In Cdm il Piano carceri: diecimila posti in più di Lorenzo Attianese ansa.it, 22 luglio 2025 Ipotesi benefici su chi è in attesa di giudizio e per i tossicodipendenti. Un nuovo piano contro il sovraffollamento nelle carceri è pronto ad approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri in queste ore. A meno di un mese dall’ultimo degli appelli lanciati dal presidente della Repubblica, il governo è pronto mettere in campo nuove misure per correre ai ripari per l’emergenza negli istituti penitenziari del Paese. In campo anche un decreto che prevede misure alternative per la potenziale uscita dal carcere di diecimila detenuti: tra le ipotesi ancora al vaglio ci sono anche misure per coloro che, solo nel caso di reati non ostativi, sono in attesa di giudizio o per i carcerati con pene residue minime. C’è poi il disegno di legge che dà la possibilità di assegnare i domiciliari o la collocazione nelle comunità ai carcerati tossicodipendenti e alcoldipendenti, fino ai piani di edilizia carceraria, anche ‘modulare’. Ma quello del decongestionamento delle carceri non è l’unico tema discusso a Palazzo Chigi dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, alle prese con l’approvazione in Parlamento della riforma della separazione delle carriere dei magistrati. Dopo il via libera del provvedimento al Senato, potrebbero essere previsti tempi ancora più brevi: l’obiettivo massimo sarebbe di arrivare al referendum sulla nuova legge costituzionale nel febbraio dell’anno prossimo. Quanto alle carceri già la scorsa settimana il Guardasigilli aveva annunciato l’istituzione di una task force dopo aver attivato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti per favorire la definizione delle posizioni di 10.105 detenuti cosiddetti definitivi, potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere: sono quelli con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi - di cui all’articolo 4 bis della legge di ordinamento penitenziario - e che negli ultimi dodici mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi. Il decreto riguarderà anche modifiche a tempi e numeri sulla concessione della corrispondenza telefonica dei detenuti. All’ordine del giorno in Cdm c’è anche il disegno di legge con disposizioni in materia di detenzione domiciliare per il recupero di detenuti tossicodipendenti o alcoldipendenti, che punterà a rafforzare quanto già disposto con un provvedimento dello scorso anno, in cui si annunciava la definizione di un albo delle comunità idonee ad ospitare minori e tossicodipendenti dal carcere alla comunità. Quel progetto però sembra non aver portato i risultati sperati finora: il numero di carcerati, oltre 62mila, non accenna a diminuire a fronte dei quasi 47mila posti disponibili. Da qui la definizione di norme precise e stringenti. Resta infine il piano di edilizia carceraria, che è nelle mani del commissario Marco Doglio, alle prese con l’ampliamento di grandi istituti come Rebibbia, Milano Opera e Bollate, Cagliari e Bologna. L’idea di riconversione delle caserme, pur messo in pratica al momento in pochi casi come quello di Grosseto, sembra lasciare spazio alla proposta di realizzazione dei moduli prefabbricati, che si aggiungeranno negli istituti. Nelle previsioni saranno realizzati gradualmente i primi 1.500 moduli con l’installazione già di 400 in via sperimentale. In questo senso sono stati effettuati sopralluoghi negli istituti ad Opera e Voghera. Si tratta di una soluzione edilizia già adottata in altri Paesi europei che permetterebbe di affrontare con maggiore rapidità la questione dell’ampliamento delle strutture carcerarie. L’Esecutivo resta quindi fermo sui suoi passi: nessun indulto - come chiede anche una parte delle opposizioni e le associazioni - o forma di amnistia mascherata, ma progetti di snellimento burocratico. Riguardo ai calcoli sulla concessione di misure alternative non si esclude l’ipotesi di utilizzare gli impiegati che lavorano agli uffici matricole delle carceri (i cosiddetti ‘matricolisti’) per eseguire i conteggi delle pene residue, agevolando il lavoro degli uffici giudiziari: una proposta arrivata tempo fa dallo stesso Garante dei detenuti. Oggi in Cdm il nuovo piano carceri: più posti e misure alternative di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2025 Detenuti dipendenti da alcol o stupefacenti da collocare in strutture di accoglienza. Oggi giornata intensa sul fronte delle politiche della giustizia. Nelle medesime ora in cui il Senato darà il via libera alla seconda lettura della riforma costituzionale della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, approderà in consiglio dei ministri il nuovo piano carceri del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ieri il ministro è salito a Palazzo Chigi per fare il punto della situazione, presentare le misure in arrivo e concordarne l’applicazione. In campo una serie di interventi tra strutturali ed emergenziali. Tra i primi, una serie di misure per ampliare con progetti di ristrutturazione da realizzare in tempi estremamente brevi la disponibilità di alcuni istituti penitenziari, da Opera e Bollate, a Bologna e Perugia. Ma nel provvedimento troveranno posto anche forme di detenzione alternativa alla custodia in carcere per chi è oggi in condizioni di dipendenza, da alcol a stupefacenti. L’obiettivo è di collocare un buon numero di questi detenuti in strutture di accoglienza in grado di coniugare esigenze terapeutiche e necessità di sicurezza. Sotto osservazione ci sono poi quei poco più di 10.000 detenuti (su un totale di circa 63.000) con meno di due anni di pena residua da scontare e che potrebbero usufruire di misure alternative. Nessun automatismo però, ma la indispensabile valutazione dei magistrati sorveglianza. Sul punto ha preso avvio da pochi giorni un gruppo di lavoro tra staff di Nordio e rappresentanze della magistratura di sorveglianza. Di quest’ultima è previsto l’ampliamento della pianta organica di 58 unità: due per ogni ufficio giudiziario. Parte dei 6.000 addetti all’ufficio per il processo che verranno stabilizzati sarà poi assegnata agli uffici di sorveglianza, ha assicurato Nordio. Fortemente perplesse le prime reazioni. Per Antigone “per quanto riguarda il discorso delle comunità per tossicodipendenti occorre prestare particolarmente attenzione alla questione e capire se le persone saranno private della propria libertà personale in questi luoghi o, invece, saranno libere di muoversi e uscire. Il rischio è infatti che si creino delle forme private di detenzione, totalmente incompatibili con il modello che l’Italia si è data”. E quanto alle misure alternative, “queste già esistono. Il problema sta nel fatto che molte persone, soprattutto quelle con condanne e pene brevi da scontare, sono le più fragili, spesso senza fissa dimora o con alloggi non sempre in linea con la possibilità di scontare una pena all’esterno. Per questo servirebbero investimenti per creare strutture non carcerarie che possano ospitare queste persone. Anche in questo caso, come per le comunità per persone tossicodipendenti, però bisogna avere ben chiaro il fatto che queste non devono diventare dei luoghi privati di privazione della libertà”. Sul fronte della separazione delle carriere, il voto del Senato ratificherà il secondo dei quattro passaggi parlamentari che scandiscono l’iter della riforma. Come prevedibile nessuna modifica, come già avvenuto alla Camera, è stata fatta al testo approvato dal Governo. Ignorate anche le seppur blande indicazioni di correzione dell’Ufficio studi del Senato (per esempio sulle impugnazioni delle decisioni dell’Alta corte disciplinare). Detenuti di troppo? Nordio vuol metterli nei container di Angela Stella L’Unità, 22 luglio 2025 Stando ad una notizia riportata ieri dal quotidiano Il Messaggero, oggi in Consiglio dei Ministri dovrebbe approdare il piano carceri voluto dal governo e messo nero su bianco dal Commissario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, per affrontare il tema del sovraffollamento carcerario, giunto al 134 per cento. A quanto riporta il quotidiano, gli interventi dovrebbero riguardare: l’aggiunta di alcuni nuovi blocchi detentivi, anche modulari, in carceri già esistenti; misure alternative per chi ha pene residue basse; l’invio dei tossicodipendenti nelle comunità. In totale 10.000 posti in più che dovrebbero essere sommati ai detenuti che potrebbero uscire per buona condotta dopo la valutazione della task force di Via Arenula con i magistrati di sorveglianza sempre voluta dal Guardasigilli e istituita qualche giorno fa. Ma dagli esperti del mondo carcerario arrivano critiche. Secondo la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, “per stroncare il serio tentativo che il Presidente Ignazio La Russa sta facendo al Senato sulla liberazione anticipata speciale, il Ministro Nordio se ne inventa una al giorno... di presa in giro. (Stra)parla di fantomatici 10.000 nuovi posti detentivi per combattere il sovraffollamento. Poi, se vai a leggere Il Messaggero facendo la somma i nuovi posti sarebbero 2.332. Anche ammettendo che questi 2.332 siano di imminente apertura (non ci credo), con quale personale li fa funzionare se già oggi gli agenti di Polizia penitenziaria non ci sono (Ne mancano 6.000 dalla pianta organica)? Possibile che Giorgia Meloni e Mantovano si fanno infinocchiare da Nordio e dalla sua capa di Gabinetto Giusi Bartolozzi?”. Critico anche Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Non si può pensare che 10.000 detenuti, cioè un sesto dell’intera popolazione reclusa in Italia, vadano a finire in container improvvisati, senza spazi adeguati e conformi a quanto le leggi richiedono. Farlo significa progettare un’idea di pena di mera custodia dei corpi. Una custodia che non tiene conto anche di evidenti problemi climatici, come le temperature che si registrano ormai in Italia nel periodo estivo e che stanno mettendo a dura prova le persone detenute e gli operatori”. Per quanto riguarda, ha proseguito Gonnella, “il discorso delle comunità per tossicodipendenti occorre poi prestare particolarmente attenzione alla questione e capire se le persone saranno private della propria libertà personale in questi luoghi o, invece, saranno libere di muoversi e uscire. Il rischio è infatti che si creino delle forme private di detenzione, totalmente incompatibili con il modello che l’Italia si è data”. Sul piano parlamentare poi arriva la pdl del deputato di +Europa, Riccardo Magi, per istituire il numero chiuso nelle carceri. Qualora non ci fosse posto nell’istituto di pena, scatterebbe la misura alternativa. “Sono numerosi - si legge nella relazione del parlamentare - i casi di celle da 12 metri quadri condivise da tre o più persone, in palese violazione degli standard europei minimi di spazio vitale, stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), e utilizzati come parametro nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e da quella interna di Cassazione”. “Il governo continua a ignorare una crisi che - hanno sottolineato invece Roberto Giachetti e Maria Elena Boschi - coinvolge migliaia di persone, tra detenuti e operatori. Né l’apertura giubilare della “Porta della Speranza” a Rebibbia, né le parole del Presidente della Repubblica sono serviti a smuovere le coscienze di Meloni, del Guardasigilli e dei suoi sottosegretari”. Intanto ieri è avvenuto il 43esimo suicidio in carcere, come reso noto dalla Uilpa: “26 anni non ancora compiuti, tunisino, in carcere dal 16 luglio per revoca degli arresti domiciliari, è stato ritrovato impiccato stamani (ieri, ndr) nella sua cella della casa di reclusione di Massa. Già due giorni fa aveva tentato il suicidio. Con questo sono 43 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno (senza contarne uno ammesso al lavoro all’esterno e un altro in una Rems), 3 nelle ultime 48 ore, cui bisogna aggiungere 3 operatori. Una strage senza fine e che non può essere certo frenata dal sovraffollamento, come grottescamente affermato dal Ministro della Giustizia, che a Massa fa peraltro contare 270 reclusi presenti a fronti di soli 102 posti disponibili” ha scritto il segretario Gennarino De Fazio. Proseguono nel frattempo le iniziative nonviolente dell’avvocatura per chiedere che venga approvata quanto prima la pdl Giachetti. La Camera Penale di Roma promuove uno sciopero della fame a staffetta “per difendere i diritti fondamentali dei detenuti, un gesto nonviolento e simbolico, ma necessario per sensibilizzare sul sovraffollamento, il disagio psichico e i troppi suicidi nelle carceri”. L’associazione napoletana ‘Carcere possibile onlus’, infine, prende atto innanzitutto che “la Commissione carcere dell’Anm, presieduta dal dott. Vacca, ha espresso parere favorevole all’approvazione della pdl Giachetti pur indicando necessari correttivi e, sabato scorso, l’Anm, all’unanimità, si è schierata nettamente a favore della stessa”; inoltre ravvisa come “nonostante l’evidente ed importante comunanza di obiettivi tra magistratura, avvocatura e mondo dell’associazionismo, il Ministro Nordio ignora la pdl Giachetti, definendola addirittura un rimedio determinante ‘l’istigazione a delinquere’”; conclude il suo comunicato sostenendo che non si può “non condividere l’On. le Giachetti quando definisce ‘presa in giro’ la fantasiosa proposta ministeriale” e che “la vera istigazione a delinquere sia l’idea che la pena detentiva possa espiarsi nelle condizioni in cui attualmente si trovano i nostri istituti penitenziari: è questa idea, infatti, che determina quotidianamente la realizzazione all’interno delle carceri di veri e propri crimini contro l’umanità di cui oggi deve rispondere la coscienza degli uomini e -a breve- quasi certamente anche lo Stato Italiano”. Carcere, i suicidi salgono a 43. I Garanti scendono in piazza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 luglio 2025 Un detenuto di 26 anni si toglie la vita a Massa: è strage senza fine. Il 30 luglio la mobilitazione dei Garanti territoriali che chiedono misure urgenti. Mentre il dibattito politico e mediatico si sposta sui problemi di sicurezza in carcere (traffico dei telefonini e droga) che ancora una volta dà linfa vitale a nuove misure inutilmente repressive, i detenuti continuano a morire. Quando l’alba irrompe, in molti istituti penitenziari riaffiorano altre vite spezzate. Dal primo gennaio 2025 a oggi, 43 detenuti hanno scelto di porre fine ai propri giorni impiccandosi. Una strage silenziosa, consumata tra muri che dovrebbero garantire sicurezza ma che, troppo spesso, si trasformano in prigioni dell’anima. L’ultima tragedia arriva oggi da Massa, dove un detenuto tunisino di 26 anni, in cella dal 16 luglio per una revoca dei domiciliari, si è tolto la vita dopo un primo tentativo di suicidio fallito il giorno prima. È il 43esimo suicidio del 2025. “Una strage senza fine, nella sostanziale indifferenza del Guardasigilli e dell’esecutivo”, ha denunciato Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa, segnalando che a Massa ci sono 270 detenuti in una struttura da 102 posti, con appena 112 agenti a fronte di un fabbisogno stimato in 204. Mentre Valentina Calderone, Garante dei detenuti del Comune di Roma, sul suo profilo Facebook ha denunciato: “Sabato notte, a Rebibbia Nuovo Complesso, si è tolto la vita un uomo di 54 anni, il 42esimo suicidio dell’anno e il terzo in un istituto romano” ha proseguito spiegando che “era rinchiuso in cella singola, svolgeva regolarmente un lavoro interno e aveva ancora molti anni di pena da scontare”. Calderone confessa: “Sono due giorni che continuo a pensare alle parole del ministro della Giustizia Nordio, a come un’istituzione possa arrivare a dire che il sovraffollamento ha anche effetti positivi, perché un sacco di persone in carcere sarebbero state salvate dai compagni di cella”. E conclude, rivolgendo un ultimo sguardo alle porte sbattute dei penitenziari: “A tutto quel dolore e a quella disperazione che vedo ogni volta che entro in un istituto, non servirebbe davvero aggiungere parole così sbagliate, irrispettose e prive di ogni minimo senso di responsabilità”. Il garante nazionale: carcere sia extrema ratio - I dati analizzati dal Garante nazionale fino al 7 luglio parlano di 37 suicidi e 130 decessi complessivi in carcere: 63 per cause naturali, 29 ancora da chiarire e 1 incidente mortale. Nei primi sette mesi del 2024 i suicidi erano stati 50, a dimostrazione di un’emergenza che non conosce tregua. Le vittime hanno un’età media di 42 anni, con 16 suicidi tra i 18 e i 39 anni e 21 tra i 40 e i 55. Il recluso più giovane aveva 22 anni, quello più anziano 70; molti erano prossimi alla fine pena: 14 avevano meno di tre anni da scontare, 14 erano ancora in attesa del primo giudizio. Rilevante è il dato sulle condizioni di vulnerabilità, delle 37 persone che si sono suicidate ben 12 risultano senza fissa dimora. Dalla lettura della tabella, si legge nel report, è ipotizzabile che sono tre le condizioni sociali che possono influire: senza fissa dimora, disoccupazione e grado di istruzione. Dall’8 al 21 luglio si sono registrati altri cinque suicidi, portando il totale annuo a 42. Ogni storia è diversa, ogni fine una ferita aperta. Ma un’osservazione, nonostante sia debole e solo con un piccolo inciso, il Garante nazionale la fa: “Il Paese ha l’urgenza di adoperarsi per rendere l’esecuzione della pena non solo efficiente ed efficace sul piano della prevenzione, ma anche e non secondariamente compatibile con il suo volto costituzionale, improntato ai principi di umanità, finalismo rieducativo ed extrema ratio della detenzione”. Mentre i dati aggiornati descrivono una crisi nuda e crudele, il ministro Nordio parla di “10.000 nuovi posti detentivi”. Ma, come osserva Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, basta una semplice somma per smontare l’annuncio: “Se vai a leggere il Messaggero, facendo la somma, i nuovi posti sarebbero 2.332. Ci vorrebbe Totò a dirgli “È sempre la somma che fa il totale”“. E aggiunge: “Comunque, di posti ne mancano oltre 15.000. Ma non finisce qui. Nordio si annette anche i 400 posti del padiglione di Rebibbia che da almeno un paio d’anni sta lì lì per essere aperto. Di certo lui e il suo governo non c’entrano alcunché con la costruzione di questo e altri