Le carceri e il miracolo dei pani e dei pesci di Stefano Anastasia L’Unità, 24 luglio 2025 Ecco un nuovo immaginifico “piano carceri”. Dopo un anno di studio, il Commissario straordinario plenipotenziario promette di risolvere tutto entro il 2027 e i nuovi posti detentivi, che la presidente del consiglio a gennaio prometteva sarebbero stati settemila in due anni e il ministro della giustizia ottomila, sono miracolosamente diventati quindicimila, grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci che sarebbe garantita dalle nuove strutture modulari già sperimentate per la detenzione dei migranti in Albania. Le nostre obiezioni non sono solo ideali, di chi pensa che la marginalità sociale - anche per prevenirne la devianza - debba essere sostenuta e reintegrata nella società, non disseminata in moduli detentivi nello stile trumpiano di Alligator Alcatraz, che andranno a occupare i pochi spazi verdi degli istituti penitenziari. È soprattutto l’esperienza e la conoscenza del sistema penitenziario italiano che ci porta a dubitare che i pani e i pesci si moltiplicheranno in due anni, che ci sarà il personale per gestire i nuovi spazi e per assistere come si deve più di sessantamila persone, che la crescita della popolazione detenuta si fermerà (c’è da dubitarne anche a causa delle politiche panpenalistiche e carcerocentriche di questo governo). Non succederà come non è successo negli ultimi tre anni, quando mentre la popolazione detenuta aumentava la capienza effettiva degli istituti di pena addirittura diminuiva. Il 30 giugno scorso il Presidente Mattarella, ricevendo al Quirinale i vertici dell’Amministrazione e una rappresentanza del Corpo di polizia penitenziaria, ha nuovamente richiamato l’attenzione sulle “gravi - e ormai insostenibili - condizioni di sovraffollamento”, nonché sulle “condizioni inadeguate di molti istituti”, bisognosi di “interventi da intraprendere con urgenza, nella consapevolezza che lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività, alla progettualità del trattamento”. Problemi cui si aggiunge “la carenza di organico, … che riguarda il Corpo, e riguarda tutti gli operatori” penitenziari e della salute in carcere. Da mesi, e più ancora nelle ultime settimane, si sono succeduti appelli e iniziative per individuare soluzioni a questo che è innanzitutto un problema di sproporzione di risorse, tra quanto richiesto al sistema penitenziario e quanto a esso garantito per svolgere le proprie funzioni nel rispetto del dettato costituzione e delle leggi. Mancano circa diciassettemila posti detentivi, migliaia di poliziotti, personale sanitario e contabile, di nuovo gli educatori e poi magistrati di sorveglianza e relativo personale amministrativo. Abbiamo una macchina che potrebbe funzionare (forse) per 30-40mila detenuti e che ne gestisce quasi 63mila, con l’incombenza - soprattutto negli uffici di sorveglianza - di altre 90mila persone in misure di comunità e altrettanti in attesa, se andare in carcere o eseguire la pena all’esterno. Di fronte a questo vero e proprio collasso di sistema, che viola - non per ipotesi, ma in concreto, proprio ora, in molti istituti penitenziari italiani - i più elementari diritti umani delle persone detenute, ci sono due strade: ridurre il ricorso alla carcerazione o aumentare le risorse di sistema, fino a ospitare dignitosamente 60, 70 o 80mila detenuti. Le due soluzioni sono state icasticamente rappresentate dalle parole con cui i due vicepremier, Salvini e Tajani, ieri sono entrati nel consiglio dei ministri: “nuove carceri” per il primo, “svuotare le carceri” per il secondo. Limpido esempio di unità di intenti nella compagine governativa. Poi, per fortuna, ci ha pensato il Ministro Nordio a rendere chiara la linea del Governo: né l’una, né l’altra. O meglio: ha ragione Salvini (bisogna fare più carceri), ma siccome ci vuole tempo, intanto mandiamo la palla in tribuna. E così ecco di nuovo un nuovo immaginifico “piano carceri” (recentemente la Corte dei conti ha contestato al Governo in carica, solo perché attualmente in carica, il mancato completamento del piano carceri predisposto dal Governo Berlusconi nel 2010, all’indomani della prima condanna europea per sovraffollamento, e perseguito faticosamente da tutti i governi che si sono succeduti nel quindicennio trascorso da allora). Dopo un anno di studio, il Commissario straordinario plenipotenziario promette di risolvere tutto entro il 2027 e i nuovi posti detentivi, che la presidente del consiglio a gennaio prometteva sarebbero stati settemila in due anni e il ministro della giustizia ottomila, sono miracolosamente diventati quindicimila, grazie alla moltiplicazione dei pani e dei pesci che sarebbe garantita dalle nuove strutture modulari già sperimentate per la detenzione dei migranti in Albania (non propriamente spazi come quelli richiesti dal Presidente della Repubblica: adeguati alla socialità, all’affettività, alle attività culturali, ricreative e formative). Mi dispiace per il Commissario Doglio, per il vicepremier Salvini, il ministro Nordio e il sottosegretario Ostellari, ma le nostre obiezioni non sono solo ideali, di chi pensa che la marginalità sociale - anche per prevenirne la devianza - debba essere sostenuta e reintegrata nella società, non disseminata in moduli detentivi nello stile trumpiano di Alligator Alcatraz, che andranno a occupare i pochi spazi verdi degli istituti penitenziari, gravando ulteriormente sullo scarso personale in servizio, prima di tutto quello di polizia, che sarà costretto a fare turni in quelle strutture e ad accompagnare i detenuti nei corpi principali degli istituti per qualsiasi cosa, da una visita medica, a un colloquio con gli avvocati o con i familiari. È soprattutto l’esperienza e la conoscenza del sistema penitenziario italiano che ci porta a dubitare che i pani e i pesci si moltiplicheranno in due anni, che ci sarà il personale per gestire i nuovi spazi e per assistere come si deve più di sessantamila persone, che la crescita della popolazione detenuta si fermerà (c’è da dubitarne, peraltro, anche a causa delle politiche panpenalistiche e carcerocentriche di questo governo). Non succederà come non è successo negli ultimi tre anni, quando mentre la popolazione detenuta aumentava la capienza effettiva degli istituti di pena addirittura diminuiva. Ecco allora che la parte buona del Ministro Nordio caritatevolmente si china a concedere una “detenzione differenziata” per i tossicodipendenti. Nessuno ancora ha capito di cosa si tratti, se non che l’affidamento in prova al servizio sociale, già previsto fino ai sei anni di pena, potrebbe arrivare a otto. Andate a farvi il conto di quante persone con problemi di dipendenze sono in carcere con pene inferiori ai sei anni attualmente previsti e avrete un’idea della futura efficacia di questa proposta, per cui un inutile decreto lo scorso anno prevedeva l’istituzione di un albo di comunità accreditate che non è ancora stato disciplinato e per cui erano finanziati circa 280 inserimenti (su circa 17mila detenuti con problemi di dipendenze). Intanto però la task-force istituita dal Ministro qualche settimana fa è già stata abbandonata a se stessa, e così i magistrati di sorveglianza chiamati a farne parte: sull’accesso alle alternative e alla liberazione anticipata se la vedano loro. Tra i leit-motiv del governo nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri dell’altro ieri mancava solo il “ritorno a casa loro” dei detenuti stranieri, ma ci ha pensato il sottosegretario Delmastro a ricordacelo: l’anno scorso siamo arrivati a ben 500 detenuti rimpatriati, sui quasi ventimila presenti. Di questo passo i ghiacciai si scioglieranno prima. Insomma: il governo ha forse detto qualcosa, ma non ha fatto niente per rispondere all’emergenza umanitaria in atto nelle nostre carceri e dovrà invece risponderne davanti ai giudici nazionali ed europei, quando vi sarà chiamata, e politicamente davanti all’opinione pubblica, alle comunità e alle famiglie dei detenuti e degli operatori penitenziari, quando se ne manifesteranno i tragici effetti. Alla fine la loro idea della “certezza della pena”, in carcere, in queste condizioni, produrrà solo più sofferenze, rancore e violenza, e meno sicurezza per tutti. Tutte le criticità del nuovo piano contro il sovraffollamento nelle carceri di Riccardo Carlino Il Foglio, 24 luglio 2025 “Mancano i posti in comunità per accogliere tossicodipendenti e alcoldipendenti. E con soli 250 magistrati di sorveglianza, non si riesce a stare dietro le istanze di migliaia di detenuti”, dice Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino. Il decreto legge approvato ieri dal governo si articola su vari livelli: una maggiore rapidità per la valutazione della liberazione anticipata, un nuovo regime di detenzione domiciliare per detenuti tossico/alcoldipendenti e un programma di edilizia penitenziaria che guarda fino al 2027. Si vuole ridurre di circa diecimila unità la popolazione carceraria, e contemporaneamente concedere benefici ai detenuti che più ne avrebbero diritto: qualcosa di apparentemente diverso dal filone panpenalistico e securitario che questo governo ha abbracciato da praticamente tutta la sua esistenza. Ma che nasconde diverse difficoltà nella sua applicazione. “Mancano i posti in comunità per accogliere i detenuti tossicodipendenti e alcodipedenti - spiega al Foglio Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, associazione impegnata contro la pena di morte e le condizioni estreme di carcerazione - e anche laddove ci siano, si deve comunque aspettare la decisione dei magistrati di sorveglianza, i quali però hanno un carico di lavoro e compiti enorme”. Un problema nel problema: “Ci sono solo 250 magistrati di sorveglianza, e devono seguire le istanze di oltre 60 mila detenuti, quelle di circa 100 mila persone che accedono alle misure alternativa di comunità e più altri 100 mila ‘liberi sospesi’ “, ossia persone condannate con sentenza definitiva a una pena detentiva non superiore a quattro anni, che - dopo la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena - rimangono in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sulla richiesta di una misura alternativa alla detenzione. “E poi, anche guardando alle singole comunità, come fa un organico di soli mille educatori a seguire decine di migliaia di detenuti in un percorso individualizzato di trattamento?”, si chiede Bernardini. Vista così, la gravità della situazione sembra offuscare le possibilità positive previste dal piano illustrato ieri. Secondo le nuove norme, la detenzione alternativa si applica a detenuti tossicodipendenti e alcoldipendenti con a carico una pena di massimo otto anni di reclusione, non più sei. Ampliamento che Bernardini giudica “estremamente positivo”, insieme all’aumento dei colloqui - che passano da 4 a 6 al mese per i detenuti che hanno commesso reati meno gravi, mentre da 2 a 4 se il reato è grave - e un incremento delle telefonate concesse al mese. “È sicuramente un miglioramento, ma ciò vuol dire che dovranno essere ancora di più gli agenti per presiedere a quei colloqui”, osserva. “Oggi mancano 6mila agenti di polizia penitenziaria. Ci sono momenti in cui il carcere è completamente sguarnito, nonostante gli agenti facciano turni anche di 12 ore al giorno”, calcola la presidente, sottolineando l’incongruenza di questo dato con gli altri interventi di edilizia penitenziaria annunciati per recuperare sezioni esistenti e realizzarne di nuove: “Nordio parla di moduli prefabbricati per ampliare le celle, ma quale personale seguirà i detenuti in più? Spesso a molti di loro manca la scorta per visite mediche esterne, ma anche per andare ai processi”, conclude Bernardini. Ad un anno di distanza dal Decreto Carcere il ministro Nordio torna sulle solite proposte di Lucio Motta filodiritto.com, 24 luglio 2025 Ennesima bufala per coprire una mancanza di una visione prospettica incapacità di affrontare un problema strutturale, culturale e giuridico. Era luglio 2024 quando il Governo emanava il Decreto Carceri (D.l. n.92 del 4 luglio 2024, conv. l. n. 112 dell’8 agosto 2024), noto anche come “Carcere sicuro”, e annunciava propositi di rispondere alla necessità di un sistema più efficiente e rispettoso dei diritti umani. Due cardini del decreto che avrebbero dovuto, a detta del ministro nel giro di tre mesi, liberare la morsa del sovraffollamento si stanno rivelando inutili ed inefficaci. La liberazione anticipata (misura già esistente - art. 54 O.P.- che consente ai detenuti di ridurre la propria pena in base alla buona condotta) modificata passando da un sistema di richiesta (petitorio) ad un sistema di concessione diretta da parte del Magistrato di Sorveglianza. Misura rimasta inapplicata per carenza di struttura e personale: tutto è rimasto come prima con l’aggravante che i detenuti non hanno più certezza e contezza del loro fine pena. I roboanti proclami del Ministro secondo il quale già a fine settembre 2024 si sarebbero dovuti vedere i primi effetti della riforma sono, non solo disattesi ma assolutamente delusi e frustrati, con l’aggravante di rendere maggiore il carico di lavoro sui Magistrati e sulle cancellerie della Sorveglianza ora occupati anche a far di conto. Il secondo caposaldo del Decreto che avrebbe dovuto garantire il rapido svuotamento delle carceri con il proclama di 15/20 mila detenuti scarcerati entro ottobre 2024, si basava sul più rapido accesso alle misure alternative. Da un lato agevolato dalla più rapida concessione automatica della L.A. (cosa che abbiamo visto non essere), dall’altro l’introduzione delle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale delle persone detenute apprezzabile appare la soluzione dell’istituzione di un apposito elenco tenuto presso il Ministero della Giustizia (art. 8, comma 1). Anche in questo caso occorrerà attendere l’adozione di un successivo atto normativo (decreto ministeriale) al quale fa rinvio il comma 2 dell’art. 8 del decreto-legge. Il Decreto su questo versante è risultato improvvisato, assente di prospettiva e di finalità. Aldilà delle enunciazioni, roboanti e pompose, il Decreto ha fatto sfoggio dell’ovvio senza mettere mano ai cardini dei problemi, il tutto in nome del mantra di questo governo e dei suo esponenti: la certezza della pena, il detenuto deve espiare la punizione a prescindere dalla risocializzazione. Ad un anno esatto di distanza da quel decreto, con le carceri che scoppiano di sovraffollamento, in condizioni igienico sanitarie al limite del collasso, in condizioni umane degradanti su ogni fronte, dove lo stesso personale amministrativo - educativo e di polizia penitenziaria è stremato, in sottorganico non più capace di far fronte alle necessità, in condizioni di lavoro che meriterebbero una attenta reprimenda allo Stato datore di lavoro, difronte alla incessante mattanza dei sudici in carcere (41 dall’inizio dell’anno 2025 al 15 luglio - ultimo a morire, in ordine di tempo, è un giovane di trenta anni detenuto a Frosinone e che venerdì scorso aveva tentato il suicidio: dopo tre giorni di agonia, il suo corpo si è spento nell’ospedale dove era stato trasportato con urgenza -) il ministro Nordio non ha trovato di meglio che annunciare “ pene alternative per 10 mila detenuti per reati comuni” e per questo istituisce una task force per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario, che dovrebbe collaborare con la magistratura di sorveglianza e con gli istituti penitenziari per facilitare la definizione delle posizioni e l’applicazione delle misure alternative. La squadra, insediata di recente, si riunirà settimanalmente e prevede di completare i lavori entro settembre 2025. Il ministro Nordio ha sottolineato l’importanza del dialogo instaurato con la magistratura di sorveglianza, definendolo un “utile confronto” che potrà accelerare l’adozione di soluzioni efficaci. Ancora una volta il Ministro fissa i tempi e prevede nel mese di settembre il tempo della panacea. Doveva essere settembre 2024 che le carceri si sarebbero vuotate e sarebbero stati messi a disposizione gli spazi nelle caserme dismesse, siamo arrivati all’estate 2025 (un anno dopo) e non essendo stato fatto nulla, il Ministro istituisce una task force che dovrebbe studiare i rimedi insieme alla magistratura di sorveglianza entro settembre 2025. Ministro lei da magistrato è sempre andato in vacanza ad agosto e i suoi colleghi magistrati vanno in vacanza anche ad agosto quest’anno anzi lo saranno dal 20 luglio quando entrerà in funzione la corte estiva per le pratiche urgenti ed indifferibile, ad agosto chiude anche il parlamento, la sua task force che cosa vuole che faccia ad agosto 2025. Saremmo disposti a soffrire in carcere un altro anno se Lei la smettesse di prendere in giro tutti, e si dedicasse ad una vera e seria riforma del sistema penale. Non si tratta di svuotare le carceri si tratta di rivedere il sistema penale, rivedere la pena oggi unica e detentiva basata su una cultura carcero centrica, e finalmente introdurre un sistema sanzionatoria differenziato, dove siano individuate differenti pene a seconda dei reati e delle circostanze, pene che possano essere anche riviste lungo il percorso di espiazione a seconda del grado di risocializzazione raggiunto dal reo, in conformità al dettato costituzionale dell’art. 27 ed alla sua effettiva e piena attuazione. Accompagnando la riforma di sistema con una coerente legge che garantisca la certezza delle pene sì ma anche la certezza della risocializzazione il rispetto della vittima imponendo il silenzio della speculazione informativa, nel rispetto del dolore di chi ha sofferto e soffre ogni volta che la cicatrice viene riaperta. Le pene, quale che ne sia la forma, devono puntare a ricostruire il legame sociale, partendo dal presupposto che la commissione del reato ne ha determinato la lacerazione. È per questa semplice ragione, avente un ben preciso fondamento costituzionale, che l’opzione repressiva, per quanto sempre presente nelle scelte di politica criminale, non può mai relegare nell’ombra il profilo rieducativo (così Corte cost., sent. n. 257 del 2006), imponendo particolare e costante attenzione nei confronti del singolo condannato, come di nuovo richiede l’art. 27, terzo comma, della Costituzione. Con il progetto “Recidiva Zero” stiamo dando effettiva speranza di un lavoro dopo la liberazione di Carlo Nordio* Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2025 Insita nel nostro ordinamento giudiziario - ne è per certi versi, l’anima - una necessità: quella di coniugare il diritto alla rieducazione del detenuto, così come è sancito dalla Costituzione, all’utilità in cui si può convertire l’espiazione della pena. Chi esce da un periodo di detenzione può aspirare di mettere a frutto ciò che ha imparato in carcere, aiutando, al tempo stesso, le aziende che hanno bisogno di manodopera specie in riferimento ad attività che gli italiani non vogliono più esercitare. In questo senso, “Recidiva Zero” porta nelle carceri un filo di speranza e la consapevolezza che il lavoro tra i detenuti brilli spesso per eccellenze straordinarie. “Recidiva Zero” Il progetto che il ministero della Giustizia ha sviluppato col Cnel, evocato nel recente convegno tenutosi presso l’aula magna della scuola di formazione “Giovanni Falcone” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, vive anche - ci si permetta - nella memoria di un grande amico, il professor Felice Maurizio D’Ettore, già Presidente per il garante nazionale dei diritti della persona. E “Recidiva Zero” si presenta come un progetto che oggi si perpetua nell’impegno di molti, a partire dal ministro del Lavoro Marina Calderone fino al Sottosegretario alla giustizia Andrea Ostellari. Ostellari, peraltro, ha profuso tutte le sue energie nell’alleviare le