Mille giorni di Governo Meloni visti dalle carceri di Mauro Palma* Il Domani, 23 luglio 2025 Dall’insediamento del governo, i detenuti sono aumentati a un ritmo di 6,5 al giorno mentre i posti regolamentari solo di uno ogni otto giorni. L’emergenza degli istituti penitenziari peggiora. La loro direzione resta confusa e inconcludente. Mentre si sono aggiunti nuovi reati e aumenti di pena per quelli già previsti, così determinando anche un aumento della permanenza detentiva. Gentile presidente Meloni, ho sentito proprio tre giorni fa il suo discorso al congresso della Cisl nel quale ha ricordato i suoi 1.000 giorni di governo e, accanto a questo considerevole traguardo, ha anche fornito altri numeri relativi all’occupazione. I numeri nelle sue parole avevano un carattere di importanza. Accanto agli auguri, gliene fornisco allora di ulteriori, certo che potrà citarli in altre simili occasioni. In questi mille giorni le persone ristrette in carcere sono aumentate di 6.503, sei e mezzo in più al giorno. Un buon record, ed è anche approssimato per difetto: perché ho preso come dato iniziale quello fornito dal suo ministro della giustizia alla data del 31 ottobre 2022, così abbonandole otto giorni, e come finale quello della stessa fonte al 30 giugno 2025, anche qui con un abbuono di altri diciotto giorni. Erano 56.225 a quella data pochi giorni dopo il suo giuramento sulla Costituzione, sono diventati 62.728 alla fine del mese scorso. Nessuno ha percepito in tutto ciò una maggiore sicurezza nella propria quotidianità. Intanto il numero di posti regolamentari - non considero quelli realmente disponibili per carità di patria - sono aumentati nei mille giorni solo di 126: quindi, all’incirca uno ogni otto giorni. Il calcolo è così semplice: si è avuto un nuovo posto mentre si avevano 52 persone in più da sistemare e si è andati avanti con questo ritmo. Ogni giorno e il numero cresceva non per maggiori nuovi ingressi in custodia cautelare, come ho sentito dire da qualcuno compiacente, bensì per minori uscite. Il ministro della giustizia nel frattempo ci ha intrattenuti con varie ipotesi risolutive: una caserma quasi pronta da riconvertire per alloggiare persone, un imponente programma di investimento edilizio che ci porterà alla fine del prossimo anno circa 600 posti modulari - che con il ritmo attuale dovranno essere pronti ad alloggiare, basta fare 6.5 per 365, ben 2.373 persone detenuti in più. Ci ha poi informato sugli effetti di un decreto legge pre-estivo, numero 92, ed era il 3 luglio dello scorso anno, configurandoli addirittura come “umanizzazione carceraria”; quindi sulla possibilità di aumentare le telefonate da parte delle persone ristrette, senza aver però mai dato esecutività a tutto ciò, di un albo delle comunità accreditate per l’esecuzione penale in casi specifici, di una semplificazione del calcolo della liberazione anticipata in modo da favorire una maggiore fluidità verso l’esterno, che nulla ha risolto se non aggravare il lavoro della magistratura di sorveglianza, fino a prevedere oggi una task foce per esaminare, dopo l’estate, le situazioni più semplici di possibile accesso alle misure alternative. Un insieme vario e talmente eterogeneo da dare la sensazione della mancanza di una qualsiasi linea adeguata alla consapevolezza del problema e alla sua drammaticità. Anche perché, nel frattempo, il governo da lei presieduto si è distinto per la creatività nell’introduzione di nuovi reati nonché aumenti di pena per altri già previsti nel nostro codice, così determinando anche un complessivo aumento della permanenza detentiva, perché molti di essi hanno trasformato ciò che era “disciplinare” in carcere in nuovo reato penale: anche in questo caso senza che abbia avvertito un qualche sollievo o miglioramento chi in carcere lavora. Tantomeno sono diminuite le situazioni di fragilità e gli esiti funesti che queste spesso determinano. Mille giorni, signora Presidente, sono un traguardo che va letto sotto una molteplicità di lenti: quella del mondo della vulnerabilità, quella del mondo dell’incertezza e quella del mondo dell’abbandono sono buoni occhiali. E la realtà detentiva sta lì a dirci che spesso proprio le immagini che tali lenti ci consegnano vanno a confluire in quel luogo e vi trovano amplificazione. Ancor più se si persevera a considerarlo come luogo di minore interesse, luogo altro, luogo deposito di difficoltà sociali che richiederebbero altri strumenti di contrasto e supporto anche fuori da quelle mura. Ma è anche un luogo che per chi, pur esercitando un ruolo politico apicale, ha avuto esperienza delle difficoltà sociali, perché nel sociale ha costruito la sua strada, anche se con percorsi ben diversi e distanti dai miei, dovrebbe suonare come un luogo di consapevolezza. Forse quello in grado di far capire quanto possano essere effimeri gli altri numeri elencati nella celebrazione dei mille giorni. *Ex Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Non è da “buonisti” chiedere carceri più umane e dunque più efficienti di Claudio Trevisan Il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2025 Perché lo Stato continua a non rispettare quanto stabilito dalla Costituzione? Perché lo Stato non adotta sistemi carcerari che alla prova dei fatti dimostrano di essere molto più efficienti del nostro? Il tasso generale di recidiva in Norvegia è solo dell’18%, Portogallo 30%, Svizzera 45% e Germania 48%. Visto che l’Italia spende 3,4 miliardi l’anno per un sistema carcerario dove 70% dei detenuti vengono nuovamente condannati per nuovi reati entro 2 anni dopo il rilascio, forse sarebbe il caso di cambiare qualcosa per migliorare il ritorno sull’enorme capitale investito. Il 3° Comma dell’Art. 27 della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. I detenuti puniti con la privazione della loro libertà dovrebbero comunque essere trattati con dignità/rispetto e aiutati a sviluppare un senso di responsabilità verso la comunità e a non commettere altri reati. Nel 2025 ci sono circa 62,500 detenuti (con 31,000 agenti della Polizia Penitenziaria). Le nostre carceri sono sovraffollate con l’occupazione al 133% della capienza ufficiale. L’occupazione nelle carceri tedesche è all’80?% della capienza ufficiale, Svizzera 90%, Norvegia 72% e Portogallo 95,5%. Quando i detenuti (insieme agli agenti) vivono con questo sovraffollamento, in condizioni di caldo estremo (oltre 40 gradi), senza ventilatori/frigoriferi/aria condizionata e dove rischiano la violenza, pare evidente che i trattamenti siano contrari al senso di umanità. Mi sembra che le carceri siano diventate come tante pentole a pressione, con la situazione carceraria sempre più esplosiva (vedi rivolte e suicidi). C’è chi propone di costruire più carceri ma questo non risolverebbe il problema della recidività e servirebbero sempre più carceri. Inoltre, c’è già adesso una carenza di personale carcerario e ho il sospetto che, causa l’enorme debito pubblico e l’aumento delle spese militari, non ci siano i fondi necessari per nuove costruzioni. C’è chi propone indulti ogni anno con il risultato che i detenuti gettati in strada senza casa/lavoro e quelli tossicodipendenti senza cure, riprendono a delinquere con ulteriori danni per la società, più lavoro per le forze d’ordine, intasamento dei tribunali e poi subito dopo rientreranno in carcere in un circolo vizioso dantesco senza fine. La categoria di detenuti che ha la più alta % di recidività sono i tossicodipendenti/alcolisti (83,5%) che sono il 40% dei detenuti (25,000 circa). Facile dire che devono prendersi le loro responsabilità, ma a me sembra che queste persone con gravi problemi di dipendenza non abbiano molta capacità di intendere e volere, specialmente quando hanno crisi d’astinenza. Secondo me se i detenuti, tossici/alcolisti, fossero obbligati a scontare le loro pene nei centri di recupero, risolveremmo il problema delle loro cure, del sovraffollamento nelle carceri e ridurremmo la % di recidività. Naturalmente servirebbe anche trovare/addestrare le persone necessarie per gestire i centri di recupero. A mio parere non è da “buonisti” ma di buon senso riabilitare/curare questi detenuti nei centri di recupero e non nelle carceri dove non riescono a curarli. Invece di pagare 161 euro (costo giornaliero in carcere) per mantenere a vita tossici/alcolisti recidivi, sarebbe meglio spenderli per curarli/riabilitarli. Visto che i detenuti con la più bassa % di recidività (2%) sono quelli che lavorano sarebbe logico aiutare i detenuti ad imparare un mestiere. Perché lo Stato continua a non rispettare quanto stabilito dalla Costituzione? Perché lo Stato non adotta i sistemi carcerari molto più efficienti e più umani del nostro? Probabilmente questo è dovuto perché manca il coraggio politico per trasformare il carcere in uno strumento di reinserimento, invece di sola punizione. Mi sembra che alla Destra convenga avere carceri sovraffollate per giustificare indulti sistematici e domiciliari (specialmente per i colletti bianchi) e conviene avere il caos/violenza nelle carceri e criminalità nelle strade per poter attirare più voti e togliere la nostra libertà tramite dl Sicurezza draconiane. Ecco il piano carceri (ma senza indulto). Gli effetti solo dal 2026 di Marco Iasevoli Avvenire, 23 luglio 2025 Il Governo punta sull’edilizia. Nordio: liberazione anticipata sarebbe una resa. Meloni: certezza della pena. Un disegno di legge (non un decreto) per la detenzione di tossicodipendenti nelle comunità. “No” a una “liberazione anticipata, lineare e incondizionata”, insomma “no” a un indulto perché “sarebbe una resa dello Stato”. È la premessa del governo, e del Guardasigilli Carlo Nordio, al piano-carceri presentato ieri in Cdm, articolato in tre passi: aumento dei posti, “detenzione differenziata” per le persone tossicodipendenti e alcol-dipendenti, nuove procedure per chi potrebbe avere diritto alla liberazione anticipata. Tempi lunghi e paletti: i nodi del piano-Nordio - Il piano tuttavia presenta diversi punti di domanda se raffrontato all’emergenza umanitaria in corso nelle carceri italiane: per quanto riguarda i nuovi posti, dei 15mila promessi entro il 2027 solo una piccola parte sarà recuperata da qui alla fine del 2025, mentre sulla “nuova edilizia” il programma sembra ancora ai primi passi. Per quanto riguarda la possibilità, per le persone affetta da dipendenza da droga e alcol, di scontare la pena fuori dal carcere e in strutture che possano aiutarle, i due paletti, che tra l’altro vengono inseriti in un disegno di legge dai tempi lunghi e non in un decreto con effetto immediato, rendono incerti i numeri reali: le persone dovranno chiedere la detenzione differenziata e devono aver commesso reati connessi alla propria dipendenza. Il numero di 10mila detenuti interessati dal provvedimento è dunque “a spanne”, non rigoroso, come ammette lo stesso Nordio. Anche per quanto riguarda i “circa 10mila” che potrebbero essere interessati dalla liberazione anticipata per fine pena e partecipazione agli interventi rieducativi ci sono paletti: i detenuti ne devono fare richiesta, non devono avere una richiesta già respinta, devono inoltre caricarsi dell’onere di presentare al direttore dell’istituto penitenziario una cartella completa circa la propria storia detentiva. Considerando anche le richieste che giacciono nei cassetti dei (pochi) magistrati di sorveglianza, il complesso delle nuove misure non sembra offrire sollievi a breve termine. Edilizia, dipendenze e fine pena: la linea del governo - Al termine del Cdm, insieme al ministro Nordio è stato il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, a illustrare la pianificazione dei nuovi posti previsti nelle carceri italiane. Doglio ricorda che al momento sono detenute 62.986 persone, a fronte di una capienza degli istituti di 52mila, mentre i posti effettivamente disponibili sono circa 47mila. Sono dunque da recuperare 5mila posti esistenti ma inservibili, cui il governo ne vuole aggiungere 10mila attraverso nuovi edifici o ampliamenti di quelli esistenti, per un totale di 15mila nel triennio 2025-2027, cui aggiungerne altri 5mila nel quinquiennio. Ma andando a vedere quanti saranno disponibili nel 2025, ne vengono fuori appena 1.472. Gli auspici di un alleggerimento della pressione carceraria sono rinviati al 2026. Il costo complessivo da qui al 2027 è di 758 milioni: la parte del leone la fanno il ministero delle Infrastrutture con 374 milioni e il Commissario straordinario con 301. Tornando al disegno di legge contenente sulla “detenzione domiciliare per il recupero dei detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti”, Nordio parla di persone “da curare” piuttosto che “criminali”, e di un approccio “meno carcerocentrico”. Per quanto riguarda la liberazione anticipata invece non si tratta di una nuova norma: con un Dpr sarà resa (forse) più rapida l’attuazione di leggi già esistenti. Meloni: ascoltate le comunità terapeutiche - Nonostante l’impatto minimo su questa estate torrida e disumana delle carceri italiane, anche la premier Giorgia Meloni ha voluto commentare con un videomessaggio il piano presentato in Cdm. Esalta l’impegno sulla nuova edilizia e sui nuovi posti, che collega alla “certezza della pena”, perché “in passato si adeguavano i reati al numero dei posti disponibili nelle carceri, per noi invece lo Stato deve adeguare la capienza al numero di persone che devono scontare una pena”. Poi rivendica il disegno di legge rivolto ai detenuti tossicodipendenti: “Un provvedimento molto significativo - dice -, offre la possibilità di espiare la pena fino al tetto di 8 anni all’interno di una comunità terapeutica e di iniziare un reale, concreto, verificabile percorso di recupero. Così abbiamo raccolto le richieste delle comunità”. Meloni spiega inoltre che la comunità potrà essere scelta “fin dal momento dell’arresto”, così “si recupera la persona e si eleva il livello di sicurezza eliminando la molla che conduce a delinquere”. La premier annuncia inoltre mille assunzioni nella Polizia penitenziaria nella prossima legge di bilancio. Carcere, ecco il piano Nordio: moduli prefabbricati e più detenzione domiciliare di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2025 Via libera del Cdm. Il presidente del Cnf avverte: “La risposta non può essere solo quantitativa. Serve garantire dignità e reinserimento. Nessuna liberazione speciale anticipata, nessun intervento generalizzato. Il piano del ministro Carlo Nordio, approvato dal Consiglio dei ministri, punta su due direttrici: meno burocrazia, più spazio fisico. Tradotto: moduli prefabbricati per ampliare le celle e un disegno di legge per facilitare la detenzione domiciliare dei detenuti tossicodipendenti. Due gli interventi principali: un ddl per ampliare l’accesso alla detenzione domiciliare per detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti, e uno schema di decreto del Presidente della Repubblica che riforma il regolamento penitenziario. Obiettivo: rendere più rapida e trasparente la liberazione anticipata e aumentare i contatti telefonici con i familiari. Il primo intervento apre alla possibilità, ancora tutta da definire nei dettagli, che chi ha problemi di tossicodipendenza o alcolismo possa accedere più facilmente alla detenzione domiciliare o a comunità di recupero. Una misura selettiva, legata a percorsi terapeutici. Il governo spera così di alleggerire il sovraffollamento, considerando che oltre il 30% dei detenuti rientra in queste categorie. Già l’anno scorso era stato approvato un decreto in materia, ma i decreti attuativi non sono mai arrivati. Non mancano le critiche, soprattutto da parte di Antigone. Nessuno sconto di pena, nessuna misura come la proposta di legge Giachetti - Bernardini. Il secondo pilastro del piano è l’attuazione della riforma introdotta dal decreto-legge 92/2024, con un intervento sul regolamento penitenziario (Dpr 230/2000), rimasto finora fermo. Gli obiettivi sono tre: garantire ai detenuti la certezza sin dall’inizio sul beneficio della liberazione anticipata; legarlo a una reale partecipazione al percorso rieducativo; ridurre i tempi morti dell’istruttoria, che spesso rendono inefficace la misura. Viene istituita una cartella personale anche per chi è in esecuzione penale esterna. Ogni sei mesi, il carcere o l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna) dovranno aggiornare la cartella con una relazione sul percorso svolto. Questo dovrebbe evitare le solite relazioni scritte all’ultimo momento, o le cartelle incomplete. Se il giudizio sull’impegno rieducativo è negativo, il detenuto dovrà essere informato. Potrà rivolgersi al magistrato di sorveglianza entro 30 giorni per chiedere una valutazione. È la risposta ai dubbi di legittimità sollevati in questi mesi: si vuole evitare che il detenuto resti all’oscuro e perda il beneficio per semplice mancanza di informazioni. Altro punto chiarito: la detenzione domiciliare deve essere trattata come detenzione a tutti gli effetti, anche se avviene fuori dal carcere. Oggi, spesso, magistratura di sorveglianza e Uepe ne ignorano perfino l’esistenza. Questo aggiornamento normativo cerca di colmare quel vuoto. Per i detenuti comuni i colloqui con i familiari passano da uno a settimana a sei al mese. Per i detenuti in regime di alta sicurezza si sale da due a quattro al mese. I colloqui telefonici verranno equiparati a quelli in presenza, anche dove prima non era previsto. Per i condannati in primo grado sarà il direttore dell’istituto, e non più il giudice, a decidere sulla gestione dei colloqui. Il governo assicura che non ci saranno costi aggiuntivi. Tutto dovrà essere gestito con risorse e strutture già esistenti. Una promessa che stride con le croniche carenze di personale negli istituti e negli uffici di esecuzione penale esterna. Sul sovraffollamento si punta ancora sull’edilizia: 335 milioni di euro per nuovi padiglioni a Roma, Milano, Bologna, Forlì, Pordenone e altre otto strutture. Ma soprattutto, i famigerati moduli prefabbricati, già al centro di polemiche. “Oggi abbiamo portato in Consiglio dei ministri una serie di provvedimenti volti ad affrontare il problema del sovraffollamento carcerario. È un problema la cui soluzione costituisce per noi una priorità, ma è anche un problema che non può essere risolto con la bacchetta magica visto che si è sedimentato nei decenni, e quindi necessita anche di provvedimenti strutturali”. Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in conferenza stampa a palazzo Chigi dopo la riunione del Cdm. In questo contesto arriva anche il commento dell’Avvocatura. “Accogliamo con grande attenzione il piano del ministro Nordio per affrontare il sovraffollamento carcerario, una crisi drammatica che ha già causato oltre 40 suicidi dall’inizio dell’anno e che mina i principi fondamentali della nostra Costituzione, a partire dall’articolo 27”, dichiara Francesco Greco, presidente del Consiglio nazionale forense. “Riconosciamo - prosegue il vertice del Cnf - l’urgenza di aumentare i posti disponibili, tuttavia, la risposta non può essere solo quantitativa. Occorre comprendere meglio nei dettagli le ipotesi di carceri modulari e i padiglioni aggiuntivi. “La vera svolta - spiega Greco - passa dalle misure alternative: affidamento in prova, detenzione domiciliare, percorsi di reinserimento. Condivido pienamente la proposta sulle misure alternative per i detenuti non pericolosi e il trasferimento dei tossicodipendenti in comunità. L’affidamento a centri di recupero è la strada più saggia: libera le carceri e restituisce a queste persone una possibilità concreta di riscatto, nel vero spirito rieducativo della pena”. Conclude il presidente del Consiglio nazionale forense: “Come Avvocatura, siamo e saremo sempre in prima linea a garanzia dei diritti fondamentali dei detenuti, perché ogni persona, anche in carcere, mantenga la propria dignità”. Carceri, il piano monco del Governo: le celle sostituite dai container di Luciana Cimino Il Manifesto, 23 luglio 2025 Dal cdm via libera alle misure di Nordio contro il sovraffollamento dovuto anche all’aumento dei reati voluto dalla maggioranza. Tra voto al Senato sulla separazione delle carriere e il piano carceri licenziato dal consiglio dei ministri, ieri doveva essere per il guardasigilli Carlo Nordio la grande occasione per riprendersi da settimane di polemiche e accuse. “È una giornata intensa per la giustizia”, aveva detto cominciando la conferenza stampa post cdm in cui doveva illustrare i provvedimenti contro il sovraffollamento carcerario. Però qualcosa è andato storto. Le domande dei giornalisti, nello specifico, e Nordio si è innervosito al punto che ha tentato di lasciare la sala di palazzo Chigi in anticipo. Intanto contravvenendo ai consigli della premier Giorgia Meloni, che solo 24 ore prima gli aveva consigliato di non esagerare i toni contro i magistrati e tenere un profilo basso, ha fatto tutt’altro sotto lo sguardo preoccupato dello staff di comunicazione del governo. Meloni, in un certo senso, è riuscita comunque a commissariare il titolare di via Arenula nella comunicazione, attraverso il suo consueto video di rivendicazione: “Rispettiamo la parola data e il programma che abbiamo presentato ai cittadini”. È vero infatti che fin dall’insediamento la destra aveva indicato la sua linea sulla detenzione: nessun indulto e anzi aumento dei reati e delle pene. La Presidente del Consiglio ha spiegato in due parole il “piano straordinario di interventi” che secondo il governo porterà a circa 10 mila nuovi posti detentivi “con un investimento complessivo di oltre 750 milioni di euro”. “Stiamo lavorando per aggiungere altri 5 mila posti in modo da colmare l’intero divario che c’è tra le presenze e i posti disponibili - ha detto Meloni -. In passato si adeguavano i reati al numero dei posti nelle carceri. Noi riteniamo, viceversa, che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena”. “Finalmente certezza della pena!”, ha esultato, prima di promettere di coprire i vuoti di organico della polizia penitenziaria: “Prevediamo mille extra assunzioni già nella prossima legge di bilancio”. C’è anche un provvedimento per le persone tossicodipendenti che potranno scegliere la detenzione “differenziata” in comunità. Nordio, durante la conferenza stampa, si è giustificato più volte per le cifre sbagliate che ha dato in passato e che ha finto per dare nel corso dell’appuntamento con i giornalisti. Difatti si incespica più volte, si confonde. Ma i provvedimenti sono quelli già resi noti e arrivati ieri in cdm giusto per le pressioni delle Corti europee e per i moniti del presidente della Repubblica Mattarella: container sul modello Albania per spostare il sovraffollamento in cassoni che finiranno comunque all’interno delle strutture già al collasso (in media la sovrappopolazione è del 133% secondo i dati del ministero), qualche concessione ai detenuti con l’aumento delle comunicazioni con l’esterno, sconti di pena. Il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio (ex dirigente nel settore delle infrastrutture), dopo le polemiche per l’inerzia del suo ufficio, ha presentato anche alcune slide, che fanno sempre scena. Scena che crolla quando Doglio e il suo ministro sono costretti ad ammettere che gli effetti delle loro misure non si vedranno presto: “I numeri dei detenuti che potrebbero essere oggetto delle norme sono alti e i magistrati di sorveglianza sono pochi”, ha messo le mani avanti il guardasigilli. Per scaricare poi le responsabilità sui togati: “Da mesi sollecitiamo trasferimenti ma ci sono resistenze da parte del Csm, non dipende da noi”. Per quanto riguarda il provvedimento normativo: “Prima lo facciamo e meglio è, se c’è il supporto delle opposizioni”. Insomma, i presunti benefici per i detenuti arriveranno, forse, in futuro. Anche perché oltre ai magistrati di sorveglianza mancano funzionari e cancellieri e i tribunali affogano nelle pratiche già avviate e non smaltite. E continuano i suicidi in cella (124 dal 2024 a maggio 2025) mentre il caldo aggrava le condizioni di vivibilità. Su quest’ultimo punto, specifica Nordio, suscitando risatine nella sala stampa, “il consiglio nazionale forense ha regalato 120 ventilatori agli istituti”. Al suo fianco non ci sono né il sottosegretario Andrea Delmastro, sostenitore della linea durissima contro i detenuti, né il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, che però non mancherà di postare sui social il suo commento senza attendere la fine delle comunicazioni di Nordio: “Più carceri per ospitare i delinquenti e riforma della giustizia per offrire efficienza ai cittadini”. Carcere come “casa-lavoro”. Il cambio di paradigma che affascina il Governo Meloni di Luca Rondi altreconomia.it, 23 luglio 2025 Una proposta del think tank “Spazio aperto” prevede la costruzione di nuovi istituti “inglobati” all’interno di un polo produttivo. L’imprenditore, in asse con le Fondazioni bancarie, avrebbe accesso a ingenti sgravi fiscali e agevolazioni nella costruzione. Seppur il “trattamento” dei detenuti resti in capo all’amministrazione penitenziaria, per gli esperti si tratta di una proposta preoccupante. Accolta però con diverse aperture da parte dell’esecutivo. “I rischi sono enormi”, dice Roberto Bartoli, professore di Diritto penale all’Università di Firenze, per descrivere la proposta promossa dal think tank Spazio aperto di un nuovo modello di carcere in Italia che mette al centro la figura dell’imprenditore privato che, a fronte di cospicui benefici fiscali, realizza una struttura in cui convivono il polo industriale e una sezione penitenziaria per i detenuti-lavoratori. “La novità non sta tanto nella ‘privatizzazione’ del carcere -riprende Bartoli- quanto nel cambio totale di paradigma per cui si propone una ‘casa-lavoro’ che rimanda all’idea di una sorta di istituzione totale”. Un modello che sembra fare però breccia nel Governo Meloni. “Ci sono diversi segnali di apertura verso la privatizzazione, sotto mentite spoglie, dell’esecuzione penale. Non solo sul progetto di Spazio aperto”, sottolinea Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che da più di trent’anni si occupa di giustizia penale. A fine maggio nella sede della Fondazione Cariplo a Milano, il presidente del think tank Marco Martellucci, presentando la proposta, ha sottolineato l’urgenza di “cambiare il paradigma” attraverso la “creazione di un patto sociale tra chi ha sbagliato, l’imprenditore, lo Stato e il cittadino contribuente”. Non solo per superare l’annoso problema del sovraffollamento -al 30 giugno 2025 secondo Antigone c’erano 62.728 detenuti a fronte di circa 46.717 posti effettivamente disponibili- ma soprattutto per abbattere l’elevato tasso di recidiva di chi finisce di scontare la pena. Come? Nella proposta di 44 pagine si delinea “un approccio imprenditoriale” che può coniugare “l’ottimizzazione dei costi e dei ricavi di un’attività industriale affiancata alla gestione amministrativa dell’istituto di detenzione”. Spazio aperto individua nel binomio “imprenditore-Fondazione di origine bancaria” quel soggetto “capace di sostenere un investimento e la realizzazione di un nuovo modello di ‘struttura di detenzione’” che sarebbe composta da una parte “detentiva” -nel rispetto dei più moderni standard architettonici- e una industriale per lo svolgimento delle attività lavorative dei detenuti. Sarà l’imprenditore a sostenere totalmente i costi di costruzione a fronte di benefici fiscali. Il terreno dove sorge la struttura verrà dato in concessione demaniale almeno cinquantennale o legata al punto di pareggio del piano industriale mentre l’iter di realizzazione sarà velocizzato grazie a una concessione edilizia rilasciata in conferenza dei servizi sotto la regia del ministero della Giustizia e di quello delle Infrastrutture. Inoltre verrà previsto un credito d’imposta specifico e benefici fiscali per l’azienda in relazione all’attività produttiva. Una volta che il polo sarà realizzato, i detenuti “su base volontaria” potranno richiedere il trasferimento “per un periodo non inferiore o preventivamente ritenuto necessario dall’imprenditore sociale per la formazione dello stesso e un congruo periodo di attività lavorativa”. L’obiettivo ultimo, come detto, sarebbe ridurre attraverso il lavoro quella quota di sette persone su dieci che una volta uscite dal carcere tornano a commettere reati. “La visione per cui il lavoro abbatte la recidiva è distorta -spiega Giovanni Torrente, professore di Sociologia del diritto dell’Università di Torino-. Il lavoro non rende liberi e sponsorizzare questa idea è preoccupante a livello culturale prima ancora che da un punto di vista di modalità di realizzazione”. Spazio aperto ipotizza poi una “gestione” dello Stato dello stipendio del detenuto che viene suddiviso in cinque parti. Una quota viene destinata al mantenimento dello stesso, per abbattere le spese di detenzione, un’altra al nucleo familiare o ai congiunti più prossimi, una terza come forma di “accantonamento” risparmio, gestito dalla Fondazione di origine bancaria che collabora nel progetto. E poi un quinto per le spese personali e ciò che resta come forma di riparazione per la vittima. “Se lo stipendio è ‘eterogestito’ -riprende Bartoli- si snatura l’idea del lavoro come forma di risocializzazione e si perde la parificazione tra il dipendente ‘dentro’ e ‘fuori’”. Per il professore altri tre elementi sull’idea di lavoro promosso da Spazio aperto sono problematici: “Il progetto sulla persona, oltre che professionalizzante, dev’essere personalizzato e in questo caso non lo è, essendo esclusivamente in funzione delle esigenze dell’industria. Infine, non prepara la persona a quando concluderà la pena: non è un ponte con l’esterno perché dalla struttura il detenuto non esce mai”. Martellucci, presidente di Spazio aperto, ha sottolineato che la gestione del “trattamento” dei detenuti resterà in capo all’amministrazione penitenziaria. “Non permettiamo storture”, ha sottolineato durante il convegno. Questo aspetto di “salvaguardia” del ruolo del pubblico non convince però Susanna Marietti di Antigone. “I detenuti diventano forza-lavoro per l’imprenditore -osserva- che spende tempo e soldi per formarli e quindi non avrà nessun interesse al fatto che questi accedano a misure alternative alla detenzione. E poi chi dirà se si sono ‘comportati bene’ o meno? Sempre il datore di lavoro. Così il trattamento si privatizza nella sostanza anche se è salvaguardato dalla forma”. Il progetto di Spazio aperto è stato presentato una prima volta a Roma nell’ottobre 2024 e successivamente, come detto, a fine maggio a Milano. Questi due eventi pubblici hanno visto la partecipazione di nomi di “peso”: il trait d’union presente a entrambi gli incontri è stata Irma Conti, membro del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, mentre nella tappa lombarda è arrivata la “benedizione” al progetto del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, quella “a titolo personale” del presidente del Senato Ignazio La Russa e infine una disponibilità di massima per un incontro da parte del viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto. “L’impressione è che Roma appoggi questa idea, anche se magari non ne condivide tutti i punti e le modalità”, spiega Marietti che sottolinea come non sia l’unico “esperimento” di “esternalizzazione” dell’esecuzione della pena in corso. La legge varata l’8 agosto 2024 prevede che venga istituito presso il ministero un elenco “delle strutture residenziali idonee all’accoglienza e al reinserimento sociale” al fine di “semplificare la procedura di accesso alle misure penali di comunità e agevolare un più efficace reinserimento delle persone detenute adulte”. L’elenco delle strutture doveva essere adottato entro metà febbraio 2025 ma non è ancora stato pubblicato. “Il problema è che il decreto assegna a chi gestisce le strutture anche il compito di garantire oltre ai servizi di assistenza anche quelli di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo dei detenuti. Anche questa è una forma di privatizzazione”, sottolinea Marietti. Antigone intravede gli stessi “rischi” nel sostegno dato dalla Regione Emilia-Romagna alle cosiddette Comunità educanti con i carcerati (Cec) che propongono un percorso di rieducazione dei detenuti in mano a un soggetto privato, in questo caso l’Associazione comunità Papa Giovanni XXIII, così come nell’accordo siglato a metà maggio tra il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) e l’Associazione Terra Dorea, con sede a Curti, in provincia di Caserta, sempre per la creazione di comunità educative. Il protocollo d’intesa, visionato da Altreconomia, non prevede impegni economici da parte del ministero. Intanto, nonostante la situazione esplosiva delle carceri italiane, l’esecutivo fino ad ora ha scelto di non adottare un provvedimento deflattivo ma puntare sulla costruzione di nuovi “contenitori”. Il tutto in un contesto in cui l’aumento di circa 100/150 detenuti al mese espone l’Italia al rischio di una condanna dei tribunali europei per trattamenti inumani e degradanti, come già successo dieci anni fa con la “sentenza Torreggiani”. A quel punto la proposta di Spazio aperto, a costo zero, potrebbe diventare ancor più allettante. “Il problema è uno -conclude Bartoli- si continua a pensare che la punizione possa avvenire solo in cattività ma non è così, può avvenire anche in libertà. Bisogna scardinare questa idea”. Nordio: “Contro il sovraffollamento per 10 mila detenuti possibile liberazione anticipata” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 23 luglio 2025 Il Guardasigilli in Consiglio dei ministri dopo l’appello di Mattarella sul boom di suicidi: “Oltre 61 mila reclusi: uno su tre dipende da droga e alcol”. Nessuna “liberazione anticipata, lineare e incondizionata, suonerebbe come una resa da parte dello Stato liberare i detenuti solo perché c’è posto. Ma questo piano contiene numeri non solo buone intenzioni”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha illustrato le misure contro il sovraffollamento delle carceri, prese in una giornata ad alta temperatura, non solo politica (a Roma, mentre al Senato passava la sua riforma sulla separazione delle carriere, si registravano 34 gradi). Varie le decine di migliaia di nuovi posti da rendere disponibili e di detenuti che potrebbero accedere a misure alternative. Molte le condizioni affinché ciò avvenga in questa estate rovente. Perché, ha spiegato lo stesso Guardasigilli, “non abbiamo la bacchetta magica” e i problemi si sono stratificati “nei decenni, quindi servono anche soluzioni strutturali”. “Prima si adeguavano i reati al numero di posti disponibili nelle carceri. Noi riteniamo, viceversa, che uno Stato giusto debba adeguare la capienza delle carceri al numero di persone che devono scontare una pena. Quindi finalmente certezza della pena”, dice soddisfatta la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, annunciando “mille extra assunzioni già nella prossima legge di Bilancio”. Inoltre, aggiunge, “abbiamo approvato un provvedimento molto significativo, un disegno di legge che offre a una persona tossicodipendente che ha commesso reati, chiaramente correlati alla droga, la possibilità di espiare la pena fino al tetto di 8 anni di detenzione domiciliare all’interno di una comunità terapeutica e di iniziare un reale, verificabile, percorso di recupero”. L’obiettivo, chiosa Nordio, “non è solo lo sfoltimento ma il recupero delle persone”. Però è anche la giornata in cui il ministro si toglie alcuni sassolini dalla scarpa e torna sulle polemiche di questi giorni. Muto in Aula, di fronte agli attacchi durissimi delle opposizioni, in conferenza stampa si è difeso dalle accuse di non tollerare critiche. “Me ne hanno dette di tutti i colori, oggi, Scarpinato mi ha quasi dato del mafioso: affermazioni gravi e improprie, però è la politica”. E su Renzi - che lo ha accusato di essere stato, durante il caso Almasri, “manipolato” dal suo capo di gabinetto Giusi Bartolozzi - ha parlato di “caduta di stile”. E sui presunti silenzi: “Qualcuno dimentica che sono indagato, non mi si può chiedere da magistrato di violare il segreto istruttorio”. Diverso, dice, il caso del magistrato Raffaele Piccirillo: “Primo dovere del magistrato è non parlare dei procedimenti in corso, cosa vietata dall’ordinamento giudiziario”. Come a dire: io non interverrò, ma l’azione disciplinare può essere esercitata anche dal procuratore generale. Definisce una “porcheria” anche il dover apprendere dai giornali “notizie riservate o segrete”, come è accaduto a Beppe Sala. Annuncia l’intenzione di una “revisione del segreto istruttorio. Non è colpa dei giornalisti, ma di chi le divulga. A Milano basterebbe applicare la legge per la divulgazione illecita le conseguenze dovrebbero esser quelle che non vengono mai adottate”. Si dice contrario a intervenire ora sull’abolizione dell’impugnazione in secondo grado per chi è stato assolto in primo grado. Misura sulla quale la Lega preme, perché riguarda anche il processo Salvini Open Arms per il quale i pm sono ricorsi in Cassazione. “Intervenire ora sarebbe di pessimo gusto”, dice il ministro. Infine con i cronisti si concede anche qualche battuta: “Prima ero al bar ma bevevo un caffè. Fosse stato uno spritz, qualcuno si sarebbe arrabbiato”. “È stata una giornata epocale. Ma il bello deve ancora venire” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 23 luglio 2025 Non nasconde entusiasmo e soddisfazione il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro delle Vedove, in merito all’approvazione da parte del Consiglio dei ministri di “tre provvedimenti fondamentali per restituire dignità alla giustizia italiana. Stiamo parlando di un nuovo piano carceri da oltre 750 milioni per recuperare 10 mila posti detentivi, una riforma liberale per garantire la disintossicazione e la rieducazione dei tossicodipendenti, una legge delega per ridisegnare una geografia giudiziaria più vicina alle esigenze dei territori e dei cittadini. Queste - commenta Delmastro - sono tutte misure epocali che aggrediscono alla radice i problemi atavici della giustizia italiana. Raccogliamo i frutti di due anni e mezzo di duro lavoro del governo Meloni, mille giorni al servizio degli italiani che hanno chiesto discontinuità rispetto al passato e cambiamento rispetto alle ricette stanche della sinistra giudiziaria. Siamo solo all’inizio: il bello deve ancora venire”. Sottosegretario Delmastro, come valuta l’approvazione del piano carceri in Consiglio dei ministri? Direi che siamo di fronte ad un risultato epocale. Le risorse destinate complessivamente ammontano a 750 milioni di euro per recuperare 10mila posti detentivi oggi mancanti. Sono nato circa cinquant’anni fa. Mezzo secolo fa c’era il problema del sovraffollamento, mancavano 10mila posti detentivi. Dopo cinquant’anni, abbiamo di fronte ancora lo stesso il problema, con gli stessi posti detentivi mancanti. Evidentemente le misure svuota carcere in passato non hanno funzionato e vogliamo porre fine a questa situazione diventata ormai insostenibile. Non solo infrastrutture. Il governo si è mosso pure nella direzione di affrontare il delicato tema dei detenuti tossicodipendenti. Quali sono le novità? Da una parte c’è un piano di edilizia penitenziaria che umanizzi la pena per il tramite di posti di detenzione congrui e corretti e dall’altra la grande riforma relativa ai detenuti tossicodipendenti o ai condannati per reati legati alla tossicodipendenza o alla necessità di approvvigionamento economico per tossicodipendenza. Si tratta di una misura di grande segno liberale, perché consentiamo, fino a una pena di otto anni, di concordare la pena stessa. Quando parliamo di concordare una pena si pensa un a patteggiamento, invece è un istituto diverso. Io concordo la pena fino a otto anni, senza il terzo di sconto, perché, appunto, si tratta di una pena concordata e concordo anche la sua esecuzione. Pertanto, se io sono tossicodipendente, se viene accertato il mio stato di tossicodipendenza e se viene accertata la genuinità della mia volontà di intraprendere un percorso di disintossicazione, l’esecuzione può avvenire all’interno delle comunità di recupero. Per chi patteggia invece nel rito ordinario, quello fino a cinque anni, oltre al terzo di sconto di pena, il giudice potrà disporre direttamente, senza passare dalla sorveglianza, l’esecuzione pena in comunità di recupero. Viene offerta una sola, ma importante, possibilità per coloro che sono corrosi dal demone della droga per avviare un vero reinserimento con la disintossicazione. Mi pare una misura decisamente innovativa. Per quanto riguarda le comunità di recupero, qualcuno ha paventato un rischio per chi viene ospitato in quelle strutture, vale a dire la privazione della libertà personale... Gli ospiti stanno all’interno delle comunità evidentemente, quindi in un luogo circoscritto. Le stesse comunità saranno protagoniste attive, saranno chiamate a condividere il percorso terapeutico e a intuirne, per quanto possibile, la genuinità della scelta fatta. È anche questa una grande sfida tra lo Stato e il mondo delle comunità che già tanto ha fatto per liberare tanti ragazzi dal demone della tossicodipendenza. Una grande sfida legata anche alle persone attualmente private della libertà o a coloro che, a seguito di patteggiamento, potranno accedere poi direttamente a queste misure. Altro tema che desta non poche preoccupazioni è quello dell’edilizia penitenziaria che ha portato alla programmazione degli interventi per il triennio 2025- 2027. Può indicarci alcuni elementi di questa programmazione? L’importo stanziato di 750 milioni di euro, distribuiti fra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il ministero delle Infrastrutture e il Commissario, e il recupero di 10mila posti detentivi non mi sembrano novità irrilevanti. Anzi, credo che stiamo parlando di un traguardo importantissimo. È la prima volta che le problematiche che attanagliano l’universo carcerario vengono prese di petto, senza misure banalmente svuota carceri che nel tempo si sono rivelate fallimentari. Da una parte il piano sull’edilizia carceraria e dall’altra interventi rivolti a persone che debbono avere una possibilità di riscatto nella loro vita, mi riferisco ai tossicodipendenti, e che possono accedere a questa a misure di grande liberalità. È una scommessa che tutti fanno: lo Stato, la giustizia, le comunità di recupero e il tossicodipendente, unitamente alla sua famiglia, quando ha una rete familiare che lo supporta e lo aiuta. Il Senato ha approvato in seconda lettura la riforma della giustizia. Ieri è stata una giornata da incorniciare per la maggioranza e per il governo? Mi sento di dire che giustizia è fatta. Finalmente consegniamo con la separazione delle carriere una giustizia più coerente con il disegno costituzionale. L’articolo 111 recita che il giusto processo si realizza in condizioni di parità processuale fra le parti, di fronte a un giudice terzo e indipendente. In mancanza di carriere separate è difficile immaginare la parità processuale, il giudice terzo e imparziale. Inoltre, liberiamo la magistratura dalla politica, perché il sorteggio dei membri laici vuol dire che la politica non li voterà più. Liberiamo anche i magistrati dalle correnti. Anche i membri togati verranno sorteggiati, consentendo finalmente ai tanti magistrati, che sono contenti di questa riforma, di poter confidare nelle progressioni di carriera solo ed esclusivamente sul loro merito e non più perché aderiscono a questa o a quella corrente. “Pene scontate nelle comunità, no a sovraffollamento e dipendenze” di Francesco Malfetano La Stampa, 23 luglio 2025 Il sottosegretario Andrea Delmastro difende il decreto Carceri: “I moduli prefabbricati garantiscono dignità ai detenuti”. “Dare ai tossicodipendenti la possibilità di uscire dal tunnel attraverso un vero percorso di disintossicazione”. Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia, rivendica così uno dei provvedimenti più discussi tra quelli approvati ieri in Consiglio dei ministri. Si tratta della misura che consente ai detenuti tossicodipendenti condannati per reati connessi alla dipendenza di scontare la pena in comunità terapeutiche. Sottosegretario, è una misura che de facto porta la sua firma. Qual è l’obiettivo? “Dare la possibilità a chi ha commesso reati legati alla tossicodipendenza o al bisogno di procurarsi stupefacenti di disintossicarsi davvero. Per chi ha pene fino a 8 anni abbiamo previsto la possibilità di essere assegnati alle comunità. Chi patteggia, invece, potrà accedere direttamente, oltre allo sconto del terzo della pena, purché si accerti la genuinità della scelta. È un’opportunità che si può cogliere una sola volta nella vita, ma credo testimoni l’impegno del governo per ridurre il sovraffollamento carcerario e, soprattutto, rieducare chi delinque a causa della dipendenza”. Ma non c’è il rischio di allontanarsi dal modello pubblico di trattamento delle dipendenze? Le associazioni parlano di una “privatizzazione mascherata” della pena... “Assolutamente no, perché sono proprio le comunità a valutare per prime la genuinità del percorso. Nessuno potrà sfruttare questa misura in maniera utilitaristica. Non è un escamotage, ma un’opportunità seria”. Come verranno scelte le strutture coinvolte? A quali criteri dovranno rispondere? “I criteri di ammissibilità saranno definiti in una fase successiva”. Può escludere che sarà in qualche modo coinvolto anche l’ex albergo di Lozzolo, in provincia di Vercelli, di cui è comproprietario con sua sorella? Dopo la domanda il sottosegretario valuta se sospendere l’intervista, poi risponde. “Lo escludo categoricamente”. In Cdm ieri si è varata anche la creazione di 10mila nuovi posti in carcere, anche attraverso moduli prefabbricati nelle aree destinate all’ora d’aria. Non le sembra una soluzione provvisoria? “Non si tratta solo di moduli, ma anche di interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle strutture esistenti, e della costruzione di nuovi istituti, come nel caso dell’ex caserma Barbetti di Grosseto”. Moduli e prefabbricati sono strutture mobili per definizione. Sono davvero la risposta definitiva? “Sì. È una soluzione strutturale che ci consentirà di raggiungere l’obiettivo dei 10mila posti in più”. Ma la dignità dei detenuti non può ridursi solo a una questione di capienza o a qualche numero... “Certo. Ed è proprio per questo che parliamo di umanizzazione della pena: vogliamo garantire spazi dignitosi, cosa che chi ci ha preceduto non ha mai fatto. Noi ci mettiamo 750 milioni di euro. Non mi pare un dettaglio”. Il Guardasigilli ha escluso un legame diretto tra sovraffollamento e suicidi in cella. Lei è d’accordo? Vi aspettate comunque una riduzione dei casi? “È un fenomeno complesso e intimo, difficile da decifrare. Ma abbiamo agito anche su questo. Abbiamo finanziato l’assunzione di oltre 10mila nuovi agenti di polizia penitenziaria: molti sono già in servizio, altri in formazione. E per la prima volta nella storia dell’ordinamento penitenziario abbiamo saturato le piante organiche dei funzionari giuridico-pedagogici. Una maggiore presenza e spazi più umani possono aiutare anche su questo fronte”. Anche in maggioranza c’è chi invoca la “liberazione anticipata speciale” proposta da Giachetti. Il presidente Mattarella ha invitato a una soluzione definitiva sul tema carceri. Non è il momento di valutare quella strada? “Non credo nei provvedimenti svuota-carceri. Vorrebbe dire ripetere esattamente la ricetta che ci ha condotto alla situazione attuale”. Ieri il Senato ha approvato in seconda lettura la riforma sulla separazione delle carriere dei magistrati. La riforma avanza, ma le critiche di opposizione e toghe restano... “Ne hanno sollevate un milione”. C’è chi teme che vogliate politicizzare la magistratura… “Nulla di più lontano. Con il sorteggio del Csm impediamo proprio quell’intreccio tra toghe e politica. Prima i togati erano eletti dalle correnti e i laici dal Parlamento. Noi tagliamo quel legame. Per la prima volta si garantisce la vera autonomia della magistratura”. E l’Anm parla invece di una magistratura “addomesticata e subalterna”… “Addomesticata a cosa? Il sorteggio impedisce alla politica di mettere le mani dove prima le infilava sistematicamente”. Sul caso Almasri, anche ieri le opposizioni in Senato hanno chiesto le sue dimissioni o quelle del suo capo di gabinetto. Come risponde? “È l’ennesima richiesta di dimissioni che rimarrà lettera morta”. Non crede che sarebbe opportuno che il ministro Nordio riferisca di nuovo in Parlamento? “Sarà lui a decidere. Ma visto che c’è di mezzo il Tribunale dei ministri, non lo riterrei opportuno”. Promesse irrealizzabili, vite spezzate e il tempo scorre verso il disastro di Gianni Alemanno e Fabio Falbo Il Dubbio, 23 luglio 2025 Dopo i due tentati suicidi sventati in extremis a Rebibbia grazie ad altre persone detenute, alla fine nel nostro carcere è arrivato il 42° suicidio in cella del 2025. Maurizio D.B. aveva 55 anni, detenuto dal 2019 con una pena di 15 anni di carcere. Era in cella singola del Braccio G12 di Rebibbia. Negli ultimi giorni era stato raggiunto dalla notifica di un’altra condanna, sempre per rapina, ad altri 7 anni di carcere. Nella notte di venerdì 18 si è impiccato alle sbarre della finestra della cella ed è stato trovato al mattino dopo dagli agenti della Penitenziaria con il corpo già freddo. Sembra che abbia lasciato una lettera d’addio, ma non ne conosciamo il contenuto. I media - a differenza dei due precedenti tentati suicidi - questa volta hanno dato notizia. Ma quello che le cronache giornalistiche non hanno detto (perché probabilmente non lo sanno) è che, in teoria, anche questo suicidio poteva essere sventato se le ispezioni periodiche notturne avessero funzionato secondo regolamento. Ma questi giri per controllare le celle, per il sovraffollamento e per la carenza di personale della Penitenziaria, sono ridotti e spesso vengono saltati. Così, come detto, sono 42 i suicidi in carcere nel 2025, più 3 suicidi di agenti della polizia penitenziaria. Potrebbe essere superato il tragico record del 2024, durante il quale si sono suicidate 83 persone: più di 12 suicidi ogni 10.000 persone detenute. Per fare un raffronto: in Italia ogni 10.000 abitanti ci sono 0,67 suicidi e quindi nelle carceri il tasso di suicidi è 18 volte più alto di quello della popolazione normale. Ma il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha le sue teorie e continua a ripeterle con una ostinazione degna di miglior causa. Secondo lui (intervista al Corsera del 17 luglio) “l’indulto e la liberazione anticipata speciale, se motivati dal sovraffollamento, non solo costituiscono una manifestazione di debolezza dello Stato o addirittura una resa, ma sono anche inutili”. Certo, invece lo Stato italiano - con questo sovraffollamento da terzo mondo e con questo tasso di suicidi da stato totalitario - ci sta facendo una grandissima figura, da vero “Stato di diritto”. Quanto poi all’inutilità di queste misure, il Ministro ripete sempre i numeri disastrosi dell’indulto del 2006, quando una buona parte delle persone liberate tornò rapidamente in carcere per nuovi reati, ma si guarda bene dal verificare i numeri del precedente esperimento di “liberazione anticipata speciale” (che è il provvedimento su cui si stanno confrontando Giacchetti e La Russa). Con questo esperimento, imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si passò dagli oltre 68.000 detenuti presenti a metà 2010 ai circa 52.000 di fine 2015 e gli effetti positivi si vedono ancora oggi. Ma il nostro Ministro non si ferma qui. Sostiene che “paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo (contro i suicidi ndr): alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella” (sic), come se in assenza di sovraffollamento le persone detenute non stiano in cella insieme. D’altra parte, per rispondere all’emergenza del sovraffollamento, Carlo Nordio, smentendo la sua storia di magistrato garantista, dall’inizio del suo mandato da Ministro sta lanciando solo proposte irrealistiche se non surreali. Prima ha garantito la costruzione di nuove carceri, che sono tutte ancora di là da venire e che quando arriveranno dovrebbero innanzitutto sostituire gli istituti di pena che ormai meritano di essere chiusi per la loro obsolescenza (pensiamo a Regina Coeli). Poi, ha promesso di adibire a luoghi di custodia attenuata degli edifici pubblici dismessi, come le caserme, che le amministrazioni competenti non sono mai state disponibili a cedere. Ancora oggi continua a dire che trasferirà il 25% della popolazione detenuta, quella che ha problemi di tossicodipendenza, nelle comunità terapeutiche che, però, sono già piene di persone in trattamento e non ne possono ospitare molte altre. Oppure promette di trasferire i detenuti immigrati nelle carceri dei Paesi d’origine, trasferimento che richiede trattati con questi paesi d’origine che nessun governo è mai riuscito a firmare per evidenti motivi (figuratevi se li riprendono…). Infine - è l’ultima di questi giorni - ha istituito una “task force” presso il ministero per far concedere a più di 10.000 persone detenute il beneficio delle pene alternative, “dialogando” con i Tribunali di sorveglianza. Come se questi magistrati diventano improvvisamente disponibili a concedere quei benefici che non hanno finora riconosciuto alle persone detenute, spesso per gravi problemi di interpretazione giuridica o di carenza di organico. Anche questo sarà l’ennesimo buco nell’acqua che servirà solo a far rimbalzare a settembre il problema del sovraffollamento. Oggi (ieri ndr) ci dovrebbe essere un Consiglio dei ministri in cui Nordio presenterà un piano per la costruzione “immediata” di 10.000 nuovi posti in carcere, tramite strutture prefabbricate. Stendendo per ora un velo pietoso sull’abitabilità e sulla dignità per le persone detenute in questi prefabbricati, ci chiediamo in quanto tempo il ministero pensa di mettere a disposizione questi nuovi posti in carcere (che non sarebbero neppure sufficienti a coprire tutto il fabbisogno): tra gare, costruzione delle strutture, collaudi e dotazione di personale (che già ora manca) ci vorrà almeno un anno forse per mettere a disposizione 2- 3.000 posti con costi enormi. Se è no, la crescita del numero di detenuti che sarà avvenuta nel frattempo. Ricordiamo al signor Ministro che dal momento del suo insediamento il sovraffollamento è cresciuto dal 107% al 134,3% e che, se non si prenderanno provvedimenti veramente efficaci, al termine della legislatura sarà giunto alla cifra record di oltre il 160%. Una vergogna che l’Italia, la Patria del diritto, francamente non merita. Detenuti, rassegnatevi: il Governo fa solo chiacchiere di Angela Stella L’Unità, 23 luglio 2025 I detenuti si rassegnino. Dietro l’angolo non c’è alcuna soluzione immediata da parte del Governo per fronteggiare l’emergenza carceraria. Se c’era infatti molta attesa per il Cdm di ieri che aveva all’ordine del giorno quattro provvedimenti in materia giustizia, poi, ascoltando il Ministro della Giustizia Carlo Nordio nella successiva conferenza stampa, si è scoperto che tutto quello che c’è in cantiere avrà tempi di concretizzazione lunghi anche perché, come ha ammesso il Guardasigilli, si tratta di riforme strutturali. “Abbiamo portato in Cdm una serie di provvedimenti volti ad affrontare il problema del sovraffollamento carcerario, la cui soluzione costituisce per noi una priorità, ma non può essere risolto con la bacchetta magica perché si è sedimentato nei decenni”. Le direttrici illustrate sono state tre. Prima: piano di edilizia penitenziaria illustrato dal Commissario Marco Doglio. Entro il 2027 saranno a disposizione 9.696 nuovi posti su tutto il territorio nazionale. Appunto, entro il 2027, se tutto va bene. Su questo punto è intervenuto anche Matteo Salvini con una nota: “Il piano carceri del governo è diventato realtà anche grazie all’impegno del Mit che ha stanziato 335 milioni di euro”. Seconda: detenzione domiciliare in comunità per i reclusi tossicodipendenti che non abbiano commessi reati gravi. Questa previsione va attuata con disegno di legge quindi i tempi saranno abbastanza dilatati nel tempo. Terza: accelerazione delle procedure per accedere alla liberazione anticipata. Benché per questo obiettivo non ci vorrà l’elaborazione di una norma primaria, tuttavia il lavoro ricadrà principalmente sulla magistratura di sorveglianza, già in affanno. Nota, forse positiva, aver elevato il numero dei colloqui, per i detenuti comuni, da uno alla settimana a sei al mese e per i detenuti in regime di 4-bis da due al mese a quattro al mese. Il Ministro Nordio ha poi ribadito la sua netta contrarietà alla liberazione anticipata speciale proposta di Roberto Giachetti. Oggi è 23 luglio: se la maggioranza parlamentare accetta queste proposte governative per deresponsabilizzarsi e non portare all’attenzione delle Camere subito un provvedimento che deflazioni la popolazione carceraria fino a quando non terminerà questo caldo le carceri resteranno un inferno con il rischio di un aumento dei suicidi. La corrispondenza è un diritto anche al 41 bis di Maria Brucale Il Manifesto, 23 luglio 2025 La Corte europea dei diritti umani (Cedu) con sentenza pubblicata lo scorso 10 luglio 2025, nel ricorso n. 64753/14, “Gullotti contro Italia”, ha riconosciuto la violazione dell’articolo 8 della Convenzione che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, del domicilio, della corrispondenza, anche ai ristretti in regime di 41 bis. Il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia aveva rinnovato nei confronti di una persona ristretta in regime di 41 bis, per un periodo di tre mesi, il divieto di corrispondenza epistolare con persone diverse dai parenti ammessi alle visite, in ragione della pericolosità soggettiva del detenuto in quanto collocato in regime differenziato. Il ricorrente lamentava l’inosservanza dell’art. 8 della Cedu. La sentenza richiamata riconosceva la violazione “poiché la contrazione del numero di persone con cui il detenuto può intrattenere una corrispondenza equivale a un’ulteriore limitazione del diritto del ricorrente” che rende necessaria “una motivazione individualizzata, o almeno una ragionevole spiegazione dei motivi per cui il controllo generale della corrispondenza, senza limitazioni per quanto riguarda i mittenti o i destinatari, è stato ritenuto insufficiente”. La Corte europea dei diritti umani (Cedu) disegna una differenza tra la diuturna soggezione alla censura della corrispondenza delle persone in 41 bis - sostanzialmente legittimandola - perché ancorata alla presunzione di pericolosità soggettiva connaturata alla detenzione differenziata, e le ulteriori più pregnanti limitazioni del caso di specie per le quali richiede, invece, una adeguata giustificazione correlata ad un giudizio individualizzato. Il ragionamento appare, però, ragionevole solo se rapportato a una corretta applicazione della carcerazione di rigore, ammissibile per un tempo limitato, ove sia concreto e attuale il pericolo che i capi di organizzazioni criminali perdurino nel comando trasmettendo all’esterno direttive di azioni delittuose. Questo lo scopo del 41 bis e la legittimazione in ragione della quale nel 1992 si ammise, in virtù di una riconosciuta emergenza sociale, una patente violazione dell’art. 27 co. III della Costituzione, stabilendo che alcuni detenuti potessero essere esclusi - seppur per il più breve tempo possibile - dalla funzione riabilitante e restitutoria di ogni pena, sottraendoli in tutto o in parte al trattamento rieducativo ordinario, alla tutela delle relazioni familiari e affettive, alle attività di formazione e lavoro, a quelle ricreative, all’esposizione alla luce e all’aria naturali, perfino alla salute. La volontà del legislatore e la tenuta costituzionale del regime, però, sono state tradite dalla prassi di tenere i detenuti in 41 bis per anni e anni senza alcun requisito di attualità diverso dalla generica vitalità del fenomeno mafioso. È proprio per tale ragione che la Corte di cassazione, con sentenza n. 14675/2024, ha accolto il ricorso di un detenuto da ben 22 anni in 41 bis che si doleva del rinnovo del provvedimento generico di censura della corrispondenza, e ha ritenuto inammissibile la automatica derivazione fra l’assoggettamento del condannato al 41 bis e la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo. A fronte di una così lunga soggezione alla carcerazione privativa, ha spiegato la Cassazione, la compressione di un diritto fondamentale presidiato da riserva di legge rinforzata dalla garanzia giurisdizionale, deve essere specifica e individualizzata e non può affidarsi a un’operazione argomentativa che appare ellittica e tautologica. Piccole ma significanti crepe che richiamano l’attenzione su un mondo, quello dei reclusi al 41 bis, sottratto ai principi costituzionali e convenzionali che governano la pena; esclusi, non in ragione della legge ma della sua distorta attuazione, da ogni progetto e speranza di reinserimento nella società. Giustizia, sì alle carriere separate. Forza Italia celebra “il sogno di Berlusconi”. di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 luglio 2025 “Il suo sogno oggi si trasforma in realtà e il nostro presidente, dall’alto dei cieli, credo sorrida e guardi soddisfatto il lavoro dei suoi allievi”, scandisce con ostentata emozione il senatore Pierantonio Zanettin, parlando dal banco che fu di Silvio Berlusconi. “La giustizia giusta gli è stata sempre a cuore”. Zanettin offre una particolare lettura dei trascorsi giudiziari di Berlusconi e accusa: “Egli è stato e continua a essere anche oggi vittima di una giustizia ingiusta, viziata dal pregiudizio ideologico e politico”. Nella logica di Forza Italia questa riforma dovrebbe mettere fine al presunto “uso politico della giustizia”, sebbene non incida in nessun modo sui tempi e i modi di conduzione di inchieste e processi. Ma il senatore azzurro celebra ugualmente con queste premesse “lo storico voto di oggi”. A nome del Pd ha chiesto e ottenuto di intervenire Dario Franceschini, uno dei leader in campo dai tempi della fondazione, ex democristiano che parla dai banchi che furono dell’estrema sinistra e sfida la destra sul referendum confermativo previsto per il prossimo anno: “Ricordate il Papeete del 2019 e Salvini che chiedeva di votare per avere i pieni poteri? Giorgia Meloni è più furba e non lo dice, ma il desiderio di pieni poteri assomiglia molto a quello di allora. Per fortuna gli italiani hanno anticorpi forti”. Lo dimostrano i precedenti di riforme fatte a colpi di maggioranza bocciate dagli elettori nel 2006 e ne 2016. “Anche nel 2026 non pochi avranno voglia di uscire di casa per votare contro il governo e fermare le vostre tentazioni autoritarie”, prevede Franceschini che ricorre a citazioni cinematografiche assimilando le mosse della maggioranza ai pasticci combinati dall’ispettore Closeau: “È un perfido destino: dal Signore degli anelli alla Pantera rosa”. Si parla della politica di ieri e di oggi, nell’aula di Palazzo Madama che si appresta a votare la riforma costituzionale della magistratura arrivata al giro di boa della prima lettura nei due rami del Parlamento, senza che deputati e senatori abbiano cambiato una parola del testo uscito un anno fa dal Palazzo Chigi. E così sarà nei prossimi due round di Camera e Senato, fino al referendum che entrambe gli schieramenti si dicono certi di vincere. Come i capitani di ogni squadra prima di ogni partita. A Franceschini replica a stretto giro Alberto Balboni di Fratelli d’Italia, che cita un altro “grande vecchio” del Pd, Goffredo Bettini; il quale in un recente intervento su Il Foglio s’è detto favorevole alla separazione delle carriere tra giudici e pm. Ce n’erano anche altri in quel partito che ormai, denuncia il senatore meloniano, è vittima della “deriva massimalista dell’attuale segretaria, subalterna all’ultragiustizialismo a cinque Stelle. Per ritrovare i riformisti in quello che fu un grande partito a vocazione maggioritaria della sinistra occorre una puntata di Chi l’ha visto?”