padiglioni”. Anche ammesso che quei 2.332 posti siano di imminente apertura, “con quale personale li fa funzionare se già oggi gli agenti non ci sono? Ne mancano 6.000 dalla pianta organica”. Eppure, l’attuale governo, che su questo tema ha affinità con il Movimento Cinque Stelle, scambia “la certezza della pena” con il carcere a tutti i costi. Non sono bastate nemmeno le lettere da Rebibbia dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, notoriamente di destra. Così come non è bastata nemmeno la sensibilità del presidente del Senato Ignazio La Russa di Fratelli D’Italia, che ha dimostrato una apertura alla proposta di legge Giacchetti - Bernardini sulla liberazione anticipata speciale. La mobilitazione dei garanti per mercoledì 30 luglio - Con un gesto che suona ormai come una sfida, i garanti territoriali hanno lanciato l’appuntamento per il 30 luglio, chiamando piazze e istituzioni a farsi testimoni di un’urgenza che non può più aspettare. Samuele Ciambriello, portavoce di questa ondata, ha levato lo sguardo oltre i cancelli: “Dobbiamo fermare la strage di vite e di diritti delle carceri italiane!” ha tuonato, mentre alle sue spalle si immaginava la folla invisibile di 62.000 uomini e donne costretti a vivere in un limbo quotidiano. Tra loro, quasi 8.000 persone con meno di un anno di pena residua - pronte a uscire, eppure intrappolate - e, per i 46.000 definitivi, soltanto 250 magistrati di Sorveglianza a garantire che la legge resti viva. Le parole di Ciambriello si sono fuse con le richieste che da troppo tempo aspettano risposta: “Riduzione immediata del sovraffollamento, misure deflattive e la liberazione anticipata speciale come propone Giacchetti; potenziamento dei Tribunali di Sorveglianza; investimenti nell’esecuzione penale esterna e percorsi di reinserimento”. Non un elenco di buone intenzioni, ma un piano preciso, da portare in Parlamento e soprattutto dentro le carceri, per mostrare a chi governa il volto vero di una crisi ormai dilagante. E quel volto si chiama Foggia, con il suo sovraffollamento al 214%; San Vittore, dove ogni corridoio sembra risuonare di passi affollati; Santa Maria Capua Vetere, “spina nel fianco” di un sistema che fatica a reggere. Sono 29 gli istituti in sofferenza - 25 case circondariali, 3 case di reclusione, 1 casa lavoro - dove il soffocamento delle celle a regime chiuso lascia spazio solo al dramma più estremo: l’impiccamento, spesso avvenuto senza che nessuno potesse intervenire in tempo, in corridoi senza psicologi, in reparti senza spazi di socialità. Manca, in queste mura, ogni spiraglio di normalità. Manca un progetto di rinascita, quel dettaglio di umanità che la Costituzione immagina ma che nella pratica resta un miraggio. Per questo, la manifestazione del 30 luglio non è un corteo simbolico: è un atto di denuncia, un ingresso collettivo dentro i cancelli per riportare alla luce le storie sommerse dal silenzio. Perché dietro ogni numero c’è un volto, un nome, una speranza che merita di riaccendersi. E soltanto smettendo di voltare lo sguardo potremo trasformare questo presente in un punto di svolta: spegnere il silenzio delle celle e riaccendere la Costituzione, restituendo dignità a chi ha già perso troppo. Nell’ultima cella in fondo c’è Kafi, chiuso in un dolore senza salvezza di Maria Brucale L’Unità, 22 luglio 2025 A Rebibbia, sottoposto a “sorveglianza a vista” perché ha provato a uccidersi. Viene dalla Libia, non ha nulla. Ha rubato per fame. La sua tragedia è la nostra. Kafi Asi è detenuto al G6, sottoposto a “sorveglianza a vista”. Una condizione di isolamento pressoché assoluto in una sezione di dolore popolata da 11 persone che per ragioni diverse necessitano di controllo continuo, perché pericolose per gli altri e incapaci di una serena convivenza o perché pericolose per sé, come Kafi Asi. Lo incontriamo durante una visita con Nessuno Tocchi Caino e la Camera penale di Tivoli. Il suo dolore attraversa il silenzio, le sbarre, il fetore che viene da una cella che sta in fondo al corridoio e che disegna su tutto una condizione indecente di disperazione e di abbandono. Kafi è un ragazzo con i lineamenti gentili, gli occhi grandi. Mentre parla trattiene a fatica le lacrime e non smette di ringraziare per l’attenzione ricevuta, per le parole di conforto. Viene dalla Libia e ha un passato di fuga e di sofferenza. Non ha nulla né un posto dove andare. Racconta di avere rubato per fame e per bisogno. La sua pena finirà a settembre ma ripete all’infinito che non ce la fa, che non resiste. Il suo corpo lo grida. Ha un taglio sulla gola e profonde ferite lungo le braccia. Alcune sembrano infette, sono gonfie e cicatrizzate male. Chiede aiuto e lo fa in modo struggente. Nella cella accanto c’è Antonia, dice, “una transessuale che digiuna, una mia amica”. Ha paura anche per lei. Proviamo a parlarle ma “il blindo” è chiuso, dorme. Quel posto è un inferno di desolazione senza spazi liberi, senza aria. Dalle celle vestite di niente e presidiate da telecamere anche in bagno si può uscire per un’ora al giorno per accedere ad un rettangolo di spazio nel cemento sovrastato da griglie, sporco. E la chiamano aria... Kafi ha avuto la scabbia ed è stato in cella di isolamento durante la malattia. Sono frequenti i casi di scabbia in carcere, al punto che un cartello affisso alle pareti di sezione invita a evitare i contatti, gli abbracci, le strette di mano. Poi è stato “lasciato lì anche dopo la guarigione perché si agitava troppo”. Lo racconta Gianni Alemanno nel “Diario di cella n. 13” grazie al quale parla di Rebibbia a chi vuole sapere cosa accade, come si vive in un carcere. Luftim, un altro ristretto, gli ha salvato la vita l’ultima volta che ha tentato di togliersela. Lo ha trovato “appeso alle sbarre della finestra della cella con il corpo grondante di sangue”, racconta Alemanno. Alle sue grida è accorso Fabio Falbo, “lo scrivano di Rebibbia” che con Gianni nutre il diario di vita che attraversa le mura fatiscenti dell’istituto, ha allertato gli agenti. Sono stati i detenuti a liberare il collo di Kafi dalla stretta della corda a cui si è appeso, a raccogliere il corpo straziato da terra, a caricarsi in spalla una barella, a portarlo in infermeria e poi al G6 dove c’era il medico di guardia. Durante la notte Kafi ci riprova. Ha nascosto due lamette in bocca e si taglia sulle braccia, sul torace. E ora è al G6, da solo, a vivere la sua tragedia che è la nostra. Quella di un giovane uomo chiuso in una desolazione profondissima che non ha riparo, che non ha salvezza. Una storia come tante di miseria e di abbandono, di mancanza di mezzi e di assistenza, di deserto relazionale e umano. Che cosa possono fare gli agenti per aiutarlo? Sono davvero pochi, stremati da turni massacranti, prestati ad attività che esulano dalle loro competenze, gravati da responsabilità troppo opprimenti. Come possono supplire, senza alcuna formazione mirata, alla mancanza di presidi medici adeguati, di assistenza psichiatrica, di accudimento delle vulnerabilità? Come possono gestire un carico così devastante di umanità dolente accatastata in luoghi indecorosi e senza speranza? Dove sono le comunità del ministro Nordio per chi come Kafi ha ancora pochi mesi da scontare e non ha un posto dove andare? Ci vorrebbe una task force per recuperare un senso minimo di umanità, di decenza, di amore. Riforma e carceri, giustizia a due velocità di Alessandro De Angelis La Stampa, 22 luglio 2025 Al Senato atteso l’ok alla riforma simbolo della legislatura: un risultato a tempi di record mentre sulle carceri c’è solo il piano. La vivono, nel centrodestra, come una giornata storica. E infatti, per prepararla, ieri il guardasigilli Carlo Nordio si è confrontato a lungo con Giorgia Meloni. A Palazzo Madama passerà in seconda lettura la riforma della giustizia. Poi, resta la cosiddetta “doppia conforme”. Ovvero un passaggio alla Camera e uno al Senato, ma solo per un “sì” o un “no”, senza esame di merito e possibilità di emendarla. A occhio, entro l’inizio del prossimo anno, dopo la sessione di bilancio, sarà licenziata in via definitiva per andare a referendum (senza quorum) a giugno. Di lì, l’inizio della lunga campagna elettorale per le politiche. Al cdm, a seguire, a meno di clamorose sorprese, sarà varato il piano carceri, che prevede la realizzazione di diecimila posti in più e sconti di pena per buona condotta. Arriva dopo anni di annunci e di misure inefficaci: prima l’impegno a costruire nuove strutture (mai realizzate), poi la nomina di un commissario che ha varato solo un mini-piano di 384 posti, da ricavare attraverso prefabbricati nei cortili, poi ancora il decreto per favorire l’ingresso in comunità di tossicodipendenti senza casa, misura mai partita. Insomma, il governo della realtà corre lento come i cantieri da aprire per costruire nuovi padiglioni nei principali carceri italiani. L’ideologia va veloce. L’approvazione odierna della riforma sulla separazione delle carriere è il passaggio più rilevante politicamente, perché chiude la fase in cui si poteva discutere e cambiare. Cosa mai avvenuta su un provvedimento che ha marciato a tappe forzate. Il più delicato, perché tocca la Costituzione, è quello che è andato più spedito non solo delle carceri, ma anche di parecchie leggi ordinarie. Un unicum: poco più di un anno dall’approvazione nel consiglio dei ministri dello scorso maggio, compreso il passaggio alla Camera. E probabilmente sarà l’unica “grande riforma” varata nella legislatura. Il premierato è scomparso dai radar, forse perché di fatto c’è già, in un governo che è un “one woman show”. E alla gente sembra andare bene così. Portarla a votare controvoglia su una cosa che non è in cima ai suoi pensieri, può sembrare una provocazione e un rischio. L’Autonomia, ultimo omaggio postumo alla Lega anni Novanta, è stata sepolta dalla Corte. E, anche in questo caso, nessuno nel paese si straccia le vesti. In verità non se le straccia nemmeno sulla giustizia, però dentro quell’impalcatura normativa c’è un coacervo di culture: il nuovo trumpismo, con l’idea che in virtù dell’unzione popolare si possa esercitare il potere senza vincoli, e il vecchio berlusconismo. Ci provò più volte il Cavaliere, ad approvare la “grande riforma della giustizia” fondata appunto sulla separazione delle carriere: “Il pm - diceva - per parlare con il giudice deve fissare un appuntamento, entrare con il cappello in mano nel suo ufficio e magari dargli del lei”. Ma non ci è mai riuscito. L’ultima, nel maggio del 2011, ci provò dopo la bocciatura del “lodo Alfano” che dava l’immunità alle alte cariche, ma a novembre cadde il governo. Allora c’era Ilda Boccassini ad indagare su Ruby, che non era la nipote di Mubarak, e sulle cene, che tutto erano fuorché eleganti. Oggi la procura di Milano indaga invece sulla giunta di Beppe Sala, sui suoi conflitti di interesse e le sue ipotesi di corruzione. Un colpo al cuore della sinistra nella capitale economica del paese, il cui impatto simbolico, per quel che rappresenta Milano, va oltre i confini dell’inchiesta. Ecco, quel che accade a palazzo Marino è al tempo stesso una conferma e una smentita. Conferma l’autonomia della magistratura, anche di quella procura che è stata rappresentata come un plotone di esecuzione contro il centrodestra. Smentisce palazzo Madama, lì dove la riforma e la grancassa che l’accompagna è vissuta come una resa dei conti storica con le “toghe rosse”. Ricapitolando: a Palermo c’è un legittimo ricorso, per motivi di diritto, su Matteo Salvini e a Milano si indaga sulla giunta di centrosinistra. Come l’anno scorso si indagò su Giovanni Toti, di centrodestra, e sulla giunta di Michele Emiliano o sul Comune di Bari, entrambi di centrosinistra. E su Bibbiano, a proposito di separazione delle carriere, i giudici hanno smontato le ipotesi accusatorie dei pm, proprio come accaduto su Open Arms. Il sistema, in quanto ad autonomia e indipendenza, funziona. Ma più della realtà conta lo scalpo simbolico. La verità alla sbarra di Giovanni Fiandaca* Il Foglio, 22 luglio 2025 Il dramma del giudice che sentenzia. Sarà condannato ad approssimare, o esiste l’oggettività in tribunale? E cosa significa “oltre ogni ragionevole dubbio”? Come non cadere nella trappola del “vero di serie B”. C’è diversità di idee e di approcci teorici, anche tra i giuristi, su cosa si debba o possa intendere per verità. Com’è noto, si tratta di un concetto controverso, che alcuni filosofi considerano persino pericoloso per la sua potenziale valenza polemogena (per affermare una pretesa verità si può anche usare violenza omicida contro chi è portatore di una diversa verità). Ma, se c’è un settore nel quale sembrerebbe impossibile fare a meno della verità come parola e come concetto, questo è proprio quello del diritto e del processo penale. Ciò dipende, al di là della speculazione teorica, da un sentire sociale profondamente radicato che percepisce (emotivamente, prima che razionalmente) la giustizia intimamente legata alla verità, una sorta di binomio indissolubile. Non solo sarebbe un gravissimo abuso, contrario a ogni senso di giustizia, condannare taluno per un reato senza averne prima fondatamente accertato l’effettiva responsabilità. Fare verità o maggiore verità su quanto è accaduto, a prescindere anche dal fatto che i giudici individuino un responsabile da condannare, può già di per sé lenire le ferite delle vittime e costituire un modo di dare in qualche misura ascolto alle loro aspettative di giustizia. Ma è tutt’altro che facile, al di là del senso comune, indagare i rapporti tra verità e processo. Non a caso, nel codice di procedura penale italiano non si fa riferimento alla verità come obiettivo da perseguire con le indagini e il processo. Probabilmente, questo silenzio è dovuto, più che a scetticismo o diffidenza, a prudenza: essendo da tempo acquisita la consapevolezza, tra i giuristi teorici e pratici, che al processo sono connaturati limiti di potere conoscitivo, che impediscono ad esso di fungere sempre da sicuro strumento di verità. Per esemplificare, si considerino i limiti alla stessa raccolta delle prove, che il legislatore introduce allo scopo di proteggere diritti o interessi di rango superiore o equivalente all’interesse per la persecuzione dei reati (come il divieto di tortura, o di utilizzare tecniche d’indagine che influiscano sulla libertà di autodeterminazione o sulla capacità di valutare e ricordare, trattandosi di mezzi che offendono la dignità umana della persona). Altri limiti sono legislativamente previsti a salvaguardia della stessa attendibilità dell’accertamento probatorio (si pensi ad esempio alla facoltà concessa al prossimo congiunto dell’imputato di non deporre, derivante dalla preoccupazione di porre al riparo il processo da dichiarazioni condizionate da forte emotività e perciò poco affidabili). Se è ingenuo o irrealistico pensare che i giudici siano sempre in grado di verificare come sono effettivamente andate le cose, come se la loro ricostruzione a posteriori dei fatti dovesse corrispondere a una fedele fotografia di tutto quanto è davvero accaduto, dobbiamo chiederci in che senso si può affermare che il processo assolve una funzione pur sempre veritativa - sia pure di una verità intesa in senso non assoluto, ma relativo. Invero, si tende per lo più oggi a condividere la tesi che la verità “processuale”, in quanto verità attingibile nel processo e col processo, sia fatta di verità probabili e contestuali, il cui livello di fondatezza deriva a sua volta dal grado di certezza delle informazioni ottenute con l’uso degli strumenti probatori consentiti. “Vero”, per dirla con Michele Taruffo, è tutto ciò che è stato provato. Ma quando si può ritenere che sia stata raggiunta la prova di qualcosa? Sembra esservi un certo consenso sostanziale - al di là di possibili diversità di accenti e sfumature - sul fatto che l’accertamento probatorio ha la struttura logica di una inferenza induttiva e, perciò, sfocia in verità non certe al cento per cento, ma più o meno probabili: vale a dire, consistenti in ipotesi ricostruttive giustificate da buone ragioni, tenuto conto del contesto e del compendio probatorio disponibile (per cui nuove informazioni o un mutamento del contesto possono neutralizzare o ridimensionare la verità di quanto in precedenza ritenuto vero). In questo orizzonte di riferimento, il metodo migliore per attingere la prova è identificabile nel contraddittorio, assunto nel nostro ordinamento a principio di rilievo costituzionale espresso a partire dal 1999 (art. 111, co. 2, Cost.). Esso implica un metodo dialettico di formazione della prova: il significato e la rilevanza delle vicende oggetto di giudizio non possono essere colti solipsisticamente; piuttosto, l’accertamento probatorio si atteggia a impresa collettiva basata sul principio del confronto democratico, secondo la logica di una disputa aperta tra le diverse ipotesi ricostruttive in campo sostenute dall’insieme degli attori processuali (magistrati, avvocati, parti civili, periti ecc.). (Ma non sono mancate fasi storico-politiche, caratterizzate da un’involuzione autoritaria dello stato, in cui la valenza gnoseologica del contraddittorio è stata contestata, contrapponendo alla concezione dialettico-argomentativa della prova una concezione scientifica di essa, con la conseguente raffigurazione del giudice come uno scienziato solitario che ricerca la verità con metodi più simili a quelli tipici delle scienze cosiddette dure). Ovviamente, nulla però può garantire che la logica del contraddittorio mantenga sempre le sue promesse: non diversamente da altri metodi, anch’essa soggiace al rischio di torsioni, manipolazioni ed errori. Per rafforzare l’affidabilità della verifica probatoria ai fini di una condanna, il legislatore ha nel 2006 introdotto nel codice di rito la regola di giudizio, di matrice angloamericana, del beyond any reasonable doubt (regola Bard), precisamente all’art. 533 c.p.p. che afferma: “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”). Trovata la formula magica risolutiva? Tutt’al più, soltanto a prima vista. A ben vedere, il criterio Bard, al di là della sua fascinazione liberal-garantista, in sé considerato è alquanto vago: non definisce, ma lascia aperto il senso attribuibile al concetto di