Carceri, arriva un nuovo piano (in attesa del prossimo) di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 25 luglio 2025 Fatto un piano, si passa al prossimo. Non c’è bisogno di applicarlo, non è necessario mettere in pratica quelle misure attuative che avrebbero lo scopo di trasformare l’annuncio in realtà, di trasformare le misure proclamate a mezzo stampa in interventi efficaci. Basta il pensiero. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio - dopo un silenzio durato un anno - ha dato mostra all’improvviso di accorgersi del problema del sovraffollamento e dei suicidi e ha annunciato alcune “nuove” misure a mezzo stampa. Le reazioni dei tecnici, dei garanti, degli avvocati, degli esperti che ci lavorano tutti i giorni, sono state sconsolate. Valentina Calderone, garante delle persone private della libertà di Roma, ha scritto: “Leggo l’annuncio e mi prende quella inafferrabile sensazione di déjà vu. Da qui a tornare indietro a luglio 2024 è un attimo. Spoiler: anche con i provvedimenti dello scorso anno, poi, nel concreto, non si è risolto niente di niente”. Più sintetico Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “È una presa in giro”. Sono reazioni prevenute? C’è un eccesso di sfiducia, una diffidenza ideologica nei confronti del Guardasigilli? Vediamo. E torniamo indietro proprio al 4 luglio 2024. Allora il governo emana il decreto Carceri (D.l. n.92, conv. l. n. 112 dell’8 agosto 2024), che ribattezza “Carcere sicuro” (per stare semanticamente a distanza da qualunque idea di “svuota carceri”). Sicuro per chi, verrebbe da chiedersi? Ma, a parte la questione lessicale, cosa prevedeva? Riassumendo: l’assunzione di mille agenti di polizia penitenziaria; la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria (Marco Doglio) con il compito di recuperare spazi nelle caserme e nei cortili e installare container prefabbricati; una (asserita) semplificazione delle norme sulla liberazione anticipata; l’idea di un Albo delle comunità per ospitare detenuti con dipendenze e per alcuni tipi di reati minori; l’aumento delle telefonate per i detenuti; l’indurimento del 41 bis. Eccoci a luglio 2025, è passato un anno (e una manciata di giorni). Nordio allora diceva: “Il decreto Carcere sicuro è un intervento vasto e strutturale che - senza indulgenze gratuite e segnali di sciatteria - affronta in maniera organica il problema e avrà un impatto sul numero di reclusi che non sarà insignificante. Già a settembre vedremo dei risultati”. E dunque, è stato un intervento “vasto e strutturale?”. Ha avuto un impatto “non insignificante”? E se era vasto, strutturale, e dunque risolutivo, c’era bisogno di fare un altro piano? C’era, evidentemente, se il 22 luglio, tre giorni fa, il Consiglio dei ministri l’ha approvato. Ma, a proposito, che ne è stato del decreto del luglio 2024? Ce lo ha detto il 4 luglio di quest’anno Luigi Ferrarella, la “Cassazione” dei cronisti giudiziari, in un corsivo sul Corriere che cominciava così: “Buon compleanno al decreto-legge n.92 del 4 luglio 2024 sulle carceri, ma ancora senza decreto attuativo che pure era previsto entro 6 mesi: ora, come candelina, il Ministero della Giustizia accenderà forse un’azione disciplinare nei confronti di sé stesso?”. Domanda retorica, naturalmente. Che ne è stato, dunque, delle misure annunciate lo scorso anno? Sostanzialmente nulla. Il numero di telefonate è rimasto lo stesso e l’albo delle comunità si è perso nelle brume di Palazzo Chigi. Del resto la legge demandava al decreto attuativo la definizione dei criteri per formare queste strutture. E il decreto attuativo è rimasto nel cassetto. Insieme ai chiarimenti necessari per la procedura di concessione della “liberazione anticipata”. Quanto ai nuovi posti, qualcuno doveva arrivare già nel 2025, ma nessuno li ha visti. Ed eccoci a oggi. Il nuovo piano prevede tre misure. La prima è quella di costruire nuove carceri o trovare nuovi posti per i detenuti. Verrebbe da sbadigliare o da piangere, visto il pregresso di piani edilizi finiti nel nulla (qui ne avevamo fatto una breve storia) e l’infinito numero di volte in cui si è detto e ripetuto che bisogna affidarsi al calcestruzzo per risolvere il sovraffollamento. L’idea, la stessa dell’anno scorso, è quella di installare dei container prefabbricati nei cortili delle carceri esistenti (visto che c’è così tanto spazio a disposizione) o di riadattare caserme abbandonate. In pratica si vogliono mettere in posti già sovraffollati delle mini casette tipo terremotati che, semmai si faranno, non paiono le più adatte per “un’umanizzazione della pena” L’ex garante nazionale Mauro Palma ha inviato, via “Domani”, una lettera alla premier Giorgia Meloni, per farle gli auguri per i mille giorni di governo. Auguri un po’ particolari. Palma ha ricordato che in mille giorni le persone ristrette in carcere sono aumentate di 6.503 (da 58.225 a 62.728). Dall’insediamento del governo, i detenuti sono aumentati a un ritmo di 6,5 al giorno mentre i posti regolamentari solo di uno ogni otto giorni (solo 126 posti in più). Se, e sottolineiamo due volte “se”, si realizzeranno come promesso da Doglio 15 mila nuovi posti da qui al 2028, non basteranno. Perché già oggi c’è un sovraffollamento di 16 mila detenuti. Se continua questo trend - e non può che peggiorare, vista la pletora di nuovi reati e i continui aggravamenti di pena - ci saranno nei prossimi tre anni altri 6-7 mila detenuti da stoccare. Un circolo vizioso, che non si vuole spezzare. E che è di quasi impossibile realizzazione: se non altro perché, nonostante l’assunzione lo scorso anno di mille agenti di polizia penitenziaria, secondo Gennarino De Fazio della Uilpa, ne mancano ancora ben 18 mila. La seconda misura è quella mirata a introdurre procedure più rapide per concedere la liberazione anticipata. Sì, l’avete già sentita: è la stessa idea dell’anno scorso. Quest’anno, il ministro la condisce con una cifra - la stima di 10 mila detenuti che potenzialmente potrebbero uscire - e la creazione di una task force - sport nazionale - che a settembre (anche questa l’avete già sentita) “produrrà i primi risultati”. Difficile, vista la cronica carenza di magistrati di sorveglianza, funzionari e cancellieri, che già oggi non riescono a tenere dietro all’ordinario. La terza misura è l’aumento delle telefonate per i detenuti (già, esattamente la stessa dello scorso anno): si passerebbe da una alla settimana a ben sei al mese. Non esattamente quella telefonata al giorno che chiedevano in tanti e che in molti Paesi esteri è già ammessa. Stefano Anastasia, garante del Lazio e docente di Filosofia del diritto, commenta così: “Il ministro Nordio ancora una volta non risponde all’urgenza del sovraffollamento, rinviando ai magistrati la responsabilità di concedere la liberazione anticipata ordinaria, al commissario straordinario gli avveniristici progetti di nuove carceri senza personale e chissà a chi il trasferimento in comunità di tossicodipendenti che non riescono ad andarci”. Luigi Manconi, intervistato dall’Huffington Post, è duro: “Quando parla di 10 mila detenuti da liberare, Nordio evoca numeri a caso. Ha umiliato le speranze riposte in lui”. Spiega il sociologo, già primo garante dei detenuti, che “continuerà indisturbata la disumanizzazione del carcere e la carneficina dei suicidi”. E aggiunge ironicamente che si è molto preoccupato quando il sottosegretario Andrea Del Mastro Delle Vedove - quello dell’“intima gioia” per la sofferenza dei detenuti - ha definito “per ben tre volte epocali queste misure”. Le proposte della società civile, dei garanti, degli avvocati e di una parte della politica non sono state prese in considerazione da Nordio (che l’Unità definisce “L’illusionista”). Non l’amnistia e l’indulto, naturalmente. Ma neanche la proposta Giachetti, che consentirebbe di allargare automaticamente le maglie della liberazione anticipata, progetto che è stato cautamente apprezzato persino da Ignazio La Russa. Ma non è bastato, così come non sono bastate le cronache molto informate di Gianni Alemanno da Rebibbia. E dunque, per ora bisogna accontentarsi dalla dichiarazione di principio del ministro: “La nostra coscienza civile e cristiana si ribella a situazioni che sono contrarie allo spirito di umanità”. E i 120 ventilatori regalati dal Consiglio nazionale forense per i detenuti costretti a stare in celle da 40 gradi? Bel gesto, anche se forse ci doveva pensare il ministero. Comunque meglio dell’Alligator Alcatraz trumpiano, bisogna accontentarsi. Per il resto, appuntamento al luglio 2026 per una nuova estate, un nuovo conteggio dei suicidi e un nuovo piano (molto piano) “ampio e strutturale”. “Nessuno può essere messo in prigione se non c’è posto” di Angela Stella L’Unità, 25 luglio 2025 “Nessuno può essere detenuto per esecuzione di una sentenza in un istituto che non abbia un posto letto regolarmente disponibile”: questo l’incipit dell’art. 1 della proposta di legge per l’istituzione del “numero chiuso” nelle carceri presentata ieri alla Camera dal primo firmatario e deputato di +Europa Riccardo Magi. L’iniziativa è sostenuta anche da Pd, Avs, Iv, Azione. “In questo momento il carcere è in una situazione di illegalità e incostituzionalità - ha esordito Magi - Questa proposta non è una provocazione, è un’assunzione di responsabilità di fronte a quella che è divenuta la bancarotta dello Stato di diritto. Questa nostra misura risponde anche alle critiche della destra sempre contraria a misure deflattive estemporanee: non è una risposta una tantum, ma una valvola di sicurezza e di garanzia”. Magi ha infine sostenuto che la pdl è stata inviata e sottoposta ai deputati di Forza Italia ma al momento nessuna adesione: “Ho registrato però un arretramento, un’involuzione nel partito azzurro, dopo i segnali di apertura del passato. Evidentemente il tour nelle carceri che hanno fatto non li ha resi consapevoli della situazione”. “Mi ha fatto molta specie - ha detto Fabrizio Benzoni (Az) - sentire la premier dire che sono le carceri a doversi adattare ai reati. Nei provvedimenti del governo c’è il vuoto su ciò che in carcere avviene. Speriamo che questa proposta possa essere accolta in maniera trasversale”. “Ho sottoscritto convintamente questa pdl”, ha aggiunto Roberto Giachetti (Iv) che trova “vergognoso il fatto che il Governo dinanzi all’ennesima scesa in campo di Mattarella, di La Russa, del vice presidente del Csm Pinelli invece di limitarsi al silenzio abbiano messo in campo soluzioni propagandistiche, delle vere prese in giro. Quando si arriva a dire che il sovraffollamento in carcere è una garanzia perché più detenuti ci sono più si possono controllare tra loro per sventare suicidi (Nordio, ndr), siamo sul piano della psichiatria”. In conferenza stampa sono intervenuti anche i deputati Federico Gianassi del Pd e Devis Dori di Avs. “È una proposta - ha affermato il primo - che lancia una sfida che merita di essere raccolta, coerente con i principi costituzionali. Chi può avere paura della Costituzione. È una riforma di sistema, non emergenziale. Su questa pdl ci si può confrontare apertamente”. “L’iniziativa di Magi è non solo da sostenere, ma da portare avanti con le altre opposizioni in maniera convinta, l’obiettivo è ‘suicidi zero’ nelle carceri”, ha spiegato Dori. In parlamento giacciono due simili proposte presentate da Cecilia D’Elia e Luigi Manconi. A prendere la parola anche il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, che ha criticato le misure del Governo presentate due giorni fa al termine di un Cdm: “quella per i tossicodipendenti è inefficace perché si sovrappone a quella già esistente. E poi è prevista in un ddl che avrà tempi lunghi di approvazione. Per quanto concerne il piano di edilizia penitenziaria è pericoloso. Se veramente ci saranno dei container o prefabbricati significherà tagliare luoghi, spazi a realtà come Rebibbia e Bollate privandoli della loro funzione rieducativa. Per quanto concerne infine le telefonate, dovrebbero essere una al giorno”. A supportare la tesi di Gonnella sulla norma sui tossicodipendenti ci ha pensato Caterina Pozzi (Presidente Cnca - Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza): “il sottosegretario Delmastro in alcune interviste di due giorni fa ha dichiarato che i criteri di ammissibilità per le strutture da coinvolgere saranno definiti in una fase successiva. Ma noi ad esempio siamo accreditati già da 30 anni. Cosa vogliono percorsi paralleli? Poi si parla di una commissione per elaborare le linee guida. Ma questo esiste già”. Per Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, “la proposta Magi è una valvola di salvaguardia del sistema, come previsto anche dal Comitato Europeo contro la tortura sulla capienza massima nelle carceri”. In conclusione è intervenuto Franco Corleone, Presidente Società della Ragione: “la misura del numero chiuso è di grande civiltà. Il numero contingentato esiste in tutti i luoghi pubblici, nei luoghi per i dibattiti, a teatro. Solo in carcere si può entrare senza limiti”. A Rai Radio Anch’io la presidente dei deputati di Iv, Maria Elena Boschi, ha rilanciato la liberazione anticipata speciale: “il governo continua a rinviare, a prendere tempo, a proporre misure che non avranno alcun impatto immediato. La liberazione anticipata speciale può essere approvata subito. Non è ideologica e potrebbe essere approvata in modo trasversale, ma soprattutto è una soluzione praticabile immediatamente. Non c’è tempo da perdere”. Sulle carceri la politica è subalterna al populismo di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 25 luglio 2025 Il Presidente della Repubblica, il 30 giugno, rivolgendosi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha espresso un richiamo forte rivolto al Governo e alla Politica in generale con cui, espressamente, ha sottolineato che le carceri non possono calpestare i diritti dei detenuti e “non devono essere una fabbrica di criminalità”. D’altronde, un criminale recuperato nella società è una garanzia di sicurezza per tutti e, soprattutto, un obiettivo costituzionale. Il sovraffollamento e i suicidi “sono un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Infine, ultimo appello concreto con specifico riguardo alla piaga citata, per il Presidente “le carceri sono sovraffollate anche per l’insufficiente ricorso all’applicazione di pene alternative e dell’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva”. Ciò concerne anche gli istituti minorili su cui si registrano dati allarmanti e numeri che dai 385 detenuti indicizzati nel maggio 2023, si raddoppiano sino a 586 a giugno 2025 dopo il c.d. Decreto Caivano. La Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, di cui sono portavoce, ha indetto per il 30 luglio, a un mese esatto da questo appello o, per meglio dire, da questo rimprovero alla politica, una manifestazione per sensibilizzare l’opinione pubblica e per sollecitare la politica nel suo complesso, esortando il Governo a mettere in campo soluzioni immediate e concrete alle parole dure, inequivocabili del Presidente della Repubblica. È necessario un provvedimento urgente finalizzato alla riduzione del sovraffollamento in nome della dignità, come ad esempio è stato fatto dal Governo Berlusconi nel 2003 e nel 2010. Nei provvedimenti governativi comunicati sul tema delle carceri, comunicati con enfasi dal Ministro Nordio, non c’è nulla di immediata applicazione, non c’è nessuna misura deflattiva centrata sul sovraffollamento. Disegni di legge che non sono risolutivi e qualcuno già in contraddizione con il Decreto Carceri approvato il 7 agosto dell’anno scorso dove è stata anche modificata la liberazione anticipata che non viene data più ogni sei mesi. Insomma, lo Stato continua a non rispettare quanto stabilito dalla Costituzione. Carceri senza aria, senza umanità e dettato costituzionale. Il sovraffollamento, la mancanza di ambienti idonei a svolgere le più comuni attività, il non rispetto della sentenza sull’affettività. Più che nuovi reati e maggiori pene, abbiamo bisogno di misure di giustizia perché i detenuti soffrono più del necessario rispetto alle pene. La dignità non è negoziabile. La politica piuttosto che guidare il cambiamento sul carcere e sui diritti diventa subalterna al populismo, alle sue regole, al suo consenso piuttosto che al senso del suo essere politica, cioè programmazione del bene comune. *Garante campano dei detenuti Piano carceri: per il Governo è solo una questione di edilizia di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 25 luglio 2025 Previsti 15 mila nuovi posti detentivi e reclusione differenziata per i tossicodipendenti. Cgil: “Provvedimento non soddisfacente né risolutivo”. “Niente indulti o svuota carceri”, ma 15mila posti detentivi per un piano di edilizia penitenziaria che dovrebbe realizzarsi entro pochi anni. Questo uno dei cardini del Piano carceri targato Carlo Nordio, ministro della Giustizia del governo Meloni, che prevede inoltre la “detenzione differenziata” nelle comunità dei circa dieci mila carcerati tossicodipendenti e l’accelerazione di procedure per chi han diritto alla liberazione anticipata. Il provvedimento varato dal Consiglio dei ministri del 22 luglio punta tutto sulla soluzione edilizia, mentre tralascia il capitolo che riguarda come la pena debba essere scontata, vale a dire tutte le misure che evitino la completa inattività dei detenuti, l’isolamento affettivo e prevengano curino il disagio psicologico e psichico. Il commissario straordinario, Marco Doglio, parla di 758 milioni di euro per recuperare i primi 9.696 posti entro i prossimi due anni e la realizzazione di altri 5.000 in 5 anni. Secondo il governo il sovraffollamento “si combatte con investimenti in infrastrutture, rieducazione e sicurezza”, come ha sostenuto il sottosegretario Andrea Ostellari, mentre il ministro Nordio ha affermato che “non si tratta di uno sfoltimento carcerario, ma del recupero di quei tossicodipendenti, che sono persone da curare, ma nello stesso tempo hanno commesso reati di un certo allarme sociale”. Il trattamento differenziato del quale parla il provvedimento riguarda persone che, in relazione alla loro tossicodipendenza, hanno commesso reati minori come furti, scippi, rapine e violazioni di domicilio e ancora non è chiaro nel dettaglio come verrà messo in pratica. C’è poi il capitolo sulla liberazione anticipata, che secondo Nordio “non richiede una legge nuova”, perché “si tratta di valutare le condizioni di persone che, sia per quanto riguarda il fine pena che per i piani di recupero a cui si sottopongono, potrebbero usufruirne”. “Un provvedimento non soddisfacente né risolutivo, come sostiene anche l’Unione Camere penali, una toppa su un sistema pieno di buchi che non avrà effetti immediati”, afferma Denise Amerini, responsabile Dipendenze e carcere dell’area Stato sociale e diritti Cgil, per la quale alla base del provvedimento c’è “un ragionamento generico di manutenzione, ristrutturazione e costruzione di nuovi spazi, nel quale l’unica certezza riguarda i prefabbricati, i container, che non sono