luce e acqua. I detenuti che per gli spazi consentiti dovrebbero essere 330, sono invece circa 600. “Sono stato tutta la mattina e parte del pomeriggio all’interno del carcere - racconta Villari - e proprio ieri è arrivato un altro detenuto. Siamo arrivati a 598 persone nelle celle. Il carcere di Brucoli è senza corrente elettrica, completamente al buio. Senza acqua né ventilatori. Ci sono detenuti che non sono nelle condizioni di acquistare l’acqua minerale, ma alcuni compagni pur con poche risorse, acquistano per loro le bottiglie d’acqua. Mi ha colpito molto questo gesto di solidarietà”. Anche l’infermeria è al buio, le apparecchiature non funzionano. “So che stanno lavorando nel seminterrato dove passano i cavi degli impianti idrici ed elettrici - spiega Villari - e credo che gli operai per lavorare in sicurezza devono necessariamente staccare la corrente”. Da due settimane i detenuti non possono guardare la tv per un problema al segnale televisivo e nessuna attività si può organizzare. Nel carcere di Siracusa invece si combatte con le cimici. “Si è tentato di fare una disinfestazione ma per ottenere qualche effetto le celle - dice Villari - dovrebbero essere sfollate per almeno 24 ore e monitorare vestiti, lenzuola che sono impregnate delle uova degli animali”. Firenze. Carceri, politica e passerelle Di Stefano Fabbri Corriere Fiorentino, 26 luglio 2025 Le due pagine dedicate ieri dal Corriere Fiorentino alla situazione delle carceri in Toscana, in primo luogo a Sollicciano ma non solo, sono la guida ad un viaggio nel dolore e spesso nella vergogna, nel quale gli unici ad avere il diritto di non provare quest’ultima sensazione sono chi vi è recluso e chi ci lavora. Ma rappresentano anche un utile promemoria per la politica. In primo luogo per il governo, che ha allo studio un piano per sveltire la concessione di misure alternative per circa 10 mila detenuti a fine pena, ma che sul tema pare soprattutto affaccendato attorno all’ipotesi di costruire migliaia di “moduli” aggiuntivi per la detenzione entro il 2027. Di certo, in questa duplice intenzione, c’è solo la consapevolezza che si tratta di svuotare il mare con un cucchiaio. Le più recenti disposizioni, come l’inasprimento delle sanzioni per chi pacificamente protesta in cella contro le condizioni di carcerazione, sono di per sé fattori di moltiplicazione della detenzione e, quindi, di sovraffollamento. Poi c’è l’altra politica, quella più prossima di Regioni e Comuni, che molto prima di quanto accadrà per il Parlamento - a meno di sorprese - dovrà affrontare la prova elettorale. È pur vero che la politica carceraria è in capo allo Stato. Ma è noto che i consiglieri regionali, al pari dei parlamentari, possano visitare le carceri della loro circoscrizione e parlare con i detenuti senza bisogno di alcuna autorizzazione, art.67 dell’Ordinamento penitenziario. Un potere che non hanno i sindaci, i quali tuttavia sono la massima autorità sanitaria del proprio Comune e possono avvalersi di “provvedimenti urgenti al verificarsi di situazioni di particolare gravità che interessano l’igiene e la salute pubblica”, come recita il Testo unico degli Enti locali. Ora, nessuno si può aspettare che tutti i consiglieri regionali vadano ogni giorno a turno in un carcere anche solo per sottolineare con la propria presenza la criticità degli istituti (ma perché no?), né che un sindaco si prenda la briga di firmare un’ordinanza, a costo di farsela poi bocciare, che preveda la chiusura di locali insalubri di un luogo di detenzione (ma perché no?). Tutto questo purché non si tratti di nuove forme di già abusate passerelle mediatiche, ma perché rappresenti una forma di tensione e attenzione verso un tema che è la cartina di tornasole della nostra civiltà. A proposito di indicatori: la curiosità è forte e riguarda i programmi per le Regionali dell’autunno. Riusciranno i nostri candidati a trovare nell’elenco del loro impegno futuro - che visti i traccheggi ancora in corso presumibilmente sarà abbastanza snello e sbrigativo per i tempi ristretti - lo spazio per dire cosa pensano della situazione carceraria che, notoriamente, non porta consensi come altre più facili promesse? Le scommesse sono aperte. Firenze. Sollicciano corre ai ripari, cinque detenuti trasferiti dalla psichiatria allagata di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 26 luglio 2025 L’Asl: presto un incontro per trovare la nuova sede, nel penitenziario o altrove. Dopo sei giorni passati con l’acqua alle caviglie, 5 detenuti psichiatrici di Sollicciano sono stati trasferiti provvisoriamente in un’altra sezione. Ma presto si dovrà deciderne la destinazione: rimettendo a posto la sezione danneggiata o in una diversa struttura. Per sei giorni costretti a vivere in celle allagate, senza avere la possibilità di uscire nel reparto “Articolazione tutela salute mentale”. Segregati, senza la possibilità di fruire di un’ora d’aria, a causa di cinque centimetri di acqua sul pavimento e una pioggia costante dal soffitto, probabilmente per un tubo rotto. Fino a ieri. La svolta forse è avvenuta dopo gli articoli del Corriere Fiorentino sul nuovo disastro nel carcere di Sollicciano. O forse perché un degente, giovedì sera, esasperato, in segno di protesta, ha inghiottito frammenti di vetro e piccole batterie, probabilmente estratte da una radio, ed è stato portato in ospedale, curato e poi dimesso. Lui e altri quattro detenuti con disturbi psichiatrici di una certa gravità sono stati trasferiti nella sezione “accoglienza” del carcere. Una sistemazione temporanea: manca l’area per le necessarie attività di riabilitazione anche se c’è un minuscolo giardino. “È una collocazione temporanea - dice Lorenzo Roti, direttore sanitario dell’Asl Centro - Presto ci sarà un incontro per individuare una nuova sede o all’interno di Sollicciano o in un altro istituto della regione”. Difficile dire se i cinque degenti ritorneranno nella vecchia sezione Atsm e non solo a causa la durata dei lavori di ristrutturazione delle celle. Il reparto è dislocato su due piani: in quello superiore ci sono le celle, in quello inferiore la sala comune dove si svolgono le attività riabilitative. Lo spazio sembra inadeguato a garantire la sicurezza, perché è difficile la contemporanea presenza degli agenti della penitenziaria sui due livelli. “È stato fatto il minimo indispensabile - dice Giancarlo Parissi, garante dei detenuti del Comune di Firenze, in costante contatto con il servizio sanitario dellacasa circondariale - Mi spaventa la durata dei lavori necessari per riparare il guasto e mettere tutto a norma”. Il 1 agosto incontrerà, con l’assessore al Sociale Nicola Paulesu, i vertici di Sollicciano. Un appuntamento già rinviato un paio di volte. “Capirò se c’è la seria intenzione di ripristinare la normalità nel carcere. Spero di incontrare la direttrice e il comandante della polizia penitenziaria”. E aggiunge: “Sollicciano è un enorme condominio in cui vivono mille abitanti: oltre 500 detenuti, circa 250 agenti di custodia, personale sanitario e volontari. Ma se si trascura per anni un palazzo di venti piani non si può sperare che la luce funzioni e non si guasti mai un tubo”. Torino. La rete torinese contro i Cpr: “Centro rimpatri, reclusione amministrativa”. di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 26 luglio 2025 A Torino ci sono due penitenziari: quello per gli adulti, il “Lorusso e Cutugno” nel quartiere Vallette e l’Istituto penale minorile “Ferrante Aporti” a Mirafiori. Ma chi conosce la situazione del Cpr, Centro di permanenza per il rimpatrio in corso Brunelleschi, non esita ad affermare che in città i luoghi di reclusione siano tre. Come la “Rete torinese contro tutti i Cpr” a cui aderiscono 30 realtà cittadine, istituzioni, sindacati enti del Terzo settore, tra cui Circoscrizione 3, Cgil, Pastorale migranti della diocesi, Gruppo Abele, Acli, Agesci, Gioc, Associazione famiglie accoglienti. La Rete è nata nel dicembre 2024 nella sede della Circoscrizione 3, territorio in cui sorge il Cpr, per chiedere la chiusura di tutti i Centri per il Rimpatrio e intitolata a Moussa Balde, il 23enne della Guinea