Carceri, strutture fatiscenti, suicidi e decessi. L’emergenza senza fine nei penitenziari di Valentina Errante Il Messaggero, 21 luglio 2025 Nel 2024 il record di morti dietro le sbarre. Decine i casi di celle senza doccia, acqua calda e riscaldamento. L’ultimo suicidio si è consumato sabato a Rebibbia. È il quarantunesimo del 2025, nel 2024 erano stati 91. L’emergenza del mondo carcerario non si arresta e a descriverla con cifre drammatiche è il rapporto diffuso dall’associazione Antigone lo scorso maggio. Celle con meno di tre metri quadrati a persona, senza riscaldamento o acqua calda. Oltre 62mila detenuti (62.445 al 30 aprile 2025) a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti. Il tasso ufficiale di affollamento sarebbe del 121,8 per cento, ma raggiunge il 133 se si considerano almeno 4.500 posti non disponibili. Nel 2023 i posti non disponibili erano 3.600. In due anni sono diminuiti di 900 posti e i detenuti sono aumentati di oltre 5mila unità. Su 189 carceri italiane, solo 36 non sono sovraffollate, 58 hanno un tasso di affollamento uguale o superiore al 150 per cento (erano 39 nel marzo 2023). In 30 casi i metri quadrati minimi non sono garantiti, in dodici manca il riscaldamento, in 43 l’acqua calda, in 53 la doccia. In quattro casi il wc non è in un ambiente separato. In quaranta istituti le biblioteche non sono accessibili, in quattro mancano spazi scolastici, in 20 le aree per il lavoro, in dodici quelle per la socialità e in 24 i luoghi per passeggiare. E sulle condizioni carcerarie “Amnistia o indulto” e il ruolo del garante, proprio oggi la Camera penale ha organizzato un incontro a Roma nella sede di via dei Banchi di Santo Spirito. Le carceri più affollate sono Milano San Vittore (220%), Foggia (212%), Lucca (205%), Brescia Canton Monbello (201%), Varese (196%), Potenza (193%), Lodi (191%), Taranto (190%), Milano San Vittore femminile (189%), Como (188%), Busto Arsizio, Roma Regina Coeli e Treviso (187%). Casi limite per carenze strutturali si registrano a Sollicciano (Firenze) e Regina Coeli, con sovraffollamento al 187 per cento, stranieri al 44,7 per cento e un aumento nel 2024 di atti autolesivi (+7,4%) e tentati suicidi (+36,9%). Il 2024 passa così alla storia come l’anno con più suicidi in carcere di sempre, superando addirittura il record del 2022 quando l’emergenza ha avuto inizio. Le carceri con più suicidi tra 2024 e 2025 sono state Napoli Poggioreale e Verona (sei casi ciascuna), entrambe sovraffollate. Almeno 62 suicidi sono avvenuti nei primi 6 mesi di detenzione, 14 nel primo mese e 11 nella prima settimana. Ma non è il solo record: Il 2024, ha sottolineato l’Associazione, è stato anche l’anno con più decessi in carcere. Sono state complessivamente 246 le persone che hanno perso la vita nel corso della loro detenzione. Antigone spiega anche perché esistono conteggi diversi sui casi di suicidio in cella: “I numeri citati provengono dal conteggio elaborato da “Ristretti Orizzonti” nel dossier “Morire di carcere”. Non si tratta dell’unico conteggio a disposizione”, ha spiegato l’associazione aggiungendo che il calcolo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria non tiene conto di alcuni casi avvenuti in ospedale dopo un tentato suicidio in carcere o per asfissia da gas e sciopero della fame. Il piano contro il sovraffollamento: diecimila posti in più e misure per i tossicomani di Francesco Bechis Il Messaggero, 21 luglio 2025 Domani via libera del governo alle nuove strutture per arginare il sovraffollamento. Diecimila posti in più. Rebibbia, Milano Opera e Bollate, Bologna e Cagliari. Celle modulari da montare in tempi rapidi all’interno di strutture riqualificate. E poi le misure alternative per i detenuti a fine pena che si sono distinti per buona condotta - circa diecimila - e per i tossicodipendenti avviati a scontare la pena residua nelle comunità. Il governo ha un piano per affrontare l’emergenza sovraffollamento nelle carceri. Atterrerà domani sul tavolo del Consiglio dei ministri, riferiscono fonti qualificate al Messaggero, dove il commissario per l’edilizia carceraria Marco Doglio illustrerà la mappa degli interventi per ampliare la capienza per i detenuti davanti alla premier Giorgia Meloni. Tutti i ministri sono precettati - il sottosegretario Alfredo Mantovano ha chiesto in una mail “la più ampia partecipazione” - per dare un segnale politico su una questione che scuote da tempo il dibattito pubblico e può avere riflessi sul consenso del governo. Un numero, 134 per cento, basta a dare il polso di un’emergenza umanitaria: è l’ultimo dato sul sovraffollamento carcerario in Italia, con 62685 detenuti in prigione a fronte di 46730 posti disponibili. Di qui la messa a terra del nuovo piano carceri. Operativo già da mercoledì, secondo le stime del governo servirà ad ampliare la capienza degli istituti penitenziari lungo lo Stivale di diecimila posti letto. In parte attraverso la costruzione di nuovi padiglioni dentro i principali carceri italiani. A Roma, nella casa circondariale di Rebibbia, una struttura da 400 posti extra da completare entro un anno. A Milano, nelle carceri di Opera e Bollate, due nuove aree rispettivamente da 392 e 200 posti in aggiunta all’attuale capienza. Altri 400 tra Bologna e Forlì, un carcere da 300 posti a Pordenone. E ancora, 640 nuovi posti in otto penitenziari, da Civitavecchia a Viterbo e Perugia, grazie ai fondi del Pnrr. Dietro la fredda matematica si cela una partita politica. Scartate le proposte per uno “svuota-carceri” avanzate pure da un pezzo di centrodestra nei mesi scorsi, la premier intende dare un segnale sul sovraffollamento che rischia di offrire sponde alla campagna delle opposizioni contro il ministero di via Arenula. Complice il preoccupante tasso di suicidi in cella - 41 solo dall’inizio del 2025 - anche se Nordio, rispondendo a un’interrogazione della M5S Aloisio, nega che esista “una correlazione fra sovraffollamento e suicidi”. “Il governo è fermo davanti a una strage silenziosa” accusa dal Pd Michela De Biase. Tornano insomma a montare le polemiche in una fase che già vede di nuovo alle stelle le tensioni sul fronte giustizia. Domani il via libera alla separazione delle carriere di giudici e pm al Senato, con le minoranze pronte alle barricate in aula. Nel mezzo, il caso Open Arms che ha riacceso lo scontro tra governo e toghe e gli echi delle inchieste a Milano. Si riparte da qui, dall’emergenza carceraria con un piano che seguirà un doppio binario. Da un lato appunto la costruzione di nuove strutture. Archiviata di fatto l’idea di realizzare i padiglioni extra per detenuti all’interno di caserme abbandonate - troppo complessa la riqualificazione delle strutture e il coinvolgimento della Difesa - l’ampliamento della capienza passerà dalla edificazione di nuovi padiglioni. Ma anche dai “carceri modulari”, strutture snelle montabili e smontabili nelle aree all’aperto dei penitenziari italiani, per cui il governo ha fatto partire i bandi in aprile fra le proteste delle opposizioni che denunciano le condizioni non umane in cui sarebbero costretti a vivere i detenuti in quei moduli. Oggi al ministero Nordio presiederà un vertice con Doglio e i sottosegretari alla Giustizia sul dossier, poi il via libera in Cdm al nuovo piano per l’edilizia 2025-2027. L’altro binario percorso dal dicastero di via Arenula è una “corsia veloce” per i detenuti a fine pena che si sono distinti per buona condotta e non hanno una condanna per reati di alta pericolosità sociale. Sono circa diecimila e sul tema Nordio ha lanciato una task force del ministero per attivare interlocuzioni con i magistrati di sorveglianza e i singoli istituti penitenziari. Sempre in Cdm domani - nel corso della riunione, fra l’altro, Mantovano e il ministro per la Pa Zangrillo terranno un’informativa sul nuovo vademecum contro gli attacchi cyber alle pubbliche amministrazioni - si discuterà di pene alternative per i criminali tossicodipendenti, magari all’interno delle comunità, “abbiamo un piano per rendere più efficace il recupero di questi detenuti e spero ci sarà a breve, nel prossimo Cdm, qualche ricaduta positiva” annunciava venerdì il sottosegretario. Non si esclude un Ddl ad hoc. Il sovraffollamento in carcere è tornato a scalare l’agenda politica dopo l’appello del presidente del Senato Ignazio La Russa che una settimana fa ha chiesto ai partiti “un convinto cambio di passo”. Meloni ha preteso, negli scorsi mesi, un aggiornamento puntuale dal commissario Doglio ogni due settimane. Domani il piano per diecimila posti in più in Cdm. “Numero chiuso per contrastare il sovraffollamento delle carceri”, la proposta di Magi di Miriam Di Peri La Repubblica, 21 luglio 2025 La proposta di legge sottoscritta dal segretario di +Europa, Riccardo Magi, punta a istituire l’obbligatorietà delle pene alternative in assenza di celle libere nei penitenziari. Istituire il numero chiuso nelle carceri per contrastare il sovraffollamento sempre maggiore dietro le sbarre. La proposta di legge arriva dal deputato e segretario di +Europa, Riccardo Magi, e punta a sancire il principio, già adottato in altri Paesi europei, dell’obbligatorietà delle pene alternative in assenza di spazi sufficienti dietro le sbarre. A fine giugno era stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a lanciare l’allarme, parlando di un fenomeno divenuto “insostenibile”. Proprio il ministero della Giustizia ha accertato che 10.105 detenuti cosiddetti definitivi sono potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere e in via Arenula è stata istruita una task force per accelerare sulle pene al di là delle sbarre. Adesso la proposta di Magi, che nella sua relazione parla di uno strumento che consentirebbe l’effettivo “esercizio dei diritti previsti dal vigente sistema penitenziario” e che prevede, in sintesi, “che l’esecuzione della pena detentiva non possa aver luogo se negli istituti penitenziari non vi è disponibilità di un posto conforme a standard minimi”. In questi casi scatterebbe necessariamente la misura alternativa. Per Magi, “continuare ad applicare la detenzione prescindendo dalla possibilità concreta di farlo nel rispetto dei diritti significherebbe, al contrario, rinunciare alla legalità, abdicare alla giurisdizione costituzionale e normalizzare la tortura”. Nella proposta di legge, d’altronde, vengono riportati i dati diffusi dall’amministrazione penitenziaria, aggiornati allo scorso 30 giugno, secondo cui le persone detenute in Italia sono 62.728, a fronte di una capienza regolamentare di 51.300 posti. “Sulla carta - osserva ancora il segretario di +Europa - il tasso di sovraffollamento medio è quindi superiore al 120%. Nei fatti, tuttavia, tenendo conto dell’attuale situazione di non agibilità effettiva di diverse zone degli istituti penitenziari, tra cui numerose camere di pernottamento o, in taluni casi, intere sezioni detentive, il dato stimato ammonta addirittura al 134%”. Con alcuni casi limite segnalati dal Garante nazionale dei detenuti, che lancia l’allarme: al 30 maggio 2025, in 63 istituti penitenziari l’affollamento registrato è stato superiore al 150%, con picchi che vanno oltre il 200%. “Sono numerosi - si legge ancora nella relazione del parlamentare - i casi di celle da 12 metri quadri condivise da tre o più persone, in palese violazione degli standard europei minimi di spazio vitale, stabiliti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), e utilizzati come parametro nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e da quella interna di Cassazione”. Una situazione drammatica confermata anche dal XXI rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia presentato a fine maggio dall’associazione Antigone, secondo cui “negli ultimi due anni la popolazione detenuta è cresciuta di oltre 5.000 unità, mentre la capienza effettiva è diminuita di 900 posti”. Nel frattempo, sottolinea Magi, non sorprende che “i casi di rivolte, proteste, e gesti estremi messi in atto dai detenuti siano notevolmente aumentati nel corso degli ultimi anni, nonostante il recente inasprimento delle pene e l’introduzione del nuovo reato di rivolta all’interno degli istituti penitenziari introdotto dal decreto Sicurezza”. Superare i vecchi concetti di detenzione di Filippo Messana* Corriere della Sera, 21 luglio 2025 Dobbiamo fare in modo che il posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerato come un modo per “spezzarsi la carriera” perché un “ufficio sine cura”. “Suicidi in carcere, un pesante