. I decibel della polemica e della protesta dai banchi della sinistra s’impennano, e per riportare un po’ d’ordine interviene la vice-presidente Anna Rossomando, del Pd (il presidente La Russa ha aperto la seduta, è rimasto il tempo di battibeccare con Matteo Renzi che protestava per il brusio durante il suo intervento e se n’è andato). La stessa Rossomando, in precedenza, aveva interrotto l’ex magistrato pentastellato Roberto Scarpinato, che lavorò al fianco di Giovanni Falcone nel palazzo di giustizia di Palermo, mentre replicava a quegli esponenti della maggioranza (praticamente tutti, più Calenda) che hanno citato alcuni interventi di 34 anni fa del giudice assassinato a Capaci favorevoli alla separazione delle carriere: “Non potendo esibire pubblicamente e decentemente come spiriti guida di questa riforma Gelli, Berlusconi, Dell’Utri, Previti e personaggi simili, vi fate scudo dell’icona di Falcone, che proprio dai mondi di cui questi personaggi sono l’emblema - il lobbismo, la borghesia mafiosa e i poteri economici conniventi con le mafie - fu osteggiato, ridotto all’impotenza e lasciato nelle mani dei macellai che lo massacrarono il 23 maggio 1992”. Applausi dei Cinque stelle, proteste della destra e chiosa di Rossomando: “Senatore, ricordo a lei come a tutti che rispetto al tenore di alcune affermazioni se ne assume la responsabilità”. Per il resto il dibattito fila via liscio, disturbato da un chiacchiericcio di sottofondo che quasi impedisce di sentire, come accade a scuola quando c’è la supplente e gli alunni non la stanno a sentire. E davvero sembra che ascoltare, qui, interessi poco; ognuno parla per sé e per i propri sostenitori, mentre gli altri si occupano d’altro. In apertura, quando Calenda illustra il voto favorevole di Azione, nell’aula ancora semivuota, l’unico attento a ciò che dice sembra il ministro Nordio, seduto ai banchi del governo al fianco del collega Ciriani e al viceministro Sisto, intento nella lettura di alcune carte. In un paio di occasioni il Guardasigilli pare imitare Giorgia Meloni, lasciandosi andare a plateali cenni di dissenso scuotendo la testa e mettendosela tra le mani, come quando il senatore di Avs Giuseppe De Cristofaro accusa il governo di “vendetta politica contro i magistrati”. Dopo meno di due ore si vota, sullo schermo le luci verdi sovrastano quelle rosse e Rossomando comunica: “Il Senato approva in prima deliberazione”. La destra applaude, Nordio si prende gli abbracci dei colleghi (aumentati di numero), a sinistra spuntano copie della Costituzione rovesciata accompagnate dal grido ritmato “Vergogna!”. La seduta è sospesa, la “giornata storica” è andata. Appuntamento alla Camera per il secondo giro. Anzi, alle urne. Carriere separate, secondo sì al Senato tra fischi e flash mob di Valentina Stella Il Dubbio, 23 luglio 2025 La riforma approvata in seconda lettura a Palazzo Madama: il testo ora attende l’ultimo via libera della Camera prima del referendum. “Riforma epocale, giornata storica, sogno di Silvio Berlusconi”: sono solo alcune delle espressioni pronunciate ieri nell’Aula del Senato che ha approvato con 106 voti a favore (FI, Lega, Fd’I, Nm, Azione), 61 contrari (Pd, Avs, M5S) e 11 astensioni (Italia viva) la riforma costituzionale della separazione delle carriere, alla presenza del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Al termine della votazione le opposizioni hanno messo in atto una protesta, mostrando la copertina della Costituzione italiana a testa in giù e gridando “vergogna, vergogna”. Si conclude dunque la prima fase di deliberazione, considerato che il ddl era già passato alla Camera lo scorso gennaio. In autunno il provvedimento tornerà a Montecitorio e poi di nuovo nell’Aula di Palazzo Madama. Tuttavia non saranno più possibili modifiche emendative. Quindi i prossimi passaggi saranno una semplice timbratura che la maggioranza spera di ottenere prima dell’inizio della discussione sulla legge di bilancio, per poi indire il referendum entro la fine della primavera del 2026. “Sono molto soddisfatto, perché ho realizzato una mia aspirazione: dal 1995, quando ho scritto il primo libro sulla giustizia da magistrato, ci credevo fermamente”, ha detto il Guardasigilli. A rivendicare il risultato anche la premier Giorgia Meloni, per cui l’approvazione “segna un passo importante verso un impegno che avevamo preso con gli italiani e che stiamo portando avanti con decisione”. Forza Italia ha dedicato, ça va sans dire, l’approvazione della riforma a Silvio Berlusconi. Il capogruppo azzurro in Commissione giustizia, Pierantonio Zanettin, parlando da quello che fu lo scranno del Cavaliere, ha ricordato quando “Berlusconi, parlandoci, evocava un pm che dava dal lei anziché del tu al giudice, bussava e gli chiedeva appuntamento con lo stesso rispetto e la stessa deferenza dell’avvocato difensore. Quel sogno oggi si trasforma in realtà. E il nostro presidente, dall’alto dei cieli, credo sorrida e guardi soddisfatto il lavoro dei suoi allievi. Vogliamo liberare la magistratura dal condizionamento asfissiante e mortificato delle correnti, che tanti guasti e distorsioni ha creato”. “Non vi può essere piena terzietà del giudice se giudici e pubblici ministeri continuano a condividere nello stesso organo di autogoverno reciprocamente gli uni nei confronti degli altri ogni decisione in ordine agli incarichi direttivi, all’avanzamento di carriera, all’assegnazione di sede, ai trasferimenti, ai procedimenti disciplinari”, ha aggiunto in Aula il senatore di Fd’I Alberto Balboni. “Oggi è una giornata che resterà nella storia. Il cammino verso una giustizia più giusta, che la Lega ha intrapreso sin dai referendum, è a un passo dal traguardo. L’approvazione al Senato della riforma della giustizia garantirà parità fra tutte le parti coinvolte in un processo e renderà effettiva l’autonomia della magistratura dalle distorsioni correntizie, anche grazie all’istituzione dell’Alta corte. Ora procediamo spediti, l’Italia lo merita”, ha aggiunto il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari. A favore pure Mariastella Gelmini, senatrice di Noi Moderati: “Siamo qui per compiere un atto importante e storico, ma non è un voto né eversivo né rivoluzionario. Questa riforma non scende da Marte, è un atto dovuto da quando è stato introdotto il processo accusatorio”. Per Carlo Calenda (Az), la riforma è necessaria perché “non c’è una vera indipendenza tra politica e magistratura”. Matteo Renzi, astenendosi, si è detto “favorevole” alla separazione, ma “non ad una riforma che è poco più di una bandierina” e che “non risolve nessuno dei problemi della giustizia”. Il senatore è poi andato all’attacco: “Dite che volete ridare centralità alla politica, ma avete fatto scrivere la riforma dai magistrati negli uffici legislativi, vidimata poi dal magistrato e sottosegretario Mantovano, e impedite pure ai parlamentari, anche di maggioranza, di mettere bocca”. Critica invece la senatrice dem Anna Rossomando: “È chiaro da mesi che la tanto decantata dalla maggioranza riforma della separazione delle carriere, in realtà, sottende tutt’altro. Il vero obiettivo del centrodestra è un altro, la magistratura a cui si assesta un colpo individuando nel Csm il target, delegittimandolo e colpendolo nella sua autorevolezza. Le ormai quotidiane dichiarazioni di esponenti di governo contro singole sentenze o indagini sono il corollario di una visione che vede nel potere giudiziario un avversario”. Secondo il presidente del Cnf, Francesco Greco, “il voto finale rappresenta un passaggio fondamentale nel percorso di riforma della giustizia. È un’occasione per rafforzare le garanzie del giusto processo, attraverso una più chiara distinzione dei ruoli tra accusa, difesa e giudice terzo. Si tratta di un principio già presente nella nostra Costituzione, che oggi può trovare una più piena attuazione. Chi agita il timore di un attacco all’autonomia della magistratura - ha aggiunto il vertice dell’avvocatura istituzionale - ignora un dato di fatto: l’articolo 104 della Costituzione, che sancisce l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere, non viene modificato. E se mai, in futuro, dovesse succedere, l’avvocatura sarebbe la prima a scendere in piazza al fianco della magistratura. Perché un pm libero da ogni condizionamento è una garanzia anche per la difesa: senza questa libertà, verrebbe meno il nostro stesso ruolo di avvocati”. Non è mancata ovviamente una nota dell’Anm: “La riforma costituzionale approvata oggi toglierà garanzie ai cittadini, questa è la nostra principale preoccupazione. Ed è chiaro che l’intento di questa riforma sia quello di avere una magistratura addomesticata e subalterna, che rinunci al proprio compito di controllo di legalità”. Giustizia, la deriva panpenalista fa crollare ogni equilibrio. Quella sconosciuta cultura garantista di Nicola Madia Il Riformista, 23 luglio 2025 Dalle colonne de Il Sole 24 ore i professori Vittorio Manes e Nicolò Zanon, in un articolo dal titolo evocativo (Il primato perduto della libertà individuale), hanno magistralmente sottolineato la dilagante deriva panpenalistica che sta travolgendo il diritto primario della libertà. Libere interpretazioni denotano la tendenza a usare l’arma contundente del diritto penale per fronteggiare una collettività convinta che il crimine imperversi. Il nostro paese è tra i più sicuri del pianeta. Le statistiche dicono che il numero di tutte le tipologie di reati è in costante diminuzione e che il tasso di recidiva crolla per i condannati ammessi ai benefici penitenziari, i quali, potendo reinserirsi nella collettività, scelgono, in stragrande maggioranza, di condurre un’esistenza migliore di quella infernale assicurata dal crimine. Malgrado ciò, si alimenta la narrazione di una società insicura e corrotta, dove dominano delinquenti di strada e consorterie occulte che si spartiscono la ricchezza. Si determina in definitiva il fenomeno patologico della over-criminalization, ossia della punizione da parte del legislatore di qualunque contegno che crei anche solo disagio ai “buoni” e, dal lato della giurisprudenza, della censura di comportamenti leciti, diversi da quelli espressamente incriminati dalla legge, ma ritenuti in qualche modo limitrofi, immorali o non opportuni. E cosi, qualsiasi contatto informale tra privati e pubblica amministrazione viene assimilato a un turpe patto collusivo, la legittima attività di lobbying viene equiparata alla corruzione, i medici da eroi vengono nuovamente gettati nel girone dei dannati. Si coniano immagini suggestive: il comitato d’affari, il medico killer, cinico e insensibile, l’amministratore pubblico che cementifica la città a favore dei ricchi, un paese preda del crimine. Anche mediante queste suggestioni si giustifica l’uso sproporzionato di mezzi investigativi e misure cautelari quali intercettazioni a tappeto, perquisizioni all’alba, sequestri e arresti preventivi. Sempre in questa logica si legittima la distruzione per via mediatica delle esistenze altrui, elevando la cronaca a diritto tiranno capace di schiacciare qualsiasi altra prerogativa della persona, comprese libertà personale, inviolabilità della vita privata e presunzione d’innocenza. Si può pubblicare tutto, si può crocifiggere chiunque a una frase al telefono o a un WhatsApp. Tale mancanza di equilibrio genera ovviamente perversi effetti collaterali: opere pubbliche che si fermano, rigenerazioni urbane al palo, abbandono di molte specializzazioni a rischio da parte dei medici, immigrati visti come pericolosi invasori portatori di disordine, paralisi, decrescita infelice ed emarginazione. La proporzione impone di usare gli strumenti d’indagine con misura e di attivare la macchina giudiziaria quando si è davvero in presenza di notizie di reato che giustificano interventi dirompenti. Se invece si agisce pensando di dovere debellare astratti fenomeni allora il rischio di una società rigida e illiberale è dietro l’angolo. Così come una stampa che disinforma l’opinione pubblica con titoli ad effetto fa a brandelli vite e induce sconcerto in lettori convinti di essere davanti a furfanti incalliti quando giungono esiti assolutori dopo anni di mostrificazione delle persone. Porre mano a questa pericolosa deriva, anche attraverso un’opera di diffusione di un’autentica cultura delle garanzie, è urgente. E attenzione perché “gareggiando a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura” (cit.). La giustizia della destra ispirata a Berlusconi, Nordio: “Ora dialogo con i giudici” di Francesca Schianchi La Stampa, 23 luglio 2025 Sì del Senato alla separazione delle carriere tra omaggi a Berlusconi e proteste. Ora si torna alla Camera, poi il referendum. Nordio: “Riprenda il dialogo con le toghe”. A vederla dall’alto, mezza vuota per buona parte della seduta e percorsa da un brusio continuo, l’Aula del Senato non sembrerebbe impegnata ad approvare “l’epocale riforma della giustizia”, come da trionfante definizione del ministro Carlo Nordio. Sembrerebbe più un clima da discussione generale su un tema secondario: si cambia la Costituzione tra un “colleghi abbassate la voce” e applausi di cortesia, non c’è attenzione né pathos, pure gli attacchi passano quasi inosservati, nessuno che sbraiti e si lamenti. La destra sa di avere numeri schiaccianti (finirà con 106 sì, 61 no e 11 astenuti) e si crogiola nella consapevolezza di poter fare quello che vuole, persino approvare una riforma costituzionale senza permettere nemmeno una modifica al testo originario; l’opposizione è ormai rassegnata, neanche l’ostruzionismo è servito, si limita a una protesta simbolica, la Costituzione esibita a testa in giù alla fine, la foto di Falcone e Borsellino con la scritta “Non nel loro nome”. Nel nome di Silvio Berlusconi invece sì, lo è eccome, questa riforma che divide le carriere dei magistrati, separa i Csm, li fa eleggere per sorteggio e istituisce un’Alta corte disciplinare. Lo ricorda quasi commosso il forzista Pierantonio Zanettin, “pronuncio questo intervento dallo scranno che gli appartenne”, lui che “dall’alto dei Cieli sorride e si compiace del lavoro dei suoi allievi”, conclude ispirato. Alla fine gli azzurri gli si stringono intorno, è tutto un abbraccio festoso, arriva anche il segretario Tajani: “Una grande vittoria, era il sogno di Berlusconi, oggi si realizza, sarà soddisfatto”. Perché sia definitiva, in realtà, manca ancora una doppia lettura a Camera e Senato: ma sarà solo un sì o un no senza modifiche - con questi numeri della destra, un sì garantito - è solo questione di tempo. Poi ci sarà il referendum, l’anno prossimo: ma insomma, il grosso è fatto, e che a celebrare il risultato siano soprattutto i forzisti si capisce. Della triade di riforme, una per partito di maggioranza, è di sicuro quella più vicina alla meta: l’autonomia differenziata cara alla Lega è stata in buona parte smontata dalla Corte Costituzionale; il premierato che per Giorgia Meloni “è la madre di tutte le riforme” è fermo in qualche cassetto. Prosegue il dibattito senza scossoni, da destra è tutto un dire che “non è una riforma contro ma per la magistratura” (la leghista Erika Stefani) e “restituiamo autorevolezza alla magistratura per troppo tempo incastrata nel gioco correntizio” (il fratello d’Italia Alberto Balboni); dall’opposizione si dà una lettura contraria. In sintesi: è una modifica costituzionale fatta contro le toghe che mira, ripetono in tanti - con l’eccezione di Carlo Calenda, che vota a favore, mentre gli altri senatori di Azione e quelli di Italia viva si astengono - a minarne l’autonomia. Ma nulla scalfisce il sorriso serafico di Nordio ai banchi del governo: non il dem Dario Franceschini quando dice “la prossima tappa sarà mettere i pm sotto il potere politico”; nemmeno Matteo Renzi quando ritira fuori il caso Almasri, “se ha mentito si deve dimettere”. O il Cinque stelle Roberto Scarpinato quando parla di “regolamento di conti della casta dei potenti contro la magistratura”: l’ex magistrato Nordio non batte ciglio, nulla può rovinargli questa giornata. Alla fine, dirà che spera che “il dialogo con le toghe riprenda con maggiore serenità”, eppure di quello mancato in Parlamento, impedito dall’uso dei tempi contingentati e dello strumento del canguro, non si dispiace troppo. Allarga le braccia: “Le audizioni sono durate sei mesi in Commissione, ma c’è stato un tale sbarramento… Loro hanno usato l’ostruzionismo e noi i regolamenti parlamentari perché c’era il rischio che la riforma saltasse”. Adesso, chiusa questa seconda lettura, senza speranze di ribaltare il risultato nelle prossime due, dall’opposizione guardano già al referendum. Lo fa capire Franceschini, quando interviene per paragonare la stessa voglia di pieni poteri ammessa da Salvini nell’estate del Papeete del 2019 a ciò che anima oggi Giorgia Meloni, “ma lei è più furba e non lo dice”: la chiamata al voto dell’anno prossimo, senza quorum, “potrebbe essere il vostro Papetellum”, prevede. Chissà, manca ancora molto tempo. Per ora, la premier incassa il risultato: “Andiamo avanti con decisione”. Il vero bersaglio di Nordio è il Consiglio superiore di Antonello Cosentino* Il Manifesto, 23 luglio 2025 La riforma non riguarda la giustizia come servizio ai cittadini ma i rapporti tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Per coglierne la portata bisogna guardare la Storia. Il vero bersaglio della riforma della magistratura approvata ieri dal Senato è il Csm: per formalizzare la separazione delle carriere, che di fatto c’è già, non sarebbe necessario modificare la Costituzione. Con la riforma il Csm verrà sdoppiato, e ciascuno dei due Consigli avrà minor peso istituzionale, verrà privato della potestà disciplinare, verrà composto da magistrati sorteggiati e non più eletti. Quest’ultimo punto è cruciale: spezzare il nesso di rappresentatività tra la magistratura e il proprio governo autonomo significa sottrarre a quest’ultimo il contributo derivante dalla dialettica di idee, visioni e valori che si sviluppano all’interno della magistratura e privarlo del portato della riflessione collettiva che emerge dal pluralismo degli orientamenti associativi dei magistrati. La riforma non riguarda la giustizia come servizio ai cittadini ma i rapporti tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Per coglierne la portata è necessario tenere presente la storia della Repubblica. Fino al 1948 la magistratura era totalmente immersa nell’ambiente giuridico e culturale dello Stato liberale, prima, e totalitario, poi. I magistrati provenivano dalla ristretta élite che dirigeva il paese, di cui condividevano interamente valori e prospettive. Nell’Italia repubblicana, proprio per effetto dei mutamenti generati dalla Carta costituzionale, la magistratura cambia: vi accedono le donne e vi accedono fasce sociali che fino ad allora ne erano rimaste escluse. La magistratura, dopo il ventennio fascista, riscopre l’associazionismo, non come strumento di tutela di interessi sindacali, bensì come sede di costruzione della propria identità culturale, che viene centrata sulla Costituzione repubblicana. È dal dibattito culturale che si sviluppa dentro l’Anm che discende la capacità della magistratura di farsi agente attivo, attraverso il ricorso alla Corte costituzionale e l’interpretazione conforme alla Costituzione, della “costituzionalizzazione” dell’ordinamento giuridico nazionale, innervando il principio di uguaglianza nelle