L’emergenza carceri riesplode in estate di Paola Balducci La Nuova Sardegna, 20 luglio 2025 Ogni estate, nel nostro Paese, il carcere smette di essere invisibile. Lo fa nel modo più drammatico: una rivolta, un suicidio, un allarme. Come se l’opprimente calura di luglio scoperchiasse quello che durante l’anno si preferisce ignorare. L’anno scorso fu il carcere di Regina Coeli a esplodere. proteste, urla, tensioni che i detenuti gridavano da tempo e anche quest’anno, la tragedia silenziosa che si chiama suicidio, sta continuando a non cedere il passo: già oltre 40 solo nei primi sei mesi del 2025. Nel mezzo, una lettera del Presidente del Senato indirizzata all’associazione Nessuno tocchi Caino, contenente parole importanti: “Occorre un deciso cambio di passo”, scrive, denunciando l’insostenibilità del sovraffollamento e l’urgenza di restituire senso alla pena. Parole che sembrano rompere un silenzio, ma che rischiano di restare vuote se non si trasformano in scelte decise, convinte e soprattutto coraggiose. Non stiamo parlando di un problema occasionale: ci stiamo confrontando con un problema strutturale e profondo, che anzi, molte scelte legislative non sembrano riuscire ad attutire, vanno addirittura nella direzione opposta. Nel corso del tempo, diverse legislature sono state affette da una sottospecie di schizofrenia legislativa che mal si concilia con un cambio deciso di paradigma. Siamo nell’era del panpenalismo diffuso, in cui tutto viene trasformato in reato. Ogni problema sociale ha la sua risposta immediata nel Codice penale. Più reati, più pene, più carcere: è la tentazione rassicurante del “punire” come simbolo di controllo e ordine, anche davanti a una realtà penitenziaria che implora ossigeno, dignità, attenzione. La quotidianità è scandita da isolamento, caldo soffocante, assenza di attività. E la disperazione fa il suo corso. Non a caso i suicidi in carcere aumentano proprio in estate: lo chiamano “gesto estremo”, ma è quasi sempre un grido che nessuno ha voluto ascoltare. Ogni suicidio in carcere è una sconfitta dello Stato, una confessione pubblica: non siamo riusciti nemmeno a custodire. E allora viene da chiedersi: ha senso punire se non siamo in grado nemmeno di garantire la sopravvivenza? Ha senso inasprire le pene, se le carceri che abbiamo non riescono a reggere nemmeno quelle attuali? Questa è l’altra metà della contraddizione: uno Stato punitivo, che moltiplica norme penali e alimenta una narrazione securitaria, si scontra con le esigenze di vita di chi finisce dentro, che poi non sono altro che i bisogni minimi di ogni essere umano: non essere dimenticati, avere una seconda possibilità. La pena, nella nostra Costituzione, ha un senso: deve tendere alla rieducazione, ma oggi il carcere è solo una fabbrica di marginalità e recidiva. Perché se punisci senza rieducare, quello che ottieni è soltanto una persona più arrabbiata, più fragile, più sola e che vede negli stessi paradigmi che l’hanno condotta in carcere l’unica soluzione ai propri problemi. Serve smettere di credere che la soluzione ai problemi sociali passi sempre e solo per il carcere e serve investire nelle misure alternative, nella formazione, nel lavoro penitenziario, serve capire che un detenuto non è solo un numero, un reato, una colpa. Oggi le carceri italiane non sono solo sovraffollate: sono luoghi dove lo Stato abdica alla propria funzione più alta. E ogni estate, rivolte e suicidi ci ricordano quanto sia urgente intervenire. Ma intervenire davvero, non con proclami o parole di circostanza. Non c’è giustizia senza umanità. Non c’è sicurezza senza inclusione. E non c’è pena che abbia senso se non dà a chi l’espia almeno una possibilità di tornare a essere parte della comunità. Finché questo non accadrà, continueremo a riempire le carceri come si riempiono le discariche: con tutto ciò che non sappiamo, o non vogliamo, affrontare. Ma le persone non sono rifiuti. E la giustizia, se non è anche compassione, non è giustizia. Non