fardello”. Così ha esordito il Ministro della giustizia Carlo Nordio in Parlamento, rispondendo al question- time sempre alla stessa domanda, posta male per la verità, dato che nessuno degli interroganti ha incalzato il Ministro sulle questioni che stanno a monte dei suicidi e che ne costituiscono l’inesorabile matrice. L’indirizzo politico espresso dal Governo (sicurezza collettiva e certezza della pena), in realtà, ha prodotto una proliferazione di figure di reato anche per fatti “bagatellari” (di scarsa rilevanza criminale) con costanti violazioni del principio di proporzionalità (tra condotta illecita e sanzione) costantemente richiamato dalla Corte Costituzionale e sul quale è tornato “a bomba” l’Ufficio del Massimario della Cassazione nella sua recente relazione n. 33/2025, esprimendo un parere critico sul cosiddetto “Decreto Sicurezza” e censurando anche l’emanazione di dette norme penali, in assenza dei presupposti di “necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione come specifici presupposti necessari dell’emanazione di norme per decreto. Eppure dal 1931 al 2002 lo Stato ha mantenuto un costante impegno a garantire le misure poste a fondamento delle finalità rieducative della pena e del reinserimento sociale dei detenuti, nonostante le emergenze del terrorismo degli “anni di piombo” 70/ 80 e delle stragi degli anni 90, e ciò costantemente fino agli anni 2000. Può dirsi che si profili un radicato indirizzo del legislatore nel mantenere la pena detentiva in carcere come extrema ratio, cui ricorrere in caso di fallimento di forme alternative di esecuzione della pena inflitta dal giudice con la condanna conseguente al riconoscimento del reato e del suo autore. Rimane essenziale, però, che il detenuto avverta il senso e il fine dell’attività di analisi che viene compiuta su di lui, come è di rilevanza vitale che gli operatori contribuiscano a stabilire una qualche connessione con il mondo esterno (con il mercato del lavoro o comunque con il settore di attività per la quale il paziente ha mostrato interesse o dimostrato una qualche esperienza già maturata). L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature della descritta attività di osservazione e del processo di reinserimento sociale in corso. E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente, e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile. In Commissione Giustizia della Camera la Ministra della Giustizia Cartabia ha affermato: “Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere” [il Dubbio 16/3/2021]. Non sembra di poter affermare che l’alluvionale produzione di nuove figure di reato punite con pena detentiva costituiscano - oggi - espressione dell’indirizzo politico dell’attuale governo e ci si chiede come alleggerire il “fardello” che reca sulle spalle la comunità tutta. Ora che la “questione detenuti” è diventata di rilievo nazionale, c’è da sperare che la domanda per un posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerata più da fior di magistrati plurititolati come equivalente a “spezzarsi la carriera” perché un “ufficio sine cura” e l’esecuzione della pena solo una questione di calcolo o peggio di interrogazione astrale. *Già consigliere alla Corte d’Appello di Palermo e Magistrato di Sorveglianza I pesci piccoli che sognano l’evasione di Francesco Merlo La Repubblica, 21 luglio 2025 Hanno preso l’evaso per strada a Lloret de Mar, in Spagna, mettendogli una mano sulla spalla, e Andrea Cavallari “non ha fatto resistenza”, stringeva un telefonino, non era armato. E chissà perché solo al cinema stiamo tutti dalla parte di Steve McQueen e della sua “Grande fuga” sulla moto. Ci piace evadere nella tv di Prison Break e cantare la vita spericolata, ma nella realtà con chi stiamo? Detenuto modello a Bologna, Cavallari era fuggito il giorno della sua laurea in Legge, non legando lenzuola ma tradendo la fiducia del Tribunale di sorveglianza che lo aveva mandato all’università a discutere la tesi sul diritto d’impresa: 92 il voto. Non ci sono sondaggi e il Censis non studia cosa pensano gli italiani degli evasi veri. Questo ha 26 anni e non si era fatto crescere la barba né si era tinto i capelli. Aveva documenti, soldi falsi e 800 euro. E forse il procuratore generale di Ancona, Roberto Rossi, si è disturbato di persona, scavalcando la procura competente, proprio perché teme il fascino della parola “evasione”: dal fisco, dalla realtà, dalla vita, dal carcere. “È sempre stata una sfida allo Stato ma questa era particolare per il reato grave e le sofferenze che ha procurato”. Furono 6 i morti e 59 i feriti nella discoteca Lanterna Azzurra di Corinaldo dove l’8 dicembre del 2018 i sei rapinatori della “banda del peperoncino” (tutti in carcere) spruzzarono spray urticante perché è più facile derubare la gente quando fugge - riecco l’evasione - in preda al panico. Quella volta però la calca divenne un’onda d’urto e le persone caddero le une sulle altre: una morte orribile, la strage di Corinaldo. E però si chiama omicidio preterintenzionale, e vuol dire “oltre l’intenzione”: 10 anni e 11 mesi di carcere la condanna. Cavallari ne aveva scontati 6 e poteva sperare nei benefici e nelle misure alternative. Invece è evaso: il pranzo, la mamma, il patrigno che ora dice “meno male che l’hanno preso”, due amici in auto, forse un’ex fidanzata. La fuga, organizzata ma naïve, è durata 14 giorni. Il suo carcere tornerà duro e crescerà la pena. Con accanimento uguale e contrario alla benevolenza della sorveglianza, il procuratore Rossi ha misurato l’ingenuità del reato d’evasione con l’orrore del primo reato: “Non era possibile che una persona che si era macchiata di questi reati potesse godere di una felice latitanza per di più in una località turistica”. La località turistica aggrava il reato di evasione? Eppure non c’è prigioniero che non sogni il mare: la zattera di Eastwood in Fuga da Alcatraz, il tuffo di Papillon. Anche per chi, soltanto, si sente prigioniero il mare è evasione: dal lavoro, da un amore, dalla nevrosi. Non c’è prigione senza speranza di evasione. E di cos’altro parlò Papa Francesco, nel Giubileo della Speranza, quando aprì la porta dell’inferno dei sovraffollamenti e dei suicidi (che sono evasori)? “Qui non ci sono i pesci grossi. I pesci grossi hanno l’astuzia di rimanere fuori”. Oltre mille detenuti in Italia sono over 70 di Maria Raffaella Bisceglia ilpattosociale.it, 21 luglio 2025 Oltre mille detenuti su 62mila hanno più di settant’anni secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E secondo il Consiglio d’Europa, inoltre, l’Italia è il Paese europeo con più detenuti oltre i 65 anni d’età. Franco Della Casa, professore emerito di Diritto processuale penale all’Università di Genova, già docente di Diritto penitenziario nella stessa Università, parla di una “crescente moltitudine di invisibili”, riferendosi alla popolazione anziana detenuta. Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Roma, fa notare: “Se guardiamo la serie storica, dal 2005 il numero degli over 70 reclusi è costantemente cresciuto: dato che può essere collegato anche all’aumento degli ergastoli e che fa ipotizzare che una parte di queste persone siano diventate anziane in carcere”. Il problema, al di là dell’equità della carcerazione chi è anziano e del sovraffollamento delle carceri, è che le condizioni di salute delle persone anziane detenute sono ovviamente più cagionevoli e che molte delle patologie riscontrate sono una diretta conseguenza della detenzione prolungata. Per giunta l’architettura penitenziaria, anche in condizioni non sovraffollate, risulta ostile di per sé, è con l’avanzare dell’età che quelle barriere carcerarie finiscono per essere insostenibili. Peraltro, chi è in carcere, anche in età avanzata, non sempre lo è in quanto riconosciuto definitivamente colpevole. Dei 54.372 detenuti censiti a fine gennaio 2022, si calcola che il 30% non stesse scontando una pena definitiva e restasse in cella in attesa di giudizio (definitivo) di terzo grado. Una parte significativa dei detenuti di 65 anni o più, invece, sono appartenenti alla criminalità organizzata condannati all’ergastolo e l’Italia è uno dei Paesi a livello europeo in cui il regime detentivo per chi sconta un ergastolo è più duro, in termini di permessi e di possibilità di uscire temporaneamente dal carcere. A livello mondiale risulta che negli Usa vi è un tasso di mortalità elevato, anche in età relativamente giovane, per chi sconta pene detentive lunghe mentre in Giappone molte donne commettono reati appositamente per essere incarcerate e trovare così un luogo di conforto ove sfuggire alla solitudine dell’età avanzata. Nelle carceri minorili 7 detenuti su 10 a rischio radicalismo di Maria Sorbi Il Giornale, 21 luglio 2025 La scommessa fragile degli Imam-educatori. Nel carcere minorile Beccaria di Milano sette detenuti su dieci sono musulmani, immigrati di seconda generazione (sì, i cosiddetti maranza). Una sproporzione tale rispetto agli italiani da rappresentare un’autentica bomba sociale. Da disinnescare al più presto. Vengono arrestati per rapine, violenza, spaccio. Arrivano tutti da situazioni di estremo disagio: non sono inseriti socialmente, non vanno quasi mai a scuola, detestano tutto ciò che è Occidente. E soprattutto sono facilmente manipolabili, si accendono per niente e quindi sono anche esposti a potenziali tentativi di indottrinamento e radicalizzazione jihadista. Basta che in carcere incontrino un “bro” più sicuro e incisivo che fomenti il loro rancore ed è facile che sposino concetti estremi e trasformino la loro fede religiosa in fanatismo. Da qui la decisione, in extremis, del carcere, della Diocesi, del Tribunale per i minorenni, del Viminale e dal ministero di Giustizia di introdurre un imam. Si chiama Abdullah Tchina, ha 58 anni, ed è già stato imam della comunità islamica di Sesto San Giovanni. Ovviamente non si tratta di un istigatore né invoca la sharia. L’idea è quella di introdurre una figura moderata che aiuti a placare gli odi e a evitare il fanatismo che sfocia in atti terroristici. Ma i dubbi sono molti e la decisione non piace a tutti: Riccardo De Corato, deputato Fdi, presenterà un’interrogazione al ministro Carlo Nordio: “Ma quale recupero dei maranza? - critica - l’imam peggiorerà la situazione”. “È una figura fondamentale per i ragazzi lontani dalla famiglia” spiega invece il cappellano Don Claudio Burgio. La vera domanda è: basterà a evitare estremismi in un istituto-ghetto dove due terzi dei detenuti sono musulmani? C’è una doppia emergenza (e su questo sono tutti d’accordo): i musulmani nelle carceri italiane (non solo Ipm) sono 10mila. E l’età in cui i ragazzi compiono reati legati al terrorismo o dettati dall’estremismo religioso è sempre più bassa. L’agenzia dell’Unione europea per la lotta al crimine Europol rileva che nel 2024, il 29% degli arresti legati al terrorismo nell’Ue ha riguardato minorenni o giovani adulti tra i 12 e i 20 anni. Il sovraffollamento negli Ipm conferma che i reati dei giovani stranieri sono in netto aumento: nel 2024, su 496 ragazzi detenuti nei 17 istituti, 254 erano stranieri, ovvero più della metà. Non è specificato quanti di questi detenuti stranieri siano musulmani, ma è plausibile che una parte consistente lo sia. Gli imam attivi nelle carceri, in base ai dati dell’associazione Antigone, sono 148 ma non tutti ufficialmente accreditati: per lo più si tratta di volontari. La svolta del Beccaria però potrebbe ufficializzare la figura anche negli altri carceri minorili italiani. Resta la questione della selezione degli imam da introdurre: come evitare di “arruolare” figure che non degenerino nel proselitismo anti Occidente? Anche questa questione andrà affrontata per poter garantire la sicurezza. Non va sottovalutato l’aspetto più allarmante: il carcere, secondo la fondazione Icsa, è un luogo di reclutamento e radicalizzazione molto più pericoloso rispetto a moschee e luoghi di preghiera proprio perché è molto facile far leva sulla fragilità (morale e intellettiva) dei maranza. E lo è ancora di più con il sovraffollamento di questi anni. La jihadologa Elettra Santori: “Il proselitismo? Avviene più in cella che nelle moschee” di Maria Sorbi Il Giornale, 21 luglio 2025 La jihadologa e consigliere scientifico della Fondazione Intelligence Culture and Strategic Analysis conosce bene le vie della radicalizzazione e sa che in un istituto di minori, soli, ribelli e fragili, c’è terreno a sufficienza perché cresca il fanatismo