certo una soluzione strutturale ma hanno anzi aspetti di rilevante problematicità”. La fornitura di container ha profili assolutamente insostenibili: vista la loro prevista collocazione negli ambienti comuni, tolgono spazi fondamentali per lo svolgimento di attività trattamentali, rappresentano una pietra tombale su cosa deve essere il carcere secondo la costituzione. Non per niente abbiamo sentito parlare nei mesi scorsi, da parte di esponenti della maggioranza di governo, anche di togliere dall’art.27 il valore rieducativo della pena”. Nel documento c’è poi un riferimento al carcere di Bollate, in provincia di Milano, visto da molti come un modello di buone pratiche: “Come da più parti sottolineato è un segnale chiaro della fine di quel modello. Inoltre, se si parla di 10.000 posti in più, dovremmo parlare anche delle dotazioni organiche e dei direttori di istituto necessari, ed oggi carenti”, afferma Amerini. La sindacalista ricorda inoltre che l’aumento delle telefonate ai familiari da quattro a sei al mese era già previsto da un provvedimento adottato durante la pandemia da Covid e poi mantenuto in alcuni istituti, mentre bisognerebbe “garantire almeno una telefonata al giorno e approvare un regolamento che renda davvero esigibili i diritti legati anche al mantenimento delle relazioni affettive, dei rapporti con i propri cari”. Per quanto riguarda la detenzione differenziata per detenuti tossicodipendenti in comunità, Amerini sottolinea che non è specificato quali debbano essere le strutture, quali i modelli e le regole e nemmeno i criteri per gli accreditamenti. “Abbiamo però sentito recenti affermazioni - dice -, secondo le quali si tratterebbe di strutture chiuse. Come sindacato abbiamo già ripetutamente espresso la nostra netta contrarietà a trasformare le comunità di accoglienza in una sorta di carceri privati”. Pare che il pensiero sul quale si basa il provvedimento sia sempre lo stesso: “Il carcere come luogo altro in cui confinare corpi e non persone. Abbiamo sempre sostenuto che non serve costruire nuove carceri, inevitabilmente destinate a riempirsi - aggiunge Amerini -, soprattutto se si persevera nella logica di aumentare le fattispecie di reato, e se le pene già previste, se si interviene sulla giustizia minorile, si trasformano anche illeciti amministrativi in reati. Il pacchetto non interviene sul sovraffollamento che, ricordiamo, supera il 133%. Addirittura il ministro Nordio arriva ad affermare che non è causa o concausa dei suicidi ma addirittura li previene. Non è prevista nessuna misura veramente deflattiva restano, basti vedere che persistono i 45 giorni per ogni semestre per la liberazione anticipata: si parla di procedure più rapide ma non è chiaro come potranno essere rese effettive”. “Norma inutile se non pericolosa - aggiunge Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil - in quanto costringere le persone in spazi quali quelli dei container non solo peggiorerà le loro condizioni materiali, ma peggiorerà anche le condizioni di lavoro degli operatori, già oggi sotto organico. Il nostro impegno per la tutela dei diritti e della dignità delle persone ristrette e degli operatori del sistema carcerario, non può che essere ancora più determinato a fronte di certi provvedimenti e di certe affermazioni”. “Con provvedimenti come questi - conclude - non si interviene in maniera strutturale sui problemi che affliggono il carcere, non si migliorano le condizioni in cui sono costrette a vivere le persone ristrette, senza restituire loro quella dignità e quei diritti che la Costituzione reclama”. Intanto non passa giorno in cui non giungano notizie drammatiche si sono registrate tre dagli istituti penitenziari. Nei giorni scorsi, nel giro di sole 48 ore, si sono registrare tre morti in carcere per suicidio, a Roma, Massa e Frosinone: dall’inizio dell’anno sono 43 i detenuti che si sono tolti la vita nei penitenziari italiani. Svuota-carceri, perché il piano non funziona di Claudio Marincola L’Altravoce, 25 luglio 2025 Misure confuse, pochi fondi e magistrati. Gli operatori in coro: “È fumo negli occhi”. C’è un tempo per ogni stagione. L’estate italiana, da qualche anno, ha un suo appuntamento fisso: il Piano Carceri. Puntuale come un solleone agostano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato con tono grave e risoluto l’ennesima riforma strutturale del sistema penitenziario. Aumento dei posti, detenzione differenziata, fondo immobiliare ad hoc. Suona tutto familiare? O si tratta della solita “sòla estiva”, per dirla con le parole di Rita Bernardini? Lara Fortuna è un magistrato. Fa parte del Comitato direttivo del Conams. Coordina l’Ufficio dei giudici di Sorveglianza di Padova ai quali il Piano assegna un ruolo centrale nel disegno di legge sulla detenzione differenziata per i detenuti con dipendenze da droga e alcol. “Su 10mila magistrati italiani quelli che si occupano di sorveglianza sono, a organico pieno, circa 250 - lei elenca - ma l’aspetto più problematico non è la carenza della Sorveglianza, quanto le piante organiche inadeguate, piante che risalgono a decenni fa, tarate su un lavoro molto diverso: ora sono aumentati i detenuti, raddoppiate le competenze. C’è un tempo per ogni stagione. L’estate italiana, da qualche anno, ha un suo appuntamento fisso: il Piano Carceri. Puntuale come un solleone agostano, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato con tono grave e risoluto l’ennesima riforma strutturale del sistema penitenziario. Aumento dei posti, detenzione differenziata, fondo immobiliare ad hoc. Suona tutto familiare? O si tratta della solita “sòla estiva”, per dirla con le parole di Rita Bernardini? Pochi magistrati Lara Fortuna è un magistrato. Fa parte del Comitato direttivo del Conams. Coordina l’Ufficio dei giudici di Sorveglianza di Padova ai quali il Piano assegna un ruolo centrale nel disegno di legge sulla detenzione differenziata per i detenuti con dipendenze da droga e alcol. “Su 10mila magistrati italiani quelli che si occupano di sorveglianza sono, a organico pieno, circa 250 - lei elenca - ma l’aspetto più problematico non è la carenza della Sorveglianza, quanto le piante organiche inadeguate, piante che risalgono a decenni fa, tarate su un lavoro molto diverso: ora sono aumentati i detenuti, raddoppiate le competenze, abbiamo in carico la gestione di almeno 30mila misure alternative già in corso, dai domiciliari, ai detenuti in affidamento o in prova. Senza contare le circa centomila istanze di persone che hanno ricevuto condanne inferiori ai 4 anni ma attendono che vengano a loro concesse le misure alternative, i cosiddetti “liberi sospesi”. Manca il personale. E lottiamo anche per avere la carta”. Riforma che odora di propaganda, che genera nuove illusioni, verrebbe da pensare. Perché mentre Nordio promette 10.000 nuovi posti entro due anni - operazione da 758 milioni di euro, con la metà del gruzzolo gentilmente messo a disposizione dal ministero delle Infrastrutture - le carceri italiane si gonfiano come zattere alla deriva. I detenuti oggi sono 62.700 a fronte di una capienza regolamentare di 51.300. Una differenza che diventa un abisso se si considera che almeno 4.500 posti sono inagibili. Il sovraffollamento reale supera il 133%. E i morti per suicidio sono già 33 da gennaio. Il silenzio su questa contabilità è il vero reato destinato a rimanere impunito. La vera voragine, più che tra le mura delle celle, si trova negli uffici della magistratura di sorveglianza. Lara Fortuna fotografa con precisione la disfatta: “A Padova quattro giudici per 800 detenuti e migliaia di misure alternative. Dodici, tredici persone in tutto, che vivono nell’era dei faldoni cartacei, lottano per avere la carta e non tutti hanno nemmeno uno scanner. Altro che giustizia digitale”. Senza strumenti “Senza funzionari e cancellieri, è come chiedere a un chirurgo di operare senza ferri oppure a un medico di fare a meno degli infermieri - riprende la magistrata di Padova - E ora chi dovrebbe seguire i percorsi delle nuove commissioni per la detenzione differenziata? Chi formerà queste commissioni? E soprattutto, chi pagherà? Abbiamo casi di recidiva, persone non in grado di rispettare le prescrizioni. A volte dalle comunità ci sentiamo dire “o ce lo date entro 20 giorni o diamo il posto a un’altra persona”. Le comunità vengono finanziate dalle Regioni. C’è stato un passaggio in Conferenza Stato-Regioni? Chi pagherà per questi nuovi posti? “Noi - riprende Fortuna - di norma riusciamo a dare risposte entro 15-20 giorni ma dipende dalle problematiche. Se sono connesse ai minori, a donne in gravidanza. Ma nulla possiamo sulle condizioni carcerarie. E vogliamo parlare delle telefonate? Ora si parla di passare da 4 a 6 autorizzate. Ma in Francia i detenuti hanno un cellulare con 4 numeri autorizzati, così si stronca il traffico dei telefonini e si risparmiano i costi per accertare chi ha telefonato tramite i tabulati”. Sul fronte delle comunità terapeutiche - a cui si vorrebbero destinare migliaia di tossicodipendenti condannati per reati minori - la situazione è altrettanto farsesca. Mancano fondi, manca personale qualificato. A Roma Villa Maraini, ad esempio, ha un modello articolato tra comunità residenziale, day hospital e camper mobili. Ma è finanziariamente tagliata dalle stesse istituzioni che ora pretenderebbero di scaricare su strutture simili la gestione di circa 20.000 detenuti. Roba da fantascienza sociale, non da politica penitenziaria. Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, ha iniziato a occuparsi di carcere alla scuola radicale di Marco Pannella. Non ha peli sulla lingua. Attacca: “È la solita sòla estiva, lo dico alla romana. L’anno scorso stava andando avanti la proposta di Roberto Giacchetti ma poi ci dissero che avrebbero risolto tutto con il “Decreto carcere”, provvedimento che naturalmente non ha influito in nessun modo sul sovraffollamento. E poiché stava prendendo piede l’operazione portata avanti anche dal presidente del Senato La Russa, ecco che ora Nordio presenta il suo piano”. “La libertà anticipata per i tossicodipendenti? - riprende Bernardini - E già prevista dall’ordinamento penitenziario. Nordio dovrebbe chiedersi perché non funziona, mancano le comunità, sono pochi i magistrati di sorveglianza. Storia vecchia anche quella del fondo immobiliare... lasciamo perdere... A quanti Piani carcere abbiamo assistito? Quanto è aumentata in questi anni la capienza? Carcere di cemento modulari? E dove li mettono? È solo fumo negli occhi”. Ornella Favero, volontaria, fondatrice e direttrice di “Ristretti Orizzonti”, da 27 anni si occupa di carcere. “Il piano Nordio? Di concreto non c’è nulla, aria fritta - Non c’è ancora un testo, qualcosa di scritto a cui riferirsi. In realtà l’unica misura che sembrerebbe nuova è la possibilità di chiedere la libertà anticipata per i tossicodipendenti condannati a reati inferiori a 8 anni (prima il limite era 6, ndr). Ma quanti sono questi detenuti che hanno questi requisiti, quelli che andranno realmente in comunità? Forse 10 o giù di lì. Poi si parla di edilizia quando oggi il problema reale è il personale. Cosa costruisci se non sai chi dovrà gestire? La verità è che il governo si è inventato una task-force che rimarrà sulla carta e renderà ancora più farraginosa la modalità di accesso alla libertà anticipata. Ci sono comunità che stanno chiudendo perché hanno difficoltà a trovare personale. Non mi meraviglierei se volessero privatizzare anche questo settore”. A Roma, intanto, si tace sul resto. Si tace sulla libertà anticipata - quella vera, prevista dall’ordinamento penitenziario - che Nordio considera una “resa dello Stato”. Ma la vera resa è quella di un sistema che abdica ai principi costituzionali e umanitari per accontentarsi della costruzione di nuovi carcere-box, modulari e prefabbricati, da mettere chissà dove. Sul modello delle “new town” dell’emergenza post-terremoto. Lo ricorda anche Fabio Gianfilippi, altro magistrato di sorveglianza, che denuncia “come l’amministrazione non sia in grado di personalizzare i percorsi, che mancano psicologi, educatori, mediatori. Il sistema non sa nemmeno chi ha dentro, figuriamoci se riesce a reintegrarlo”. E mentre ci si balocca con i “fondi immobiliari”, già tentati da Berlusconi per trasformare Regina Coeli in un resort di lusso (sì, fu davvero proposto), il personale penitenziario affonda: mancano 6.000 agenti, 1.000 educatori sono un miraggio. Le carceri non sono scuole di recupero, ma discariche umane. La detenzione è punizione, ma ormai è anche umiliazione, malattia, abbandono. Sonia Caronni è la responsabile del Gruppo esecuzione penale adulti del CNCA, il Coordinamento nazionale comunità accoglienti: 240 comunità disseminate in tutto il territorio nazionale. Strutture residenziali e strutture semiresidenziali, centro diurni. “Noi abbiamo posti liberi - lei esordisce - e anche per questo ci ha colpito questo decreto. Abbiamo le comunità semi-vuote nonostante un impianto legislativo che favorisce l’uscita dal carcere”. Già. Come mai? “Ce lo siamo chiesti - risponde la Caronni - come mai non sono usciti finora? C’è già tutto, non bisogna fare altri provvedimenti. Siamo stupefatti: stiamo cercando di capire se il Ddl introduce qualcosa di realmente innovativo. Da chi è composto ad esempio il Comitato di valutazione? Sicuramente la novità è la costruzione di nuovi carceri e di ampliamenti inserendo i container. Ma in concreto non riusciamo a capire come accadrà. Se utilizzando solo le comunità accreditate e se sarà il sistema nazionale a pagare le rette”. “Bisognerà passare attraverso la valutazione dei Sert per avere una certificazione di dipendenza - continua la responsabile delle Cnca - Perché se nel comitato non c’è il Sert vuol dire che si uscirà dal carcere anche senza certificato e a qual punto qualcuno dovrà pagare. Con quali fondi? Noi spingiamo perché tutto avvenga attraverso chi è già accreditato, un sistema consolidato. E comunque vada, mancano operatori qualificati, operatori disponibili a lavorare in questo ambito. Come Cnca siamo in osservazione, questo Piano non ci convince, ci sono troppe lacune e troppi dubbi. Perché si sono svegliati solo adesso? Queste misure di libertà anticipata - conclude Caronni - spesso non vengono concesse perché c’è un sovraccarico, mancano gli educatori e le procedure sono lente. E tutto si ingolfa. Nel sistema nazionale le Regioni hanno un ruolo fondamentale per gli accreditamenti, ma questo Ddl non lo chiarisce, è tutto molto vago, siamo sorpresi, temiamo che si possa creare un doppione. Non vorremmo che si ripetesse quello che è successo con il decreto Svuota carceri dell’8 agosto 2024. Prevedeva un registro per la costruzione delle strutture di accoglienza. Non se ne fece nulla. Rimase inattuato e fu demolito dalla Corte dei conti”. Insomma, Nordio annuncia il piano, i media rilanciano, i partiti si dividono e intanto i detenuti si suicidano, i magistrati si logorano, gli operatori si dimettono. E la giustizia, quella vera, muore in un faldone, in una cartella condivisa, in un ventilatore che, come ricorda Lara Fortuna, “il detenuto si deve comprare da solo”. Benvenuti nella riforma penitenziaria del 2025. È già tutto vecchio, tranne la sofferenza. Non basta l’etica delle buone intenzioni di Francesco Petrelli* L’Altravoce, 25 luglio 2025 Esisteva un tempo l’”etica dell’intenzione”. Si pensava infatti che i nostri destini fossero nelle mani del buon Dio e non dipendessero dalla nostra volontà e che per superare il giudizio etico era dunque sufficiente che le nostre azioni fossero poste in essere a fin di bene. Poi venne Weber con la più moderna “etica della responsabilità” che attribuiva alla coscienza di ciascun uomo il carico delle proprie azioni e omissioni, per ciò che effettivamente e prevedibilmente producevano nella realtà. Basterebbe questo per accorgersi di come le vite di oltre 62.000 detenuti disperatamente stipati come merce scaduta nelle nostre carceri, o i 45 suicidi dall’inizio dell’anno, ci dicano qualcosa di inequivoco della responsabilità di chi dovrebbe rimuovere le cause di questo disastro e non lo fa. Di chi di fronte a una situazione che si fa di giorno in giorno più grave e più insostenibile fa sfoggio solo delle sue buone intenzioni. La vita disperata che si vive in quei bracci e in quei reparti spesso fatiscenti ed insalubri, privi di essenziali servizi igienici e sanitari, messi lì a scontare una pena che, al di là delle sue ragioni e della sua misura, diviene totalmente ingiusta per il solo fatto di essere scontata in quelle condizioni degradanti ed inumane, sta lì proprio a denunciare quella politica illusionistica delle buone intenzioni. Quelle, ad esempio, di voler tutelare la fermezza dello Stato e la sicurezza dei cittadini. Si tratta di visioni che offendono la ragione politica e il buon senso, perché non c’è chi non veda che gli uomini che usciranno dalle carceri dopo aver scontato la loro condanna in simili condizioni, saranno certamente uomini peggiori di come sono entrati e, come tali, esposti alla recidiva. Si tratta di visioni e di intenzioni che costituiscono un pessimo affare per la collettività. Promettere la costruzione di nuove strutture significa proiettare le buone intenzioni di un presunto “piano carceri” in una dimensione futura priva di ogni realistica concretezza. Ciò che, invece, si intravede come un incubo presente è l’appresta - mento di terribili “moduli detentivi” da collocare nei pochi spazi liberi preesistenti dei nostri istituti. Moduli-contenitori che interpretando la pena come puro contenimento, ovviamente accentuano il problema delle carenze strutturali di personale di polizia, di operatori e di spazi comuni dedicati al trattamento. Si prospetta dunque un concentramento detentivo nel quale gli squilibri fra esigenze e risorse, prodotti dal sovraffollamento, vengono esaltati e moltiplicati anziché essere ridotti. Nessun investimento e nessuna delle modeste immissioni di personale e di risorse, sinora attuati, può infatti riequilibrare l’incessante aumento del numero dei detenuti (+ 6,5 al giorno). Da due anni sono infatti sempre più quelli che entrano e sempre meno quelli che escono. Ed è così che dopo il fallimentare “decreto carcere” del luglio 2024, si giunge all’annunciato CdM che dovrebbe aiutare ad eludere ogni tentazione di accedere ad un qualsivoglia più ampio rimedio deflattivo. Non si considera che in questa drammatica situazione di sofferenza, una liberazione anticipata speciale non avrebbe nulla di premiale, ma sarebbe invece un minimo risarcimento per quel quid pluris di sofferenza non consentito da una pena che dovrebbe consistere nella sola privazione della libertà e non di quello della dignità. Promuovere l’utilizzo delle misure alternative diviene in questa ottica asfittica e riduttiva un vero ossimoro. Come è pura astrazione il ricorso alla detenzione domiciliare in comunità dei tossicodipendenti con pene sino ad otto anni, che si scontra con la dissolvenza incrociata dell’istituzione presso il Ministero del cosiddetto “elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza ed al reinserimento sociale”. Strutture notoriamente carenti che non si è provveduto in alcun modo a finanziare o a moltiplicare, la cui fruizione da parte dei condannati è inevitabilmente legata ad accertamenti complessi e delicati. L’etica della responsabilità, che dovrebbe indurre all’adozione di soluzioni razionali, immediate ed urgenti, si scontra evidentemente con l’accanita difesa di visioni ideologiche piene di buone intenzioni ma lontane dalla realtà, che si pensava dovessero recedere davanti alla necessità di tutelare, qui ed ora, la legalità, la vita e la dignità delle persone, secondo Costituzione. *Presidente Camere Penali Italiane Nelle carceri, anche i medici sono abbandonati. A perdere è il diritto alla salute di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 25 luglio 2025 “Il carcere deve garantire diritti, non toglierli”. Più volte, nel corso degli ultimi mesi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha richiamato istituzioni e opinione pubblica sul dovere di assicurare condizioni di detenzione dignitose. L’ha fatto nel messaggio per la fine dell’anno, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, in incontri con la magistratura e il volontariato. Tra i diritti più compromessi in carcere, c’è quello alla salute. E se, come stabilisce l’ordinamento penitenziario, la sanità penitenziaria è parte integrante del Servizio sanitario nazionale, la realtà quotidiana mostra invece quanto il carcere sia, ancora una volta, l’ultimo anello della catena. Assistenza sanitaria alcune volte inferiore rispetto a quella del mondo libero. Tempi di attesa lunghissimi per visite specialistiche. Medici e infermieri in affanno per gli scarsi numeri, per la fragilità della popolazione di cui si occupano, che vedono spesso il carcere come un luogo di passaggio nella loro carriera, preferendo poi un impiego più stabile, dignitoso e meno usurante. Un fatto questo che emerge dalle testimonianze raccolte dallo sportello di informazione legale che Antigone ha nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso, dove è stato rilevato come il medico più anziano in organico lavori in istituto da soli sette anni. Se si guarda al sistema penitenziario italiano è difficile non notare la distanza tra diritto e realtà. Le carceri italiane sono in sofferenza: sovraffollamento, carenza di personale, condizioni strutturali e materiali troppo spesso inadeguate. E, anche se meno visibile, l’accesso alle cure sanitarie resta una delle problematiche più gravi, sia che si parli di salute fisica, sia di quella mentale. A testimoniarlo ci sono anche i numeri. Quelli che ci ricordano come nei primi sette mesi dell’anno siano morte in un istituto penitenziario 141 persone, di queste 45 si sono suicidate, mentre le altre 96 sono morte per cause diverse, che hanno a che fare con malattie o problematiche di salute. Poi ci sono i numeri che ci raccontano di una presenza scarsa del personale medico. Sono quelli raccolti dall’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone (link). Quella degli psichiatri, ad esempio, ammonta in media a poco più di sette ore settimanali ogni cento detenuti. Gli psicologi garantiscono invece circa 22 ore settimanali ogni cento detenuti. Questo significa che ogni persona detenuta può accedere a una manciata di minuti settimanali di supporto psicologico o psichiatrico. Una misura del tutto insufficiente, specie considerando che si stima che oltre il 14 per cento dei detenuti soffre di disturbi psichiatrici gravi, e che oltre il 21 per cento assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici, antidepressivi e il 45 per cento sedativi o ipnotici. Ancora c’è il dato della copertura medica h24, non garantita in 29 delle 85 carceri vistate da Antigone nell’ultimo anno. Questo significa che se una persona detenuta si dovesse sentire male durante la notte non troverebbe alcun supporto medico. Una situazione di grave mancanza di assistenza anche a fronte del fatto che la notte, spesso, le carceri sono presidiate solo da pochi agenti (a causa della carenza negli organici) e quindi intervenire prontamente, con una traduzione in ospedale, è cosa tutt’altro che semplice. C’è infine un ulteriore dato emblematico, quello che rileva l’osservatorio di Antigone secondo cui oltre il 56 per cento degli istituti visitati non dispone di un sistema di cartelle cliniche informatizzate: un dato che, da solo, basta a fotografare l’arretratezza del sistema. Il carcere riflette, amplificandole, le diseguaglianze sociali e territoriali del Paese. E anche in termini di accesso alla sanità, il carcere finisce per dipendere dalle risorse (e dalle volontà) delle Aziende sanitarie locali. Se la Asl è in affanno, lo è anche il carcere di quel territorio. Ma mentre fuori si può cambiare medico, spostarsi, cercare alternative (anche attraverso visite specialistiche private), dentro non si può fare nulla. E l’assistenza, in molti casi, semplicemente non arriva o ritarda mesi ad arrivare. Anche laddove la tempestività di una diagnosi può salvare una vita. A fronte di questo scenario, il problema non è solo numerico. È anche (e soprattutto) strutturale. Il decreto Legge 22 aprile 2023, n. 44, convertito con la legge 21 giugno 2023, n. 74 e regolato dal Dpr 13 novembre 2024, n. 217, ha istituito la carriera dei medici nel Corpo di polizia penitenziaria, prevedendo accesso con concorso, formazione e specifiche regole professionali. Tuttavia, contrariamente a quanto ipotizzato, non esiste un divieto legale che imponga l’impossibilità oggettiva di svolgere contemporaneamente incarichi di medico di medicina generale convenzionato con il Sistema sanitario nazionale. Il Dpr stabilisce che ai medici del Corpo non si applicano le incompatibilità ordinarie, sebbene resti vietato operare a titolo oneroso nei confronti del personale penitenziario o nei procedimenti medico-legali. In tal modo, la riforma non riduce automaticamente la platea dei medici disponibili per il lavoro in carcere, anche se restano ostacoli strutturali: vincoli orari, protocolli interni, formazione obbligatoria e una scelta professionale che spesso vede favorire l’attività come medico di base per la maggiore stabilità economica e organizzativa. Il risultato è un paradosso: mentre il presidente della Repubblica invita a investire sui percorsi di reinserimento e su un carcere che rispetti i diritti fondamentali, il sistema sanitario penitenziario è potenzialmente sempre più fragile. E quando la salute manca, tutto il resto viene meno. L’impossibilità di curarsi non riguarda solo i bisogni clinici: ha un impatto sulla qualità della vita, sulla capacità di costruire relazioni, sulla gestione della pena. Il tema è tanto urgente quanto invisibile anche se riguarda migliaia di persone. Le persone detenute. Ma anche il personale sanitario penitenziario che spesso è lasciato solo, privo di tutele contrattuali, di prospettive di carriera, di supporto. Sovente, nei colloqui con il personale medico nelle visite di monitoraggio che Antigone svolge nelle carceri italiane ci si sente ribadire il senso di abbandono che si vive da parte delle Asl competenti. Un sistema così non regge. E a rimetterci non è solo il principio di legalità, ma la salute pubblica nel suo insieme. Perché il carcere - come ricordava Mattarella - è parte della Repubblica. E nessuna democrazia può dirsi tale se accetta che in un luogo dello Stato ci siano cittadini meno degni degli altri, con meno diritti e meno cure. *Responsabile comunicazione di Antigone “All’Aquila detenuto in un super 41 bis senza che ci sia giustificato motivo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 luglio 2025 È stato trasferito dal carcere di Novara in Abruzzo ma continua a essere recluso in “area riservata”. Esistono nelle nostre carceri dei luoghi che la legge non contempla, ma che la prassi amministrativa ha creato e continua a perpetuare. Si chiamano ‘ aree riservate’ e, al loro interno - come si apprende da una denuncia appena inviata al Garante nazionale per le persone private della libertà personale - si consumano quotidianamente violazioni sistematiche dei diritti umani più elementari. Parliamo di un super 41 bis, una restrizione che, negli anni passati, Il Dubbio ha già messo in evidenza. La storia che emerge dalla lettera dell’avvocato Giuseppe Annunziata è quella di Oscar Pecorelli, 46 anni, nato a Napoli, la cui vicenda giudiziaria si è trasformata in un incubo kafkiano fatto di celle di 5,50 metri quadri, bagni a vista senza porte, cortili per l’aria aperta privi di servizi igienici e una solitudine forzata che rasenta l’isolamento totale. La storia inizia il 10 aprile 2025, quando Pecorelli viene sottoposto al regime del 41 bis. Dopo un primo periodo a Novara, dove era stato sistemato nel reparto “ordinario” (o meglio, il “classico” 41 bis), il 23 giugno scorso accade qualcosa di strano: viene improvvisamente spostato nell’area riservata. Nessun provvedimento dell’autorità giudiziaria, nessun decreto amministrativo. Solo una decisione presa dalla direzione del carcere. Ma il motivo di questo trasferimento è forse ancora più inquietante della mancanza di un atto formale. Pecorelli non viene spostato per la sua ‘ spiccata capacità criminale’ - il presupposto teorico per finire in area riservata - ma semplicemente perché serve a ‘ fare gruppo’ con un altro detenuto già in quella sezione. Nel gergo carcerario, spiega l’avvocato Giuseppe Annunziata con una crudezza che fa riflettere, questo fenomeno viene chiamato ‘dama di compagnia’. Una definizione che la dice lunga sulla strumentalizzazione della persona umana che si consuma tra quelle mura. Una cella più piccola di un garage Le condizioni in cui Pecorelli si trovava costretto a vivere a Novara sono descritte con precisione chirurgica nella denuncia. La cella dell’area riservata misura appena 5,50 metri quadri - circa la metà di una camera di detenzione normale. All’interno di questo fazzoletto di spazio convivono il tavolino con la sedia e un wc completamente a vista, senza pareti né porta a garantire un minimo di privacy. Ma è quando si esce dalla cella che la situazione diventa surreale. Il cortile per il passeggio è ‘ inagibile’: non ha bagni, non ha acqua corrente, è privo di tettoia e di panchine. Le sue dimensioni? Appena un terzo del passeggio riservato agli altri detenuti del 41 bis. Un paradosso nel paradosso: persino chi sconta il regime carcerario più duro previsto dall’ordinamento italiano gode di condizioni migliori rispetto a chi finisce in area riservata. La situazione di Pecorelli si complica ulteriormente per un dettaglio tragicomico: il detenuto con cui dovrebbe ‘ fare gruppo’ - l’unica ragione per cui è stato rinchiuso in quell’area - non ha firmato il foglio di compatibilità. Inoltre, a causa di problemi di salute, è costretto su una sedia a rotelle e non può partecipare alle attività di socializzazione. Il risultato è un isolamento totale de facto, senza alcuna giustificazione giuridica e senza limiti temporali. Pecorelli è stato, nelle parole del suo legale, ‘ murato vivo’. La denuncia ricorda che una situazione analoga si era già verificata per un altro detenuto, Alessio Attanasio. In quel caso era dovuto intervenire il Magistrato di Sorveglianza dell’Aquila, che aveva dichiarato ‘non idonei’ sia la saletta per la socialità che lo spazio destinato al passeggio, ordinando modifiche alle condizioni di detenzione. Un precedente che dimostra come il caso Pecorelli non sia isolato, ma parte di un sistema che sembra aver istituzionalizzato l’arbitrio. Dopo l’intervento dell’avvocato Sara Peresson del foro di Udine, che aveva cercato di far luce sulla situazione con una Pec alla direzione di Novara, qualcosa si muove. La risposta della direzione, secondo la denuncia, ‘dava contezza della criticità della situazione’ e dell’interessamento degli ‘uffici superiori’. Pochi giorni dopo, Pecorelli viene trasferito nel carcere dell’Aquila. Un cambiamento solo geografico: il giorno successivo arriva anche l’altro detenuto, e la situazione rimane identica. Le aree riservate ospitano decine di detenuti in tutta Italia e non hanno alcuna base normativa. Il Garante nazionale per le persone private della libertà ne ha chiesto più volte l’abolizione, mentre il Comitato per la prevenzione della tortura ha denunciato il ‘ quasi isolamento’ che caratterizza questo regime speciale. Le condizioni prevedono un accesso limitato all’aria aperta, una socializzazione minima e la possibilità di accedere solo a spazi angusti. In alcune carceri questa situazione si traduce in un isolamento totale. L’avvocato Annunziata non usa mezzi termini nella sua analisi giuridica. La situazione di Pecorelli configura una ‘grave violazione dell’articolo 27, terzo comma, della Costituzione’, quello che stabilisce che ‘le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’. Ma la violazione non è solo costituzionale. Nella denuncia si parla esplicitamente di ‘ipotesi di trattamento contrario al senso di umanità e del reato di tortura’, con la minaccia di presentare denuncia all’autorità giudiziaria se la situazione dovesse persistere. Il caso Pecorelli solleva interrogativi che vanno ben oltre la sua vicenda personale. Come è possibile che, nel 2025, in un Paese civile, esistano ancora zone franche dove i diritti fondamentali vengono calpestati quotidianamente? Non c’è una legge che le preveda, non ci sono regolamenti che ne disciplinino il funzionamento. Sono creature della prassi amministrativa, zone grigie dell’ordinamento penitenziario dove vigono regole non scritte. Più volte il Garante nazionale precedente, sotto la presidenza di Mauro Palma, ha messo all’indice tale punizione che risulta essere, di fatto, un super 41 bis. Dello stesso avviso è il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, che ha denunciato il ‘ quasi isolamento’ caratteristico di questo regime speciale. Non basta il 41 bis, che ha già misure fin troppo afflittive e che spesso esulano dallo scopo originario? Come si può accettare che decine di persone vivano in condizioni che lo stesso sistema giudiziario definisce ‘ inumane e degradanti’? La denuncia dell’avvocato Annunziata è un grido d’allarme per tutto il sistema. Perché se è vero che la misura della civiltà di un Paese si vede da come tratta i suoi detenuti, allora le aree riservate rappresentano un’ulteriore macchia indelebile. Giustizia e sicurezza secondo Meloni di Cinzia Sciuto micromega.net, 25 luglio 2025 Il governo Meloni ha annunciato con grande enfasi l’approvazione in Senato della riforma della giustizia. Anzi meglio: la riforma della magistratura (mancano ancora due passaggi parlamentari per l’approvazione definitiva), presentandola come una svolta storica. Nelle parole della presidente del Consiglio, si tratta di un “passo avanti fondamentale” per “garantire il giusto processo, disarticolare il sistema correntizio all’interno del Csm, restituire ai magistrati l’autorevolezza e la dignità che meritano”. Ma al di là della retorica, questa riforma - come tutte quelle adottate finora dal governo in materia di giustizia - non incide in alcun modo sui problemi reali del sistema giudiziario italiano. Il nodo principale, infatti, quello che incide sulla vita quotidiana dei cittadini, è la durata dei processi. Il sistema giustizia italiano è afflitto da una lentezza cronica, che in molti casi si traduce in una vera e propria negazione della giustizia. Eppure, nessuno dei provvedimenti promosso dal governo Meloni ha affrontato questo nodo. Di certo non lo fa la separazione delle carriere. E ancora meno lo fanno gli interventi in tema di giustizia e sicurezza approvati negli scorsi mesi. Anzi l’introduzione di nuovi reati e l’inasprimento delle pene previsti dal decreto sicurezza non faranno che aumentare il lavoro per i tribunali, finendo per ingolfarli ancora di più. Per non parlare poi - ce ne siamo ampiamente occupati - dei profili di incostituzionalità e di violazione dei princìpi dello Stato di diritto che alcune di queste norme comportano. Basti pensare a quelle che puniscono con pene severissime le proteste non violente se avvengono all’interno di un carcere o di un Cpr. Una visione del diritto penale che contraddice apertamente i princìpi di eguaglianza e proporzionalità. E quando si interviene a depenalizzare qualcosa, cosa si decide di depenalizzare anzi, di abolire? Il reato di abuso d’ufficio, che peraltro non riempiva le carceri ma aveva un’importante funzione come reato “sentinella” per le indagini contro la corruzione nella pubblica amministrazione. In questo contesto, il governo presenta con orgoglio il cosiddetto “piano carceri”: un progetto da 750 milioni di euro per la creazione di circa 10.000 nuovi posti detentivi, più altri 5.000 in fase di studio. “In passato si adeguavano i reati al numero dei posti disponibili nelle carceri - ha dichiarato Meloni - noi riteniamo viceversa che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena”. Una dichiarazione che chiarisce la filosofia penale di questo governo: aumentare i reati, aumentare le pene, aumentare le carceri. Peccato che sia la stessa presidente del Consiglio a smentire questa impostazione. Subito dopo, infatti, annuncia un provvedimento - finalmente sensato - che introduce la possibilità per i tossicodipendenti di scontare la pena in comunità terapeutiche anziché in carcere. Un cambio di passo che va esattamente nella direzione opposta a quella appena proclamata. È la prova che, di fronte ai casi concreti, anche il governo è costretto a riconoscere che l’approccio ideologico basato su carcere e repressione non funziona. In ogni caso una goccia di buon senso in un mare di provvedimenti che invece contribuiscono ad aumentare ancora i carichi di lavoro dei tribunali, impedendo un esercizio tempestivo ed efficace della funzione giudiziaria senza che si metta mano agli organici e investendo invece tempo, energie e denaro per separare carriere (che sono in verità già separate) e per creare due organi di autogoverno dei magistrati anziché uno. Insomma: si aumenta il carico sui tribunali senza fornire strumenti per gestirlo, si indeboliscono gli strumenti di contrasto alla corruzione, si rafforza la repressione del dissenso, e si pretende pure di passare come riformatori. Perché la giustizia dev’essere riformata di Serena Sileoni La Stampa, 25 luglio 2025 I pubblici ministeri sono sentinelle alle porte della giustizia. Dalle loro ronde, dipende la capacità di tenuta del diritto penale, e ancor più i destini delle persone, degli indagati, dei colpevoli, degli assolti, delle parti offese, le cui vite - comunque vada - saranno per sempre quanto meno influenzate dall’apertura di quelle porte. Il loro ruolo è teso tra la necessità che agiscano in piena indipendenza e la pari necessità che lo facciano responsabilmente. La sottrazione a ogni tipo di pressione politica e la garanzia che la giustizia tratti tutti allo stesso modo sono la base generale delle soluzioni a quella tensione adottate nei paesi