preoccupazioni dei detenuti a fine pena; contribuendo a fornire una prospettiva lavorativa proprio a coloro che, privati della libertà, pensano di avere un futuro nebuloso e incerto e vivono l’incertezza di sapere come e se la società li accoglierà. Non per nulla la giornata di “Recidiva Zero” svoltasi al Dap ha fotografato il bisogno di coniugare ciò che è necessario che avvenga in carcere, l’attività lavorativa, e ciò che è necessario avvenga dopo, l’inserimento degli ex detenuti in una società che tende a diffidarne. La situazione penitenziaria italiana purtroppo è nota per le sue criticità, come ha sottolineato anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e siamo ben lungi dal negarlo; ma è pur vero che le belle notizie fanno meno notizia delle brutte notizie. Spesso ci si dimentica, ad esempio, che tra le mura del carcere si producono eccellenze come quelle culinarie dei panettoni della mia Padova. Ma non lo dimentichiamo. Come non dimentichiamo che, troppe volte e troppo spesso, le persone liberate non in una situazione di palese disagio finiscono col venire abbandonate a sé stesse, fino a essere quasi condotte, per il loro disagio carsico, obbligatoriamente alla recidiva. Ecco: il nostro scopo è ridurre gradualmente la recidiva fino a farla scomparire del tutto. Il risultato di questa idea avrà un inevitabile ritorno positivo per la società, sarà un vantaggio per tutti. Geografia carceraria Semmai la domanda è: come si può arrivare a un simile risultato? Si può. Prima di tutto si deve intervenire sul sistema carcerario, perché abbiamo un’edilizia carceraria estremamente disomogenea. L’unica omogeneità che spicca è la Polizia penitenziaria alla quale va sempre il mio infinito ringraziamento. E non solo perché da essa dipendono sicurezza e sostenibilità delle carceri, visto che gli agenti sono incaricati di questo, ma pure perché questi servitori dello Stato li ho sempre conosciuti negli altri quarant’anni della mia vita in magistratura, quando ricoprivo la posizione di pubblico mistero. Ora, dalla mia ottica di ministro la prospettiva del carcere è cambiata. Ora conosco le carceri in modo diverso. E però ho avuto più contatti con la Polizia penitenziaria e comprendo le condizioni di lavoro dei nostri tenaci operatori. La stessa geografia carceraria è frastagliata; abbiamo carceri-modello dove abbondano spazi e carceri antiche come a Roma, dove è impossibile esercitare le attività lavorative spesso per spiazzanti vincoli artistico-architettonici. Detto ciò, sport e lavoro restano gli ansiolitici della tensione carceraria. Ma con “Recidiva Zero” stiamo facendo uno scatto in più: stiamo dando l’effettiva speranza di un lavoro dopo la liberazione. C’è un altro fattore da considerare. Le statistiche indicano che una buona percentuale di suicidi, che sono un po’ il flagello della carcerazione - non solo di quella italiana ma di tutto il mondo - avviene tra detenuti che non sono appena entrati in carcere (e sarebbe più comprensibile il contrario: perché a inizio pena, quando ti ammanettano eri sbattono in una cella, ti cade il mondo addosso e probabilmente la tentazione di togliersi la vita è forte). Eppure, qui accade il contrario: in buona percentuale, i suicidi riguardano detenuti in via di liberazione. Significa che per costoro la libertà intesa nel senso del reinserimento sociale assume una prospettiva preoccupante. C’è una novelletta di Anatole France, “Crainquebille”, dove un povero venditore ambulante, finito in carcere per un errore giudiziario, avendo perso non solo il lavoro ma praticamente tutto, uscito di prigione tenta di ripetere il reato (un’offesa a pubblico ufficiale) per il quale era stato incarcerato, allo scopo di ritornare in carcere, non sapendo dove andare. Uno spaesamento terribile. “Recidiva Zero” mira a correggere lo spaesamento, a cancellare quest’ultimo segmento di detenzione, forse il più delicato, in cui la persona sta per affacciarsi a una libertà per la quale magari, come Crainquebille, non è psicologicamente preparato. Al di là dell’umanità del progetto, sarà lo Stato il primo a trarne giovamento e utilità. *Ministro della Giustizia Doglio: “Valorizzazione immobiliare di carceri storiche, non solo nuove celle” di Raffaella Calandra Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2025 Il Commissario straordinario all’edilizia penitenziaria: “9.696 posti in tre anni; opere per 758 mln, in parte già finanziate”. Lo paragona ad una “matrioska”, un incastro di interventi vecchi e nuovi, “in collaborazione con Dap, Giustizia Minorile e Mit, sotto la regia di Palazzo Chigi”. Per “una risposta strutturale al sovraffollamento”. Atteso da mesi, preceduto e seguito da critiche, il piano per l’edilizia penitenziaria approda in Consiglio dei Ministri con l’ambizione di “non costruire solo celle, ma recuperare dignità, sicurezza e funzionalità”, assicura il commissario straordinario all’edilizia penitenziaria, Marco Doglio. Anche “attraverso una valorizzazione immobiliare su vasta scala”, scandisce a IlSole24ore il manager chiamato da Cassa Depositi e Prestiti per accelerare le procedure. Commissario, facciamo chiarezza sui numeri dei posti disponibili subito e sui costi? 9.696 nei prossimi tre anni in 60 interventi edilizi, per un costo stimato in 758 milioni, in larga parte già coperto. A questi si aggiungono ulteriori 5.000 posti previsti con operazioni di valorizzazione e trasformazione degli istituti non più funzionali, con l’obiettivo di creare nuovi posti tramite la costruzione di nuove carceri o l’ampliamento di quelli attuali, portando la risposta complessiva al fabbisogno a circa 15.000 posti detentivi. Nuove carceri, da costruire dove? Si ipotizza anche la vendita di istituti storici? Idea esaminata in passato da Cdp? Si parla di valorizzazione e trasformazione, non di vendita. Stiamo realizzando un censimento- ad esempio dei vincoli catastali - per carceri importanti in centro città o con vista mare, potenzialmente oggetto di valorizzazione urbanistica. Stiamo poi valutando la possibilità di spostare i detenuti in siti più moderni, limitrofi ad altri istituti. Noi prepariamo il terreno, il resto in un secondo momento. Anche una riflessione sui fondi immobiliari: come esistono per studentati e Rsa, potrebbero esserci per le carceri. Intanto quali e quanti saranno i posti disponibili subito, previsti nei 21 interventi programmati su 60? Nel primo semestre 2025 sono stati già recuperati 305 posti, entro la fine dell’anno saranno 1.472. I 60 interventi saranno 37% al Nord 37%, 22% al Centro, 42% al Sud. I principali interventi sono di ampliamento di strutture esistenti a San Vito al Tagliamento (PN), Forlì e Roma Rebibbia (Mit), Napoli Poggioreale (Dap) e Reggio Calabria Arghillà, programmazione del Commissario. Ma anche Monza, Pavia, Voghera ecc. Un piano per più posti, ma il carcere non è solo contenitore, come ha ricordato il Presidente della Repubblica… Il piano tiene conto anche degli spazi trattamentali, lavorativi, educativi. Tuttavia, la priorità richiesta è emergenziale ed è quella di permettere ai detenuti di vivere in un ambiente dignitoso. Nel medio periodo, la strategia del piano è realizzare strutture modulari, sicure e moderne, dove gli spazi per la rieducazione siano parte integrante. È stata criticata la previsione di prefabbricati negli spazi aperti degli istituti, per lo più dedicati allo sport. Le critiche sono comprensibili, ma spesso basate su esperienze passate in cui non vi era sufficiente controllo qualitativo. I moduli previsti oggi sono evoluti, testati, dotati di tutte le garanzie igienico-sanitarie, di sicurezza e durata. Si tratta di una soluzione pragmatica per risposte rapide, senza rinunciare alla qualità. I moduli saranno collocati entro i perimetri esistenti, con l’obiettivo di garantire gli spazi vitali secondo gli standard internazionali. Servirà personale in più... È oggetto di confronto con il Dap. Il piano era atteso da mesi. Perché questo ritardo? È stato oggetto di una ricognizione tra diversi soggetti attuatori. Si sono poi delineate le linee operative di intervento attraverso la collaborazione con Invitalia, Cdp e Anac. Inoltre, l’approvazione del programma, avvenuta il 9 luglio, ha scontato le tempistiche consuete per l’acquisizione dei concerti delle amministrazioni. Oggi siamo orgogliosi di presentare un piano concreto, attuabile in tempi brevissimi. Ha visitati degli istituti penitenziari? Sono stato in quelli del Lazio e della Lombardia: il confronto con le strutture penitenziarie ha permesso di raccogliere osservazioni preziose per l’allocazione fisica dei nuovi posti. In sintesi, ristrutturazioni, nuovi moduli e valorizzazione immobiliare? Il sistema penitenziario italiano ha un deficit strutturale di 15.700 posti. Il piano punta a colmare questo gap con 9.696 posti da realizzare nel triennio (1.472 nel 2025, 5.914 nel 2026 e 2.310 nel 2027). A questi si aggiungono 5.000 ulteriori posti grazie alla valorizzazione e trasformazione di istituti nelle principali città. L’approccio è: nuovi moduli, ampliamenti, ristrutturazioni e operazioni immobiliari su larga scala. Carceri obsolete da cedere a fondi immobiliari di Anna Di Rocco Milano Finanza, 24 luglio 2025 Ecco il piano del governo per mettere sul mercato i penitenziari vecchi e crearne di nuovi. L’obiettivo è coinvolgere investitori istituzionali attraverso uno o più fondi immobiliari a partecipazione pubblica, sfruttando la valorizzazione degli asset dismessi. Previsti quasi 10 mila nuovi posti entro il 2027. Un fondo immobiliare per acquisire le carceri obsolete. È questo il progetto al quale il governo sta lavorando nell’ambito del nuovo Piano nazionale dell’edilizia penitenziaria 2025-2027 presentato martedì 22 luglio in Consiglio dei ministri dal commissario straordinario Marco Doglio nell’ambito della riforma disegnata dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio. L’idea è la “sostituzione di alcuni istituti penitenziari non più funzionali con strutture più moderne”, ha spiegato Doglio, ex ceo di Cdp Immobiliare sgr, e la “contestuale riqualificazione e trasformazione delle carceri obsolete anche attraverso il coinvolgimento - in una logica di partenariato - di operatori ed investitori istituzionali”, usando “la leva della valorizzazione immobiliare per il recupero di ulteriori risorse finanziarie da destinare alla costruzione delle nuove strutture penitenziarie”. Il modello è “pensato per essere replicabile su più istituti e scalabile a livello nazionale, con un focus particolare su strutture che presentano caratteristiche idonee a garantire una valorizzazione di mercato”. Il piano triennale, predisposto in raccordo con i ministeri della Giustizia, delle Infrastrutture e della Presidenza del Consiglio, punta da un lato a creare circa 15 mila nuovi posti detentivi. Il primo passo, ha spiegato Doglio, è il censimento delle 207 strutture esistenti, con una mappatura completa dei vincoli catastali, urbanistici e paesaggistici. “Censirli ci consente di inserirli all’interno di una piattaforma e avere un quadro chiaro”, ha spiegato Doglio durante la conferenza stampa, “e, in parallelo, dobbiamo trovare nuovi siti dove delocalizzare le strutture che abbiamo individuato”. L’architettura allo studio prevede la costituzione di uno o più fondi immobiliari ad apporto pubblico, destinati a contenere gli asset dismessi (o da dismettere) e a ospitare capitali di investitori istituzionali, Sgr o fondi infrastrutturali. Una strategia già sperimentata in altri comparti - dalle caserme dismesse alle Rsa - e che punta a generare cassa per finanziare la costruzione delle nuove carceri, senza gravare interamente sulla finanza pubblica. “Si fanno fondi per gli studentati e per le residenze per anziani”, ha detto il commissario straordinaria all’edilizia penitenziaria, “perché non si è mai fatto per le carceri? Solo perché non si è mai partiti da un censimento serio. Ora finalmente possiamo strutturare il veicolo”. Il piano triennale già approvato prevede 60 interventi strutturali: 3 già completati, 27 in corso e 30 pronti a partire. Si stimano 3.716 nuovi posti tramite ampliamenti e 5.980 recuperati tramite ristrutturazioni, per un totale di 9.696 posti detentivi aggiuntivi entro il 2027. La fase successiva, nei prossimi cinque anni, punta a ulteriori 5 mila posti, anche grazie alle risorse generate dal fondo immobiliare. Il progetto si inserisce in un contesto più ampio di razionalizzazione del patrimonio pubblico e di crescente interesse degli investitori per asset alternativi a lungo termine. Tra i possibili soggetti coinvolgibili figurano Cassa Depositi e Prestiti, Invimit e sgr specializzate in partenariati pubblico-privato, già attive nella valorizzazione di caserme, ospedali e immobili pubblici dismessi. (riproduzione riservata) “Sulle carceri il Governo evoca numeri a caso. Nordio ha umiliato le speranze riposte in lui” di Alfonso Raimo huffingtonpost.it, 24 luglio 2025 Intervista a Luigi Manconi: “Il sottosegretario Del Mastro, ha definito “epocali” le misure prese dal Cdm. Quel termine va usato con la massima sobrietà. Quando viene pronunciato da chi ha detto di provare “un’intima gioia” nel fatto che ai detenuti possa mancare il respiro, determina un effetto inquietante”. “Il Governo non è credibile. Il sistema penitenziario è al collasso. Nordio per decenza dovrebbe dichiararne il fallimento”. Luigi Manconi, già docente di sociologia dei fenomeni politici e già presidente della commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, in un’intervista a Huffpost, commenta le misure approvate dal consiglio dei ministri per affrontare l’emergenza carceri. Manconi, negli istituti di pena ci sono quasi 63mila detenuti per 48mila posti disponibili. Il governo annuncia una “cura” fatta di tre misure: un piano di edilizia carceraria, un programma di detenzione differenziata in comunità per detenuti con problemi di tossicodipendenza, un piano di liberazione anticipata, per chi si trova a fine pena. Le chiedo prima un giudizio di sintesi... La questione per certi versi è semplice: finalmente il governo riconosce che i posti effettivamente mancanti sono oltre 15mila. Il che significa che il sistema penitenziario è al collasso e per decenza dovrebbe dichiarare fallimento. In presenza di questa tragedia, invece, si adottano provvedimenti che a voler essere ottimisti potrebbero avere qualche effetto nel 2027. Nel frattempo continuerà indisturbata la disumanizzazione del carcere e la carneficina rappresentata nel solo 2025 da ben 43 suicidi tra i detenuti e 3 tra la polizia penitenziaria. Eppure il ministro Nordio confida di poter liberare almeno 2mila persone ad agosto... Io ho cominciato a preoccuparmi quando nel corso di un’intervista lo statista di Gattinara, il sottosegretario Del Mastro Delle Vedove, ha definito per tre volte “epocali”, alla lettera, le misure prese dal Consiglio dei ministri. Quel termine, come sanno tutte le persone assennate, va usato con la massima sobrietà. Quando viene pronunciato da chi ha detto di provare “un’intima gioia” nel fatto che ai detenuti possa mancare il respiro, determina un effetto a dir poco inquietante. La cosiddetta “detenzione differenziata” prevede la possibilità per detenuti con problemi di tossicodipendenza di scontare la pena in strutture di comunità, a patto che si impegnino in percorsi di recupero. Perché non la convince? Viene presentato come il provvedimento più importante. Ma è stato presentato in maniera più che fumosa, addirittura impalpabile, evanescente. Si tenga conto che quel provvedimento era stato già assunto tempo addietro, ed è rimasto totalmente inapplicato per assenza dei decreti attuativi. Il che non è di buon auspicio. Nordio dice che possono accedervi, teoricamente, 10mila detenuti... Mi sembrano numeri evocati a caso, in assenza di un qualsiasi adeguato accertamento preventivo delle comunità disponibili e dei posti che ciascuna di esse dovrebbe offrire. E in assenza, poi, di una ricognizione sul complicatissimo apparato di procedure, di controlli e di verifiche che quella detenzione differenziata richiede. Temo che al momento attuale in Italia appena una decina di comunità sia in grado di garantire questo delicatissimo servizio. L’altra leva su cui l’esecutivo si propone di decongestionare l’affollamento nelle carceri è l’edilizia. Secondo il governo 15mila posti potrebbero ottenersi dall’ampliamento degli istituti di pena... Siamo seri. Questo governo ha già alle spalle metà della legislatura. E in questo periodo di tempo non un posto in più è stato ricavato o ristrutturato. E molti altri si continuano a perdere ogni giorno. Dunque, quando sarà ampliata anche di una qualche misura la capienza, altri posti si saranno persi. Ma soprattutto, questo governo ha inventato 50 nuove fattispecie penali, dopo le quali il numero dei detenuti sarà ulteriormente aumentato. Il ministro ipotizza che si possano usare allo scopo dei moduli prefabbricati... Sono dei container a tutti gli effetti. Mi fanno venire in mente le casette costruite in fretta e furia in occasione di terremoti. Comportano costi spaventosi e si degradano in maniera molto rapida. Il terzo strumento è lo snellimento di procedure per la liberazione anticipata, per quei detenuti a cui mancano due anni di pena o hanno partecipato a programmi di recupero... La liberazione anticipata speciale è stata rifiutata incondizionatamente nella proposta di legge che recava come prima firma quella di Roberto Giachetti. C’erano state delle cautissime aperture da parte di Ignazio La Russa, ed altre, più decise e chiare, da parte del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Ebbene, sono state totalmente ignorate. Così come sono stati rifiutati a priori altri provvedimenti efficaci, come l’indulto, con la scusa che rappresenterebbero una ‘resa dello stato’. Mi permetto di ricordare al ministro che i provvedimenti di clemenza sono puntualmente previsti dalla nostra carta costituzionale. Non salva proprio nulla del piano proposto dal governo? Se devo cercare degli esili, esilissimi elementi positivi, allora sottolineo lo snellimento burocratico nelle procedure per la concessione della liberazione anticipata e l’aumento del numero delle telefonate consentite a ciascun detenuto. Il governo Meloni sembra alternare una visione garantista con una giustizialista, più in linea con il tradizionale orientamento della destra. Lei che giudizio dà? È un governo compattamente giustizialista. Lo si evince dal numero di nuovi reati introdotti. Le speranze che la nomina di Nordio avevano alimentato persino in me sono state non semplicemente deluse, ma umiliate. Poi ciascuno ci mette del suo, Del Mastro, ad esempio, aggiunge un suo peculiare tratto di malvagità politico-psicologica che è la cifra peculiare di quello che io chiamo lo statista di Gattinara. Ciambriello: “La politica pensa al consenso e non al senso” di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 24 luglio 2025 Il Garante della Campania: “Nessun provvedimento deflattivo”. “Nei provvedimenti governativi comunicati sul tema delle carceri, comunicati con enfasi dal Ministro, non c’è nulla di immediata applicazione, non c’è nessuna misura deflattiva centrata sul sovraffollamento. Disegni di legge che non sono risolutivi e qualcuno già in contraddizione con il decreto Carceri approvato il 7 agosto dell’anno scorso dove è stata anche modificata la liberazione anticipata che non viene data più ogni sei mesi. Insomma, lo Stato continua a non rispettare quanto stabilito dalla Costituzione. Quindi sono provvedimenti che congelano l’attuale situazione di emergenza sociale e delle carceri che sono sovraffollate”. Così Samuele Ciambriello garante campano delle persone private della libertà personale e portavoce della conferenza nazionale dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale. “Il Ministro non risponde all’emergenza sociale che è stata anche sollecitata. Anche sui 10 mila detenuti che devono scontare meno di un anno di carcere, rinvia ai magistrati la responsabilità di concedere le misure alternative. Infine, rispetto anche all’investimento di nuove carceri e moduli prefabbricati non dice niente sul personale e come migliorare il numero attuale del personale di polizia penitenziaria, psicologi, psichiatri ed educatori. Sul trasferimento in comunità terapeutiche per tossicodipendenti ricordo al ministro che questo fortunatamente già avviene ma l’anno scorso nel decreto del 7 agosto era già stato detto di inviare 350 detenuti in comunità terapeutiche. Fu deciso questo ma non ci fu nessun atto consequenziale a tale decisione e ci fu anche un parere contrario della corte dei conti rispetto al fatto che non erano stati messi i fondi di copertura per tale decisione. Insomma, il Governo congela, mette il silenziatore su questo tema e continua la deriva panpenalista. La Conferenza Nazionale dei Garanti di cui sono portavoce il giorno 30 luglio ha promosso manifestazioni in tutta Italia per sollecitare la politica tutta intera a non rimuore il carcere e anche per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del carcere. Bisogna fermare la strage di vite e di diritti nelle carceri Italiane! Noi siamo con il Presidente della Repubblica Mattarella che sul sovraffollamento e i suicidi ha detto: sono un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Don Grimaldi: “Non vedremo subito effetti del Piano carceri, ci sono ancora anni di sofferenza” di Gigliola Alfaro agensir.it, 24 luglio 2025 Per l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, ci sono le basi per migliorare la situazione negli istituti, anche rispetto al sovraffollamento, ma per ogni misura presentata ci sono diversi step da superare e la burocrazia da combattere. Un insieme di misure per provare a contrastare il fenomeno del sovraffollamento delle carceri, attraverso la realizzazione di nuove strutture e l’ampliamento di quelle esistenti, a rendere più rigorose e rapide le procedure di valutazione sulla liberazione anticipata e a offrire concrete possibilità di riabilitazione ai detenuti con dipendenza da stupefacenti o alcol: è quello che ha esaminato e approvato il Consiglio dei ministri, martedì 22 luglio. Delle misure, presentate anche in conferenza stampa dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e dal commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, che non daranno un sollievo immediato al problema del sovraffollamento come ha ammesso lo stesso Nordio - “La soluzione del sovraffollamento carcerario è una priorità, ma non può essere risolta con la bacchetta magica” - parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane. Don Raffaele, qual è la sua prima impressione sulle misure presentate? Ci sono le basi per poter lavorare per non tanto allo svuotamento delle carceri, ma per porre attenzione a coloro che potrebbero uscire. Il problema è che per dare attuazione concreta alle misure i tempi sono lunghi, quindi per il momento il sovraffollamento rimane, anche perché non ci saranno uscite immediate da parte di coloro che sulla carta potrebbero usufruirne. C’è anche tanta burocrazia e tutto questo non favorisce questa situazione incancrenita che stiamo vivendo adesso. Chiaramente, possiamo dire che tale situazione di sovraffollamento si è realizzata nel tempo, nel senso che non è che c’è stato un aumento soltanto in quest’ultimo periodo, ma in questi anni piano piano il fenomeno è cresciuto. Analizziamo le varie misure previste. Per quanto riguarda le disposizioni in materia di detenzione domiciliare dei detenuti con problemi di tossicodipendenza o di alcol dipendenza si va nella direzione giusta con queste disposizioni? Con questa disposizione c’è una grande apertura verso coloro che hanno questi problemi sia di tossicodipendenza sia con l’alcol, quindi certamente questa è una grande attenzione per far sì che tali detenuti che vivono una situazione particolare possano avere gli arresti domiciliari. Ricordo, comunque, che questi arresti domiciliari si otterrebbero presso le comunità terapeutiche accreditate che accoglieranno tali detenuti. Questa misura potrebbe aiutare tante persone ad uscire dal carcere, però sappiamo bene che per arrivare a tutto questo c’è un iter da seguire: gli stessi detenuti, che rispondono ai requisiti previsti dalla misura, devono fare la richiesta per poter accedere a questo tipo di beneficio, ma spesso molti di loro non sono neanche informati di quello che avviene nel pianeta carcere. Nel momento in cui fosse approvata la legge che disciplina tale misura, ci sarà la necessità di informare adeguatamente e dettagliatamente i detenuti. Tante volte, ribadisco, non fanno richieste perché non sono neanche a conoscenza dei benefici di cui potrebbero godere. Non dimentichiamo che in carcere c’è tanta povera gente che non ha una certa formazione culturale, ci sono anche tanti stranieri, che non conoscono bene la lingua né le nostre leggi e tanto meno conosceranno il decreto che c’è stato. Chi potrebbe aiutare a far conoscere questa misura, quando sarà effettiva? Volontari, cappellani, operatori penitenziari, educatori, assistenti sociali. Questa misura dovrà essere approvata attraverso una legge, quindi i tempi potrebbero essere anche lunghi… E ne beneficeranno, comunque, solo i tossicodipendenti e alcol dipendenti che hanno compito un reato legato proprio alla dipendenza. Questa è una grande difficoltà dell’approvazione delle misure presentate ieri, i tempi lunghi, intanto il sovraffollamento per il momento rimane. Secondo i dati citati dal ministro Nordio degli attuali 62.986 detenuti, il 31,93% ha una dipendenza da sostanze stupefacenti o alcoliche. Ricordo che molti dei tossicodipendenti hanno commesso reati minori, come scippi, furti, piccole rapine, violazioni di domicilio. Altri, che si sono macchiati di reati di pericolosità sociale, chiaramente rimarranno dentro. Il Cdm ha approvato anche, in esame preliminare, un provvedimento, da adottarsi con decreto del presidente della Repubblica, in materia di procedimento per la concessione della liberazione anticipata e di corrispondenza telefonica dei detenuti e degli internati... Questo provvedimento dovrebbe avere un iter più veloce, ma la questione è che il decreto, anche adottato, graverà sui magistrati di sorveglianza. E anche questo è un grosso problema, perché anche quando tutta la pratica sarà completa e passerà al magistrato di sorveglianza, ci vorrà ancora molto tempo perché ci sia un beneficio concreto in quanto il personale è poco e la mole di lavoro molta. Le condizioni per una detenzione domiciliare per molti tossicodipendenti potrebbero esserci, però poi, conti alla mano, si vede che tutto questo diventa un po’ difficile da attuare in poco tempo. Questo è il vulnus del provvedimento, perché i tempi non saranno brevi. Nelle misure approvate ieri c’è anche il recupero, attraverso interventi di edilizia penitenziaria, di 15mila posti detentivi nell’arco del triennio 2025-2027... Per contrastare il sovraffollamento si punta molto su questo, ma ci sono diversi interventi strutturali da considerare. Girando per le carceri vedo tanti reparti chiusi e che hanno bisogno di ristrutturazione. Nel frattempo si creano dei container per contrastare il sovraffollamento all’interno degli istituti. Un aspetto che mi preoccupa è che i container dovrebbero occupare spazi che sono vitali all’interno di un carcere per l’attività ricreativa, per l’attività culturale, per l’attività sportiva. Io mi auguro che questi container vengano messi in carceri dove c’è tanto spazio e che non vadano ad intaccare gli spazi vitali dei detenuti. Quando andrà a regime la misura, la costruzione e soprattutto anche la ristrutturazione dei reparti aiuteranno a contrastare il sovraffollamento. Attualmente in carcere ci sono oltre 62.000 persone e già non sono poche. E i posti concretamente disponibili 47mila. Voglio ricordare anche il grande l’input dato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a intervenire sulla questione carceri, durante l’udienza, a fine giugno, a una rappresentanza del Corpo di Polizia penitenziaria, in occasione del 208° anniversario della sua costituzione. In quell’occasione il capo dello Stato ha offerto una fotografia dei problemi che abbiamo all’interno dei nostri siti penitenziari e ha sollecitato a risolverli. Il ministro Nordio ha spiegato anche che le misure adottate non hanno previsto una liberazione anticipata, lineare e incondizionata, perché sarebbero un segnale di debolezza da parte dello Stato… Se penso all’indulto come nel passato, effettivamente tante persone sono uscite dal carcere ma dopo poco tempo sono ritornate dentro. Molti quando escono hanno bisogno di programmazione, soprattutto coloro che non hanno casa, non hanno attività, non hanno famiglie. Molte volte l’indulto mette fuori tanti detenuti che non sanno neanche dove andare. I cappellani fanno la loro parte, le associazioni fanno la loro parte, però non molto facilmente raggiungono tutti e quindi con provvedimenti aperti a tutti ci troveremmo, effettivamente, un immenso fiume di persone che escono dal carcere ma che non hanno punti di riferimento. E questo potrebbe portare a delinquere ancora e a riportarle in carcere in breve tempo. Un indulto certamente in questo momento potrebbe servire per evitare il sovraffollamento, e questa sarebbe una nota positiva, però il resto non va. Quei 300 internati e il limbo penale delle Case Lavoro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2025 L’internato non sta scontando una pena: ha già pagato il suo debito con la giustizia. Ma viene ritenuto pericoloso e per questo viene trattenuto in una delle strutture previste dalla legge. Tra i 43 suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno dietro le sbarre, ce n’è uno che merita particolare attenzione. È quello di un uomo di quarant’anni, morto il 6 luglio scorso nella Casa di lavoro di Vasto. Non un detenuto nel senso stretto del termine, ma un internato. La differenza non è di poco conto. Parliamo di una delle circa 300 persone in Italia che, pur avendo già scontato la loro pena, non hanno riacquistato la libertà. Usciti dalla condanna, entrano nel limbo dell’internamento: una misura di sicurezza detentiva, teoricamente pensata per contenere la cosiddetta “pericolosità sociale”, ma che nella pratica rischia di diventare una detenzione infinita, senza colpa e senza fine certa. L’internato, per definizione, non sta scontando una pena. Ha già pagato il suo debito con la giustizia. Ma viene ritenuto pericoloso - spesso sulla base di valutazioni discutibili e opache - e per questo viene trattenuto in una delle strutture previste dalla legge: le colonie agricole o le case di lavoro. Due sigle che evocano un passato di fascista memoria e che oggi, invece, continuano ad esistere nell’ordinamento penitenziario italiano, regolato dal vetusto articolo 215 del codice penale. Sulla carta, le colonie agricole e le case di lavoro dovrebbero garantire attività lavorative differenziate: nei campi, nel primo caso, o in contesti artigianali o industriali, nel secondo. In teoria, insomma, dovrebbero offrire un’occasione di reinserimento sociale. Ma la realtà è ben diversa. Le case di lavoro - come quella di Vasto - assomigliano in tutto e per tutto a normali sezioni carcerarie, solo che il reato è già stato “scontato”. E come nelle sezioni carcerarie ordinarie, il lavoro continua a latitare. In molte di queste strutture, le attività lavorative sono nulle o marginali, trasformando quello che dovrebbe essere uno strumento di rieducazione in un contenitore punitivo. Il paradosso è evidente: si continua a restare chiusi in cella, senza programmi, senza lavoro, senza prospettive. La misura di sicurezza si svuota del suo senso originario - prevenire, rieducare - e diventa pura afflizione, una detenzione travestita. In soldoni, si resta dentro per un’etichetta - “delinquente abituale, professionale o per tendenza” - che può bastare a prolungare l’internamento di sei mesi in sei mesi, fino a farlo diventare una prigione perpetua senza condanna. Una ricerca che scoperchia l’ossimoro - A mettere nero su bianco quello che in molti nel mondo penitenziario sospettano da anni, è stata la “Società della Ragione” con una ricerca approfondita sulle nove case di lavoro e colonie agricole ancora operative in Italia. Il lavoro, curato da Giulia Melani, Katia Poneti e Grazia Zuffa e sostenuto dalla Chiesa Valdese, è stato presentato lo scorso anno ad Alba, in un incontro pubblico promosso dal garante piemontese dei diritti dei detenuti, Bruno Mellano. Il titolo scelto per la pubblicazione, edita da Menabò, è già di per sé una presa di posizione: Un ossimoro da cancellare. Perché di questo si tratta. Un paradosso giuridico e istituzionale che resiste per inerzia, lontano dai riflettori. Il paradosso, o per meglio dire l’inganno, è tutto nel nome: “Casa di lavoro”. Un’etichetta che promette rieducazione attraverso l’impegno produttivo, e che invece cela un vuoto operativo e una stagnazione totale. A sentire i racconti degli stessi internati, il lavoro non solo è assente: è inesistente. Nulla, o quasi nulla, viene proposto. E allora quella che dovrebbe essere una misura alternativa alla detenzione si trasforma nell’ennesima cella, solo con un altro nome scritto sulla porta. Il dato ancora più inquietante che emerge dallo studio è che queste “case di lavoro” non sono altro che ex manicomi. A Barcellona Pozzo di Gotto e ad Aversa si trovano dentro i locali degli ex OPG, i vecchi manicomi giudiziari dismessi. La sola struttura “autonoma” è quella di Castelfranco Emilia, che però in passato era già un carcere a custodia attenuata. Nessun luogo nuovo, nessun approccio diverso. Solo un riciclo edilizio di spazi detentivi, buoni per ogni uso. Certo, proporre l’abolizione di queste misure in un clima politico agitato, dove le parole “sicurezza” e “certezza della pena” vengono usate come clava, può sembrare una battaglia persa. Ma le battaglie di civiltà spesso partono proprio da qui, da chi ha il coraggio di mettere in discussione l’abitudine all’ingiustizia. Come è stato possibile chiudere i manicomi giudiziari, può essere possibile fare lo stesso con questo residuo penale del positivismo ottocentesco. Una proposta di legge in questo senso c’è già. L’ha presentata alla Camera l’onorevole Riccardo Magi: è una proposta ragionata, non demagogica, che si muove dentro i binari dello Stato di diritto. Basta leggere il testo per capire che non si tratta di una fuga in avanti, ma del tentativo di riportare coerenza dove oggi regna l’arbitrio. Il 41 bis nella casa di lavoro - Chi termina di scontare la pena in regime di 41 bis può non tornare in libertà, ma restare internato in una casa di lavoro, sempre sottoposto alle stesse restrizioni del “carcere duro”. Una situazione paradossale, già finita all’attenzione della Corte costituzionale che, il 21 ottobre 2021, ha respinto le censure sollevate dalla Cassazione. Quest’ultima aveva accolto il ricorso presentato dagli avvocati Valerio Vianello Accorretti del Foro di Roma e Piera Farina del Foro de L’Aquila. I due legali agivano nell’interesse di un internato del carcere di Tolmezzo, dove è attiva anche una sezione di casa lavoro: l’uomo, dopo aver scontato una condanna in regime di 41 bis fino al 2016, era stato colpito da una misura di sicurezza e da allora continua a rimanere recluso con le stesse modalità, senza alcun cambiamento sostanziale. In pratica, il regime detentivo speciale vanifica qualunque obiettivo teorico della casa di lavoro, che per legge dovrebbe prevedere lo svolgimento di attività lavorative finalizzate al reinserimento. Ma - come scrivono gli avvocati nel ricorso - “essendo in 41 bis non possono trovare alcuno spazio, in quanto il detenuto - come previsto con precisione dall’ordinamento penitenziario - è costretto a restare chiuso nella camera detentiva per 21 o 22 ore al giorno”. Nel ricorso accolto dalla Cassazione, Vianello e Farina sottolineavano anche che un internato sottoposto al 41 bis è penalizzato rispetto agli altri: non può accedere ad alcune specifiche licenze previste dall’articolo 53 dell’ordinamento penitenziario, strumenti che fanno parte del trattamento e che servono, come scriveva già la Cassazione nel 1986, a garantire “sia pur sporadiche occasioni di primo contatto con l’ambiente esterno”. Ogni qualvolta sono state richieste, l’Ufficio di Sorveglianza le ha rigettate invocando il mantenimento del 41 bis. Per la Consulta, però, l’applicazione del carcere duro anche in ambito di misura di sicurezza è legittima. Gli internati restano esclusi sia dalla semilibertà sia dalle licenze sperimentali e non possono uscire dalla struttura. I giudici costituzionali hanno però aggiunto che, almeno sul piano interno, devono essere garantiti momenti di socialità e la possibilità di accedere ad attività lavorative. Dichiarazione che, vista la realtà concreta delle case di lavoro, suona più come una clausola di stile che come una reale garanzia. Giustizia, via alla sfida per il referendum. Meloni chiede i sondaggi di Giovanna Vitale La Repubblica, 24 luglio 2025 I sondaggi sono già stati commissionati. Incassato l’ok alla riforma della giustizia in seconda lettura, a Palazzo Chigi è partito il conto alla rovescia in vista del referendum che, annunciato dal Guardasigilli per la prossima primavera, dovrà confermare o bocciare la separazione delle carriere. In Parlamento il ddl Nordio non ha infatti raggiunto il quorum dei due terzi previsto dall’iter di revisione costituzionale che avrebbe evitato il ricorso alla consultazione popolare. Un appuntamento a cui Giorgia Meloni inizia a guardare con una certa apprensione. Per questo ha deciso di affidarsi agli istituti demoscopici: vuol capire cosa ne pensano gli italiani, provare a pronosticare l’esito di una battaglia che le opposizioni minacciano durissima, si vince o si perde per un solo voto, a prescindere dall’affluenza. Preoccupata di fare la fine di Matteo Renzi, che nel 2016 fu costretto a dimettersi dopo aver visto naufragare, proprio nelle urne, la sua proposta per superare il bicameralismo perfetto. Non è un caso che abbia già messo le mani avanti. Dichiarando che se il risultato dovesse essere negativo, lei non se ne andrà e neppure l’esecutivo subirà conseguenze. Ma il Pd non la pensa così. “Questa non è una riforma della giustizia, è il tentativo di delegittimare e assoggettare la magistratura al governo per indebolire la nostra democrazia”, ha tuonato ieri la segretaria Elly Schlein. Con il referendum, appunto. Mobilitando gli elettori per far prevalere il no. Grazie anche ai tanti comitati e associazioni che si stanno già attivando. Uno scontro che si preannuncia cruento. La maggioranza non ha difatti alcuna intenzione di mollare. Meno che mai a un passo dal veder coronato il sogno di Silvio Berlusconi. “Siamo tranquilli, il referendum è uno straordinario strumento di democrazia diretta”, sparge ottimismo Francesco Paolo Sisto, viceministro alla Giustizia. Il ministro Nordio intanto attacca Renzi, che ha criticato la riforma: “È persona di grande intelligenza che fa di tutto per nasconderla”. Ma alla Camera non risponde alle interrogazioni sulla vicenda Almasri, il torturatore libico sul quale pende un mandato della Corte penale internazionale e che l’Italia ha liberato. “Su Almasri dove io sono indagato e tenuto al segreto istruttorio di tutti gli atti, di cui non capisco come possano essere a conoscenza gli organi di stampa e su questo dovremo fare un chiarimento, ho già reso un’informativa”, dice, non escludendo però di