islamico. “È fondamentale togliere l’acqua alla propaganda jihadista”. Questa la lettura che Elettra Santori dà dell’ingresso dell’imam nel carcere minorile Beccaria di Milano. Lei, jihadologa e consigliere scientifico della Fondazione Icsa (Intelligence Culture and Strategic Analysis), conosce bene le vie della radicalizzazione e sa che in un istituto di minori, soli, ribelli e fragili, c’è terreno a sufficienza perché cresca il fanatismo islamico. Che ruolo svolge il carcere nei processi di radicalizzazione? “Il carcere è uno dei luoghi per eccellenza della radicalizzazione ‘faccia a faccia’, più delle moschee e dei luoghi di preghiera. L’altra via prioritaria è quella dell’autoradicalizzazione online. Anche se ormai, visto il tempo che si trascorre su internet, tra offline e online non c’è quasi più separazione, esiste un’unica bolla online in cui il virtuale fagocita la vita reale. Dal punto di vista della radicalizzazione, questo significa che i soggetti fragili, in specie minori, che entrano in questa bolla non distinguono più il reale dal virtuale e si trovano a commettere reati senza neanche rendersi conto di quello che stanno facendo”. L’età della radicalizzazione si sta abbassando? “È un fenomeno evidente. Si stanno intensificando le notizie di minori arrestati per attività con finalità di terrorismo, che a loro volta possono introdurre nelle carceri dei focolai di contagio jihadista. C’era dunque bisogno di un intervento specifico per le carceri minorili, come quello pensato per il Beccaria”. Le logiche interne al carcere - violenza, rivalità tra gruppi, ricatti - possono favorire i processi di radicalizzazione? “Certamente, come anche il sovraffollamento, che crea divisioni tra gruppi in competizione tra loro per dividersi le scarse risorse disponibili. Sono tutte situazioni che inducono i detenuti più deboli a cercare protezione presso i soggetti più carismatici. Ed è allora che emergono gli individui più estremisti e con capacità di leadership, anche religiosa, che si propongono come guide morali e spirituali per i più vulnerabili”. La fragilità personale dei detenuti può aumentare il rischio radicalizzazione? “In carcere il detenuto va incontro a un vuoto identitario che soggetti ultra-radicalizzati possono sfruttare per veicolare la narrativa jihadista. Questa condizione di fragilità personale è tanto più acuta nei minori detenuti, in cui alla vulnerabilità della detenzione si aggiungono le fragilità dell’adolescenza”. Come può venire accolto dai detenuti musulmani un imam nominato con l’avallo delle autorità? “Chi è ultra-radicalizzato, magari da lungo tempo, e ha esperienze di attività terroristica alle spalle, potrebbe vedere in un imam di nomina pubblica una figura non credibile, il rappresentante di un islam corrotto e occidentalizzato. I minori radicalizzati però sono stati esposti per un tempo minore al verbo jihadista, quindi sono tendenzialmente più recuperabili”. Qualche dubbio sulla riforma della giustizia di Luciano Violante Corriere della Sera, 21 luglio 2025 Le novità che si vorrebbero introdurre nel sistema giudiziario presentano delle criticità che andrebbero corrette. La cosiddetta riforma della giustizia, in corso di approvazione, si fonda su tre pilastri. Il primo è costituito dalla separazione dei Pubblici Ministeri dai Giudici, con due distinti Csm, uno per i pm e l’altro per i giudici. Il secondo sottrae ai magistrati il potere di eleggere i propri rappresentanti ai Csm, che sarebbero invece costituiti per sorteggio. Il terzo pilastro è costituito dall’attribuzione della funzione disciplinare ad un’Alta Corte, sottraendola ai due Csm, che manterrebbero solo le funzioni di gestione della “carriera”, dei pm l’uno, dei giudici l’altro. Un riequilibrio nei rapporti tra magistratura e istituzioni politiche, parlamento, governo, partiti, è necessario ed era stato auspicato da chi scrive nel lontano 1993, in piena Tangentopoli. Ma questo non è né un riequilibrio, né una riforma della giustizia. Non tocca la tragedia delle carceri e non rende i processi più rapidi. La separazione delle carriere è attuata in modo autolesionistico. La legge Cartabia, saggiamente, non separava i pm dai giudici, ma prevedeva la possibilità di un solo passaggio da una funzione all’altra e solo nei primi dieci anni di esercizio delle funzioni. Con questa riforma, invece i Pm diventano una istituzione separata con un proprio organo di autogoverno, pienamente indipendente, priva di vincoli gerarchici. Questa separazione accentuerà il carattere puramente investigativo, non giurisdizionale, della loro funzione, renderà più frequenti i rapporti anomali con i mezzi di comunicazione, produrrà una sorta di integrazione con la polizia giudiziaria, che sostituirà l’attuale dipendenza della polizia giudiziaria dai pm, mentre l’obbligatorietà dell’azione penale coprirebbe ogni eventuale abuso investigativo. In questa Legislatura sono state introdotte sinora circa 50 nuove figure di reato, che si triplicano se si considera che ciascuno di questi reati può essere tentato o può essere oggetto di un’associazione per delinquere. In pratica si introducono nell’ordinamento circa 150 nuove possibilità d’intervento delle Procure nella vita della società, della politica e dei cittadini; interventi obbligatori, data l’obbligatorietà dell’azione penale. L’istituzione dei pm come “casta” non è coerente con questa preoccupante espansione del loro potere d’intervento. La separazione dei pm dai giudici è prevista in quasi tutti i paesi dell’Europa continentale, ma, proprio al fine di evitare aggregazioni pericolose per i diritti di tutti, comuni cittadini e politici, e per garantire una tendenziale omogeneità dell’esercizio dell’azione penale su tutto il territorio nazionale, la separazione è accompagnata da una rigida dipendenza dal Ministro della giustizia, o, come in Portogallo, da un procuratore nominato dal Parlamento, che può anche non essere un magistrato. Nella riforma, invece, non è prevista alcuna garanzia per l’esercizio tendenzialmente omogeneo dell’azione penale. Ciascuno dei circa 2.000 pm potrà esercitare l’azione penale secondo le proprie personali preferenze. Il secondo pilastro è costituito dalla abrogazione per i magistrati ordinari del diritto di eleggere i propri rappresentanti nell’organo di autogoverno. Invece il diritto elettorale resta per i magistrati del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, istituzioni prestigiose, ma nelle quali le correnti delle diverse associazioni hanno un peso equiparabile a quello delle correnti dell’Anm. Attraverso il sorteggio si intende cancellare il rilievo delle correnti; ma è prevedibile che alcuni dei sorteggiati apparterranno comunque ad una corrente; il meccanismo quindi non impedisce la ricostituzione di quelle catene clientelari che nel recente passato, non oggi, hanno devastato il funzionamento e l’immagine del Csm. Passiamo al terzo pilastro. L’Alta Corte ha la competenza disciplinare sia nei confronti dei pm che nei confronti dei giudici. È composta da quindici membri, tre nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio, tre estratti a sorte da un elenco di soggetti con gli stessi requisiti, che il Parlamento in seduta comune, elegge entro sei mesi dall’insediamento e, infine, da sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni in Cassazione. Al di là del barocchismo della procedura di nomina, la riforma lascia in ombra due aspetti non secondari. Oggi i procedimenti disciplinari possono essere avviati o dal Ministro della Giustizia o dal Procuratore Generale (Pg) presso la Corte di Cassazione. Il primo ha sempre fatto un uso assai parco di questa prerogativa; quando l’ha esercitata ha poi demandato al Pg presso la Cassazione la concreta gestione del procedimento disciplinare. Ma domani il Pg della Cassazione, ormai del tutto separato dai giudici, potrà esercitare o gestire adeguatamente l’azione disciplinare nei loro confronti? Il secondo aspetto lasciato nel buio dalla riforma riguarda l’impugnazione. Secondo la riforma “Contro le sentenze emesse dall’Alta Corte in prima istanza è ammessa impugnazione, anche per motivi di merito, soltanto dinanzi alla stessa Alta Corte”. Non sarebbe perciò applicabile ai magistrati l’art. 111 della Costituzione che fissa un principio generale dell’ordinamento, garantendo a tutti i cittadini il diritto a ricorrere in Cassazione per motivi di legittimità (conformità alla legge) contro tutte le sentenze. I magistrati sarebbero privati di un diritto garantito a tutti gli altri cittadini? Probabilmente non è questo l’intento, ma un chiarimento sarebbe necessario. L’applicazione della riforma non è immediata; qualora superi il referendum, entrerà in vigore quando il Parlamento approverà le norme applicative. È sperabile che nel corso del lavoro di redazione di queste norme, ci si renda conto della necessità di correggere alcuni errori. Così Nordio vuole il sistema Turchia di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 21 luglio 2025 Sconcertanti, prima ancora che non condivisibili, sono talune esternazioni del ministro della Giustizia Nordio. C’è da chiedersi se esse siano il frutto meditato della questione affrontata o invece improvvisazioni tese a ottenere qualche titolo di giornale e attizzare il solito “scontro politica-magistratura”. È il caso dell’ultima, che promette di vietare al pubblico ministero l’impugnazione delle sentenze assolutorie di primo grado, come reazione al ricorso in Cassazione della procura della Repubblica di Palermo, contro la sentenza del Tribunale nel processo che ha visto imputato il ministro Salvini. Ignorando che la Costituzione all’art. 111 stabilisce che contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. A meno che il ministro abbia in animo di modificare anche su questo la Costituzione. E così anche le dichiarazioni subito precedenti. Il ministro, come riferito dai giornali, ha detto che un magistrato in servizio si è permesso di indicare su un giornale tutti gli errori fatti dal ministro nel caso Almasri. “Davanti a un magistrato che si permetta di censurare su un giornale un ministro per le cose che ha fatto, in qualsiasi Paese al mondo avrebbero chiamato gli infermieri. Potrebbe essere oggetto di valutazione…”. Si riferiva il ministro alle opinioni espresse nel corso di un dibattito anche tecnico-giuridico da un magistrato prima su una rivista giuridica e poi sintetizzate su un quotidiano a proposito dello sviluppo - atti assunti e atti omessi - della mancata esecuzione dell’ordine di arresto emesso dalla Corte penale internazionale nei confronti del libico Almasri. Con l’ultimo cenno alla possibile “valutazione” il ministro suggeriva evidentemente l’eventualità di una sua azione disciplinare contro il magistrato. Secondo il ministro il comportamento del magistrato sarebbe cosa da pazzi in ogni Paese al mondo. Ci sono certo Paesi in cui quel magistrato finirebbe in manicomio. Ma probabilmente il ministro avrebbe difficoltà a mostrarli come esempi. È però vero che non è del solo nostro ministro il desiderio di ministri ed esponenti politici di tappare la bocca ai magistrati e alle loro associazioni. A dire il vero, stando alle dichiarazioni riportate dai giornali, sembra che il ministro Nordio voglia far tacere le dichiarazioni critiche, non quelle adesive, di apprezzamento. Non per queste, che non ne hanno bisogno, è però garantita la libertà di espressione. Ma in tempi recenti abbiamo esempi di tentativi di ottenere il silenzio dei magistrati e delle loro associazioni con sanzioni disciplinari in Turchia, Moldova, Ungheria, Bulgaria, Romania, che hanno portato a condanne di quei Paesi da parte della Corte europea dei diritti umani. Significativo, in rapporto all’opinione del ministro Nordio, è anche quanto avvenuto in Francia due anni orsono, quando nel discutere un testo di legge in materia di giustizia, vi fu una proposta in Senato di delimitare un aspetto della comunicazione pubblica dei magistrati e dei loro gruppi associativi. Si diceva che troppo spesso i sindacati dei magistrati intervengono con dichiarazioni su temi politici non direttamente collegati con lo statuto dei magistrati e il funzionamento della giustizia. Soltanto su tali materie le organizzazioni dei magistrati (in Italia le “correnti” della Associazione nazionale magistrati, altrove le varie associazioni) dovrebbero esprimere le loro opinioni. La proposta non ha poi avuto seguito, ma la vicenda è comunque significativa. Essa però in nessun