pieghe della società italiana. All’inizio degli anni 80 dello scorso secolo i rapporti tra la magistratura, specialmente inquirente, e la politica entrano in una fase di tensione che si protrae fino ad oggi. Le inchieste che si susseguono, con esiti alterni, a carico dei “colletti bianchi” se, da un lato, danno corpo ai principi costituzionali di eguaglianza e di obbligatorietà dell’azione penale, arrivando talvolta a lambire centri di potere di grandissima forza (per tutte, le inchieste sui banchieri Sindona e Calvi), dall’altro espongono i pubblici ministeri ad accuse di protagonismo e di politicizzazione (ovvio il riferimento a Mani pulite, o alle inchieste sui legami tra mafia e politica). Nelle tensioni che, a partire dalla fine della Prima Repubblica, segnano la crescente difficoltà della politica nell’interpretare e governare la società italiana, la magistratura finisce con l’essere gravata da funzioni di supplenza della politica (si ricordano, tra i tanti possibili esempi, il caso Englaro e la vicenda dell’Ilva di Taranto) e la magistratura inquirente, in particolare, finisce con l’essere percepita, tutte le volte che la sua azione vada a toccare interessi politici o economici significativi, come un player politico che gioca partite in proprio, o di sponda con altri player. Nella concretezza storica della vicenda italiana, in sostanza, la magistratura ha assunto un ruolo di controllo particolarmente penetrante rispetto al potere politico ed economico, portando la propria azione in ambiti nei quali il sindacato di legalità impatta su assetti e temi politici. Tale sviluppo storico è stato possibile in quanto un ceto professionale variegato nella sua composizione sociale e nei suoi orientamenti culturali ha potuto operare in condizioni da assoluta indipendenza non soltanto esterna ma anche interna (quella dei singoli magistrati dai loro dirigenti). Lo scudo di questa indipendenza è stato il Csm, la cui forza deriva dal fatto di essere un organo rappresentativo (perché a composizione elettiva) dell’intera magistratura, giudicante e requirente. Depotenziare il Csm realizza le premesse il ritorno della magistratura verso il modello pre-costituzionale di ceto funzionariale, coordinato e sintonico con i titolari del potere politico. Nel delicato meccanismo di pesi e contrappesi che regola i rapporti tra poteri di governo e poteri di garanzia, la magistratura italiana è così destinata a perdere la connotazione antimaggioritaria - naturale riflesso della incomprimibilità dei diritti fondamentali - che l’ha caratterizzata nell’ultimo mezzo secolo. Non è un problema dei magistrati, è un problema dei cittadini. *Consigliere di Cassazione e membro del Csm Il referendum sulla giustizia sarà il banco di prova per Meloni e Schlein di Mario Lavia linkiesta.it, 23 luglio 2025 Battaglia in Parlamento, con toni concitati ed estremi. La destra ha votato compatta la legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, Azione anche, Italia Viva si è astenuta. Il Pd, oggi durissimo, qualche anno fa era a favore. Chi inneggiava a Silvio Berlusconi, chi a Giovanni Falcone, chi mostrava la Costituzione (quella più bella del mondo) capovolta: in un’accesa seduta il Senato ha approvato a sua volta - lo aveva già fatto la Camera - la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati. Adesso occorreranno altre due letture abbastanza scontate, e infine ci sarà il referendum confermativo, senza quorum, nella prossima primavera. Toni duri, durissimi, a favore - il centrodestra - e contro - il centrosinistra, tranne Italia viva che si è astenuta perché contraria al meccanismo del sorteggio per l’elezione dei due Consigli superiori della magistratura a questo punto distinti. Azione invece ha votato a favore. Si è capito da tempo, e ieri si è confermato, che la questione spaccherà il Paese, chiamato alla fine a decidere se la separazione delle carriere sia un elemento decisivo per la famosa terzietà dei giudici e quindi una garanzia per i cittadini, oppure un progetto per assoggettare i giudici al potere politico di governo. Elegantemente, il grillino Roberto Scarpinato ha ricordato come padre putativo della legge Licio Gelli, mentre il democratico Francesco Boccia si è limitato a citare l’Ungheria di Viktor Orbàn. Il giorno e la notte, dunque: una riforma liberale per la maggioranza, una legge di regime per la sinistra. Politicamente, non si può negare che il governo Meloni abbia raggiunto un obiettivo, avendo fatto fare alla riforma metà percorso (molto difficile immaginare che abbia difficoltà nella seconda metà, visto che il testo non è più emendabile), peraltro allargandosi un pochettino grazie al sì di Azione e all’astensione dei renziani, gruppi da sempre favorevoli a una netta distinzione delle carriere dei pm da una parte e dei giudici dall’altra. Storicamente è vero che si tratta di un antico cavallo di battaglia di Berlusconi, che pure non riuscì mai a portare a casa il provvedimento in questione; ma è parimenti vero che anche la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema prevedeva la medesima separazione delle carriere, che poi non vide la luce perché la Commissione si arenò. Addirittura, come ha notato da ultimo Il Foglio, la mozione Martina, all’epoca segretario del Pd, al congresso del 2019 che propose la separazione delle carriere, fu sottoscritta da molti membri del Pd che oggi sono ancora in Parlamento, tra cui l’attuale responsabile Giustizia del Pd Debora Serracchiani. Se cambia il contesto può anche mutare il giudizio su una legge? È discutibile, ma certo il partito di Elly Schlein è stato molto duro, dal che si evince - lo ha scritto ieri Repubblica, ben informata degli umori del gruppo schleiniano - che il Nazareno interpreterà la battaglia referendaria come un giudizio di Dio sul governo, come un’occasione per una spallata a Giorgia Meloni, o come minimo come lo strumento per azzoppare seriamente la premier prima delle elezioni politiche. Il Pd valuta, non a torto, che in passato gli italiani hanno sempre bocciato ogni riforma della Costituzione, dimostrando, per ragioni varie, un conservatorismo costituzionale sempre fomentato e utilizzato come strumento di difesa da tentativi di riforma ritenuti più o meno eversivi: persino l’allora segretario del Pd Matteo Renzi cadde in queste sabbie mobili. Tutto questo incarna una situazione paradossale: che il governo di destra farà la parte dell’innovazione e la sinistra quella della conservazione. Può darsi che alla sinistra lo spauracchio del regime funzioni. Oppure che il popolo, che in generale non ha una grande opinione della giustizia, voti a favore della riforma: sarebbe il trionfo di Giorgia Meloni. Una partita molto rischiosa e anzi potenzialmente suicida per il Pd, se davvero intende giocarla così. Gherardo Colombo: “La riforma danneggia i cittadini, indipendenza a rischio” di Gabriella Cerami La Repubblica, 23 luglio 2025 L’ex toga di Mani Pulite: “Se il pubblico ministero abbandona la cultura del giudice, il suo solo interesse diventa vincere la causa”. “Il governo vuole limitare il lavoro di controllo dei magistrati sui politici”. Gherardo Colombo, ex magistrato, pubblico ministero della Procura di Milano negli anni dell’operazione Mani pulite, considera la riforma della giustizia, che prevede la separazione delle carriere, “un danno per i cittadini”. Quali saranno le ricadute di questa legge, che il governo rivendica come una svolta storica? “Per valutare una legge bisogna vedere quali sono gli interessi delle persone coinvolte. Io guarderei agli interessi dei cittadini. Ai magistrati essere in una carriera sola o in due carriere separate può interessare relativamente, non cambia i loro destini. Invece danneggia i cittadini”. Per la maggioranza i cittadini avrebbero più garanzie grazie a una giustizia più equilibrata. “Affinché il pubblico ministero possa svolgere la sua funzione, che prevede anche la ricerca delle fonti di prova a favore dell’imputato, è necessario che abbia la cultura del giudice e per avere la cultura del giudice è necessario che con quel giudice abbia una formazione comune. Se invece fosse separato completamente dal giudice necessariamente la cultura, il modo di intendere la funzione, diventerebbe altra, diventerebbe la cultura di parte”. Nella pratica cosa cambierà? “L’avvocato ha il compito di difendere comunque il suo assistito, cercando di farlo assolvere magari anche se colpevole. Il pm ha il compito di chiedere l’assoluzione degli innocenti o la condanna di quelli che ritiene colpevoli. Se il pm abbandona la cultura del giudice diventa una parte e basta. Il suo interesse diventa quello di vincere la causa. Quindi il cittadino è esposto a conseguenze dannose”. La riforma è un’invasione governativa nell’ambito giudiziario? “L’iniziativa è governativa. Poi è il Parlamento che sta votando questa riforma. Io credo che di fatto la riforma inciderà progressivamente, limitandola sempre di più, sull’indipendenza del pm”. Fino ad assoggettarlo alla politica? “È una parola grossa però ci sta andando vicino”. Il sorteggio per scegliere i componenti del Csm è stato inserito per evitare quella che il governo chiama lottizzazione. Cosa comporta? “Essere componente del Csm richiede una competenza diversa e ulteriore da quella del giudice. Ci si occupa di altro rispetto al decidere se una persona è colpevole o innocente, se ha ragione il lavoratore o il datore di lavoro, se il testamento è valido o no. Ci si occupa di assegnazione degli incarichi, di organizzazione degli uffici (le “tabelle”), della professionalità degli altri magistrati”. Sta dicendo che questa competenza non può essere garantita da un sorteggio? “Servono delle competenze specifiche, che non sono quelle di un semplice magistrato. Il sorteggio è un controsenso, si svilisce la professionalità e la competenza. Anche questo torna a discapito dei cittadini”. Prima l’abolizione dell’abuso d’ufficio, adesso la riforma per la separazione delle carriere. Il governo sta smontando l’attuale sistema giudiziario italiano? “Non so e non mi importa se c’è un disegno a tavolino per ottenere quel risultato. Credo che l’obiettivo sia limitare l’indipendenza del pm. L’abolizione dell’abuso d’ufficio e la separazione delle carriere sono delle misure che limitano di molto il controllo della magistratura sulle persone che svolgono attività politica. Viene indebolito di molto il compito che la Costituzione affida alla magistratura”. Il governo ha deciso di istituire un’Alta corte terza così che i magistrati possano essere giudicati in maniera indipendente. Finora il sistema è stato compromesso? “La tendenza a tutelarsi è esistita anche tra le toghe, ma è necessario, per questo ruolo, che i componenti siano formati con estrema attenzione. Il numero di azioni disciplinari è molto alto, si parla di 100-150 ogni anno, sono più elevate di qualsiasi altro Paese europeo. Sicuramente sarebbe opportuno intervenire per fare anche meglio, ma sono convinto che molto più delle norme conti la cultura, cioè il modo di intendere il proprio lavoro”. Le correnti, che la maggioranza sostiene di scardinare grazie a questa riforma, quanto influiscono nella vita dei cittadini? “Le correnti sono nate come espressioni culturali. Il confronto associativo e il confronto pluralistico anche con la società hanno fatto tanto in tema di riflessione soprattutto nella direzione di realizzare la Costituzione, che è compito anche della magistratura. Questa, per esempio, porta le leggi che ritiene incostituzionali davanti alla Corte Costituzionale. A questo aspetto a volte se ne sovrappone un altro, che rivela istanze corporative e carrieristiche da parte di taluni appartenenti. Sarebbe necessario non pensare di abolirle quanto di evitare, anche qui soprattutto attraverso la formazione, che alle funzioni proprie dell’attività associativa si aggiungano distorsioni cosiddette correntizie”. Perché il Parlamento corre tanto per attuare la riforma? “È una preoccupazione comune a tanti governi cercare di limitare pesantemente la funzione della magistratura. Cosa sta succedendo, per esempio negli Stati Uniti? Potremmo guardare anche ad alcuni Paesi europei per verificare come la funzione giudiziaria dia fastidio. Perché la sua funzione consiste anche nel tutelare i diritti delle persone fragili, di chi non può farli valere”. Bruti Liberati: “Il rischio è che i pm saranno attratti da logiche di polizia” di Mario Di Vito Il Manifesto, 23 luglio 2025 L’ex procuratore di Milano: “Critiche come quelle di Nordio sul caso Open Arms oggi sono interferenze, domani saranno ordini. Con la separazione delle carriere si ritiene di rafforzare la terzietà del giudice, ma in realtà ci sarà solo più sensibilità nei confronti delle campagne “legge e ordine”. Edmondo Bruti Liberati, procuratore di Milano fino al 2015 e in passato anche presidente dell’Anm e di Magistratura democratica, è vero che “la riforma restituisce dignità ai magistrati” come dice Nordio? La dignità i magistrati se la conquistano svolgendo con impegno, e con gli ineluttabili errori, il difficile compito che la società ha loro affidato. Non hanno bisogno dell’aiutino del ministro, che in realtà è un’umiliazione: con il sorteggio dei togati del Csm si impedisce ai magistrati di scegliere liberamente coloro che reputino più adatti a svolgere il ruolo di gestione e di difesa dell’indipendenza che la Costituzione affida al Csm. Nel suo ultimo libro (“Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia”, Raffaello Cortina Editore 2024) lei descrive la posizione del pm come difficilissima, costantemente sotto pressione. Con la separazione tra requirenti e giudicanti, questa pressione, secondo lei, è destinata ad aumentare o a diminuire? Il pm è il primo attore, in ordine di tempo, della giustizia penale. Al pm chiediamo di trovare subito il colpevole, per taluno, comunque un colpevole, e di arrestarlo, ma gli chiediamo anche il rispetto rigoroso delle regole processuali, delle garanzie della difesa. Con la separazione delle carriere si ritiene di rafforzare la terzietà del giudice, ma il rischio concreto è che il pm separato sia attratto nella logica di polizia, che sia più sensibile alle pressioni delle campagne “legge e ordine”. Esistono però molti paesi democratici in cui le carriere sono separate... In molte democrazie il pm è separato dai giudici, in tutte il governo, tramite il ministro della Giustizia, esercita una qualche influenza sul pm, ma lo fa con molta moderazione. E dove ciò non avviene, vedi Polonia, Ungheria e oggi Usa, è in crisi la democrazia. Oggi, si dice, nessuno vuole un pm sotto l’esecutivo. Ma le norme e gli istituti hanno una loro logica che prescinde dalle intenzioni di chi le ha scritte. E poi vi è la realtà dei fatti. Nordio in più occasioni ha criticato le iniziative dei pm, da ultimo il ricorso per Cassazione per motivi di diritto della procura di Palermo sul caso Open Arms: oggi sono importune interferenze, domani potrebbero essere ordini. Non basta, perché Nordio dileggia e minaccia azioni disciplinari nei confronti di un magistrato, colpevole di aver svolto considerazioni giuridiche sul caso Elmasry. Si sa che in mancanza di argomenti si ricorre all’insulto, qui, però, non è una disputa al bar dello sport, ma è il ministro della Giustizia che interviene in quanto tale. Veniamo al Csm. Nelle intenzioni di Nordio verrà sdoppiato, sorteggiato e non avrà più voce in capitolo sulle questioni disciplinari. Qui più che di separazione delle carriere possiamo parlare di tentativo di separazione delle correnti? Per le ragioni che ho detto sono contrario alla separazione delle carriere che era al centro delle proposte di legge parlamentari ora decadute. La legge Nordio è tutt’altro. È, infatti, la riforma, anzi l’azzeramento sostanziale del Csm: spezzettato in due organi non comunicanti, gli si sottrae la competenza disciplinare con un’Alta Corte bizzarra e disfunzionale e, con il sorteggio, se ne affida il funzionamento al caso. Ricordiamo le parole del ministro della Giustizia Guido Gonella il 18 luglio 1959 per l’insediamento del primo Csm: “Lo Stato di diritto vuole che sia garantita l’imparziale giustizia per tutti e perciò avverte che la magistratura ha bisogno di indipendenza, di guarentigie della sua indipendenza. Ora l’indipendenza dei giudici è corroborata da nuove garanzie costituzionali e istituzionali. Un fondamentale precetto costituzionale trova oggi adempimento”. Nel disegno di legge governativo viene mantenuto all’articolo 104 della Costituzione il principio della indipendenza della magistratura. Ma l’organo che garantiva quelle fondamentali guarentigie tanto enfatizzate dal democristiano Gonella, il Csm, è ridotto alla quasi irrilevanza. E qui si tratta di indipendenza della magistratura tutta, non solo dei pm, ma anche dei giudici. Non vede il rischio che il futuro referendum costituzionale diventi una sorta di sondaggio di gradimento sulla giustizia? In quest’ottica i dati delle indagini demoscopiche non sono certo entusiasmanti per gli uomini e le donne di tribunale… Si dà per scontato che attraverso una “blindatura al quadrato” sia ridotto a mera formalità quel percorso su due successive letture, con congruo intermezzo temporale, che il saggio costituente aveva previsto. Un referendum presentato come “separazione delle carriere” sarebbe frode di etichette. Un referendum sulla magistratura, come qualcuno già lo presenta, sarebbe grave, non per la magistratura, ma per il dibattito e il confronto sulle nostre istituzioni. In tutti i recenti sondaggi di opinione il livello di fiducia nei confronti della magistratura del terzo potere è attestato sopra il 45%. Non è molto, ma è un dato molto più alto, quasi il doppio di quello della fiducia per il parlamento e per i partiti. Di questa complessiva scarsa fiducia nelle istituzioni della nostra democrazia dovremmo tutti preoccuparci, piuttosto di cercare di minare anche la fiducia nella magistratura, l’istituzione cui è affidato il delicatissimo compito della tutela dei diritti, della soluzione delle controversie tra i privati e della repressione dei reati, questioni essenziali per la convivenza civile. Contro i giornali parassiti delle procure di Claudio Cerasa I Foglio, 23 luglio 2025 “Il gossip non c’entra con le inchieste. Non solo i magistrati hanno il potere di decidere della vita delle persone. Anche i cronisti, ma fingono di non saperlo. La sinistra che regala il garantismo alla destra? Follia”. Parla Michele Serra. Che cosa succede quando un’inchiesta giudiziaria tende a occuparsi più di fenomeni sociali che di responsabilità individuali? Che cosa succede quando l’indagine di una procura viene trasformata dall’opinione pubblica in una condanna fino a prova contraria? Che cosa succede quando la politica cerca di utilizzare un processo mediatico per regolare i suoi conti interni? E che cosa succede quando il mestiere del giornalista, dinanzi ai meccanismi perfidi, demoniaci, tossici, del circo mediatico diventa un surrogato dell’azione della pubblica accusa, una buca delle lettere delle carte delle procure, un tassello non richiesto del triste mosaico del moralismo italiano? Michele Serra è un giornalista che tutti conoscete. Da anni, su Repubblica, si dondola con allegria e con imprevedibilità sulla sua “Amaca”, una rubrica quotidiana in cui Serra si diverte spesso a psicoanalizzare i tic ricorrenti del progressista collettivo. E pochi giorni fa, domenica per l’esattezza, è uscito dal recinto della sua rubrica, su Rep., e ha scelto di utilizzare parole forti e coraggiose per prendere a ceffoni tutti coloro che trent’anni dopo Tangentopoli non hanno ancora imparato a fare i conti con le conseguenze negative generate da una stagione di pericoloso attivismo giudiziario. “Dopo Tangentopoli”, ha scritto Serra, “ci vollero anni per capire che contare sulla magistratura per cambiare le classi dirigenti significa, sostanzialmente, rinunciare a fare politica”. Il riferimento di Serra, naturalmente, è ai fatti di questi giorni, è all’inchiesta milanese, è al processo al “modello Milano”, è alla gogna riservata ai protagonisti di una stagione di sviluppo urbano trasformata con disinvoltura nella punta dell’iceberg di un nuovo sistema criminale. E incuriositi dalle parole di Serra abbiamo fatto squillare il suo telefono per verificare se, osservando i tic ricorrenti del progressista collettivo, sul lettino fosse rimasto o no qualcosa in più su cui riflettere. Nel suo editoriale di domenica, Serra ha ammesso che trent’anni fa molti giornalisti che si sono ritrovati a fare i conti con la stagione di Mani Pulite erano “più impreparati” rispetto a ora dinanzi “all’improvviso cozzo tra potere giudiziario e potere politico”. E a Serra abbiamo chiesto se quella annotazione era lì a testimoniare una convinzione che ci è sembrato di intuire: ora che in teoria vi dovrebbe essere più esperienza e meno impreparazione, si