che si uccise nel Cpr di Torino nel 2021 dopo l’arresto a Ventimiglia perché privo di documenti e rinchiuso nella struttura di corso Brunelleschi. Il Cpr, dopo il suicidio di Moussa, a causa di tensioni, rivolte e disordini, era stato chiuso a marzo 2023 per poi essere riaperto nel marzo 2025, dopo due anni di lavori di ripristino dell’edificio. Attualmente solo tre aree su sei sono agibili, affidate al gruppo Sanitalia che si è aggiudicato il bando da 8,4 milioni di euro per la gestione del Cpr che ospita attualmente 60 persone con una capienza massima di 70. Nella struttura, che dipende dalla Prefettura dove dovrebbero stazionare i migranti per massimo 18 mesi (salvo rimpatri) trattenuti perché senza documenti o con irregolarità e scadenze dei permessi di soggiorno (come denuncia la Rete e la garante delle persone private della libertà personale del Comune Monica Cristina Gallo). In realtà vivono come detenuti in condizioni disumane senza azioni positive per l’integrazione una volta usciti. Oltre tutto nei Cpr non è permesso verificare le condizioni dei ristretti perché solo ai consiglieri regionali è permesso l’accesso e con difficoltà agli avvocati degli internati. “Siamo molto preoccupati perché di fatto la permanenza nei Cpr delle persone - per la maggior parte immigrate in Italia in cerca di una vita migliore - è una forma di ‘detenzione amministrativa’ come abbiamo evidenziato nell’ultima assemblea pubblica della Rete promossa il 7 luglio scorso per sensibilizzare l’opinione pubblica sul fallimento del Centro” sottolinea Giovanni Belingardi, referente dell’Associazione famiglie accoglienti che aderisce alla Rete per informare con iniziative pubbliche la cittadinanza sulla condizione di criticità e senza prospettive dei Cpr dove non sono garantiti i diritti basilari come ad esempio le cure mediche, il conforto per chi è nella solitudine, le visite di associazioni di volontariato. Inoltre durante un incontro pubblico promosso dalla Rete è emerso nel Cpr un utilizzo elevato di psicofarmaci non giustificato dalle condizioni di salute dei ristretti. “Su 196 persone transitate da marzo ad oggi solo 18 sono stati reimpatriati” prosegue Belingardi “Allora ci chiediamo l’utilità di tenere in piedi una struttura che non risponde alle esigenze per cui è nata (la sosta prima del rimpatrio) e non offre la possibilità alle persone - che spesso non sanno neppure perché si trovano reclusi - di trascorrere i 18 mesi in modo proficuo, imparando un mestiere, l’italiano o regolarizzando i documenti in vista del reinserimento. Così si rischia che, una volta fuori del Cpr, i migranti finiscano nelle mani dell’illegalità con tutto quello che ne consegue”. Biella. Rossomando: “Un carcere troppo affollato e a corto di ottanta agenti” di Mauro Zola La Stampa, 26 luglio 2025 La visita della vicepresidente Pd del Senato. Nel mirino anche assistenza sanitaria e lavoro interno. Sono stati i Giovani Democratici a organizzare la visita nella casa circondariale di Biella a cui hanno partecipato la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, il senatore Andrea Giorgis, la consigliera regionale Emanuela Verzella e la segretaria provinciale Pd Elisa Francese. Il quadro generale della struttura ha evidenziato più di un problema, molti dei quali comuni a tutti gli istituti di pena piemontesi. “Il padiglione più datato ha bisogno di seri interventi strutturali - ha spiegato all’uscita Giorgis - e come in praticamente tutte le strutture carcerarie del Paese si soffre per il sovraffollamento. La capienza sarebbe di 395 detenuti ma ce ne sono 474”. “Altro dato preoccupante - ha rimarcato Rossomando - riguarda la carenza nell’organico, gli agenti in servizio dovrebbero essere 255 ma ne manca un terzo e sono quindi 175, con un numero importante di giovani costretti a svolgere mansioni per cui servirebbe una maggiore esperienza A questo si somma la carenza nei ruoli intermedi: sono presenti 15 ispettori mentre dovrebbero essere 25”. È giudicata molto preoccupante anche la situazione sanitaria. “È molto alto il numero di chi soffre di problemi psichiatrici, questo fa sì che in cella ci siano detenuti che invece non dovrebbero starci. Il supporto sanitario a livello regionale è scadente, gli specialisti a Biella sono presenti poche volte al mese e manca il supporto psicologo soprattutto per ridurre il rischio suicidi. L’Asl si starebbe attivando ma al momento non si sta facendo nulla”. Altro problema è l’assenza delle cartelle sanitarie elettroniche. “Chi è stato spostato da un istituto all’altro - ha commentato Filippo Gambini, responsabile Legalità dei Gd piemontesi - ha sempre dovuto aspettare che arrivasse la propria cartella clinica su carta. La digitalizzazione permetterebbe di seguire anche le cure farmacologiche, di avere un quadro generale, invece nonostante la tecnologia sia facilmente disponibile non si è ancora provveduto”. Per il lavoro, “Biella può contare sul laboratorio tessile, ma che occupa poche persone mentre quasi tutti vorrebbero lavorare. Ciò però dipende dai fondi insufficienti. Sarebbero invece soldi ben spesi per un’operazione di reale sicurezza che viene soltanto dal recupero di chi ha passato un periodo in carcere e a cui va data una nuova opportunità”. Ferrara. Dal teatro alla pulizia dei giardini: “Obiettivo, inserimento lavorativo” di Manuel Spadazzi Il Resto del Carlino, 26 luglio 2025 Stanziamento di 200mila euro del Comune per sostenere attività per il personale e i detenuti del carcere. L’assessore Cristina Coletti: “Impegno costante che negli ultimi cinque anni non si è mai interrotto”. Uno stanziamento di 200mila euro per sostenere una serie di attività per il benessere del personale e dei detenuti del carcere di Ferrara. Come i servizi sociali, quelli di mediazione, formazione e tirocini lavorativi che puntano al reinserimento dei reclusi, sport, teatro, attività sulla genitorialità e contributi per acquistare beni ritenuti fondamentali per la quotidianità. È quanto mette sul piatto il Comune, dopo il tavolo del Comitato locale esecuzione penale adulti, convocato dall’assessore alle Politiche sociosanitarie Cristina Coletti. Il Comune “continua a investire con convinzione nelle attività della Casa circondariale destinando quest’anno 200mila euro a sostegno di azioni volte a promuovere il benessere e la salute all’interno dell’istituto, oltre al reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute”, dice l’assessore. Quello dell’amministrazione, rimarca poi, “è un impegno costante, che negli ultimi cinque anni non si è mai interrotto”. Tra le iniziative realizzate grazie anche a un Piano di zona condiviso, Coletti ricorda il teatro in carcere, “che ha dato vita a rappresentazioni apprezzate anche al Teatro Comunale”, i tirocini e attività occupazionali. “Il gruppo di lavoro si consolida di anno in anno e ci sono tutte le condizioni per proseguire con efficacia un percorso che punta a costruire opportunità di riscatto, in stretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, con il personale che opera nel carcere e con il mondo associativo”, sottolinea Coletti. Tra i progetti realizzati dal Comune quello per il reinserimento dei detenuti prossimi al rilascio, lo sportello sociale con operatori di psicologia, lo sportello di mediazione, la produzione di un giornalino che coinvolge i carcerati e iniziative socializzanti. E ancora, il progetto sulla genitorialità con la presenza ogni settimana di un consulente individuale e di gruppo con psicologo, quello per lo sport con Uisp per condurre le persone verso una graduale conoscenza del proprio corpo e delle sue esigenze psico-emotive. L’obiettivo è di estendere la progettualità, valorizzando il significato educativo di attività ludiche come ad esempio il Torneo interforze di calciobalilla, promosso con la Polizia locale, la Polizia penitenziaria, le Forze dell’Ordine e Avis. Al tavolo c’è stato apprezzamento, fa sapere il Comune, per i tirocini lavorativi, tra cui il progetto ‘Parchi Puliti’ che impegna i detenuti, con aiuto di tutor, a tenere in ordine i giardini pubblici della città. Questo programma è realizzato da Comune, la