modo sostiene l’illiberale insofferenza manifestata dal ministro Nordio. Su un terreno del tutto diverso va considerata la speciale posizione dei magistrati, dipendente sia dalla funzione che essi svolgono nei singoli casi giudiziari, sia in generale nella architettura dei poteri dello Stato. In effetti anche la Convenzione europea dei diritti umani nel prevedere il diritto alla libertà di espressione, nota che essa comporta doveri e responsabilità, che però non implicano un obbligo di essere d’accordo e appoggiare i ministri. Come è ovvio ed è riconosciuto dalla Corte europea, quella libertà vale non soltanto per le informazioni o le idee che sono accolte con favore o sono considerate inoffensive o indifferenti, ma anche per quelle che urtano, colpiscono, inquietano lo Stato o una qualunque parte della popolazione. Anche e forse soprattutto quando si tratta del potere politico. È questa un’esigenza propria del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza i quali non esiste società democratica. La libertà di espressione, garantita dalla Costituzione e dalla Convenzione europea, è assicurata anche ai magistrati. Essi possono esprimersi liberamente, e anzi dalla Corte europea dei diritti umani è venuta l’affermazione che, in materia di organizzazione e funzionamento della amministrazione della giustizia, vi è un obbligo per i magistrati di esprimersi, per contribuire al chiarimento dei termini dei problemi che il legislatore affronta e per difendere autonomia e indipendenza della magistratura. Secondo la Corte si ha ragione di aspettarsi che il magistrato si avvalga della libertà di espressione con discrezione e misura, ma il fatto che un dibattito su tali temi abbia anche implicazioni politiche non è ragione per impedire a un magistrato o a una associazione di magistrati di esprimersi in proposito. E quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, come un dirigente di un’associazione di magistrati, egli ha il dovere e non solo il diritto di intervenire su questioni che riguardano il funzionamento della giustizia. De Raho: “Le loro leggi puntano a intralciare il lavoro delle toghe” di Giuliano Foschini La Repubblica, 21 luglio 2025 Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia, oggi deputato del Movimento 5 Stelle. Perché dite che questa riforma della giustizia è un attacco alla Costituzione? “Credo che il punto sia ancora più generale. E cioè quello che il governo e l’attuale maggioranza politica hanno fatto in materia di giustizia”. A cosa fa riferimento? “Dall’inizio della legislatura hanno cancellato il reato di abuso d’ufficio, ridimensionato il reato di traffico di influenze, minato lo strumento delle intercettazioni, quasi reintrodotto l’istituto della prescrizione dei reati”. Non serviva una razionalizzazione dei reati? “Certo, ma non l’hanno attuata, introducendo, oltre 50 reati, che concorrono a ingolfare il lavoro della magistratura; alcuni di questi reati limitano la libertà di manifestazione del pensiero, costituzionalmente riconosciuta, perché sanzionano le espressioni del dissenso. All’aumento dei reati si accompagna l’aumento del lavoro delle forze dell’ordine, i cui organici sono ridotti di più del 20 per cento”. Crede che sia un governo che si mostra debole con i forti? E forte con i deboli? “Credo che ci siano norme che vanno in questo senso. Hanno introdotto l’obbligo dell’interrogatorio prima dell’esecuzione della misura cautelare personale, esponendo le vittime di reati, anche gravi, al rischio di vendette e di minacce finalizzate alla ritrattazione o, anche di fuga dell’indagato. E nello stesso tempo hanno indebolito la funzione giurisdizionale della Corte dei conti e ridotto la responsabilità erariale nel corso degli appalti e delle decisioni amministrative di attuazione del Pnrr, con riflessi significativi sui controlli della spesa pubblica e, quindi, anche sull’uso del denaro dei contribuenti”. Perché la separazione delle carriere? “L’obiettivo è rendere mansueti i magistrati e condizionarne l’operato. La legalità per questo governo e questa maggioranza è un orpello, per non dire un ostacolo: lo dimostra non aver dato esecuzione al mandato di arresto della Cpi sul generale libico Almasri. O aver blindato il mantenimento del ruolo di sottosegretario di Delmastro, condannato per rivelazione di atti riservati, utilizzati per attaccare l’opposizione con gravi accuse”. Crede che sia in gioco l’indipendenza della magistratura? “Da due anni assistiamo ad attacchi durissimi, scomposti e istituzionalmente inquietanti alla magistratura da parte di esponenti del governo Meloni e della sua maggioranza. Diversi provvedimenti del centrodestra mirano a limitare, intralciare e scoraggiare il lavoro dei pm. Guardate cosa è successo con le intercettazioni: per riformarle il ministro Nordio ha anche detto che i mafiosi non parlano per telefono. Messina Denaro è stato catturato proprio con le intercettazioni. Credo che il governo e la maggioranza intendano la riforma della giustizia come strumento per realizzare la supremazia e il controllo della politica sulla magistratura e garantire l’impunità dei cosiddetti colletti bianchi, con riduzione della libertà di informazione e di manifestazione del dissenso da parte dei cittadini”. Interrogatorio e condanna “preventivi”, un cortocircuito pericoloso di Francesco Petrelli* Il Foglio, 21 luglio 2025 L’interrogatorio “preventivo” si sta trasformando in una “condanna pubblica preventiva”. Un cortocircuito pericolosissimo che rischia di pregiudicare un iter procedimentale garantista pensato a protezione e salvaguardia degli indagati. Lo aveva detto qualche anno fa la Corte di Cassazione, in una sua nota decisione sui fatti di una presunta corruzione metropolitana, che non si doveva correre il rischio di “criminalizzare” indiscriminatamente i rapporti fra imprenditori e politici. Ma nonostante il condivisibile monito, la trasposizione di qualsiasi relazione personale dal piano del lecito a quello dell’illecito, aiutati da norme e giurisprudenze che si prestano all’operazione, appare così agevole da rendere purtroppo del tutto ineffettiva quella autorevole raccomandazione. Abbiamo così visto crescere nelle cronache, di giorno in giorno, le ipotesi di corruzione e di induzione per via delle sollecitazioni trasformate in “pressioni politiche sistemiche e coordinate”. Sebbene per i fatti milanesi non si possa certamente parlare di una nuova “tangentopoli”, si assiste tuttavia a una radicalizzazione e cronicizzazione dei suoi peggiori effetti collaterali. Da un lato, l’universale eclissi (ce lo ha ricordato di recente anche l’Europa) di una mai interiorizzata presunzione d’innocenza, dall’altro la più estesa e doviziosa violazione del segreto dell’indagine in corso, con la conseguente gogna mediatico-internazionale che travolge impunemente politici, operatori, imprese e istituzioni. Se una novità, certo non positiva, illumina il contesto giudiziario è quella costituita dalla sperimentazione collettiva dell’interrogatorio “preventivo”. Se un tempo la gazzarra mediatica si sarebbe infatti accanita sui provvedimenti cautelari a cose fatte, allo scattare delle manette, ora, in virtù della nuova legge sulle misure cautelari, gli atti dell’indagine vengono diffusi, commentati e giudicati prima ancora che il giudice decida. L’interrogatorio “preventivo” si trasforma così in una “condanna pubblica preventiva”. Un cortocircuito pericolosissimo che rischia di pregiudicare un iter procedimentale garantista pensato a protezione e salvaguardia degli indagati, e che invece, così esposto all’assalto dei media, finisce con l’inquinare e alterare un passaggio giurisdizionale delicatissimo che dovrebbe, invece, maturare nel più prudente silenzio e nel massimo riserbo. Fra sindaci, professionisti e imprenditori, c’è così chi scopre dai giornali di essere indagato o chi, sulla base di una manciata di battute opportunamente tratte da una chat, o di una qualche cointeressenza dedotta da un risalente rapporto professionale, si vede attribuito il presunto “sinallagma corruttivo”. Ovvio che un simile innesco cultural-giudiziario mette a disposizione tutta la sua devastante e irreversibile carica distruttiva ai danni della politica, come è già accaduto in molteplici importanti amministrazioni cittadine negli ultimi anni. È infatti ovvio che intorno ai più rilevanti interessi economici, che riguardano lo sviluppo urbanistico delle nostre città, fra costruzione di stadi, edilizia residenziale e centri commerciali e dirigenziali, si aprono necessariamente spazi di interlocuzione fra le imprese più rampanti e i decisori politico-amministrativi, nell’ambito dei quali il discrimine fra il giudizio etico-deontologico e quello del penalmente rilevante si fa inesorabilmente sottile. Il profilo dei limiti stessi della discrezionalità politica apre a questioni piuttosto sofisticate, la cui lettura appare tuttavia a sua volta inevitabilmente innervata da pregiudizi ideologici. Si tratta di questioni tanto complicate da sciogliere, quanto inevitabili all’interno di ogni moderna democrazia, altrettanto inevitabilmente produttive di conflitti fra i poteri dello stato, tanto più laceranti quanto più si mostra evidente - come nel nostro paese - l’asimmetria nel rapporto tra gli stessi. Il problema, dunque, non è altrove ma va ricercato proprio nella nostra deleteria predilezione per lo strumento penale come unico strumento salvifico e come presunto rimedio democratico alle debolezze della politica e alla mancanza di una condivisa idea di sviluppo civile. *Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Rende non era in mano ai clan. Ma il Comune fu sciolto di Valentina Stella Il Dubbio, 21 luglio 2025 Tra gli assolti perché “il fatto non sussiste” anche l’ex sindaco Marcello Manna, accusato di aver siglato un patto con la ‘ndrangheta: “Anni difficili. La politica è subalterna al potere giudiziario”. Giovedì il Tribunale di Cosenza si è espresso in merito all’inchiesta denominata “Reset”, condotta dalla Dda di Catanzaro, all’epoca guidata da Nicola Gratteri, contro la ‘ndrangheta cosentina: 61 condanne e 63 assoluzioni. L’inchiesta del 2022 era esplosa con un clamore mediatico travolgente, come di solito avviene in certe località calabresi. Arresti in grande stile, volanti, elicotteri, uomini in divisa che circondavano il Comune che fu appunto sciolto nel 2023 per presunte infiltrazioni mafiose. Ma a distanza di due anni, si scopre che era tutto infondato e che è stata mandata a casa per via giudiziaria una amministrazione sana. Tra gli assolti eccellenti, con la formula piena del “fatto non sussiste”, proprio l’ex sindaco di Rende, Marcello Manna, accusato ingiustamente di aver siglato un patto elettorale politico mafioso con una famiglia malavitosa. L’uomo, che di professione fa l’avvocato, fu posto allora agli arresti domiciliari per trenta giorni. Inoltre il ministero dell’Interno decise anche per la sua futura incandidabilità: contro questo provvedimento Manna aveva presentato ricorso e la Corte di Appello di Catanzaro gli aveva dato ragione. Difeso dagli avvocati Nicola Carratelli e Gian Domenico Caiazza, commenta ora al Dubbio: “La giustizia ha parlato. E ha detto la verità: sono stato assolto con formula piena. Ho vissuto anni difficili, sotto attacco, travolto da un processo mediatico che ha cercato di farmi a pezzi prima ancora che un giudice potesse esprimersi. Tuttavia io non ho mai smesso di credere nella verità che i magistrati giudicanti hanno sancito con questa sentenza”. Ha aggiunto: “Purtroppo qui quando parlano la magistratura requirente e le prefetture nessuno, dico nessuno, da destra a sinistra, ha il coraggio di dire qualcosa. Abbiamo una politica subalterna al potere giudiziario e prefettizio”. Questa vicenda, per Manna, dunque “è davvero inquietante. Oggi dunque verrebbe da chiedersi “e quindi? Siamo stati sciolti per che cosa?”. Il vero guaio è che, chi doveva controllare prima, non lo ha fatto. La Prefettura che doveva fare le verifiche purtroppo non le ha fatte. È un fatto grave, è stata offesa una comunità, una città, un’amministrazione che ha avuto l’unica colpa di essere una amministrazione libera, autonoma, trasparente e non vincolata a nessun partito e che stava lavorando bene”. Manna ricorda come “Rende non sia l’unico Comune ad essere stato sciolto negli anni in Calabria. Pare esserci un disegno politico preciso dietro a tutto questo. Purtroppo la nostra regione appare sempre più sottomessa a certe logiche di centri di potere che ancora cercano di opporsi alla volontà dei cittadini”. Il politico poi si chiede: “chi pagherà per tutto questo? Chi si prenderà la responsabilità di aver leso i diritti democratici dei cittadini di Rende? Qualcuno pensa a delle dimissioni?”