democratici, che mescolano in vario grado elementi tipici di modelli ora accusatori ora inquisitori, ora obbligatori ora discrezionali nell’esercizio dell’azione penale, ora più amministrativi ora più giurisdizionali. Guardandosi intorno, pur nella varietà delle discipline, i poteri e l’organizzazione dei PM italiani sembrano non avere uguali. In nessun altro paese essi godono - di diritto e di fatto - di uno status pari al nostro, in termini di assoluta indipendenza e limitata responsabilità. La stessa obbligatorietà dell’azione penale a cui solo sono sottoposti non è un limite, ma una copertura alla discrezionalità. Già questo primo dato comparato dovrebbe metterci in guardia dalla retorica per cui qualsiasi tentativo di riforma dell’ordinamento giudiziario costituisca una minaccia intrinseca alla nostra democrazia. Se si volesse ad esempio applicare con pari rigore italiano il criterio di indipendenza, dovremmo dubitare che in Francia, in Germania, negli Stati Uniti essa sia adeguatamente garantita. Nei primi due Stati, i procuratori fanno parte del potere esecutivo. Negli USA, la loro modalità di nomina e persino di elezione li espone a una responsabilità diffusa, ma anche a possibili pressioni politiche. Eppure, proprio in Francia e negli States essere sottoposti al potere esecutivo o al giudizio politico non ha determinato di per sé una politicizzazione dell’ufficio del pubblico ministero che ne compromettesse l’indipendenza dal potere politico. Lo dimostra l’indagine McKinsey durante il mandato presidenziale di Macron e le diverse indagini a carico di Donald Trump. Questi esempi aiutano a comprendere che le modalità con cui è organizzata la carriera del pubblico ministero sono variabili importanti del funzionamento della giustizia penale, ma chiaramente non le uniche, innestandosi in un delicato meccanismo in cui sono molte a determinare il risultato di una buona giustizia. Tre, su tutte: un sistema politico in cui al rispetto per il ruolo della magistratura corrisponde un accorto uso dell’obbligatorietà dell’azione penale e degli strumenti processuali, a partire dalle misure cautelari; un sistema mediatico che, nel raccontare le vicende giudiziarie, voglia distinguere gli indizi dalle prove, i fatti rilevanti dai pettegolezzi, le indagini dal processo; una legislazione penale che si attenga ai principi di un diritto penale liberale, a partire dalla tassatività, dalla colpevolezza e dalla continenza nella invenzione di nuovi reati, pene e sanzioni. Per questo, ad esempio, meriterebbe una seria riflessione la proposta da poco formulata dalle pagine del Sole 24 Ore del vice presidente emerito della Corte costituzionale Nicolò Zanon e del professor Vittorio Manes: introdurre in Costituzione la previsione di maggioranze qualificate per l’adozione di ogni nuova legge penale. Sarebbe una riforma molto lontana dagli orientamenti di questo governo, che - mentre portava avanti la separazione delle carriere - si impegnava in quell’esercizio di panpenalismo che è il decreto sicurezza. La riforma della magistratura è stato un passo opportuno. Ma non può certo dirsi l’unico e ultimo da compiere. Laici e togati in guerra al Csm. E Nordio finisce sotto accusa di Simona Musco Il Dubbio, 25 luglio 2025 La pratica su Piccirillo spacca Palazzo Bachelet: i consiglieri di destra tornano in aula per “dovere istituzionale”, ma accusano i togati di voler attaccare il governo. Alla fine sembra non sia servita nemmeno la moral suasion del Quirinale. È stato il richiamo al senso delle istituzioni a convincere i consiglieri laici di centrodestra a tornare in aula, dopo che per due volte, mercoledì, hanno fatto mancare il numero legale pur di non votare la pratica a tutela del magistrato Raffaele Piccirillo, finito nel mirino del ministro Carlo Nordio dopo un’intervista in cui commentava la gestione del caso Almasri. Così, nella seduta straordinaria di ieri, hanno annunciato di non voler partecipare alla discussione, garantendo la propria presenza per il voto, concluso con l’approvazione della delibera a maggioranza, con un solo astenuto e cinque voti contrari. La seduta si è trasformata in un duro scontro politico. Da un lato i laici di centrodestra, decisi a difendere Nordio e sostenuti dalle forze di maggioranza fuori da Palazzo Bachelet; dall’altro i togati, che pur senza sposare pienamente le affermazioni di Piccirillo hanno stigmatizzato l’attacco del ministro non solo al singolo magistrato ma all’intera sezione disciplinare del Consiglio, definita dal Guardasigilli “stanza di compensazione” tra correnti associative, dove si esercita una “giustizia domestica”. Secondo i laici di centrodestra, tutto ruota attorno al voto del Senato sulla separazione delle carriere. Per questo la pratica è arrivata in plenum in appena 72 ore, una velocità che i consiglieri considerano insolita e finalizzata ad esacerbare lo scontro con il governo. Ma per i togati si tratta di un argomento più serio: un attacco alla separazione dei poteri. “Un magistrato è stato deriso per le opinioni espresse - ha esordito il relatore Tullio Morello (Area) -. Eppure, i magistrati non sono privi della libertà di espressione: questa è una garanzia che appartiene anche a loro. Le affermazioni pronunciate dal ministro sono idonee a condizionare il sereno esercizio della giurisdizione”. Morello ha sottolineato che “la Prima commissione, sulle pratiche a tutela, non è tenuta a seguire nessun ordine cronologico: ciò è risaputo da tutti e vi sono ampi precedenti”. Per Marco Bisogni (Unicost), a rendere urgente la pratica a tutela sarebbe stato soprattutto il riferimento alla sezione disciplinare del Consiglio, definita “inaffidabile”: una “falsità inaccettabile per questo Consiglio”, ma un ottimo “argomento a sostegno della riforma”, che introduce l’Alta Corte. “Cosa dobbiamo aspettarci ancora da qui al Referendum?”, si è chiesto il togato di Mi Edoardo Cilenti. Duro anche l’indipendente Andrea Mirenda: “Piccirillo forse si è lasciato andare un po’ troppo - ha evidenziato -, ma viviamo in una Repubblica che si fonda anche sulla divisione dei poteri e ciò garantisce lo Stato di diritto. I magistrati non sono esenti da critiche. Ma quando invece si scade nell’attacco personale, dubitando della salute mentale e attaccando uno snodo fondamentale come il disciplinare, non si insulta solo l’individuo, ma si delegittima l’intero potere giudiziario. E se le parole arrivano dal ministro, il danno non è solo simbolico, ma istituzionale”. Per Mimma Miele di Md, si tratta di “un attacco gravissimo, che non ha precedenti”, che colpisce ancora di più “perché proveniente da una persona che fino a pochi anni fa portava la toga”. Un ministro che, da magistrato, ha poi ricordato il laico in quota dem Roberto Romboli, definì “una forma grossolana e maldestra di intimidazione” il tentativo dell’Anm di “processarlo” per aver criticato i colleghi. Il laico ha definito “argomenti non provati” quelli usati dal ministro. “La finalità evidente è delegittimare la magistratura in attesa del referendum”, ha aggiunto. Ma è stato il laico di Iv Ernesto Carbone a offrire un quadro sistemico della tensione, ricordando “una lunga serie di esternazioni governative contro i magistrati”: dai presunti complotti fino all’uso di parole come “ayatollah” per definire le toghe. “Non mi ha mai spaventato il confronto - ha detto - mi spaventa quando uno dei tre poteri dello Stato delegittima l’altro”. Ha deciso invece di astenersi Bernadette Nicotra. Non tanto per il merito, quanto per la velocità dell’iter della delibera. “La Prima Commissione ha esaminato 24 pratiche a tutela, una sola è stata approvata - ha evidenziato -. Perché si sceglie di tutelare un magistrato piuttosto che un altro?”. La togata di Mi ha espresso, dunque, “perplessità rispetto alle pratiche a tutela, che spesso assumono una valenza politica e mediatica”. Ed è per questo, ha annunciato, che non ne firmerà più alcuna. “Tuttavia - ha concluso - ribadisco il mio pieno sostegno all’assoluta imparzialità della Sezione disciplinare. Qualunque accusa va restituita al mittente”. Un intervento pesante è arrivato anche dalla prima presidente della Cassazione, Margherita Cassano, a pochi giorni dall’addio alla toga: “Sono amareggiata per l’ennesimo attacco ingiustificato alla magistratura, a un livello ancora più alto rispetto ai precedenti”. Le dichiarazioni del ministro sarebbero “altamente lesive della onorabilità e della credibilità” della funzione disciplinare, che è “presidio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura”. Cassano ha ricordato inoltre che Nordio stesso, in quanto titolare dell’azione disciplinare, concorre a quella funzione. Per smentire l’idea di una “giustizia domestica”, la presidente ha snocciolato i numeri: dall’inizio della consiliatura 65 condanne (sette di rimozione, ndr), 35 decisioni di non punibilità per particolare tenuità del fatto, 19 magistrati usciti dall’ordine giudiziario per evitare la sentenza e 44 assoluzioni. “Questi dati dimostrano rigore e trasparenza. Se il ministro avesse ritenuto sbagliate alcune assoluzioni, poteva impugnarle: cosa che non ha fatto”, ha sottolineato. La delibera, infine, è passata, ma l’esultanza dei togati non è piaciuta ai laici di centrodestra: “Il senso delle istituzioni ci ha imposto questa scelta per non bloccare i lavori del Csm in un momento delicato per la giustizia. Nessuna vittoria dei togati, solo l’ennesima occasione per polemizzare contro il governo”. In serata è arrivata la replica di Nordio, che ha abbassato i toni. “So bene che, con il vicepresidente Fabio Pinelli e la Presidente Margherita Cassano, il Csm e la sezione disciplinare hanno intrapreso un percorso diverso. Ma rimane il problema di fondo di un organismo eletto dai magistrati che un domani possono essere sottoposti al suo giudizio. E i precedenti non sono affatto confortanti”, ha dichiarato. Così si è chiusa l’ultima seduta prima della pausa estiva. Con il sorriso amaro del vicepresidente Fabio Pinelli, che salvato il Consiglio dallo scioglimento, si è lasciato andare ad un sospiro: “Adesso ho bisogno di vacanza”. Sisto: “All’inizio nessuno ci credeva. Dobbiamo fare in fretta e andare al referendum” di Michele Carniani Il Riformista, 25 luglio 2025 Esecutivo e magistratura. Un rapporto già incrinato, trasformatosi in uno scontro senza esclusione di colpi, in cui dalle parole si è passati ai fatti. Da una parte le indagini, avviate quasi consecutivamente, sul sindaco di Milano, Beppe Sala, per il complesso caso urbanistica e sul candidato del Pd per le regionali nelle Marche, Matteo Ricci, chiamato in causa per l’inchiesta “Affidopoli”. Dall’altra, la vittoria riportata dal governo in Senato sull’approvazione del testo in merito alla riforma della separazione delle carriere. Un grande passo in avanti per l’esecutivo e uno smacco alla magistratura che, però, promette ancora battaglia. Un vero e proprio valzer della giustizia quello che ha accompagnato l’Ora del Riformista di ieri, moderata da Aldo Torchiaro e commentata da Tiziana Maiolo, già deputata e presidente della Commissione Giustizia, Simonetta Matone, già magistrata e deputata della Lega in Commissione Giustizia, Ettore Rosato, vicesegretario di Azione, Giovanni Sallusti, giornalista e direttore di Radio Libertà, e Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia. In Senato, il governo ha ottenuto un successo tanto grande quanto inatteso, come ha descritto Sisto: “Era una riforma in cui nessuno credeva all’inizio. È diventata improvvisamente la riforma della legislatura. Si tratta di un testo che le Camere non hanno inteso modificare, anzi è stato avallato dalla maggioranza di governo e anche da una parte dell’opposizione”. Ed è proprio nei confronti degli oppositori che la maggioranza, secondo Sisto, deve giocare d’anticipo: “Dobbiamo sbrigarci per le ultime due fasi, per poi dare la parola al popolo con il referendum. Sono dell’avviso che dobbiamo chiederlo noi, senza aspettare che sia l’opposizione a invocarlo”. Sulla frattura tra esecutivo e magistratura ha proseguito Matone: “Non si tratta di una vendetta del potere politico nei confronti del potere giudiziario, ma di un atto di sanità pubblica. La cosa che i magistrati ritengono più pericolosa è il sorteggio, in quanto distrugge le correnti politiche interne, ma si tratta di uno strumento di democrazia, già presente in tantissimi Paesi civili”. E se la riforma, da una parte, ha aggravato i rapporti tra i due poteri, dall’altra ha unito partiti di diverse vedute, come confermato da Rosato: “È un elemento corretto nei fatti, che aiuterà l’indipendenza e il percorso professionale dei magistrati. Questa riforma corrisponde a quello che avevamo scritto nel programma elettorale e quindi restiamo coerenti con il nostro percorso”. Tira tutt’altra aria sul banco degli indagati, a partire da Milano, un caso che Sallusti ha ben presente: “Quest’episodio segna un ritorno eterno dell’uguale in tema di politica e giustizia. Sembra che per molti versi ci sia un caso analogo a quello del 1992. A Milano la Procura ha messo nel mirino un modello di sviluppo e questo è indifendibile”. Ma, almeno per il momento, il terremoto politico sembra essersi assestato: “Sala e il suo “azionista di maggioranza”, il Pd, hanno concordato che Tancredi era l’agnello sacrificale e l’assessore ha annunciato le dimissioni”. Ex assessore durante le amministrazioni di Albertini e Moratti, Maiolo ha approfondito la vicenda: “Il comune governato dalla sinistra ha sempre avuto una copertura politica da parte della Procura della Repubblica. Qualcosa si è rotto quando è finita la sequela dei procuratori di magistratura democratica. La dirigenza è cambiata ed è venuta meno quella copertura”. Mentre sul caso Ricci si sofferma ancora Rosato: “Da questo punto di vista abbiamo veramente la necessità di avere una riforma della magistratura di cui il primo passo è la separazione delle carriere. Oggi qualsiasi cosa faccia un magistrato a un politico, assume la lettura di uno scontro tra fazioni. Ognuno deve tornare a fare il suo lavoro”. “Così l’Anm si mobilita contro la riforma Nordio”. Parla il segretario Maruotti di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 25 luglio 2025 “Anche il ministro era contrario era contrario alla separazione delle carriere. Contro i magistrati spirito vendicativo. Un altro sciopero in vista del referendum? Non penso sia necessario, ma la fantasia non ci manca. Adotteremo altre forme di protesta”, dice Maruotti. L’Anm scalda i motori. “L’approvazione della riforma del Csm, perché di questo si tratta, anche in Senato era scontata. Ma il metodo utilizzato farà ricordare questa revisione della Costituzione come la più divisiva della storia repubblicana”. Parte da qui Rocco Maruotti, il segretario nazionale dell’Associazione nazionale magistrati. Annuncia mobilitazioni e iniziative per contrastare il disegno dell’esecutivo sulla giustizia. Perché, dice Maruotti, “ciò che più preoccupa è il fatto che il governo stia andando avanti nonostante lo stesso ministro Nordio abbia ripetuto più volte che si tratta di una riforma con diverse criticità e alla quale lui stesso è stato contrario per buona parte della carriera, come dimostra la sua firma sotto l’appello dell’Anm del 1994 contro la separazione delle carriere”. Il Guardasigilli poi ha spiegato di aver cambiato idea poco dopo, “in seguito al suicidio di un indagato in una mia inchiesta”. Ma ad alimentare le perplessità dell’Anm c’è anche l’atteggiamento dei partiti. “Il fatto che, subito dopo il voto in Senato, i parlamentari di FI abbiano dedicato questo risultato a Berlusconi e quelli di FdI abbiano esposto uno striscione con su scritto ‘giustizia è fatta’ la dice lunga sullo spirito puramente vendicativo che anima la riforma”. Adesso il referendum appare ormai inevitabile. Mentre l’Anm ha già costituito un comitato che si occuperà proprio di contrastare il disegno del governo. Segretario, come vi state preparando alla battaglia? “Parlare di battaglia è improprio. In ogni caso il suo esito non dipenderà dall’Anm, ma dalla volontà dei cittadini, i quali, tra il rischio di una torsione autoritaria a cui si potrebbe andare incontro, e la tutela dell’attuale assetto costituzionale, che ha consentito, anche grazie alla magistratura, di preservare l’Italia da mafia e terrorismo, sapranno sicuramente da che parte stare”. È quello che si augurano anche le opposizioni. Nella vostra mobilitazione vi aspettate l’appoggio di Pd, M5s e Avs? “I magistrati vivranno la campagna referendaria come un momento di confronto con i cittadini su un tema cruciale, che riguarda l’assetto dei poteri e quindi che tipo di democrazia vogliamo nel nostro paese”, risponde Maruotti. “Quella dei partiti sarà sicuramente una campagna diversa dalla nostra, perché diverso è il ruolo che svolgono nella società. Ed è giusto che questa differenza permanga e resti evidente”. Un passaggio importante verso il referendum sarà rappresentato dall’assemblea nazionale dell’Anm, prevista in autunno. In quella sede i magistrati affineranno la strategia. “Come lo scorso anno, l’assemblea sarà necessariamente incentrata sulla riforma del Csm e sarà, molto probabilmente, aperta al contributo di osservatori esterni”. Maruotti si riferisce a “costituzionalisti, personalità del mondo della cultura, del giornalismo e della società civile. Anche perché siamo convinti che se la difesa della Costituzione rimane affidata solo ai magistrati finisce per apparire una difesa corporativa”. Anche un nuovo sciopero è nell’ordine delle cose? “Abbiamo già dimostrato, con lo sciopero del 27 febbraio, con l’80 per cento di adesioni, che la magistratura è compatta nel ritenere la riforma dannosa. Personalmente - aggiunge - non credo sia necessario ripetere quella forma di protesta. Ne faremo altre, la fantasia non ci manca”. Il voto in Senato intanto è arrivato mentre i pm vengono accusati di essere “politicizzati”, dopo le indagini di Milano, di Pesaro e non solo. Sospetti bipartisan ultimamente. Mentre talvolta gli indagati, il sindaco Beppe Sala per esempio, scoprono le inchieste dai giornali. “Le accuse di politicizzazione sono le più gravi perché minano l’essenza stessa della giurisdizione, i cui tratti necessari sono imparzialità e indipendenza. In ogni caso le recenti vicende giudiziarie dimostrano semmai che la magistratura non pende da nessuna parte, ma - conclude Maruotti - esercita il suo ruolo senza guardare in faccia a nessuno ed è proprio questo che dà fastidio a certa politica”. Csm, la resa dei laici di destra: approvata la tutela a Piccirillo di Mario Di Vito Il Manifesto, 25 luglio 2025 Finisce la protesta dei laici governativi, che non partecipano al dibattito ma poi votano (garantendo il numero legale). La notte ha portato consiglio ai laici di destra che siedono al Csm: dopo aver clamorosamente fermato i lavori per tutta la giornata di mercoledì, ieri mattina, alla riconvocazione del plenum, finalmente la situazione si è sbloccata e la pratica a tutela del giudice Raffaele Piccirillo - attaccato