dubbio ragionevole, e perciò non aiuta di per sé a distinguere tra dubbi ragionevoli e dubbi irragionevoli. Il compito di specificare e concretizzare questi concetti finisce, quindi, con l’essere di fatto addossato a giuristi e giudici. In sintesi, vi è una certa convergenza nel ritenere che una decisione giudiziale sia conforme al criterio Bard in tutti i casi nei quali non sia prospettabile un’ipotesi esplicativa alternativa idonea a scalfire in qualche punto rilevante la tenuta logica della soluzione ricostruttiva che il giudice considera più in linea con l’accertamento probatorio compiuto. Con una puntualizzazione: il dubbio astratto che le cose potrebbero essersi svolte altrimenti esiste quasi sempre; il dubbio rilevante, il dubbio ragionevole è solo quello giustificato da elementi e circostanze di fatto concreti, tali da far apparire altrettanto plausibile una lettura diversa dei fatti. Va comunque rilevato che il vero problema, al di là della definizione teorica, consiste nell’applicare il criterio dell’oltre ogni ragionevole dubbio con autentico rigore argomentativo, sottraendosi nella prassi giudiziaria alla facile tentazione di farne un uso manipolativo o puramente retorico. Com’è intuibile, rimane oggettivamente arduo distinguere tra dubbi ragionevoli e dubbi irragionevoli nei casi concreti connotati da insufficienza di informazioni fattuali e da forte ambiguità. Sicché, l’opzione tra condanna e assoluzione rischia di risultare più volontaristica, che sorretta da un approccio argomentativo affidabile. Insomma, la decisione finale risente inevitabilmente di un accentuato soggettivismo. Se si vuole evitare l’eccesso di soggettività, e dunque si intende prendere sul serio la regola Bard, nei casi poco chiari che rimangono tali, la soluzione dovrebbe di conseguenza essere sempre a favore dell’assoluzione. A prescindere dalla gravità del delitto oggetto di giudizio, dalle aspettative di punizione socialmente diffuse (o delle stesse vittime) e dalle pressioni mediatiche. Emblematica in questo senso la vicenda dell’omicidio di Garlasco, tornata di recente alla ribalta giudiziaria e mediatica: essa comprova quanto possa risultare di quantomeno dubbia credibilità una sentenza di condanna emessa nonostante l’irrisolta incertezza circa la effettiva dinamica dei fatti, la motivazione del delitto e la reale colpevolezza della persona condannata, tanto più dopo due precedenti sentenze di proscioglimento. E proprio la riapertura delle indagini finisce col provocare l’effetto di delegittimare ancora di più la sentenza definitiva di condanna del presunto responsabile dell’uccisione della giovane Chiara Poggi. Deriva implicitamente da quanto precede che, per evitare un sostanziale tradimento del Bard, occorrono presupposti e condizioni che rimandano al livello di competenza, all’orientamento personale e alla autopercezione di ruolo da parte del giudicante (un giudice che si percepisca come combattente contro fenomeni criminali, piuttosto che come magistrato tenuto a valutare con rigore e scrupolo singole vicende delittuose, sarà più facilmente tentato di eludere la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, appunto in vista del suo prevalente obiettivo combattentistico). Se, specie nei casi difficili e incerti, sarebbe illusorio pensare di potere immunizzare l’accertamento processuale da una ineliminabile misura di soggettività, questa misura risulterà condizionata da opzioni di valore e anche da componenti emotive. Rileva bene Paolo Ferrua: “Quel che si ricostruisce sono i fatti, ma l’atto con cui il giudice ritiene ‘provata’ una certa ricostruzione, respingendo come ‘irragionevole’ ogni contraria ipotesi, è intriso di valori”. Un diverso giudice, altrettanto in buona fede e scrupoloso, potrebbe invece considerare provata l’ipotesi opposta, senza che emerga alcuno strappo alla legalità processuale. E’ questo uno degli aspetti più drammatici e inquietanti della giustizia penale. Quanti giudici sono capaci di sottoporre a controllo razionale i propri pregiudizi e impulsi emotivi, di prendere le distanze dalle preferenze personali, così da attingere la maggiore obiettività possibile nello scegliere la ricostruzione che possa risultare più sostenibile? Per riuscire a mettersi in guardia anche da se stessi, occorre uno speciale talento; e questo talento difficilmente è acquisibile attraverso gli studi giuridici e l’ordinaria formazione professionale impartita dalla Scuola della magistratura. Ma sarebbe in ogni caso auspicabile che, nei percorsi formativi, si impartisse una deontologia del giudicare che includa quale regola fondamentale il “metodo del dubbio”, così come da anni suggerisce un filosofo del diritto maestro di garantismo penale come Luigi Ferrajoli: il quale sottolinea il valore anche etico del dubbio, considerata la permanente possibilità dell’errore fattuale. A questo punto, dovremmo giungere alla conclusione realistica che il processo è in grado di attingere una verità convenzionale, una sorta di verità di serie B, contrabbandata per verità vera allo scopo di rendere socialmente accettabili gli esiti dei giudizi e di non delegittimare l’esercizio della funzione giudiziaria? In realtà non mancano studiosi disincantati a tal punto da ritenere che sia proprio così. Ma tanto realismo e tanto disincanto possono risultare più dannosi di una fiducia ingenua nel potere veritativo del processo. Rientro nel novero di quanti ritengono che, per non compromettere in partenza la possibilità che il processo riesca a ricostruire effettivamente come sono andate le cose, sia invece preferibile mantenerlo il concetto di verità, pur consapevoli della sua controvertibile problematicità. Continuare a sostenere che i giudici hanno una funzione veritativa, e a rivendicare l’importanza di una rigorosa applicazione del criterio Bard, equivale infatti a rivolgere a coloro che giudicano un ammonimento innanzitutto morale: a essere prudenti, a essere quanto più possibile scrupolosi nel vagliare la fondatezza delle ipotesi accusatorie. *Professore emerito di Diritto penale presso l’Università di Palermo Il creazionismo giudiziario è come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo di Pier Luigi Portaluri Il Foglio, 22 luglio 2025 Per far tornare la magistratura nei ranghi, si devono sospingere le corti a essere più trasparenti, pretendendo che le sentenze pesantemente creative si fondino su di una motivazione particolarmente esaustiva. È il terreno di gioco che va cambiato. Il competence creep della magistratura, cioè l’acquisizione progressiva di potere mediante erosione a proprio favore di spazi sottratti al Parlamento o al governo, non può essere contrastato confidando nell’autolimitazione. Così come è inutile lamentarsi genericamente del creazionismo giurisdizionale, che applica norme inventate. La questione c’è, ed anzi è poco più che bimillenaria. In tutti gli ordinamenti. Dalle parti di Trump, per esempio, la Corte suprema in più occasioni ha funzionato come vera e propria opposizione giudiziaria, come contropotere politico. È storia risaputa, in somma. Non è facile rimettere “ogni cosa al suo posto”, come dice Massimo Luciani - autorevole giurista e ora giudice costituzionale in quota Pd - nel suo ultimo libro. Qualche punto fermo possiamo però metterlo. Anzitutto, si dovrebbe smetterla con quella litania dolente e infeconda che accusa genericamente il potere togato di voler fare il legislatore senza avere alcuna rappresentatività democratica. Messa così, la risposta che ci viene dal giudiziario è tanto semplice quanto vincente: le norme di legge non riusciranno mai a fornire la regola per decidere ogni singolo caso, per cui qualunque giudice, qualunque sentenza, dovrà riempire gli spazi bianchi (le “lacune”) che ne derivano. Scacco matto. La partita sta altrove. Il fenomeno del “legiferare dallo scranno” durerà quanto la civiltà umana, sia chiaro. Si tratta allora di rendere più difficili le esondazioni magistratuali, di ridurne al massimo la portata. I modelli utilizzati per queste tracimazioni sono noti. Vediamone alcuni. I giudici più attivisti cercano spesso di “nascondersi” dietro masse normative poco chiare (come il diritto dell’Unione europea nel caso “albanese” dei migranti) per presentare le loro sentenze come atti di stretta applicazione della legge: come se si trattasse, cioè, di una deduzione obbligata e inevitabile, dove in realtà sarebbero state possibili altre interpretazioni, molto meno dirompenti. Oppure sfruttano il “silenzio”, cioè gli spazi dell’ordinamento non coperti da regole giuridiche, per creare regole funzionali a determinati obiettivi “politici” (così sembra nel caso Loro Piana). O, ancora, considerano la norma di legge, se sgradita nei suoi contenuti, alla stregua di un avversario, un’entità resistente da debellare con tutti i mezzi: mediante forzature interpretative, disapplicazioni, etc. Il creazionismo giudiziario è un po’ come il colesterolo. Necessario e inevitabile. L’ecosistema istituzionale non può farne a meno. Ma c’è quello “buono” e quello “cattivo”. E’ quindi inutile, anzi dannoso, dolersene senza fare distinzioni: si offre al potere togato la possibilità di difenderne la versione intollerabile occultandola dietro il paravento di quella indispensabile. L’azione di contrasto deve essere invece mirata, calibrandola soltanto sulla prima, quella deteriore. Più di vent’anni fa si tentò - in modo piuttosto grossolano - di fermare questi eccessi prevedendo per legge la responsabilità disciplinare del magistrato che interpreti le norme in modo creativo o “palesemente e inequivocabilmente contrario alla lettera e alla volontà della legge”. La strada giusta è solo politica. Per farle tornare nei ranghi, si devono sospingere le corti a essere più trasparenti, pretendendo che le sentenze pesantemente creative si fondino su di una motivazione particolarmente esaustiva: che dia piena contezza del percorso logico-giuridico seguito, con le conseguenti critiche - anche particolarmente dure - da parte della politica e dell’opinione pubblica. Costa parla di valutazione dei magistrali, l’Anm attacca di Valentina Stella Il Dubbio, 22 luglio 2025 Il deputato di Forza Italia propone di annotare nei fascicoli dei pm i ricorsi contro assoluzioni poi confermate. La replica: “È un attacco all’autonomia della magistratura”. È polemica tra il deputato di Forza Italia Enrico Costa e l’Associazione nazionale magistrati. Pomo della discordia: l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Tema ritornato all’attenzione della cronaca dopo che il ministro Nordio ha rilanciato la riforma, però forse in maniera tecnico-giuridica impropria, dopo che la procura di Palermo ha deciso di ricorrere direttamente in Cassazione contro l’assoluzione di Matteo Salvini nel processo Open Arms. Costa è intenzionato a presentare una proposta di legge per la quale nel fascicolo di valutazione del magistrato venga inserito il numero di assoluzioni impugnate con esito poi però positivo per l’imputato. Secondo l’azzurro, che già aveva fatto tale proposta insieme al deputato di +Europa Riccardo Magi attraverso un emendamento non passato ad una passata riforma, “per mandare una persona a processo il pm deve ritenere che sussistano ragionevoli probabilità di condanna. Se l’imputato viene assolto, significa che il pm ha sbagliato prognosi. Se insiste, ricorrendo contro la sentenza e sbaglia nuovamente, un asterisco sulle sue valutazioni di professionalità vogliamo metterlo? Basterebbe questo ad evitare ricorsi “temerari” e “dilatori”. Per una persona innocente il processo è una pena, e tenerla appesa con una impugnazione infondata dopo l’assoluzione è una pena doppia”. Al parlamentare di Forza Italia ha replicato in una nota Marcello De Chiara, vice presidente del “sindacato” delle toghe: “Leggendo la proposta di sanzionare i pubblici ministeri in base all’esito delle impugnazioni legittimamente proposte viene il sospetto che ciò che realmente ispira tali iniziative sia l’atavica insofferenza dei politici verso l’autonomia del pubblico ministero e che l’obiettivo di fondo sia ancora una volta impedire al pubblico ministero di esercitare il controllo di legalità in modo effettivo e uguale. Resta forte la sensazione che l’interesse perseguito non sia di migliorare la giustizia, ma solo di utilizzare strumentalmente la giustizia per rafforzare il proprio consenso personale”, ha detto il magistrato espressione di Unicost. Non si è lasciata attendere la controreplica di Enrico Costa: “Leggendo le parole dei vertici Anm ho la conferma che per alcuni magistrati, soprattutto quelli più correntizzati, il cittadino sia un numero, non una persona in carne ed ossa che, se innocente, soffre a restare anni sotto processo”. Milano, dopo aver trovato il “sistema” ora i pm devono trovare i reati di Mario Di Vito Il Manifesto, 22 luglio 2025 “Speculazione” o “rigenerazione urbana”, in una nuova memoria gli escamotage del sacco urbanistico. Fari puntati sui finanziamenti alle campagne elettorali, ma sin qui non c’è molto. Verso gli interrogatori preventivi dal gip. Il primo giorno del giudizio dell’inchiesta sull’urbanistica milanese arriverà domani, quando l’assessore Giancarlo Tancredi, l’imprenditore Manfredi Catella e gli altri quattro per i quali la procura ha chiesto l’arresto saranno interrogati in via preventiva dal gip Mattia Fiorentini. Se le misure verranno convalidate, la tempesta si farà ancora più intensa. In caso contrario, la battuta d’arresto sarebbe palese e rumorosa, anche se il lavoro dei pm Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici, coordinati dall’aggiunta Tiziana Siciliano, andrà avanti lo stesso. Anche perché, a detta di tutti, l’indagine è appena ai suoi primordi. L’ipotesi è che a Milano negli ultimi anni sia esistito un sistema di imprenditori, professionisti, funzionari pubblici e politici per accelerare l’approvazione dei permessi a costruire in città, magari a scapito delle regole e delle leggi. È lo schema tipico dei grandi sacchi urbanistici di cui la storia d’Italia è piena, dalla Napoli di Achille Lauro alla Palermo di Vito Ciancimino, passando per la Roma di Urbano Cioccetti. A volte c’entrava la mafia, altre era un fatto di corruzione e altre ancora di pur discutibili scelte politiche. Nel caso di Milano, ai giorni nostri, la procura ha sin qui individuato gli strumenti con cui è stato fatto - e forse viene ancora fatto - il sacco, ma permangono forti dubbi sull’effettiva esistenza di reati più consistenti di quelli d’ufficio. La pm Petruzzella, in particolare, si è concentrata sui finanziamenti alle campagne elettorali del sindaco Beppe Sala, ma sin qui non è uscito fuori granché: appena 2000 euro - peraltro regolarmente dichiarati - da parte di un’azienda, la Real Step, che poi avrebbe presentato alcuni progetti alla famigerata commissione paesaggio del consiglio comunale, l’epicentro dello scandalo, là dove passavano i pareri verso i vari progetti di “rigenerazione urbana”. Ecco, a scorrere le carte dell’inchiesta il concetto di “rigenerazione urbana” sembra intrecciarsi spesso e volentieri con quello di “speculazione”. In una memoria integrativa inviata dalla procura al gip Fiorentini, si descrive per filo e per segno l’escamotage con cui il presunto sistema derogava i piani urbanistici per favorire i privati a scapito dell’interesse pubblico, un dettaglio nascosto tra le pieghe del decreto legislativo numero 267 del 2000, i cosiddetti “accordi di programma” che servirebbero a coordinare gli interventi quando sono coinvolti più enti e le competenze sono frammentate. Chi indaga parla del “fenomeno degli interventi che comportano varianti particolari al piano urbanistico generale, dichiarate od occulte, approvate su richiesta dei privati, come rilevante indice di corruzione” e denuncia la presenza di un “insieme numerosissimo di accordi di programma in variante, conclusi ed attuati anche in fase di istruttoria amministrativa sulle proposte dei privati”. Le basi giuridiche del ragionamento risiedono in un “rapporto del governo Monti del 2013”, nelle indicazioni dell’Anac e nella “giurisprudenza del Consiglio di stato”. Ma, più che di leggi, siamo in presenza di buoni consigli, perché l’individuazione dei reati continua a essere quantomeno complicata. Forse, in questo senso, si sconta un problema storico della politica italiana, e cioè l’assenza di una normativa sul conflitto d’interessi, cosa che obbliga i pm a parlare, a vario titolo, di “false dichiarazioni su qualità personali proprie o di altre persone” o “induzione indebita a dare o promettere utilità”. Nella descrizione del presunto sistema e del suo funzionamento, poi, fa impressione la quantità e la qualità delle parole che vengono usate: “Spregiudicatezza”, “avidità”, modalità eversive”, “asservimento sistemico” della politica ai costruttori, dove la “corruzione” è “un vorticoso circuito” che “colpisce le istituzioni e ha disgregato ogni controllo pubblico sull’uso del territorio, svilito a merce da saccheggiare”. Il giudizio è pesante, e probabilmente non infondato, ma anche qui non si riesce a cogliere il punto penale della faccenda. Il sacco di Milano è un fatto testimoniato da decine di inchieste giornalistiche, rapporti, studi, saggi e persino romanzi. Ma nessuno dei protagonisti di questa storia ha mai davvero nascosto quale fosse la propria idea di sviluppo urbanistico. Anche a leggere le intercettazioni e le chat - materiale per lo più privo di rilevanza giudiziaria - c’è da stupirsi solo fino a un certo punto: politici, archistar, palazzinari e notabili usano in privato le stesse parole che usano in pubblico. È sconfortante, ma non è reato. Toscana. Antigone: “Siamo in una crisi umanitaria. Le riforme di Nordio? Promesse inutili” novaradio.info, 22 luglio 2025 “Siamo in una crisi umanitaria, una crisi di lesione dei diritti dell’uomo, della dignità dell’uomo, di lesioni gravissime dal punto di vista dell’ordine costituzionale. E di fronte all’incapacità dello Stato di risolverla strutturalmente questa cosa”. È un giudizio quasi senza appello quello sulla condizione del sistema carcerario in Italia espresso dl presidente toscano dell’Associazione Antigone, Enrico Vincenzini, commentando stamani a Novaradio la situazione delle carceri toscane dopo i