. Infatti per Manna, “siamo stati colpiti non solo sul piano personale, ma devastati anche sul piano istituzionale, e questo è di una gravità senza precedenti. Cosa che, secondo me, non può passare inosservata. Se passa inosservato tutto questo nella nostra terra, vuol dire che non abbiamo futuro. Dobbiamo fare una riflessione tutti”. Questa assoluzione, tra l’altro, arriva dopo che anche la parallela inchiesta Malarintha, condotta dalla Procura di Cosenza, si era già chiusa con una serie di archiviazioni e assoluzioni per i componenti della giunta Manna. A commentare la decisione di due giorni fa anche Elisa Sorrentino, ex assessora alle pari opportunità nell’amministrazione Manna: “La sentenza di assoluzione cancella ogni ombra, ma non potrà mai cancellare il dolore e l’umiliazione di chi ha visto la propria vita pubblica e personale travolta da una spettacolarizzazione”. Piemonte. Monica Formaiano nuovo Garante dei detenuti, Mellano lascia dopo 11 anni di Andrea Joly La Stampa, 21 luglio 2025 Il Consiglio regionale domani nomina l’ex assessora meloniana. “Corpi ammassati in celle chiuse, spazi inadeguati, tensione alle stelle, condizioni igienico-sanitarie inaccettabili, educatori e poliziotti in difficoltà”. È la cartolina delle carceri piemontesi del rapporto Antigone che verrà presentato giovedì a Palazzo Lascaris. Lì dove, domani, il Consiglio regionale nominerà - dopo vari rinvii in attesa dell’accordo - il nuovo garante dei detenuti piemontese. Al posto di Bruno Mellano, che dopo 11 anni non sarebbe potuto essere rinnovato, la maggioranza si sarebbe messa d’accordo sul nome dell’ex assessora alessandrina Monica Formaiano, avvocata di famiglia socialista con un passato in Forza Italia (fu assessora con Cuttica sindaco) e poi candidata alle Regionali 2024 con Fratelli d’Italia. Lo stesso partito del sottosegretario alla Giustizia con delega alle carceri Andrea Delmastro. La rosa dei candidati sul tavolo del Consiglio regionale contava 18 nomi. “Nove dei quali - racconta Mellano - sono o sono stati garanti dei detenuti in Piemonte”. Anche per questo 24 garanti ed ex garanti piemontesi nei mesi scorsi avevano scritto una lettera aperta per chiedere, in fase di nomina, di “considerare il background di chi ha sviluppato una formazione culturale, sociale ed empatica nei confronti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà e della comunità penitenziaria”. Tradotto: scegliere qualcuno che avesse già “l’empatia e la competenza necessari - riassume Mellano - come chi il garante l’ha già fatto. E auspico che l’appello sia ascoltato”. Formaiano non sarebbe adatta al ruolo? “Non so chi sarà il prossimo garante dei detenuti - premette Mellano - e non conosco la dottoressa Formaiano. Io sono pronto a collaborare con tutti. Ma al mio posto auspico, come i firmatari della lettera, che venga scelto qualcuno che già conosce il ruolo: i candidati non mancano. E che potrà essere autonomo e indipendente rispetto a chi lo nomina”. Tant’è, il posto di Mellano sembra diretto verso un’ex assessora di FdI che verrà nominata domani (insieme al rinnovo di Beatrice Borgia alla presidenza di Film Commission). Anche il mandato dell’attuale garante dei detenuti del capoluogo, Monica Gallo, è in scadenza il 31 luglio e non è rinnovabile. In quel caso la nomina è nelle mani del sindaco Stefano Lo Russo che avrà massimo 45 giorni per scegliere. L’obiettivo di Mellano? “Continuare a lavorare sulle nostre carceri”. Al Lorusso e Cutugno, oggi, ci sono oltre 1.500 detenuti per una capienza di 1.126. E servono interventi strutturali, come quelli sul Padiglione C per cui sono già stati stanziati 10 milioni: “Ma non si può intervenire coi detenuti al suo interno - spiega Mellano - serve che il governo crei posti alternativi o che il carcere di Alba finalmente riapra per trasferirli temporaneamente lì”. Massa Carrara. Detenuto di 30 anni si toglie la vita in carcere di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 21 luglio 2025 Si è tolto la vita nel carcere di Massa un detenuto marocchino di circa trent’anni. L’uomo, in arresto per minacce, era arrivato nel penitenziario pochi giorni fa, il 16 luglio. Gli erano stati revocati gli arresti domiciliari. Aveva già tentato il suicidio qualche ora prima ma era stato salvato all’ultimo minuto. Secondo Eleuterio Grieco, segretario regionale della Uil Pa, l’uomo non sarebbe dovuto essere nel carcere di Massa che è destinato a detenuti che hanno pene più lunghe, a differenza dell’uomo. Un carcere piuttosto problematico, quello di Massa, visto che sono presenti 272 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 176. Molte celle da due posti ospitano tre reclusi. Latina. Detenuto morto per un malore: il caso riaccende i riflettori sulle condizioni delle carceri di Matteo Scarlino latinatoday.it, 21 luglio 2025 Caldo, sovraffollamento, carenza di personale. Il quadro del sindacato, le reazioni della politica. Era stato portato in ospedale per un malore e poi dimesso. Una volta rientrato in carcere si è sentito di nuovo male. E questa volta il secondo malore è stato fatale per un detenuto del casa circondariale di Latina, che ha perso la vita nei giorni scorsi. Il caso riapre ora l’annosa questione delle condizioni delle carceri del Lazio, spesso critiche per il sovraffollamento, la carenza di organico del personale, il caldo. “La recente tragedia avvenuta all’interno della casa circondariale di Latina, dove un detenuto ha perso la vita dopo un secondo malore, ci ricorda con forza quanto sia urgente intervenire sulle condizioni del nostro sistema penitenziario - dichiara il senatore di FdI, Nicola Calandrini - Esprimo il mio cordoglio alla famiglia del detenuto e la mia piena solidarietà agli operatori e alla polizia penitenziaria, che lavorano ogni giorno con grande professionalità e dedizione, spesso in condizioni critiche”. La situazione della casa circondariale di via Aspromonte, che conta 139 detenuti a fronte di 77 posti disponibili, è emblematica di un sistema sotto pressione. “Ma è anche il segno di decenni di immobilismo che finalmente stiamo affrontando con responsabilità e concretezza - aggiunge il senatore Calandrini - Come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione, la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Questo principio non può prescindere da ambienti dignitosi, sicuri e funzionali, per i detenuti, ma anche per chi ogni giorno svolge il proprio lavoro dietro le sbarre. Rieducazione significa anche umanità, e l’umanità passa dai luoghi. Il Governo Meloni ha avviato un piano straordinario di investimenti nell’edilizia penitenziaria, con nuove strutture, ristrutturazioni e un rafforzamento degli organici della Polizia Penitenziaria. È un percorso che richiede tempo, ma è già in atto. A Latina, grazie all’impegno del sottosegretario Delmastro, si è svolto un sopralluogo istituzionale proprio per valutare, dopo anni di immobilismo, l’ipotesi concreta di realizzare un nuovo carcere fuori dal centro cittadino: una soluzione strategica per alleggerire il quartiere, garantire maggiore sicurezza e restituire dignità alla funzione detentiva. Il carcere deve essere un luogo che garantisca legalità, ordine e recupero. Non servono slogan o scorciatoie: servono impegno, visione e rispetto per la dignità di tutti. Continuerò - conclude Calandrini - a seguire da vicino l’evoluzione della vicenda, con l’obiettivo di offrire a Latina una struttura adeguata e all’altezza del compito che la Costituzione ci affida”. A fare il punto della situazione del sistema penitenziario è Massimo Costantino, segretario della Fns Cisl Lazio: “Purtroppo registriamo che il sovraffollamento nelle carceri è pari a 1.403. Questi i numeri dei detenuti in più nelle carceri della regione Lazio, un dato aggiornato al 30 giugno 2025, dove la capienza regolamentare prevista è di 5.307 mentre in carcere sono presenti 6.710 detenuti. La carenza di personale di polizia penitenziaria nella regione Lazio è invece di 900 unità. In ambito nazionale 10.105 sono i detenuti cosiddetti definitivi, con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi, da quelli ostativi di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi. Sono potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere e occorre urgentemente intervenire sulla questione. È sempre più urgente rilanciare gli investimenti e le assunzioni della polizia penitenziaria, affrontando anche il drammatico sovraffollamento delle strutture carcerarie, che nega una vita dignitosa alla popolazione detenuta, allontana l’obiettivo della riabilitazione ed espone gli operatori e gli addetti alla sicurezza a stress, rischi e tensioni inaccettabili. Ricordiamo che solo alcuni giorni fa un detenuto è morto suicidandosi a Frosinone, mentre un altro è deceduto a Latina per un malore”. Cagliari. La chef Laura Sechi insegna alta cucina alle detenute: è il progetto “Le mani in pasta” cagliaritoday.it, 21 luglio 2025 L’idea nasce per promuovere una mentalità “imprenditoriale” per un futuro di emancipazione lontano dalle sbarre e carico di prospettive. Saper realizzare prodotti alimentari tradizionali di qualità e confezionarli nel rispetto delle norme igienico-sanitarie per poterli vendere a privati e/o a ristoranti o alle gastronomie garantendo quindi tipicità e salubrità. Sono state le caratteristiche del progetto “Le Mani in Pasta”, il corso di pasta fresca tipica della Sardegna e dolci, curato dalla chef Laura Sechi di Vitanova di Cagliari. Una scommessa, promossa dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha consentito a 4 detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta di ottenere anche l’attestato di partecipazione al corso di sicurezza alimentare (AHCCP) curato da Alberto Manca dell’omonimo studio di prevenzione cagliaritano. “Non si è trattato semplicemente di far apprendere le tecniche per confezionare malloreddus, ravioli con formaggio o ricotta, culurgiones con la menta o lorighittas - ha precisato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione SDR - ma di promuovere nelle detenute una mentalità “imprenditoriale” per un futuro di emancipazione, lontano dalle sbarre e carico di prospettive. Le ragazze hanno appreso a lavorare in team a rispettare i ruoli e a utilizzare la manualità secondo protocolli molto rigidi”. “Per me - ha affermato Laura Sechi, che ha insegnato alle detenute anche i “segreti” per realizzare dolci, creme e torte - si è trattato di un’importante esperienza professionale e umana. Le ragazze erano fortemente motivate, attente, prendevano appunti e seguivano le lezioni con trasporto. Professionalmente ho riscontrato quella caratteristica passione che anima chi non apprende una tecnica solo per se stessa ma perché sente di poter condividere con altre persone il frutto del suo lavoro. Sono stati incontri importanti anche per me. Non a caso anziché 5 appuntamenti il corso è arrivato a otto lezioni”. Il percorso formativo sarà completato martedì 22 luglio nella cucina della sezione femminile della Casa Circondariale quando alle 12, nel corso di una conferenza stampa alla presenza del Direttore Pietro Borruto e della Responsabile dell’Area Educativa Giuseppina Pani verranno consegnati gli attestati, Seguirà un assaggio delle produzioni alimentari delle detenute. “Le mani in pasta” si è avvalso dei prodotti della Crai Sardegna Supermercati e del sostegno finanziario della Fondazione di Sardegna e della Grendi Holding SPA Benefit. L’Italia e il “no” al piano dell’Oms: scelta sbagliata di Sergio Harari Corriere della Sera, 21 luglio 2025 Il nostro Paese, in due recenti occasioni, ha preso posizioni francamente discutibili che la pongono in una pericolosa situazione di marginalità e isolamento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità è un’istituzione non esente da critiche e con limiti che sono apparsi evidenti nella gestione della pandemia del 2020 e che erano già emersi in passato in occasione dell’emergenza causata dall’influenza suina nel 2009-10, ma resta un presidio fondamentale di sanità pubblica mondiale. L’Italia, in due recenti occasioni, ha preso posizioni francamente discutibili che la pongono in una pericolosa situazione di marginalità e isolamento. La prima è