dovrebbe stare attenti o no a utilizzare tutti un approccio meno ideologico nel seguire un’inchiesta, senza trasferire ai magistrati compiti di giustizia sociale che dovrebbero restare lontani dalle procure? Dice Serra: “Voglio dire che se l’esperienza servisse a qualcosa, dovremmo tutti avere imparato che l’apertura di un’inchiesta giudiziaria è una notizia, a volte una grossa notizia, a volte addirittura una notizia storica. Ma va trattata come tale: una cosa che accade e sulla quale bisogna documentarsi, possibilmente senza avere come unica fonte le carte dell’accusa. Lo schiacciamento di punti di vista tra le procure e molti giornali, tra l’altro, è anche una forma di parassitismo. Dei secondi, ovviamente”. Lo spunto di Serra ci ingolosisce e facciamo con lui un passo in avanti. Tema: qual è la peggiore eredità che l’esperienza di Tangentopoli ha lasciato all’interno del mondo del giornalismo? E, soprattutto, quali sono le prassi e i metodi da non ripetere? “Quanto a prassi e metodi, come sopra: ai media sarebbe richiesta indipendenza di giudizio e possibilmente serenità nel racconto delle cose. Io vedo soprattutto un gigantesco problema di linguaggio. Di certi titoli non vale nemmeno la pena parlare, per quanto sono urlati, o ammiccanti, o calunniosi. Peggio ancora, più subdolo e tossico, è che in quasi tutte le cronache sul malaffare, quello vero e quello presunto, ogni casa diventa una ‘lussuosa villa’ anche se è una villetta a schiera, ogni vacanza una ‘vacanza da favola’, anche se è un weekend a Pinarella di Cervia, ogni retribuzione un ‘lauto stipendio’ anche se è una consulenza da cinquemila euro all’anno. L’idea di partenza è quella di una umanità ingorda, degenerata e disposta a qualunque cosa pur di arricchirsi. Se sei Balzac puoi permetterti di dirlo, se no è meglio attenerti ai fatti”. Scommettere sulla magistratura per cambiare le classi dirigenti significa, come detto, sostanzialmente rinunciare a fare politica. Proviamo a entrare con il bisturi in questo punto. Quali sono i principali segnali che la politica deve cogliere, a destra e a sinistra, per capire quando si sta scegliendo di scommettere su quel risultato? E quali sono i segnali che non dovrebbero essere trascurati per capire quando ci si ritrova di fronte a una magistratura che cerca di trovare attorno a sé più consenso che prove? “La faccenda è complicata e non vorrei che la mia sintesi risultasse superficiale. Ma è evidente che la politica degli ultimi anni, forse decenni, è largamente gregaria dell’economia, che stabilisce da sé sola modi e tempi del cambiamento sociale. Per la destra questo non è un problema, anche il populismo più sfrenato e più sboccato alla fine è ben felice che i ricchi vincano. Per la sinistra, invece, è un problema gigantesco, perché la sua ragione sociale è la redistribuzione del reddito e l’equilibrio dei poteri. Diciamo che entrambe, per ragioni opposte, sentono di contare sempre di meno, la destra perché ha stravinto, la sinistra perché ha perso. Ma con tutto questo la magistratura c’entra ben poco: fa il suo mestiere, spesso bene e qualche volta male, che è accertare i reati e perseguirli. Condannare i colpevoli e scagionare gli innocenti. Se la politica fosse più forte, e riconquistasse centralità e capacità progettuale, della magistratura si parlerebbe molto di meno”. Chiediamo ancora a Serra cosa pensa quando vede l’opinione pubblica trasformare un’inchiesta giudiziaria in un’occasione per fare sociologia. E cosa pensa quando nel dibattito pubblico vede emergere un approccio di questo tipo: l’inchiesta è quello che è, d’accordo, ma ci offre comunque l’opportunità di ragionare attorno a un tema. Ci domandiamo: ma da quando le inchieste si devono occupare di fenomeni e non di responsabilità individuali? “Quello dell’inquirente è un lavoro affascinante, penso che alla fine la tentazione di sentirsi anche sociologo, interprete dell’epoca, sia inevitabile. Poi se è intelligente sta nel suo, dunque individua i reati e li chiama per nome, punto e basta. Se è vanitoso, esagera e nelle sue carte tenta l’affresco sociale e, purtroppo, emette il giudizio morale. Io penso che la parte più avvertita dell’opinione pubblica ne sia infastidita. Quella già predisposta al moralismo facile invece ne è entusiasta, e i suoi media di riferimento ci sguazzano”. A Serra, negli ultimi tempi, compiendo un gesto non rituale per un intellettuale progressista, è capitato spesso negli ultimi mesi di notare quanto possano essere sgradevoli e pericolose le pubblicazioni delle intercettazioni penalmente irrilevanti sui giornali. Chiediamo dunque a Serra di tornare su questo punto provando a rispondere a una doppia domanda. Primo: perché non se ne riesce a fare a meno? E secondo: perché i giornalisti dovrebbero imparare a muoversi dinanzi agli atti giudiziari non come se fossero la buca delle lettere delle carte delle procure ma come se fossero individui in grado di proteggere la privacy di un cittadino anche scegliendo di non pubblicare tutte le intercettazioni offerte da una procura? “Una cosa che ripeto sempre, ormai da vecchio pedante, è che la ‘questione giudiziaria’ italiana ha tre protagonisti. I politici, i magistrati, i giornalisti. Le prime due categorie sono sul ring da decenni, esposte al pubblico, e se ne danno e se ne dicono di tutti i colori. La terza non ha mai cercato seriamente di mettere in discussione il proprio ruolo. Pubblicare certe intercettazioni di nessun interesse giudiziario (dunque: nove su dieci) non è obbligatorio. E’ del tutto facoltativo. L’alibi ‘ma è nelle carte’ è appunto un alibi. Dalle carte si estragga ciò che serve a capire perché una o più persone sono sotto accusa. Il resto è gossip, dileggio e sputtanamento. Non solamente i magistrati hanno il potere di decidere della vita delle persone. Anche i giornalisti, ma fanno finta di non saperlo”. Serra ha spiegato domenica che il modello Milano lo si può criticare, certo, ma non si può non riconoscere che abbia portato benessere, ricchezza, lavoro, sviluppo, trasformando una città che un tempo guardava al passato in una città che ha iniziato a guardare al futuro. Domanda necessaria e maliziosa: è giusto, eventuali responsabilità individuali a parte, criminalizzare per via giudiziaria le scelte fatte dalla politica in una città? Ed è giusto criminalizzare il tentativo di trovare un’alternativa all’inefficienza burocratica italiana? “Il ‘modello Milano’ era alla luce del sole, nessun sotterfugio, tutto ‘in chiaro’: facilitazione a volte spericolata del permesso di costruire. Sta alla magistratura, come si dice ritualmente ma giustamente, stabilire se sono stati commessi reati. Se cioè - come è accaduto in infiniti altri casi - qualche amministratore, pur di non morire soffocato sotto le tonnellate di burocrazia, abbia dribblato gli ostacoli e commesso abusi. Conta moltissimo, secondo me, se questa disinvoltura abbia come scopo l’arricchimento personale oppure la convinzione di operare per il bene pubblico. Sono sicuro che Sala, che è una persona per bene, non avrà alcuna difficoltà a dimostrare che rientra nella seconda categoria. Quanto al giudizio politico, è tutt’altra cosa. Io penso che lo sfavillio di miliardi che ha cambiato (enormemente in meglio) il volto di Milano, avrebbe senso se la sua ricaduta sociale fosse estesa e visibile. E non lo è. Ma sai, io sono di sinistra, penso che i ricchi debbano pagare molte più tasse e gli oneri di urbanizzazione debbano essere molto più alti. La Milano sociale, quella della tradizione socialista, tra i grattacieli sembra in evidente affanno”. Al netto dell’inchiesta una domanda è lecita: cosa ne pensa Michele Serra di questa diffusa e trasversale criminalizzazione non solo della politica ma della logica del profitto? “Non esiste il reato di ‘eccesso di edilizia’, e neppure quello di ‘eccesso di sviluppo’. Ma esiste il diritto, squisitamente politico, di opporsi, di vedere i danni e non solo i vantaggi, di immaginare altri modi e di progettare altre cose. Bisogna però che questo diritto, legittimo e necessario, non si accontenti della lagna moralista, ma produca proposte leggibili e lotta politica. E in genere tocca ai riformisti, non agli estremisti, rimboccarsi le maniche”. La volontà dei pm in alcuni passaggi di criminalizzare politica e profitto ci ha colpito molto. Ma ci ha colpito anche altro: la presenza di una borghesia che ha beneficiato del modello Milano e che ora tace. Domanda inevitabile: esiste ancora una borghesia a Milano che somigli anche lontanamente a una classe dirigente? “Borghesia è una parola del Novecento, così come operai. I pochi superstiti non esistono più come ‘classe’, esistono come persone. Non formano il gusto, non orientano le scelte. Il mio timore è che anche ‘classe dirigente’ sia un concetto del secolo scorso. La società si dirige da sé sola, con sempre meno calmieri tra benestanti ed esclusi, sempre meno passaggi intermedi tra come si orienta il capitale e come si disorientano le masse”. Qual è il tic più pericoloso che si intravede a sinistra quando si alza un polverone attorno a un’inchiesta che cattura l’attenzione dei lettori e degli elettori? “Accodarsi alla folla che vede erigersi la forca. Ma sta cambiando, mi sembra sia una tendenza meno praticata e soprattutto meno sopportata”. Milano, a suo modo, è il simbolo di una sinistra vincente. Ma la sinistra che vuole vincere le prossime elezioni sembra essere anni luce distante dal modello vincente di Milano. Cosa ci dice questo sulla sinistra del futuro? “Milano non è una città di sinistra. Non in senso classico, almeno. È una città democratica, sicuramente, e antifascista, altrettanto sicuramente. Moderata, operosa, tollerante, culturalmente aperta come nessun’altra città italiana. Ripartirà, come ha sempre fatto, da se stessa. Dalle sue qualità, che sono più forti dei suoi vizi”. Quando si sceglie di trasformare un’inchiesta in un’operazione di giustizia sociale si tende ad accettare il fatto che una procura possa muoversi anche sulla base di un giudizio etico. Tema ulteriore per Serra: ma il “giudizio etico” può diventare una trappola per la sinistra? Non rischia di essere un modo per non prendere decisioni, e per nascondere l’assenza di un progetto vero sul futuro? “La politica senza etica diventa pura amministrazione: si accetta il mondo così com’è, e amen. Ma l’etica senza politica è solo fumo negli occhi. Trovo insopportabili quelli che parlano sempre nel nome dei massimi princìpi e non si abbassano mai a fare i lavori pesanti”. Non riuscire a governare gli ingranaggi del circo mediatico-giudiziario è per la sinistra un grosso problema che ci costringe ad affrontare un tema ulteriore: ma Michele Serra, dalla sua “Amaca”, non pensa che sia una pazzia assoluta avere una sinistra che ha lasciato la difesa del garantismo a una destra il cui garantismo è solido come una medusa che si ritrova spiaggiata sotto il sole d’agosto? “Sì, lo penso. Che la sinistra difenda l’autonomia della magistratura è sacrosanto. Direi obbligatorio: è nel suo spirito costituzionale. Che abbia dimenticato i diritti dei cittadini, anche di molti suoi sindaci ingiustamente inquisiti e poi assolti, è invece una grave omissione. È una questione di libertà e di dignità della persona che è stato deplorevole mettere tra parentesi per troppi anni. Berlusconi combatteva i giudici per difendere i suoi privilegi e i suoi comodi, la sinistra avrebbe dovuto battersi, ed è tutt’altra cosa, perché la difesa e l’accusa potessero avere uguale peso: soprattutto mediatico”. I tic ricorrenti del progressista collettivo sono lì, di fronte ai nostri occhi. Non volerli vedere e non volerli denunciare non significa essere neutrali. Significa aver fatto una scelta. Significa aver scelto di assecondare, anche nel mondo del giornalismo, un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario, all’interno del quale la sinistra si suicida e all’interno del quale senza accorgersene il giornalista diventa spesso una buca delle lettere delle carte delle procure. Anche no, grazie. Intesa bipartisan sul ddl Femminicidi. L’opposizione chiede “più prevenzione” di Marika Ikonomu Il Domani, 23 luglio 2025 Nella discussione in Senato l’intesa di tutte le forze politiche. Mercoledì 23 il voto del testo frutto di un accordo bipartisan in commissione. Per le opposizioni però mancano gli interventi sul piano culturale: educazione e formazione. C’è un punto su cui l’aula del Senato, dopo lo scontro sulla riforma della giustizia, si è trovata d’accordo. Ed è accaduto durante la discussione del disegno di legge, varato dal governo lo scorso 7 marzo, sull’introduzione del reato di femminicidio. Il testo discusso, che verrà votato mercoledì 23, è l’esito di un accordo bipartisan in commissione, di “un lavoro condiviso, con l’opposizione, e approfondito”, ha detto la relatrice e senatrice della Lega Giulia Bongiorno. La discussione in commissione per Bongiorno ha portato a “un netto miglioramento” del testo governativo. L’intesa ha portato a modificare la definizione della fattispecie di femminicidio. Se prima la formula era “vaga e conteneva concetti indeterminati e generici”, come ha detto la senatrice dem Cecilia D’Elia, ora il reato si definisce in maniera più rigorosa e considera - dice Bongiorno - la matrice culturale, e quindi il femminicidio come “atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali”. Riconoscendo quindi le cause profonde di questo tipo specifico di omicidio e rendendo “la fattispecie utilizzabile nelle aule di giustizia”, come chiesto dai centri antiviolenza, ha detto la dem Valeria Valente. Fenomeno strutturale - Tutte le senatrici e i senatori intervenuti hanno riconosciuto la violenza maschile contro le donne come un fenomeno strutturale. Si è parlato di cultura patriarcale, di ruoli e gabbie di genere, di maschilità tossica, di fare rumore. Pian piano le aule del parlamento adottano le parole dei movimenti femministi che da decenni stanno chiedendo, con fatica, un cambio di passo alla politica, a partire dal linguaggio. Così come la parola femminicidio, entrata nell’uso corrente e che - con l’approvazione del ddl in Senato e la successiva approvazione alla Camera - potrebbe indicare il nuovo reato previsto all’articolo 577-bis. “Un salto di qualità in quella battaglia che per me non è diritto penale, è un pezzo di storia delle donne”, ha continuato Valente, “perché chiamare le cose con il proprio nome attribuisce significato, le fa esistere”. E, ancora, l’introduzione di questo reato autonomo scardina “la finta neutralità del codice”, dietro cui si nasconde “una declinazione tutta al maschile” e che “ha legittimato un sistema”. Nell’aula sono entrati anche i nomi (pochi i cognomi) di donne vittime di femminicidio. Filippo Sensi (Pd) ha letto l’elenco dell’Osservatorio nazionale di Non una di meno che da anni aggiorna ogni 8 del mese la conta dei femminicidi e trans*cidi. Ad oggi, secondo il movimento, sono 51 le donne uccise per mano del partner e 33 i tentati femminicidi. Secondo i dati, ora trimestrali, del ministero dell’Interno sono 45 le donne uccise in ambito familiare e affettivo, di cui 34 da partner o ex. Non solo repressione - Il femminicidio di martedì 22 di Samantha Del Gratta, uccisa dal marito Alessandro Gazzoli, che si è poi suicidato dimostra - conclude Valente - che l’aggravamento delle pene non può costituire un deterrente. Nel 35 per cento dei casi di femminicidio si tratta di omicidio-suicidio. Le opposizioni si sono quindi mostrate unite nel chiedere che questo reato sia solo il “primo passo di un cammino da percorrere insieme”, ha detto Sabrina Licheri (M5s), ricordando l’urgenza di una rivoluzione culturale perché “la nostra cultura agisce ovunque” e continua a perpetrare stereotipi. Così il dem Filippo Sensi ha segnalato il rischio di “una legislazione emotiva, piuttosto di una capace di anticipare e prevedere”. Sensi contesta però il “panpenalismo della destra”, che anche in questo caso non ha inserito alcun intervento di prevenzione, per lavorare sul piano culturale. “Occorre investire nell’educazione, nei centri antiviolenza, nella formazione dei magistrati”, ha detto Licheri, bisogna intervenire - per Elisa Pirro (M5s) - “sul salario minimo e sul congedo paritario”, “sulla cultura del consenso, sul linguaggio e la narrazione dei fatti, smettere di giustificare i carnefici”, secondo Mariolina Castellone (M5s). E per gli orfani di femminicidio, a sostegno dei quali sono stati stanziati 10 milioni di euro dall’impresa sociale Con i bambini. “Per la seconda volta”, ha poi concluso D’Elia, “siamo chiamate a pronunciarci sul versante penale. È importante, ma si continua a ignorare l’azione preventiva”. Un impegno che per la dem è stato preso in aula nel 2023, “ma non si è visto un salto di qualità delle politiche di contrasto alla violenza”. E aggiunge: “È rispetto per tutte le donne che non ci sono più, per le figlie della tempesta, per un futuro davvero libero dalla violenza”. Piemonte. La Garante: “Un carcere più umano per i detenuti e gli agenti” di Teresa Cioffi Corriere di Torino, 23 luglio 2025 Monica Formaiano, nuova Garante regionale dei diritti dei detenuti: “Immagino una realtà carceraria più umana, sia per quanto riguarda i detenuti che per gli agenti della penitenziaria”. Sono queste le premesse di Monica Formaiano, la nuova garante regionale nominata ieri dalla giunta Cirio. Avvocata di Alessandria, ricoprirà il ruolo che è stato affidato a Bruno Mellano per undici anni. “Aspettiamo la firma del presidente Cirio - dice. Ovviamente si parla di una grande responsabilità. Un conto è approcciarsi al mondo penitenziario con l’occhio garantista del professionista, un altro è guardarlo a 360 gradi”. Attiva nel mondo dell’associazionismo (ma mai in realtà legate ai diritti dei detenuti), ha tentato il salto politico candidandosi alle ultime regionali con Fratelli d’italia. “Delmastro? No, ancora non l’ho sentito. Cosa rispondo a chi sostiene che la mia nomina sia strettamente politica? Spero di farmi conoscere per i fatti, e non ritengo di dover aggiungere altro”. Si attendono i dati aggiornati sulla situazione delle carceri piemontesi, che verranno presentati domani a Palazzo Lascaris con il nuovo rapporto Antigone. Intanto, il dato più recente relativo al sovraffollamento parla di 4.500 detenuti a fronte di 3.979 posti. E continuano a mancare gli agenti di polizia penitenziaria, educatori e psicologi. “Per definire una progettualità avrò bisogno di avere il polso della situazione e, per farlo, sarà necessario visitare le carceri della regione. Mi interfaccerò con i vari garanti” dice Monica Formaiano che, però, un’idea a lungo a termine l’avrebbe già. “Parliamo di persone. Le capacità e i risultati arriveranno con il tempo, ma mi pregio di avere una sensibilità spiccata. Mi occuperò di un settore che, umanamente, ha bisogno di molto lavoro. Ci sono in ballo le condizioni di vita dei detenuti, ma non dimentichiamo neanche quelle della polizia penitenziaria. In entrambi i casi bisogna garantire una determinata qualità di vita e di lavoro”. La dignità, dice la nuova garante, dovrà essere il criterio principale. “Le pene alternative, di cui discute il Consiglio dei Ministri, ritengo siano soluzioni sulle quali puntare. Così come accolgo con soddisfazione l’intervento del Consiglio dei Ministri che creerà oltre 10 mila nuovi posti negli istituti di pena. Si parla di un investimento di 335 milioni di euro. E poi bisogna puntare ai percorsi formativi, aumentarli e renderli più accessibili. Questo per fare in modo che un detenuto possa davvero programmare il proprio reinserimento sociale dopo la pena”. Solamente il 22 per cento dei detenuti accede ai corsi in carcere. Ora Monica Formaiano inizia a mettersi al lavoro: “Oltre alle singole progettualità, sarei fiera se con il mio lavoro riuscissi a dare pari dignità a chi è detenuto e a chi lavora in carcere. La persona dovrà essere al centro: cercherò di operare secondo questo criterio. Anche perché i suicidi sono tanti, sia tra i detenuti che tra gli agenti della polizia penitenziaria. E il fenomeno va fermato”. “Le nomine fatte ieri svelano il vero volto della maggioranza che sostiene la giunta Cirio 2: una concezione “proprietaria” delle istituzioni nella quale chi vince decide tutto senza alcun confronto con le minoranze, nemmeno su figure di garanzia”. Le opposizioni si schierano contro la nomina della nuova garante regionale dei detenuti, Monica Formaiano. Ieri è stata eletta con le minoranze fuori dall’aula. Una concezione “proprietaria” emersa con una nomina “per la quale, da regolamento, servono due terzi dei votanti alla prima votazione” si legge nella lettera firmata da Domenico Rossi, segretario regionale Pd Piemonte, Gianna Pentenero, presidente del gruppo Pd, Alice Ravinale, Alleanza Verdi e Sinistra, Sarah Disabato, Movimento 5 Stelle e Vittoria Nallo, Stati