riferire “più avanti”: “Almeno per rispetto al Tribunale dei ministri, aspettiamo le sue decisioni e la pubblicazione degli atti dopodiché sarà nostro compito aprire un dibatto parlamentare, se sarà necessario”. Nordio: ora le leggi su appelli e arresti cautelari di Francesco Bechis Il Messaggero, 24 luglio 2025 Atto primo: il piano carceri. Atto secondo: la riforma delle impugnazioni delle sentenze di assoluzione, poi la revisione della custodia cautelare. La giustizia torna ad essere un fronte politicamente caldissimo del del governo. Insieme alle tensioni fra governo e toghe che montano sullo sfondo. È il giorno della grande festa del centrodestra per il via libera al Senato della separazione delle carriere di giudici e pm. In una conferenza stampa fiume a margine del Consiglio dei ministri Carlo Nordio lancia il piano contro il sovraffollamento carcerario. Fino a quindicimila posti in più da qui al 2027 grazie alla costruzione di nuovi penitenziari da Roma a Milano e alla riqualificazione degli spazi all’interno degli istituti. E poi un disegno di legge, cesellato dal sottosegretario Alfredo Mantovano, per permettere ai tossicodipendenti in carcere di scontare la pena all’interno di comunità. Ecco la strategia del governo per mettere mano a un’emergenza umanitaria. Più di 62mila detenuti, a fronte di circa 47mila posti disponibili. Il tasso di suicidi che tocca vette preoccupanti, 51 dall’inizio dell’anno. “In passato si adeguavano i reati al numero dei posti disponibili nelle carceri. Noi riteniamo, viceversa, che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena”, spiega la premier Giorgia Meloni in un video celebrativo della riforma della giustizia registrato a Palazzo Chigi. “Finalmente, certezza della pena”. Guai a chiamarlo svuota-carceri. Parola tabù per la destra al governo che invece scommette sull’ampliamento delle strutture penitenziarie. “Una liberazione anticipata lineare e incondizionata suonerebbe come una debolezza dello Stato”, mette le mani avanti il ministro della Giustizia illustrando i nuovi provvedimenti, affiancato dal commissario straordinario all’edilizia penitenziaria Marco Doglio. Doppio il binario della riforma. Da un lato il piano per costruire nuovi edifici. Finanziato, fra l’altro, con un fondo ad hoc del ministero delle Infrastrutture di Matteo Salvini grazie alla messa sul mercato di vecchi istituti penitenziari (anche il Regina Coeli fra quelli attenzionati dal governo). Dall’altro la possibilità per i tossicodipendenti, condannati per reati collegati all’uso di stupefacenti, di scontare fuori la pena. Sono circa un terzo dei 62mila detenuti, “se anche solo una parte aderisse all’iniziativa avremmo una riduzione sensibile della popolazione carceraria, fino a 10mila persone” fa sapere Nordio. E Meloni rilancia: “Daremo la possibilità di espiare la pena fino al tetto di 8 anni di reclusione in regime di detenzione domiciliare all’interno di una comunità terapeutica e di iniziare in quella comunità un reale, concreto, verificabile percorso di recupero”. Altre 10mila attualmente a fine pena potrebbero accedere a misure alternative, ovviamente con il via libera dei magistrati di sorveglianza e solo in caso di buona condotta. A tarda sera Nordio entra nella cronaca battente. Come l’inchiesta su Milano: “Per carità, guai se Sala soltanto facesse prospettare l’idea delle dimissioni” premette per poi definire “una porcheria” la pubblicazione dell’avviso di garanzia sui giornali, “urge una revisione del segreto istruttorio”. È un fiume in piena il ministro ed ex pm di Venezia. È accaduto 30 anni fa a Berlusconi, è accaduto a Sala e nel frattempo è accaduto a centinaia di persone. Guai se l’iscrizione nel registro degli indagati facesse prospettare l’idea di dimissioni, altrimenti ci metteremmo nelle mani della magistratura”. E se sorvola sul caso Almasri, “sono indagato e non posso commentare”, non lesina durissime critiche, nel giorno della riforma osteggiata da buona parte della magistratura, alle toghe e a una parte del Csm. Trova “scandalosa” l’apertura di una pratica a difesa del magistrato Raffaele Piccirillo che ha criticato l’operato di Nordio sul caso Almasri. Ma frena sull’ipotesi di un’azione disciplinare contro il pm: “Sarebbe di pessimo gusto se partisse da me, che sono parte in causa”. In trincea le opposizioni. Riccardo Magi, segretario di Più Europa, prende di mira il piano carceri: “Solo Nordio può immaginare un piano per ridurre il sovraffollamento carcerario aumentando il sovraffollamento carcerario”. Una riforma contro il processo mediatico di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 luglio 2025 Scardinare gli ingranaggi che intossicano la giustizia provando a riportare il processo più vicino alle aule di un tribunale che ai talk-show. Conta la luna, non il dito. Perché la riforma Nordio è meglio dello status quo. O di qua o di là. La riforma della giustizia approvata martedì in prima lettura al Senato ha generato una moltitudine di commenti di segno uguale e contrario. E in un tripudio di tifoserie desiderose di affermare le proprie verità assolute attorno alla riforma - è la riforma del secolo, è la riforma che voleva Berlusconi, è il trionfo del garantismo, anzi no, è una riforma pericolosa, è una riforma eversiva, è una riforma che trasforma l’Italia in una repubblica delle banane - l’impressione è che in molti abbiano scelto di non mettere a fuoco quella che è la vera ciccia del passaggio politico di fronte al quale ci troviamo oggi. La ciccia corrisponde in realtà a un bivio di fronte al quale l’opinione pubblica e la politica tutta si ritrovano a dover ragionare ogni volta che la cronaca presenta motivi per scegliere da che parte stare. O di qua o di là. La grande divisione del mondo quando si parla di giustizia non è tra chi vuole indebolire la magistratura e rafforzare la politica e non è neppure tra chi vuole rafforzare la magistratura per indebolire la politica. La grande divisione del mondo quando si parla di giustizia è tra chi considera il processo mediatico un dramma del nostro paese su cui intervenire con forza e chi invece considera il processo mediatico una virtù del nostro paese da difendere a tutti i costi. La grande divisione del mondo quando si parla di giustizia non riguarda solo la scelta di considerare una riforma buona o meno buona ma riguarda la volontà di comprendere che in Italia la mancanza di equilibrio tra poteri dello stato, tra potere giudiziario e potere legislativo e potere esecutivo, dipende non solo da una magistratura che spesso fatica a celare i suoi tratti ideologici, ma soprattutto da una serie di ingranaggi che fa della pubblica accusa un potere con pochi contrappesi. Chi considera l’esondazione del processo mediatico un’oscenità, chi considera la presenza di una pubblica accusa irresponsabile un dramma, chi considera un problema per il paese l’assenza di meccanismi in grado di tutelare le garanzie di un indagato, chi considera una vergogna dello stato di diritto la presenza di un sistema giudiziario che trasforma con disinvoltura un sospetto in una prova, un indagato in un condannato, un teorema in una sentenza, dovrebbe ricordare, come dice il saggio, che il meglio è nemico del bene, che ciò che è necessario non è sempre sufficiente e che il modo peggiore possibile per disarticolare gli ingranaggi del processo mediatico è scegliere di non muoversi, di non fare niente e di assecondare lo status quo. La riforma Nordio, naturalmente, è più che perfettibile, ma il tentativo che porta avanti è quello di scardinare gli ingranaggi che hanno intossicato la giustizia italiana e che hanno permesso negli ultimi trent’anni di calpestare con disinvoltura i tre articoli della Costituzione che vengono maltrattati ogni volta che un magistrato accende il ventilatore della gogna e dà un suo contributo per rendere violabile in modo discrezionale l’inviolabilità e la segretezza delle comunicazioni infilando nella macchina dello sputtanamento anche comunicazioni penalmente irrilevanti (articolo 15), per considerare la presunzione di innocenza un orpello inutile della Costituzione (articolo 27) e per fare del giusto processo, dove in teoria dovrebbe esserci una parità tra accusa e difesa, un accessorio del nostro stato di diritto (articolo 111). Se la si osserva attraverso questa chiave di lettura, si capirà facilmente che avere una distinzione netta tra chi indaga e chi giudica (separazione delle carriere) permette di non assecondare più una suggestione diffusa e reale, ovvero che la magistratura non sia un blocco monolitico, che giudice e pm siano due cose diverse, e che offrire un quadro all’interno del quale un giudice è ancora più terzo di prima permette di riequilibrare in piccola parte lo squilibrio che esiste nel processo mediatico tra accusa e difesa. Se la si osserva attraverso questa chiave di lettura, si capirà facilmente che anche la volontà di introdurre un meccanismo elettorale di sorteggio temperato all’interno del Consiglio superiore della magistratura è finalizzata a sterilizzare uno degli elementi centrali del processo mediatico, ovvero lo strapotere delle correnti, e solo chi ha scelto di tapparsi gli occhi su ciò che è diventata la magistratura negli ultimi anni può fingere di non sapere quanto l’egemonia delle correnti nella magistratura e la diffusione incontrollata del processo mediatico siano due fenomeni simmetrici. Più un magistrato farà carriera grazie alle correnti e più quel magistrato avrà bisogno di farsi notare per quel che fa e non soltanto per quello che ottiene. E più un magistrato avrà bisogno di far parlare di sé, per scalare le correnti, più quel magistrato sarà portato a considerare il processo mediatico come un moltiplicatore delle proprie opportunità. La riforma Nordio non è la migliore del mondo, lo sappiamo, i difetti sono tanti, e uno dei difetti principali è probabilmente la presenza di due Csm, che rischia di rendere il pubblico ministero ancora più protagonista, ancora più super accusatore, rispetto a come lo è oggi. Ma una riforma che cerca di ristabilire un equilibrio tra accusa e difesa, che cerca di depotenziare le correnti, che cerca di rendere più terza la figura del giudice, che cerca di riportare per quanto possibile i processi più lontani dai talk-show e più vicini alle aule del tribunale, è una riforma che può considerare pericolosa solo chi ha scelto pericolosamente di considerare il processo mediatico non come un vizio ma come una virtù del nostro paese. O di qua o di là. Noi abbiamo scelto da che parte stare. Contro la gogna. Contro la barbarie. Contro l’eversione. Contro la proliferazione di una repubblica fondata sulle costanti esondazioni dei pm e sulla sistematica demonizzazione della difesa. O di qua o di là. Scegliere da che parte stare non dovrebbe essere così difficile. Femminicidi, passa all’unanimità la legge tra i dubbi dei giuristi di Luciana Cimino Il Manifesto, 24 luglio 2025 Via libera al Senato al testo che introduce l’ergastolo per chi uccide una donna. L’opposizione vota sì ma critica: “Cultura da cambiare”. Un altro decreto spot approvato con il giubilo della destra e, per una volta, anche dal centrosinistra, seppure con toni diversi. Il Senato ieri ha votato all’unanimità il dl Femminicidio (che prevede l’ergastolo per chi uccide una donna), adesso il testo dovrà passare all’altro ramo del parlamento per l’approvazione definitiva. Ma tanto basta alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per dichiarare “particolare soddisfazione” per il via libera: “L’Italia è tra le prime nazioni a percorrere questa strada, siamo convinti possa contribuire a combattere una piaga intollerabile”. Anche se a ben guardare non si tratta di un vero primato: diversi paesi del Sud America hanno una legislazione simile da tempo ma non ci sono stati effetti sulla deterrenza. Segue a ruota nell’esultanza Ignazio La Russa che parla di “risultato di grande valore che dimostra come su temi fondamentali le istituzioni sappiano andare oltre l’appartenenza politica”. Il testo approvato ieri è effettivamente il prodotto di una mediazione tra i gruppi in commissione. La bozza circolata a marzo, sulla scorta di presunte emergenze introdotte dalla cronaca, era stata ritenuta da diversi giuristi molto fumosa e problematica ed stata quindi modificata nella parte iniziale, resa più stringente nell’indicare la fattispecie di reato. È stato quindi introdotto un passaggio sul rifiuto da parte della donna (o chi si sente tale) a “stabilire o mantenere una relazione affettiva” o a voler “subire una condizione di soggezione o comunque una limitazione delle sue libertà individuali”. L’articolo 577 bis da introdurre nel codice penale, così come da formulazione, punisce con la massima pena chiunque provochi la morte di una donna, attraverso “atti di discriminazione o di odio verso la vittima in quanto donna, ovvero qualora il fatto di reato sia volto a reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità della donna”. Previste anche aggravanti per i maltrattamenti in famiglia, le lesioni e lo stalking e uno stanziamento di 10 milioni di euro per gli orfani di femminicidio. “Auspico che ci sia una corretta e rigorosa applicazione delle nuove misure”, ha commentato la leghista Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia, probabilmente per mestiere (è avvocata anche in casi di stupro) più consapevole dei colleghi del reale portato della legge, al di là dei proclami del governo. A maggio scorso ben 80 giuriste italiane avevano consegnato un appello al governo che smontava l’impostazione del dl, anche perché il codice penale in uso prevede già aggravanti per i delitti di genere, come dimostrano anche i casi di Filippo Turetta e Alessandro Impagniatiello, entrambi condannati all’ergastolo per l’assassinio di Giulia Cecchettin e Giulia Tramontano. “È un femminismo punitivo - aveva spiegato allora al manifesto Valeria Torre, docente di diritto penale all’Università di Foggia - non si può pensare che il diritto penale contrasti una cultura che è legittimata in quasi tutte le relazioni uomo-donna in una società basata sulla disuguaglianza di genere”. Anche l’Associazione nazionale magistrati aveva sottolineato le difficoltà insite nell’ “indeterminatezza del reato”, mentre i centri antiviolenza manifestano preoccupazione sulle possibili conseguenze, per le vittime, di una cattiva interpretazione della legge da parte di operatori della giustizia non adeguatamente formati. “Non ci aspettiamo un calo dei femminicidio, perché - avevano dichiarato dalla rete Dire - non è con pene più severe che si afferma il diritto delle donne di vivere libera dalla violenza, cambiare rotta significa riconoscere investimenti economici adeguati a cambiare la cultura di un paese”. Il voto favorevole dell’opposizione non è esente da critiche: Pd, Avs e M5s hanno denunciato l’assenza di investimenti sulla prevenzione e la diffidenza del governo verso forme di educazione affettiva e sessuale. “Il confronto vero ha dato dei risultati - ha commentato la segretaria del Pd Elly Schlein, che qualche mese fa aveva lanciato un appello a Meloni per collaborare su questo aspetto - ora però bisogna rilanciare, perché l’introduzione del reato non sarà sufficiente ad affrontare il fenomeno, la repressione non basta, serve la prevenzione”. Ddl femminicidio, sì unanime del Senato al reato punito con l’ergastolo di Davide Vari Il Dubbio, 24 luglio 2025 Una via libera diverso dagli altri, accolto con l’applauso bipartisan di tutta l’Aula del Senato. Che con 161 voti favorevoli ha approvato all’unanimità il dl sul femminicidio. Il testo passa ora alla Camera per l’approvazione definitiva. “Sono estremamente lieto di questo risultato che testimonia come sui temi importanti il Senato sappia esprimersi senza distinzioni di appartenenza. Grazie a tutti i senatori e le senatrici”, ha commentato il presidente del Senato, Ignazio La Russa. “Accolgo con particolare soddisfazione l’approvazione all’unanimità, in Senato, del disegno di legge di iniziativa governativa che punta ad introdurre il delitto di femminicidio come reato autonomo nel nostro ordinamento. L’Italia è tra le prime Nazioni a percorrere questa strada, che siamo convinti possa contribuire a combattere una piaga intollerabile. Ringrazio tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, per aver sostenuto compattamente questa proposta e per aver contribuito a migliorarla. Ora il testo passa alla Camera e mi auguro che l’iter possa concludersi rapidamente”, è il messaggio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Con il provvedimento composto da 14 articoli, si aggiunge il nuovo articolo 577-bis al codice penale introducendo il reato autonomo di femminicidio. La legge reca una fattispecie specifica di omicidio, volta a sanzionare con la pena dell’ergastolo chiunque cagioni la morte di una donna, commettendo il fatto con atti di discriminazione o di odio verso la vittima in quanto donna, ovvero qualora il fatto di reato sia volto a reprimere l’esercizio dei diritti, delle libertà ovvero della personalità della donna. La norma è stata riformulata in Commissione a palazzo Madama per garantirne chiarezza e tassatività, rispondendo a critiche emerse durante le audizioni. Il ddl rafforza le aggravanti nei casi di violenza domestica, sessuale o persecutoria e introduce numerose tutele processuali e penitenziarie per le vittime e i familiari, compresa la confisca obbligatoria dei beni, l’obbligo di ascolto rapido della persona offesa e la possibilità per i minori vittime di accedere autonomamente ai centri antiviolenza. Il reato di femminicidio risulta integrato “anche quando la condotta omicidiaria è commessa in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali”. E il ddl prevede la deroga al tetto dei 45 giorni sulle intercettazioni per i più gravi reati di violenza contro le donne. Infine, è previsto un investimento in formazione per magistrati, sanitari e operatori, un aggiornamento dei criteri per l’accesso ai benefici penitenziari e misure economiche a tutela degli orfani. “Un intervento di grande importanza perché viene finalmente riconosciuta la gravità della condotta di chi uccide una donna come atto di odio o discriminazione. È una presa di posizione nuova e forte contro chi considera le donne esseri inferiori. La Lega da anni è in prima linea nella battaglia contro la violenza sulle donne e ancora una volta ha dato un contributo essenziale a questo provvedimento. Naturalmente, auspico che ci sia una corretta e rigorosa applicazione delle nuove misure”, ha detto la senatrice della Lega Giulia Bongiorno, presidente della commissione Giustizia al Senato e relatore del ddl Femminicidio. Per Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, “oggi il Senato, dopo un lavoro approfondito in commissione Giustizia, ha scritto una pagina importante nella lotta alla violenza contro le donne, e sono felice che lo abbia fatto all’unanimità. Tipizzare il reato di femminicidio non significa certo usare sociologicamente il diritto penale o creare una classifica di gravità degli omicidi in base al genere della persona uccisa. Significa riconoscere la specificità di un fenomeno e dunque prevenirlo e creare le condizioni per contrastarlo con più efficacia, tanto sul piano operativo e della formazione, quanto sul piano culturale. Sapere con cosa abbiamo a che fare è un passo fondamentale per combattere questa piaga”. “L’approvazione unanime nell’aula del Senato del disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio costituisce una bella pagina nella storia di questa legislatura e della politica italiana in generale. Un provvedimento fortemente voluto dal governo Meloni e che, come ha confermato un recente sondaggio, è tra le norme più attese dalla maggioranza degli