avvenuta a fine maggio di quest’anno, quando si è astenuta sul nuovo accordo pandemico globale insieme a Russia, Iran, Bulgaria, Polonia, Giamaica, Israele, Romania, Paraguay, Guatemala e Slovacchia. La seconda pochi giorni fa quando ha deciso di non approvare gli emendamenti al regolamento sanitario internazionale proposti dall’OMS, unico Paese il nostro a assumere questa posizione insieme agli USA, la cui politica sanitaria è oggi dettata da una figura a dir poco discutibile come Robert Kennedy Jr, il no vax dichiarato, che in queste settimane è alle prese con la più importante epidemia di morbillo che il suo Paese abbia registrato negli ultimi 25 anni, proprio a causa del calo di copertura vaccinale. Pensare di fare da soli, di difendere la propria sovranità nazionale nella gestione di una pandemia è semplicemente assurdo e qualsiasi persona dotata di buon senso può rendersene conto ripensando al 2020, come se i virus riconoscessero i confini nazionali. Credere a una “indipendenza sanitaria” in un mondo globale è puro oscurantismo fuori tempo. Una nuova pandemia ci troverebbe solo più deboli, isolati e scoordinati rispetto al resto del mondo civile. Come se non bastasse ci siamo così auto-esclusi dalla possibilità di dire la nostra sulle decisioni che vengono prese collegialmente, con il rischio aggiuntivo di avere regole diverse da tutti gli altri per la mobilità dei nostri cittadini. Avrebbe avuto molto più senso rafforzare la nostra presenza in questa istituzione, che malgrado le sue criticità resta fondamentale per la gestione delle politiche mondiali di sanità in una realtà sempre più globale. Speriamo si voglia tornare indietro su queste posizioni ideologiche prive di qualsiasi razionalità scientifica. Tre italiani su quattro favorevoli all’eutanasia, mentre la politica rimanda la legge sul fine vita di Alessandra Ghisleri La Stampa, 21 luglio 2025 Il 65% degli intervistati chiede la convocazione di un referendum per essere coinvolto nella scelta. Il tema dell’eutanasia - a cicli alterni - torna con forza al centro del dibattito pubblico italiano, spinto da numeri che parlano chiaro: il 93,4% dei cittadini conosce il significato del termine, e ben il 75,3% si dichiara favorevole alla sua legalizzazione, cioè con l’intervento delle istituzioni sanitarie aiutare una persona a morire per alleviare le sue sofferenze legate a malattie incurabili e su esplicita richiesta del paziente. Sono questi i dati di un sondaggio di Only Numbers i cui dati evidenziano un livello di consapevolezza e una volontà popolare difficili da ignorare. In un Paese dove la politica continua a rimandare una legge chiara sul fine vita, la società civile sembra invece avere le idee piuttosto chiare. La crescente attenzione verso il tema è alimentata da un confronto sempre più aperto, sostenuto da varie associazioni -come ad esempio l’Associazione Luca Coscioni che ha depositato in Senato 74.000 firme per la proposta di legge per legalizzare l’eutanasia in Italia - da campagne informative e da casi giudiziari che hanno riportato la questione sotto i riflettori dell’opinione pubblica. La richiesta è netta: garantire la possibilità, per chi si trova in condizioni di sofferenza insostenibile o malattia irreversibile, di poter scegliere una morte dignitosa. Una posizione condivisa da una larga maggioranza degli italiani, che vede nella legalizzazione dell’eutanasia non una fuga dalla vita, ma un atto di autodeterminazione e rispetto della persona. Riconosciuto con la polarizzazione maggiore proprio dai più giovani (87.8%). Tuttavia, la posizione favorevole non è incondizionata: la maggior parte degli intervistati ritiene che l’eutanasia debba essere consentita solo in casi specifici, ovvero quando una persona è affetta da una malattia terminale, accompagnata da grandi sofferenze fisiche o psicologiche (49.8%), e con l’esplicito consenso del paziente (31.4%). Solo il 2.5% ha indicato il consenso esplicito del medico curante. Una posizione di equilibrio, che tiene insieme il rispetto per la dignità umana e la necessità di criteri rigorosi. Il messaggio che arriva è chiaro: gli italiani non chiedono una liberalizzazione indiscriminata, ma una legge chiara, che tuteli la libertà di scelta in situazioni limite, dove ogni alternativa alla sofferenza è venuta meno. Una cosa è certa: la società italiana è pronta ad affrontare con maturità il tema dell’eutanasia. Chiede tutele, regole e umanità. A rafforzare questa volontà popolare è anche un altro dato significativo: il 65,2% degli italiani sarebbe favorevole alla convocazione di un referendum sul tema. Un segnale forte, che indica come una larga parte della popolazione voglia essere direttamente coinvolta in una decisione di portata etica e sociale così profonda… e, toccando corde così personali, forse sarebbe più facile un’ampia mobilitazione popolare. Un altro punto chiave riguarda la questione giuridica. Il secondo articolo del disegno di legge attualmente in discussione propone la modifica dell’articolo 580 del Codice penale, introducendo una clausola di non punibilità per chi agevola il suicidio medicalmente assistito, purché siano rispettati requisiti medici e legali precisi. Su questo punto, il 71.8% degli italiani è favorevole, evidenziando un consenso ampio anche su aspetti normativi molto tecnici, ma centrali nel dibattito. Nonostante la Corte Costituzionale abbia già sollecitato il Parlamento ad affrontare la questione con una normativa adeguata, ad oggi in Italia non esiste ancora una legge che disciplini in modo organico il ricorso all’eutanasia. La situazione resta ambigua, con differenze di trattamento tra Regioni e con persone costrette, in alcuni casi, a rivolgersi all’estero - in Svizzera nella maggior parte dei casi conosciuti - per far valere il proprio diritto a scegliere. I dati sul consenso diffuso potrebbero rappresentare un segnale forte per le istituzioni: la società è pronta. Ora la palla passa alla politica, chiamata a colmare un vuoto normativo che incide profondamente sulla vita - e sulla morte - di molti cittadini. Tonnellate di cibo buttate pur di non darle a chi ha fame: l’ultimo scandalo di Elena Molinari Avvenire, 21 luglio 2025 Ci sono aiuti alimentari bloccati in tutto il mondo, dopo la decisione americana di chiudere l’agenzia per la cooperazione. Un esempio? Le scorte conservate nei magazzini arabi saranno distrutte. Meno di tre settimane dopo la chiusura finale di Usaid, centinaia di tonnellate di razioni alimentari di emergenza saranno distrutte a causa dell’annullamento dei programmi che le dovevano distribuire, mentre altre migliaia sono prossime alla scadenza. A gennaio, l’Amministrazione Trump ha cominciato a smantellare l’agenzia, chiuso il suo quartier general a Washington, eliminato prima l’83% dei suoi programmi e poi, il primo luglio, cessato del tutto l’erogazione di aiuti esteri, trasferendo la competenza dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (da oltre 60 anni la più grande organizzazione di aiuti umanitari al mondo) al dipartimento di Stato. Il blocco e i tagli, che hanno portato al licenziamento di migliaia di dipendenti e collaboratori di Usaid, hanno gettato nel caos le operazioni umanitarie globali e ora stanno causando ritardi e vergognosi sprechi. Un portavoce del dipartimento di Stato ha confermato ieri a Reuters che 496 tonnellate di biscotti ad alto valore nutritivo, preparati per far fronte alle emergenze alimentari e prossime alla scadenza in un magazzino del governo statunitense a Dubai saranno distrutte. Ha aggiunto che le scorte, per un valore di 793mila dollari, erano state “acquistate come riserva di emergenza” durante l’Amministrazione di Joe Biden. I biscotti sprecati saranno smaltiti in discarica o inceneriti negli Emirati Arabi Uniti. Ciò costerà al governo statunitense altri 100mila dollari. La decisione di chiudere l’Usaid ha lasciato più di 60mila tonnellate di aiuti alimentari bloccati in tutto il mondo, e solo la denuncia di vari media statunitensi di “sperpero di denaro pubblico” ha spinto un alto funzionario statunitense a stipulare un accordo per la distribuzione di una parte delle forniture, risparmiando 622 tonnellate di biscotti ad alto contenuto energetico dall’incenerimento. Donald Trump ha più volte accusato l’agenzia di avere sprecato miliardi di fondi e che la sua eliminazione rientra nell’ambito degli sforzi dell’Amministrazione di ridimensionare il governo federale e ridurre le spese. Questa argomentazione, però, si scontra con un nuovo studio pubblicato dalla rivista medica Lancet che stima che i programmi Usaid abbiano salvato oltre 90 milioni di vite negli ultimi due decenni. I ricercatori prevedono inoltre che, se i tagli attuali continueranno fino al 2030, 14 milioni di persone che altrimenti avrebbero potuto sopravvivere potrebbero morire. Sin dalla sua fondazione nel 1961, Usaid ha finanziato un’ampia gamma di programmi, dalla distribuzione di pranzi scolastici ai bambini di Haiti alla distribuzione di farmaci contro l’Hiv nell’Africa subsahariana. Intanto la Camera Usa ha appena dato l’approvazione definitiva alla richiesta del presidente di recuperare circa 8 miliardi di dollari per gli aiuti esteri. Il pacchetto cancella fondi già destinati a una serie di programmi pensati per aiutare i Paesi colpiti da siccità, malattie e instabilità politica. Tra questi 800 milioni di dollari per fornire alloggi di emergenza, acqua e ricongiungimento familiare ai rifugiati e 496 milioni di dollari per fornire cibo, acqua e assistenza sanitaria ai paesi colpiti da disastri naturali e conflitti. “Siamo come in un pollaio, fateci uscire”: l’appello dell’italiano detenuto ad Alligator Alcatraz di Anna Lombardi La Repubblica, 21 luglio 2025 Dai microfoni del Tg2, Gaetano Mirabella Costa, detenuto nel centro statunitense per migranti irregolari, si rivolge alle istituzioni: “Non ho la possibilità di parlare con un avvocato e nemmeno con un giudice”. “Siamo in gabbia come polli, 32 persone con tre bagni aperti, tutti vedono tutto. Non so di cosa mi accusano, non posso parlare con un avvocato né con un giudice”. È un racconto terribile quello che Gaetano Mirabella Costa, uno dei due italiani rinchiusi nel carcere-inferno inaugurato due settimane fa fra le paludi di Everglades, Florida, ed evocativamente battezzato Alligator Alcatraz dall’amministrazione Trump, fa ai microfoni del Tg2. Le condizioni di detenzione sono disperate: “Le autorità italiane mi aiutino a uscire da quest’incubo”. Originario di Fiumefreddo di Sicilia, dove vive la mamma Rosanna Vitale, ha 45 anni e vive in America da 10. Arrestato in seguito a una denuncia dell’ex moglie per aggressione e possesso di stupefacenti è stato condannato a 6 mesi e all’espulsione. Doveva uscire dal carcere il 9 luglio, invece, l’hanno trasportato direttamente nel malsano supercarcere, “incatenato come un cane” come racconta la mamma. Può fare alcune chiamate: “È l’unica cosa positiva” dice la donna, spiegando, però, che anche quello è difficile: “Si deve mettere in fila e chiama quando è il suo turno”. A carico del destinatario, come è d’uso nelle carceri americane. “La situazione è molto dura, mi ha detto “mamma è da 10 giorni che non vedo il sole”. Noi non siamo stati ancora contattati da qualcuno per affrontare questa situazione ma faremo di tutto per farlo tornare, speriamo presto”. A raccontare dall’interno le difficili condizioni di vita in quel luogo costruito in appena 8 giorni su un terreno insalubre e infestato da insetti e pitoni, assemblando roulotte, tende e circondando il tutto con filo spinato e 200 telecamere, ci ha già provato anche l’altro italiano prigioniero. Fernando Artese, 63 anni, entrato con un visto turistico di 90 giorni nel 2014 e rimasto in Florida. A un giornalista del Tampa Bay Times ha descritto “condizioni da campo di concentramento”. E ieri per lui la figlia 19enne Carla ha aperto una sottoscrizione su GoFoundMe che ha lanciato dal suo account Instagram: “Papà ha sempre lavorato duro per mantenerci. Ci preparavamo a lasciare tutti per sempre gli Stati Uniti quando lo hanno arrestato e mandato ad Alligator Alcatraz dove lo trattano da criminale ed è privato di ogni diritto, rinchiuso in una cella senz’aria”, scrive la giovane nel suo accorato post. “Non gli danno informazioni e non lo hanno inserito negli archivi: non esiste come carcerato. Gli passano appena due miseri pasti a 12 ore di distanza. Il caldo è terribile ma ha potuto fare finora solo due docce. I gabinetti sono