casa Costantino Satta, Ferrara Tua e Ial. L’attenzione del Comune si è concretizzata anche attraverso l’inserimento - promosso con l’ultimo contratto di servizio con Asp - di una scheda con gli interventi rivolti ai detenuti. Tolmezzo (Ud). Quel che succede in carcere, rimane in carcere. Ma non sempre di Anna Dazzan udinetoday.it, 26 luglio 2025 Abbiamo assistito a “So Ham - Io sono”, il laboratorio teatrale condotto dalla regista Rita Maffei e dal musicista Matteo Sgobino con i detenuti della casa circondariale di Tolmezzo e organizzato da Enaip con Css Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia. Quel che succede in carcere, rimane in carcere. Difficile pensare altrimenti, visto che le persone esterne a cui viene concesso di attraversare i controlli di sicurezza per poter accedere ai luoghi degli istituti penitenziari sono obbligate a lasciare all’ingresso tutto ciò che di superfluo hanno addosso. Telefono cellulare prima di ogni altra cosa. Quel che succede in carcere, rimane in carcere dunque. Ma anche impresso negli occhi e nella mente. E persino nel cuore, se si ha la fortuna di varcare non solo i metal detector ma anche le barriere di diffidenza delle persone detenute. Fine luglio, in Carnia sembra arrivato novembre. Il cielo borbotta e a mezzogiorno sembra quasi sera. L’ingresso della casa circondariale di Tolmezzo è grigio come l’aria che butta pioggia. Un primo passaggio per annunciare i propri nomi, già segnati da giorni sul registro degli ingressi. Un secondo passaggio per lasciare i propri averi nelle cassette di sicurezza e ricevere un badge in cambio della carta d’identità, un terzo passaggio attraverso il rilevatore di metalli. E poi aspettare, tra un portone e l’altro, tra un cancello e una corte interna, tra una porta e un corridoio e così via. Una volta dentro, non ha quasi più importanza sia luglio e novembre. Si è dentro e basta. L’occasione è la restituzione del laboratorio di autonarrazione e di canto e scrittura di canzoni condotto dalla regista teatrale Rita Maffei e dal musicista Matteo Sgobino. Sì, anche in un carcere di massima sicurezza che ospita una sezione 41 bis si svolgono percorsi formativi che, ovviamente, qui dentro assumono un significato del tutto peculiare. Portare “fuori” quel che si è appreso “dentro” non è mai scontato. “So Ham - Io sono” è il titolo dello spettacolo conclusivo di questo laboratorio con i detenuti della casa circondariale di Tolmezzo organizzato dall’Enaip in collaborazione con Css Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia. La parola chiave è “autonarrazione”, affare difficile per chiunque, figurarsi per qualcuno che a stento riconosce i mesi che passano fuori dalla finestra. Eppure funziona. Almeno per le persone che riempiono il teatro-cinema del carcere. “Questa sezione è il nostro fiore all’occhiello”. Irene Iannucci, direttrice dell’istituto, si premura di avvisare che non è autorizzata a rilasciare interviste. Ma la sua non è una dichiarazione fatta a parole, quanto più con il sorriso che la accompagna per tutta la durata dello spettacolo. Il corridoio che ci porta fino alla sala è colorato dai murales dipinti dagli stessi detenuti negli anni, merito sempre dei corsi dell’Enaip: lungo i muri si aprono diverse porte. Prima solo uffici, poi stanze per i laboratori. Edilizia, pittura, cucina e così via. “Qui, se uno non vuole fare niente non fa niente. Se uno vuole tenersi occupato può farlo tutto il giorno”. Anche M., detenuto che presto tornerà in libertà, non è autorizzato a rilasciare interviste. Ma, a conti fatti, nessuno gli ha fatto domande. Ha parlato liberamente di sua spontanea iniziativa. “So Ham è un mantra - dichiara la regista Maffei - che in sanscrito significa “Io sono” e viene usato nella meditazione. Il corso ha inteso coinvolgere la popolazione detenuta in un percorso laboratoriale che mettesse i partecipanti nelle condizioni di stimolare l’espressione del proprio mondo interiore e la capacità espressiva del proprio pensiero, migliorando la gestione delle proprie emozioni e le capacità relazionali dell’individuo in rapporto al gruppo”. Se questo era l’intento, di sicuro qualche risultato è stato raggiunto. M. si lascia andare. “Tra poco uscirò, non vedo l’ora. Ma ho un po’ paura. Cosa posso fare fuori di qui? Dentro faccio tutto, cucino, canto, aggiusto le cose… ma fuori non avrò più il mio vecchio lavoro”. Si apre in un piccolo flusso di coscienza inaspettato di fronte al quale c’è un’unica risposta possibile. “Un giorno alla volta”. Cosa vuol dire “restituzione” - Rendere qualcosa che ci è stato dato. Sul palco erano in cinque, tra il pubblico più di venti. I detenuti hanno preso momenti di studio, di prova, di sperimentazione che, in un primo pomeriggio di fine luglio, sono stati restituiti pieni di significato. Il filo conduttore? La mancanza. La mamma, i figli, i social, la moto senza casco, il mare, le coccole, mangiare bene. La libertà, ovviamente. Con un elenco di parole cariche di senso è iniziato il piccolo viaggio: cosa manca di più a chi è in carcere? Ognuno dei partecipanti ha dato corpo alle proprie nostalgie, parole tenute insieme da un unico grande (il più grande) sentimento, l’amore. Inevitabile che la musica parlasse napoletano, dialetto armonioso capace più di altri di tratteggiare la passione. Quindi è successo che M. e gli altri, dal palco, si siano lasciati andare a quello che gli era stato promesso: favorire la socializzazione attraverso la consapevolezza di sé. E se per qualcuno è stato più facile e addirittura ha sfruttato il corso per comporre una sua propria canzone (“la vogliamo a Sanremo 2026”, gridano dalla platea), per altri è stato più difficile mettersi in mostra davanti a tutti. Anche se tra quei tutti ci sono persone che non rivedranno più. L’amore, la libertà, la livella - Prima Pino Daniele e Geolier. Poi Renato Zero. Ritrovarsi a cantare “I migliori anni della nostra vita” all’interno di un carcere di massima sicurezza è un’esperienza che segna, garantito. Chi sta sul palco si è preparato, chi sta tra il pubblico si lascia andare. Persino gli agenti di polizia penitenziaria. Il clima è così disteso che uno di loro (in teatro sono in tre, due gironzolano, uno rimane in fondo alla platea con le braccia conserte quasi tutto il tempo) muove le labbra seguendo il testo e con un piede tamburella a tempo di musica, sorridendo. I detenuti che stanno tra il pubblico si lasciano definitivamente andare alla recitazione dei partecipanti di un pezzo storico di Totò. ‘A livella. A scatenare l’ilarità tra il pubblico sono le interpretazioni di M. E. e D. Il marchese, il netturbino e il vivo che danno vita a questa poesia che pare essere solo tale, se la si ascolta solo con le orecchie. E poi si fa morale se la si sente dentro, la morte che ci fa diventare tutti uguali. Così come le due ore di spettacolo tra gli spettatori. Nessuna differenza, tutti seduti gli uni accanto agli altri, senza più colpe né pensieri, solo un fugace presente condiviso. Nel frattempo fuori esce il sole - Tutto funziona. A M., quando canta, si ingrossa il collo e diventa paonazzo. D., invece, ha una voce morbida, perfetta per accarezzarci con Caruso. Tra il pubblico c’è un detenuto che non ha potuto partecipare allo spettacolo perché ha trascorso gli ultimi giorni in ospedale, a lui viene dedicata una canzone d’amore in portoghese. La sensazione che l’oggi sia tutto quello su cui queste persone possono contare è palpabile. Le persone che avevano iniziato il percorso formativo erano molte di più. Qualcuno è uscito, qualcuno è stato trasferito, qualcuno non è presente “per altri impegni” (lo incrociamo lungo il corridoio di ritorno e qualcuno gli chiede “allora com’è andata?”, lui inclina un po’ la testa e poi sorride). I corsisti interpretano qualche spezzone di due film, i loro preferiti. “Anche questo è un modo per raccontarsi”, commenta Maffei. Dopo l’ultima canzone la platea chiede il “bis”, non senza una certa ironia con riferimento ai detenuti dell’altra sezione, quella ancora più rigida. Il maestro Sgobino, perfettamente in sintonia con i cantanti, inizia a pizzicare le corde