nuove carceri ma una nuova idea di pena di Francesco Bianchi terzultimafermata.blog, 20 luglio 2025 Il sovraffollamento carcerario e le disumane condizioni nelle quali sono costrette a vivere le persone ristrette e consegnate in custodia allo Stato, con il sempre più allarmante e crescente dato dei suicidi carcerari, è diventato uno dei problemi principali all’attenzione non più dei soli avvocati e delle associazioni che si occupano dei luoghi di detenzione, ma della politica interna ai massimi livelli istituzionali, della Corte Costituzionale e dell’Europa. Basti pensare all’attenzione posta dallo stesso Presidente della Repubblica e dal Presidente del Senato sulla questione, alla recente sentenza della Consulta in tema di CPR e al rifiuto da parte dell’autorità giudiziaria Olandese di consegnare allo Stato italiano un indagato di omicidio a causa delle disumane condizioni carcerarie. In tale contesto, una politica carcerocentrica e giustizialista risponde alle grida di allarme con un’affermazione apparentemente stringente: si costruiscano nuove carceri. Senza voler entrare nel tema dello sperpero di denaro pubblico che da 20 anni viene perpetrato da governi di qualsiasi colore sui “piani carcere”, come ben evidenziato dalla Relazione della Corte dei Conti dell’aprile del 2025, costruire nuove carceri non è compatibile con le tempistiche della drammatica situazione di oggi. In questi giorni sta riprendendo forza una proposta di qualche mese fa dell’onorevole Giachetti su la liberazione anticipata speciale, che permetta di far fronte al sovraffollamento. Altre voci invocano un indulto. Anche la ANM si dichiara favorevole, con qualche distinguo. Certo, un provvedimento che consentisse di “svuotare” le carceri consentirebbe per un po’ di risolvere il problema del sovraffollamento, e magari a cascata qualche problema collaterale, come quello dell’assistenza sanitaria. Ma siamo sicuri che risolverà veramente i problemi, siamo sicuri che sia solo questa la strada da percorrere? Oppure sarà solo una momentanea valvola di sfogo? Innanzitutto, con meno soldi e più velocemente, si potrebbero aumentare gli organici a tutti i livelli, non solo quelli della Polizia Penitenziaria. Aumentare gli assistenti sociali, il personale medico, gli psicologi, quello amministrativo, il personale delle aree trattamentali, i Giudici di Sorveglianza, i cancellieri, i funzionari ecc.. ecc.. Ma siamo sicuri che sia questo, o meglio, sia solo questo il problema? Il problema è un altro. Ed è forse ancora più impervia e difficoltosa la strada da percorrere, ma abbiamo il dovere di farlo. Il problema è affermare un’idea di pena e di carcere completamente diversa da quella imperante nella nostra società. Innanzitutto un’idea di un luogo dove ci sia il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo. Quale coerenza ci può essere fra le voci di indignazione sulle condizioni carcerarie e i messaggi che una certa politica quotidianamente propina all’opinione pubblica sulla sempre più ineluttabile idea dell’ergastolo come unica pena per alcuni reati, sulla criminalizzazione del dissenso pacifico all’interno dei luoghi di detenzione, sulla quasi sadica volontà di togliere il respiro ai detenuti, sulle immagini di una polizia penitenziaria armata e dedita alla violenza? E quale coerenza ci può essere fra le grida di allarme delle più alte cariche dello Stato con il silenzio e l’assenza di quelle istituzioni chiamate specificamente a tutelare i diritti dei detenuti? Quale coerenza ci può essere quando chi è chiamato a garantire i diritti delle persone private della libertà abdica al proprio ruolo per trasformarsi in un vuoto organismo capace solo di dare bella mostra di sé? Siamo sicuri che un pur necessario e sacrosanto provvedimento di clemenza, o di deflazione, risolverà il problema se rimarranno queste atroci contraddizioni? Oppure il carcere rimarrà un luogo della negazione dei più elementari diritti, solo per meno persone, fintanto che un