italiani. Giunta al termine del mio lavoro di relatrice del provvedimento, insieme alla Presidente Bongiorno, in Commissione Giustizia e in Aula, voglio ringraziare tutti i colleghi che hanno contribuito in modo costruttivo e efficace al dibattito e in particolare la presidente Giulia Bongiorno che ha coordinato i lavori favorendo la sintesi tra le diverse sensibilità politiche. Credo che sulla violenza contro le donne la politica non debba dividersi. Auspico che l’iter alla Camera prosegua in maniera altrettanto rapida e condivisa, così da consegnare all’Italia una legge che ci pone all’avanguardia in Europa”, dichiara Susanna Donatella Campione, senatrice di Fratelli d’Italia e relatrice in aula sul ddl Femminicidio. “Noi oggi scriviamo, tutti insieme e non era scontato, un pezzo di storia nel percorso di emancipazione e di libertà delle donne, un pezzo di storia che segna il diritto e rappresenta un punto di non ritorno nel progresso storico dell’ordinamento giuridico italiano e non solo. Il reato di femminicidio non sarà risolutivo e non farà da deterrente, ma è un salto di qualità nominare il femminicidio nel codice penale, riconoscere ciò che accade alle donne per mano di uomini ancora mossi da una cultura patriarcale ha un valore simbolico, nominare le cose significa farle vivere. Si opera un salto di qualità: cade la pretesa neutralità del codice penale e si comincia a sessuarlo. E’ un salto di qualità perché quella presunta neutralità in realtà legittima un sistema declinato al maschile che discrimina le donne. Le donne per il codice penale sono invisibili, oggi lo sono un po’ meno. Si riconosce che le donne vengono uccise dagli uomini per dominio, potere, controllo, sopraffazione, a seguito di un rifiuto, per negare libertà e scelte di autodeterminazione. E nessuno potrà più dire, per confondere le acque, che la violenza degli uomini sulle donne e quella presunta delle donne sugli uomini sono sullo stesso piano. Il maschicidio non esiste, il femminicidio sì e va cancellato e ovviamente la via maestra rimane la prevenzione, attraverso la formazione degli operatori della giustizia e l’educazione al rispetto e all’affettività”, dice la senatrice del Pd Valeria Valente, componente della Bicamerale femminicidio e del Consiglio di presidenza del Senato. “Il nuovo articolo 577 bis, una volta approvato definitivamente con il voto della Camera, sarà un importante strumento deterrente per i violenti perché il messaggio che deve passare è quello del ‘fine pena mai’, sempre e comunque, per chi uccide una donna”, dichiara Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali. “Abbiamo votato in Senato a favore del disegno di legge femminicidio insieme a tutte le altre forze politiche per istituire il reato che riconosce questo tipo di violenza e lo punisce intervenendo in maniera specifica. L’errore sarebbe però fermarsi qui. Perché le leggi da sole non riescono a modificare sempre e immediatamente i comportamenti umani. La violenza sulle donne è infatti un qualcosa di molto più complesso. Nasce dalla confusione tra amore e dominio e dalla posizione subordinata e dunque dipendente che la donna continua ad avere, al di là della legge, nella realtà della nostra società”, scrive su Facebook il segretario di Azione, Carlo Calenda. Il suicidio della politica: senza l’abuso d’ufficio il pm “usa” reati più gravi di Giulia Merlo Il Domani, 24 luglio 2025 Nell’inchiesta milanese e in quella su Ricci i giudici ipotizzano la corruzione. Serve una legge sul conflitto d’interessi che indirizzi sia i politici sia le procure. Leggendo gli atti, ormai pubblici, dell’inchiesta di Milano, una parola viene ripetuta e grassettata dalla procura: conflitto di interessi. Il concetto è sia giuridico sia politico, anche se non è di moda né in un settore né nell’altro. Nel primo caso perché una norma che ne definisca i contorni criminosi non c’è, nel secondo perché l’interprete che lo ha incarnato in modo più appariscente è uscito di scena. Secondo i pm è in conflitto di interessi l’ex presidente della commissione per il Paesaggio, Giuseppe Marinoni, che avrebbe agito come “procacciatore di affari” coinvolgendo grandi imprese nei progetti di rigenerazione urbana. Lo è anche l’ex componente della commissione e architetto, Alessandro Scandurra, che insieme ad altri avrebbero ricevuto incarichi di progettazione o consulenze da parte degli stessi costruttori i cui progetti poi passavano al vaglio della commissione. Infine l’ex assessore Giancarlo Tancredi sarebbe indirettamente in conflitto per non aver denunciato una situazione di Marinoni, permettendo di perpetrare il presunto sistema illecito che avrebbe garantito ai privati vantaggi sperequati rispetto all’interesse pubblico. La questione è se queste condotte possano considerarsi reato: no, secondo gli interessati. Le consulenze sono state correttamente dichiarate e non è finora emersa correlazione evidente con le decisioni assunte dalla commissione, inoltre la rigenerazione urbana di Milano è diventata modello, anche se modello escludente in base al censo. Al netto degli esiti giudiziari di un’inchiesta dai contorni ancora fumosi, però, esiste un problema innegabile di opportunità nel meccanismo per il quale un membro di commissione percepisca consulenze da chi poi da quella commissione viene giudicato. Su questo - più che sul lavoro indipendente (ancora, per ora) della procura - la politica dovrebbe interrogarsi. A oggi una disciplina compiuta sul conflitto di interessi non esiste. Il concetto è diluito in alcune fattispecie di reato e l’ultimo intervento che si ricordi è quello della legge Frattini del 2004, che riguarda solo i membri del governo nazionale e regionale, molto contestata perché ha come requisito necessario il concetto più che astratto di “danno per l’interesse pubblico”, difficilissimo da dimostrare in concreto. Questo è l’aspetto della vicenda milanese che più dovrebbe interessare la politica: un interrogativo obbligato per chi s’indigna - anche con qualche ragione - sulle commistioni in commissione Paesaggio o per chi reclama, come fatto dal centrodestra, le dimissioni del sindaco Beppe Sala non per ragioni giudiziarie ma di malagestione della città. Negli anni sono state avanzate proposte: un regime più ampio delle incompatibilità in caso di titolarità di alcune attività economiche o professionali che possano beneficiare delle decisioni politiche; maggiori obblighi di trasparenza e di dichiarazione di patrimoni, cariche ricoperte e consulenze ricevute; la creazione di organi di controllo indipendente e la limitazione di attività professionali contemporanee ai settori connessi con le funzioni ricoperte. Vale la pena ricordare, invece, che l’unica iniziativa intrapresa dal governo è stata quella di cancellare l’abuso d’ufficio, ovvero l’unico articolo del codice penale che puniva alcune forme dirette di conflitto d’interessi. Proprio in relazione a questo emerge un secondo aspetto. Ampiamente annunciato per altro, e in tempi non sospetti, dalla più inattesa delle voci: quella dell’avvocata e presidente leghista della commissione Giustizia al Senato, Giulia Bongiorno. Lei - che di diritto e processi se ne intende - quando è stato abrogato l’abuso d’ufficio aveva avvertito che serviva colmare i vuoti lasciati per “evitare erronee interpretazioni estensive di altri reati che potrebbero emergere dopo l’abrogazione”. Ovvero, la corruzione. È il caso dell’ex assessore Tancredi, ma anche dell’ex sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, anche lui recentemente indagato per corruzione, pur senza che la procura abbia chiarito la contropartita dell’accordo corruttivo, che è elemento essenziale del reato. Se l’abuso d’ufficio esistesse ancora, forse questa sarebbe stata la corretta ipotesi: l’abuso di potere che danneggia o favorisce qualcuno in modo illecito. Eppure, si sa, cancellare è molto più facile che fare un lavoro di revisione sistematico, come quello richiesto da Bongiorno. Ecco allora che, se la politica volesse ristabilire il proprio primato davanti a questa nuova inchiesta, una strada c’è. Non quella di chiedere dimissioni per fatti ancora non chiariti, ma di colmare i vuoti dell’ordinamento sulla base delle affermazioni indignate che da più parti si sono ascoltate. Non dovrebbe essere difficile vista la solerzia con cui il governo Meloni ha introdotto nuovi reati, soprattutto di piccola criminalità di strada più che di colletti bianchi. Dopo averlo fatto con gli ultimi della società, coerenza vorrebbe che lo stesso tintinnar di manette si faccia risuonare anche nelle orecchie dei primi. Caso Piccirillo, caos in Csm: Aventino dei laici di destra di Simona Musco Il Dubbio, 24 luglio 2025 La pratica a tutela del magistrato Raffaele Piccirillo sarebbe un tentativo di polemizzare con il governo proprio dopo il voto in Senato sulla separazione delle carriere. Ed è per questo che i consiglieri di centrodestra hanno bloccato i lavori del Csm, col rischio di costringere il vicepresidente Fabio Pinelli a sciogliere il Consiglio. Il muro contro muro è andato in scena dopo la pausa pranzo, quando il plenum si è trovato davanti la pratica sul sostituto procuratore generale in Cassazione, per il quale il ministro Carlo Nordio aveva evocato un possibile procedimento disciplinare dopo le critiche espresse dalla toga sulla gestione del caso Almasri da parte del ministero. La pratica era stata richiesta da tutti i togati - tranne Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra e Maria Vittoria Marchianò, tutte di Magistratura indipendente - e dai laici Roberto Romboli, Michele Papa e Ernesto Carbone. Al rientro in aula, i laici Enrico Aimi, Isabella Bertolini, Daniela Bianchini, Claudia Eccher e Felice Giuffrè hanno letto un documento, per poi abbandonare la seduta, “prerogativa democratica di dialettica assembleare”. Il nocciolo della questione è la velocità dell’iter, estrema, secondo i consiglieri, “di cui a memoria non si ricordano precedenti”: la richiesta è infatti arrivata nel tardo pomeriggio di venerdì e al termine di una riunione straordinaria del Comitato di presidenza del 21 luglio è stata subito inviata in Prima commissione, che “con una “turbo istruttoria”, in poche ore la votava e nella giornata di ieri veniva subito inserita nell’ordine del giorno aggiunto del plenum”. Un iter sospetto, secondo i laici, anche se questo Consiglio, in tempi recenti, si è ritrovato più volte ad affrontare con celerità pratiche a tutela a seguito di uscite della maggioranza su provvedimenti della magistratura. “Tutto è avvenuto senza alcun rispetto dell’ordine cronologico di trattazione di pratiche analoghe e delicate”, hanno sottolineato i laici, secondo cui il vero scopo era “polemizzare così con il Guardasigilli”. La scelta riguarda la volontà, affermano, di non trascinare il Csm “in un conflitto istituzionale che non si addice alla funzione di garanzia che la Costituzione gli affida, con il rischio di trasformare l’Organo di governo autonomo in un improprio palcoscenico di confronto politico. Il Csm, come abbiamo più volte ricordato, non è la succursale dell’Associazione nazionale magistrati”. Dissenso, dunque, sul “metodo” per “tutelare il ruolo ed il prestigio del Csm” da un presunto tentativo di “strumentalizzare le parole del ministro per manifestare il loro dissenso alla riforma della giustizia”. Anche perché le esternazioni di Nordio - secondo cui “in qualsiasi Paese al mondo avrebbero chiamato gli infermieri” per Piccirillo dopo le sue affermazioni -, sarebbero “valutazioni personali”, delle quali si sarebbe anche potuto discutere, ma che “rientrano a nostro avviso nell’ambito del legittimo dibattito politico e nel libero esercizio del diritto costituzionale di manifestazione del pensiero”. Per i firmatari della richiesta di pratica a tutela, invece, “tali affermazioni, per contenuto e per contesto, eccedono i limiti del legittimo dibattito politico e istituzionale e risultano gravemente lesive dell’autonomia della giurisdizione e della sua immagine presso l’opinione pubblica”. Tanto che lo stesso Nordio ha annunciato “iniziative disciplinari” nei confronti di Piccirillo, nonostante si trattasse di “considerazioni tecniche e misurate” nell’ambito di un’intervista. Le parole di Nordio, dunque, avrebbero come scopo, a dire dei firmatari, quello di “condizionare il diritto di manifestare il proprio pensiero da parte di un magistrato, insinuando un’incompatibilità assoluta tra libertà di parola e l’appartenenza all’ordine giudiziario”. Un approccio che “contraddice la previsione dell’articolo 21 della Costituzione”. Ma niente da fare: “È assai singolare che la difesa del Csm, in un momento così delicato nel rapporto tra Istituzioni, debba essere assunta dai consiglieri laici eletti dal Parlamento e non anche dalla totalità dei togati”, hanno sottolineato i laici. Che si sono detti disponibili a trattare il resto degli argomenti in discussione, ma non la pratica su Piccirillo, facendo dunque mancare il numero legale. Da qui il caos: dopo l’annuncio, un furente vicepresidente Fabio Pinelli ha sospeso la seduta, rinviandola a domani, dopo una breve pausa. E a margine del plenum, stando ai rumors, avrebbe anche evocato la possibilità di sciogliere il Consiglio, scelta che produrrebbe un effetto del tutto sgradito alla maggioranza di governo: una nuova elezione con le regole pre-separazione delle carriere e, dunque, con un unico Consiglio per i prossimi quattro anni, al posto dei due previsti dalla riforma. A incoraggiare i consiglieri di centrodestra è il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri. “Plaudo all’iniziativa dei consiglieri laici”, ha dichiarato, che avrebbero difeso “la dignità di un organo che fa di tutto per esporsi alla pubblica critica”. A dare manforte anche Pietro Pittalis, deputato di FI, che ha parlato di “una scelta politica lucida e responsabile. Non si può accettare che il Csm venga utilizzato per alimentare uno scontro con il governo a poche ore dall’approvazione della riforma della giustizia”. Ma la situazione potrebbe evolversi nel giro di poche ore: in previsione di una nuova diserzione - con conseguente assenza del numero legale - tutte le pratiche verrebbero rinviate a settembre, fino ad una possibile paralisi del Csm. L’aria a Palazzo Bachelet è tesa. E tra le stanze di Piazza Indipendenza si vocifera di una possibile interlocuzione del Presidente della Repubblica con i massimi livelli politici del governo per convincere i “ribelli” a tornare in aula. Csm, lo scontro tra politica e toghe ora arriva alle istituzioni (e rischia di coinvolgere il Quirinale) di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 luglio 2025 La mediazione del vicepresidente Pinelli per evitare la paralisi innescata dalle mosse dei membri laici di centrodestra del Csm. Forse si sono mossi consapevoli della potenziale “bomba” che stavano innescando, o forse no. In ogni caso, anche se qualcuno gliel’ha spiegato dopo, lo scontro avviato al Consiglio superiore della magistratura dai laici di centrodestra rischia di avere conseguenze molto più gravi delle abituali scaramucce tra la pattuglia filogovernativa nel Csm e le toghe. Che in maniera indiretta (ma non troppo) coinvolge anche il Quirinale, giacché il capo dello Stato è anche presidente dell’organo di autogoverno e in quella veste approva gli ordini del giorno del plenum. Compreso quello contestato e boicottato dai consiglieri scelti da Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega, per via di una pratica a tutela approdata al voto “con un iter incredibilmente rapido di cui non si ricordano precedenti”, dal contenuto “esclusivamente politico che non giova al prestigio e alla credibilità del Consiglio”, e contestata perché “è difficile non pensare” che sia la reazione scomposta all’approvazione della riforma della magistratura appena approvata dal Senato. Lettura tutta politica di un atto avallato dal presidente della Repubblica, che rischia di paralizzare i lavori del Consiglio. Senza procedere all’esame dell’ordine del giorno di ieri, infatti, qualunque sia l’esito, non si può passare oltre, per esempio ai provvedimenti per raggiungere gli obiettivi fissati dal Pnrr. I lavori si bloccano, come s’è visto ieri, allorché per due volte il vicepresidente Fabio Pinelli ha constatato l’assenza del numero legale e sospeso la seduta. Riconvocandola per stamane, quando si vedrà il risultato dei tentativi di mediazione da parte di Pinelli. La chiusura estiva è alle porte, per la prossima settimana è già fissato un altro plenum, poi si andrà a settembre. L’impossibilità di funzionare è l’unico motivo per decretare lo scioglimento del Csm, con l’indizione di nuove elezioni; che però si svolgerebbero con l’attuale sistema di voto, uno dei “guasti” a cui governo e maggioranza dicono di voler mettere fine con la riforma che stanno approvando a tappe forzate, ma prima di un anno non sarà possibile. Difficile immaginare che l’approdo in seno al Consiglio dello scontro tra i magistrati e il loro ex collega Carlo Nordio, divenuto ministro della Giustizia, arrivi fino a questo punto. Sebbene lo stop imposto dai laici vicini alla maggioranza di governo sia stato in qualche modo invocato dallo stesso Guardasigilli, quando l’altra sera è tornato sulle accuse al sostituto procuratore generale della Cassazione Raffaele Piccirillo per le opinioni espresse sul caso Almasri: “Quello che ho trovato ancora più scandaloso è che sia stato difeso da alcuni magistrati suoi colleghi, e peggio mi sento che il Csm abbia aperto una pratica a sua tutela”. E pensare che stavolta la “pratica” non dispiaceva nemmeno al vicepresidente Pinelli, di estrazione leghista e sempre attento alle ragioni della maggioranza politica, solitamente scettico sull’utilizzo di questo strumento. Perché oltre a difendere il diritto di parola di Piccirillo (che secondo Nordio avrebbe violato le regole dell’ordinamento “esprimendosi su un processo in corso”, pur trattandosi di un’analisi giuridica di quanto accaduto nella vicenda Almasri senza entrare nel merito degli eventuali reati per cui il Guardasigilli e altri membri del governo sono sotto inchiesta al tribunale dei ministri) il documento - proposto da tutti i togati, tranne tre di Magistratura indipendente, e dai laici espressi da Pd, M5S e Italia viva - intende salvaguardare anche il lavoro e l’immagine della Sezione disciplinare. A Nordio che accusa il “tribunale delle toghe” di decisioni pilotate secondo le appartenenze degli incolpati a questa o quella corrente, i consiglieri hanno risposto che “l’allusione a una giurisdizione controllata da logiche correntizie e incapace di garantire imparzialità, non è fondata su alcun dato oggettivo, e si risolve in una gratuita e pregiudiziale denigrazione che mina la credibilità di una funzione prevista dalla Costituzione, e alla quale partecipano attivamente anche i membri del Csm eletti dal Parlamento”. Replica sulla falsariga di quella di Pinelli a Nordio della scorsa settimana, rispettosa nella forma ma decisa nella sostanza: ogni decisione, ribatté al Guardasigilli, è basata sulla “analisi rigorosa degli atti e sull’applicazione dei principi di diritto, senza alcuna influenza dell’eventuale appartenenza a gruppi associativi o a presunte camere di compensazione a cui allude il ministro”. Una sponda importante per il documento con cui il Csm vuole tutelarsi stigmatizzando “la gravità delle affermazioni rese dal ministro della Giustizia, per il loro potenziale impatto sulla fiducia dei cittadini nella funzione giudiziaria”, ritenute “idonee a condizionare il sereno e indipendente esercizio della giurisdizione”. Di qui “il richiamo al rispetto dei principi di autonomia, indipendenza e leale collaborazione tra i poteri dello Stato”. Boicottaggio del lavori permettendo. “L’indipendenza