in pubblico da Nordio per una sua intervista a Repubblica sul caso Elmasry - è passata con il voto favorevole di tutti i togati (tranne Bernadette Nicotra di Magistratura indipendente, che si è astenuta) e dei laici dell’opposizione. L’unica forma residua di protesta portata avanti dai ribelli Aimi, Bertolini, Bianchini, Eccher e Giuffrè è consistita nel boicottaggio del dibattito. Un modo per salvare la faccia dopo che, con ogni probabilità, qualcuno ha spiegato loro la delicatezza estrema della situazione e li ha convinti alla resa. Sabotare i lavori del Csm di fatto è un affronto al suo presidente, cioè a Sergio Mattarella, cosa che nessuno dalle parti del governo vuole fare in questo momento. Allo stesso tempo, la protesta dei laici è servita a far vedere cosa potrebbe succedere a palazzo Bachelet se la riforma della giustizia dovesse prima o poi entrare in vigore. L’intenzione è esplicita, infatti il comunicato diffuso per spiegare le ragioni della protesta si conclude con una frase che sa di manifesto programmatico: “Con la riforma della giustizia in dirittura d’arrivo gli italiani fra qualche mese non assisteranno più a pericolose invasioni di campo che non giovano alle nostre istituzioni”. In plenum, il dibattito è stato intenso, per il resto. L’indipendente Andrea Mirenda ha criticato la decisione di Piccirillo di farsi intervistare su una vicenda ancora in corso come quella del disastro ministeriale sulla liberazione del boia libico Osama Elmasry, ma poi ha anche attaccato Nordio, le cui continue uscite denigratorie contro la magistratura “contribuiscono a costruire o distruggere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni”. La consigliera di Magistratura democratica Mimma Miele, dal canto suo ha teso una mano verso i laici della destra, la cui decisione di partecipare al voto “va apprezzata perché dimostra il senso istituzionale di cui ieri (mercoledì, ndr) poteva dubitarsi”. Poi, sul merito del caso Piccirillo: “Il problema risiede nell’attacco diretto al cuore dell’articolazione giurisdizionale del Consiglio. Un attacco dalla violenza verbale e contenutistica inaudita e inaccettabile, che colpisce ancora di più perché proviene da chi fino a qualche anno fa indossava la toga”. Era forse lecito aspettarsi qualcosa di più dalle motivazioni di una pratica a tutela il cui dispositivo suona così: “Il Consiglio superiore della magistratura rileva la gravità delle affermazioni rese dal ministro della Giustizia, per il loro potenziale impatto sulla fiducia dei cittadini nella funzione giudiziaria; ritiene che esse siano idonee a condizionare il sereno e indipendente esercizio della giurisdizione e afferma, pertanto, la necessità, nell’ambito dei propri compiti costituzionali, di tutelare il prestigio dell’ordine giudiziario, rinnovando il richiamo al rispetto dei principi di autonomia, indipendenza e leale collaborazione tra i poteri dello Stato”. Toscana. L’alternativa negata di Rems o strutture specializzate: 524 casi di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 25 luglio 2025 Don Russo: l’unico intervento è la sedazione. Dovrebbero uscire dal carcere e invece ci restano. Sono 524 i detenuti in Toscana che presentano patologie psichiatriche, metà dei quali italiani. Dovrebbero essere curati in strutture alternative ai penitenziari, soprattutto laddove questi ultimi non permettono percorsi clinici adeguati, ma restano in cella. E in molti casi le loro condizioni di salute peggiorano giorno dopo giorno. Secondo la relazione annuale del garante regionale dei detenuti, il carcere toscano con il più alto numero di reclusi psichiatrici è Sollicciano, dove ammontano a 138, più o meno un quinto del totale. Dopo Sollicciano, il carcere con più malati psichiatrici è Le Sughere di Livorno con 77 detenuti, quindi San Gimignano con 67, Massa con 47, il Don Bosco di Pisa con 46. In percentuale al totale dei reclusi, il carcere con il più alto tasso di malati psichiatrici è l’istituto minorile femminile di Pontremoli, dove su 17 detenute 8 presentano sintomatologie associate alla salute mentale. Una questione particolarmente critica soprattutto all’indomani della chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari (in Toscana c’era quello di Montelupo fiorentino). Queste persone, laddove incapaci di intendere e di volere, dovrebbero essere ospitati nelle Rems (in Toscana ci sono Volterra ed Empoli) ma i posti sono pochissimi (30 posti a Volterra, 20 a Empoli). Nella maggior parte dei casi dovrebbero essere ospitati in strutture psichiatriche. La Corte costituzionale in una sentenza del 2019 ha rilevato che l’impossibilità di fruire della detenzione domiciliare per i detenuti con gravi infermità psichiche sopravvenute, in assenza di alternative al carcere, viola il diritto alla salute e può configurare un trattamento inumano e degradante. Ecco perché, la stessa Corte ha individuato nella detenzione domiciliare in deroga lo strumento più idoneo a contemperare le esigenze di cura del detenuto con quelle di sicurezza della collettività. “Serve un sistema esterno al carcere molto diverso - ha detto il garante regionale dei detenuti Giuseppe Fanfani - un sistema che permetta di prendere in carico i detenuti psichiatrici che dovrebbero andare in strutture sanitarie ad hoc”, che in molti casi non sono piene. Un tema che conosce bene anche don Vincenzo Russo, responsabile carcere per la diocesi, oltre che presidente della Madonnina del Grappa che gestisce Villa Guicciardini, dove accoglie pazienti psichiatrici autori di reato. “Non dovrebbero entrare in carcere i soggetti vulnerabili sotto il profilo della salute mentale. All’interno non vi è presa in carico né cura. L’unico intervento è la sedazione farmacologica. Le Rems non sono sufficienti. Parimenti non sembra funzionare il circuito delle strutture intermedie, che dovrebbero essere un ponte verso il rientro sul territorio da parte dei pazienti psichiatrici autori di reato e che, pure, finiscono per non essere utilizzate secondo le potenzialità presenti. Per assurdo, vi sono posti disponibili ma non inserimenti anche nella nostra struttura Villa Guicciardini, e ancora oggi ci chiediamo perché”. Piemonte. “Si può vivere in 3 metri quadri?”. Antigone: “Cresce il consumo di sedativi” di Teresa Cioffi Corriere di Torino, 25 luglio 2025 Nove metri quadrati. È questa la dimensione di una cella in cui, mediamente, convivono due detenuti. Per venti ore al giorno. “Al netto degli arredi, la superficie calpestabile si riduce a tre metri quadri a persona. Questi tre metri quadri rappresenterebbero il parametro minimo per gli standard europei. Peccato che in nessun istituto piemontese venga rispettato”. A parlare è Daniela Ronco, membro del comitato scientifico e dell’osservatorio di Antigone, associazione che ieri ha presentato il XXI rapporto sulle carceri piemontesi. Nel 2024 i detenuti obbligati a condividere quella manciata di metri quadri sono aumentati, con un sovraffollamento che è passato dal 106,2% al 113,3%. Il carcere resta la misura cautelare più utilizzata (28,9%) e, negli istituti minorili, il decreto Caivano ha spinto gli accessi. In Piemonte, inoltre, quasi il 10% delle persone in cella è in attesa del primo grado di giudizio. Intanto gli spazi restano gli stessi e l’accesso ai servizi sanitari diventa più difficile: “In carcere la richiesta di cura è alta. Ci si ammala di più, molti affrontano una tossicodipendenza e ci sono persone migranti che arrivano da condizioni di salute compromesse. In Piemonte gli stranieri nelle carceri sono il 40%, di più rispetto alla media nazionale (31,6%). Si tratta di un dato tipico delle regioni del Nord. Il disagio psichico - Tornando alla questione sanitaria, esiste anche un disagio psichico al quale non si riesce a rispondere in maniera adeguata. I comportamenti autolesivi raggiungono il 10%”. Nell’ultimo anno, al 23,3% dei detenuti sono stati somministrati antipsicotici o antidepressivi. Ancora più alta è la percentuale di chi fa uso di sedativi o ipnotici (48,46%). La salute mentale viene quindi affrontata con il ricorso massiccio alla terapia farmacologica, mentre la presenza di professionisti capaci di garantire percorsi di cura duraturi resta carente. In media, il servizio in carcere di uno psichiatra corrisponde a 3,7 ore ogni 100 detenuti, per gli psicologi è di 3,53 ore. Pensare a percorsi rieducativi è difficile con un educatore ogni 57 detenuti. Manca il personale - E poi mancano gli agenti della Penitenziaria, con un buco del 23%. “Il rapporto detenuti/agenti è del 2,03 - spiega Perla Arianna Allegri, che per Antigone si occupa nello specifico del Lorusso e Cotugno. Spesso il personale di polizia non è sui piani ma in ufficio o al lavoro per gli spostamenti. A Torino succede di vedere un agente su due sezioni, e parliamo di centinaia di detenuti”. Tra gli istituti più grandi del Piemonte, al Lorusso e Cotugno sono presenti 1.450 persone su appena mille posti disponibili. “Circa il 70% arriva per direttissime - aggiunge Allegri - e il turnover è alto, con circa 4 mila ingressi all’anno”. In termini di sovraffollamento peggiorano anche le condizioni nelle carceri minorili. “Al Ferrante Aporti le presenze sono raddoppiate, passando da un massimo di 25 alle 45 attuali. Recentemente il direttore si è mosso personalmente per l’acquisto di letti in più. Non c’era più posto per far dormire i ragazzi”. E cresce il consumo di benzodiazepine e antipsicotici tra i minori. Proprio a Torino il consumo, rispetto al 2022, è aumentato del 64%. Piemonte. Cara Garante Formaiano, detenuti e agenti non sono sullo stesso piano di Davide Ferrario Corriere di Torino, 25 luglio 2025 Una premessa, per sgombrare il campo da pregiudizi ideologici. Per la mia esperienza decennale di volontario in carcere, ho sempre detto e scritto (anche qui) che se i detenuti sono i prigionieri, gli agenti di custodia di quel sistema sono gli ostaggi. Ne ho conosciuti tanti e ci ho anche costruito delle relazioni personali. Quindi, nessuna prevenzione contro persone che sono lavoratori sfruttati in modo bestiale indipendentemente da chi sta al Governo. Ciò detto, suona però strano che la nuova Garante dei diritti dei detenuti, Monica Formaiano, (scelta non senza polemiche dalla giunta regionale) così si esprima nella sua prima dichiarazione: “Sarei fiera se con il mio lavoro riuscissi a dare pari dignità a chi è detenuto e a chi lavora in carcere”. Belle parole e nobili sentimenti: ma del tutto impropri per uno che è stato messo lì come “un’autorità di garanzia indipendente a cui la Legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà” (così sta scritto sul sito del Ministero della Giustizia). Che c’entra la Polizia penitenziaria? Il Garante ha come primo dovere quello di intervenire per difendere i diritti dei detenuti, laddove questi siano impediti dalla gestione dell’amministrazione penitenziaria, i cui primi esecutori sono appunto gli agenti di custodia. È come se un sindacalista partisse con l’idea di preoccuparsi del benessere dei datori di lavoro. Forse bisogna spiegare alla dottoressa Formaiano che il suo è - purtroppo - il ruolo di una che deve rompere le scatole. E che gli agenti di custodia sono già rappresentati dai loro sindacati di categoria: Sappe, Uilpa Polizia Penitenziaria, Fns Cisl, Fp Cgil, Sinappe, Cosp, Osapp, Sipp e Fsp Polizia Penitenziaria. Non pochi, e forse è proprio questa una debolezza nelle rivendicazioni della categoria che, ripeto, sono quelle di lavoratori che hanno tutte le ragioni di protestare, ma le cui problematiche non passano certo attraverso le preoccupazioni del garante dei diritti dei detenuti: il quale è il rappresentante di una delle parti in causa, non un giudice conciliatore. Eppure Formaiano dovrebbe saperlo, essendo avvocato. Ciò detto, faccio alla nuova Garante i migliori auguri. Sono sicuro che le basterà un tour nelle carceri piemontesi per scendere dall’empireo delle buone intenzioni alla cruda percezione della realtà, quello che nelle sue parole definisce “guardarsi intorno a 360 gradi”. Firenze. Carcere di Sollicciano, disastro continuo: stanze allagate e visite con stivali di gomma di Valentina Marotta e Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 25 luglio 2025 Nel reparto dei detenuti affetti da disturbi psichiatrici la situazione è esplosiva: da una settimana chiusi in cella. Cinque centimetri d’acqua sul pavimento, piove da giorni dal tetto probabilmente per un tubo rotto. Da sabato è completamente allagato il reparto “Articolazione tutela salute mentale” (Atsm) del carcere di Sollicciano, e come se non bastasse, non funzionano le docce. Secchi nelle celle, nei corridoi e nelle stanze sanitarie in entrambi i piani del reparto, sia quello superiore dove ci sono le celle, sia quello inferiore dove si svolgono le attività riabilitative. Gli psichiatri sono costretti a portarsi da casa gli stivali di gomma per poter guadare quel lago di acqua putrida e arrivare a dare la terapia, attraverso la porta della cella, ai malati sempre più ingestibili visto che da quasi una settimana sono rinchiusi ventiquattr’ore su ventiquattro senza possibilità di uscire. È solo l’ultimo capitolo del disastro Sollicciano che detiene il triste primato di carcere toscano con il più alto numero di reclusi psichiatrici e che ogni giorno scopre una nuova emergenza. Mentre nei reparti ordinari si combatte, come sempre in questa stagione, contro il caldo infernale, si apre il nuovo fronte all’interno di un reparto particolarmente delicato e impegnativo già in situazione normale. I posti per i malati psichiatrici a Sollicciano sono nove, attualmente sono presenti cinque reclusi, tutti con problematiche di una certa gravità, tre sono stati già spostati in altre strutture nei giorni scorsi, gli altri sono in attesa di trovare una sistemazione adeguata. In mancanza di posti disponibili nei reparti della Asl l’amministrazione penitenziaria dovrà sfollare il reparto “accoglienza” disponendo il trasferimento in altre carceri di quelli che ci sono attualmente. L’emergenza ha superato il livello di guardia dal momento che alcuni detenuti, segregati nelle celle, le hanno completamente sfasciate e hanno divelto gli impianti sanitari. Da tempo chi lavora all’Atsm di Careggi ha sollevato il problema dell’inidoneità di quel reparto diviso tra due piani. Nei giorni scorsi infermieri della Asl ed educatori avevano interrotto l’attività per motivi di sicurezza, avendo riscontrato un’impennata di aggressività da parte dei pazienti costretti in spazi ristretti con temperature asfissianti. “Sollicciano è il peggior carcere d’Italia, ci vorrebbe un’unità di crisi come dopo le alluvioni e i terremoti”, è la provocazione di Giancarlo Parissi, garante dei detenuti del Comune di Firenze. Da giorni è in costante contatto con il servizio sanitario interno alla casa circondariale. “Il provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria lunedì, con una nota, aveva assicurato un intervento tempestivo per trasferire i degenti e riparare il guasto. Ma stamattina alle 10 - precisa - la situazione era identica a quella di ieri e a quella dell’altro ieri: solo uno dei sei è stato spostato, gli altri hanno ancora i piedi nell’acqua”. I reclusi nel reparto psichiatrico, si sa, non possono stare a contatto con i detenuti ordinari. “È una regola basilare: ma non si capisce dove sia l’intoppo per far fronte a questa situazione di conclamata illegalità. La struttura che non è in grado di garantire né l’incolumità nè la salute delle persone che detiene non adempie al proprio compito”. Fa ricorso a un paradosso: “Se un reparto di Careggi si allagasse, con uno schiocco di dita verrebbe immediatamente chiuso e i pazienti sarebbero spostati in un’altra sezione. A Sollicciano non accade. Tubi rotti, impianto elettrico malandato e cavi cadenti. Il carcere andrebbe rifatto, invece si procede a toppe e ogni tanto le toppe si rompono”. Firenze. “Quel carcere come una grotta che trasuda acqua dai muri” di Giorgio Bernardini Corriere Fiorentino, 25 luglio 2025 Enrico Helmut Vincenzini è un avvocato lucchese che per Antigone si occupa delle carceri toscane. “Sollicciano - dice - è oramai una struttura irrecuperabile: è come una grotta che trasuda acqua dalle pareti. Una volta sono entrato con il direttore e anche lui si è sentito male in una stanza”. “A Sollicciano non c’è più niente da fare, ma a soffrire sono anche le altre carceri, con Livorno e Prato vicine al limite”. In Toscana ci sono 15 istituti penitenziari e poco più di 3.500 detenuti. L’avvocato lucchese Enrico Helmut Vincenzini, 31 anni, si occupa di osservare quotidianamente queste realtà per conto di Antigone. “Lo faccio dai tempi dell’università come attivista e volontario” spiega Vincenzini, che ha anche presieduto in passato “L’altro diritto” a Pisa e ha lavorato a lungo sullo stesso tema in Lombardia. Gli istituti toscani stanno più o meno male di quelli del resto del Paese? “Sono purtroppo nella media delle criticità. Quelle più evidenti sono sovraffollamento, presenza crescente di persone con disturbi psichiatrici e tossicodipendenti, assenza di strutture ricreative. In questa regione c’è anche una forte presenza di volontariato e terzo settore, a cui è affidata in appalto gratuito la parte rieducativa”. Partiamo dal sovraffollamento. Dove e come si verifica? “Lucca è una delle carceri con più sovraffollamento in Italia, siamo intorno al 200%. Stesso problema anche nell’Istituto per minori di Firenze, dove a seguito del decreto Caivano registriamo lo stesso fenomeno: brandine per terra, episodi di tensione. Il problema ancor più evidente è però quello delle strutture: le carceri di Firenze, Prato e Livorno presentano gravissime lacune. Sollicciano va oltre il livello di preoccupazione”. In che senso? “È una specie di grotta: le pareti trasudano acqua. Sono entrato in una cella in sesta sezione dove il muro del bagno era nero e schiumava sostanze bianche. Quando abbiamo visto quella cella, il direttore, che era con me, si sentì male. Il problema è proprio come è stato costruito: ogni cella ha una copertura ad angolo all’esterno, un raccoglitore di acqua piovana e umidità. Le condizioni sono irrecuperabili”. Direbbe che è da chiudere? “Lo abbiamo chiesto. Preferiremmo naturalmente che venissero messi a norma gli istituti, ma per Sollicciano non è più possibile: vedere le persone in quelle condizioni fa venire il vomito. Nonostante il mio limite di tolleranza sia alto lì faccio fatica”. L’ha stupita la realtà emersa dalle inchieste sul carcere di Prato? “No. Nella scheda di Antigone del 2024 c’era già un’avvisaglia. Lì si entra e si respira subito tensione. È difficile da spiegare, ma quel tipo di emergenza è evidente. Mi stupisce invece quel che sta accadendo a Lucca, perché nonostante il sovraffollamento quell’istituto ha un’idea attiva di rieducazione. Quando però gli ingressi sono continui, evidentemente, diventa tutto ingestibile”. La procura di Prato si è mossa. Crede che le altre procure guardino con meno interesse agli stessi fenomeni nei territori di