legislatore panpenalista e carcerocentrico e una magistratura di sorveglianza timida non provvederanno a ripristinare il sovraffollamento? Ma non solo il rispetto dei diritti umani e della dignità della persona. Il nostro dovere è affermare un’idea del carcere come un luogo del rispetto di un diritto costituzionale altrettanto fondamentale. Quello stabilito dall’art. 27 della Costituzione. Quello della funzione rieducativa e risocializzante della pena. Potrà mai un luogo di espiazione della pena essere un luogo di recupero dalla criminalità? Certamente, ce lo impone la Costituzione e ce lo impone una legge che, ossequiosa di quel principio, 50 anni fa esatti cercò di darne concretezza. Ma che oggi con le contraddizioni di cui abbiamo parlato sembra quasi essere solo un ostacolo alla pulizia sociale di chi vorrebbe vedere i criminali “marcire” in galera. Forse, come ha detto qualcuno, dovremmo sostituire la parola marcire con la parola “rinascere” in galera. E se tutti, e principalmente i nostri governanti e le istituzioni preposte, pensassero che il carcere sia un luogo dove poter rinascere, allora ogni idea, ogni parola, ogni legge, ogni iniziativa, ogni spesa avrà come unico scopo quello che in un luogo di detenzione non si marcisce, ma si rinasce. Quello di cui abbiamo bisogno non sono nuove carceri, ma una nuova idea di pena. Lunedì 21 luglio si terrà presso la sede dell’UCPI un importante incontro per discutere di questi temi che dovrà costituire, con la massima partecipazione di tutti, un momento in cui queste idee vengono affermate in maniera decisa anche di fronte a chi è chiamato istituzionalmente a farsene carico, e contribuire in maniera decisiva a questo percorso per affermare una nuova idea di pena. I detenuti non siano “avanzi” della giustizia di Sergio Moccia Il Manifesto, 20 luglio 2025 Per far fronte al sovraffollamento servono riforme. E serve un’opera radicale di “rieducazione”, ma della società e delle istituzioni. L’attuale situazione carceraria risulta insopportabile per uno stato di diritto. Eppure quest’anno ricorre il cinquantenario di quella che pareva una fondamentale riforma, attuata con la legge n. 354 del 1975, introduttiva del nuovo Ordinamento penitenziario. Fino ad allora, era in vigore il Regolamento penitenziario fascista del 1931, in cui il detenuto era preso in considerazione soltanto come oggetto della disciplina della condotta e, dunque, come destinatario di attività svolte in prima persona da soggetti dell’amministrazione penitenziaria. Per la nuova normativa, il detenuto acquista una specifica soggettività giuridica, quale titolare di diritti ed aspettative, da far tutelare anche giudizialmente, art.4. E l’art.1, che definisce contenuto e limiti del trattamento penitenziario, fa espresso riferimento a concetti come umanità, non discriminazione, reinserimento sociale ed individualizzazione dei percorsi di integrazione. Ma già con l’introduzione dell’art.4-bis, inserito nel 1991 ed immediatamente modificato dopo le stragi in cui trovarono la morte, tra gli altri, Falcone e Borsellino, si ebbe una battuta d’arresto. In base al disposto del famigerato 4-bis, si limitarono fortemente i benefici penitenziari per gli autori di reati di mafia e di terrorismo che non ‘collaboravano’ e poi, man mano, per tutta una pletora di reati. L’elenco è cresciuto a dismisura, assecondando, così, la perenne emergenza che ha caratterizzato la politica criminale italiana degli ultimi decenni. Per quel che riguarda il carcere, si è avuto il tradimento di tutte le promesse contenute nell’ordinamento penitenziario e nella successiva legge Gozzini del 1986, che provava a migliorare sensibilmente lo stato delle cose in materia di diritti del detenuto. Tutto ciò implica che un discorso di più ampio respiro vada immediatamente riservato alle ragioni dei detenuti, ormai ridotti, per le condizioni concrete in cui versano, ad ‘avanzi’ della giustizia. Ciò implica la revisione, in una prospettiva di rifondazione