recenti fatti di cronaca, tra cui la morte al carcere della Dogaia di Prato di un detenuto romeno di 58 anni, Costel Scripcaru, che si trovava in cella di isolamento. Fatto su cui la Procura ha disposto l’autopsia sospettando si tratti di un omicidio. La fotografia della situazione fatta da Vincenzini nelle carceri, toscane ed italiane, è quello di un sistema inemendabile. In particolare con le ricette fin qui proposte dal governo. Infatti, facendo riferimento alle ultime dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che pochi giorni fa ha annunciato il lavoro di una “task force” con il compito di valutare la concessione di misure alternative al carcere per circa 10.100 detenuti, Vincenzini esprime un giudizio più che scettico: Il ministro Nordio ciclicamente, quando arriva il caldo, parla delle sue ambizioni di deflazione della popolazione carceraria, l’anno scorso aveva detto che sarebbe riuscito a diminuire di circa 10.000 persone la popolazione carceraria, il che comunque non metterebbe a norma il sistema perché i detenuti sono ben più di 10.000 rispetto la capienza”. Se si guarda ai dati odierni, infatti, si è arrivati a quota 63.000 contro una capienza di 43.000 posti, cioè 16.000 in sovrannumero. E nel frattempo i provvedimenti approvati non hanno affatto aiutato, attacca Vincenzini: “Il decreto carcere non ha avuto nessun tipo di effetto deflattivo, nemmeno parziale”. Ma il proposito di intervenire con l’ampliamento delle misure alternative? “Quello che ha fatto è intervenire sulle procedure di concessione di queste misure - spiega - tra l’altro mancano ancora i decreti attuativi a distanza di 1 anno, ma anche là dove venissero emanati, non sarebbero in grado di abbassare il numero dei detenuti. Questo lo vediamo poi nell’ordine delle cose: ogni mese in Italia purtroppo i detenuti aumentano”. Una situazione che per Antigone potrebbe essere risolta solo con un provvedimento di clemenza: “L’amnistia è l’unica cosa umana da fare. Giuridicamente quelle persone sono trattenute in uno stato disumano e degradante”. Da questo governo, precisa Vincenzini “non ce l’aspettiamo: non vediamo un’apertura in questo senso, non lo vediamo sulle misure alternative, non lo vediamo ovviamente sulla amnistia, non lo vediamo su nessuna delle politiche che possa in qualche modo alleviare quantomeno un minimo la situazione che oggi c’è in Italia”. Riguardo poi alla situazione del carcere di Prato, che l’associazione da anni monitora con i volontari che ogni settimana entrano in visita, Vincenzini usa parola ancor più dure: alla Dogaia, dice, “si respira una tensione altissima” e uno “stato di abbandono istituzionale”. “Già nel 2024 Antigone, quando è entrata a seguito della visita, faceva riferimento a una situazione veramente emergenziale. Torniamo a ripetere e usare questo termine”. A Prato, ricorda Vincenzini, “non c’è ancora un direttore in pianta stabile, non c’è ancora un comandante in pianta fissa stabile con tutto quello che è successo sicuramente non aiuta”. La direttrice pro tempore è in scadenza e non ci sono candidati all’orizzonte: “Io fossi un direttore non non me la vorrei prendere quel quella patata bollente”. Vorrei anche ricordare - aggiunge - che nel 2024 del carcere con più suicidi in Italia, nonostante sia un carcere non di grandissime dimensioni. E questo è il dato tristissimo e reale di quel che è il carcere di Prato”. Piemonte. Ipoteca Delmastro sulle carceri: la nuova Garante dei detenuti viene da FdI di Davide Depascale lospiffero.com, 22 luglio 2025 Sarà Monica Formaiano, avvocata alessandrina già candidata con i meloniani alle ultime regionali, a prendere il posto di Bruno Mellano nell’organismo a tutela dei diritti dei detenuti. Domani il voto a Palazzo Lascaris, ma gli addetti ai lavori storcono il naso. Si legge Formaiano, ma si scrive Delmastro. Domani il Consiglio regionale si riunirà per eleggere il nuovo Garante dei diritti dei detenuti in Piemonte. Dopo undici anni di mandato, Bruno Mellano, storico esponente radicale, lascia l’incarico, non più rinnovabile per legge. Al suo posto, la maggioranza di centrodestra ha puntato su Monica Formaiano, avvocata alessandrina ed ex assessore comunale, candidata alle Regionali 2024 con Fratelli d’Italia. Una scelta che inevitabilmente sta facendo discutere, per il suo profilo e per il forte sapore politico che la accompagna. Una figura politica, non tecnica - La nomina, che sarà votata insieme alla riconferma di Beatrice Borgia alla presidenza di Film Commission, richiede in prima battuta una maggioranza qualificata dei due terzi (34 consiglieri su 51). In caso di mancato raggiungimento del quorum, basterà la maggioranza semplice (26 voti). Ma a far storcere il naso a molti è il percorso che ha portato alla candidatura di Formaiano. Tra i 18 nomi in lizza, ben nove erano o sono stati garanti dei detenuti nelle città piemontesi sede di carceri, con un’esperienza diretta e consolidata nel settore. Formaiano, invece, non ha mai ricoperto ruoli analoghi, e la sua selezione sembra rispondere più a logiche di partito che a criteri di competenza specifica. Il nome di Formaiano, infatti, porta con sé il marchio di Fratelli d’Italia e, in particolare, di Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri e figura di spicco del partito di Giorgia Meloni. L’avvocata alessandrina, figlia di uno storico esponente del Psi craxiano, con un passato in Forza Italia e un’esperienza amministrativa nella giunta del sindaco Alessandro Cuttica, ora vicina all’assessore regionale Federico Riboldi, sembra essere stata scelta più per la sua fedeltà politica che per un curriculum in linea con le esigenze di un ruolo tanto delicato. I garanti insorgono - A complicare il quadro, l’appello accorato di 24 garanti ed ex garanti piemontesi, che nei mesi scorsi avevano firmato una lettera aperta per chiedere una scelta basata su “un’approfondita conoscenza del sistema penitenziario” e su una “formazione culturale, sociale ed empatica” maturata sul campo. I firmatari, tra cui figure di peso come Monica Gallo (Garante dei detenuti di Torino) e Alberto Valmaggia (Garante di Cuneo), avevano sottolineato l’importanza di un garante con esperienza diretta, capace di affrontare le complessità del sistema carcerario piemontese, che conta 12 città con istituti di pena e una rete di coordinamento unica in Italia. “Il carcere è un pianeta dimenticato”, si legge nella lettera, che invita a non ridurre la selezione a una mera valutazione di titoli accademici, ma a considerare chi ha “vissuto sulla propria pelle” la realtà penitenziaria. Nonostante l’appello, la maggioranza sembra aver tirato dritto, ignorando le richieste di chi ha lavorato a contatto con i detenuti e le istituzioni penitenziarie. La scelta di Formaiano, secondo i critici, rischia di politicizzare un ruolo che, per legge (LR 28/2009), dovrebbe essere il più possibile condiviso e svincolato da logiche di parte. La necessità di una maggioranza qualificata, come previsto dalla normativa, sottolinea proprio la volontà del legislatore di garantire una figura di garanzia capace di raccogliere un ampio consenso. Domani il Consiglio regionale avrà l’ultima parola sulla scelta dell’erede di Mellano, ma tutto sembra già scritto. Massa Carrara. Detenuto si uccide in cella, nona vittima in Toscana da inizio anno di Daniele Masseglia La Nazione, 22 luglio 2025 26 anni, tunisino, si è impiccato. Gli erano stati revocati i domiciliari. Il giorno prima aveva già tentato di togliersi la vita, salvato da un altro recluso. Intanto si aspetta l’esito dell’autopsia sul romeno morto alla Dogaia di Prato. È una tragica casistica che non conosce sosta e scuote ogni volta le coscienze. Il nono caso in Toscana, il 43° in Italia dall’inizio dell’anno. L’ennesimo suicidio in carcere si è consumato nella casa circondariale di Massa nella notte tra domenica e ieri. La vittima è un giovane di 26 anni, di origini tunisine, arrivato nel capoluogo apuano il 16 luglio dopo che gli erano stati revocati gli arresti domiciliari. Lo hanno ritrovato impiccato ieri mattina nella sua cella, e nonostante i soccorsi per lui ormai non c’era più niente da fare. Come da prassi, la direzione del carcere ha subito avvisato la Procura di Massa Carrara, attualmente impegnata ad acquisire gli atti nell’ambito della relativa indagine chiamata a far luce sull’episodio. Il secondo, tra l’altro, dato che il 26enne aveva già provato a togliersi la vita domenica mattina, ma il provvidenziale intervento del compagno di cella aveva scongiurato il peggio. Successivamente il giovane è stato sottoposto a visite mediche e spostato di cella, sempre insieme a un altro recluso. Ma nella notte è riuscito purtroppo a compiere l’estremo gesto. “C’è un’indagine in corso e più di tanto non posso dire. È stata avvisata la Procura - dice la direttrice del carcere Antonella Venturi - che acquisirà gli atti e farà tutti gli accertamenti del caso. Altri casi simili a Massa? Sono qui da un anno e mezzo e un episodio del genere non era mai successo, e in ogni modo per il precedente caso si va molto indietro con gli anni. Per il resto non c’è altro da aggiungere: si tratta di fatalità purtroppo non sempre evitabili”. Più duro l’intervento di Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria: “Con questo sono 43 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno - sottolinea - di cui tre nelle ultime 48 ore, a cui bisogna aggiungere tre operatori. Una strage senza fine che non può essere certo frenata dal sovraffollamento, come grottescamente affermato dal ministro della giustizia, che a Massa fa peraltro contare 270 reclusi presenti a fronti di soli 102 posti disponibili”. Si dovrà invece attendere il risultato degli esami sui campioni biologici prelevati dal corpo di Costel Scrupcaru per stabilire con certezza le cause del decesso. Il romeno, 58 anni, è stato trovato morto venerdì mattina nella sua cella di isolamento alla Dogaia. È stata svolta ieri l’autopsia sul cadavere dell’uomo ma per arrivare a una diagnosi certa serviranno i risultati dei test sui campioni. La procura di Prato, guidata da Luca Tescaroli, ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di reato di omicidio in modo da poter disporre gli accertamenti tecnici e chiarire i contorni della vicenda, soprattutto dopo l’ultimo terremoto giudiziario che ha investito il carcere della Dogaia. Quel che è certo per ora è che Scrupcaru non si è tolto la vita. Milano. La crisi delle carceri italiane vista da San Vittore di Luigi Mastrodonato Internazionale, 22 luglio 2025 Ogni lunedì mattina gli studenti della facoltà di giurisprudenza dell’università Statale di Milano entrano nel carcere di San Vittore. Si sistemano in una stanzetta e lì assistono a un fitto via vai di detenuti stranieri. C’è chi chiede informazioni sullo stato del proprio permesso di soggiorno, chi cerca sostegno burocratico per farsi prendere in cura dal servizio per le dipendenze (Serd), chi si è perso nel labirinto di certificati necessari per fare una telefonata e chi vuole capire perché è finito in carcere. La Clinica legale dell’università Statale è un piccolo salvagente per i tanti stranieri finiti nel carcere di San Vittore. “Ci occupiamo del diritto dell’immigrazione e di quello che può servire a queste persone per soddisfare i loro bisogni”, spiega Angela Della Bella, coordinatrice del progetto. “Più di due terzi dei detenuti di San Vittore sono di origine straniera, molti sono giovanissimi e con grandi fragilità. Facciamo il possibile per dargli una mano, anche se è difficile intercettare tutti”. Lunedì 23 giugno i collaboratori della Clinica legale stavano facendo le loro consuete consulenze nell’istituto penitenziario. “A un certo punto abbiamo visto passare alcuni operatori sanitari, portavano via un ragazzo che aveva tentato il suicidio al piano superiore”, racconta Della Bella. Said Talazouga, 22 anni, è morto poco dopo in ospedale. Di origine marocchina, con problemi di tossicodipendenza e disturbi psichici, durante la reclusione non era mai riuscito a parlare al telefono con la famiglia. Il suo profilo e i suoi problemi riassumono la situazione nel carcere di San Vittore. Specchio a sua volta delle storture del sistema penitenziario italiano. Di solito le carceri sono costruite fuori dalle città, lontane dagli occhi della popolazione libera. È uno dei tanti modi per rendere invisibili i detenuti. San Vittore, con la sua struttura a panopticon pensata per favorire la sorveglianza, è invece nel pieno centro di Milano, lungo una delle strade più frequentate. L’istituto si distingue anche per un altro aspetto. In termini numerici è il peggior carcere d’Italia. Sulla carta ci sono 450 posti, ma alla fine di giugno i detenuti erano 1.113, con un sovraffollamento del 247 per cento. San Vittore è una casa circondariale, cioè una struttura per persone in attesa di giudizio o con una pena inferiore ai cinque anni. Per questo gli ingressi e le uscite sono tanti: dalle sue celle ogni anno passano circa diecimila detenuti, numero tra i più alti in Italia. Ogni mese entrano circa trecento nuovi detenuti. L’ultima volta che i volontari dell’associazione Antigone hanno visitato l’istituto hanno trovato condizioni igieniche e ambientali gravi, tra celle inagibili per le cimici e temperature interne di 37 gradi. La carenza di risorse è cronica. Mancano 150 agenti penitenziari. Gli psicologi sono pochi, se va bene i detenuti fanno una seduta di un’ora al mese. In tutto il carcere c’è un solo mediatore linguistico. “Ero stato a San Vittore nel 2010, poi ci sono tornato l’anno scorso”, racconta Mario, scarcerato da pochi mesi. Come altri detenuti ed ex detenuti, Mario ha preferito non rivelare il suo vero nome. “Ho trovato una situazione terribile rispetto a prima. È cambiato il tipo di persone che sono dentro, è aumentato il caos. Il sovraffollamento pesa molto di più sulla quotidianità perché ora c’è il regime chiuso”. A San Vittore si sta in cella fino a 22 ore al giorno, tranne che nel reparto La nave, destinato al trattamento delle persone con dipendenze e considerato una piccola eccellenza. Un’isola nel deserto, dove si trovano circa 80 persone, il 7 per cento del totale. “Ho scontato trent’anni, ho girato molte carceri”, continua Mario. “L’ultima esperienza a San Vittore è stata la peggiore di sempre”. Uno degli aspetti più critici del carcere milanese riguarda le telefonate. Se per gli italiani contattare la famiglia può essere più semplice, perché si trovano nello stesso paese, per altri possono volerci mesi. Un problema, in un carcere in cui il 67,3 per cento dei detenuti è di origine straniera. “Servono il certificato di nascita della persona a cui si vuole telefonare, un documento d’identità, un certificato di parentela e molte altre scartoffie. Ottenere tutto questo dall’estero è difficilissimo, noi proviamo a dare una mano, ma c’è una burocrazia infinita e spesso insormontabile”, spiega una volontaria. “È difficilissimo entrare in contatto con la propria famiglia, ci sono ragazze che sono riuscite a parlarci dopo mesi”, racconta Juana, uscita dal reparto femminile di San Vittore nel 2024. “Volevo sentire mio fratello ma abbiamo il cognome diverso. Mi hanno chiesto ogni tipo di documento, perfino il suo contratto telefonico. Vive in America Latina e questo ha complicato il processo. Non sono mai riuscita a contattarlo”. Said Talazouga, il ragazzo che si è suicidato a giugno, in tre mesi di detenzione non era mai riuscito a telefonare alla famiglia. Il numero che aveva scritto su un bigliettino, come si è scoperto dopo la morte, aveva una cifra sbagliata. Questo ha fatto inceppare la macchina burocratica. Prima di entrare in carcere aveva già tentato il suicidio e aveva problemi di dipendenza. A San Vittore era stato messo nella sezione delle celle ad alto rischio (Car), poi ai medici che l’hanno visitato è sembrato stare meglio. Era stato trasferito in un reparto ordinario, dove si è ucciso. “La comunicazione con l’esterno è fondamentale. Il fatto di non poter parlare con nessuno, di restare isolati, manda spesso in tilt”, dice un’altra volontaria. L’unico modo per ottenere i numeri di telefono è incrociare le informazioni che danno le persone detenute con quello che si trova online. È una procedura che richiede tempo e non sempre si riesce a raggiungere tutti. Quella di Talazouga è una storia che ne racchiude tante a San Vittore. Secondo Antigone ci sono seicento persone con tossicodipendenza, 217 con diagnosi psichiatriche gravi e 171 con disagio mentale. Spesso sono persone di origine straniera e giovanissime, in un carcere in cui duecento ragazzi hanno meno di 24 anni. Youssef Barsom, 18 anni, era recluso in attesa di giudizio per una rapina ed è morto tra le fiamme della sua cella lo scorso settembre, dopo che le perizie psichiatriche lo avevano ritenuto incompatibile con la detenzione. “A San Vittore ho visto tantissimi ragazzi appena maggiorenni di origine straniera, con problemi psichiatrici e dipendenze da alcol e droga”, spiega Francesco, un detenuto scarcerato pochi mesi fa. Francesco è stato un cosiddetto piantone, una figura che in carcere aiuta i più fragili. “Per un po’ di tempo ho seguito un diciannovenne che non si rendeva nemmeno conto di dove fosse. Veniva dalle celle ad alto rischio, parlava a monosillabi, aveva lo sguardo perso. Teneva un foulard tra le mutande dicendo che lo proteggeva da eventuali stupri. Non so cosa avesse passato in quel reparto ma la domanda che ci facevamo tutti era una sola: come può una persona così stare in carcere?”