della sua chitarra. Loro, in coro, ci salutano. “In un mondo che, non ci vuole più, il mio canto libero sei tu”. E fuori, dietro le inferriate, spunta il sole ed è nuovamente luglio. “Ammazzare stanca”: la vita di Antonio Zagari diventa un film in gara a Venezia di Claudio Del Frate Correrie della Sera, 26 luglio 2025 La storia del primo pentito di ‘ndrangheta. Il “memoir” uscito nel 1992 mise in fila l’orrenda serie di delitti (almeno 16) di cui il killer fu protagonista nel Varesotto. “Ero finito in un buco nero da cui non sapevo se sarei uscito”. Il regista Daniele Vicari ha visto in questa storia “il ritratto di una generazione”. Eccone la ricostruzione. “Lavorare stanca” scriveva Cesare Pavese. E se il mestiere con cui ti guadagni da vivere è quello del killer della ‘ndrangheta e una ininterrotta scia di sangue ti accompagna per quasi 25 anni, ne consegue che anche ammazzare stanca. Antonio Zagari, calabrese trapiantato nel Varesotto, primo pentito a rompere il muro dell’omertà delle famiglie calabresi, si stancò di ammazzare negli anni ‘90. Lo fece per ripulsa del sangue, per disperazione, per convenienza. Non solo divenne un collaboratore di giustizia ma raccontò il suo romanzo criminale in un “memoir” da cui ora viene tratto un film con il medesimo titolo - “Ammazzare stanca”, per l’appunto - che sarà in concorso al prossimo Festival di Venezia. Daniele Vicari, regista della pellicola che ha tra i suoi interpreti Vinicio Marchionni e Rocco Papaleo, ha detto di aver visto in Antonio Zagari un figlio della generazione che si ribellò all’autorità dei padri: “Ho letto l’autobiografia di Zagari molti anni fa e ho pensato subito valesse la pena trasformarla in un film perché in questo racconto si mescolano molte cose che mi appassionano: action, conflitti familiari, desiderio di emancipazione, amore, tragedia e ironia. Poi c’è in filigrana il ventennio 70-80, la storia di una generazione, anni controversi, duri, ma pieni di vitalismo e di speranza anche nella tragedia”. Un’interpretazione, di sicuro, che non difetta di originalità. Prima di tagliare i ponti con il passato, con l’ambiente di provenienza, con l’autorità patriarcale, Zagari ha comunque messo in fila almeno 16 omicidi, il più delle volte premendo di persona il grilletto, più un numero infinito di assalti a banche, gioiellerie, uffici postali durante quelli che furono “anni di piombo” non solo per via del terrorismo ma anche per la criminalità organizzata che imperversava per l’Italia. Il pentito si è poi dissolto in una eclissi: scomparso dai radar giudiziari, sottoposto a un rigido programma di protezione per anni non si sa più nulla di lui fino alla notizia che lo da per morto, nel 2004, in un incidente in moto. In località imprecisata, pare nei pressi di Spoleto. “Mentre mia madre, sposa da 9 mesi, mi stava partorendo proprio due minuti dopo l’inizio del 1954 a San Ferdinando, piccolo inquieto paese nella tristemente famosa piana di Rosarno e Gioia Tauro… mio padre Giacomo, allora ventiquattrenne nato e cresciuto sotto la pseudo morale della ‘ndrangheta salutava l’anno nuovo ma anche la mia nascita rafficando il cielo con un mitra”: questo è l’incipit di “Ammazzare stanca”, un paragrafo in cui è già racchiuso un destino. La vita di Antonio Zagari è segnata fin dall’inizio dall’acqua battesimale del codice d’onore malavitoso. Il padre Giacomo, pochi mesi dopo la nascita del primogenito, si trasferisce con la famiglia a Buguggiate, piccolo comune alle porte di Varese. Ufficialmente fa il muratore, ma in realtà allaccia quasi subito contatti con altri “malacarne” già trapiantati al Nord con i quali avvia subito attività illegali anche se al momento di basso rango: contrabbando, possesso di armi, prostituzione. Il nemico assoluto è lo Stato, incarnato dalla “sbirraglia”: “Appena nato mio padre mi avvicinò una chiave e un coltello: era il loro modo per capire se sarei stato fedele alla legge o al crimine”. La mano del piccolo Antonio, naturalmente, si indirizzò verso il coltello. Antonio racconta se stesso come un ragazzino irrequieto, svogliato negli studi, preda di tempeste ormonali. Lascata la scuola vaga tra un lavoro e l’altro: garzone di panetteria, operaio in una officina, in una vetreria. Ma quando viene ufficialmente affiliato al clan, con il rito celebrato in Calabria, sente che la sua vita deve svoltare: “Consideravo nemico chiunque mostrare ostilità nei confronti dell’ambiente delle amicizie di mio padre dove mi sentivo a mio agio e importante per la fiducia che mi veniva dimostrata. Discutevano di azioni delittuose e non si preoccupavano della mia presenza: ormai ero uno di loro”. Nomi come il boss Savino Pesce o i Bellocco diventano frequentazioni familiari. La rottura con l’“etica del lavoro” lombarda avviene quasi subito: “Smisi ben presto di guadagnarmi da vivere onestamente: che uomo d’onore potevo mai essere se mi rassegnavo a stare chiuso dentro una fabbrica a farmi comandare da altri?”. E tanto per brindare alla nuova vita, Zagari dà alle fiamme la vetreria da cui si era appena licenziato: “Vedendo le lingue di fuoco che salivano al cielo provavo un godimento psico-fisico, un orgasmo cerebrale”. Inizia la carriera di rapinatore ma anche quella di frequentatore delle patrie galere: il primo arresto è del 1974, dopo un colpo fallito a un ufficio postale nel Cremonese. Uscito dal carcere Antonio viene a conoscenza del primo orrendo delitto che molti anni dopo metterà a verbale con magistrati e carabinieri accusando il padre quale responsabile: il sequestro di Emanuele Riboli, studente diciassettenne di Buguggiate, figlio di un piccolo imprenditore. Riboli non verrà mai più restituito alla famiglia nonostante il pagamento di un riscatto. Zagari padre si vanterà di aver soppresso l’ostaggio proprio perché i familiari non avevano versato tutta la somma richiesta. Alle leggi della “famiglia” non ci si sottrae: se i capi ordinano di dare alle fiamme un negozio il cui proprietario è restio a pagare il pizzo, si va e si esegue; idem se un debitore tarda nel saldare il conto. E quando un gruppo di malavitosi siciliani si mette in testa di contrastare il primato dei calabresi a Varese e dintorni, la loro sorte è segnata. E qui matura il primo omicidio commesso da Zagari, vittima un catanese, Pippo Furnò, crivellato di colpi sull’uscio di casa: “Avere ucciso un uomo, anche se era la prima volta mi lascò del tutto indifferente, forse mi era addirittura piaciuto, mi era parso di provare una sensazione di benessere. Ma la vista del sangue mi nauseò e mi impedì di nutrirmi di carne per anni”. Una prima crepa nella scorza di “duro” per Zagari si apre nel maggio dell’83: viene arrestato per una rapina ai danni di un orefice, Giovanni Micheletti, finita nel sangue con la morte del negoziante e di un bandito. I carabinieri arrivano a Zagari sulla scorta di confidenze di alcuni suoi complici: “Le accuse che mi venivano scaricate addosso dai miei ex complici mi opprimevano, era come se fossero diventati loro i padroni della mia vita...così decisi di rivelare io stesso i reati commessi dichiarando al magistrato la mia volontà di collaborazione”. Dagli armadi delle procure vengono tirati fuori i fascicoli di tanti delitti rimasti insoluti: Zagari comincia accusando sé e altri ma gli inquirenti rimangono scettici: si è mai visto uno ‘ndranghetista tradire i suoi compari? Eresia. Così la giustizia traccheggia e Zagari, nel frattempo trasferito in una piccola caserma dei carabinieri per motivi di sicurezza un bel giorno approfitta della distrazione di un giovane militare infila la porta e taglia la corda. Ma ormai il killer è braccato su due fronti: dalla giustizia che lo vuole riportare dietro le sbarre e dal suo ambiente familiare che fin da subito lo sospetta di tradimento. Trascorre la latitanza in una intercapedine della soffitta di casa sua o in una buca scavata nell’orto, una tana che lo riduce a una bestia selvatica. E quando gli si presentano davanti due “picciotti” venuti a chiedergli conto delle confidenze fatte ai carabinieri non ha scelta: spara a entrambi a bruciapelo (uno dei due sopravviverà) e scappa nei boschi: è