Uniti d’europa per il Piemonte. E aggiungono: “La maggioranza non ha neppure cercato di trovare figure condivise. Ha scelto in completa autonomia anche mettendo da parte il tanto sbandierato “merito”. Qui l’unico merito è essere vicini a Fratelli d’italia”. Dopo undici anni, Bruno Mellano augura un buon lavoro a Formaiano: “In questi anni è stata creata un’importante rete tra i garanti piemontesi. Spero che questa eredità continuerà a essere curata per la forza che rappresenta”. Un’esperienza, quella dell’ex garante regionale, che in realtà potrebbe continuare a Torino. Il mandato dell’attuale garante Monica Gallo scade il 31 luglio. E la candidatura di Mellano è già arrivata in Comune, con il sindaco Stefano Lo Russo che sarà chiamato a scegliere. “Il problema del Lorusso e Cutugno è relativo agli spazi. Si tratta di una struttura costruita con una vecchia visione della pena, andrebbe reimmaginata”. Aosta. Da McDonald’s la “Seconda chance” degli ex detenuti. Il progetto pilota di Cristina Porta La Stampa, 23 luglio 2025 Sono già quattro le persone che hanno iniziato a lavorare nel fast food: “Il lavoro fondamentale per evitare la recidiva”. Il riscatto sociale e il reinserimento passano dal lavoro. A dirlo sono i dati: solo il due per cento dei detenuti che, una volta usciti dal carcere, lavorano torna a delinquere contro il 70 per cento di coloro che hanno scontato la pena senza aver avuto la possibilità di un lavoro esterno alla prigione. Da giugno, due giovani detenuti del carcere di Brissogne sono stati ammessi al lavoro esterno e sono impiegati al McDonald’s di Aosta. È l’associazione Seconda Chance, che si occupa a livello nazionale del reinserimento dei detenuti, che ha attivato i colloqui con il direttore del fast food e la direzione carceraria valdostana. Al lavoro subito dopo la scarcerazione - “Già a primavera - spiega Matteo Zordan di Seconda Chance - il McDonald’s di Aosta ha iniziato a collaborare con noi. E in quell’occasione ha assunto due ex detenuti. In un caso, la persona era già al lavoro la settimana successiva alla scarcerazione”. E proprio per poter dare più opportunità di lavoro l’associazione ha contattato tutti i McDonald’s di Piemonte e Valle d’Aosta per sensibilizzarli sul tema, facendo capire loro come sia fondamentale dare una seconda opportunità a chi è ancora in carcere, ma potrebbe usufruire dei permessi per lavorare all’esterno, e per chi la condanna l’ha già scontata. Aosta la prima ad attivarsi - “I fast food hanno un turnover molto elevato di personale - dice Zordan - per cui sono sempre alla ricerca. Il direttore di Aosta è una persona molto sensibile al tema e ha accolto la nostra proposta. E per questo ha subito assunto due ex detenuti che erano appena usciti dal carcere di Brissogne e ora ha dato lavoro ad altri due, che escono al mattino per andare a lavorare e tornano a fine turno. Non hanno mansioni prestabilite. Fanno le stesse attività degli altri colleghi. Cassa compresa. Il direttore ha già fatto altri colloqui, ed è pronto ad assumere altri detenuti”. E aggiunge: “Per il momento il contratto proposto a questi due giovani di origini straniere è di due mesi - dice Zordan - ma questo è previsto per tutti i lavoratori. È la politica dell’azienda. Si tratta di due mesi di prova, ma il contratto può essere rinnovato senza problemi. Fanno tutti lo stesso percorso. Per cui se alla fine della prova hai soddisfatto le performance aziendali vieni assunto, altrimenti il contratto non viene riconfermato. Come è successo a uno dei due ex detenuti assunti a primavera. Il collega invece lavora ancora”. “Lavoro fondamentale per evitare la recidiva” - Per Seconda Chance “il lavoro è fondamentale e solo così si abbatte la recidiva. Per questo continuiamo ad avviare percorsi in tutti gli istituti di pena, anche perché il mondo carcerario è molto variegato e complesso. E poi, non dobbiamo dimenticarci che nelle nostre carceri ci sono centinaia di persone innocenti e non dobbiamo mai perdere di vista cosa dice la nostra Costituzione: la pena deve essere riabilitativa. Alle aziende che incontriamo diciamo sempre che assumendo un detenuto non fai del bene solo alla persona ma a tutta la collettività. Perché se sai che quella persona quando esce non torna più a delinquere perché ha trovato un lavoro e di conseguenza un riscatto sociale, di rimando ne beneficiamo tutti”. Per i detenuti del carcere di Brissogne le opportunità di trovare un’occupazione proseguono. Nei prossimi giorni, un panificio valdostano farà altri colloqui all’interno dell’istituto penitenziario. Dando così una seconda chance ad altre persone. Cagliari. Detenuti malati al Santissima Trinità: il progetto del reparto è ancora in standby cagliaritoday.it, 23 luglio 2025 Presentata un’interrogazione dai Riformatori Sardi per fare luce sull’iniziativa presentata nel febbraio scorso dall’assessore alla Sanità Armando Bartolazzi: “Questi ritardi creano grossi problemi sia ai pazienti che agli agenti della Penitenziaria”. Fare luce sui persistenti ritardi nell’attivazione del reparto dedicato ai detenuti malati presso l’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. È questo in sintesi il contenuto dell’interrogazione presentata oggi dai consiglieri dei Riformatori Sardi, Umberto Ticca, Aldo Salaris e Giuseppe Fasolino, e indirizzata alla presidente regionale, Alessandra Todde, e all’assessore alla Sanità, Armando Bartolazzi. Un progetto ancora in standby - L’ospedale Santissima Trinità, si legge nel testo presentato dai consiglieri di opposizione, fulcro del sistema sanitario regionale sardo, riveste un ruolo cruciale anche per i pazienti in regime di detenzione che necessitano di cure ospedaliere. Sul punto, nel febbraio 2025, l’assessore regionale alla Sanità aveva annunciato pubblicamente, tramite la delibera n. 11/3 del 26 febbraio 2025, l’istituzione di un nuovo reparto ospedaliero specificamente destinato ai detenuti malati, con la previsione di almeno quattro posti letto. Questa iniziativa, già sperimentata in passato, mirava a ottimizzare l’assistenza sanitaria per i detenuti e a razionalizzare l’impiego della polizia penitenziaria, spesso costretta a sorvegliare pazienti ricoverati in ambienti inadeguati. Tuttavia, ribadisce il gruppo all’opposizione, “a più di cinque mesi dall’annuncio, il reparto non è ancora operativo”. I Riformatori Sardi evidenziano come gli spazi designati per ospitare i detenuti malati “siano tuttora occupati, impedendo di fatto l’avvio del servizio”. Un problema per pazienti e agenti - “La mancata attivazione del reparto”, sottolineano Ticca, Salaris e Fasolino, “non genera solo un disservizio in termini di assistenza sanitaria, ma comporta anche un notevole aggravio organizzativo per la polizia penitenziaria”. Gli agenti, secondo quanto riportato dai consiglieri, sono costretti a impiegare un numero di risorse ben superiore al necessario per la vigilanza, con evidenti ripercussioni sull’efficienza complessiva del sistema detentivo regionale. “Nonostante le rassicurazioni ricevute in passato riguardo un avvio imminente del reparto, non vi è stato alcun seguito concreto, né è stata fornita una tempistica chiara per la sua messa in funzione”, è l’affondo del gruppo all’opposizione, che chiedono alla presidente Todde e all’assessore Bartolazzi “risposte precise” sullo stato del progetto. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Sos caldo e sovraffollamento il Garante: reparti al collasso di Biagio Salvati Il Mattino, 23 luglio 2025 Ieri la visita nella Casa circondariale. Sofferenza. È questa la parola che meglio descrive la condizione attuale della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, visitata ieri mattina dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, accompagnato da due componenti dell’Osservatorio regionale campano. La visita ha restituito l’immagine di un carcere al collasso: 1.044 detenuti stipati in una struttura pensata per 826 posti regolamentari, che si riducono a circa 700 effettivi a causa dell’inagibilità di due intere sezioni. I lavori promessi dal 2022 non sono mai stati avviati, aggravando una situazione già fuori controllo, resa ancor più insostenibile dal caldo torrido di questi giorni e dalla cronica carenza di personale. Gli educatori e gli agenti della polizia penitenziaria sono in sotto organico, mentre i detenuti denunciano una quasi totale assenza dell’assistenza sanitaria. Per l’intero istituto opera un solo psichiatra, con un impegno di appena 12 ore settimanali: un dato allarmante, specie in un contesto in cui convivono 300 detenuti tossicodipendenti, 70 dei quali sottoposti a terapia farmacologica. A destare particolare preoccupazione è stato il reparto Danubio, dove - ha sottolineato il garante - si registra una pericolosa promiscuità tra detenuti in isolamento disciplinare, in custodia cautelare e in regime ordinario. In almeno dieci celle “singole” sono ammassati tre detenuti ciascuna, con uno spazio vitale ben al di sotto dei minimi previsti per legge. Fuori dalle finestre si ammucchiano cumuli di spazzatura, che contribuiscono a rendere l’aria irrespirabile, in un clima già saturo di disagio e tensione. Le criticità non si fermano qui. Nell’articolazione per la tutela della salute mentale, che al momento ospita 17 detenuti, le celle sono perennemente bagnate a causa delle infiltrazioni d’acqua dal soffitto, a testimonianza di un degrado strutturale che mina la dignità stessa della detenzione. Eppure emergono segnali di resistenza culturale. Ciambriello ha voluto incontrare i due detenuti responsabili della biblioteca interna: da gennaio ad oggi, sono stati richiesti 1.292 libri, una cifra che racconta di menti ancora vive e desiderose di evadere, almeno con la lettura, da una realtà oppressiva. “Occorrono interventi urgenti e concreti, non visite simboliche - ha dichiarato il garante. Questo carcere è una delle realtà più critiche della Campania”. Venezia. Allarme cimici in carcere, disinfestazione e nuovi letti Corriere del Veneto, 23 luglio 2025 Emergenza cimici nel carcere di Santa Maria Maggiore. Nell’istituto penitenziario maschile diversi detenuti hanno riportato morsi ricondotti alle cimici da letto. La direzione sta cercando di affrontare il problema, ma le soluzioni fino ad adesso adottate non hanno portato alla soluzione. La direzione del carcere ha fatto sapere che “da tempo è impegnata ad affrontare ogni eventuale criticità all’interno della struttura, anche di natura igienico sanitaria”. In questo caso gli interventi sono coordinati dall’Usl 3 Serenissima che sta seguendo il caso. “Confermiamo che si sono registrati alcuni casi localizzati di infestazione da cimici, immediatamente affrontati con interventi tecnici da parte di ditta specializzata - ha sottolineato la direzione del carcere - Tuttavia, consapevoli della complessità di tali fenomeni in ambienti comunitari e della necessità di adottare misure risolutive e non solo contenitive, è già stata disposta una nuova procedura di disinfestazione mediante tecnologia ad alta temperatura, considerata dagli esperti uno degli approcci più efficaci nel debellare stabilmente il problema”. Sarebbero infatti diversi i detenuti che hanno riportato punture su tutto il corpo che provocano un prurito continuo e uno stato di disagio dovuto al fatto che l’insetto è difficile da debellare. Proprio per questo è in corso la sostituzione progressiva dei materassi nelle aree interessate e un monitoraggio per la valutazione di eventuali manifestazioni cutanee segnalate dai detenuti. Ad aggravare la situazione c’è il sovraffollamento: attualmente al maschile ci sono circa 270 persone per una capienza di un centinaio di posti in meno. Udine. Nuova sala polivalente per il carcere: un progetto di solidarietà e impegno civile udinetoday.it, 23 luglio 2025 Solidarietà e impegno civile scendono in campo per il carcere cittadino di via Spalato. È qui, infatti, che sta prendendo forma un importante progetto di riqualificazione che vede al centro la realizzazione di una nuova sala polivalente. L’iniziativa, parte di un più ampio piano di ristrutturazione dell’istituto penitenziario udinese, è stata significativamente supportata dalla cooperativa “Dinsi une Man”, che ha contribuito in maniera determinante all’allestimento del nuovo spazio. Il cantiere, avviato nelle scorse settimane, è un segnale concreto dell’attenzione della comunità verso le condizioni dei detenuti. Il progetto di miglioramento delle condizioni dei detenuti di via Spalato si inserisce in un percorso avviato già nei mesi scorsi dall’attuale Garante e dal suo predecessore, a testimonianza di un impegno costante e duraturo per il benessere della popolazione carceraria. Presentazione ufficiale - I dettagli del progetto, inclusi i contenuti e le tempistiche, verranno presentati ufficialmente domani, mercoledì 23 luglio. All’evento parteciperanno figure di spicco del mondo della cooperazione sociale, delle istituzioni e delle associazioni impegnate sul fronte della giustizia: Saranno presenti Paolo Felice, presidente di Legacoop Sociali Fvg, Bruna Gover, coordinatrice Legacoop Sociali Fvg, Andrea Sandra, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Udine, l’architetto Giovanni La Varra, Massimo Brianese per la Società della Ragione, associazione attiva sulla crisi della giustizia e la riforma carceraria e Davide Sartori per la cooperativa “Dinsi une Man” È inoltre previsto un collegamento con Franco Corleone, già Garante dei detenuti di Udine, che porterà il suo contributo all’iniziativa. Bergamo. A Cologno al Serio non solo festa, anche impegno. Per 4 giorni il carcere al centro di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 23 luglio 2025 Con “Campino à la Plage” quattro giorni di incontri per tenere alta l’attenzione sulla realtà carceraria. Saranno “Ore d’aria buona”: in compagnia, nella socialità, all’aperto. E sensibilizzando su un tema delicato, che in questi ultimi mesi sta vivendo una situazione spesso drammatica: il carcere, la vita oltre le sbarre, ma anche il riscatto di chi ha saldato il proprio conto con la giustizia. È il tema al centro di “Campino à la Plage”, l’evento estivo che anima il parco del Campino di Cologno al Serio e giunto alla quinta edizione, con l’organizzazione curata dal Centro giovanile “Lo Spazio” e il sostegno di diverse istituzioni e realtà del territorio: da giovedì a domenica, quattro giorni tra festa e impegno. “Ogni anno cerchiamo di costruire un filo conduttore per tutta la festa - spiega Alessandro Rocco, uno degli organizzatori dell’appuntamento -, individuando dei temi su cui tenere alta l’attenzione, e per quest’anno abbiamo scelto la realtà carceraria”. La serata inaugurale, giovedì 24 luglio dalle 21, ospiterà infatti le testimonianze di chi conosce profondamente il vissuto della casa circondariale di Bergamo: interverranno Gino Gelmi, vicepresidente dell’associazione Carcere e Territorio e l’avvocato penalista Luca Bosisio, insieme ad alcune testimonianze di chi ha affrontato l’esperienza della reclusione, mentre Adriana Lorenzi - direttrice di “Spazio”, giornale che prende forma in via Gleno e presente con uno stand alla festa - proporrà la lettura di testi realizzati nel laboratorio di scrittura creativa. Un racconto che supera il muro di cinta, per provare a costruire “ponti” tra il dentro e il fuori. Nelle serate successive, tra una proposta “classica” e l’altra (tornei ludici, musica live e dj set, servizio bar e ristorazione, il gioco della ruota), il mondo del carcere sarà presente in diverse forme, a partire da alcune attenzioni particolari: “Le magliette della festa sono state realizzate da una serigrafia che collabora con il carcere di Torino per il reinserimento sociale - prosegue Rocco -, mentre nella zona degli hobbisti avremo tra realtà fisse impegnate su questi temi: il laboratorio Crisalide d’argilla con le creazioni in ceramica prodotte dalle detenute di Bergamo, la cooperativa “Forno al fresco” che gestisce il forno del carcere, il progetto tessile “Ricucendo Tex Lab” attivo sempre in via Gleno”. L’intento benefico - Il sostegno avrà anche la forma di una donazione: parte del ricavato della festa sarà destinato a Carcere e Territorio, in particolare per finanziare delle borse lavoro e quindi delle esperienze di reinserimento per detenuti, mentre un’altra quota sarà reinvestita sul territorio, come da tradizione della festa (tra i “frutti” più recenti, un nuovo defibrillatore per il parco del Campino). Tra le altre proposte originali che contraddistingueranno la rassegna c’è il “Vr Corner”: sarà possibile esplorare, attraverso un visore di realtà virtuale, l’installazione artistica “La mia gabbia è una maschera”, creata da Generazioni Fa come esito di un laboratorio teatrale dedicato ad adolescenti. Suicidio assistito: regole e iter. Come cambierà con la nuova legge? di Francesca Spasiano Il Dubbio, 23 luglio 2025 Il caso di Laura Santi riapre il dibattito sul fine vita e sul testo all’esame del Senato. Dal ruolo del servizio sanitario al comitato di valutazione, i nodi più critici. La morte della giornalista umbra Laura Santi, nona persona in Italia ad accedere al suicidio assistito, apre ancora una volta il dibattito sul fine vita. E offre l’occasione per domandarsi in che modo la legge proposta dalla maggioranza potrà modificare le “regole” già in vigore e incidere sulle scelte dei pazienti. In assenza di una norma nazionale, infatti, a disciplinare i percorsi di fine vita è la sentenza 242 della Corte Costituzionale. Ovvero la storica decisione sul caso Cappato/Dj Fabo, che dal 2019 ha in parte legalizzato l’accesso al suicidio assistito quanto sussistono quattro requisiti: che la richiesta arrivi da un malato affetto da una patologia irreversibile, che sia capace di autodeterminarsi, che reputi le proprie sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Da qui parte anche il testo base adottato dalle commissioni Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama, relatori i senatori Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. Dopo mesi di “negoziazione” nel comitato ristretto del senato, il ddl ha cominciato il suo iter all’inizio del mese, con l’obiettivo di approdare in Aula il 17 luglio. Salvo poi slittare di settimana in settimana, con il termine per la presentazione degli emendamenti fissato nella stessa data: 140 richieste di modifica, di cui oltre cento da parte delle opposizioni. Con ogni probabilità i lavori riprenderanno a settembre, anche se il Pd chiede di poter almeno avviare la discussione in Commissione prima della pausa estiva. Nel frattempo, ai relatori spetterà il compito di valutare gli spazi di mediazione sul testo, composto da quattro articoli, mentre i singoli gruppi spingono verso soluzioni e sensibilità diverse. Su un tema, come sono le questioni etiche, su cui i partiti lasciano sempre libertà di coscienza. Il nodo principale riguarda il ruolo del servizio sanitario nazionale, che resta escluso dai percorsi di fine vita, con il rischio di “privatizzare” le pratiche. Secondo la formulazione attuale, voluta da Fratelli d’Italia, le aziende sanitarie non potranno fornire la strumentazione, il farmaco letale e il personale necessario, come è accaduto nel caso di Laura Santi. A cui l’Asl dell’Umbria ha fornito i primi due, mentre il personale è stato attivato su base volontaria. Il dem Andrea Crisanti propone di inserire i percorsi di fine vita “in regime di intramoenia”, con costi non a carico del paziente, ma “sostenuti esclusivamente da organizzazioni senza scopo di lucro appositamente accreditate”. Mentre FdI, che ha presentato una decina di emendamenti, sembra preparare un’ulteriore stretta. Forza Italia, da parte sua, propone di modificare l’articolazione del comitato nazionale di valutazione, che rappresenta un altro nodo critico del testo. Insieme allo stop di 180 giorni previsto nel testo per ripresentare una domanda rifiutata. Se le opposizioni chiedono di rivedere il Comitato in termini di componenti e nomina, attualmente prevista tramite Dpcm, gli azzurri chiedono che sia composto da tre sezioni, come accade per i tribunali. Ma senza perdere di vista l’obiettivo di uniformare le procedure sul territorio nazionale, ed evitando al contempo le “fughe in avanti” delle Regioni che cercano di dotarsi di proprie leggi. Come nel caso della Toscana, che lo scorso febbraio ha approvato una legge impugnata dal governo. Nei prossimi mesi è attesa la decisione della Consulta, che nelle settimane a seguire dovrà esprimersi anche sull’eutanasia. Mentre il Parlamento potrebbe finalmente dotare il Paese di una legge: la prima volta ci provò nel 1984 Loris Fortuna, deputato socialista e “papà” della legge sul divorzio. Sulla dignità si fonda ogni diritto e tutela. Non “svuotiamola” di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 23 luglio 2025 Dal dopoguerra in poi è il segno distintivo della comune appartenenza all’umanità. Nell’ambito dei dibattiti o degli scritti concernenti problematiche bioetiche e giuridiche è difficile non incontrare “il principio della dignità della persona”, richiamato anche da posizioni fra loro contrastanti. Esemplare in tal senso l’attuale disputa concernente il bene vita o il rapporto scienza e diritti dell’uomo. La necessità e l’opportunità di marcare il rapporto fra l’uomo e la dignità ha origine da un passato di offese ad essa a seguito delle tragiche esperienze di totalitarismi e di regimi dittatoriali. Nasce così il riferimento alla dignità delle persone come valore fondante di tutti i diritti e come dato intangibile da rispettare e tutelare prima di ogni altra cosa. Emblematico in tal senso l’articolo 1 della Costituzione tedesca, secondo cui “La dignità umana è inviolabile. Al suo rispetto e alla sua protezione è vincolato l’esercizio di ogni potere statale...”