. Sono tanti i fattori che aiutano a spiegare la presenza massiccia di questo tipo di persone a San Vittore. Milano è la prima città in Italia per numero di minori stranieri non accompagnati. Ragazzi presi in carico dalle comunità ma che una volta maggiorenni spesso si ritrovano per strada e possono finire in una spirale di dipendenze e piccola criminalità che li porta in carcere. Una volta dentro è difficile che qualcuno si prenda cura delle loro dipendenze. Perfino l’iscrizione al Serd dell’istituto è complicata. “È un passaggio necessario per l’affido in una comunità esterna a scopo terapeutico, ma i posti sono molto limitati. Inoltre, a San Vittore è necessario un documento d’identità per accedere al Serd, ma molti non ce l’hanno”, spiega Fausto Fenaroli, volontario del Nucleo di aiuto giuridico e assistenziale (Naga). Una direttiva che non dipende dal carcere, ma dall’azienda sociosanitaria di competenza. “Ci si scontra con la volontà politica ed economica di una regione che non vuole prendersi carico di queste persone. Una negazione del diritto alla cura che ostacola l’accesso alle comunità”. A questo si aggiunge la crisi generale dei Serd, che specialmente in Lombardia va di pari passo con lo smantellamento della sanità pubblica. “Chi va in pensione non è sostituito e c’è difficoltà a trovare personale”, dice Cecco Bellosi, coordinatore dell’associazione Il gabbiano. “Bisognerebbe investire di più sul trattamento delle dipendenze perché la droga è tornata a essere una grande questione sociale. Servono più risorse per il reinserimento di queste persone”. Dagli anni novanta Il gabbiano ospita e sostiene i detenuti in misura alternativa nelle sue quattro strutture. Nel 2024 sono arrivate 180 persone dalle carceri milanesi, compresa San Vittore. “Siamo la comunità che ospita più detenuti in Lombardia, abbiamo scelto di farlo trent’anni fa e non abbiamo cambiato idea”, sottolinea Bellosi. “Ospitiamo persone con tossicodipendenze e con problemi psichiatrici. L’anno scorso il 40 per cento delle persone che stavano da noi aveva disturbi di questo tipo”. Nel 2023 Il gabbiano e altri partner hanno lanciato il progetto Donne oltre le mura, che ha accolto più di cento donne in misura alternativa provenienti da San Vittore e Bollate, le due carceri milanesi con sezioni femminili. Altre detenute, a cui è permesso uscire dal carcere, partecipano poi a laboratori di formazione nella cascina Cuccagna. Crisi sociale - Nonostante le storie positive, l’accoglienza dei detenuti nelle comunità non è scontata. In molte realtà c’è la paura che possano portare problemi, dunque non sono accettati. I posti per quelli con doppia diagnosi - di dipendenza e di disagio psichiatrico - sono poi pochissimi, nonostante sia il profilo più diffuso tra i detenuti. Lo scorso anno il Coordinamento nazionale comunità accoglienti (Cnca) ha fatto un appello per alleggerire la burocrazia e velocizzare le pratiche, chiedendo anche un maggiore sforzo di accoglienza dei detenuti da parte delle comunità. “Il continuo entra ed esci di persone dagli istituti penitenziari, causato anche dalla stretta repressiva dei provvedimenti recenti del governo Meloni, il profilo sempre più fragile della popolazione carceraria, la somma di sofferenze sociali che moltiplicano le conflittualità, le difficoltà nella presa in carico dentro e fuori dal carcere: sono tutti elementi che contribuiscono a spiegare la situazione critica di San Vittore”, sottolinea Valeria Verdolini, presidente di Antigone Lombardia. “Questo istituto è forse la fotografia migliore dei problemi che riguardano il carcere in Italia”. Da anni tra i corridoi delle istituzioni milanesi circola un’idea, che a tratti è rilanciata e poi torna nel cassetto. Spostare San Vittore fuori dal centro storico, come vorrebbe l’urbanistica penitenziaria tradizionale. “Sarebbe una pessima notizia”, conclude Verdolini. “Un carcere nel centro storico obbliga in qualche modo a occuparsene, lo fa esistere davanti agli occhi di tutti. In caso contrario le cose non potrebbero che peggiorare”. Alba (Cn). L’incontro con i Garanti dei detenuti per un aggiornamento sul carcere Montalto cuneodice.it, 22 luglio 2025 Verificate in parte le tempistiche e le modalità relative alla riapertura della struttura dopo i lavori di ristrutturazione. A ottobre verrà consegnato il padiglione principale. Si è tenuto mercoledì 16 luglio in Comune ad Alba l’incontro tra Mario Antonio Galati, provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte Liguria Valle d’Aosta, e il sindaco Alberto Gatto e l’assessore alle Politiche sociali Donatella Croce, alla presenza del direttore della Casa di reclusione G. Montalto, Nicola Pangallo, e dei garanti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale regionale, Bruno Mellano, e comunale, Emilio De Vitto. L’incontro è stato richiesto dal primo cittadino dopo il sopralluogo della IV Commissione comunale nella struttura per verificare con il vertice dell’amministrazione penitenziaria le tempistiche e le modalità relative alla riapertura della struttura una volta conclusi i lavori di ristrutturazione. Il provveditore ha confermato che a ottobre sarà consegnato il padiglione principale e che in quell’occasione verrà fatto un nuovo punto sui lavori. Il cantiere, come ha spiegato, è gestito attraverso più appalti e benché la prima fase sia ormai ben avviata e la seconda già iniziata, non è ancora possibile fare una previsione complessiva, in particolare per l’appalto legato alla cucina e per quello degli arredi delle stanze. Inoltre, ha confermato che sta lavorando a un ridisegno complessivo del circuito penitenziario di tutto il distretto che comprende 13 istituti penitenziari in Piemonte, 6 in Liguria e 1 in Valle d’Aosta, un progetto da mettere a punto entro la primavera 2026. In questo contesto ha anticipato che la struttura albese, ristrutturata e ammodernata, potrebbe essere destinata al trattamento avanzato per persone detenute di media sicurezza, con una forte vocazione lavorativa, trattamentale e di apertura all’esterno dell’istituto in sinergia con il mondo imprenditoriale. “Il cantiere di riqualificazione prosegue, un intervento fondamentale che permetterà dopo anni la riapertura totale della Casa di reclusione e che, come annunciato dal Provveditore, rientra in un progetto più ampio di valorizzazione e migliore utilizzo degli istituti del distretto. Sarebbe importante che il carcere di Alba venisse destinato a detenuti di media di sicurezza idonei a progetti di integrazione e reinserimento, progettualità in cui la nostra struttura eccelleva prima della chiusura. La nostra amministrazione ha dato piena disponibilità a fare la sua parte per restituire alla città e al territorio una struttura di eccellenza pienamente funzionale. Ringraziamo il Provveditore regionale per essere venuto ad Alba a incontrarci: la sua presenza testimonia l’attenzione concreta verso la nostra realtà. Un ringraziamento particolare va anche alla Direzione del carcere e ai Garanti per l’impegno e il supporto nel percorso di riapertura del Montalto”, dichiarano il sindaco Alberto Gatto e l’assessore Donatella Croce. I garanti Bruno Mellano e Emilio De Vitto: “Come garanti abbiamo voluto sottolineare l’opportunità offerta qui ad Alba dall’alta attenzione del territorio e delle istituzioni e dalla presenza di spazi come il teatro, la biblioteca, il vigneto, il noccioleto. La struttura ben si presta a una fascia di utenti pronta ad impegnarsi per un reinserimento sociale e lavorativo. Sarebbe importante in questa fase finale del cantiere avere già presente il progetto per definire e destinare al meglio gli spazi. Da parte nostra cominceremo a lavorare in questa direzione in sinergia con il territorio e le istituzioni. ?n sintesi possiamo dire che è importante la prospettiva di medio termine disegnata da Galati, ma al contempo preoccupante l’incertezza sulle tempistiche complessive”. Monza. La boccata di ossigeno in carcere: 250 ventilatori per i detenuti di Dario Crippa Il Giorno, 22 luglio 2025 Grazie alla raccolta fondi lanciata dal consigliere comunale Paolo Piffer e da Mauro Sironi di Geniattori. Fra gli ‘angeli’ in campo anche la figlia di Maurizio Costanzo e la Camera Penale cittadina. Sono arrivati. In estati sempre più torride, i detenuti della casa circondariale di via Sanquirico a Monza avranno 250 nuovi ventilatori tutti per loro. Se ne era parlato negli scorsi giorni, in una struttura già alle prese con condizioni al di sotto degli standard di un Paese civile, dove sono detenute 730 persone a fronte di 413 posti, con un tasso di sovraffollamento dell’80 per cento, e dove la settimana scorsa per il terzo anno di fila si è suicidato un detenuto in corrispondenza con l’arrivo del caldo. A lanciare la raccolta fondi per comprare i ventilatori, anche sulle pagine Facebook di tutti i gruppi attivi in città, era stato Paolo Piffer, consigliere comunale (lista Civicamente) ed educatore in carcere con attenzione particolare ai casi di grave fragilità: attraverso il crowdfunding dal 4 luglio sono stati così raccolti 4.270 euro. Con alcune donazioni significative: come quella della Camera Penale di Monza, che pochi giorni fa aveva organizzato un evento di sensibilizzazione sulle condizioni di detenzione, specie con il caldo, e l’esposizione di una cella (4 metri per 2) sotto l’Arengario. O come quella da parte di Camilla Costanzo, figlia del celebre Mauro. La raccolta fondi per i ventilatori era partita infatti su iniziativa, oltre che di Piffer, anche di Mauro Sironi, direttore artistico dei Geniattori, l’associazione culturale che porta il teatro dentro il carcere di Monza. E che pochi mesi fa aveva vinto con uno spettacolo interpretato e scritto dai detenuti il prestigioso premio al Teatro Parioli di Roma intitolato proprio a Maurizio Costanzo. Mentre direttore commerciale al Parioli è Maurizio Musumeci. Con entrambi è nata una bella e proficua amicizia con i Geniattori e “quando hanno saputo della nostra iniziativa hanno voluto contribuire”. Ieri mattina la consegna ufficiale in via Sanquirico. “Sapevamo che molti detenuti erano privi di ventilatori, in vendita a prezzi a loro inaccessibili: e così abbiamo voluto dare una mano. Sappiamo che non risolveremo i problemi del carcere, ma siamo sicuri che almeno riusciremo a rendere la detenzione più sopportabile” dice Piffer. Che tra l’altro ha un legame profondo col carcere di Monza. Ha cominciato a lavorarci nel 2009 per il reinserimento dei detenuti nella vita civile. “Allontanato” poche settimane fa dal Comune, non ha mollato: “ho attivato immediatamente tanti progetti come “Free for Music”, che permette ai detenuti di produrre musica. E con il laboratorio di Geniattori entro in carcere tutte le settimane come volontario per fare teatro”. Cosenza. Detenuti e lavoro: protocollo tra Caritas diocesana e Uepe paroladivita.org, 22 luglio 2025 L’Ufficio Uepe di Cosenza e la Caritas della Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano hanno firmato il 15 luglio un Protocollo di Intesa finalizzato a promuovere l’inserimento sociale, lavorativo e abitativo e di persone soggette a restrizioni della libertà personale, nell’ambito del progetto Caritas denominato Custodire e Coltivare, che favorirà l’inserimento professionale mediante tirocini di non meno di 7 destinatari, impegnati in attività di carattere agricolo. Grande soddisfazione viene espressa dal direttore delll’Uepe dott. Antonio Antonuccio e dal direttore della Caritas diocesana dott. Giuseppe Fabiano, i quali auspicano si apra una fase di collaborazione tra i due enti duratura e proficua, su questa e su altre iniziative progettuali. Il direttore Caritas ha portato al dott. Antonuccio i saluti dell’Arcivescovo di Cosenza Giovanni Checchinato, firmatario del protocollo in qualità di legale rappresentante dell’Arcidiocesi. Modena. Tribunale vicino ai cittadini. Sportelli in tutti i territori di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 22 luglio 2025 Uffici decentrati in provincia, l’ultimo attivato è nell’Unione del Sorbara. Risparmio economico e di tempo. Rizzo: “Un servizio di grande utilità”. Gli abitanti coinvolti sono oltre 500mila per quasi tremila procedimenti. Giustizia a domicilio del cittadino: in soli sei mesi, con l’ultimo sportello presentato ieri, sono stati raggiunti tutti i comuni della provincia. Questo vuol dire che i cittadini che non vivono nel capoluogo e, in particolare, gli anziani, non dovranno recarsi nella cancelleria del tribunale di Modena per beneficiare dell’erogazione di servizi giudiziari. Infatti, è stato siglato ieri mattina in Provincia l’accordo che prevede l’apertura dell’Ufficio di prossimità del Tribunale di Modena presso l’Unione del Sorbara. All’atto della firma erano presenti Alberto Rizzo, presidente del tribunale di Modena, Roberto Mariani, presidente Ordine degli avvocati di Modena, Fabio Braglia presidente della Provincia di Modena e Tania Meschiari, sindaca di Bomporto e presidente dell’Unione Comuni del Sorbara. La prima apertura, che ha riguardato l’Unione dei Comuni del Frignano, è avvenuta il 18 dicembre 2024 e, a metà febbraio, si è aggiunta l’Unione Terre d’Argine. Il 12 marzo il servizio è stato esteso al Comune di Mirandola e ai Comuni dell’Unione dell’Area Nord mentre, a fine aprile, si sono aggiunte l’Unione Terre di Castelli e successivamente l’Unione del distretto Ceramico. Complessivamente gli abitanti coinvolti, con l’esclusione di Modena che ospita la sede del tribunale, sono 521.848 per un numero complessivo di procedimenti pari a 2.296. Un numero importante - ha fatto presente il presidente del tribunale Rizzo -, annunciando anche un elemento di novità: una cabina di regia che seguirà l’attività degli sportelli. Una rete per fare formazione in tempo reale e, allo stesso tempo, raccogliere dai territori istanze migliorative. C’è poi un altro aspetto: le procedure saranno uniformate per essere standardizzate attraverso la cabina di regia che è in via di formazione. Solo per quanto riguarda lo sportello di Pavullo, ad esempio, sono già state seguite 21 istanze su 190 procedure pendenti. Ogni istanza avrebbe comportato un viaggio per il cittadino. “Oggi è un giorno straordinario: concludiamo un percorso iniziato a dicembre con l’apertura del primo sportello e chiudiamo con l’Unione di Sorbara. Possiamo dire che tutti i comuni della provincia saranno seguiti dagli uffici di prossimità; un servizio di grande utilità per il cittadino” ha affermato Rizzo. Gli uffici consentono un risparmio di spesa e di tempo. “Il servizio più importante è quello che riguarda tutto il settore della fragilità - ha sottolineato -. Dall’amministratore di sostegno alle tutele alle curatele: essendoci un rapporto continuativo con il tribunale, tutti i contatti avvengono con questa modalità, senza che la persona si sposti per depositare il documento”. Sindaci e Provincia hanno aderito in modo corale e le Unioni hanno messo a disposizione locali e personale che viene formato in tribunale. Il percorso è volto proprio a realizzare una maggiore efficienza nei rapporti tra il sistema-giustizia ed i cittadini. La sindaca di Bomporto, presidente dell’Unione del Sorbara, Tania Meschiari afferma: “Un servizio concreto per il cittadino. Poter aprire un ufficio decentrato anche nella nostra Unione equivale a dare risposte alle esigenze dei cittadini”. Anche il presidente della Provincia di Modena Fabio Braglia è intervenuto sottolineando che “alcuni mesi fa, grazie all’intraprendenza del presidente Rizzo, si è dato il via ad un percorso innovativo e unico per il nostro territorio”. Fondamentale la collaborazione dell’ordine degli avvocati di Modena: “Si tratta di un’iniziativa che rafforza un modello già sperimentato con successo in altri territori. L’Ordine prevede di affiancare il personale dedicato attraverso incontri formativi e un’assistenza continua nella fase di avvio e gestione dei servizi. Inoltre, l’obiettivo è quello di coinvolgere attivamente gli iscritti, promuovendo la conoscenza del progetto affinché possa raggiungere il maggior numero possibile di persone” ha rimarcato Mariani. Pavia. Carcere di Torre del Gallo, spettacolo conclusivo del laboratorio teatrale La Provincia Pavese, 22 luglio 2025 Proseguono all’interno del carcere di Torre del Gallo le iniziative di volontariato per favorire un clima di socialità e di collegamento con l’esterno. A settembre dell’anno scorso la biblioteca del padiglione del circuito protetti della circondariale di Pavia, nell’ambito delle attività trattamentali, ha ospitato il laboratorio lettura “Leggere Storie”, tenuto volontariamente dalla professoressa Lara Bonacossa. Martedì 22 luglio alle 19.45 sarà l’occasione per mostrare i frutti di questo camino condiviso: il teatro dell’istituto ospiterà infatti lo spettacolo conclusivo del laboratorio che ha coinvolto un gruppo di persone detenute in un percorso di lettura condivisa, riflessione e dialogo attorno ai testi letterari scelti. L’attività ha avuto l’obiettivo di offrire uno spazio di ascolto, espressione e crescita attraverso Li letteratura, promuovendola centralità della parola come strumento di cambiamento. Durante l’evento saranno letti alcuni brani tratti dall’ultimo testo letterario affrontato nel corso “Niente caffè per Spinoza” di Alice Cappagli. Le letture saranno intervallate da testi scelti e commentati dai corsisti, offrendo al pubblico uno sguardo autentico e profondo sul percorso svolto. A dare voce ai testi selezionati, inoltre, ci sarà, l’attrice e autrice teatrale milanese Cincia Spanò, che ha accolto l’invito a partecipare all’evento. Interpreterà sia alcuni brani tratti dal romanzo sia letture selezionate dai partecipanti, restituendo le emozioni nate all’interno del laboratorio. All’evento saranno presenti anche gli operatori volontari che si occupano dei bisogni delle persone detenute: al termine dello spettacolo ci sarà un breve momento di convivialità. Messina. L’Ecuba di Euripide con i detenuti-attori conquista Tindari giornalelora.it, 22 luglio 2025 “Il teatro come mezzo di riscatto sociale. Sul palco siamo tutti esseri umani”. Dalle sbarre al palcoscenico, immersi in un’esperienza fortissima che li ha visti ieri sera in scena nella suggestiva cornice del Teatro Greco di Tindari, insieme ad attori professionisti e davanti ad un pubblico numeroso, per l’Ecuba di Euripide prodotta dal Teatro Pubblico Ligure, Teatro Cavour e Tindari Festival, con la regia di Sergio Maifredi. I sedici detenuti-attori della Casa Circondariale di Messina e di Barcellona Pozzo di Gotto, sul palco grazie al progetto di laboratorio teatrale dell’Associazione D’aRteventi di Messina, sono stati travolti dagli applausi e dall’ondata di emozione dei presenti- soprattutto dei parenti che sono andati a vederli recitare. “A Tindari - ha dichiarato entusiasta il regista e Direttore di Teatro Pubblico Ligure, Sergio Maifredi- è successo qualcosa di unico. Si sono unite due forze: i nostri attori e i nostri musicisti, con i detenuti