inverno, deve trascorrere ore all’adiaccio, cade in un torrente gelato ma alla fine riesce a trovare riparo da un misterioso amico in un paese sul lago di Garda. “Mi sentivo senza futuro, infilato dentro un buco da cui non sapevo se e come sarei mai venuto fuori”. Viene catturato a Brescia il 24 aprile (sotto braccio ha un libro sui rapporti tra Churchill e Mussolini) e a quel punto Zagari ha già accumulato condanne per oltre 30 anni di carcere. Ma la sorte lo mette di nuovo di fronte a un bivio: la Cassazione “dimentica” un suo ricorso e per il killer si spalancano di nuovo le porte della libertà: esce per decorrenza di termini. È ormai un reietto, non può più contare sull’aiuto di nessuno: “Mio padre mi considerava un cornuto perché avevo concesso il divorzio a mia moglie, ero messo sotto pressione e come prova di fedeltà fui costretto a uccidere due componenti della vecchia banda di rapinatori”: il duplice delitto, avvenuto nelle campagne di Torino viene raccontato con dovizia di particolari che sarebbero piaciuti, oltre che a Daniele Vicari, anche a Quentin Tarantino. Antonio stavolta è veramente stanco di ammazzare ma deve scegliere: o il giudizio del “tribunale” della ‘ndrangheta che non vede l’ora di trovare l’occasione per eliminarlo ormai convinto di avere a che fare con un “infame”; o la giustizia dello Stato che magari un piccolo sconto lo farà. Il destino gli pone davanti l’uniforme di un carabiniere: è quella del colonnello Giampaolo Ganzer, già ufficiale dell’antiterrorismo e ora impegnato a debellare la malavita organizzata. “Il colonnello stava indagando sui sequestri di persona e mi chiese se ero in grado di fornirgli elementi sul rapimento di Carlo Celadon”. Zagari non ne sa niente; in compenso ha “orecchiato” che il padre in combutta con alcuni calabresi arrivati da San Luca sta progettando il sequestro della figlia di un piccolo imprenditore del lago Maggiore, Antonella Dellea. Zagari salta definitivamente la barricata, dice tutto quello che sa e per mesi fa il doppio gioco. Il 16 gennaio 1990 il commando arrivato dall’Aspromonte viene falciato in un conflitto a fuoco con i carabinieri davanti all’azienda dei Dellea. Quattro morti restano sull’asfalto. “Ammazzare stanca”, inteso come autobiografia del pentito si interrompe qui. Ma occorre aggiungere un capitolo fondamentale: dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino lo Stato reagisce istituendo le procure distrettuali antimafia. Quella di Milano viene affidata a un magistrato di indiscusso coraggio e capacità come Armando Spataro. Che riprende in mano tutte le confessioni di Zagari sulla base delle quali il 5 dicembre 1994 fa scattare 115 arresti. È l’inchiesta denominata “Isola felice”: tutto il gotha criminale ponte tra la Calabria e la Lombardia finisce a processo, anni di delitti insoluti trovano una risposta nelle sentenze. Zagari torna in aula a confermare per filo e per segno le accuse in un clima di estrema tensione e disordini tra gli imputati: snocciola orrendi crimini con freddezza da contabile, la voce priva di qualsiasi inflessione calabrese, con una vistosa “erre” moscia che lo rende quanto di più distante dal “cliché” del malavitoso. Da una delle gabbie il vecchio Giacomo Zagari, livido in volto, fissa il figlio: verrà condannato all’ergastolo. Di Antonio, da lì in avanti non si saprà più nulla. Nemmeno dove sia stato sepolto. L’epitaffio di questa storia sta racchiuso nelle ultime righe del memoir: “Avevo nausea di tutto ciò che ruotava attorno all’ambiente malavitoso. Non solo per un a questione di paura ma perché dopo essermi abbuffato per anni di pietanze criminali non riuscivo più a digerirle. Desideravo solo essere lasciato in pace. Sarei ipocrita se affermassi di avere rimorso per le persone che ho soppresso. L’ho cercato e lo sto ancora cercando, inutilmente”. Stato di diritto in Italia: troppe attese e pochi progressi su giustizia, media e lobbying di Dino G. Rinoldi* Il Dubbio, 26 luglio 2025 La Commissione europea ha pubblicato l’8 luglio la sesta relazione annuale sullo Stato di diritto nell’Ue, con puntuale attenzione a tutti e 27 gli Stati membri nonché ad alcuni in procedura di adesione all’Unione. A ciascuno di essi vengono indirizzate specifiche “raccomandazioni” che inquadrano comportamenti statuali capaci di rispondere alle criticità emerse nella relazione. I quattro capitoli di questa concernono: 1) il sistema giudiziario; 2) il quadro anticorruzione; 3) la libertà e il pluralismo dei media; 4) i controlli e i contrappesi istituzionali. Con riferimento a questi quattro pilastri la relazione ne approfondisce l’impatto sul funzionamento del mercato unico e sul contesto operativo per le imprese che vi operano. Circa la situazione dello Stato di diritto in Italia la Commissione, prendendo le mosse dalle osservazioni manifestate nella quinta relazione (2024), scrive che rispetto alle raccomandazioni lì formulate il nostro Paese ha realizzato: “alcuni ulteriori progressi nel proseguire l’impegno volto a migliorare ulteriormente il livello di digitalizzazione nelle sedi penali e nelle procure; alcuni progressi nell’adozione della proposta legislativa pendente in materia di conflitti di interessi, e progressi limitati nell’adozione di norme complessive sul lobbying per l’istituzione di un registro operativo delle attività dei rappresentanti di interessi, compresa un’impronta legislativa; ancora nessun progresso nell’affrontare efficacemente e rapidamente la pratica di incanalare le donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche e nell’introdurre un registro elettronico unico per le informazioni sul finanziamento dei partiti e delle campagne; alcuni progressi nel provvedere affinché siano in vigore disposizioni o meccanismi che assicurino un finanziamento dei media del servizio pubblico adeguato per l’adempimento della loro missione di servizio pubblico e per garantirne l’indipendenza; nessun ulteriore progresso nel portare avanti il processo legislativo del progetto di riforma sulla diffamazione e sulla protezione del segreto professionale e delle fonti giornalistiche, evitando ogni rischio di incidenza negativa sulla libertà di stampa e tenendo conto delle norme europee in materia di protezione dei giornalisti; nessun ulteriore progresso nell’intensificare gli sforzi per costituire un’istituzione nazionale per i diritti umani tenendo conto dei principi di Parigi delle Nazioni Unite [ la risoluzione 48/ 134 del 1993 dell’Assemblea generale delle N. U. enuncia i princìpi, scaturiti dal seminario internazionale promosso a Parigi nel 1991 dalla Commissione per i diritti umani delle N. U. stesse (oggi diventata Consiglio per i diritti umani), che dovrebbero informare le istituzioni nazionali volte alla salvaguardia di tali diritti]”. Basandosi ora su queste considerazioni, anche tenendo conto “di altri sviluppi intervenuti nel periodo di riferimento, oltre a ricordare gli impegni pertinenti assunti nell’ambito del piano per la ripresa e la resilienza nonché le pertinenti raccomandazioni specifiche per paese nel quadro del semestre europeo”, la Commissione dell’Ue raccomanda all’Italia di: “completare il sistema digitale di gestione delle cause nelle sedi penali e nelle procure; adottare la proposta legislativa pendente in materia di conflitti di interessi e intensificare l’impegno per adottare norme complessive sul lobbying per l’istituzione di un registro operativo delle attività dei rappresentanti di interessi, compresa un’impronta legislativa; intensificare l’impegno per affrontare efficacemente e rapidamente la pratica di incanalare le donazioni attraverso fondazioni e associazioni politiche e introdurre un registro elettronico unico per le informazioni sul finanziamento dei partiti e delle campagne; portare avanti l’attività legislativa in corso affinché siano in vigore disposizioni o meccanismi che assicurino un finanziamento dei media del servizio pubblico adeguato per l’adempimento della loro missione di servizio pubblico e per garantirne l’indipendenza; portare avanti il processo legislativo in corso del progetto di riforma sulla diffamazione e sulla protezione