competenza? “Diciamo che a Prato la commistione criminale pare essere su larga scala, con coinvolgimenti trasversali. Però è innegabile che il carcere rimanga il luogo più rimosso dalla nostra società. E di conseguenza dalle procure. Penso per esempio ai tanti fatti di violenza interna che non emergono”. In Toscana ci sono sempre più rivolte nelle carceri... “Lo dicono i numeri. I mesi estivi sono sempre più duri, la scorsa estate è successo a luglio a Sollicciano. Si andrà sempre più in questa direzione, perché siamo di fronte a una crisi umanitaria. Lo dico facendo un’osservazione giuridica: sono lesi ogni giorno la dignità e i diritti dei detenuti. È chiaro che si alza la tensione: per mettere a fuoco una sezione o ferire un agente non basta una mente criminale, bisogna trovare terreno fertile”. Qual è la situazione dei poliziotti penitenziari in questa regione? “La Toscana vive una carenza di organico perenne: nessuno dei 15 istituti è a pieno regime”. Cosa pensa delle attività del governo sulle carceri? “È auspicabile portare fuori tossicodipendenti e detenuti che hanno problemi psichiatrici. In questo senso ogni misura va vista con favore. Ma nessuno ha ancora potuto leggere il decreto in questione e l’esperienza dello scorso anno con il decreto carceri non ha portato sostanzialmente a nulla”. Cagliari. “Situazione ingestibile, no a nuovi detenuti e moduli container” di Paolo Ardovino La Nuova Sardegna, 25 luglio 2025 In arrivo nel carcere, già strapieno, 92 detenuti sottoposti al 41-bis. Todde e i parlamentari sardi attaccano il ministro della Giustizia. Scoperta la circolare con cui il ministero della Giustizia ha informato le alte cariche dell’isola sull’arrivo di ben 92 detenuti sottoposti al regime del 41-bis nel carcere di Uta, la politica sarda fa muro. Per i parlamentari di centrosinistra è una decisione “gravissima” e “inaccettabile”: lo dicono Marco Meloni e Silvio Lai del Pd. Loro e la deputata Avs Francesca Ghirra hanno già presentato interrogazioni urgenti sulla scrivania del ministro Nordio, il gruppo regionale M5s dice che lo farà a breve. La comunicazione del governo allarma tutti, per prima la presidente della Regione Todde, intervenuta per chiedere un confronto, finora evitato, tra le parti. La casa circondariale Ettore Scalas si trova in un’area isolata nella zona industriale di Macchiareddu, dista 11 minuti di auto dal municipio di Uta. Assemini e Capoterra sono a due passi, dista 19 minuti piazza Yenne, per dire, fulcro di Cagliari. Il capoluogo di regione. Secondo il report dell’associazione Antigone, la presenza di detenuti al giugno 2025 supera di molto la capienza (689 su 561 posti). La voce “Numero persone in regime ex 41 bis” è a zero. A breve sarà novantadue. “Il 18 giugno ho scritto al ministro Nordio per esprimere preoccupazioni chiare e legittime - le parole sono di Todde -. Nessuna risposta”. In quell’occasione due direttori generali del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia fecero visita al carcere di Uta. Uno di loro, Ernesto Napolillo, responsabile della Direzione generale detenuti e trattamento, ha scritto alle autorità sarde per comunicare la decisione del trasferimento. La garante regionale dei detenuti, Irene Testa, fa i conti: “Durante la visita di due giorni fa al carcere di Uta erano presenti 140 agenti di polizia penitenziaria per tutto l’istituto, stremati dai turni e costretti a lavorare al caldo nelle sezioni. Tolto questo periodo di ferie estive prestano servizio 314 agenti effettivi a fronte di 394 previsti per legge. Non ci sono celle a disposizione per ospitare situazioni critiche. Non c’è chi dovrebbe fornire i farmaci ai detenuti. Mancano medici e personale di ogni tipo”. Dai banchi della Camera volano critiche indirizzate al ministro Carlo Nordio. “Preoccupa il suo silenzio al riguardo, gli chiediamo di risponderci in parlamento, ricordandogli intanto che la polizia penitenziaria nell’isola è già sotto organico. Venerdì scorso ho dovuto aspettare a lungo per accedere nel penitenziario di Uta perché ben 56 agenti erano occupati in ospedale a piantonare 7 detenuti”, fa sapere Francesca Ghirra, deputata di Alleanza Verdi e Sinistra. Il deputato dem Silvio Lai è netto: “Il governo Meloni decide in solitaria. È una decisione gravissima che rischia di trasformare Uta in un hub nazionale del carcere duro. La Sardegna arriverebbe a concentrare quasi un quarto dei detenuti più pericolosi in Italia”. Il senatore Marco Meloni rincara: “Nessun territorio può essere trattato come un semplice esecutore passivo di decisioni calate dall’alto”. La Sardegna, spiega, “è stata definita dalla magistratura territorio a rischio di radicamento mafioso” e questo maxi trasferimento “significa creare le condizioni per un’escalation criminale”. Chiedono “trasparenza, garanzie sulla sicurezza del personale e delle comunità locali, e il rispetto dovuto a una regione che ha già dato molto, anche sul piano carcerario” i parlamentari sardi M5s Ettore Licheri, Sabrina Licheri, Susanna Cherchi e Mario Perantoni. L’ex presidente del consiglio regionale Michele Pais (Lega) rispolvera una lettera che a gennaio 2023 inviò a Nordio dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, “con un certo rammarico” all’ipotesi che potesse essere dirottato nell’isola visto un “numero ormai eccessivo di carcerati sottoposti al medesimo regime nelle strutture presenti nel territorio sardo”. Quello è stato solo uno spauracchio. Oggi i 92 detenuti al 41-bis in arrivo si aggiungono ai 6 presenti a Badu’e Carros a Nuoro e ai 91 a Bancali. Avellino. Il Garante dei detenuti: a un mese dall’appello di Mattarella, diritti ancora negati corriereirpinia.it, 25 luglio 2025 Un invito a senatori, deputati ed europarlamentari a entrare nell’Istituto Penitenziario “Antimo Graziano” di Bellizzi Irpino. A lanciarlo il Garante dei detenuti per la provincia di Avellino Carlo Mele. Una visita, in programma il 30 luglio, preceduta, alle 12, da una conferenza stampa che si terrà presso la sede del Garante, presso l’ex Caserma Litto. Mele ricorda come il Presidente della Repubblica abbia espresso il 30 giugno scorso un richiamo forte al Governo e alla Politica, sottolineando che le carceri non possono calpestare i diritti dei detenuti e “non devono essere una fabbrica di criminalità”. Nella convinzione che un criminale recuperato nella società è una garanzia di sicurezza per tutti e, soprattutto, un obiettivo costituzionale. “Il sovraffollamento e i suicidi - ha ribadito Mattarella -sono un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Infine, per il Presidente “le carceri sono sovraffollate anche per l’insufficiente ricorso all’applicazione di pene alternative e dell’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva”, per la presenza nelle carceri di giovani tossicodipendenti e di malati psichici, per i quali è necessario un percorso trattamentale di natura sanitaria; di persone Senza Fissa Dimora, molti di questi immigrati, che restano tra le mura perché non hanno un domicilio; di persone arrestate per reati commessi 15/20 anni prima (i tempi della giustizia); di tanti abbandonati in carcere perché non possono permettersi una “Difesa qualificata”, o perché il personale dedicato: Magistrati, Educatori, Assistenti sociali non riescono ad aggiornare le loro posizioni perché “insufficienti”. Ciò concerne anche gli istituti minorili su cui si registrano dati allarmanti e numeri che, dai 385 detenuti indicizzati nel maggio 2023, si raddoppiano sino a 586 a giugno 2025 dopo il c.d. Decreto Caivano. La Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha indetto il 30 luglio, a un mese esatto da questo appello o, per meglio dire, da questo rimprovero alla politica, una manifestazione per sensibilizzare l’opinione pubblica e per sollecitare la politica nel suo complesso, esortando il Governo a mettere in campo soluzioni immediate e concrete alle parole dure, inequivocabili del Presidente della Repubblica. Si ribadisce la necessità di un provvedimento urgente finalizzato alla riduzione del sovraffollamento in nome della dignità, come ad esempio è stato fatto dal Governo Berlusconi nel 2003 e nel 2010. “Nel frattempo - scrive Mele - non possiamo più assistere ignavi alle morti quotidiane di uomini e diritti. Bisogna che la politica intervenga non subito, ma ORA! Lo chiedono tutte le coscienze oneste. La proposta Giachetti inerente alla liberazione anticipata sociale appare, per molti versi, in linea con le attuali emergenze seppur di contenuto deflattivo. Tuttavia, una riduzione semestrale di 75 giorni, in luogo dei 60 contemplati nella proposta, da concedere con tempistiche prioritarie, già sortirebbe l’effetto di ridurre sensibilmente le criticità in argomento. Tutto ciò, naturalmente, è possibile solo se la politica trova la responsabilità e il coraggio necessari per ottenere un consenso generalizzato, trasversale, per conseguire il quorum necessario all’emanazione del provvedimento”. Asti. Modello Seconda Chance: due detenuti - e presto un terzo - al lavoro da McDonald’s di Betty Martinelli lavocediasti.it, 25 luglio 2025 L’associazione no-profit ottiene risultati concreti anche nella Casa di reclusione di massima sicurezza. Il Garante Massano: “Si abbatte il tasso di recidiva”. Nel carcere di massima sicurezza di Asti (ma soprattutto fuori) si sta scrivendo una storia di riscatto e reinserimento sociale che ha tutti i connotati del successo. L’associazione Seconda Chance, fondata nel 2022 dalla giornalista del TgLa7 Flavia Filippi, ha raggiunto un traguardo significativo proprio nell’istituto penitenziario astigiano: due detenuti hanno trovato un’opportunità di lavoro presso McDonald’s, mentre un terzo è in attesa di una risposta per un’offerta simile, un progetto realizzato in sinergia con l’area educativa, la direzione del carcere di Asti e la titolare dei due McDonald di Asti. I due hanno iniziato a lavorare da due giorni con contratto di 3 mesi, part time (stesse condizioni degli altri colleghi), con turni fissi e approvati dall’amministrazione penitenziaria. Si tratta di detenuti in art.21 (accesso al lavoro esterno, con previsione di rientro in carcere a fine turno) e, al momento, sono addetti a tutte le attività interne al fast food e potranno essere spostati in base alle esigenze interne del locale e alle loro capacità e quindi potranno svolgere funzioni diverse. Come spiega Martina Piazza, referente per il Piemonte e la Val d’Aosta insieme al collega Matteo Zordan, l’iniziativa astigiana è nata “su suggerimento del Garante detenuti Asti, Domenico Massano”, evidenziando come la collaborazione tra istituzioni e terzo settore sia fondamentale per ottenere risultati concreti. Martina sottolinea che “Seconda Chance si pone come intermediario tra imprese e carceri per aiutare il reinserimento sociale dei detenuti a fine pena e che possono accedere a misure alternative, art.21 o ex detenuti gestiti dall’UEPE di competenza”. Il successo dell’iniziativa ad Asti trova una cornice teorica e pratica nelle parole del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Asti, Domenico Massano, che evidenzia l’importanza costituzionale del progetto: “Il tempo ‘sottratto’ come sottolineato dall’ex Garante nazionale, Mauro Palma, ‘deve avere sempre significato’ coerentemente con il dettato costituzionale. Nel caso della detenzione in carcere, tra i principali fattori che possono concorrere al raggiungimento di questo traguardo vi sono le opportunità lavorative, come specificato e declinato concretamente, nelle norme sull’Ordinamento Penitenziario (l. 354/1975), che individuano nel lavoro uno degli elementi più importanti del trattamento”. Il Garante Massano prosegue sottolineando come “le opportunità lavorative hanno anche un ruolo centrale nell’abbattere il tasso di recidiva. Per queste ragioni come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Asti, credo che opportunità come quelle create attraverso la collaborazione della casa di Reclusione di Asti con l’associazione ‘Seconda chance’, sono particolarmente importanti e dimostrano l’importanza del coinvolgimento e della partecipazione di tutta la comunità (istituzioni, società civile, volontariato, cooperazione sociale, imprese), per garantire che il periodo di detenzione possa essere un percorso di recupero, rieducazione e reinserimento sociale, come previsto dall’art. 27 della Costituzione”. L’intervento ad Asti si inserisce in un quadro più ampio di successi dell’associazione. Come riferisce Martina Piazza, “dal 2022 ad oggi, ha portato oltre 600 offerte di lavoro in carcere, su tutto il territorio nazionale”. L’associazione è presente in tutte le regioni italiane e ha firmato protocolli d’intesa strategici con il DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Fipe Confcommercio, ANCE Toscana, la Biennale di Venezia e altri importanti partner del mondo imprenditoriale. Sono in fase di definizione accordi con Autostrade per l’Italia, ANCE Veneto e ANCE Friuli-Venezia Giulia. Il successo del modello si basa su diversi fattori chiave che rendono attrattiva l’assunzione di detenuti per le imprese. In primo luogo, la legge Smuraglia prevede significative agevolazioni fiscali: un credito d’imposta per l’assunzione di ogni lavoratore dipendente detenuto, anche ammesso al lavoro all’esterno o alla semilibertà, assunto per un periodo non inferiore a un mese. Il processo di selezione che ha portato ai successi di Asti segue criteri rigorosi e trasparenti. Come spiega Martina Piazza, “il processo di selezione avviene direttamente in carcere: è l’impresa - come in qualunque processo di assunzione di un dipendente - a scegliere il detenuto tra quelli proposti dall’area educativa”. I candidati vengono selezionati dall’area educativa sulla base di tre parametri fondamentali: “la pena residua, la buona condotta tenuta durante la detenzione e l’avvenuta revisione critica del reato commesso”. L’impegno di Seconda Chance non si limita al collocamento lavorativo. L’associazione promuove anche “corsi di formazione e sport” all’interno degli istituti penitenziari. Significativi sono gli esempi della Federtennis, che ha donato un campo a Rebibbia Nuovo Complesso, e della Federbasket, che ne ha realizzato uno a Secondigliano. L’associazione offre anche la possibilità di “fare impresa in carcere”, accompagnando gli imprenditori a visionare “capannoni/locali inutilizzati che le direzioni concedono in comodato d’uso gratuito”. Tra le attività commerciali che si possono avviare all’interno degli istituti, Martina elenca “lavanderie industriali, sartorie, officine, falegnamerie, call center, biscottifici”, sfruttando “una manodopera a costi scontati e regalando tante seconde chance ai detenuti non ammessi a lavorare fuori”. L’impegno sociale delle aziende che aderiscono al progetto genera anche benefici in termini di comunicazione. Come evidenzia Martina Piazza, l’iniziativa “garantisce un forte ritorno mediatico”: “in tre anni oltre 220 uscite tra carta, on line, radio e tv”. Il progetto è sostenuto anche da Confindustria, con articoli pubblicati sulla rivista dei Giovani Imprenditori e su quella di Confindustria Imprese. Il successo di Asti testimonia la necessità di questo tipo di interventi. Come sottolinea Martina Piazza, “sia la popolazione carceraria che i direttori delle carceri, gli educatori, gli agenti di Polizia Penitenziaria sommersi dalle emergenze, chiedono continuamente aiuto all’associazione”. L’iniziativa rappresenta un modello virtuoso di collaborazione tra istituzioni, terzo settore e imprese private, dimostrando che il reinserimento sociale dei detenuti è possibile quando esiste una rete solida di supporto e opportunità concrete. Per saperne di più e conoscere il lavoro dell’associazione, è possibile consultare il sito ufficiale, il profilo LinkedIn e la pagina Facebook, dove vengono costantemente aggiornate le storie di successo e le nuove opportunità in tutto il territorio nazionale. Roma. L’avvocatura a Rebibbia: in dono cento ventilatori e giocattoli per i bambini di Francesca Spasiano Il Dubbio, 25 luglio 2025 Il carcere non può negare una seconda chance. Al contrario: ad ogni persona ristretta bisogna garantire la possibilità di ricominciare, allontanando il rischio di riaprire i cancelli di ingresso a chi ci è già passato. È questo il messaggio che l’avvocatura ha voluto portare all’interno dell’istituto femminile di Rebibbia, dove ieri il presidente del Consiglio nazionale forense Francesco Greco si è recato insieme a una delegazione di consiglieri nazionali e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Stefano Carmine De Michele. La visita istituzionale nel penitenziario romano è stata l’occasione per ribadire l’impegno della professione forense nel campo dei diritti, attraverso un gesto concreto e utile, volto ad alleviare le condizioni di detenzione nella torrida estate italiana: una fornitura di cento ventilatori, di cui una prima parte è stata consegnata direttamente nelle mani delle detenute, insieme a una raccolta di giocattoli e vestiti nuovi per le madri ristrette insieme ai propri figli. Il carcere femminile romano, il più grande d’Europa, ne ospita cinque: bimbi di età compresa tra i sei mesi e i due anni, per un totale di 17 donne e 19 figli presenti nelle sei strutture attive su tutto il territorio nazionale. Numeri “piccoli”, che però denunciano un’ulteriore marginalizzazione e disattenzione verso la detenzione femminile, che rappresenta meno del 5 per cento della popolazione carceraria italiana: 2.747 donne, a fronte di 62.728 detenuti maschi, secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia aggiornati al 30 giugno 2025. “La nostra presenza - ha dichiarato Greco - vuole accendere un faro su una realtà troppo spesso dimenticata. Il sovraffollamento, l’inadeguatezza strutturale, la marginalità sociale delle persone recluse - in particolare delle donne e delle detenute madri - e l’assenza di percorsi efficaci di reinserimento sono contraddizioni che l’avvocatura istituzionale ha il dovere di affrontare. Gli avvocati devono essere presidio attivo di legalità e dignità anche oltre le mura del carcere, per difendere i diritti fondamentali e ricostruire il senso autentico della giustizia”. “La vera svolta passa dalle misure alternative: affidamento in prova, detenzione domiciliare, percorsi di reinserimento. Restituire a queste persone una possibilità concreta di riscatto - ha sottolineato il presidente del Cnf - è il modo più autentico di dare attuazione al principio rieducativo della pena. L’80% dei detenuti proviene da contesti di disagio sociale estremo, ma il 98,9% di chi accede a misure alternative rispetta le regole. L’avvocatura c’è, ed è pronta a fare la sua parte”. Sull’importanza del lavoro per garantire il reinserimento sociale si è soffermato anche De Michele, che ha fatto il suo primo ingresso nell’istituto romano dopo la recente nomina a guida del Dap. “Oggi siamo qui - ha spiegato - grazie all’organo massimo dell’avvocatura e nell’ambito di una serie di attività che gli avvocati stanno portando avanti