che hanno portato una grande energia e una grande professionalità. È stato come incontrare dei colleghi che si sono uniti al nostro lavoro portando un valore aggiunto unico e irripetibile. Dopo questo spettacolo eccezionale, il viaggio di Ecuba continua, forte anche di questa particolare esperienza”. A confermare la carica travolgente dello spettacolo anche la protagonista, l’Ecuba interpretata con straordinaria intensità dall’attrice Arianna Scommegna, che ancora commossa ha speso parole profondamente toccanti raccontando la recente esperienza. “Lavorare con i detenuti attori, bravissimi, ha donato un’energia speciale alla nostra Ecuba. Sul palco eravamo colleghi alla pari, sul palco siamo tutti semplicemente esseri umani. Il teatro ha proprio questo potere straordinario di mettere a nudo l’umanità, e chi ha una storia da raccontare non può che trasmettere emozione. Ci guardavamo e ci trasmettevamo carica a vicenda: è stato bellissimo”. Ed è proprio sull’assunto che il palcoscenico possa divenire spazio di libertà e di verità, e il teatro strumento di riscatto sociale, che l’Associazione D’aRteventi di Messina ha avviato nel 2017 questo progetto di laboratorio teatrale rivolto ai detenuti della Casa Circondariale di Messina e di Barcellona Pozzo di Gotto. “Quest’anno abbiamo fatto un salto di qualità in più grazie a Mario Incudine che ci ha coinvolti in questo produzione teatrale a fianco di un cast di altissimo livello come quello del Teatro Pubblico Ligure - racconta soddisfatta la coordinatrice del progetto, Daniela Ursino, Presidente dell’Associazione D’aRteventi- Vedere, poi, un pubblico sempre più numeroso e affezionato a questi spettacoli, rappresenta per noi un vero e proprio abbraccio della società esterna ai nostri ragazzi, che vivono sempre più il teatro non solo con emozione, ma anche con grande senso di responsabilità. Questo ponte tra il mondo del carcere e l’esterno è fondamentale, non solo per il processo rieducativo e di reinserimento nella società dei detenuti ma anche per l’abbattimento dei pregiudizi e del valore rieducativo della pena, tema richiamato dall’art.27 della nostra Costituzione”. In scena anche il gruppo de Le Signore di Patti e degli studenti di Liberi di Essere Liberi dell’Università di Messina. Presenti alla rappresentazione di ieri sera numerosi esponenti delle Istituzioni: tra gli altri, il Prefetto di Messina, Cosima Di Stani; il Questore di Messina, Annino Gargano; il Presidente del Tribunale di Patti, Dott. Mario Samperi; il Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Patti, Capitano Giuseppe Rinella, in rappresentanza del Comandante provinciale di Messina; il Vice Questore del Commissariato di Patti, Mario Venuto. In rappresentanza della Città presente l’Assessore alla Cultura del Comune di Patti, Salvatore Sidoti, che ha fatto gli onori di casa con l’Assessore alla Cultura del Comune di Imperia, Marcella Roggero: l’incontro è stato occasione per avviare il progetto di gemellaggio culturale tra le due città. Felice per il successo di pubblico anche il Direttore del Tindari Festival, Mario Incudine, che ha voluto fortemente questo spettacolo realizzato dalla sinergia attori professionisti e detenuti attori nel ricco cartellone proposto. “I veri protagonisti di questa Ecuba sono stati i nostri detenuti attori- ha dichiarato il Direttore artistico Mario Incudine, che anche attore nello spettacolo ha voluto generosamente cedere alcune sue battute proprio a loro- Durante l’anno si sono preparati con scrupolosità e grande impegno, tanto che la loro bravura ha conquistato pubblico, ma anche regista e attori professionisti con cui hanno lavorato al fianco. Il teatro, in questo senso, non è dunque solo strumento di espressione artistica, ma anche di crescita personale e civile”. Intanto proseguono gli eventi del ricco cartellone multidisciplinare della 69esima edizione del Tindari Festival, organizzato dalla Città di Patti (ME) con il patrocinio del Ministero della Cultura e della Regione Siciliana, e con il coinvolgimento di diverse associazioni del territorio. I prossimi appuntamenti: il 22 luglio alle ore 21, al Teatro Greco di Tindari, con “Un’altra Iliade”, scritto e diretto da Salvatore Arena e Massimo Barilla; il 24 luglio alle ore 21, nel Chiostro San Francesco di Sant’Angelo di Brolo, “La lingua madre” con Paride Benassai e Alessandra Salerno. Tutti i biglietti in prevendita: https://?tindarifestival.organizzatori.18tickets.it e in tutti i punti vendita autorizzati presenti sul territorio. Biglietti al botteghino poco prima degli spettacoli, presso l’ex scuola elementare sita in via Teatro Greco 15, nella frazione di Tindari, a Patti (Me). Palermo. I volontari del Centro Padre Nostro portano il cinema al carcere Pagliarelli ilmediterraneo24.it, 22 luglio 2025 Al via da oggi la quindicesima edizione di “Nuovissimo Cinemissimo Paradisissimo”, iniziativa promossa dal Centro di Accoglienza Padre Nostro, fondato dal Beato Giuseppe Puglisi, in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale “Antonio Lorusso” - Pagliarelli di Palermo. I volontari del Centro allestiranno un cinema all’aperto negli spazi di passeggio della Casa Circondariale, realizzando eventi in cui i cittadini detenuti potranno trascorrere alcune ore serali all’aperto, guardando un film e gustando un gelato durante l’intervallo. “Nella consapevolezza che il periodo estivo è particolarmente difficile per i cittadini detenuti, attraverso l’iniziativa “Nuovissimo Cinemissimo Paradisissimo” il Centro non fa mancare la propria vicinanza e il proprio accompagnamento, dando attuazione all’intenzione espressa dal Beato Puglisi in una lettera scritta agli abitanti di Brancaccio detenuti nelle carceri cittadine, in cui prometteva vicinanza a loro e alle loro famiglie”, spiega il presidente del Centro Padre Nostro, Maurizio Artale. Il cortile di passeggio diventa quindi una vera e propria “arena” all’aperto, in cui i cittadini detenuti, con la presenza della Direzione, del personale dell’area educativa e della Polizia Penitenziaria, nonché dei volontari del Centro, torneranno ad assaporare l’atmosfera magica dello spettacolo cinematografico. “Questi momenti assumono un significato ancora più importante per le persone ristrette, in quanto contribuiscono a migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere, offrendo opportunità di crescita personale e sociale”, conclude Artale. Anche in carcere c’è bisogno di intimità di Andrea Pugiotto L’Unità, 22 luglio 2025 “L’amore in gabbia” racconta la storia di Gianluca e le ferite emotive della sua esperienza dietro le sbarre, dove spesso finiscono reclusi anche il contatto e le emozioni più profonde. 1. L’epicentro della nostra Costituzione è la persona umana immersa in un fascio di relazioni che concorrono a definirne l’identità. Questo ci narra la trama costituzionale. Ad esempio, declinando i diritti di libertà come “rapporti” (civili, etico-sociali, economici, politici), cioè relazioni umane. O illustrandoli come una spirale che muove dall’inviolabilità del proprio corpo (art. 13 Cost.), per espandersi poi in spazi di relazione progressivamente sempre più ampi: domicilio, corrispondenza, circolazione, riunione, associazione, confessione religiosa, manifestazione del pensiero, e così via. I Costituenti, dunque, hanno immaginato “una convivenza in cui la qualità delle relazioni ha un peso cruciale”, scrive esattamente Donatella Stasio nel suo ultimo libro, L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere (a cura di Daniela Padoan, Castelvecchi 2025). Serve partire da qui per capire il senso autentico di una pubblicazione che - obbedendo alla passione civile della sua Autrice - è un’opera eminentemente politica. Non si tratta, infatti, di un romanzo carcerario né di un reportage penitenziario. La biografia di Gianluca, dentro e fuori le patrie galere, incarna il tema scabroso del libro: “Il diritto all’affettività e alla sessualità negato in carcere”, dove non c’è spazio per la relazione umana più intima e primaria che ci sia. Da cronista di vaglia qual è, Stasio sa cogliere “anche nelle microstorie di ordinaria deprivazione”, come quella di Gianluca, i segnali di “una democrazia in ritirata”. E così, ricalcando la trama costituzionale, anche il suo libro procede a spirale: dall’”amore in gabbia” alla “gabbia dei nuovi autoritarismi”. Dal corpo ristretto al corpo sociale, entrambi castrati nei loro diritti. 2. Nell’era della disinibita ostentazione social, ci siamo assuefatti e rassegnati all’idea che “il privato è pubblico”, dimenticando invece che “il personale è politico”. A cominciare - come insegna il movimento di liberazione delle donne - dalla relazione amorosa, perché “per imparare a vivere bisogna imparare ad amare”. Ecco perché l’amore in gabbia “non è solo una questione privata, ma anche politica”. Il potere disciplinare e di sorveglianza ispirato al panopticon benthamiano disinnesca la forza vitale di quella relazione. Come? Attraverso la regola del controllo a vista del corpo detenuto. Un controllo ininterrotto e pervasivo che non ammette pause o deroghe: neppure nel momento del colloquio con il partner. Ogni intimità è impossibile. In sale sovraffollate, il bisogno di affettività diventa esibizionismo non tollerato. Impulsi, emozioni, gesti: tutto viene congelato per autodifesa. Quell’incontro tanto atteso e preceduto da un preciso rituale (il caffè nel thermos ingiallito, le merendine del Mulino Bianco conservate per l’occasione, il vestito buono indossato, i capelli in ordine “e un sorriso stampato sulla faccia”) si trasforma così in “una messa in scena”, frustrante e vessatoria per tutti. Nelle fonti normative penitenziarie (legge, regolamento, carta dei diritti del detenuto), tutto ciò che attiene all’intimità sessuale non è contemplato: “Non si fa”, punto e basta, conferma Gianluca. Lo dice anche diversamente: “Masturbati e non rompere il cazzo, è molto semplice”, più di quanto possa essere praticare l’onanismo in celle sovraffollate e spiate dall’esterno, o in cessi dalle porte senza serrature. Dopo anni di detenzione, il corpo ristretto diventa così un peso morto, un fardello da portare, inappagato in quel bisogno di fisicità che - prima ancora di una pulsione - è un’esigenza esistenziale, perché “serve a sentire i limiti del proprio corpo, i confini della propria identità”. Il carcere, al contrario, rende il corpo ristretto - in apparenza funzionante, spesso maniacalmente allenato - affettivamente disabile: braccia che non abbracciano, mani che non accarezzano, dita che non scivolano sulla pelle dell’altro, labbra che non baciano. Chi, prima della detenzione, ha coltivato una relazione amorosa, ne perde memoria e finanche nostalgia, sprofondando nell’alfabetismo e nell’ignoranza affettiva. Tutto ciò tradisce la Costituzione. Il suo art. 27, 3° comma, esige una pena sempre orientata alla rieducazione del condannato, e “la (ri)educazione costituzionale dovrebbe andare di pari passo con l’educazione sentimentale, perché non c’è (ri)socializzazione senza aver imparato a connettersi con le proprie emozioni e senza aver sviluppato una capacità relazionale affettiva”. Invece, quelli che escono dal carcere trascinano un corpo incatenato “ben oltre il fine pena”: come reduci di guerra, sono mutilati “nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà”. 3. Gianluca è uno di loro. Classe 1975, nato da famiglia di emigranti del Sud insediatasi nell’hinterland milanese, quartiere borderline di Quarto Oggiaro. Da bambino “mutacico” si trasforma in adolescente fuori controllo: spaccia cocaina, fa uso di droghe, detiene armi. Tra i 17 e i 30 anni di vita, ne trascorre più di 11 in galera (Beccaria, Fossombrone, Busto Arsizio, Bollate), alternandoli a brevi periodi di libertà. Esce definitivamente dal circuito penitenziario nel 2005. Oggi ha cinquant’anni e - assecondato dall’ascolto partecipe e dalla penna empatica dell’Autrice - racconta la propria “mala-vita sentimentale”. Nessun vittimismo, né alcun giustificazionismo autoassolutorio: Gianluca riconosce le proprie responsabilità. Ciò rende credibile il suo racconto e dà forza alla sua testimonianza mai reticente, resa senza pudori, generosa di sé. La sua vita è una lunga attraversata nel deserto affettivo: in famiglia, nelle relazioni di coppia, all’interno della comunità carceraria. Durante la detenzione ha tenuto lontano da sé sentimenti d’amore e desideri sessuali: “È stato. Punto. Senza aggettivi, come lui dice per descrivere la condizione del vuoto emotivo” che lo ha accompagnato per oltre 11 anni. Oggi, ricostruita con successo una propria identità professionale (Gianluca “è uno che ce l’ha fatta”), mostra ancora le cicatrici di una “emotività inesistente”. Vive in una casa senza porte, sostituite da tendine veneziane, perché “non sopporta di restare chiuso in una stanza”. Non riesce a reggere troppo a lungo la compagnia degli altri, calamitato dal bisogno di ritirarsi nella sua tana. Ha alle spalle tre storie d’amore importanti, tutte fallimentari: se, dietro le sbarre, Gianluca ha appreso la regola aurea di “non tradire mai”, fuori dal carcere, invece, “tradisce tutti”, vivendo sempre “relazioni nelle relazioni”, incapace di strutturarne una duratura e costante. Attraverso questo profondo scavo interiore (che fa del libro un setting di autoanalisi) e aiutato dal rapporto affettuoso con la figlia Ginevra, Gianluca si mette “in movimento”. L’augurio del lettore è che sappia, finalmente, uscire dalle sabbie mobili del suo deficit emotivo e relazionale. 4. Il libro di Donatella Stasio ha il grande merito di far comprendere la portata epocale della sentenza costituzionale n.10/2024, che ha riconosciuto il diritto all’affettività in carcere. Culturalmente, quella decisione avvia una rivoluzione copernicana, non a caso ostacolata - per 15 mesi - dall’amministrazione penitenziaria. Scongela “l’ibernazione emotiva” che i detenuti subiscono, talvolta scegliendola. Rompe il machismo del codice interno al carcere, che ridicolizza il bisogno di fisicità come segno di debolezza. Scardina la regola aurea del panopticon, sottraendo al suo controllo occhiuto l’intimità dell’incontro amoroso. Riconosce il diritto all’intimità inframuraria evitando che, ridotto a mero beneficio extra murario, sia piegato a tecnica di disciplinamento. La copertina del libro riproduce il murale realizzato dai detenuti nella stanza per i colloqui intimi del carcere di Terni, dove questo processo ha iniziato il suo corso. Ad oggi ne mancano 189, tante quanti i rimanenti istituti di pena. Cosa si aspetta ancora? Viaggio da incubo (ma necessario) nelle peggiori carceri di Aldo Grasso Corriere della Sera, 22 luglio 2025 La docu-serie “Le prigioni oscure” (Sky Crime) racconta i centri di detenzione più famigerati. Ed è un invito a riflettere sul sistema italiano. Sono anni che il presidente Sergio Mattarella predica nel deserto sull’inciviltà delle carceri italiane: “Il sovraffollamento è insostenibile, i luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, i suicidi sono un’emergenza sociale”. È da poco che il presidente Donald Trump ha voluto Alligator Alcatraz, un abominevole nuovo centro di detenzione per migranti irregolari (in attesa di espulsione), costruito in solo otto giorni nella regione paludosa delle Everglades, in Florida. Il nome della struttura allude sia alla fauna locale composta da pericolosi rettili (alligatori e pitoni) sia al nome dell’ex penitenziario federale di massima sicurezza di Alcatraz (questo è Trump!). Non solo per questa diversa visione sul ruolo della detenzione, ma si prova davvero paura nell’intraprendere questo viaggio all’interno delle carceri più temute e famigerate del mondo: Le prigioni oscure (Sky Crime). La docu-serie in dodici episodi è una sorta di viaggio nell’orrore: le celle di Alcatraz, dove regnò il celebre gangster Al Capone (e non sempre c’è Clint Eastwood a tentare la fuga); le terribili prigioni di San Quintino, che imprigionarono il controverso Charles Manson; le mura d’acciaio di ADX Florence, dove risiede al momento Joaquín El Chapo Guzmán, il criminale più ricercato al mondo. Ogni episodio porta alla luce i segreti di queste strutture, raccontando storie di potere, miseria e icone criminali che hanno segnato la storia di queste carceri. Un viaggio claustrofobico e coinvolgente che illumina un mondo nascosto, fatto di sopravvivenza e storie da incubo. Ecco, la visione di questa docu-serie dovrebbe farci riflettere anche sul nostro sistema penitenziario: il dramma delle carceri italiane è una questione complessa, caratterizzata da sovraffollamento, condizioni di detenzione spesso precarie e ripercussioni sulla salute psicologica di detenuti e agenti di polizia penitenziaria. L’epidemia di suicidi in carcere sembra non arrestarsi: 85, 70, 91, negli ultimi tre anni; e in questo 2025 ne sono già stati accertati 35 a evidenziare ulteriormente le criticità del sistema carcerario. Quei giovani in armi (bianche) di Anna Paola Lacatena Il Manifesto, 22 luglio 2025 Da dove trae origine la paura e il sempre più diffuso bisogno di difendersi tra giovani e giovanissimi? Non è difficile, guardarsi intorno e avvertire immediatamente un senso di sperdimento da narrazioni all’insegna del riarmo, dei soprusi sui più deboli, di muri da erigere, dazi da imporre, nazionalità da difendere, invasori da contrastare. Il Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, comparando i dati nel decennio compreso tra il 2015 e il 2024, ha confermato la tendenza alla diminuzione generale degli omicidi in Italia, per i quali nel 49% dei casi il movente risulterebbe essere la lite degenerata, seguita dai motivi passionali (5% nel 2024 contro l’11% del 2023). Per quanto attiene al modus operandi, lo strumento maggiormente utilizzato risulta l’arma impropria o l’arma bianca. Un rapporto di Small Arms Survey del 2024 ha puntualizzato che solo in Italia circolerebbero circa 1,5 milioni di armi illegali, spesso provenienti da conflitti internazionali o acquistate attraverso il dark web. In Italia il report sulla criminalità minorile e gang giovanili del Dipartimento Pubblica Sicurezza ha evidenziato tra il 2022 e il 2023 un aumento del 2% delle lesioni dolose causate da giovanissimi (under 17), la principale spia