otturati non c’è sapone né spazzolini da denti. Ci serve un avvocato che ci aiuti e soldi per coprire le spese. Vi prego, aiutatemi a liberare mio padre”. Ieri anche Matteo Renzi, leader di Italia Viva, è intervenuto sul caso con una nota durissima: “Un italiano è chiuso “in un pollaio”, detenuto ad Alligator Alcaraz, il centro voluto dai sovranisti americani. Non può chiamare un avvocato. Il Governo dei patrioti continua a fare il maggiordomo di Trump o intende difendere i diritti di un cittadino italiano? La domanda forse è retorica, la risposta di Meloni certo è ridicola. Gli italiani nei pollai, la Meloni genuflessa a Trump”. Pure Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinistra attacca: “Questo governo, sempre pronto a compiacere Washington, resta in silenzio anche davanti a una palese violazione dei diritti umani. Patrioti a parole, vassalli nei fatti”. I prigionieri ucraini liberati da Mosca muoiono per le torture di Nello Scavo Avvenire, 21 luglio 2025 I militari di Kiev rilasciati dal Cremlino dopo un lungo periodo di detenzione conservano cicatrici profonde, nel corpo e nell’anima. Ecco le storie del loro ritorno in patria, spesso traumatico. Quando ha tirato la cerniera per aprire il sacco di plastica bianca con il corpo del militare, il medico forense per un istante s’è ritratto. Aveva gli occhi ancora aperti il soldato ucraino restituito con altre decine di corpi dei caduti in battaglia. Ma il fuciliere di una trentina d’anni non era stato ucciso in combattimento. Nessuna ferita d’arma, niente schegge da esplosioni. Addosso cicatrici da sevizie quotidiane, gli organi interni ridotti in poltiglia. “Non sono casi isolati, ma indicano modelli ben documentati di tortura diffusa e sistematica”, ha denunciato ancora una volta Danielle Bell, capo della missione Onu di monitoraggio per i diritti umani in Ucraina. Nei cassetti dove vengono raccolte le prove dei crimini ci sono anche i riferimenti a “personaggi pubblici della Federazione Russa che hanno esplicitamente chiesto trattamenti disumani, e persino l’esecuzione del personale ucraino catturato”, si legge nelle atti degli investigatori. Tra questi, le registrazioni di “almeno 3 telefonate da parte di funzionari pubblici della Federazione Russa”. A Chernihiv i bombardamenti sono martellanti. Più di una ventina le esplosioni solo nella notte tra venerdì e ieri. Qui a nord di Kiev, tra pioggia battente e puzza di bruciato, convergono la frontiera russa e quella bielorussa, addosso al confine con la provincia di Sumy, dove Mosca sta tentando di spianare la strada a un corridoio per minacciare la capitale ucraina. Droni e missili non hanno risparmiato neanche gli uffici giudiziari. Da mesi si stanno celebrando alcuni dei processi agli ufficiali russi accusati di crimini di guerra. L’alto commissariato per i Diritti umani dell’Onu (Ohchr) ha raccolto le prove dell’uccisione di “106 soldati ucraini catturati dalle forze armate russe tra la fine di agosto 2024, quando il numero è aumentato significativamente rispetto ai periodi precedenti, e maggio 2025”. Nello stesso periodo sono state raccolte analoghe accuse per l’uccisione nelle fasi precedenti all’invio in una prigione di un soldato russo catturato dalle forze ucraine. Serhii Dobrovolskyi, prigioniero in Russia dal 2023, era stato liberato a maggio di quest’anno. Neanche il tempo di riabituarsi a un letto vero, alla doccia calda, al buongiorno proferito da chi non imbraccia una spranga, che il 21 giugno era già morto, appena un mese dopo lo scambio di mille prigionieri per parte. Debilitato, il corpo non ha retto più. Perché alle braccia e alle gambe si possono mettere le protesi, ma quando gli organi interni sono compromessi, non c’è molto che si possa fare. Pochi giorni prima, il 16 giugno, era toccato a un suo compagno di torture, il 57enne Valery che durante i 39 mesi a fare il sacco da pugilato per i combattenti russi era anche diventato nonno. Da volontario aveva combattuto a Mariupol, dove era stato preso. Al ritorno Valery aveva raccontato ai figli d’avere resistito pensando a loro e per merito dei lunghi anni passati ad allenarsi nello Kyokushin, uno stile di karate: “Il mio corpo e i miei muscoli mi proteggevano”. Il cognome invece lo ha condannato: Zelensky. Nessuna parentela con il presidente, ma immaginatevi dei torturatori russi che hanno per mano uno che si chiama come “il capo dei narco-nazisti ucraini”, per usare uno degli appellativi che dal Cremlino arrivano fino a radio-caserma. I medici ucraini di Valery avevano parlato chiaro. Una spalla e un braccio erano da buttare, ma questo era niente. Sotto a cicatrici e articolazioni allentate, in realtà soffriva di una vasta serie di insufficienze degli organi interni. Tornare in patria dopo mesi o anni di prigionia non vuol dire di aver superato il peggio. Anche Serhii Dobrovolskyi se ne è andato a fine maggio, poco dopo essere stato liberato. Sta al camposanto del suo villaggio nell’Est, nel grande lotto riservato ai caduti, tra coccarde e bandierine giallo-blu. Come Dmytro Shapovalov, di 32 anni, stessa fine pochi giorni dopo essere tornato a casa. Altri se ne vanno di propria scelta, senza clamore. Chi con un colpo di pistola sotto al mento, chi con un giro di corda intorno alla testa. “Peggio della trincea c’è solo la prigione”, confessa il soldato Vlad, che vorrebbe tornare quanto prima laggiù, a finire il lavoro e regolare conti. Ma non è ancora il momento, gli dicono i superiori. Prende pastiglie per dormire. E vodka per non pensare troppo quando è sveglio. Nessun ex prigioniero di guerra, secondo il diritto internazionale, deve essere obbligato a tornare in zone di combattimento. Da quando il conflitto sulla linea del fronte rasenta il corpo a corpo, da una parte e dall’altra ogni giorno c’è qualcuno che finisce in mano nemica. Anche questa settimana sul lato ucraino hanno catturato russi che all’esame delle impronte sono risultati già imprigionati nei mesi scorsi e poi scambiati. Agli investigatori internazionali hanno raccontato di non avere avuto scelta: “Non ci hanno neanche fatto visitare. I comandanti ci hanno insultato per esserci fatti prendere: “Tornate a combattere o farete la fine degli ucraini”“. E tutti hanno capito che non alludevano alla “telefonata di Putin”, la tortura ai genitali con i fili elettrici di un vecchio telefono russo da campo. Nell’ultimo report, la missione Onu “ha documentato 106 casi di violenza sessuale legata al conflitto contro 94 uomini, 9 donne e 3 ragazze, perpetrati da membri delle forze armate russe, funzionari delle forze dell’ordine russe e personale penitenziario russo”. Ieri arruolati nei battaglioni moscoviti per fede o per denaro. Oggi non serve chiedere altro del perché siano tornati in trincea. Caos aiuti a Gaza: fame, disperazione e stragi continue di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 21 luglio 2025 L’Unicef: “Almeno 76 bambini morti per assenza di cibo”. I quattro centri della Ghf sono entrati in funzione dal 26 maggio. L’Onu: morti mille palestinesi. Israele: “Distribuite 70 milioni di razioni”. “Si fa presto a dire fame”, recitava il titolo di un famoso libro italiano sull’universo concentrazionario durante la Seconda guerra mondiale. E questo titolo torna alla mente ascoltando negli ultimi mesi le testimonianze della gente di Gaza, dei medici locali e degli operatori umanitari internazionali che vivono nella morsa imposta dall’esercito israeliano. Rubinetti chiusi - “Il governo Netanyahu ha deciso di affamare gli oltre due milioni e 100 mila palestinesi che vivono nella Striscia. I rubinetti degli aiuti sono semichiusi dai primi di marzo, il poco che arriva non basta, è un’asfissia progressiva: comincia a ricordare i drammi dei civili nei conflitti del Novecento e la grande fame imposta da Stalin sugli ucraini nei primi anni Trenta”, ci diceva pochi giorni fa un medico europeo dell’Unicef. Secondo la sua organizzazione, i decessi di palestinesi confermati per mancanza di cibo dall’inizio della guerra lanciata da Israele contro Gaza, in risposta al massacro perpetuato da Hamas il 7 ottobre 2023, sono almeno 86, di cui 76 bambini. La denutrizione - “Fame significa che si diventa fiacchi, il corpo non reagisce, gira la testa, s’indebolisce il sistema immunitario, le malattie si diffondono veloci sino a diventare epidem0ie. Se poi manca anche l’acqua potabile, allora la situazione degenera velocissima. La carenza di carburante blocca i desalinizzatori sulla spiaggia. I primi a stare male sono i bambini e i vecchi”, raccontava ieri pomeriggio D.W., una dottoressa 35enne originaria del campo profughi di Dir El Ballah. Il suo mestiere le garantisce il movimento sulle ambulanze. “Secondo il ministero della Sanità controllato da Hamas, i morti per denutrizione sono stati 18 nelle ultime 24 ore” prosegue. “Io non ho strumenti per confermare, ma so per certo che almeno 3 bambini sono deceduti per fame dall’inizio della settimana. E da lunedì scorso i mercati locali sono vuoti. Ho girato quello delle verdure nel centro di Dir el Ballah e di Gaza City: i banconi erano deserti. Di carne, uova o formaggio non si parla neppure. Un chilo di pomodori due anni fa costava mezzo dollaro, oggi più di 32, nessuno può permetterselo. Non c’è farina, dunque manca il pane, non ho visto riso o lenticchie, nulla, una desolazione. In queste condizioni, i padri con i figli maggiori spinti dalla disperazione decidono di andare a prendere i sacchi di aiuti distribuiti dalla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf). Ma è davvero la scelta più disperata, perché i contractor americani e i soldati israeliani ci sparano contro, come se fossero al tiro al piccione”. I centri - I quattro centri della Ghf sono entrati in funzione dal 26 maggio con l’obiettivo dichiarato di sostituirsi a quelli dell’Onu e da allora gli spari contro la popolazione in attesa sono cronache quotidiane. Secondo l’Onu, vi sarebbero già morti oltre mille palestinesi. Israele replica di avere distribuito più di 70 milioni di razioni alimentari e che gli spari sono generalmente contro i “terroristi” di Hamas, che cercherebbero di rubare il cibo e intralciare gli aiuti. I racconti della gente del posto parlano invece di vere e proprie “trappole” caotiche, in cui i soldati aprono il fuoco a piacimento. Il 12 maggio 2025 un dettagliato rapporto del World Food Program pubblicato a Roma e New York metteva in allarme sul “rischio fame”, dato che il 2 marzo il governo Netanyahu aveva bloccato i passaggi degli aiuti in conseguenza della rottura unilaterale del cessate il fuoco, che era stato raggiunto con Hamas il 19 gennaio. “Adesso 470.000 persone rischiano carenza acuta di cibo, tra loro 71.000 bambini e 17.000 madri. Le famiglie di Gaza soffrono di malnutrizione e il cibo a loro destinato sta deteriorandosi sui camion carichi al confine chiuso”, sosteneva. I nodi - Il 16 luglio anche l’Ocha (l’ufficio dell’Onu per gli affari umanitari) aggiungeva notizie aggiornate. I nodi principali: 1) Le bombe continuano a uccidere i palestinesi, cadono tra le tende, sulle scuole, tra la gente che cerca cibo. 2) La carenza di carburante blocca le attività vitali, dagli ospedali alle ambulanze. 3) La fame cresce, la maggioranza dalla popolazione è adesso concentrata nel 14 per cento del territorio della Striscia, manca l’acqua potabile, la diarrea collettiva ammorba i campi profughi. 4) Soggetti più a rischio sono bambini, anziani, malati e infermi. 