dei magistrati è salva. Ma sui due Csm qualcosa si rischia” di Valentina Stella Il Dubbio, 24 luglio 2025 Carriere separate, parla il professore Giorgio Spangher: “Con la riforma avremo un giudice più forte e in una posizione di terzietà e imparzialità rispetto al pm e anche all’avvocato”. Approvata due giorni fa in Senato la riforma costituzionale della separazione delle carriere. Ne parliamo con il professore Giorgio Spangher, emerito di procedura penale alla Sapienza di Roma e già membro laico del Csm Partiamo dal metodo: le opposizioni criticano il fatto che per la prima volta si approva una riforma costituzionale senza far passare neanche un emendamento delle opposizioni... È cambiato il rapporto fra Governo e Parlamento. La maggioranza tende a realizzare il proprio programma elettorale e la riforma era nel programma elettorale. È chiaro che in questi termini l’idea di concordare con l’opposizione determinate modifiche non sta più nel sistema, che era il vecchio sistema consociativo. Peraltro il tema della separazione delle carriere non nasce improvviso. È una storia che si trascina da tempo. Ci sono state iniziative parlamentari, c’è stata una raccolta di firme dell’Ucpi, il governo ha presentato il proprio disegno di legge di modifica costituzionale, quindi c’è stato tutto il tempo per, come dire, raccogliere le eventuali riserve delle opposizioni così come pure dell’Anm. Sono state ascoltate ma si è ritenuto di non condividerle. È una questione di opportunità politica ma anche di attuale sistema in cui non ci sono gruppi di opposizione che intendono anche entrare in maggioranza. E quest’ultima, sostenendo un governo di coalizione e non uno di compromesso come il precedente, non ha la necessità di appoggi esterni. In questo senso il Governo propone e il Parlamento ratifica. I detrattori della riforma aggiungono anche che non migliora la giustizia in termini di efficienza, come da ammissione dello stesso Nordio. E allora è solo una rivincita della politica sulla magistratura? Non è una rivincita della politica sulla magistratura né una questione di efficienza. Si adegua semplicemente il modello costituzionale della magistratura con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale impostato in termini assolutamente diversi rispetto a quelli inquisitori e ancor più con la modifica costituzionale, l’art. 111 Cost del giusto processo. Dal 1948 ad oggi questa materia non è stata toccata da modifiche costituzionali e quindi ciò significa che la materia del CSM, con tutto ciò che questo comporta, ha rappresentato un punto fermo nella struttura ordinamentale dell’impianto costituzionale italiano. Tale elemento non modificato dal 1948 ad oggi, proprio perché è rimasto invariato, ha costituito un pilastro del sistema giudiziario e costituzionale del nostro Paese. Il fatto di essere rimasto immodificato ha rappresentato un elemento però significativo perché intorno a questa struttura ordinamentale si è costituito uno schema di potere, il potere della magistratura. Che pensa del fatto che soprattutto da parte del M5S si siano sventolati cartelli con su scritto “non nel loro nome (Falcone e Borsellino)” ma “nel nome di Licio Gelli e Silvio Berlusconi”? La questione è molto più complessa dello sventolare figurine. Il M5S usa l’immagine di eroi contro presunti reprobi. Ma sono solo immagini per colpire l’opinione pubblica. Ma Falcone era a favore o contrario? Ognuno lo usa a suo piacimento nella dialettica politica. Personalmente credo che non avesse contrarietà alla riforma. L’Anm ripete: la riforma mette a rischio l’indipendenza della magistratura. Veramente sarà così? Non è così. Nella riforma è scritto chiaramente che la magistratura resterà un ordine autonomo e indipendente. Tra parentesi il pm è libero in udienza, mentre dipende gerarchicamente dal capo dell’Ufficio. Ribadisco: nessuno vuole toccare la capacità autonoma di determinazione del pubblico ministero e del giudice. Certo, dal Governo è sempre arrivata la rassicurazione che il pm non sarà assoggettato alla politica. Ma il sottosegretario Delmastro in una conversazione al Foglio ha detto che sarà inevitabile. Lei che pensa? Questa è una riforma costituzionale che va al di là del pensiero di Delmastro. Qui stiamo mettendo mano alla Costituzione, stiamo facendo un alto discorso culturale e le opinioni di Tizio o Caio contano poco rispetto ad una riscrittura meditata della Carta costituzionale. Una subordinazione al Governo del pm non sarà mai possibile in questo Paese, perché noi partecipiamo ad un sistema europeo. Marcello Pera in una intervista al Sole 24 ore ha detto che con questa riforma c’è il rischio che si formi una casta di super pm che rispondono solo alla legge senza un controllo gerarchico. Sarà così? Questo è un discorso invece già più tecnico, perché Marcello Pera è stato uno di quelli che aveva sostenuto anche da tempo la riforma della separazione. Questo è oggettivamente un pericolo. Abbiamo già visto che i pm hanno rafforzato in questi anni la loro autonomia, hanno condizionato fortemente le scelte politiche, hanno chiesto che si intervenisse modificando norme del codice di procedura penale, che si intervenisse correggendo una sentenza delle Sezioni Unite, tanto per fare degli esempi. Poi c’è un altro aspetto sollevato dal gip milanese Roberto Crepaldi in una sua conversazione con l’avvocato Vinicio Nardo durante una puntata dell’Asterisco e che è da tenere in considerazione: “Quello che preoccupa è che la scelta di creare due Csm autonomi genera quello che è stato definito un ascensore istituzionale per i pm arrivando a livello costituzionale a parificarli ai giudici”. Questa è anche la stessa obiezione di Zanon che io condivido: “Per una paradossale eterogenesi dei fini si andrà a generare una funzione d’accusa, separata ma costituzionalmente assai più forte, riunita intorno ad un proprio organo di rilevanza costituzionale”. Forse sarebbe stato meglio non prevedere due Csm distinti, ma uno unitario diviso in sezioni. Gherardo Colombo in una intervista a Repubblica ha sostenuto che con questa riforma il governo vuole limitare il lavoro di controllo dei magistrati sulla politica... Non mi pare sia così. Se la politica ha fatto questa scommessa, ha sbagliato totalmente. I pm continueranno a fare quello che hanno fatto fino ad ora. Però grazie alla riforma avremo un giudice più forte e in una posizione di terzietà e imparzialità rispetto al pm e anche all’avvocato che non dimentichiamoci è l’altro protagonista del processo. Si sostiene anche da più parti che con questa riforma il pm diventerà una parte del processo e basta e punterà solo ad avere condanne. È così? Non possiamo oggi ragionare in termini astratti su quali potranno essere le dinamiche di un sistema costituzionale che cambia. Certo non si può escludere che ad un certo punto il Csm dei pm sarà governato soprattutto dalla Procura nazionale antimafia che è quella che è più esposta in termini di lotta alla criminalità e quindi quella che più facilmente può sollecitare il potere politico a intervenire rispetto a un giudice che si rafforza. Dall’altra parte però la politica dovrà avere il coraggio di non farsi limitare. Adesso leggo che la discussione sul sequestro degli smartphone da parte dei giudici, come delineato anche dalla Corte di Giustizia, sarebbe impantanata alla Camera dopo che dei magistrati hanno sollevato delle perplessità. Ecco: vogliamo rafforzare il giudice e allora la politica non si faccia mettere i bastoni tra le ruote dalle procure. Anche su questo piano si gioca l’indipendenza del giudice e il suo potere sull’operato del pm. Si contesta che non tutti i magistrati sono in grado di sedere al Csm, organo di rilevanza costituzionale, quindi il sorteggio sarebbe un problema... Io personalmente sono contrario ad un sorteggio secco. Meglio sarebbe stato uno temperato. Probabilmente in sede di attuazione della riforma ci sarà una normativa applicativa che deciderà le modalità del sorteggio: non sono previste ad esempio le quote rosa, non sono previste aree territoriali per il sorteggio, cosicché potremmo avere tutti i giudici di un’area territoriale e pochi giudici di un’altra. Quindi ci sarà sicuramente una legge ordinaria che dovrà dare corso a queste modalità di partecipazione. I criteri sono anche individuati per quanto attiene la composizione politica, ci sarà una estrazione da un numero ampio di politici che verranno indicati all’inizio della legislatura: quindi non ci sarà più la possibilità per la politica di designare i suoi rappresentanti. In questi due profili ci sono gli aspetti correttivi delle patologie perché una delle ragioni della riforma è quella di correggere alcune criticità che si sono evidenziate e il riferimento va al fenomeno delle correnti, al fenomeno del carrierismo, al fenomeno degli interessi che i magistrati hanno a nominare le persone che culturalmente e politicamente sono a sé vicini. Alta Corte Disciplinare: era necessaria per superare una giustizia disciplinare considerata troppo domestica? Quando ero al Csm ho fatto parte della sezione disciplinare e le assicuro che era necessaria un’Alta Corte. Il sistema andava corretto. Consideri che la composizione della sezione disciplinare è di sei membri, due laici e quattro togati; quattro togati rappresentano le quattro aree di corrente. Per condannare ci vogliono quattro voti. Ora che lei capisce come funziona la cosa, anche a non voler essere, come dire, sospettosi. Chi vincerà il referendum? Tutto dipenderà da come verrà presentato pubblicato ma considerati i precedenti e il calo di fiducia nella magistratura penso che vinceranno i sì. Piemonte. “Le prigioni? Le conosco poco”. L’ammissione della nuova Garante dei detenuti di Piero Bottino La Stampa, 24 luglio 2025 “Per ora posso soltanto garantire tutto il mio impegno” dice Monica Formaiano che ha ottenuto l’incarico in Piemonte. Alla fine la scelta sembra aver premiato l’appartenenza a una filiera politica più che l’esperienza sul campo. Lo conferma, suo malgrado, la diretta interessata: “Per ora posso soltanto garantire tutto il mio impegno in un mondo che conosco parzialmente e che quindi devo approfondire, poiché ovviamente non ho dimestichezza con le realtà carcerarie piemontesi. Ma sono abituata ad affrontare le situazioni di petto, cercando di dare il meglio”. Così parlò, ieri, l’avvocato Monica Formaiano, fresca di nomina a garante regionale dei detenuti del Piemonte. Il Consiglio regionale ha votato l’ex assessora a Personale e polizia locale della giunta di centrodestra di Alessandria (sconfitta alle urne nel 2022), un padre dirigente del Psi, un passato in Forza Italia prima di migrare in Fratelli d’Italia con cui è stata candidata alle regionali dello scorso anno senza essere eletta. Il partito di Meloni, forte del suo peso elettorale e numerico in Regione, impone la sua linea su una partita cruciale, considerato che una delle figure di rilievo del partito in Piemonte, è Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega all’amministrazione penitenziaria. Non senza polemiche. La rosa dei candidati sul tavolo del Consiglio regionale contava 18 nomi, “nove dei quali - racconta il garante uscente, Bruno Mellano, storico esponente dei radicali - sono o sono stati garanti dei detenuti in Piemonte”. Anche per questo 24 tra garanti ed ex garanti avevano scritto una lettera aperta alla politica per chiedere di “considerare il background di chi ha sviluppato una formazione culturale, sociale ed empatica nei confronti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà e della comunità penitenziaria”. “Un onore e un privilegio” - La politica, evidentemente, non li ha ascoltati, optando per una figura politicamente connotata. Formaiano ammette candidamente di calarsi nella parte senza particolari competenze: “Di sicuro è un ruolo di un’importanza incredibile visto quello che quotidianamente si sente e si legge. È per me un onore e un privilegio, ma si tratta anche di un compito molto impegnativo proprio per le problematiche che sono sotto gli occhi di tutti”. A chi le chiede come, e perché, la scelta sia caduta su di lei risponde così: “Bisognerebbe chiederlo ai consiglieri regionali. So che c’erano diverse candidature…”. Già, la metà delle quali garanti in carica o uscenti. Un mondo che “affascina” - “Ecco, lo sapete meglio di me. Ad ogni modo ho presentato la domanda perché è anche un mondo che, mi si passi il termine, affascina: uno si immagina di poter fare qualcosa di innovativo, cercare e trovare soluzioni, provare a risolvere un po’ di problemi. Diciamo che è un mondo che ho frequentato per ragioni professionali: alcune carceri le ho visitate più volte per incontrare i miei clienti. Ma un conto è l’approccio del professionista che si limita al singolo detenuto, altro è conoscere tutto l’ambiente”. La protesta delle opposizioni - La nomina di Formaiano ha scatenato la protesta delle opposizioni: “Emerge una concezione proprietaria delle istituzioni nella quale chi vince decide tutto senza alcun confronto con le minoranze, nemmeno su figure di garanzia”, attaccano Pd, Avs, M5s e Stati uniti d’Europa. Sulle sue prime mosse la neo garante si limita ad annunciare l’intenzione di “approfondire i progetti eventualmente già avviati, adottati su iniziativa di chi mi ha preceduto. Le realtà carcerarie poi sono da conoscere bene, quindi voglio confrontarmi con i garanti delle varie città. Al momento posso solo assicurare il mio massimo impegno: uno può avere tante idee, ma per poterle applicare deve conoscere prima bene la realtà, ovviamente sotto un aspetto diverso da quello che posso avere al momento, dopo 32 anni di professione. Altrimenti sarebbe come dire: arrivo io e spacco il mondo. Ma non ho la bacchetta magica”. Emilia Romagna. Prevenzione dei suicidi e salute in carcere: parte il progetto “Lascia un segno” bolognatoday.it, 24 luglio 2025 Realizzato dall’agenzia creativa Ad Store e dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia-Romagna e Marche in collaborazione con il Garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, ha avviato la distribuzione di 1800 locandine nei dieci istituti penitenziari della regione. Favorire la riabilitazione dei detenuti e promuovere una cultura dell’integrazione: è questo l’obiettivo di “Lascia un segno”, il progetto di comunicazione sociale ideato dall’agenzia creativa Ad Store e rivolto alla comunità penitenziaria dell’Emilia-Romagna, presentato lo scorso 2 luglio presso la sede di Parma di Ad Store. Obiettivo della campagna è popolare di messaggi gli spazi interni comuni dei dieci istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna rivolti ad ogni attore coinvolto: detenuti in primis, polizia penitenziaria e amministratori penitenziari, operatori sanitari, scolastici e universitari, referenti degli enti locali e regionali, volontari delle associazioni. Il concept della campagna nasce dalla consapevolezza di come l’ambiente carcerario venga troppo spesso identificato come un non-luogo, in quanto portatore di messaggi di chiusura, solitudine e distacco emotivo ed in questa prima fase del progetto verrà diffuso in 1.800 copie un primo prodotto editoriale, una locandina dalle misure 50x70, che verrà affissa in queste settimane negli spazi comuni delle sezioni detentive: mense, corridoi, aree di svago e aree colloqui con famigliari ed avvocati. Il messaggio è semplice e immediato ma di forte impatto: “Respect yourself”, rispetta te stesso e l’invito a chiedere aiuto in caso di necessità, tradotto in italiano, francese, inglese e arabo. L’intento è quello di diffondere messaggi che possano essere veicolo di miglioramento delle relazioni tra i vari soggetti che compongono la comunità penitenziaria e di generare una identità comune che riduca le distanze tra i diversi soggetti troppo spesso in conflitto tra di loro. I messaggi delle varie proposte editoriali che verranno sviluppate nei prossimi mesi affronteranno temi fondamentali per la vita in carcere: Prevenzione del suicidio, con messaggi di supporto emotivo; Educazione e recupero, per incentivare la partecipazione ai percorsi trattamentali; Tutela della salute, per contrastare pratiche dannose come la produzione artigianale di alcol; Diritti e convivenza, per rafforzare il rispetto reciproco e il contrasto ai pregiudizi; Volontariato, per favorire il coinvolgimento della comunità esterna nei percorsi di reinserimento sociale. Prato. Detenuto trovato morto mentre era in isolamento, “buchi” nelle riprese video di Luca Serranò La Repubblica, 24 luglio 2025 Ancora ombre sul caso di Costel Scrupcaru, il detenuto romeno di 58 anni trovato senza vita, venerdì scorso, in una cella di isolamento del carcere La Dogaia di Prato. Una morte che la procura considera sospetta, per il ruolo di vertice dell’uomo nelle dinamiche criminali della casa circondariale (era stato tra i protagonisti della rivolta dello scorso 5 luglio), ma anche per l’accertata libertà di movimento dei reclusi di maggior spessore criminale, capaci di far arrivare intimidazioni e pesanti minacce anche nella sezione di isolamento. Non solo. Se i primi accertamenti non hanno individuato segni di violenza sul corpo, non si esclude che per l’uomo possano essere state fatali le conseguenze di una aggressione che avrebbe subito nei giorni scorsi. In questo quadro di incertezza, si inserisce poi un giallo riguardo le telecamere puntate sui corridoi della sezione in cui si trovava Scrupcaru: ci sarebbero infatti dei vuoti nelle registrazioni, al punto che una fonte vicina alle indagini parla di “circostanza anomala”. Nei filmati, in particolare, si vedrebbe solo una persona avvicinarsi alla cella, alle 17 dello scorso giovedì e dunque molte ore prima del ritrovamento (la mattina del giorno successivo) del corpo senza vita. Si attende ora la relazione finale dei consulenti incaricati dell’autopsia per le prime certezze. Tra gli obiettivi dei medici, accertare l’eventuale presenza di lesioni interne e cercare tracce di sostanze stupefacenti o anche di farmaci. Sembra invece caduta in modo quasi definitivo la pista del suicidio, visto che nella cella non c’erano farmaci né droga, così come non sono stati rinvenuti lacci o corde e biglietti di addio. Di certo, Costel Scrupcaru era un volto noto anche tra gli operatori della casa circondariale, dove era recluso da anni per una serie di condanne per diversi reati (compreso un episodio di violenza sessuale). Non era in cura per patologie gravi, secondo i primi accertamenti della polizia giudiziaria, ma la vita dietro le sbarre lo aveva segnato, al punto da lamentarsi più volte delle condizioni di vita nelle celle. Mentre ancora si continua a cercare indizi e testimonianze per ripercorrere le ultime ore di vita, arriva intanto a chiusura una tranche dell’inchiesta che ha sollevato il “caso Dogaia”, con la scoperta di un giro di sostanze stupefacenti e telefoni cellulari anche di ultima generazione. Un “pervasivo tasso di illegalità”, quello emerso secondo la procura: 33 in tutto gli indagati, tutti detenuti, 41 gli apparecchi - tra cellulari, microcellulari e smartwatch, oltre a due schede telefoniche - introdotti e usati nei reparti di alta e media sicurezza da reclusi italiani, albanesi, macedoni, georgiani e filippini. Contestati anche due episodi di introduzione di cocaina e hashish, rinvenuti in un caso in contenitori di sugo di carne, nell’altro nella camera di sicurezza. Solo due giorni fa, viene spiegato, sono stati trovati in un pacco di abiti altri 5 grammi di hashish, 40 invece erano stati scoperti in un frigo sabato scorso e il 17 luglio altri 5 in una cella. Sempre secondo gli inquirenti, a portare dentro La Dogaia fumo, cocaina e telefoni sarebbero stati in diversi casi detenuti in permesso, obbligati di fatto dai reclusi di maggior