del segreto professionale e delle fonti giornalistiche, evitando ogni rischio di incidenza negativa sulla libertà di stampa e tenendo conto delle norme europee in materia di protezione dei giornalisti; intensificare le iniziative per costituire un’istituzione nazionale per i diritti umani tenendo conto dei principi di Parigi delle Nazioni Unite”. Bastino queste indicazioni per orientare il progredire della partecipazione italiana all’Ue, in un contesto geopolitico in subbuglio, dov’è meramente scaramantica la continua invocazione del rispetto del diritto internazionale e dove occorre salvaguardare “l’unica area al mondo dove valgono ancora la trasparenza, lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e un sistema di governo prevedibile: l’Unione europea” (F. Fubini, Corriere della Sera, 13 luglio, p. 26). Mentre - come ammonisce Andrea Manzella - “l’Atlantico si è fatto più largo e l’antica fortezza Usa sembra sbriciolarsi in un assurdo negazionismo delle stesse sue fondamenta” (Corriere della Sera del 14 luglio, p. 34). *Ordinario di Diritto dell’Unione europea, Docente di Organizzazione internazionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore Consulta: suicidio assistito, la somministrazione del farmaco può essere effettuata solo dal malato di Mariolina Iossa Corriere della Sera, 26 luglio 2025 La sentenza dichiara inammissibile l’intervento attivo di altre persone e punta sulla reperibilità di dispositivi di autosomministrazione: “diritto ad avvalersene se reperiti in tempi ragionevoli rispetto allo stato del paziente”. La somministrazione del farmaco in caso di suicidio assistito non può essere effettuata da un’altra persona. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, che ha dichiarato inammissibile l’intervento attivo di una persona che non sia l’ammalato. La pronuncia risponde ad un ricorso di una donna toscana paralizzata dal collo in giù che, pur avendo i requisiti per accedere al suicidio assistito, non può autosomministrarsi il farmaco. Con la sentenza, depositata oggi, la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 579 del codice penale sollevate dal Tribunale di Firenze riguardo il reato di omicidio del consenziente. I dispositivi di autosomministrazione - Le questioni sono state dichiarate inammissibili perché, secondo la Corte, “il giudice a quo non ha motivato in maniera né adeguata, né conclusiva, in merito alla reperibilità di un dispositivo di autosomministrazione farmacologica azionabile dal paziente che abbia perso l’uso degli arti”, ossia una pompa infusionale attivabile con comando vocale o tramite la bocca o gli occhi. La Consulta ha rilevato che “l’ordinanza di rimessione si è espressa sul punto con esclusivo richiamo all’interlocuzione intercorsa con l’azienda sanitaria locale”, essendosi il giudice a quo fermato a una “presa d’atto delle semplici ricerche di mercato di una struttura operativa del Servizio sanitario regionale”, mentre avrebbe dovuto coinvolgere “organismi specializzati operanti, col necessario grado di autorevolezza, a livello centrale, come, quanto meno, l’Istituto superiore di Sanità, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale”. La sentenza precisa che dove questi “dispositivi potessero essere reperiti in tempi ragionevolmente correlati allo stato di sofferenza della paziente” la donna “avrebbe diritto ad avvalersene”. Bazoli (Pd): “Il servizio sanitario deve accompagnare i malati” - “L’ennesima sentenza della Corte sul fine vita mi pare chiuda il dibattito e ogni possibile dubbio sul ruolo del servizio sanitario nazionale - ha subito commentato il senatore Alfredo Bazoli, vice presidente dei senatori del Pd -. Chiamata a pronunciarsi sull’aiuto al suicidio di una persona priva dell’uso degli arti, la Corte dice con chiarezza ciò che noi sosteniamo da tempo, e cioè che la persona ha il diritto di essere accompagnata dal servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio assistito”. Al diritto, continua Bazoli, corrisponde un obbligo del servizio sanitario nazionale, nel “doveroso ruolo di garanzia che è innanzitutto presidio delle persone più fragili”, come si legge nella sentenza. “A questo punto non ci sono più dubbi - conclude Bazoli -, il testo sul suicidio assistito in discussione in commissione dovrà essere necessariamente integrato con una espressa e chiara previsione del coinvolgimento del servizio sanitario nazionale”. La Consulta frena sull’eutanasia. Almeno per ora di Francesca Spasiano Il Dubbio, 26 luglio 2025 La Corte dichiara inammissibile la questione di legittimità relativa a una donna paralizzata che chiede l’intervento del medico per la somministrazione del farmaco. Ma “avvisa” il Parlamento sul ruolo del Servizio sanitario nazionale: “Presidio dei fragili”. La svolta non c’è stata, ma non si tratta neanche di una chiusura netta. Quella della Corte costituzionale sull’ipotesi eutanasia è una decisione “aperta”: i giudici dichiarano inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal Tribunale di Firenze sull’articolo 579 del codice penale (omicidio del consenziente), ma senza pronunciarsi nel merito. Ovvero rilevando un difetto di motivazione da parte del giudice. Questo vuol dire che la partita non è ancora chiusa. E non è un dettaglio da poco, se si considera che la Corte era chiamata ancora ad esprimersi sul fine vita, e per la prima volta sull’eutanasia, dopo la storica sentenza 242 del 2019 sul caso Cappato/Dj Fabo. Allora furono i giudici ad aprire un varco sul suicidio assistito, scrivendo le regole del fine vita. E qualcosa di simile sarebbe potuto accadere anche ora, proprio mentre il Parlamento discute una legge sul tema. Un fronte, questo, sul quale bisogna aprire bene gli occhi e le orecchie. Perché la sentenza numero 132 depositata oggi va letta su due livelli: per quello che dice e anche per quello che lascia intendere, quando parla per la prima volta di “diritto” connesso a un ruolo di garanzia del Servizio sanitario nazionale. Ma andiamo per ordine. La decisione della Consulta scaturisce dal caso di “Libera”, una donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla progressiva che chiede l’intervento di un medico di fiducia per la somministrazione del farmaco letale. Le quattro condizioni di accesso al suicidio assistito, per la sua richiesta, sono state già verificate con esito positivo. Ma “Libera” non potrebbe procedere all’assunzione autonomamente, perché è paralizzata dal collo in giù: un ostacolo “tecnico”, secondo il collegio difensivo dell’Associazione Luca Coscioni, che le “scipperebbe” un diritto determinando un’irragionevole discriminazione rispetto agli altri pazienti. Di qui il ricorso d’urgenza al tribunale di Firenze, che lo scorso 30 aprile ha rimesso gli atti alla Corte certificando l’impossibilità di reperire sul mercato la strumentazione necessaria, cioè una pompa infusionale attivabile attraverso la bocca, gli occhi o un comando vocale. Dispositivi a cui ha fatto accenno anche il presidente emerito della Consulta Giuliano Amato, che nella sua audizione al Senato ha evidenziato come l’innovazione tecnologica finirà per equiparare il suicidio assistito all’eutanasia affidando l’atto finale a una macchina. La Consulta sembra esserne consapevole, e non considera la questione che gli viene posta di per sé “implausibile”, ma ritiene che il Tribunale non abbia “motivato in maniera né adeguata, né conclusiva, in merito alla reperibilità di un dispositivo di autosomministrazione farmacologica azionabile dal paziente che abbia perso l’uso degli arti”. E questo perché oltre all’Asl che ha effettuato le ricerche, il giudice avrebbe dovuto consultare “organismi specializzati operanti, col necessario grado di autorevolezza, a livello centrale, come, quanto meno, l’Istituto superiore di sanità, organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale”. Nel “sostanziale difetto di un’attività istruttoria amministrativa o giudiziale”, dunque, la Corte invita ad approfondire l’indagine. E dichiara “prive di fondamento tutte le eccezioni sollevate dall’Avvocatura di Stato e dagli intervenuti”, sottolinea l’Associazione Coscioni. Che