5) Cresce la strategia israeliana di spingere la popolazione verso sud. Gli spostamenti - Dal 18 marzo i militari hanno diffuso 55 ordini di spostamento collettivo che hanno svuotato 300 chilometri quadrati e corrispondono all’81 per cento della Striscia. Nel periodo dal 18 marzo al 15 luglio sono stati costrette ad abbandonare le loro tende ben 737.000 persone. “Siamo ormai un popolo di zombie privati di tutto”, dicono i palestinesi citati anche dalla stampa israeliana. Secondo il ministero della Sanità controllato da Hamas, i morti in 21 mesi di guerra stanno arrivando a quota 59.000 e i feriti 140.000. Le cifre non hanno conferme indipendenti, ma a detta di varie organizzazioni occidentali i decessi potrebbero superare i 120.000, se si includono cause indirette come le malattie non curate e le terribili condizioni di vita. La denuncia Haaretz, il quotidiano della sinistra laica israeliana, ha intensificato la pubblicazione di reportage e commenti estremamente critici, in cui non esita più a parlare di “pulizia etnica” e addirittura “genocidio”, riferendosi alla politica del governo Netanyahu mirata spingere tutta la popolazione di Gaza in una grande tendopoli, che il ministro della Difesa Katz ha definito “città umanitaria”, nella zona di Rafah per poi cercare di “deportarla” in Paesi come la Libia, l’Etipia e l’Indonesia. I toni irritati di Papa Leone e l’incubo che il Medio Oriente diventi l’epicentro di tutti i conflitti di Massimo Franco Corriere della Sera, 21 luglio 2025 L’intervento del cardinale Pietro Parolin è arrivato dopo la telefonata del premier Benjamin Netanyahu a Leone XIV. E chiaramente è stata concordata parola per parola con il Pontefice. Certifica non solo che quella chiamata non basta a cancellare quanto è avvenuto negli ultimi giorni e mesi. Segna anche il recupero della Segreteria di Stato vaticana come cuore del governo della Santa Sede dopo gli anni convulsi di Francesco. E conferma una lettura condivisa e coordinata della strategia mediorientale. Negli ultimi giorni ha prevalso la convinzione che la Roma papale dovesse pronunciare un giudizio netto e duro dopo il bombardamento israeliano della chiesa cristiana della Sacra Famiglia a Gaza. I timori - Al fondo si indovina il timore non solo che nel governo di Gerusalemme aumenti la tentazione dei settori più oltranzisti di colpire i cristiani come elemento di moderazione. L’incubo inconfessabile è che i massacri e le ritorsioni rendano il Medio Oriente il potenziale epicentro di una Terza guerra mondiale: una guerra che oltre a uccidere migliaia di civili innocenti sarebbe destinata anche a lacerare il dialogo religioso. L’elezione di un Papa statunitense, in Israele ha portato alla convinzione che la sua storia possa essere un elemento in grado di cambiare sensibilmente l’atteggiamento della Santa Sede. Ma la presa di posizione di Parolin fa capire che questo può avvenire solo se cambia anche l’approccio di Netanyahu. La diplomazia vaticana - È come se la diplomazia vaticana uscisse da un lungo periodo di afasia, spinta da un Papa deciso a condividere e promuovere un’azione e una presenza più incisive. Senza silenzi. Senza iniziative estemporanee. E senza quell’”ambiguità linguistica” che fece infuriare il governo di Israele dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre del 2023, assassinando oltre 1.200 civili e prendendo duecentocinquanta ostaggi. Fu uno dei momenti più critici nelle relazioni tra Gerusalemme e Roma. Ma stavolta sembrano esserlo a parti invertite. L’irritazione è quella del Vaticano, che da un anno e mezzo tra l’altro ricorda di aspettare i risultati di un’inchiesta su due cristiane uccise da un cecchino proprio nella parrocchia di Gaza. E adesso registra il bombardamento di quella chiesa con altre vittime. Fino a quell’attacco, i malumori rimanevano sotterranei; sepolti sotto il timore di rinfocolare le tensioni e acuire i contrasti. Ma se il pontificato di Robert Prevost è diverso da quello di Jorge Mario Bergoglio, questo non impedirà alla Santa Sede di esprimere un giudizio chiaro sui massacri compiuti dall’esercito israeliano. Per il Vaticano era impossibile non compiere questo passo. Si trattava di evitare che in ampi settori del mondo cattolico, già preda della propaganda “pacifista” filorussa sull’Ucraina, la prudenza della Santa Sede su Gaza fosse percepita come reticenza. Ma l’altra questione, delicatissima, è di evitare che l’ostilità diffusa nei confronti di Netanyahu alimenti un sentimento non solo antiisraeliano ma antisemita in quello stesso mondo cattolico. Rapporti difficili - In quella terra i rapporti tra Israele e i leader di altre religioni sono sempre stati difficili, perché la popolazione cristiana è in gran parte araba e palestinese. Ma negli ultimi mesi la situazione è apparsa insostenibile perfino a un cardinale incline al dialogo come il patriarca latino di Gerusalemme, Gianbattista Pizzaballa, in missione a Gaza dopo l’attacco alla chiesa di padre Gabriel Romanelli, pure ferito. L’altolà vaticano arriva su questo sfondo nel quale la spirale del conflitto sembra sempre meno governabile. E nella stessa società israeliana la volontà di sradicare Hamas e l’esasperazione sugli ultimi ostaggi in mano ai terroristi di Gaza divide sostenitori e avversari del governo. Dialogo inquinato - La presa di posizione di Parolin cerca di spezzare questa spirale. Punta a interrompere un dialogo inquinato. E mira a indurre il governo di Gerusalemme a capire che, se perfino il Vaticano è costretto a alzare la voce, non esistono più alibi per eludere l’esigenza e l’urgenza di una tregua. Il fatto che il premier israeliano abbia voluto parlare col Papa al telefono e lo abbia invitato a visitare il suo Paese è considerato un fatto positivo. È il riconoscimento del peso non solo morale ma politico del capo del cattolicesimo. Ma il Vaticano adesso chiede un passo ulteriore, più concreto, in direzione della pace: come se le parole di rassicurazione non bastassero più, contraddette da troppi episodi che vanno in senso opposto. E chissà, forse nella Roma papale sanno che questa ricerca tormentata, sanguinosa di una tregua va molto oltre il rapporto tra Vaticano e Israele. E incrocia le preoccupazioni crescenti degli Stati uniti, non solo dell’Europa. La crisi dei profughi sudanesi, il Ciad è sul punto di rottura di Luca Attanasio Il Domani, 21 luglio 2025 Sul Paese pesa l’impatto dell’ingresso di oltre un milione di persone. Ma non è l’unica emergenza. N’Djamena deve affrontare la progressiva distruzione dell’ambiente e i gravi disequilibri dell’ecosistema. Il conflitto che si combatte in Sudan dalla metà di aprile 2023, oltre a causare internamente centinaia di migliaia di vittime, sfollamenti biblici, distruzione, epidemie e fame, sta provocando una serie di effetti a cascata su una vastissima area che va dall’Egitto e la Libia a nord, l’Etiopia, fino all’Eritrea a est, il Sud Sudan e il Centrafrica a sud, e il Ciad a ovest. In questi paesi, tutti caratterizzati a loro volta da problematiche molto serie, gli esempi più lampanti sono la situazione di grave tensione in Libia, il Sud Sudan in uno stato di pre-guerra, e l’Etiopia in cui si riaccendono focolai di conflitto preoccupanti, sono entrati negli ultimi 26 mesi milioni di individui in fuga dalla guerra sudanese che hanno aumentato significativamente la demografia e sollevato inevitabilmente questioni di adattamento e convivenza molto delicate. Dei 14 milioni di profughi causati dalla crisi sudanese, infatti, 11 sono interni ma ben tre esterni. La situazione critica - In Ciad, dalle settimane immediatamente successive all’aprile del 2023, sono confluiti almeno un milione di profughi (una cifra molto vicina a quelli approdati in Sud Sudan). La situazione è critica e rischia di raggiungere un punto di rottura anche perché il Ciad, oltre a essere uno dei paesi più impoveriti del continente, con molte problematiche interne, già accoglieva centinaia di migliaia di profughi provenienti dal Centrafrica o dallo stesso Sudan da periodi precedenti lo scoppio del conflitto sudanese. Oltre al tema della gestione di una massa enorme di persone che entrano senza nulla nel paese, vanno affrontate una serie di altre questioni molto complesse tra cui la progressiva distruzione dell’ambiente e i gravi disequilibri dell’ecosistema. Purtroppo, le regioni orientali del Ciad, confinanti con il Sudan sono anche quelle più provate dal punto di vista climatico, essendo per il 70 per cento parte di zone desertiche o di savana arbustiva. Il sovraffollamento causato dall’emergenza umanitaria provoca un degrado progressivo dell’ambiente naturale, già in difficoltà per l’avanzare del deserto e per i cambiamenti climatici e per un tragico alternarsi tra periodi di siccità e inondazioni eccezionali. “L’ambiente al confine con il Sudan - spiega Fabio Mussi, missionario laico del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere), in Ciad dal 2021, che con una trentina di volontari della Caritas diocesana di Mongo presta servizio nei campi profughi di Métché e Farchana - presenta zone pianeggianti di terreno sabbioso o argilloso e colline rocciose con una copertura vegetale di alberi e arbusti che diminuisce progressivamente a causa dell’afflusso eccezionale di profughi e sfollati che ha raddoppiato la popolazione residente nei villaggi”. Fuga dal Sudan - Nel frattempo la situazione in Sudan si complica, se è possibile, ogni giorno di più. A metà luglio, l’Unicef ha pubblicato un rapporto secondo cui il numero di bambini affetti da malnutrizione acuta grave solo nel Darfur, sarebbe aumentato del 46 percento tra gennaio e maggio 2025 rispetto allo stesso periodo del 2024, mentre solo tra maggio e giugno scorsi si sono moltiplicate stragi e carneficine nella zona settentrionale del Darfur che hanno spinto tra le 80 e le 100mila persone a varcare il confine ciadiano. “Vedi arrivare qui dopo giorni di cammino, nuclei composti in gran parte da donne e bambini - riprende Mussi - viaggiano solo con un fagotto. Nei loro volti oltre che la disperazione si legge la rassegnazione. La popolazione maschile è scarsa nei campi perché gli uomini o sono al fronte o sono morti. Nel campo di Métché, dove risiedono 80mila persone, la vita è dura e ad un certo punto ci siamo resi conto che la semplice assistenza non basta. Per questo abbiamo deciso di cambiare il nostro intervento passando dalla fase di aiuto emergenziale alla creazione di condizioni di lavoro e sussistenza e di lotta al degrado ambientale”. La Caritas ciadiana sta puntando sulla realizzazione di cooperative di donne impiegate in coltivazioni comunitarie e sul recupero del territorio quale arma di resistenza all’erosione, alle alluvioni e alla desertificazione, nell’ottica di favorire adattamento e creazione di una economia circolare di auto-aiuto. “Al momento - di nuovo Mussi - sono più di 500 le donne che coltivano legumi utilizzando sistemi di irrigazione testati per il territorio. Riescono a rendere indipendenti loro stesse e i loro nuclei familiari. Inoltre stiamo realizzando progetti di restaurazione dell’ecosistema grazie a una tecnologia abbastanza semplice: la realizzazione di dighe costruite con “gabbioni” di filo di ferro intrecciato, riempiti di pietre. Un metodo efficacissimo per contrastare erosioni, burroni su torrenti stagionali e alluvioni”. L’accoglienza e l’integrazione - Tra mille problemi che vanno dalla povertà all’instabilità politica (nel 2021 il generale Mahamat Idriss Déby ha preso il potere con la forza subito dopo l’uccisione del padre da parte di ribelli), dalle questioni ambientali, alla penetrazione jihadista, il Ciad può essere annoverato tra i paesi più ospitali al mondo. Come detto, accoglie oltre un milioni di sudanesi dal 2023 e centinaia di migliaia di altri che hanno trovato lì rifugio negli anni precedenti. Attraverso il Cnnar (l’organismo governativo preposto ad assistere i profughi) cura più che dignitosamente l’organizzazione e la gestione della comunità degli individui che ora risiedono negli oltre 30 campi dislocati al confine. Non ha mai chiuso le frontiere e riconosce formalmente i profughi fornendo a tutti una carta di identità di rifugiato che vale come documento ufficiale. “C’è una chiara volontà politica di integrare i profughi nel tessuto ciadiano - spiega Sabrina Atturo, cooperante internazionale della Fondazione Magis (gesuiti) - che è in qualche modo favorita anche dal fatto che i profughi che arrivano qui fanno parte in stragrande maggioranza delle stesse etnie dei ciadiani (il confine Ciad/Sudan è lungo 1.300 chilometri, le stesse etnie abitano da entrambi i lati della frontiera da secoli, ndr)”. La Fondazione è in Ciad da molti anni e gestisce progetti sanitari, progetti di formazione professionale per i giovani più vulnerabili e piani agricoli e di ecologia che mirano al rafforzamento socio- economico delle donne e alla protezione dell’ambiente. “Il Ciad è in una fase di relativa stabilità politica a cui fa seguito una iniziale crescita economica (nel 2023 ha registrato una crescita del Pil del 4,1 percento, ndr) anche se la maggior parte della popolazione viva ancora con meno di un euro al giorno. Sta potenziando i parametri sanitari, migliorando il livello dell’istruzione e investendo in infrastrutture per rafforzare le comunicazioni interne ed esterne. Il tasso di malnutrizione, purtroppo, è ancora alto e persistono problemi di libertà di espressione e di soppressione delle opposizioni politiche, ma nel complesso si possono osservare segnali di crescita”.