sia su base nazionale che attraverso gli Ordini locali. Un’iniziativa che è simbolica, ma anche molto concreta. Io ringrazio il Consiglio e il suo Presidente che hanno avuto questa squisita sensibilità”. “Cercheremo di sviluppare e ampliare ogni iniziativa che serva a portarvi da dentro a fuori, a fare in modo che il percorso che giustamente qui fate vi porti e pensare “mai più questo”“, è l’auspicio espresso da De Michele nel rivolgersi alla rappresentanza di donne detenute che hanno preso parte all’incontro nella sala teatro del carcere alla presenza del vice direttore Mario Silla e del vice comandante del reparto di Polizia penitenziaria Tommaso Marghella. Il quale ha ribadito ancora una volta il fine rieducativo della pena, senza trascurare tutte quelle criticità del sistema penitenziario che rischiano di infliggere una “pena doppia”, o tripla, a chi sta pagando il proprio debito con la giustizia. Soprattutto per il caldo estremo aggravato dal sovraffollamento, che si patisce anche in alcuni reparti femminili di Rebibbia. In tutto, l’istituto romano ospita circa 360 donne su 280 posti regolamentari, di cui 270 in esecuzione di pena. Dal punto di vista trattamentale - sottolinea la direzione - l’istituto romano è un modello “esemplare”: le donne posso cimentarsi quotidianamente nelle attività sportive disponibili, dal pilates alla pallavolo, e hanno anche una squadra di calcio a cinque. Oltre ai laboratori e alle possibilità di lavoro interno, una parte di detenute è impiegata presso cooperative esterne. E almeno dieci donne sono iscritte all’Università, con la prima ristretta che conseguito la laurea lo scorso dicembre. Dell’importanza di preparare al “reingresso” nella società chi sta scontando una pena ha parlato anche Francesca Palma, consigliera Cnf e coordinatrice della Commissione per le persone private della libertà personale. “Certo, l’avvocatura non vorrebbe mai vedere i bambini in carcere, a nessuna età: lo abbiamo sempre sostenuto e continueremo a farlo. Ma siamo qui per testimoniarvi che la difesa è importante in tutti i gradi del processo e in particolare nell’esecuzione penale”, ha sottolineato Palma. Richiamando anche il messaggio lanciato da Greco: la funzione dell’avvocato non si esaurisce alla lettura della sentenza, ma va ben oltre, come presidio attivo nella tutela dei diritti di chi è privato della libertà. La stessa visita nel carcere romano si inserisce in un percorso più ampio promosso dal Cnf con diverse iniziative e progetti. Da ultimo con la task force messa in piedi insieme agli Ordini locali con l’obiettivo di costruire una rete nazionale che possa affrontare in modo sistemico le criticità del carcere. Sempre in quest’ottica - ha ricordato Biancamaria D’Agostino, coordinatrice dell’Osservatorio nazionale permanente sull’esercizio della giurisdizione, che ha al suo interno un gruppo dedicato proprio al carcere - nel 2023 il Cnf aveva donato alla casa circondariale di Regina Coeli dieci pc messi a disposizione dei detenuti nella biblioteca del carcere. “Non ci si può soffermare soltanto sui problemi, pur noti - ha sottolineato la consigliera Cnf. Abbiamo anche il compito di conoscere e diffondere i modelli virtuosi, a partire dalle carceri che offrono reali e concrete opportunità di reinserimento: facciamo in modo che non siano l’eccezione, ma la regola”. Napoli. C’è un murale nel carcere di Secondigliano per ricordare chi è stato ucciso di Rosanna Borzillo Avvenire, 25 luglio 2025 L’opera, promossa dalla Fondazione Polis, rappresenta un campo di girasoli e verrà inaugurata sabato. Ecco come è stata realizzata e perché. Un’ampia distesa di girasoli accoglierà da sabato chi varcherà la soglia del carcere di Secondigliano a Napoli, cittadella penitenziaria di circa 384mila metri quadrati (che ospita circa 1.300 detenuti per lo più appartenenti ad organizzazioni criminali). Il murale dedicato a tutte le vittime innocenti della criminalità campane, realizzato dalla Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania e dal centro penitenziario, raffigura tanti girasoli, simbolo di tutte le vittime e di chi ne custodisce intimamente il ricordo, nel segno di un fiore che si rivolge sempre al sole. “I girasoli - spiega don Tonino Palmese, presidente della Fondazione Pol.i.s - per rimanere al mondo hanno bisogno del sole e ci ricordano la positività, la rinascita, insegnandoci anche il limite e che ogni nostro percorso “non è invano”“. Proprio come recita il progetto, frutto di un concorso internazionale di idee indetto dalla Fondazione diversi anni fa. L’ampia distesa di girasoli, simbolo di tutte le vittime e di chi ne custodisce intimamente il ricordo, sono accompagnati anche dai versi della poesia “Non invano i venti hanno soffiato”, di Sergej Aleksandrovic Esenin, le cui parole hanno ispirato il progetto. Un esempio perenne di accoglienza tra vittime e colpevoli che guarda alla città di Napoli, da un lato, e che, dall’altro, sarà invece visibile dalle celle della popolazione carceraria. Negli ultimi anni la Fondazione Pol.i.s. ha cercato di lavorare nel solco della giustizia riconciliativa. “Nel nostro impegno - spiega Palmese - spesso vittima e colpevole si rendono conto di stare dalla stessa parte: questa forma di riconciliazione - che è supportata dalla memoria dell’accadimento - è già una forma emancipata di riconciliazione e ci spinge quindi a dire che “non invano c’è stata la tempesta”. È questa infatti la frase che accompagnerà chi la tempesta l’ha attraversata e forse la sta ancora attraversando; una tempesta che ha investito loro stessi, le loro famiglie, e chi quella tempesta l’ha subita. Il murale è stato realizzato dagli artisti del collettivo Orticanoodles con il coordinamento di Inward, Osservatorio Nazionale sulla creatività Urbana per veicolare un messaggio chiaro e forte: anche il più profondo dei dolori può trasformarsi in impegno civile e può incidere nel cambiamento. Durante la realizzazione gli stessi detenuti sembravano entusiasti dell’opera. “Dalle nostre celle si vede il murale in progress, è molto bello”, ha detto Giovanni, detenuto del reparto Mediterraneo. “State facendo proprio una bella cosa”, ha detto poi Enzo dello stesso reparto. Sorrisi e sguardi ammirati che da domani coloreranno le giornate di chi è recluso. “Un messaggio forte, quello che parte dal nostro murale in ricordo delle vittime innocenti della criminalità - spiegano gli artisti. Poche parole dipinte su di un muro che cercano di scavare nell’animo, di dare delle risposte, di indicare una strada. Se la indicassero anche solo ad una persona, già avremmo vinto. Queste parole, il nostro murale, sono semi che noi piantiamo nella speranza che possano germogliare, ma anche che non facciano dimenticare le donne e gli uomini innocenti caduti sotto il fuoco della criminalità”. #Noninvano è il titolo del progetto di sensibilizzazione sul tema delle vittime innocenti della criminalità, nato nel 2015, e promosso dalla Fondazione Polis della Regione Campania. Le idee antidoto al cinismo del potere di Gabriele Segre La Stampa, 25 luglio 2025 Anche l’idea più nobile non vale nulla quando si rivela irrealizzabile. È una constatazione amara, soprattutto in un’epoca segnata da crisi incessanti e prive di sbocchi, dove perfino le soluzioni più sensate, giuste e lungimiranti appaiono svuotate, condannate a restare lettera morta. Che si tratti di sogni rivoluzionari o di progetti di riforma concreti, di utopie generate dalle nostre convinzioni morali o di soluzioni tecniche raffinate, il risultato non cambia: la nostra volontà appare sempre più irrilevante. E insieme al senso di impotenza cresce l’impressione che il problema non stia tanto nelle idee, quanto in chi dovrebbe tradurle in azione. Le forze politiche si mostrano disarmate, esautorate dal processo decisionale, mentre la democrazia finisce per delegare le proprie scelte più ai consigli di amministrazione che ai parlamenti. Viviamo in un mondo in cui il potere non si raccoglie più attorno alle insegne dei partiti, ma si concentra sotto i loghi delle grandi multinazionali. Che il termine “oligarchi” sia ormai entrato nell’uso comune rivela quanto una ristretta élite condizioni - e in molti casi domini - i nodi strategici del nostro futuro: dall’intelligenza artificiale all’energia, dall’agroalimentare alla farmaceutica, fino all’industria militare. Non è certo una novità. Fin dalle origini della democrazia, chi controllava il grano per il popolo, le armi per l’esercito o l’informazione per i media deteneva le chiavi della vita pubblica. Per questo, limitare la concentrazione del potere è sempre stato un pilastro dell’impianto democratico: un obiettivo tanto essenziale quanto la partecipazione dei cittadini o la tutela delle minoranze. Lo stesso principio ha cercato, almeno in teoria, di estendersi anche oltre i confini nazionali. L’architettura multilaterale e le istituzioni internazionali nate dopo la Seconda guerra mondiale avevano tra le loro aspirazioni fondanti anche quella di contenere gli squilibri tra le potenze, costruendo un ordine fondato su regole condivise e su meccanismi di garanzia comuni e reciproci. La democrazia non è mai stata impeccabile. Più volte ha fallito nel tentativo di contrastare la tendenza del potere a travolgere ogni equilibrio. Eppure, per lungo tempo, abbiamo conservato la fiducia che, pur con tutti i suoi limiti, quel sistema potesse migliorarsi nel tempo, sostenendo chi si batteva per correggerne le storture. Ma oggi si è rotto qualcosa: non tanto i meccanismi, quanto la convinzione che possano ancora funzionare. È il patto stesso su cui si fonda a sembrare spezzato. Se oggi le sue imperfezioni ci appaiono intollerabili, non è solo perché la concentrazione di poteri e privilegi cresce in modo esponenziale, ma soprattutto perché nessuno sembra più avvertire il dovere - o avere la forza - di contrastarla. È una frattura profonda, che investe tanto il contratto sociale all’interno delle società quanto l’ordine giuridico internazionale, dove nessuno sembra più disposto a porre limiti all’azione delle grandi (o piccole) potenze. Non odiamo Trump perché agisce in modo radicalmente diverso dai suoi predecessori, ma perché chi lo ha preceduto manteneva, almeno in apparenza, un rispetto formale per quel diritto, presentandolo come un orizzonte da preservare. Le contraddizioni dell’Occidente, i suoi doppi standard, non sono mai stati un segreto. Basti pensare a quante volte abbiamo distolto lo sguardo di fronte a massacri lontani, mentre dispiegavamo truppe in missioni “di pace” là dove erano in gioco i nostri interessi strategici. Ma anche quando apparivano ipocrite, quelle scelte riuscivano comunque a orientare equilibri e influenzare decisioni. Oggi, invece, non è rimasto nemmeno quel minimo margine d’incidenza sul mondo, né la pretesa di una giustizia da perseguire. Balbettiamo di fronte alla tragedia di Gaza, mentre restiamo in silenzio sui massacri siriani. Chiediamo ai paesi africani di fare come predichiamo, senza più neanche curarci di nascondere che siamo noi i primi a violare quelle stesse regole. Da tempo è svanita qualsiasi forma di autorità capace di correggere quei paradossi e ciò che resta oggi è la nuda consapevolezza della nostra impotenza. All’ipocrisia del passato si è aggiunto qualcosa di più amaro: la rinuncia a qualunque credibile esercizio di responsabilità. Se esiste ancora una classe politica che si riconosce nei valori della democrazia e del multilateralismo, la sua missione oggi è recuperare la fiducia di chi non vede più - né nelle proprie società né nell’ordine mondiale - alcuna volontà reale di migliorare il sistema. Non possiamo cedere al cinismo di chi accetta il mondo trumpiano come inevitabile, né rifugiarci in un idealismo sterile, sognando un’età dell’oro che non è mai davvero esistita. Piuttosto, dobbiamo trovare la forza per scardinare almeno alcune delle concentrazioni di potere esistenti, prima che l’intollerabile si trasformi in indifferenza e il cuore della democrazia smetta del tutto di battere. Dimostrare che è tuttora possibile potrebbe perfino convincerci che le nostre idee abbiano ancora un senso. C’è bisogno di imprese cooperative di Massimo Ferlini ilsussidiario.net, 25 luglio 2025 Una recente sentenza della Corte Costituzionale richiama al valore che hanno avuto e ancora oggi hanno le imprese cooperative per il nostro Paese. È in corso un notevole dibattito su come il lavoro viene oggi percepito soprattutto fra le nuove generazioni. Più volte anche su queste pagine abbiamo posto il tema che le priorità nella scelta dell’occupazione non corrispondono più a quelle delle generazioni precedenti. Sono prevalenti aspetti di conciliazione fra lavoro e vita famigliare e, prima degli aspetti salariali, vengono le valutazioni sulla condivisione della vision e dei valori di impresa e un rapporto trasparente sul percorso di crescita professionale. Di conseguenza le imprese devono adeguare le loro politiche sui rapporti col personale anche per la difficoltà a reclutare e stabilizzare figure professionali di qualità. L’unico tentativo di dare una risposta organica all’insieme delle tematiche legate alla domanda di avere un rapporto diverso fra dipendente e impresa è venuto dalla proposta di legge avanzata dalla Cisl e diventata recentemente legge votata da una maggioranza parlamentare più ampia di quella di governo. Si propongono così diverse soluzioni per rispondere a una domanda che appare sempre più evidente nel malessere che i giovani lavoratori dimostrano verso l’organizzazione del lavoro, che può esser definita una domanda di democraticità nella governance delle imprese. È questo un tema importante per la nostra legislazione. Ce lo ricorda la Corte Costituzionale con una sentenza del 21 luglio, relatore Luca Antonini, che riguarda le imprese cooperative. La sentenza ha per oggetto il ricorso del Consiglio di Stato con riferimento a un comma di legge che prevede che le cooperative che si sottraggono alla vigilanza degli enti cooperativi, così come le cooperative che non rispettano le finalità mutualistiche, vengono sciolte su decisione della Commissione centrale delle cooperative e il loro patrimonio devoluto ai fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Il ricorso, cui la Corte dà ragione, sostiene che vi è una sproporzione di sanzione fra quanto comminato a chi non rispetta le finalità mutualistiche e chi semplicemente si sottrae ai controlli. Quest’ultimo caso può essere dovuto a semplice distrazione dell’amministratore preposto e, in ogni caso, attraverso un commissariamento ad acta si può verificare se la sottrazione ai controlli comportava anche il mancato rispetto della mutualità. La sentenza affronta in modo esteso il tema, per approfondire gli aspetti fondamentali della presenza di mutualità nell’impresa cooperativa tutelando insieme a ciò il valore sociale di questa tipologia di impresa. La Costituzione all’articolo 45 stabilisce che “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. L’impresa cooperativa arricchisce così il panorama pluralistico del sistema economico disegnato dalla nostra Carta costituzionale. Era d’altro canto difficile non prendere in considerazione la presenza in Italia di un un forte e radicato movimento cooperativo che nemmeno il ventennio fascista era riuscito a cancellare. Fin dalla metà dell’Ottocento, partendo dalle cooperative di consumo nate per combattere il carovita, si sono sviluppate imprese cooperative per cercare di rispondere ai bisogni primari, come consumi e lavoro, in forma mutualistica. Il movimento cooperativo ha affrontato poi il tema del sostegno finanziario con le banche popolari e le banche cooperative, le assicurazioni e poi il sostegno allo sviluppo agricolo con i consorzi agrari e le cooperative agricole. A diffondere e radicare nei territori gli elementi della cooperazione ha contribuito la comune spinta che ha visto impegnati nella costruzione di cooperative sia i movimenti cattolici che quelli con radici socialiste e quelli laici repubblicani. Ognuno con una propria centrale di coordinamento ma con un’identica spinta a creare opportunità di crescita per l’impresa cooperativa in tutti i settori economici in risposta ai bisogni di base. La Costituzione fotografa pertanto una realtà esistente e la indica come meritevole di promozione. Come spiega la sentenza dell’alta Corte, va sottolineato come l’utilità sociale sia posta, nel caso dell’impresa privata, come il limite con cui misurare il contributo al bene comune. Nel caso dell’impresa cooperativa è riconosciuta la funzione sociale positiva che esercita nel perseguire le finalità mutualistiche che la contraddistinguono. Basterebbe pensare al contributo che il movimento cooperativo ha dato nel costruire case accessibili ai ceti popolari durante la fase della ricostruzione post-bellica, sia nell’originale forma della proprietà indivisa, sia nella forma delle cooperative edificatrici. L’importanza del contributo sociale che viene dall’impresa cooperativa è non solo nei servizi forniti alla società, ma riguarda anche, se non soprattutto, le caratteristiche proprie con cui il lavoro è organizzato. La finalità di difendere i produttori quanto i consumatori da forme speculative permette di inserire nelle scelte organizzative obiettivi di crescita materiale e percorsi di crescita morale. Si saldano assieme mutualità e democrazia economica. La governance delle imprese vede nel socio, che sia lavoratore o consumatore, una costante partecipazione finalizzata a mantenere coerenza con gli obiettivi perseguiti, sia per l’economicità dell’impresa che per il contributo al bene comune. La sentenza si sofferma in un richiamo forte ai legislatori. Questa particolare forma di impresa che vede nella Costituzione un’esplicita promozione sta attraversando periodi di scarsa crescita. La Carta fondamentale anche nei suoi ultimi adattamenti ha promosso i principi di solidarietà, sussidiarietà orizzontale e democraticità che devono caratterizzare il mondo economico e i corpi intermedi, e la governance delle imprese cooperative si rifà proprio a tali principi. Le nuove forme di impresa introdotte nel codice civile come il caso delle srl benefit possono corrispondere solo parzialmente al valore sociale che è invece insito nell’impresa mutualistica. Da qui l’esigenza di tornare a riflettere su quali strumenti di natura fiscale o di altro tipo sia utile introdurre per dare attuazione a quanto previsto dagli articoli della nostra Costituzione. Si tratta di interventi marginali per la nostra realtà economica? L’insieme delle imprese cooperative dà lavoro a un milione e centomila persone in modo diretto e ad altre cinquecentomila in modo indiretto. Vi sono settori dell’assistenza alle persone che non funzionerebbero senza l’attività della cooperazione sociale. E anche in settori dei servizi apparentemente più tradizionali è la forma cooperativa che assicura maggiore trasparenza e rapporti fra impresa e lavoratori e anche fra imprese improntati a un’umanità che non emerge nei tradizionali rapporti