dunque tornerà davanti al tribunale di Firenze per chiedere un’ulteriore verifica. Fin qui il piano del diritto, a cui se ne somma uno politico. Perché con la stessa sentenza i giudici costituzionali affermano che la persona rispetto alla quale siano state verificate le condizioni di accesso all’opzione di fine vita “ha una situazione soggettiva tutelata, quale consequenziale proiezione della sua libertà di autodeterminazione, e segnatamente ha diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale nella procedura di suicidio medicalmente assistito, diritto che, secondo i principi che regolano il servizio, include il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego”. E ancora che al Ssn spetta “un doveroso ruolo di garanzia che è, innanzitutto, presidio delle persone più fragili”. Un messaggio, quest’ultimo, indirizzato al Parlamento, laddove il testo attualmente in discussione al Senato, relatori Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Ignazio Zullo (FdI), prevede l’esclusione della sanità pubblica. “A questo punto non ci sono più dubbi”, dice il senatore del Pd Alfredo Bazoli, per il quale il ddl “dovrà essere necessariamente integrato con una espressa e chiara previsione del coinvolgimento del servizio sanitario nazionale. Come noi abbiamo ripetutamente chiesto”. A vederla così è anche Stefano Ceccanti, costituzionalista ed ex parlamentare dem, il quale sottolinea come la Corte parli per la prima volta di “diritto”. Il tutto mentre la maggioranza cerca il dialogo in vista del voto sugli emendamenti, che è slittato a settembre. Il nodo più duro da sciogliere resta proprio quello relativo al ruolo del Ssn, su cui Fratelli d’Italia non ha intenzione di cedere. Né sembra temere l’altolà della Corte, che a parere di Zullo “legittima la nostra proposta di legge” rafforzando “il diritto alla vita”. Tajani, lo ius scholae e lo scivolone maranza di Caterina Soffici La Stampa, 26 luglio 2025 Forse più che una visione dell’ovvio quella di Tajani è una visione un po’ manichea e parecchio razzista. “Preferite i maranza, o chi va a scuola per dieci anni e poi diventa cittadino italiano?”. La frase pronunciata dal ministro degli Esteri nonché vicepremier Antonio Tajani per spiegare la sua proposta di Ius Scholae si potrebbe catalogare come una versione 2.0 delle massime lapalissiane di Massimo Catalano a Quelli della Notte, il programma tv di Renzo Arbore che incollava alla tv milioni di italiani. “È molto meglio innamorarsi di una donna bella intelligente e ricca anziché di un mostro cretino e senza una lira”. “È meglio avere due pensioni e vivere bene che averne una sola e morire di fame”. “È molto meglio essere allegri che tristi”. Diceva cose così Catalano e l’ovvio divenne una categoria dello spirito di quegli edonistici anni Ottanta. Oggi Tajani si cimenta con l’ovvio a modo suo, maramaldeggiando furbamente, o più probabile goffamente, con le parole. Ammicca, quindi: preferite un maranza o un bravo studente? La risposta sarebbe ovvia. Così la percepisce il telespettatore distratto (come lo siamo tutti, che ascoltiamo con la coda dell’orecchio preparando la cena) ma tutto ciò non ha niente a che vedere con lo Ius Scholae, con i maranza e tantomeno con gli studenti stranieri. Sono sbagliati i presupposti, i termini e quindi la conclusione. Sarebbe come chiedere: preferite una mela o il tonno in scatola? Non c’entra niente, direste. Che domanda è? Appunto. Il maranza, nella visione di Tajani, è l’immigrato di seconda generazione destinato a un futuro di piccolo criminale di strada. Per chi avesse dubbi lo spiega anche: “I maranza a scuola non ci vanno e poi vanno a delinquere e diventano cittadini italiani”. Peccato che le nostre periferie siano piene di maranza italianissimi. E non solo le periferie. Trapper, rapper, cantanti sul palco di Sanremo. Il maranza è ovunque e non è necessariamente straniero. Caratteristiche principali, per riassumere brevemente: catene vistose, tatuaggio, tuta di acetato, maglia della squadra di calcio, Nike ai piedi, gilet (o smanicato che dir si voglia), borsello di marca. I maranza vestono firmato e vistoso, girano in gruppo. Se ne cerchiamo le origini ci possiamo rivolgere ai linguisti. Per la Treccani i maranza sono giovani che fanno parte di “comitive o gruppi di strada chiassosi, caratterizzati da atteggiamenti smargiassi e sguaiati e con la tendenza ad attaccar briga”. Secondo l’Accademia della Crusca “il referente di maranza è il tamarro, legato al mondo della musica dance e dei locali notturni”. C’è anche una canzone di Jovanotti (Il capo della banda, anno 1988) dove il maranza è sinonimo di tamarro: è il ragazzo maleducato, un po’ sbruffone, che si sente libero di fare ciò che gli va. Tajani contrappone chi frequenta regolarmente la scuola e chi invece non rispetta le regole sociale e ha comportamenti antisociali. Lapalissiano. Liberissimo di farlo, ma non c’entra niente con gli immigrati e con la cittadinanza, né con le varie subculture giovanili di un paese multietnico. Che piaccia o meno, è la realtà. È piena l’Italia di ragazzi italianissimi che abbandonano la scuola, che non sanno niente della Costituzione, che non studiano, non conoscono la storia e confondono Garibaldi con Cavour. È piena l’Italia anche di ragazze e ragazzi straniere figli di immigrati che studiano, lavorano, eccellono, si impegnano. Loro in che categoria li mettiamo, tajanamente ragionando? Forse più che una visione dell’ovvio quella di Tajani è una visione un po’ manichea e parecchio razzista. Ma è solo un’ipotesi, eh. Costruire la pace “nella mente degli uomini”: ecco perché l’Unesco va difeso di Gabriele Della Morte Il Domani, 26 luglio 2025 La scelta degli Stati Uniti di uscire dall’organizzazione riapre l’annoso dibattito sul multilateralismo. L’Italia è certamente più nota per il potere dispiegato attraverso il soft power che per quello hard. Basterebbe questo per comprendere sino a che punto il multilateralismo andrebbe difeso alle nostre latitudini. “Poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere costruite le difese della pace”. Il preambolo dell’atto costitutivo dell’Unesco (l’organizzazione delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura) è tra i più evocativi dell’intera galassia delle organizzazioni internazionali. Redatto nel 1945 su iniziativa della Conferenza dei ministri dell’educazione alleati contro il nazismo (Came), l’atto è entrato in vigore l’anno successivo, e l’Italia vi ha aderito tre anni più tardi. Oggi l’Unesco conta ben 194 membri (tra i quali, dal 2011, lo stato della Palestina), oltre 12 membri associati (territori non responsabili delle proprie relazioni internazionali, come le Isole Caiman), uno stato osservatore (la Santa sede) e un unico stato non membro (Israele). Un ente politico - Dotato di un personale di oltre 2.300 persone, e uffici dislocati in numerosi paesi, l’Unesco ha sede a Parigi, in un iconico edificio progettato da architetti internazionali, e persegue numerosi fini: la pace, la giustizia e la costruzione di società inclusive e sostenibili attraverso l’educazione, la cultura, la scienza, la cooperazione internazionale, con particolare attenzione al dialogo interculturale, l’accesso equo all’istruzione e alla conoscenza, e la tutela del patrimonio mondiale. Si tratta, come avrebbe osservato Rolando Quadri, di un ente eminentemente politico, in quanto sono “indeterminabili a priori le sue funzioni e le sue attività”. Deve essere precisamente questa caratteristica che ha condotto al recente annuncio, martedì 22 luglio, del ritiro degli Stati Uniti dall’Unesco entro la fine del 2026. La decisione segue di soli due anni la rinnovata adesione degli Stati Uniti all’organizzazione (seguente il precedente ritiro già effettuato nel contesto del primo mandato presidenziale di Donald Trump), e riflette, con vigore sempre più incisivo, la diffidenza, se non la manifesta ostilità, del nuovo corso presidenziale Usa a un modello di governance multilateralista. Governance multilateralista - Secondo la portavoce del Dipartimento di stato, Tammy Bruce, l’Unesco risulterebbe colpevole di perseguire “un’agenda