spessore criminale a prestarsi ai traffici per non incorrere in pesanti vendette. Nei giorni scorsi, la procura diretta da Luca Tescaroli ha infine proceduto anche alla notifica dell’avviso di conclusione indagini per la rivolta avvenuta il 5 luglio scorso nel carcere di Prato. Indagati nove detenuti di nazionalità albanese, marocchina, italiana e polacca, che rischiano ora il processo. Solo pochi giorni prima della rivolta, La Dogaia era finita nella bufera per due sconvolgenti casi di violenza, emersi con la richiesta di rinvio a giudizio di due detenuti italiani e di un brasiliano accusati di due distinte aggressioni ai danni di due detenuti, (un italiano e uno straniero), picchiati e costretti a subire abusi sessuali con minacce di ogni tipo. Prato. L’ultima grana del carcere della Dogaia: le celle sono troppo piccole di Paolo Nencioni Il Tirreno, 24 luglio 2025 La scoperta è stata fatta grazie al reclamo presentato da un detenuto. Ai tanti mali che affliggono la casa circondariale della Dogaia ora ne va aggiunto un altro, certificato da una perizia tecnica, che potrebbe provocare conseguenze abbastanza importanti, negative per le casse dello Stato, positive per i detenuti. Si tratta del problema della dimensione delle celle, che sono troppo piccole rispetto a quanto previsto dalla legge. In quasi 40 anni nessuno se n’era accorto, oppure qualcuno aveva fatto finta di non accorgersene. Il carcere della Dogaia è stato costruito alla metà degli anni Ottanta ed è stato aperto nell’agosto del 1986. Dunque è una costruzione relativamente recente, eppure stando a una perizia ordinata dal Tribunale di sorveglianza le celle sono troppo piccole. Da tempo la Camera penale degli avvocati di Prato aveva chiesto alla direzione del carcere (o meglio, ai diversi direttori provvisori che si sonno avvicendati negli ultimi tempi) di poter misurare lunghezza e larghezza delle celle per verificare che rispondessero ai criteri stabiliti dalla legge, ma la risposta è stata sempre negativa. Poi l’avvocato Sara Mazzoncini ha presentato un reclamo per conto di un suo assistito, detenuto alla Dogaia, e questo è stato il grimaldello per ottenere quanto si chiedeva, cioè la misurazione delle celle. Il Tribunale di sorveglianza ha disposto una perizia tecnica e si accertato che sì, effettivamente le celle sono più piccole di come dovrebbero essere. Anzi, risultano accatastate con certe dimensioni che non corrispondono alle dimensioni reali, in certi casi con una differenza di 30 o 40 centimetri. Che cosa succede adesso? Ovviamente il carcere non può essere raso al suolo e ricostruito, e nemmeno si possono allargare le celle se non a costi proibitivi. Dunque, secondo una qualificata fonte dell’avvocatura, le possibili conseguenze sono due: sconti di pena per chi ha vissuto in spazi più stretti del consentito (oltretutto in un carcere storicamente sovraffollato), ma sembra una soluzione improbabile; oppure la possibilità di presentare ricorsi che potrebbero essere vinti aprendo la strada a risarcimenti economici a favore dei detenuti. È ancora troppo presto per dirlo. In ogni caso questa nuova grana va a sommarsi alle tante altre che negli ultimi mesi hanno funestato uno dei peggiori carceri della Toscana, se non dell’intero paese. Un carcere dove l’anno scorso si sono contati ben cinque detenuti suicidi e nel quale fino alla fine di giugno c’erano più smartphone che in un negozio di telefonia. Sono decine quelli sequestrati prima del blitz della Procura che ha ordinato la perquisizione di 127 detenuti, tra cui 111 dell’alta sicurezza, molti dei quali erano riusciti a farsi recapitare telefoni cellulari per comunicare con l’esterno (in un caso anche per postare le proprie riflessioni filosofiche su Tik Tok), oltre a essere riforniti di hashish e cocaina. Sulle eventuali complicità interne alla casa circondariale sta indagando la Procura diretta da Luca Tescaroli, che sta provando a far tornare alla normalità un carcere dove di normale non c’è molto, compresa la cronica carenza di polizia penitenziaria, di un comandante di ruolo e di un direttore anche questo di ruolo. Bergamo. “Il Governo ha varato il piano carceri, ma per via Gleno non cambierà molto” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 24 luglio 2025 Si punta alla detenzione domiciliare per chi ha dipendenze. “Ma pochi i posti nelle comunità”. Edilizia penitenziaria, via Gleno non c’è. Don Tengattini: “Il disagio psichico è un problema grave, andava affrontato”. Tra gli addetti ai lavori circola una battuta venata di scoramento: al netto dei dettagli, sono le stesse proposte di un anno fa. Nel luglio del 2024 il governo varava un decreto legge sulle carceri: si prevedeva l’istituzione di un “albo” delle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale di detenuti con problemi di dipendenza da sostanze stupefacente e con un residuo di pena inferiore ai 12 mesi, e sullo sfondo si ribadiva l’impegno a migliorare l’edilizia penitenziaria. Martedì 22 luglio, di nuovo, il Consiglio dei ministri ha messo sul tavolo un pacchetto per provare ad attenuare il sovraffollamento: un disegno di legge per favorire la detenzione domiciliare per il recupero di detenuti con dipendenza da droga o alcol, un decreto per rendere più rapida la liberazione anticipata e un programma dettagliato per ricavare più posti letto. Ne beneficerà anche la casa circondariale di Bergamo, dove i problemi sono ormai cronici? Il contatore del ministero della Giustizia segna - i dati sono aggiornati a martedì - 586 reclusi in luogo di 319 posti regolamentari, solo in lievissima flessione ai picchi non lontani di 600 detenuti, e un tasso di affollamento al 183,4%. “L’impressione - riflette don Luciano Tengattini, uno dei cappellani della casa circondariale - è che nella prassi concreta cambierà poco. In questi ultimi provvedimenti non è stato toccato il tema del disagio psichico, una problematica grave e diffusa che rende difficile la gestione della vita quotidiana, anche perché il personale non ha una formazione di questo tipo. Nell’anno giubilare si sarebbe potuto ragionare anche su altre strade, magari dando un segno tangibile come la liberazione anticipata per quelle persone che hanno una pena residua di 2-3 mesi e hanno già scontato anni di reclusione”. Per Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo, “le misure annunciate dal ministro Nordio sono molto simili a quelle presentate lo scorso anno, e nel frattempo poco è cambiato. Ci sono tanti problemi di fondo e uno di questi, non affrontato, riguarda gli organici della magistratura: pensiamo al carico di lavoro che c’è sui Tribunali di sorveglianza, con i tempi che si allungano. Una giustizia lenta non è giustizia”. A proposito di diritto. L’avvocato Enrico Pelillo, presidente della Camera penale di Bergamo, si dice “un ottimista di natura, e allora spero che qualcosa si muova davvero”, ma il realismo impone anche altre considerazioni: “Le affermazioni di principio del ministro Nordio sono corrette: le persone con dipendenze devono essere curate in altre strutture e non in carcere, è una vita che ci sgoliamo per dirlo. Ma la realtà dei fatti è un’altra: i posti nelle comunità sono pochi e il disagio nelle carceri è alto, lo testimoniano gli oltre 40 suicidi in cella in Italia da inizio anno, col rischio di battere il record dello scorso anno”. Le ultime rilevazioni indicano in via Gleno circa 400 detenuti con problemi di dipendenza da droga o alcol, a livelli diversi, e in molti casi abbinata a un disagio psichico più o meno manifesto. Il disegno di legge appena messo a punto - e che quindi seguirà un iter meno rapido rispetto a un decreto legge - mira a introdurre un “nuovo regime di detenzione domiciliare per condannati tossicodipendenti e alcoldipendenti”: secondo la sintesi di Palazzo Chigi, le nuove norme consentiranno a queste persone, in caso di pena detentiva anche residua inferiore a 8 anni (o 4 anni per i reati di maggiore pericolosità sociale), di “chiedere in ogni momento di esser ammessi alla detenzione domiciliare presso una struttura autorizzata all’esercizio dell’attività sanitaria e socio-sanitaria, sulla base di uno specifico programma terapeutico socio-riabilitativo residenziale”. In altri termini, dovrebbe essere più snella l’uscita dal carcere verso una comunità terapeutica, o si potrà direttamente iniziare a scontare lì la pena. “Pensare che tutte le persone con problematiche di dipendenza possano accedere a una comunità è una stortura rispetto alla realtà - riconosce Fabio Loda, coordinatore di Federsolidarietà Bergamo, il ramo di Confcooperative più impegnato in ambito sociosanitario -: i posti in comunità sono limitati e per questioni di accreditamento (la procedura amministrativa che permette di essere “riconosciuti” e contrattualizzati dal Servizio sanitario nazionale, ndr) non possono essere facilmente ampliati”. Al tempo stesso, “pensare di avere strutture solamente dedicate a persone in misura alternativa alla detenzione non è praticabile - prosegue Loda, riferendosi anche all’albo annunciato un anno fa da Nordio -: si andrebbero a creare situazioni di potenziali ghetti, oppure una sorta di carcere privato”. Il Piano nazionale per l’edilizia penitenziaria 2025-2027 al momento non indica interventi su Bergamo. In un’ottica di “vasi comunicanti”, via Gleno potrebbe comunque indirettamente beneficiarne per via dei potenziamenti previsti in altre case circondoriali lombarde: a Bollate è previsto un padiglione con 200 nuovi posti, a Opera uno per 392 reclusi, a San Vittore è in progettazione una riqualificazione, un altro nuovo padiglione è indicato a Vigevano, a Brescia Verziano sono stati annunciati 220 nuovi posti. “Le nuove strutture - commenta Fausto Gritti, presidente dell’associazione Carcere e Territorio - non risolvono le cause profonde del problema, anche perché vi è una grave carenza di polizia penitenziaria, educatori e altre figure professionali necessarie a gestirle. Guardiamo invece con molto interesse alla detenzione domiciliare per i detenuti tossicodipendenti, misura che per essere attuata ha però bisogno di adeguate risorse economiche”. Insomma, buoni propositi ma anche problemi all’orizzonte: “Siamo molto favorevoli alle misure alternative per i detenuti con pene residue inferiori ai due anni (il ministero ha anche avviato una ricognizione di questo tipo, ndr), ma se non si abbinano a progetti relativi a casa e lavoro e alle risorse economiche necessarie - fa notare Gritti - abbiamo la forte preoccupazione che la maggior parte di questi detenuti non potrà accedere a questo fondamentale provvedimento”. Cagliari. Il Ministero: “Nel carcere di Uta arrivano 92 detenuti al 41 bis, preparatevi” di Enrico Fresu L’Unione Sarda, 24 luglio 2025 Adesso è ufficiale, lo scrive anche il Ministero della Giustizia: nel carcere di Uta apre il braccio del 41 bis. Ospiterà 92 mafiosi. L’inaugurazione è “prossima” e il dicastero si riserva di “comunicare la data effettiva”. Ma la nota inviata a tutti gli enti interessati è chiara: “Preparativi, ognuno per la sua competenza”. I destinatari della lettera inviata dal direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ernesto Napolillo, sono: i presidenti del Tribunale di sorveglianza e del Tribunale di Cagliari, il procuratore della Repubblica, il prefetto, il questore, il comandante provinciale dei carabinieri, il procuratore nazionale Antimafia di Roma, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria regionale e il direttore generale della Asl. La missiva è inviata “per doverosa notizia, anche in termini di garanzia della sicurezza pubblica, nonché per l’eventuale adeguamento delle singole funzioni di competenza”. Ed è su una di queste, la sanitaria, che arriva il grido di allarme del segretario provinciale della Fials, Paolo Cugliara: “In Sardegna non ci sono medici e mancano gli infermieri. Eppure con l’arrivo di questa vagonata di mafiosi sarà necessario garantire anche l’assistenza sanitaria: gli infermieri che lavorano nei penitenziari sono già allo stremo, ovviamente sotto organico”, sottolinea il sindacalista, “e vogliono caricare un sistema già al collasso con responsabilità su detenuti di massima pericolosità?”. Ulteriore perplessità di Cugliara: “Il repartino del Santissima Trinità dedicato ai detenuti: si è parlato di una sua riattivazione. Siamo sicuri, e la domanda è retorica, che sia in grado di poter ospitare mafiosi, con tutto quello che comporta la loro presenza in termini di necessità di sicurezza?”. Cugliara fa un appello “alla Regione, alla sua presidente: si attivi per garantire che il sistema sanitario sardo non debba soffrire ulteriormente a causa dell’invio in Sardegna di mafiosi, imposto da uno Stato che vede la Sardegna lontana”. Taranto. Detenuti, avvocati e magistrati in digiuno: “Il carcere non sia condanna alla sofferenza” di Francesco Alberti buonasera24.it, 24 luglio 2025 Il 27 luglio anche i reclusi della Casa circondariale aderiscono alla staffetta del digiuno promossa da avvocati e magistrati per chiedere la riforma sulla liberazione anticipata. Appello al Parlamento: “Rivedere subito il disegno di legge Giachetti”. Da Taranto parte un segnale forte destinato a coinvolgere il sistema penitenziario di tutto il Paese. Dopo l’adesione di magistrati e avvocati, anche i detenuti della casa circondariale tarantina annunciano una giornata di sciopero della fame, prevista per il 27 luglio, per sostenere la staffetta del digiuno in corso da inizio mese. L’obiettivo è sollecitare un immediato riesame del disegno di legge sulla liberazione anticipata promosso dall’onorevole Roberto Giachetti. L’iniziativa, avviata a livello nazionale dall’avvocata Valentina Alberta e dal magistrato Stefano Celli, nasce dalla volontà di denunciare le condizioni disumane in cui versano le carceri italiane, accentuate in estate da temperature insostenibili e sovraffollamento cronico. “Oggi in Italia si marcisce in carcere, come un corpo lasciato a decomporsi in un ambiente soffocante. La chiave è stata buttata via”, si legge in uno degli appelli che accompagnano la protesta. Parole dure, che vogliono smuovere le coscienze e richiamare la politica alle sue responsabilità. Nel mirino di chi protesta non c’è solo il trattamento riservato ai detenuti, ma anche l’inerzia istituzionale di fronte a un sistema che non garantisce più il principio costituzionale della rieducazione della pena. “Commettere un reato non può significare perdere la dignità di esseri umani - spiegano i promotori. Il carcere non può diventare un luogo dove si infliggono sofferenze gratuite, che nulla hanno a che vedere con la giustizia”. Il fulcro della richiesta è la modifica dell’attuale disciplina sulla liberazione anticipata, per portare da 45 a 60 giorni ogni sei mesi lo sconto della pena per buona condotta, in via temporanea. “Non è una soluzione definitiva, ma un primo passo concreto per contrastare l’illegalità del sovraffollamento e offrire un sollievo immediato a chi vive una condizione al limite”. Anche i familiari dei detenuti di Taranto hanno espresso pieno sostegno all’iniziativa, parlando di una situazione “drammatica e indegna di un Paese civile”, dove “la risposta penale ha abbandonato ogni finalità di riequilibrio, riducendosi a una punizione cieca”. Citando anche le condanne della Corte di Strasburgo, si uniscono all’appello al Parlamento: “Servono misure coraggiose per svuotare contenitori ormai al collasso, senza timori di smentite elettorali. È in gioco la tenuta etica del nostro Stato di diritto”. Nel ringraziare gli organizzatori, i detenuti di Taranto spiegano che il 27 luglio parteciperanno anche a una Messa comunitaria, un gesto simbolico per chiedere che “il Signore illumini i nostri governanti”. Il messaggio che parte dalle celle della città jonica è chiaro: il tempo delle attese è finito, la giustizia non può più rimanere sorda alle “grida di chi soffre” dentro un sistema che ha bisogno di riforme urgenti e profonde. Napoli. Al carcere di Secondigliano “Chicco di speranza”: insegnare ai detenuti l’arte del caffè Il Mattino, 24 luglio 2025 Lo scopo è il reinserimento dei detenuti con la creazione di figure come: barista o manutentori di macchine del caffè. Arriverà presto nel carcere di Secondigliano a Napoli, in un’area dedicata saranno messe a dimora piantine di caffè e sarà dato avvio alla coltivazione. L’iniziativa rientra in un’azione complessiva tendente al reinserimento dei detenuti attraverso progetti di formazione e qualificazione con la creazione di figure come quelle del barista. Lo ha ricordato il presidente di Kimbo spa, Mario Rubino, nel corso di un incontro con l’imprenditore e scrittore Oscar Farinetti in visita alla sua azienda a Melito (Napoli), proprio a due passi dall’Istituto penitenziario. Ha detto: “È una iniziativa nata in collaborazione con la Facoltà di Agraria dell’Università ‘Federico II’ - - e vuole contribuire a rafforzare l’aspetto sociale e di legame col territorio della nostra attività. Credo sia necessario offrire da parte nostra un contributo importante a chi è in difficoltà”. Rubino ha poi evidenziato che il progetto si inserisce nel solco delle azioni messe in campo negli anni dalla Kimbo: “Pensiamo anche a realizzare delle ‘officine di manutenzione’ all’interno del carcere per restituire poi in perfetta efficienza le macchine per il caffè ai diversi bar. Si tratta, quindi, di lavorare sul terreno della formazione professionale”. Attività sociale nel carcere di Secondigliano col progetto ‘Chicco di speranza’ ma in passato anche con l’iniziativa ‘Fatto a Scampia’ con la realizzazione di borse e abiti in juta. “Vogliamo fare di più - dice Rubino - e per questo stiamo pensando non solo di segnalare ai diversi esercizi commerciali le persone una volta qualificate ma vogliamo anche realizzare una sorta di ‘guida’ per le aziende per far ottenere loro più facilmente gli sgravi fiscali esistenti”. Ha continuato affermando: “Mio padre Elio e i miei due zii Francesco e Gerardo hanno cominciato con un piccolo bar e con la torrefazione nella zona del Rione Sanità; chiedevano a ogni avventore come fosse il loro caffè. Ora - evidenzia il presidente di Kimbo spa - gestiamo 35 milioni di chili di caffè crudo all’anno e otteniamo 25 milioni di chili di caffè tostato. Una realtà importante con una quota di mercato del 9 per cento in Italia tenendo sempre ben presente l’obiettivo di alta qualità del nostro miscelato da offrire al consumatore senza dimenticare l’attività del nostro Training Center come formazione, ‘education’ per i baristi professionisti e l’attività di ‘cultura del caffè’ rivolta anche ai consumatori. Ma sarà per la zona popolare che impone la necessità di misurarsi ogni giorno con le varie sfaccettature dell’essere umano, sarà per un fatto di istinto, a mio parere un imprenditore che mira solo al profitto non serve a nessuno, e soprattutto non serve a se stesso”. La normalità del rancore che mette in crisi il nostro mondo di Walter Veltroni Corriere della Sera, 24 luglio 2025 Trump, i social, le paure: non sappiamo più riconoscere i limiti ma quelle belve da tastiera non rappresentano l’umanità vera. Il mondo a rovescio. Il prevalere, persino nel discorso pubblico, dei peggiori sentimenti umani, sembra essere diventata ormai una norma alla quale si finge di non dare peso. “Ragazzate” e pronti per la discesa di un altro gradino. Sarò figlio di un altro tempo, ma mi sembra inaccettabile vedere che sul social di proprietà del Presidente degli Stati Uniti viene rilanciato un video confezionato con l’intelligenza artificiale che mostra Trump ridere sguaiatamente mentre il suo predecessore Obama viene ammanettato e poi detenuto in una cella. C’è tutto in quel video, anche un non celato spirito razzista e, soprattutto, pesa la decisione di “farlo