piegati al massimo sfruttamento delle risorse. Una sentenza importante, quindi, e un colpo di cannone per richiamare l’attenzione per la tutela e la promozione di un’antica forma di impresa che risponde alle nuove sfide del lavoro. Deportare venti migranti in Albania è costato 114mila euro al giorno di Giansandro Merli Il Manifesto, 25 luglio 2025 Oltre a violare i diritti fondamentali, il centro di Gjader è una macchina magia soldi. Ma per il Viminale resta “un modello”. Intanto il massimario della Cassazione avverte: dopo la sentenza della Consulta le norme sui Cpr sono in vigore. Cento quattordicimila euro spesi ogni giorno per detenere venti persone tra metà ottobre e fine dicembre 2024. È il bilancio economico della prima fase del progetto Albania, quella sui richiedenti asilo provenienti da “paesi sicuri”, tracciato ieri da ActionAid e università di Bari. Che scrivono: “L’operazione Albania è il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane”. A conti fatti per la detenzione di quei migranti l’ente gestore, Medihospes, ha ricevuto 570mila euro. Vitto e alloggio del personale di polizia sono costati 528mila euro. Cinque i giorni di attività delle strutture. Tutti i richiedenti asilo, infatti, sono rimasti dietro le sbarre albanesi per poche ore, liberati dai giudici che hanno ritenuto i trattenimenti in contrasto con le norme europee. Le sentenze e poi il rinvio alla Corte di giustizie Ue (la sentenza arriverà il primo agosto) hanno spinto il governo ad avviare la fase successiva: le deportazioni di “irregolari” dal territorio italiano. Nel frattempo a Gjader i posti solo saliti a 400. “L’allestimento di un posto effettivamente disponibile in Albania è costato oltre 153mila euro”, scrivono ActionAid e UniBari. Sette volte in più che in Italia. La detenzione extraterritoriale appare “del tutto irrazionale e illogica”, secondo l’esperto di migrazioni per ActionAid Fabrizio Coresi, anche perché a fine 2024 su 1.164 posti effettivamente disponibili nei Cpr italiani ben 263 erano vuoti. I numeri sulla spesa hanno fatto ripartire alla carica le opposizioni che nell’ultimo periodo si erano un po’ distratte dal progetto Albania, soprattutto quando i richiedenti asilo sono stati sostituiti dagli “irregolari” (fa eccezione la deputata dem Rachele Scarpa, che ha mantenuto un monitoraggio costante e ha all’attivo il record di ispezioni oltre Adriatico). “Giorgia Meloni chieda scusa agli italiani: i numeri relativi ai costi della sua illegale operazione Albania sono un insulto anche a quei milioni di persone che oggi si trovano in difficoltà”, attacca la segretaria del Partito democratico Elly Schlein, che critica anche la violazione dei diritti fondamentali nel centro di Gjader. Il leader 5S Giuseppe Conte dichiara: “Un governo che non ha trovato sei milioni per le mammografie ha messo sul conto degli italiani spese extra e da capogiro per lo spot di Meloni in Albania”. Critiche anche da Avs, con Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli che dicono: “Il progetto dei Cpr in Albania è un gigantesco fallimento sul piano politico, economico e dei diritti umani”. Per il segretario di +Europa Riccardo Magi: “I contribuenti si dovrebbero ribellare a un governo che brucia centinaia di milioni, invece di spendere soldi in sanità e scuola”. Secca la risposta de Viminale: un “investimento fondamentale” per un modello apprezzato da più parti in Europa, “una risposta concreta, strutturata ed efficace che consentirà una volta a regime di ridurre drasticamente i costi di accoglienza e velocizzare i rimpatri, allineandosi con le nuove normative europee che entreranno in vigore il prossimo anno”. Un altro elemento interessante del rapporto è quello che riguarda il numero dei rimpatri. Quelli realizzati lo scorso anno dai Cpr hanno toccato il minimo storico dal 2014. La media annuale tendeva ad assestarsi intorno al 50% delle persone complessivamente trattenute, ma nel 2024 è scesa al 41,8% (2.576 miranti sul totale di 6.164). Questo mentre uno dei provvedimenti bandiera del governo ha moltiplicato il periodo massimo di detenzione amministrativa: da tre a diciotto mesi. E nonostante lo scorso anno il costo del sistema detentivo sia andato “fuori controllo”: quasi 96 milioni di euro per le 11 strutture attive, più del totale speso nei sei anni precedenti quando non aveva raggiunto i 93 milioni. Altro fattore preoccupante è il cambio di funzione di questa particolare privazione della libertà personale, che avviene senza che la persona abbia commesso reati. Nei Cpr aumentano i richiedenti asilo: l’anno scorso sono stati il 45% di tutti i trattenuti. “L’utilizzo della detenzione come strumento della politica d’asilo segna un cambio di paradigma epocale, che pone gravi interrogativi circa gli obiettivi di uno strumento così impattante sui diritti fondamentali delle persone”, afferma il ricercatore di UniBari Giuseppe Campesi. Intanto il 15 luglio il massimario della Cassazione, l’ufficio vituperato dal governo per le relazioni critiche sul decreto sicurezza e la legge Albania, ha pubblicato un parere sulla recente sentenza della Consulta relativa ai Cpr. Quella che “accerta ma non dichiara” l’incostituzionalità dei centri. Facendo riferimento alle decisioni delle Corti d’appello di Cagliari, Roma e Genova che avevano richiamato per inciso la pronuncia, pur liberando tre richiedenti asilo per altre ragioni, l’ufficio tecnico degli ermellini afferma che le norme sulla detenzione amministrativa restano nell’ordinamento, anche se è stata riconosciuta la mancanza di una legge che regola i “modi” del trattenimento. Non possono dunque essere disapplicate. Anche perché la sentenza si rivolge al legislatore, non ai giudici. A questi resta la strada di sollevare nuove questioni di legittimità costituzionale, segnalando l’inerzia del parlamento. Medio Oriente, quel sogno (laico) sbiadito di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 luglio 2025 Se oggi Gaza è una piaga aperta nell’onore degli israeliani, con una carestia indotta che ogni giorno ferisce tutti noi, la Cisgiordania appare una malattia politica diventata cronica. Nel mondo di ieri non provavano ad arruolare il Padreterno. Sulla stessa poltrona di ministro delle Finanze ora occupata da un invasato religioso come Bezalel Smotrich, sedeva un socialista di buonsenso: Pinhas Sapir, guru dell’economia israeliana. Nel 1967, a guerra dei Sei Giorni appena vinta, Sapir avvertì Moshe Dayan: “Se continuiamo a tenere in pugno i Territori, prima o poi i Territori terranno in pugno noi”. Dayan, ministro della Difesa, non ne faceva una questione escatologica. Da vecchio generale, considerava, però, la Cisgiordania strappata ai giordani, Gaza presa all’Egitto e le altre fresche conquiste territoriali (Golan, Sinai, Gerusalemme est) una ragione di sicurezza oltre che un monito: i nemici dovevano percepire la nazione con la Stella di David come un “cane pazzo”, troppo pericoloso per essere importunato. Non ascoltò le sagge parole di Sapir. E da lì cominciò per Israele quella che potremmo chiamare la maledizione dei Territori. L’episodio, raccontato da Anna Momigliano nel suo Fondato sulla sabbia, si pone quale fulcro delle contraddizioni che hanno minato nell’ultimo mezzo secolo il sogno di una grande democrazia laica, l’unica in un quadrante geopolitico dominato da monarchie assolute, dittature e feroci teocrazie che da sempre fanno strame delle libertà civili e dei diritti umani. Se, dopo ventuno mesi di devastazioni a Gaza, Netanyahu e i suoi ministri estremisti stanno riducendo il Paese a uno Stato-paria; se lo sciagurato bombardamento della chiesa cattolica della Sacra Famiglia ha riaperto una frattura profonda col Vaticano; se le immagini dei bimbi gazawi ridotti a scheletri hanno indotto 28 nazioni, inclusa l’Italia, a rivolgere un appello “ultimativo” a Israele, beh, molto discende da quel passato lontano. Il Sinai fu reso all’Egitto con gli accordi di pace del 1978-79, le alture del Golan e Gerusalemme est vennero invece annesse formalmente: il che implicava per i palestinesi la possibilità di diventare cittadini israeliani. Ma Gaza e la Cisgiordania restarono in un limbo giuridico: un’annessione avrebbe creato un forte contraccolpo demografico e, in prospettiva, un serio rischio identitario e politico. Dunque, si procrastinò l’occupazione militare: tramutando la democrazia israeliana in “legno storto”, secondo la politologa liberale Dahlia Scheindlin, accorta analista dello scontro tra religione e stato di diritto in corso nel suo Paese. Intendiamoci. Le parole a caldo con cui il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “contestualizzò” nell’occupazione il 7 ottobre (“non è caduto nel vuoto”) restano ambigue nella forma, perché ammiccano al giustificazionismo, e sbagliate nella sostanza: perché Hamas, con gli ayatollah iraniani alle spalle, avrebbe compiuto il massacro a prescindere, obbedendo a un islamismo integralista che predica lo sterminio di tutti gli ebrei. Ma è indiscutibile che l’occupazione abbia snaturato Israele e umiliato generazioni di palestinesi. Anche perché in questi decenni centinaia di migliaia di israeliani mossi dal nazionalismo religioso verso Erétz Yisra’él, il Grande Israele promesso dalla Bibbia, si sono spinti a colonizzare i Territori, impiantando con la forza insediamenti, villaggi, avamposti, in una convivenza impossibile con gli arabi. Gaza nel 2005 venne restituita ai palestinesi dall’ex falco Sharon che mandò l’esercito a sgomberare le colonie degli ultraortodossi: “Non è un segno di debolezza ma di forza, i gazawi vivono nella disperazione”. Quella libertà fu però usata al peggio. Dalla Striscia, sottoposta poi a quasi un ventennio di dittatura messianica di Hamas, sono partiti i miliziani assassini del 7 ottobre. La reazione di Israele, prima di sconfinare nella disumanità contro due milioni di civili, aveva un fondamento razionale e condivisibile: colpire gli aggressori, anche se costoro si nascondevano in mezzo al loro stesso popolo. Ma se oggi Gaza è una piaga aperta nell’onore degli israeliani, con una carestia indotta che ogni giorno ferisce tutti noi, la Cisgiordania appare una malattia politica diventata cronica. Lì l’occupazione non è mai finita, vige un doppio regime giuridico (uno per gli ebrei e uno per i palestinesi), 500 mila coloni (con ventidue nuove colonie appena approvate dal governo) considerano quelle terre ebraicamente Giudea e Samaria, ogni ipotesi di Stato palestinese pare pura utopia. Netanyahu ha avuto almeno due occasioni per dichiarare vittoria e chiudere la guerra: l’uccisione di Yahya Sinwar, mente del pogrom, e il successo nell’attacco ai siti nucleari iraniani. Il New York Times, con una durissima inchiesta, gli imputa di averla prolungata per tornaconto personale, per tenersi buoni i ministri ultraortodossi e salvarsi dalle accuse di corruzione che lo inseguono, in vista delle elezioni del 2026. È innegabile che questi ventuno mesi sono serviti, oltre che a decimare Hamas, anche a disarmare Hezbollah in Libano, abbattere Assad in Siria, ridimensionare di molto gli ayatollah a Teheran. Il prezzo pagato dalla democrazia israeliana è tuttavia incalcolabile. Anche una tregua avrebbe basi fragili. Circolano progetti folli quasi quanto la Riviera di Trump, tutti ispirati dalla destra ultraortodossa dei coloni: rinchiudere seicentomila palestinesi a Rafah, creare in Cisgiordania otto emirati, piccole città-Stato, evacuare Gaza. Entrambe le parti pagano un terribile gap di secolarismo. Trent’anni fa, ai negoziati di Oslo, sedevano i laici: i laburisti israeliani e l’Olp di Arafat. La maledizione dei Territori ha finito per confondere religione e politica, offuscando la razionalità. Se pensi cha sia Dio a chiederti di buttare a mare il tuo vicino, puoi aver sbagliato vicino o sbagliato Dio: ma, quasi di certo, sei sbagliato tu. Medio Oriente. Suicidi e diserzioni: i soldati israeliani non vogliono più la guerra di Riccardo Michelucci Avvenire, 25 luglio 2025 Sarebbero ormai più della metà i riservisti che non vogliono tornare al fronte. Per motivi etici, perché non vedono più obiettivi reali, per sfiducia nelle istituzioni. Ma anche perché distrutti. L’ultimo in ordine di tempo è stato il giovane paracadutista Dan Mandel Phillipson, che si è sparato durante un periodo di addestramento in una base nel sud di Israele ed è morto in ospedale pochi giorni dopo. Prima di lui il riservista Daniel Edri si era dato fuoco in un bosco nei pressi della città di Safad dopo aver trascorso un lungo periodo di servizio a Gaza. “Dopo quello che aveva visto non riusciva a liberarsi da un terribile tormento interiore”, ha spiegato sua madre alla tv israeliana. Dai primi di luglio, in appena due settimane, sono già quattro i soldati dell’Idf (le Forze di difesa israeliane) che si sono tolti la vita. Quello dei suicidi nell’esercito - ben diciannove dall’inizio di quest’anno, il numero più alto di sempre - è un fenomeno spesso taciuto o minimizzato che si unisce all’aumento allarmante delle diserzioni determinando una vera e propria emergenza. Non una falla tecnica o strategica ma una profonda perdita di fiducia negli apparati dello Stato. Le operazioni in corso a Gaza ormai da quasi due anni e la conseguente catastrofe umanitaria stanno facendo vacillare il morale dei soldati aggravando la grave spaccatura interna alla società israeliana. Ma i numeri raccontano solo una parte della storia. Le testimonianze di chi ha vissuto l’esperienza diretta parlano di un impatto devastante. Soldati tornati a casa che non riescono a scrollarsi di dosso l’incubo delle operazioni, delle perdite, delle decisioni impossibili. E così, molti scelgono di non tornare più in servizio, non per diserzione ma per una forma di resistenza silenziosa alla guerra che li ha cambiati per sempre. A ben poco è servito il fatto che l’Idf abbia attivato una linea telefonica di supporto psicologico attiva 24 ore su 24 e aumentato il numero di specialisti in salute mentale disponibili. Il team di ricercatori dell’Università di Tel Aviv che da anni monitora il disagio psicologico all’interno dell’esercito ha rilevato che oltre il 12 per cento dei riservisti che hanno partecipato a turni di combattimento a Gaza ha sviluppato sintomi di disturbo da stress post-traumatico. Non a caso, i media israeliani hanno riportato un calo significativo dei soldati che si presentano al servizio di riserva. Molti di loro, inizialmente motivati dalla solidarietà nazionale, adesso si rifiutano di partecipare alle operazioni militari citando motivi etici e morali. La crescente disillusione è alimentata dalla mancanza di obiettivi chiari e dalla frustrazione per la continua escalation degli attacchi senza un’apparente soluzione. Nessuno può fornire numeri precisi su queste defezioni - e d’altra parte nessun partito o leader politico li chiede esplicitamente - ma secondo le stime più attendibili la percentuale di risposta dei riservisti sarebbe ormai inferiore al 50 per cento. Secondo Restart Israel, un’associazione impegnata nel reinserimento dei soldati feriti o traumatizzati, sono già circa 12mila i riservisti che si sono rifiutati di prendere parte alle operazioni a Gaza. Le diserzioni nei ranghi dell’esercito - ufficialmente non codificate - crescono in modo esponenziale sotto forma di assenze non giustificate o di atti di disobbedienza: soldati che rifiutano di presentarsi in servizio, che trovano il modo di sottrarsi a un ulteriore tour, che si sentono traditi da un sistema che non tutela chi ha già dato tutto. E si moltiplicano anche le petizioni che chiedono la fine dei combattimenti e dipingono la campagna di Gaza come priva di obiettivi chiaramente realizzabili, accusando il governo di aver fatto trapelare la promessa di un accordo sul rilascio degli ostaggi solo per giustificare un prolungamento del conflitto. L’ultima lettera, promossa dal gruppo pacifista Soldiers for the Hostages, è stata inviata qualche settimana fa a Netanyahu, al ministro della Difesa Katz e al capo delle forze armate con la firma di una quarantina di alti ufficiali dell’Unità 8200 dell’Idf, i quali hanno annunciato che non parteciperanno più a operazioni di combattimento “chiaramente illegali” spiegando che il governo sta conducendo a Gaza una guerra “infinita e ingiustificata”. L’Italia aiuta a rafforzare i diritti umani nelle carceri cilene ansa.it, 25 luglio 2025 Al via la formazione di funzionari della Gendarmeria. Ha preso ufficialmente il via il corso di formazione in Diritti Umani rivolto a funzionari della Gendarmería del Cile, promosso da Idlo - International Development Law Organization con il sostegno finanziario del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale italiano. Il programma, che coinvolge 35 partecipanti, mira a rafforzare l’attenzione per i diritti umani da parte del personale dei centri penitenziari cileni, con un focus particolare sulla tutela delle donne e dei gruppi vulnerabili. Nel corso della cerimonia inaugurale, la Sottosegretaria ai Diritti Umani del Ministero della Giustizia cileno, Daniela Quintanilla Mateff, ha sottolineato il valore dell’iniziativa e il ruolo della Gendarmería, definendola un’istituzione capace di comprendere che i diritti umani “non sono solo una limitazione all’azione, ma rappresentano uno strumento strategico che conferisce legittimità al nostro operato, a coloro che hanno il difficile compito di esercitare il monopolio della forza, una grande responsabilità”. “La formazione in corso - ha affermato la Prima Segretaria dell’Ambasciata d’Italia in Cile, Althea Cenciarelli - rappresenta molto più di un’azione tecnica: è l’espressione concreta di una visione condivisa tra Italia e Cile, fondata sul rispetto reciproco, sulla centralità dei diritti umani e sulla costruzione di risposte efficaci alle sfide globali, tra cui il crimine organizzato transnazionale, ambito in cui i due Paesi collaborano con crescente intensità”. La leader di Programma di Idlo per l’America Latina e i Caraibi, Sara Nardicchia, ha ribadito l’impegno dell’Organizzazione nel collaborare con l’Italia e il Cile per promuovere una gestione carceraria efficace, trasparente e pienamente rispettosa dei diritti umani. Alla cerimonia hanno preso parte anche le alte cariche della Gendarmería del Cile, tra cui la Vice Direttrice Operativa, Helen Leal González, e il Vice Direttore per il Reinserimento Sociale, Pablo Gaete Letelier. Quest’ultimo ha voluto ringraziare il Governo italiano e Idlo per il sostegno, dichiarando: “Per la nostra istituzione la tutela dei diritti umani è una priorità. Invito i partecipanti a trarre il massimo da questa esperienza formativa, affinché l’approccio ai diritti umani possa essere integrato in ciascuna delle unità penitenziarie del Paese”. I partecipanti al corso sono stati selezionati in base a criteri che tengono conto della complessità operativa dei rispettivi centri di detenzione e del ruolo strategico che ricoprono nei diversi istituti penitenziari, al fine di garantire un impatto effettivo e duraturo dell’intervento formativo.