globale e ideologica”. E se per ragioni non troppo distanti gli Stati Uniti avevano già annunciato il ritiro dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite; in un precedente ordine esecutivo del 4 febbraio di questo anno si esprimeva l’intenzione di dismettere l’impegno Usa anche che per l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), e per l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente (Unrwa). Ma a cosa si accenna, in concreto, quando si evoca lo spettro della governance multilateralista? A quell’insieme di processi, istituzioni, centri decisionali, che imbrigliando il potere esclusivo dello stato, ne limitano in diversi modi la capacità d’intervento a favore della protezione di interessi collettivi. In un’evocativa immagine Luigi Condorelli descriveva il fenomeno in questi termini: “Si potrebbe vedere il diritto internazionale [e delle Organizzazioni internazionali, NdA] come una sorta di grande ragnatela: ciascuno dei fili elastici che la compongono è di per sé molto debole, tanto che gli stati, che vi sono intrappolati, possono facilmente spezzarlo (a rischio, forse, di ritrovarsi ancora più stretti da un altro lato). Ma l’intreccio dell’insieme dei fili (ogni filo essendo agganciato agli altri) rende la tela sufficientemente forte e flessibile da impedire agli Stati di liberarsene, anche se ne hanno danneggiato la trama più o meno gravemente”. La dipendenza degli Usa - Quanto la tela tessuta dall’Unesco in questi 80 anni dalla sua fondazione sarà in grado di sostenere, senza strappi significativi, il peso di questa decisione, sarà, ora, oggetto di scrutinio. La direttrice generale, Audrey Azoulay, ha già espresso “profondo rammarico” per la decisione (ricordando, tra l’altro, come essa penalizzerà le istituzioni statunitensi che collaborano con l’Unesco, come comunità candidate al patrimonio mondiale, città creative e università), ma ha altresì ricordato che essa non coglie l’organizzazione impreparata: negli ultimi anni l’Unesco ha rafforzato la propria struttura e diversificato le fonti di finanziamento, riducendo la dipendenza dagli Stati Uniti il cui contributo rappresenta solo l’8 per cento del bilancio totale, rispetto al 40 per cento di altre agenzie Onu. Soft power italiano - Appare comunque evidente come l’intera vicenda rappresenti un segnale significativo - culturale, se non propriamente “educativo” - per la classe politica del nostro paese. Ottava economia del mondo, ma che non siede in Consiglio di sicurezza e non dispone di armamentari atomici, l’Italia è certamente più nota per il potere dispiegato attraverso il soft power che per quello hard (basti ricordare che attualmente detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista del patrimonio dell’umanità Unesco: 61). Basterebbe questo per comprendere sino a che punto il multilateralismo andrebbe difeso alle nostre latitudini. In fondo, poiché le guerre nascono nella mente degli uomini, è nella mente degli uomini che devono essere costruite le difese della pace. In fuga dall’inferno: in Libia e Tunisia non c’è speranza di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 26 luglio 2025 Deportazioni, violenze, arresti arbitrari e riscatti. Le condizioni di vita della comunità subsahariana in balia di polizia e milizie con la complicità di Italia e delle istituzioni Ue. La Tunisia non è un paese sicuro. Almeno non per tutti. Non lo è per buona parte della società civile tunisina, per gli attivisti dei diritti umani e gli avvocati che denunciano le politiche autoritarie del presidente Kais Saied. Non lo è per le persone migranti, spesso deportate nel deserto per poi essere detenute in Libia. Nonostante le inchieste giornalistiche che lo scorso anno avevano suscitato l’indignazione di parte della comunità internazionale, le deportazioni della comunità subsahariana non si sono fermate e la loro condizione è addirittura peggiorata. Ibrahim Fofana, della rete Medical Emergency Network for Refugees in Tunisia, vive da due anni nel paese e racconta la “terribile situazione in cui vivono i migranti”, finché la telefonata non viene interrotta da un’emergenza. La popolazione migrante vive soprattutto tra Sfax, El Amra e Jebiniana. “Mentre parliamo, centinaia di migranti si trovano nel deserto, migliaia sono in Libia e altre centinaia vivono sotto gli alberi di ulivo perché rimasti senza rifugio. Non hanno né acqua né cibo a disposizione”, racconta Fofana. Gli accampamenti informali composti da tende e baracche vengono distrutti di continuo. “Spesso è la polizia a farlo”, racconta il volontario, spiegando che per i migranti è impossibile pagare un affitto in città. “I costi sono troppo alti, chiedono dai 100 ai 200 euro per un appartamento o un posto per dormire”, aggiunge, “per questo costruiscono “alloggi” di fortuna, riparandosi con teli di plastica”. Quasi impossibile trovare un lavoro, chi ce l’ha è sottopagato e sfruttato. La loro situazione sanitaria è tragica: in molti soffrono di diarrea, infezioni e altre malattie. Non solo gli uomini adulti, anche donne incinta e minori. Fofana stima che ad oggi ci siano circa 200 bambini nati da persone migranti in Tunisia nell’ultimo anno. “È una situazione incredibilmente pericolosa per la loro vita, abbiamo raccolto molte testimonianze e presentato denunce”, continua il volontario. È il risultato delle politiche xenofobe e delle dichiarazioni razziste del presidente Saied, il quale ha trovato nei subsahariani il capro espiatorio della crisi economica che attanaglia il paese da anni. Ha accusato la comunità di voler attuare una sostituzione etnica, parole che hanno incitato centinaia di tunisini a compiere violenze e discriminazioni contro i migranti. Il risultato finale delle sue politiche è chiaro: spingere i migranti a tornare nei loro paesi di origine con i rimpatri operati dalle organizzazioni internazionali. Chi riesce a imbarcarsi per l’Europa e viene intercettato in mare dalla Guardia nazionale o guardia costiera tunisina subisce trattamenti inumani e degradanti prima di venire deportato lungo i confini con la Libia e venduto alle milizie. “Per il loro rilascio i libici chiedono una somma ingente di denaro che può arrivare fino ai mille euro”, dice Fofana. Una volta oltrepassato il confine, la Libia è un altro inferno. I corpi delle persone migranti sono merce in vendita tra milizie e trafficanti di esseri umani fino al momento in cui attraversano il Mediterraneo in direzione Europa. Dal 2023 a oggi, infatti, il flusso delle partenze è cambiato. Se la Tunisia ha fermato le partenze con i soldi dell’accordo firmato tra Bruxelles e Tunisi, mediato dalla premier Giorgia Meloni, in Libia i migranti vengono usati come ricatto per incassare credito politico e finanziamenti. Secondo gli ultimi dati di Unhcr il 91 per cento di tutti gli arrivi via mare in Italia nel 2025 è partito dalle coste libiche, nel 2024 erano il 56 per cento. Un trend contrario a quello proveniente dalla Tunisia, scesa dal 39 per cento al 6 per cento. In Libia, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ci sono 867.055 migranti di cui la maggior parte originari dal Sudan e dalla Nigeria (oltre 160mila in più rispetto al 2024). Numeri alti che preoccupano i governi europei, dato l’aumento delle partenze dalla Cirenaica, territorio controllato da Khalifa Haftar. Anche per questo il commissario europeo alla migrazione, Magnus Brunner, doveva incontrare il generale a Bengasi a inizio mese prima di essere espulso dal paese insieme ai ministri europei. Da una parte, i governi Ue, come annunciato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, vogliono aumentare i rimpatri “volontari” dalla Libia verso i paesi di origine. Dall’altra, invece, l’obiettivo è rafforzare il controllo dei confini marittimi, tradotto: aumentare le intercettazioni in mare da parte della violenta guardia costiera libica. Secondo l’Oim, da gennaio al 19 luglio sono 12.643 i migranti intercettati nel Mediterraneo e riportati in Libia, dove, come dimostrano le inchieste della Corte penale internazionale sul caso di Osama Njeem Almasri, subiscono crimini di guerra e crimini contro l’umanità.