dell’uso dei coltelli. A Milano si registra un incremento di lesioni provocate da under 18 pari al 48%, a Bologna un +44%, a Firenze un +21%, mentre il picco si raggiunge a Genova con un incremento nell’ultimo anno del 55%. Nella sola città di Napoli e per il solo 2024, i Carabinieri hanno denunciato o arrestato 48 minorenni per reati legati alle armi. Nello stesso anno sono state sequestrate 230 armi da fuoco (contro le 155 del 2023), 300 armi da taglio (rispetto alle 172 dell’anno prima) e 106 armi improprie, come mazze e tirapugni con un incremento del 162% rispetto alle 327 del 2023. Da dove trae origine la paura e il sempre più diffuso bisogno di difendersi tra giovani e giovanissimi? Non è difficile, guardarsi intorno e avvertire immediatamente un senso di sperdimento da narrazioni all’insegna del riarmo, dei soprusi sui più deboli, di muri da erigere, dazi da imporre, nazionalità da difendere, invasori da contrastare, ecc. L’ansia sembra sempre più la cifra di un mondo pluralistico e aperto al confronto non oltre l’esiguo perimetro del proprio orticello. Ci occupiamo dello spazio ridotto delle nostre esistenze, attenti a non farle contaminare da ciò che accade in tutto il resto del mondo ma non rinunciamo al doomscrolling - ricerca ossessiva di notizie negative online. Scorriamo lo schermo dello smartphone (scrolling), per ricercare nei feed di quotidiani e social network le sventure (dooms) quotidiane, rinforzando il senso di angoscia correlata al bisogno di controllare che quei pericoli non ricadano su di noi e sui nostri cari. Pur nell’abbraccio delle pareti della propria casa e dei cuscini del proprio divano, cala il tono dell’umore, aumenta l’ansia, si moltiplicano i disturbi del sonno. Dalla macro al micro-cosmo tutto ciò sembra amplificato da adulti-genitori iperpresenti anche grazie a strumenti iper-presenzialisti. C’è sempre un pericolo da sventare, un rischio da anticipare, un competitor da rimettere al suo posto. Tutto veloce, tutto in perenne evoluzione. Non c’è il tempo della rielaborazione dell’immagine e delle parole e, conseguentemente, di quanto quelle stesse abbiano suscitato e confermato. Bisognerebbe spiegarne, approfondirne il senso ma non c’è il tempo, nuovi reel incombono, nuove opinioni si affastellano, nuove opportunità vengono disposte sul gran buffet delle opportunità a tempo. I genitori sono, spesso, costretti a impegni di lavoro che lasciano poco spazio alla famiglia oltre le ore serali. Sono essi stessi parte di un mondo che chiede all’indistinto singolo di distinguersi per esistere agli occhi delle tante (troppe) comunità virtuali e non solo tali. I professori devono corrispondere ai programmi, alle scadenze, alla mole di progetti e incombenze burocratiche, riducendo ai minimi termini i tempi della riflessione e della discussione con i giovani studenti. Una fatica ansiogena e demotivante dove il bisogno espresso dagli studenti può rappresentare l’imprevisto non messo in conto, l’intoppo sulla via della già impellenza. È un continuo accumulo di frustrazioni, di piccole e grandi violenze che sfociano non di rado nello scontro, nella rissa, nella promessa virtuale di vendetta con tutto il suo carico di eccesso e parossismo. Sarebbe necessaria una grande maturità, di cui la persona giovane e giovanissima non dispone, per distinguere l’attacco dalla difesa, per fissare delle necessarie differenze tra capacità di far valere le proprie ragioni e reazione incontrollata e iperimpulsiva. Messaggi distruttivi, sollecitazioni all’insegna della violenza e dell’annientamento dell’Altro, noia, assenza di stimoli e riferimenti in grado davvero di lavorare sul senso di autodeterminazione e di fiducia in sé stessi, disorientamento, sono un mix ideale per l’ansia sociale e per l’adiaforizzazione di baumaniana memoria - tendenza a dispensare le azioni umane dal giudizio e, persino, dal significato morale. Trasmigriamo dal mondo offline a quello online concetti come “contatti”, “followers”, “like”, “amicizia”, “odiatori”, “leoni da tastiera” e tanto altro, ma è l’impulsività ad essere alimentata più che la riflessività e il pensiero critico. Tra i tanti desideri-capricci vogliamo forse negare un opinel (marca di coltelli) a un tredicenne? Ovviamente, solo per difesa personale. La domanda più ricorrente che, nel corso di un progetto (“Plan B”) che il Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto, in collaborazione con la Polizia di Stato e il Tribunale per i Minori di Taranto, gli studenti delle scuole di secondo grado del territorio rivolgono è: “Posso portare un coltello con me?”. La legge italiana non consente l’uso di strumenti offensivi per la difesa personale. Sfatata la leggenda secondo la quale è possibile munirsi di lame purché di misura inferiore alle quattro dita, ciò che conta non è la lunghezza della lama ma le caratteristiche del coltello - l’autorizzazione a portarlo o un giustificato motivo a determinare se la detenzione o il porto dell’arma è lecito oppure no, è bene precisare che le armi si distinguono in proprie e improprie. Le armi proprie sono quelle armi che non prevedono usi alternativi allo scopo di offendere (armi da fuoco, coltelli a scatto, lame superiori ai limiti definiti, ecc.). Le armi improprie invece sono armi che non nascono con l’obiettivo di offendere, prevedendo altri scopi (coltello da cucina, coltellino svizzero, ecc.). Se il coltello rientra tra le armi proprie - punta acuminata, lama su entrambi i lati, bloccata al manico - è necessaria un’autorizzazione o il porto d’armi. Se rientra tra le armi improprie è d’obbligo giustificarne i motivi al momento del controllo. Dunque, condurre con sé un coltello è permesso solo in casi specifici. In ogni caso è necessario che sia riposto in modo sicuro e non immediatamente accessibile. Il porto e il trasporto restano vietati senza giustificato motivo. Per evitare sanzioni, è essenziale avere un giustificato motivo chiaro e dimostrabile, trasportare il coltello in modo sicuro, evitare contesti sensibili. La violenza è un tratto che dimora in ogni essere umano e che può essere decifrata e superata solo nella misura in cui si fa domanda, esigenza espressa, lettura e significazione del suo più profondo significato. L’uomo non è condannato ad essere violento, può apprendere e interiorizzare la facoltà di scegliere, nonostante l’ambiente che lo circonda non sia particolarmente favorevole o addirittura veicoli con decisione messaggi distruttivi. La violenza che va sempre più disegnando la società ormai della post post-modernità è sempre più scissa dal conflitto come possibilità, a beneficio di un’idea di conflitto come scontro, chiusura, affermazione di sé sull’Altro. La violenza è oltre la politica e l’ideologia. È oltre la parola e l’appello. In nessun caso, però, potrà dirsi oltre la società, nei confronti della quale orienterà la sua più disperata impotenza ad esprimersi in altro modo. A completamento di un perverso e autoperpetuante ciclo di violenza verbale e fisica, al crescente annullamento dell’istanza altra dalla propria, la comunità risponde chiedendo sempre più alti livelli di sicurezza - mai veramente bastevole - e ancor più esige repressione, punizione, vendetta. Se sentimenti e parole restano non riconosciuti e, dunque, inespressi, la violenza diventa comunicazione banale, primitiva e selvaggia. Diverso è il conflitto capace di guardare alle istanze dell’Altro e di trovare nel confronto la risposta alla percezione di caos e di pericolo che sembra circondare tutti, con una differenza: è molto difficile che una persona giovanissima abbia la capacità di non banalizzare o negare il disordine come unica possibilità di superarlo e integrarlo. Gli adolescenti hanno un disperato bisogno di colmare quel vuoto di significato, ma spesso, nell’incertezza del proprio (e dell’altrui) futuro, scelgono sì la sfida e il rischio ma non sempre riescono a sublimare la paura della morte trionfando sulla stessa e riaffermando così la propria fame di vita. Dal coltello che taglia al filo che unisce, purtroppo il mondo adulto non sembra offrire grandi competenze sartoriali. Fine vita, la discussione tra “fazioni” opposte che ignora la sofferenza e la volontà dei pazienti di Gilberto Corbellini Il Dubbio, 22 luglio 2025 La discussione sul fine vita si sta svolgendo nei linguaggi esoterici della teologica, del diritto, della bioetica, ma soprattutto dell’ideologia politica. Vola così in alto da rendere invisibile la realtà sottostante, nella quale brancolano le persone comuni. È il modo migliore per gettare fumo negli occhi a coloro che sono suscettibili alle pratiche illusionistiche. Il disegno di legge è surreale e gli stessi esperti, non confessionali, lo stanno già impallinando: parla di “indisponibilità di un diritto alla vita” (un ossimoro?), estromissione del SSN, di ghigliottine incostituzionali per accedere (inserimento in un percorso di cure palliative e essere in vita grazie a trattamenti sostitutivi di funzioni vitali); infine, una Commissione nazionale inquisitoria, nominata dal Grande Fratello. Inutile entrare nel merito, perché nessuno può prevedere la versione che sarà licenziata. Mi domando se qualcuno che parla abbia assistito, da vicino e cercando di dare un supporto di qualche tipo, una persona che sta morendo. Sono certo di sì. Ma la vita concreta la si ignora quando si pensa di dovere parlare in punta di qualcosa. Non intendo fare del pietismo. Ma ricordare le domande che rivolgono i malati, non quelli astratti o inventati, alle persone loro vicine: medici, familiari e amici. Qualcuno chiede consapevolmente di essere aiutato a farla finita, altri si disperano perché non vogliono lasciare questo mondo, altri ancora affrontano l’avvicinarsi della dipartita scherzando con sagace ironia, e ci sono coloro che muoiono senza sapere che a ucciderli sono stati i familiari e/ o il medico “per il loro bene”; mentre altri hanno fatto da soli o trovato aiuto per suicidarsi (di nascosto o pagandolo all’estero). Qualcuno, infine, soffre in modi terribili, senza chiedere niente, per stoicismo o per profondissima fede, ed è sospettoso perché teme che venga affrettata la sua dipartita, e non vuole. Anche nelle scelte del modo in cui si vorrebbe morire c’è, dunque, un pluralismo individuale irriducibile. Non si muore tutti allo stesso modo. Mai, ma soprattutto oggi che il 60 e il 70% (pare 90% in alcuni paesi ad alto reddito) delle morti arrivano alla fine di lunghe malattie degenerative. Non si muore più rapidamente e senza quasi accorgersene, come era di norma un secolo fa, ma nel corso di settimane, mesi o anni per tumori, malattie cardiache e metaboliche, malattie neurologiche, etc. Tempi lunghi nei quali si pensa e ripensa alla propria fine e come si vorrebbe che fosse. Larga parte di questo tempo lo si trascorre nel dolore fisico ed emotivo, che diventa via via più intollerabile e cambia il modo di funzionare della coscienza. Ognuno pensa ai valori, consapevoli o intuiti, che per lui (LUI, non quelli del filosofo o teologo di turno) contano, fino a quando non perde coscienza. Ognuno di noi ha delle preferenze su tutto. Nelle società più o meno aperte, se scegliere di farsi guidare da queste non fa male a nessuno e riguarda solo chi decide, si è liberi di seguirle (incluso ubriacarsi, essere vegani, non curarsi, etc). Il problema è che in questo caso, per esercitare la scelta di salute che si preferirebbe, occorre essere aiutati ricevendo una prestazione sanitaria rispetto a cui diverse credenze hanno posizioni diverse. Ci sarebbe l’indisponibilità della vita umana, che va difesa sul bagnasciuga metafisico/ religioso dal concepimento naturale alla morte naturale (anche se di “naturale” non è rimasto nulla) versus la mia vita la gestisco io versus la vita che ha un valore collettivo e lo stato non può lasciare le persone libere di scegliere. Se ognuno potesse decidere come preferisce, da credente, da ateo e liberale in qualche modo o da collettivista, all’interno di una cornice legale che mira essenzialmente a perseguire qualunque danno alle persone, ci troveranno ad avere ottenuto quasi la quadratura di un cerchio. I collettivisti e i religiosi pensano, però, che l’autonomia sia un autoinganno e che le persone non vogliono davvero quello che chiedono, ma per esempio le cure palliative, che sarebbero la soluzione e andrebbero somministrate a tutti. È empiricamente falso. Ma non c’è peggior cieco di chi non vuol leggere i fatti. È difficile, penso impossibile, trovare una sintesi se per qualcuno l’indisponibilità della vita è un principio non negoziabile o quando i politici coltivano l’idea di uno stato etico, per cui le persone sono libere solo quando aderiscono ai valori collettivi. Che cosa ci si può aspettare? La privatizzazione? Come un coniglio tolto dal cappello dal prestigiatore manipolatore. Singolare in un paese collettivista e paternalista fino al midollo, ma che anestetizza le idiosincrasie religiose e quelle collettiviste. Anche se apre a scenari che dovrebbero essere inaccettabili per un’etica cristiana ispirata dal Vangelo. Il fine vita è una condizione che fa parte integrante della vita e arriva alla fine di un’esistenza “magari” dedicata al lavoro. Lo si vuole espellere dalla medicina e dalla sanità. Ci vuole un lungo pelo sullo stomaco per dire, a una persona che ha dedicato la sua esistenza al bene comune, che si trova in condizione terminale e chiede aiuto senza poter suicidarsi per qualunque motivo o pagare la prestazione: il Grande Fratello ti autorizza benevolmente a farti aiutare, ma per il resto arrangiati. Se il diritto di morire non spetta a noi ma al Comitato Nazionale di Valutazione di Paolo Becchi Il Sole 24 Ore, 22 luglio 2025 Il disegno di legge sul suicidio assistito, sul quale già sono stati presentati una sessantina di pagine di emendamenti, si basa su una proposta presentata dalla maggioranza di centrodestra e adottata come testo base dalle Commissioni Giustizia e Sanità del Senato il 2 luglio 2025. Tale disegno va letto chiaramente in risposta alla legge regionale approvata dalla Regione Toscana nel febbraio del 2025, basata su una proposta di iniziativa popolare promossa dall’Associazione Luca Coscioni. Anche a una lettura superficiale risulta subito evidente che il disegno di legge sia più restrittivo della legge regionale. Ma non è su questo che qui voglio insistere. Del resto, ciò fa parte della dialettica politica: la maggioranza politica è di centrodestra, la Regione in questione di centrosinistra. Sia la legge regionale sia quella nazionale in discussione si presentano come risposte alle sentenze della Corte costituzionale che avevano posto alcune condizioni affinché si potesse accettare il suicidio assistito e precisamente le seguenti: presenza di una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche, essere tenuti invita da trattamenti di sostegno vitale ma al contempo in grado di prendere decisioni libere e consapevoli. Nel rispetto di queste quattro condizioni il suicidio assistito sarebbe, dopo le sentenze della Corte, compatibile con il nostro ordinamento. Compatibile non significa che sia un diritto in senso forte. E neppure per la Corte, a dire il vero lo è, si tratta soltanto di una attività che in certe condizioni è ritenuta lecita. E, tuttavia, mentre la legge regionale segue con coerenza il dettato della Corte non altrettanto si può dire per il disegno di legge in questione e non solo perché introduce una quinta condizione non prevista dalla Corte (la richiesta del suicidio assistito è infatti anche subordinata all’essere inseriti in un programma di cure palliative). Beninteso, il Parlamento è sovrano, non deve necessariamente seguire quanto stabilito dalla Corte, potrebbe anche approvare una legge che non corrisponde alle sue indicazioni, andando prima o poi incontro ad un eventuale giudizio di incostituzionalità. E da questo punto di vista si può persino criticare la sentenza Corte per essersi spinta quasi a legiferare, nel senso di indicare quello che il legislatore dovrebbe fare. Stabilisce condizioni, procedure, tanto che il legislatore sembrerebbe avere le mani legate. Il fatto è che rispetto a questa legge, se resterà l’impianto attuale, succederà quello che è già successo con la legge sulla procreazione medicalmente assistita, che come è noto, nonostante il fallimento di un referendum abrogativo, è stata riscritta dalla Corte, facendo venire meno molti divieti. Ci sono, infatti, due punti in cui il legislatore va addirittura in senso esattamente contrario a quello indicato dalla Corte. Il primo è l’istituzione di un Comitato Nazionale di Valutazione, di nomina del Presidente del Consiglio, che attraverso quel Comitato di fatto decide se accettare o rifiutare la richiesta del paziente. Il secondo è l’esclusione totale del Servizio Sanitario Nazionale dalla pratica del suicidio assistito. Per un verso si centralizza l’intera procedura affidandola addirittura in ultima istanza al premier, per l’altro non si capisce bene da chi verrà assistito il malato terminale che vuole suicidarsi. Per un verso si nazionalizza la morte e per l’altro la si privatizza. Solo due spunti di riflessione. Se si vuole evitare la medicalizzazione della morte (e credo che questo sia il nocciolo che andrebbe preservato) bisognerebbe indicare una via alternativa, anche tenendo conto di quello che, ad esempio, avviene nella vicina Svizzera. Oppure trovare nuove strade, e mi sembrerebbe giusto farlo perché se la richiesta dell’assistenza al suicidio non è un diritto in senso forte, non c’è nessun motivo per cui debba passare attraverso il Sistema Sanitario Nazionale. La legge, insomma, potrebbe sotto questo profilo limitarsi a modificare l’art. 580 del Codice penale nel senso indicato dalla Corte. Anche perché il ruolo del medico dovrebbe limitarsi a quello della prescrizione di farmaci adeguati, restando per il resto estraneo alla esecuzione del suicidio. Non si può risolvere il problema con la mera obiezione di coscienza, ne va infatti della sua etica professionale. Sulla istituzione di un Comitato Nazionale di Valutazione non si può invece che dissentire con forza. Sulla mia morte, dettata in fondo dallo “stato di necessità” di una malattia inguaribile, decido io e non un Comitato Nazionale nominato dal Capo del Governo. Quest’ ultima soluzione - paragonabile alla istituzione di “Comitato di salute pubblica” - a parte la sua intrinseca “biopolitica” illiberalità, è estremamente rischiosa perché subordina l’accoglimento della legittima richiesta di un malato al Governo in carica. Estremizzando un po’, per farci capire, con un Governo di destra non morirà nessuno e con uno di sinistra moriranno tutti. Non lasciamo che la morte finisca nelle mani del Creonte di turno. La “madre intenzionale” ha diritto al congedo di paternità: la svolta della Consulta di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 luglio 2025 Dopo la sentenza sulla doppia genitorialità per le famiglie composte da due donne, la Corte rileva un “irragionevole” disparità di trattamento tra coppie etero e coppie omogenitoriali. Sì al congedo di paternità per la “madre intenzionale”, ovvero la donna che non ha partorito il figlio ma ha condiviso un percorso di procreazione medicalmente assistita con un’altra donna. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale dopo la storica decisione dello scorso maggio, con la quale i giudici hanno sancito il riconoscimento automatico di entrambi i genitori per il minore nato in Italia ma concepito all’estero tramite le tecniche che nel nostro Paese sono vietate alle coppie di donne. Con la sentenza depositata oggi, la numero 115, la Consulta ha stabilito che “è costituzionalmente illegittimo l’articolo 27-bis del decreto legislativo numero 151 del 2001 nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio a una lavoratrice, genitore intenzionale in una coppia di donne risultanti genitori nei registri dello stato civile”. La questione - spiega la Corte in un comunicato stampa - era stata sollevata dalla Corte d’appello di Brescia, che aveva ritenuto discriminatoria la disposizione in oggetto, la quale consente soltanto al padre di fruire del congedo di paternità obbligatorio, pari a 10 giorni di astensione dal lavoro retribuiti al 100%, escludendo, quindi, dal beneficio la “seconda madre”, nel caso in cui la coppia di genitori sia formata da due donne riconosciute entrambe, perché iscritte nei registri dello stato civile, come madri dallo Stato italiano. Confermando il proprio orientamento sul tema, la Corte ha quindi ritenuto “manifestamente irragionevole la disparità di trattamento tra coppie genitoriali composte da persone di sesso diverso e coppie composte da due donne riconosciute come genitori di un minore legittimamente attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita svolte all’estero conformemente alla lex loci. Costoro, infatti, ha osservato la Corte, condividendo un progetto di genitorialità, hanno assunto, al pari della coppia eterosessuale, la titolarità giuridica di quel fascio di doveri funzionali alle esigenze del minore che l’ordinamento considera inscindibilmente legati all’esercizio della responsabilità genitoriale”. “L’orientamento sessuale, ha precisato la Consulta, non incide di per sé sulla idoneità all’assunzione di tale responsabilità. Risponde all’interesse del minore, che ha carattere di centralità nell’ordinamento nazionale e sovranazionale, vedersi riconoscere lo stato di figlio della madre biologica, che lo ha partorito, e di quella intenzionale, che abbiano condiviso l’impegno di cura nei suoi confronti”. Il diritto del minore a mantenere un rapporto con entrambi i genitori è riconosciuto a livello di legislazione ordinaria (articoli 315-bis e 337-ter del codice civile) nonché da una serie di strumenti internazionali e dell’Unione europea. “Con riguardo, in particolare, alla provvidenza in questione, osserva la Corte, viene in rilievo l’esigenza di dedicare un tempo adeguato alla cura del minore, anche attraverso la modulazione di quello da destinare al lavoro, in coerenza con la finalità di favorire l’esercizio dei doveri genitoriali secondo una migliore organizzazione delle esigenze familiari, in un processo di progressiva valorizzazione dell’aspetto funzionale della genitorialità, identico nelle formazioni costituite da coppie omosessuali ed eterosessuali. Ed è ben possibile, conclude la Corte, identificare nelle coppie omogenitoriali femminili una figura equiparabile a quella che è la figura paterna all’interno delle coppie eterosessuali, distinguendo tra la madre biologica e quella intenzionale, che ha condiviso l’impegno di cura e responsabilità nei confronti del nuovo nato e vi partecipa attivamente”. Principi simili erano stati sanciti con la già citata sentenza 68 del 22 maggio, che ugualmente colloca al primo posto la tutela dei minori nati da coppie omogenitoriali. Anche quella decisione, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), si fonda sull’impegno “irrevocabile” preso da entrambe le mamme nel percorso di Pma, e sulla centralità dell’interesse del minore. Che non era garantito, a parere dei giudici, dall’impedimento alla doppia genitorialità previsto dalla norma. Migranti. Strage di Cutro, sei ufficiali a processo per il naufragio di Simona Musco Il Dubbio, 22 luglio 2025 Le accuse: naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, per le morti avvenute sulla costa crotonese il 26 febbraio 2023. La tragedia di Cutro si poteva evitare. Sembra esserne convinto anche il gup del Tribunale di Crotone che, a oltre due anni e mezzo dalla strage in cui persero la vita più di cento persone, ha disposto il rinvio a giudizio di sei tra ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza e della Guardia costiera. Secondo la procura, sarebbero responsabili di una catena di errori, omissioni e sottovalutazioni che portarono alla morte di migranti che potevano essere salvati. Il processo inizierà il 14 gennaio 2026. A comparire davanti ai giudici saranno Giuseppe Grillo, capo turno del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia; Alberto Lippolis, comandante del Roan; Antonino Lopresti, ufficiale in comando tattico; Nicolino Vardaro, comandante del Gruppo aeronavale di Taranto; Francesca Perfido, ufficiale di ispezione a Roma; e Nicola Nania, in servizio nel comando regionale di Reggio Calabria la notte del naufragio. Le accuse sono, a vario titolo, di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo, per le morti avvenute sulla costa crotonese il 26 febbraio 2023. Tra le parti civili ammesse figurano i familiari delle vittime e i superstiti, rappresentati dagli avvocati Enrico Calabrese e Francesco Verri. Immediato il commento del ministro dei Trasporti Matteo Salvini. “Una sola parola: vergogna. Processare sei militari, che ogni giorno rischiano la vita per salvare altre vite. Vergogna”, ha scritto su X. Per il pm Pasquale Festa e il procuratore Giuseppe Capoccia, i sei indagati avevano “tutti e indistintamente il prioritario, fondamentale e ineludibile obbligo di salvaguardare la vita in mare”. Con la Guardia di Finanza che aveva l’obbligo di comunicare (e la Capitaneria di Porto di acquisire) “tutte le informazioni idonee ad incidere sulla valutazione dello scenario operativo”. Cosa che non è avvenuta, causando una delle peggiori stragi che il Mediterraneo ricordi. Stando a quanto ricostruito dalle indagini, Frontex aveva segnalato, il 25 febbraio, la presenza di un natante “verosimilmente adibito al trasporto di migranti clandestini”, diretto verso le coste calabresi e intercettato a circa 38 miglia nautiche da Le Castella, in condizioni di “buona galleggiabilità”. Il Comando generale della Guardia Costiera qualificò l’intervento come operazione di polizia, attribuendo la competenza al Reparto operativo navale delle Fiamme Gialle di Vibo Valentia. Secondo la procura, quel reparto avrebbe dovuto “effettuare il monitoraggio occulto del target in avvicinamento, per poi intervenire direttamente alle 12 miglia”, come previsto da decreti e accordi, che indicano la salvaguardia delle vite come priorità assoluta. La Guardia Costiera aveva dato la disponibilità a impiegare mezzi “certamente operativi e che potevano navigare senza alcuna difficoltà”. Ma per “grave negligenza, imprudenza, imperizia, in violazione del regolamento Ue 656/2014” e delle norme tutto ciò non è avvenuto. A ciascuno degli indagati viene contestato uno specifico comportamento, che, legato agli altri o alle rispettive omissioni, avrebbe portato alla tragedia. Nello specifico, Antonino Lopresti, una volta ricevuta la segnalazione da Frontex, avrebbe inviato in mare un’unità non idonea alla navigazione data la presenza di mare forza 4 e vento da sud forza 7, con previsioni in peggioramento - circostanza, sottolinea la procura, della quale era perfettamente conscio. Ma non solo: pur allertando Reggio Calabria per un eventuale supporto, non si sarebbe assicurato che la Capitaneria fosse informata sulle condizioni meteo, ignorando anche le offerte di aiuto della Guardia Costiera, sebbene la vedetta fosse già rientrata in porto. La nave non è più stata monitorata e Lopresti avrebbe atteso “inerte” che fosse Vardaro a ordinare l’uscita del Barbarisi - cosa che avvenne solo alle 2.05, due ore dopo, all’ultimo momento utile per intercettare il caicco in prossimità della costa, anziché all’ingresso delle acque territoriali. Nel frattempo, Alberto Lippolis, comandante del Roan, non ha avocato l’operazione, pur avendone i poteri, e nessuno avrebbe comunicato alla Capitaneria di Reggio Calabria le reali difficoltà di navigazione: “Diciamo che per il momento è un’attività di polizia che gestiamo”, venne riferito. Così facendo, si sono celate - secondo la procura - informazioni cruciali che - se note - avrebbero dovuto comportare l’attivazione del piano Sar. Il pattugliatore Barbarisi, scrive la procura, partì troppo tardi per una “precisa e negligente scelta operativa” e i comandi centrali non approfondirono le criticità, contribuendo così alla tragedia. Se qualcuno avesse agito come dovuto, la Guardia di Finanza avrebbe impiegato mezzi adatti alla navigazione, intercettando il caicco e accertando che a bordo si trovavano almeno 180 persone, tra cui numerosi minori e neonati. L’attivazione tempestiva del piano Sar scenario Detresfa avrebbe potuto impedire che il caicco si schiantasse sulla secca a Steccato di Cutro. Così, invece, l’imbarcazione si spezzò a pochi metri dalla riva, provocando l’annegamento di oltre 100 persone. Morti che nessuno avrebbe mai dovuto piangere. La ricostruzione della strage Il caicco Summer Love si è schiantato su una secca a pochi metri dalla costa, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023. Secondo la ricostruzione, Frontex, nella tarda serata di sabato, aveva avvisato il Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo della presenza del barcone a 40 miglia dalle coste calabresi. L’agenzia europea parlava di un uomo solo sul ponte, ma segnalava anche una significativa risposta termica dai boccaporti aperti a prua e una telefonata satellitare alla Turchia: segnali chiari che si trattava di un’imbarcazione di migranti. La Guardia di Finanza ricevette la comunicazione e inviò due motovedette in mare, ma come operazione di polizia, non finalizzata al salvataggio. L’intervento fu interrotto a causa delle condizioni meteo avverse. Nessuno aprì un evento SAR, che avrebbe consentito di attivare un’operazione di soccorso. Una volta rientrate in porto le motovedette, la Finanza contattò via radio la Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, ma anche in quel caso non furono segnalate criticità sufficienti a far scattare un’emergenza. Solo alle 4.10 del mattino arrivò al 112 una telefonata in inglese da un numero internazionale. A quel punto i Carabinieri si precipitarono in spiaggia, dove già affioravano i corpi. Il vicebrigadiere Gianrocco Tievoli e il carabiniere Gioacchino Fazio si tuffarono in acqua, riuscendo a salvare cinque migranti, ma tutto attorno c’erano corpi senza vita. Compreso quello di un neonato di sei mesi. Migranti. La procura impugna l’assoluzione di Maysoon Majidi di Vincenzo Imperitura Il Manifesto, 22 luglio 2025 L’incubo giudiziario di Maysoon Majidi non è ancora finito. La procura di Crotone ha infatti presentato appello alla sentenza di assoluzione con cui il tribunale della città pitagorica, nel febbraio scorso, aveva assolto la giovane attivista curdo-iraniana dall’accusa di essere una degli scafisti responsabili dello sbarco di 75 migranti in Calabria. Secondo il sostituto procuratore Rosaria Multari, infatti, la sentenza che aveva scagionato Maysoon dalle accuse “risulta errata, in fatto e in diritto, oltre che lacunosa e contraddittoria”. Nella lunga istanza presentata alla Corte d’Appello di Catanzaro, la pm crotonese ritorna poi sull’istruttoria dibattimentale che avrebbe confermato e rafforzato “il quadro probatorio emerso durante le indagini” che inquadrerebbe la ragazza in fuga dal regime iraniano come “aiutante del capitano Akturk e di membra dell’equipaggio che ha condotto l’imbarcazione”. E così, a distanza di pochi mesi dall’assoluzione con la formula “per non avere commesso il fatto”, per la giovane regista fuggita assieme al fratello dalle persecuzioni del regime si riapre un incubo che sembrava essere stato definitivamente archiviato. “Mysoon è una donna forte, ormai abituata a combattere questa follia - dice il suo avvocato Giancarlo Liberati - non c’è niente contro questa ragazza, solo le accuse di due passeggeri che in seguito hanno ritrattato e su cui la Procura ha deciso di glissare. L’accanimento contro di lei mi sembra evidente ma dal processo di Appello non mi aspetto altro che una nuova sentenza di assoluzione”. Fermata nell’immediatezza dello sbarco sulla base della testimonianza di altri due migranti presenti sul barcone che la identificavano come aiutante dell’equipaggio alla guida del veliero partito dalle coste turche negli ultimi giorni del 2023, Maysoon fu trasferita prima nel carcere di Castrovillari (Cs) e poi in quello di Reggio Calabria, fino alla sentenza del tribunale del riesame che, di fatto, smontò le ipotesi accusatorie disponendone la scarcerazione. La giovane regista e attivista è stata per anni impegnata a contrastare il regime iraniano prima della fuga nel Kurdistan iracheno e il successivo spostamento verso la Turchia, ultima tappa dell’ennesimo viaggio della speranza prima della traversata per mare verso le coste europee. Incastrata dalla testimonianza di due migranti (che hanno poi ritrattato la loro versione, raccontando ai giornalisti arrivati fino a Barlino per sentirli delle gravi lacune di traduzione al momento della deposizione) Mysoon ha sempre proclamato la propria innocenza, arrivando a scrivere una lettera al presidente Mattarella: “Il mio arresto e la mia detenzione credo siano non solo un’ingiustizia, ma un’ombra sulla tutela di quei diritti umani che l’Italia ha sempre affermato. Mi rivolgo a lei, presidente della Repubblica, e al popolo italiano con la speranza che la mia voce venga ascoltata e che la mia situazione venga risolta con giustizia e umanità”. Accolta, in seguito alla scarcerazione, a Riace dal sindaco dell’accoglienza ed europarlamentare Mimmo Lucano, che le ha conferito anche la cittadinanza onoraria, e trasferitasi ora in Lombardia dove si sta preparando alle sue future nozze, Mysoon Majidi era convinta di essersi finalmente lasciata alle spalle questa pagina nerissima di accanimento giudiziario (lo stesso, ironia della sorte, denunciato ai quattro venti dal vice premier Matteo Salvini dopo il ricorso in Cassazione presentato dalla procura di Palermo per il caso Open Arms) e ora si troverà ancora alla sbarra a difendersi da accuse che la sentenza di primo grado aveva demolito, sostenendo come “le prove acquisite durante istruttoria abbiano smentito i fatti contestati alla Majidi facendo emergere un’ipotesi alternativa per cui la condotta di aiuto al capitano sarebbe stata commessa da altri migranti”. Dopo Albanese, sanzioni Usa anche alla principale Ong palestinese per i diritti umani di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2025 È sempre più evidente che il regime sanzionatorio dell’amministrazione Trump è al servizio di Israele. Negli Usa ormai ci hanno preso gusto: dopo le sanzioni alla Corte penale internazionale e quelle alla relatrice speciale Onu Francesca Albanese, è stata oggetto di un analogo provvedimento anche Addameer, la più nota organizzazione palestinese per i diritti umani, conosciuta a livello internazionale per la sua decennale collaborazione con, tra le altre, Amnesty International e Human Rights Watch nonché con Ong italiane. È sempre più evidente che il regime sanzionatorio dell’amministrazione Trump è al servizio di Israele. La ragione delle sanzioni nei confronti di Addameer non sono altro che la ripresa della narrazione israeliana secondo la quale l’ong palestinese è affiliata al Fronte popolare per la liberazione della Palestina, che per gli Usa è una “organizzazione terroristica”. Che non vi sia alcuna prova di questa affiliazione, non importa. Addameer rappresenta le persone palestinesi detenute e/o condannate tanto nelle carceri israeliane quanto in quelle dell’Autorità palestinese e difende i loro diritti a un processo equo e a condizioni di prigionia in linea con gli standard internazionali. Insieme ad altre cinque organizzazioni palestinesi per i diritti umani, Addameer è fuorilegge in Israele già dal 2021 in quanto “terrorista” e “illegale”. Anche qui, zero prove tanto che neanche molti governi europei hanno dato seguito alla cosa. Nel 2022 l’esercito di Tel Aviv ha anche fatto una rovinosa incursione nei suoi uffici. ?Mentre nella Striscia di Gaza prosegue il genocidio da parte di Israele, nelle prigioni di questo paese ci sono oltre 3000 palestinesi in stato di detenzione amministrativa, impossibilitati a difendersi da accuse che non vengono rese pubbliche e senza subire un processo. Sono sottoposti a torture, compresa la violenza sessuale, non ricevono livelli adeguati di cibo e cure mediche e non possono essere visitati da osservatori indipendenti, come ad esempio il Comitato internazionale della Croce rossa. A molti di loro, Addameer fornisce assistenza legale gratuita. Le sanzioni rischiano di colpire duro, tenendo conto che tra l’altro impediranno l’arrivo di donazioni dagli Usa e il lavoro in partnership con gruppi statunitensi per i diritti umani. *Portavoce di Amnesty International Italia