. Così anche ricordiamo La Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo (1948); La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentale (1950); La Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano a fronte delle biotecnologie (1997). Altrettanto significativo il rilievo introduttivo nel testo della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 2000). Nell’ordinamento costituzionale italiano la pari dignità si affianca, come valore preliminare, alla libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia (artt. 3, 13, 32, 36, 41 Cost.). La tendenza europea vede, dunque, nella dignità il segno distintivo della comune appartenenza all’umanità, di un reciproco riconoscimento di quest’ultima, di un’esigenza della tutela della persona in quanto tale. Il dovere che la dignità impone nella risoluzione di problematiche relative a persone è utilizzato in funzione deontica. Non ci si rivolge al singolo come destinatario del dovere e neanche ad una persona giuridica, ma si invocano uno o più valori assoluti e impersonali. Come a dire che la violazione della dignità non lede una persona concreta, ma una persona astratta, appositamente istituita dalla retorica della “dignità”. Pertanto, il concetto di dignità non è deciso dall’interessato in modo soggettivo e autoreferenziale, ma dall’esterno, da una fonte eteronoma che potrà essere identificabile nella religione, nella morale, nel costume, ecc. Implica un riconoscimento oggettivo: una dignità che impegna la nostra appartenenza alla vita comune con tutto il carico della storia. D’altronde è proprio la negazione dell’appartenenza ad una umanità unica, fatta propria dai passati e dai recenti eventi bellici, a sostanziare ciò che ci consente di definire questi ultimi dei “crimini contro l’umanità”. Da questa concezione si discosta la nozione liberale che vede nel termine “dignità” soprattutto l’attribuzione all’individuo di pretese verso lo Stato e verso gli altri individui. Siamo vicini alla tradizione costituzionale nordamericana: la dignity acquisisce una nozione soggettiva, libertaria e utilitarista, legata al concetto di autonomia, fondata sul raziocinio e fondante il diritto alla privacy e alla qualità della vita. Emerge con chiarezza una crescente tendenza in termini giuridici a invocare la dignità umana insieme con il principio dell’autonomia personale e della riservatezza. E la sfera della privacy e dell’autodeterminazione, superando la più tradizionale sfera economica e sociale, diventa il fondamento dei nuovi diritti: privatezza, autonomia, consenso si presentano nell’argomentazione giuridica come diritti di tale importanza da consentire la soluzione del conflitto attraverso la loro affermazione. Infine, la dignità umana può essere considerata un autonomo diritto da bilanciare con altri diritti e valori, soprattutto nei casi etici complessi, o un valido “strumento retorico” per dare sostegno ad altri diritti che si intende privilegiare o fare meglio emergere. Invocando la necessità di tutelare la dignità, l’argomento fatto proprio si rafforza e può apparire più convincente. Bisogna però avere ben chiara la consapevolezza del fatto che ogni tentativo di fissare il contenuto della nozione di dignità umana rischia di perdere qualcosa della sua ricchezza, così che può essere vantaggioso mantenere la nozione nella sua intrinseca indeterminazione. Questo può non essere soddisfacente, in specie per chi pretende di possedere l’unica autentica interpretazione della nozione. Ma non è da considerare necessariamente come un vuoto etico e giuridico: in primo luogo, perché apre la nozione ad una continua ridefinizione e arricchimento con nuove dimensioni, non contemplate nelle concezioni tradizionali; in secondo luogo perché impedisce (o almeno dovrebbe impedire) di usare l’appello al principio del rispetto della dignità umana come una sorta di strumento per troncare ogni ulteriore discussione. Il diritto di scegliere una morte dignitosa di Filomena Gallo* La Stampa, 23 luglio 2025 Se fosse stata in vigore la legge che questo Governo ha proposto Laura non sarebbe stata libera di scegliere. In ricordo di Laura Santi: una vita per il diritto all’autodeterminazione Laura Santi era una mia amica. Sono stata anche sua avvocata ma il nostro legame andava oltre il ruolo professionale: era profondo, umano, politico. Laura era una persona luminosa, determinata e consapevole. Ha lottato fino alla fine per vedere riconosciuto un diritto che dovrebbe appartenere a tutti: il diritto all’autodeterminazione. Era Consigliera generale dell’Associazione Luca Coscioni, e ha dedicato le sue energie - anche quando la malattia le toglieva il respiro - alla battaglia per il riconoscimento della possibilità di scegliere come e quando morire, nel rispetto della libertà individuale. Laura ha intrapreso un percorso difficile lungo 2 anni e 8 mesi, per vedere applicata la sentenza della Corte costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo, che ha aperto alla possibilità di accedere all’aiuto medico alla morte volontaria in presenza di precisi requisiti. Lei quei requisiti li aveva, ma ha dovuto combattere per dimostrarlo, perché non era attaccata a macchinari che la tenessero in vita, e quindi rischiava di restare esclusa sulla base di un’interpretazione restrittiva di quanto stabilito dalla Corte. Di fronte agli ostacoli quasi insormontabili e all’attesa di anni che persone come Laura hanno dovuto e devono affrontare, sarebbe oggi necessaria una legge che chiarisca ed estenda i diritti esistenti. La maggioranza di governo ha invece deciso di andare nella direzione opposta. Va dunque detto con chiarezza: se fosse stata in vigore la legge che questo Governo ha proposto Laura non sarebbe stata libera di scegliere. È infatti una legge che punta a cancellare la scelta sul fine vita escludendo chi non è dipendente da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali (cioè da macchinari, negando così il diritto a scegliere a chi dipende da trattamenti di sostegno vitale praticati da famigliari e caregivers) è una legge che tradisce lo spirito e la sostanza della sentenza Cappato e della Costituzione. È una legge che nega, anziché garantire, l’autodeterminazione. Una legge che vuole proteggere la mera sopravvivenza biologica umiliando la vita nella libertà e imponendo sofferenze insopportabili non può essere una buona legge. La memoria di Laura non deve esaurirsi in un momento di commozione o di compassione per le sofferenze da lei subite. Deve diventare impegno. Perché nessuno, nessuna, debba più dimostrare di “meritare” la libertà attraverso procedure burocratiche vessatorie. Perché il diritto a una morte dignitosa sia riconosciuto davvero a tutte le persone che non hanno la possibilità di sottrarsi a una sofferenza insostenibile, senza fare dipendere questo diritto dalla “tecnica” dalla quale una persona dipende per sopravvivere. Laura ci ha insegnato, con la sua vita e con la sua scelta, che la libertà è una responsabilità. E che vale sempre la pena di battersi per difenderla. *Avvocata, Segretaria dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica Venezuela. Caracas torna a riempire le sue carceri. Trentin da 8 mesi in cella di Claudia Fanti Il Manifesto, 23 luglio 2025 I venezuelani espulsi dagli Usa e detenuti in Salvador: “Abusati e torturati”. Sono al momento 59 i detenuti politici rilasciati dal governo Maduro - in tutto si dovrebbe arrivare a un’ottantina - contestualmente all’accordo raggiunto fra il segretario di Stato Usa Marco Rubio e il governo venezuelano per la liberazione di dieci cittadini statunitensi reclusi in Venezuela in cambio della scarcerazione di 252 migranti venezuelani illegalmente rinchiusi nel mega carcere salvadoregno Cecot (Centro di confinamento del terrorismo). Un accordo, seguito a una lunga e complessa trattativa, celebrato con grande soddisfazione in Venezuela, dove il procuratore generale Tarek William Saab ha annunciato l’avvio di un’indagine contro il presidente salvadoregno Nayib Bukele e i suoi alti funzionari per il trattamento riservato ai 252 migranti deportati dagli Usa, i quali hanno denunciato torture, aggressioni fisiche e psicologiche e abusi sessuali. Ma al sollievo dei prigionieri rilasciati si accompagna - e proprio nelle stesse ore - l’angoscia per nuovi arresti da parte del governo bolivariano: sarebbero almeno sette gli attivisti politici e sindacali fermati, tra cui il leader studentesco Simón Bolívar, il dirigente sindacale Fernando Serrano e Ángel Riva, marito della presidente del Collegio degli infermieri di Bolívar Maritza Moreno, ricercata dal governo per le sue denunce sulle condizioni degli ospedali in Guayana. Secondo il Comitato per la libertà dei prigionieri politici e altre organizzazioni per i diritti umani, si tratterebbe di una “dinamica perversa di porta girevole”, in cui al rilascio - dietro concessioni - di alcuni detenuti (peraltro con misure cautelari, dunque con il rischio di finire nuovamente dentro) segue l’arresto di altri, meglio ancora se di nazionalità straniera, da usare come future pedine di scambio. Sempre senza diritto alla difesa, senza accesso agli avvocati, senza contatto con i familiari. “È disumano - denuncia il Comitato - che la loro sofferenza venga utilizzata come strumento di negoziazione politica”. È la situazione anche di Alberto Trentini, il cooperante italiano detenuto a Caracas, nel carcere El Rodeo, da oltre otto mesi, con cui la famiglia - che non smette di denunciare il silenzio “insostenibile” del governo italiano - ha potuto parlare una sola volta, il 16 maggio. E di cui di recente ha dato notizie un ex detenuto svizzero, compagno di prigionia del cooperante veneto a El Rodeo, il quale, in un’intervista rilasciata ad Avvenire il 9 luglio, ha rassicurato sulle sue condizioni di salute ed esortato la famiglia a non perdere la speranza. “Alberto sta bene, fisicamente è a posto”, ha dichiarato l’ex detenuto, raccontando però le “orribili” condizioni di prigionia in una struttura “fatiscente” e senza igiene, con appena “45 minuti d’aria tre volte a settimana”, e riferendo di essere stato liberato grazie a una trattativa condotta dal ministero degli esteri svizzero: ““Ci è costata cara”, è l’unica cosa che mi hanno detto le autorità del mio paese”. Ed è quello che chiede anche la famiglia di Trentini: che, cioè, come ha dichiarato la madre Armanda, “le nostre istituzioni dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale e si adoperino con urgenza ed efficacia per riportare a casa nostro figlio mettendo in campo qualsiasi strumento di diplomazia come è stato fatto in altri casi”. Molti peraltro sono ancora gli stranieri detenuti in Venezuela: prima della liberazione dei dieci cittadini statunitensi, l’organizzazione Foro Penal aveva parlato di 85 persone. Tra loro anche l’ingegnere colombiano Manuel Tique Chaves, cooperante dell’ong danese Danish refugee council (Drc), per la quale anche Alberto aveva lavorato, dal febbraio del 2023 all’aprile del 2024. Cina. La grande retata delle scrittici gay di Mario Baudino La Stampa, 23 luglio 2025 Scrivevano (sotto pseudonimo) per una piattaforma taiwanese dedicata a un nuovo genere di grande successo, noto come damnei: che intreccia temi gay, fantasy e fantascienza. Secondo la BBC, almeno una trentina di giovani autrici cinesi che scrivono per lo più su una piattaforma taiwanese (Haitang Literature) sono state arrestate quest’anno, da febbraio a oggi. Il loro crimine non è quello di intelligenza col nemico (notoriamente la Cina considera Taiwan una parte ribelle del suo territorio nazionale), ma di aver scritto storie di argomento omosessuale nell’ambito di un nuovo genere popolarissimo anche in Cina, ovviamente, noto come danmei: che intreccia temi gay generalmente maschili, fantasy e fantascienza, non senza tentazioni, pare, Bdsm; e piace soprattutto a un pubblico femminile. Sono testi per così dire riservati, che richiedono al lettore quantomeno di nascondere il proprio computer (agli occhi della censura cinese) con una Vpn, e pagare l’accesso in moneta virtuale. Finora le misure di sicurezza interna avevano funzionato, adesso evidentemente non più. Il codice penale cinese proibisce la divulgazione di contenuti giudicati osceni, e prevede pene d’ogni genere, da qualche anno addirittura all’ergastolo. Le autrici, in una paese fortemente omofobo, scrivevano nell’ombra; l’arresto e la conseguente divulgazione della loro identità le ha esposte alla riprovazione sociale. Non è la prima volta che succede, pare che l’anno scorso ci siano stati cinquanta arresti, ma questo caso ha fatto clamore, mobilitando la rete e avvocati volenterosi. Va da sé che il regime cinese non cambierà idea, nonostante qualche licenza sia stata concessa nel tempo a scrittori famosi, molto più tollerati. La valutazione di oscenità è del resto molto soggettiva, anzi arbitraria. Dipende dai tempi, alle circostanze, dalle politiche e dalle persone. Ne ha fatto esperienza anche chi scrive questa nota: un mio libro di qualche anno fa dedicato agli pseudonimi letterari (Lei non sa chi sono io) è stato tradotto in cinese. Ma all’ultimo momento l’editore, peraltro autorevole, ha proposto (imposto) una serie di tagli in base alle valutazioni di una fantomatica “commissione per la qualità” (insomma, la censura statale): e guarda caso riguardavano innanzi tutto l’intero capitolo dedicato all’uso di pseudonimi nelle storie di argomento omosessuale. Ma non solo: erano state individuate qui e là frasi e frasette, e persino tre righe, in altro capitolo, dove si menzionava l’antica discussione fra studiosi ottocenteschi circa l’effettiva omosessualità di Saffo. Tagliate anche quelle. Una mira infallibile. Tailandia. Cannabis sfiorita a Phuket di Alessandro De Pascale Il Manifesto, 23 luglio 2025 La Tailandia, primo paese asiatico a depenalizzare coltivazione e vendita della marijuana, ci ripensa. Protesta un settore in pieno boom. Isola di Phuket, Tailandia. Girando per le strade di una delle più battute mete turistiche balneari di questa nazione del sud-est asiatico, un po’ ovunque si vedono insegne al neon con la foglia di cannabis. Sulla maggiore isola del Paese, abitata sulla carta da meno di 400mila abitanti, attualmente si contano quasi 1.500 dispensari che vendono liberamente marijuana e derivati (dai biscotti alle bibite, passando per le caramelle). In alcune zone ce n’è uno ogni poche centinaia di metri. Nella capitale Bangkok, megalopoli da quasi 11 milioni di abitanti, sono 3.000. Persino in un piccolo e remoto centro come Mae Sot (circa 50mila residenti), situato nella parte nord-occidentale del Paese lungo il confine con il Myanmar, se ne contano una decina. Tre anni fa la Tailandia è stata la prima nazione del continente asiatico a eliminare la cannabis dalla lista dei narcotici, portando al rilascio di oltre un milione di licenze di Plook Ganja (coltivazione di marijuana) e alla nascita a livello nazionale di circa 18.000 dispensari. Il tutto in assenza di una apposita normativa per regolamentarla, che doveva essere varata entro 120 giorni ma non è mai arrivata in Parlamento. Ribattezzata “l’Olanda dell’Asia”, la Tailandia ora fa dietrofront: lo scorso 24 giugno, il ministro della Sanità pubblica, Somsak Thepsuthin, ha stabilito che d’ora in avanti per acquistare la cannabis servirà la prescrizione medica (l’uso a scopo terapeutico è consentito dal 2018). Il nuovo regolamento è arrivato dopo la fuoriuscita dal governo del partito conservatore di centro-destra Bhumjaithai, padre della legalizzazione e con un’importante fetta del proprio elettorato tra gli agricoltori e i commercianti. Ovvero i primi beneficiari di questo business che, secondo l’Università della Camera di Commercio Thailandese (Utcc), quest’anno avrebbe potuto raggiungere 1 miliardo di dollari. La mossa del ministero è stata giustificata con il raddoppio del consumo: per il segretario generale dell’Office of the Narcotics Control Board (Oncb), Phanurat Lukboon, gli utilizzatori abituali di cannabis nel 2019 erano 350.000, diventati lo scorso anno 700.000. Con picchi registrati soprattutto tra i giovani, tanto che la vendita era stata vietata ai minori di 20 anni e agli studenti. Una restrizione ora rimossa, a favore come detto dell’obbligo di prescrizione medica, con cannabis fornita per un massimo di 30 giorni a cliente e con la registrazione su una apposita card (ottenibile anche dai turisti). Stop alla vendita online o tramite distributori automatici e stop a qualsiasi forma di pubblicità (lungo le strade ci sono cartelloni pubblicitari, grandi anche 6 metri per 3). I dispensari dovranno inoltre rifornirsi soltanto con erba prodotta da aziende agricole con la certificazione Good Agricoltural and Collection Practices (Gacp) della cannabis terapeutica, al momento del varo del nuovo regolamento rilasciata dal governo ad appena 69 appezzamenti di terreno in grado di garantire circa 72 tonnellate di infiorescenze di cannabis l’anno. Per il momento non è un ritorno alla vendita esclusiva in cliniche e farmacie ospedaliere. Ai dispensari basterà avere un medico che prescrive la cannabis per una delle 15 patologie riconosciute (dal cancro all’insonnia). Ma il settore è ugualmente sul piede di guerra e da settimane manifesta davanti alla sede del ministero della Sanità pubblica, denunciando incertezza per il futuro e chiedendo la cancellazione del nuovo regolamento. “Alcune aziende hanno ottenuto la certificazione Gacp pagando 500.000 bath (13.200 euro, ndr), senza dover dimostrare di avere soddisfatto i requisiti - denuncia Prasitchai Nunual, segretario generale della rete Writing Tailand’s Cannabis Future che guida le proteste -. Nascerà inoltre un mercato delle ricette, favorendo la corruzione”. Stanley è un ragazzo francese ex responsabile marketing di un’azienda del settore in procinto di mettersi in proprio, il quale vista l’attuale incertezza ci chiede di non indicare il suo cognome. “La presenza di medici nei negozi per le prescrizioni - a suo dire - è più che altro cerimoniale, in quanto potrà essere un dentista, un farmacista, anche se la maggior parte dei dispensari assumerà quelli della medicina tradizionale tailandese, perché hanno il salario minimo più basso, solitamente ugualmente pari a quello di due budtender (coloro che forniscono ai clienti le informazioni sui diversi prodotti derivati dalla cannabis, nda). La presenza dei medici a mio parere è un tentativo di far vedere che è in atto una regolamentazione e un modo per il Dipartimento per lo Sviluppo della Medicina Tradizionale e Alternativa Thailandese di fare soldi”. Nel nuovo business della formazione del nuovo personale effettivamente sono proprio loro i primi ad essere scesi in campo: dal 16 luglio stanno tenendo appositi corsi per 2.000 medici, cui si aggiungono quelli per il personale dei dispensari (i già citati budtender) per i quali stimano ben 100.000 partecipanti. “Il problema principale - denuncia ancora Stanley - riguarda i coltivatori e i proprietari di negozi che non hanno i mezzi economici per adeguarsi ai nuovi standard governativi, col risultato che gli operatori più grandi, anche stranieri, accresceranno ulteriormente la loro fetta di mercato”. Un’accusa subito rispedita al mittente dal ministro della Sanità pubblica, Somsak. Inizialmente il dicastero voleva far tornare la cannabis nell’elenco dei narcotici entro 45 giorni, riportando così la cannabis soltanto in cliniche e farmacie ospedaliere, ma ora afferma che il governo non dovrà ricorrere a tale misura se verranno attuati i giusti controlli. Dall’entrata in vigore del regolamento già ispezionati 1.565 negozi, con 82 licenze sospese, cinque revocate, 322 chiusure e sette procedimenti giudiziari avviati. A novembre scadranno 12.000 licenze delle 18.000 rilasciate ai dispensari. Molti dei quali, in assenza dei medici e con l’aumento dei costi, hanno momentaneamente abbassato la saracinesca, spegnendo le insegne a neon con la foglia di cannabis.