proprio”, quasi istituzionalizzarlo, pubblicandolo laddove risulti indiscutibile la paternità. Così fu per quell’altro orrore del video, stessa tecnica, che immaginava potesse nascere un resort a Gaza, dove invece stavano morendo migliaia di esseri umani. Come c’è tutto nella frase con cui Trump ha voluto inaugurare la nuova prigione per immigrati soavemente denominata “Alligator Alcatraz”. Ha detto: “Insegneremo loro come scappare da un alligatore se evadono dalla prigione… devi correre a zigzag, così le tue chance di sopravvivere aumentano dell’1%”. Non so se qualcuno ha riso, certo non vorrei conoscere una persona così. Ancora peggiore è la motivazione che i giornali riportano essere stata alla base dell’incredibile video su Obama: distogliere l’attenzione dalla vicenda Epstein. La logica comunicativa, dichiarata, di quel mondo è inondare di m… ogni giorno i media in modo che non possano inseguire tutte le follie insieme. E una volta è Trump vestito da Papa, un’altra la rimessa in discussione del limite dei due mandati, poi il bullismo verso Zelensky o l’annessione del Canada. Armi di distrazione di massa perché non si parli della realtà: l’economia che va male, le guerre che proliferano. Nel mondo degli autocrati è tutto una meraviglia, è tutto straordinario, mai visto prima, un prodigio della natura e della storia. I treni arrivano in orario e ogni famiglia è più ricca e sicura. I sondaggi dicono che questa favola, almeno in America, già non sembra più funzionare. Ma ora non è questo il problema. Il problema è il diffondersi nella società della “normalità del male”. Augurarti che il tuo avversario vada in galera, sia Obama o Sala, o che un immigrato venga divorato dagli alligatori non è solo prova di barbarie umana di chi lo fa, ma accende una luce su noi stessi, su come siamo diventati. Su come venti anni di social ci abbiano cambiato dentro, forse svuotandoci di valori, della giusta definizione del bene e del male che il Novecento ci aveva imposto. Non sappiamo più riconoscere il limite e i decisori pubblici, cinicamente, ne approfittano. Calibrano i loro messaggi sulla rabbia, sulle frustrazioni, sul rancore, sulla paura, sull’angoscia. È tutto nero, più umanamente che politicamente. Il nero ha pervaso le opinioni pubbliche, si è fatto bava velenosa, auspicio della morte dell’altro, dell’incarcerazione, negazione del diritto a esistere se non come follower del potente di turno. E siamo noi, l’Occidente, quello che una volta affermava e difendeva valori liberali, diritti umani, civili, di cittadinanza. Ora quell’Occidente non esiste più. L’America vuole distruggere l’Europa e colpire Giappone e Canada e destabilizza i valori su cui il pensiero occidentale si è fondato e che gli ha consentito di sentirsi non muro ma frontiera aperta. Cosa sta accedendo? Davvero il più grottesco dei populismi, quello dei miliardari, sta rendendoci più disumani? In piccolo: se i ragazzi di una squadra italiana di basket vincono i campionati europei e invece di ricevere complimenti vengono insultati per il colore della pelle di qualcuno di loro come bisogna reagire? Forse capendo una volta per tutte che esiste un mondo, quello delle belve da tastiera, che non è rappresentativo dell’umanità vera. Che siamo migliori di come gli odiatori rappresentano la civiltà umana. Che nonostante vent’anni di social e di violento linguaggio politico e civile diffuso a piene mani, in fondo la maggioranza delle persone non vuole annegare nell’odio. Che i valori di umanità con i quali si è formata, a fatica, la comunità umana ci sono. E sono forti. L’Italia del fine vita: 2.000 chiamate l’anno di Eleonora Camilli La Stampa, 24 luglio 2025 Dal suicidio assistito in Italia alle possibilità in Svizzera, le chiamate dai malati terminali al centralino dell’associazione Coscioni: “Sbigottiti da uno Stato che non ci concede clemenza”. “Vorrei che mi aiutaste a morire in Italia. Vi prego, rispondete a questo mio accorato appello”. Vittorio (nome di fantasia) da quattro anni ha una diagnosi di adenocarcinoma al polmone, ma il tumore è ormai arrivato fino alle ossa. Le sue gambe si stanno lentamente paralizzando, il corpo non gli risponde più. La sua condizione, dice, ormai è invalidante e frustrante. “Da quando è subentrata questa malattia così cattiva ho cercato di pensare a quello che vorrei per il mio fine vita, perché la prospettiva è molto dolorosa - racconta l’uomo -. Sono già seguito dalle cure palliative, ma sono comunque profondamente infelice per il futuro che mi attende e sbigottito dalla stupidità di questo Stato che non concede clemenza nella scelta del fine vita”. Vittorio affida le sue parole a un messaggio lasciato al numero bianco dell’associazione Luca Coscioni (06-99313409), un servizio gratuito e gestito da personale formato, nato per dare risposte alle richieste dei malati, con particolare attenzione ai diritti nel fine vita. A coordinarlo è Valeria Imbrogno, compagna di dj Fabo. Il telefono squilla di continuo, ogni giorno almeno sette richieste riguardano l’aiuto a morire. Sedicimila domande in un anno - Negli ultimi dodici mesi sono arrivate in tutto 16.035 domande di informazioni sui vari aspetti del fine vita, compreso il testamento biologico e l’accesso alle cure palliative. Di queste, però, 1.707 hanno riguardato in modo specifico l’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito (circa cinque richieste al giorno), sono poi 393 le richieste di informazioni rispetto all’interruzione delle terapie e alla sedazione palliativa profonda (più di una al giorno). Inoltre, altre 580 persone hanno chiesto come poter accedere alle procedure italiane o di avere contatti con le strutture svizzere per il percorso di morte volontaria medicalmente assistita. A chiamare sono persone il cui stadio della malattia è arrivato a livello terminale, ma anche familiari e amici di chi non resiste più alle cure. Richieste di informazioni che spesso si tramutano in un grido di aiuto. Sara la sua domanda la fa attraverso il puntatore oculare. Ha 56 anni e una malattia neurodegenerativa, che limita tutti i suoi movimenti. “Ho fatto qualsiasi terapia. Ma la situazione perdura dal 2017 e, giorno dopo giorno, peggiora - racconta -. Vorrei congedarmi dal mondo perché la sofferenza e le condizioni in cui sono costretta a sopravvivere si sono fatte troppo pesanti”. La donna si informa anche sugli aspetti legali: “Non voglio che mio fratello possa avere problemi - dice -. È la persona a cui tengo di più e che mi assiste. Grazie a lui sopravvivo ancora a casa mia”. Caterina, invece, scrive per sua madre malata oncologica, con una diagnosi di mesotelioma in fase terminale, non più curabile. “Mi sento in colpa perché ho aspettato troppo a lungo - sottolinea la ragazza -. Mia madre è in hospice domiciliare, è seguita da terapia del dolore e dal servizio Adi (assistenza domiciliare integrata, ndr). Ha fatto la chemioterapia per tre anni ma ora l’ha sospesa, è ormai allettata con l’ossigeno h24 ma comunque ancora vigile e lucida. E ora vuole fare domanda per la morte volontaria medicalmente assistita”. I “no” alle richieste di accedere al fine vita - Ad oggi, sono 14 le persone che hanno ricevuto il via libera per l’accesso al suicidio assistito in Italia in base alla sentenza della Corte costituzionale. Di queste, 9 hanno avuto accesso alla pratica, cinque hanno scelto di non procedere o non hanno potuto farlo. Di vera e propria “emergenza sociale, che cresce ogni anno” parla Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni: “Per fortuna oggi gli avanzamenti della scienza medica consentono tecnicamente di tenere in vita le persone molto più a lungo - sottolinea -. Ma questa sopravvivenza per alcuni si può tramutare in una tortura che va avanti contro la volontà delle persone, per questo bisogna riconoscere la possibilità di scelta”. In attesa di poter accedere al suicidio assistito c’è anche Martina Oppelli, una donna di Trieste di 49 anni con sclerosi multipla secondaria progressiva. Malata dalla fine degli anni ‘90, ha avuto la sua prima diagnosi a soli 28 anni e oggi è tetraplegica. Ma per lei le speranze sono poche: il 4 giugno ha ricevuto il terzo “no” dall’azienda sanitaria perché non avrebbe alcun trattamento di sostegno vitale in corso, requisito per poter avere l’ok alla procedura. L’ultimo appello di Laura Santi: “Politici, siate umani”. E la legge sul fine vita slitta ancora di Antonio Bravetti La Stampa, 24 luglio 2025 Le parole della giornalista in un video prima di morire: “Bocciate questo ddl infausto, pensate a chi soffre”. Si va in Senato a settembre con 143 emendamenti. “Siate umani. Quello sul fine vita è un disegno di legge veramente infausto. Da esseri umani vi chiedo di bocciarlo”. Due giorni dopo la sua morte, Laura Santi si rivolge al Parlamento, alle prese con un ddl presentato in Senato. “Quando vedrete questo video io non ci sarò più, perché avrò deciso di smettere di soffrire, per mia squisita volontà”. Dodici minuti diffusi sulla sua pagina Facebook dal marito, in cui la giornalista di Perugia, morta lunedì con il suicidio assistito, ripercorre trent’anni di sclerosi multipla, di sofferenza, di cure palliative. “Vi prego con tutto il cuore, occupatevi delle sofferenze dei malati più gravi”, chiede a deputati e deputate, senatori e senatrici. Le sue parole vengono citate nella riunione delle commissioni Giustizia e Sanità del Senato e, con una decisione unanime di maggioranza e opposizione, il voto sugli emendamenti al ddl, previsto per ieri, slitta a dopo l’estate. L’attacco alla norma in discussione - Nel video Santi parla del suo “declino fisico e neurologico irreversibile e progressivo”, della sua vita diventata “un carcere, una prigionia, un inferno di dolori quotidiani”. Prova a smontare punto per punto il testo proposto dalla maggioranza, denunciando come primo nodo “l’esclusione del Servizio sanitario nazionale, lasciando poi a iniziative privatistiche”. E si chiede: “Chi si deve occupare della mia valutazione rigorosa, seria, genuina, autorevole se non la sanità? Verosimilmente la sanità che mi sta vicino, la mia sanità locale, io sono stata valutata dalla mia Asl di competenza e anche dal mio comitato etico”. Altro elemento fortemente contestato è la sostituzione dei comitati etici locali con un organismo nazionale nominato dal governo: “Il mio comitato etico regionale è stato forte, autorevole e indipendente, c’è stato un confronto serrato tra i due, perché mettere un comitato nazionale di nomina governativa? Chi mi deve vedere da Roma?”. Il ddl in discussione a palazzo Madama, accusa, è stato “concordato sottobanco dalla presidente Meloni col Vaticano, non con la comunità scientifica né con le associazioni di malati”. Per Santi la legge non è un tentativo di regolamentare, ma “un disegno di legge veramente infausto” con una ratio “sbagliata”: escludere questo diritto. “Non abbiate paura, non porterà questo diritto a nessun abuso, perché già rigorosamente oggi regolamentato dalla giurisprudenza, ma con una legge buona, con una legge dotata veramente di buon senso, e vi chiedo oggi buon senso di esseri umani, non porterebbe a nessun abuso, perché il rigore estremo nella valutazione ci sarebbe sempre”. La reazione della politica - L’appello viene raccolto da Avs e Pd. “Laura Santi è stata coraggiosa - dice il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni - diamo al Paese una legge degna, superando gli steccati ideologici”. Mentre per Sandra Zampa (Pd) “il coraggio e la dignità di Laura ci impongono di pretendere una legge giusta e umana”. Se ne riparlerà a settembre, quando le commissioni Giustizia e Sanità del Senato voteranno i 143 emendamenti al ddl. “C’è stata la condivisione da parte di tutti i gruppi di non voler accelerare” spiega Mariolina Castellone (M5S). “La legge si farà, andrà in aula entro settembre”, assicura il presidente della commissione Sanità Francesco Zaffini (FdI). “Ci sono due-tre nodi - ammette Alfredo Bazoli (Pd) - ma l’appello di Laura Santi ci responsabilizza tutti. È il testamento civile di una donna straordinaria”. Un primo ostacolo potrebbe essere superato con un emendamento dei relatori per modificare la conformazione del comitato etico, in modo che sia maggiormente radicato sul territorio. Una proposta già presente nella maggioranza, con una modifica di Forza Italia a firma di Maurizio Gasparri che lo articola in tre sezioni: Nord, Sud e Centro. “Può apparire criticabile che il comitato sia composto da 7 membri”, spiega Pierantonio Zanettin (Fi), che potrebbero avere difficoltà a “girare l’Italia per visitare le persone, con la logica di parlarci, capire e, se possibile, farle desistere. L’idea è una struttura più agile e più vicina ai territori”. Migranti. Centri in Albania, la Corte Ue dice no alla Cassazione: niente urgenza di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 luglio 2025 Così per la sentenza possono volerci anche due anni. Il Cpr di Gjader resta appeso ai giudici di pace. Intanto l’1 agosto decisione sui “paesi sicuri”. La causa sulla seconda fase del protocollo Roma-Tirana, che riguarda i trasferimenti dei migranti “irregolari” dal territorio italiano, andrà per le lunghe. La Corte di giustizia Ue non ha accolto la richiesta della Cassazione di applicare la procedura d’urgenza (la comunicazione è dell’8 luglio). In quel caso si sarebbe arrivati a sentenza in tre mesi, così possono volerci anche due anni: nella relazione annuale 2024 dell’organo giudiziario di Lussemburgo si legge che la durata media dei procedimenti è di 17,7 mesi considerando i vari iter (quindi anche quelle più rapidi: d’urgenza o accelerati). “La Corte ha ritenuto che non ci siano i presupposti per la celerità. La decisione non è motivata, ma tutto lascia credere dipenda dal fatto che le due persone non sono trattenute”, afferma l’avvocata Cristina Durigon. La legale difende i due cittadini stranieri, uno algerino e uno tunisino, che l’11 aprile scorso erano stati trasferiti dal Cpr di Bari a quello di Gjader. Meno di due settimane dopo hanno chiesto asilo e la Corte d’appello di Roma, il 23 aprile, ne ha disposto il rientro in Italia. Il Viminale è ricorso per Cassazione e questa, il 29 maggio, ha passato la palla ai colleghi di Lussemburgo. Gli ermellini dubitano che il trasferimento extraterritoriale dei migranti “irregolari” e la permanenza di quelli che successivamente chiedono asilo siano compatibili con le direttive rimpatri e procedure. Seguendo questo orientamento la Corte d’appello di Roma, competente sui richiedenti, dispone sistematicamente la liberazione di chi fa domanda di protezione internazionale dietro le sbarre di Gjader. Il funzionamento del Cpr, dove le presenze non sono mai state superiori a 45 e al momento sono 26, è appeso alle proroghe della detenzione decise dai giudici di pace, che sembrano non preoccuparsi del rinvio della Cassazione. Con l’iter processuale ordinario, quando arriverà la sentenza Ue, la direttiva procedure sarà stata soppiantata dal regolamento introdotto dal Patto Ue migrazione e asilo, in vigore dal giugno 2026. All’articolo 10 ribadisce che i richiedenti protezione hanno il “diritto di rimanere nel territorio dello Stato membro” fino a che “l’autorità accertante non abbia preso una decisione sulla domanda nel corso della procedura amministrativa”. Una formulazione simile a quella dell’attuale direttiva, a cui però aggiunge l’aggettivo “amministrativa”. In generale, la norma riduce alcune garanzie. La questione sollevata dalla Cassazione potrebbe comunque restare in piedi. Altra storia è quella della direttiva rimpatri: nei prossimi mesi sarà sostituita da un testo diverso proprio sul punto problematico. La Commissione ha già fatto una proposta, ora devono intervenire Europarlamento e Consiglio. Stati e Ue hanno accelerato perché vogliono deportazioni più facili. Tra le innovazioni più apprezzate ci sono i return hubs, centri di rimpatrio costruiti in paesi terzi. Sul tema è stata espressa una forte convergenza l’altro ieri, nel primo vertice informale dei ministri dell’Interno sotto la presidenza di turno danese. In quell’occasione il ministro Matteo Piantedosi ha dichiarato: “I centri per i rimpatri in territorio albanese possono essere considerati dei veri e propri precursori”. Il Viminale fa di necessità virtù perché in realtà quelle strutture erano nate per tutt’altro scopo: esaminare le domande d’asilo di chi non è mai entrato in Italia secondo le procedure accelerate di frontiera, che complicano l’ottenimento della protezione e permettono il trattenimento. Questo avrebbe dovuto scoraggiare le partenze attraverso un “effetto deterrenza”. La prima fase del progetto Albania era andata a sbattere contro le decisioni dei giudici nazionali che hanno sconfessato le definizioni di “paesi sicuri” generosamente elargite dall’esecutivo agli Stati in testa agli sbarchi, con poca attenzione ai requisiti richiesti dalle norme Ue. Anche questa vicenda è finita davanti alla Corte di giustizia Ue (il 10% dei rinvii pregiudiziali 2024 vengono dai tribunali italiani: 98 su 920 e primo posto in classifica). La sentenza verrà letta in aula il primo agosto: sarà uno spartiacque. Migranti. I conti del Centro per migranti in Albania: 114 mila euro al giorno di Eleonora Camilli La Stampa, 24 luglio 2025 In un report dal titolo “Trattenuti”, ActionAid e l’università di Bari hanno ricostruito quanti milioni sono stati effettivamente spesi per l’allestimento fino a marzo 2025 dei centri italiani in Albania. Pagamenti per 570mila euro all’ente gestore Medihospes e una spesa di 114mila euro al giorno per detenere 20 persone tra metà ottobre e fine dicembre 2024, poi liberate. Per la prima volta in un report dal titolo “Trattenuti”, ActionAid e l’università di Bari hanno ricostruito quanti milioni sono stati effettivamente spesi per l’allestimento fino a marzo 2025 dei centri italiani in Albania. Nello specifico, a Gjader, a fine marzo 2025, erano stati realizzati 400 posti: per la sola costruzione (compresa la struttura non alloggiativa di Shengjin) sono stati sottoscritti contratti, con un uso generalizzato dell’affidamento diretto, per 74,2 milioni. Secondo il report l’allestimento di un posto effettivamente disponibile in Albania è costato oltre 153mila euro. Il confronto con i costi per realizzare analoghe strutture in Italia è impietoso: nel 2024 il centro di Porto Empedocle è costato 1 milione di euro per realizzare 50 posti effettivi (poco più di 21.000 euro a posto). “L’operazione Albania è il più costoso, inumano e inutile strumento nella storia delle politiche migratorie italiane” sottolineano ActionAid e UniBari. Secondo i ricercatori che hanno curato il rapporto, le due strutture oltre l’Adriatico sono anche inutili perché nei centri per il rimpatrio in Italia oggi ci sono diversi posti vuoti. “Alla luce di ben 263 posti vuoti sul totale di 1164 disponibili - spiega?Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid?- il tentativo di utilizzare il Cpr di Gjader per detenere la popolazione straniera irregolare presente in Italia appare del tutto irrazionale e illogico”. I due centri risultano anche poco efficaci anche sul fronte della deterrenza. Nel 2024, dai cpr italiani sono stati rimpatriate solo il 10,4% delle persone che hanno ricevuto un provvedimento di allontanamento, il minimo storico dal 2014: “L’utilizzo della detenzione come strumento della politica d’asilo segna un cambio di paradigma epocale, che pone gravi interrogativi circa gli obiettivi di uno strumento così impattante sui diritti fondamentali delle persone” aggiunge Giuseppe Campesi, dell’Università di Bari. “Interrogativi che hanno trovato un riflesso diretto nella crescita significativa delle uscite per mancata convalida o proroga del provvedimento di trattenimento da parte dell’autorità giudiziaria”.