socio-istituzionale, di struttura e funzione del carcere. Va subito ribadito che, da decenni, l’ispirazione al canone law and order ha fatto da supporto a prassi e legislazione connotate in senso autoritario, per una sempre rinnovata esaltazione del carcere: conseguenze immediate sono state il sovraffollamento, l’incremento dei suicidi e di atti autolesivi, l’abuso di psicofarmaci, in un carcere sempre più chiuso. In questo contesto va anche segnalato l’abuso della custodia cautelare o carcerazione preventiva, come viene più realisticamente definita in Costituzione la detenzione prima della condanna. Per il sovraffollamento siamo stati più volte bacchettati da Strasburgo. Esso contribuisce fortemente a dar vita ad una situazione di degrado e malessere dei detenuti ed alla pratica impossibilità di realizzare progetti di rieducazione, così come di cura. E infatti uno stato civile deve favorire l’idea del minor numero possibile di persone penalmente perseguite che debba essere carcerizzato. Le cose, invece, stanno in maniera profondamente diversa; e ciò dipende da un’esaltazione repressiva, tanto irrazionale sul piano degli effetti, quanto deleteria sul piano dei diritti, come viene inconfutabilmente attestato dall’assenza di un incremento dei delitti denunciati. Come da tradizione, la repressione finisce per orientarsi verso fasce di marginalità via via emergenti: gli ‘oziosi’ e i ‘vagabondi’ attuali sono i tossicodipendenti e gli immigrati. Secondo il consueto, miope schema rigoristico-repressivo, con il ben noto bagaglio di intolleranza, illiberalità, sterile simbolicità, approssimazione, ad un contrasto legittimo - purché sempre rispettoso di regole di umanità - di pur allarmanti fenomeni criminali, si abbina una repressione di tipo carcerario ingiustificata e contraria ai principi costituzionali di riferimento. Paradossalmente, più il carcere fallisce, più ne aumenta la richiesta. Le ragioni possono essere le più diverse, ma essenzialmente ciò si verifica perché è ancora radicato l’equivoco - che un improvvido legislatore e parte dei giudici assecondano - dell’equazione carcere = giustizia, a cui si aggiunge quello insito nell’idea secondo cui più dura è la pena, maggiormente si realizza la giustizia. Nulla di più falso! E allora che fare? Va intrapresa urgentemente un’opera di razionalizzazione e semplificazione dell’ormai illeggibile sistema sanzionatorio, così ridotto da una stratificazione normativa incoerente, confusionaria e connotata da un’estensione della discrezionalità giudiziale ben oltre i limiti della ragionevolezza, con esiti applicativi a dir poco sorprendenti. Per far fronte al sovraffollamento va intrapresa un’ampia, articolata e generosa sperimentazione di pene principali diverse da quella detentiva, in maniera tale da consentire condizioni civili a chi resta in carcere; ovviando anche alle gravi carenze igienico-sanitarie, ma non solo, bensì creando le condizioni per un effettivo esercizio dei diritti alla cura, al lavoro ed all’istruzione. Altrettanto immediatamente dovremmo sbarazzarci di tutti quegli arnesi rigoristici che affastellano il nostro ordinamento, a partire dalle varie ‘ostatività’ diverse dalla semplice valutazione del percorso di rieducazione del detenuto e dall’eliminazione di ogni forma di carcere duro, pur nel rispetto di eventuali esigenze di controllo stretto per casi particolari. E ciò all’interno di una riforma globale del sistema delle sanzioni, finalmente a binario unico, che si liberi di quel retaggio di inciviltà rappresentato dall’ergastolo, che è sicuramente in contrasto almeno con il principio della rieducazione, ma non solo con esso. Contestualmente, si dovrebbe por mano ad una vera depenalizzazione, ben più incisiva delle precedenti. Successivamente, ma non troppo, si dovrà rimettere mano all’intero sistema penale, per renderlo vicino alle ragioni dell’uomo. La precondizione di queste riforme, a mio avviso, consiste in un’opera radicale di ‘rieducazione’, ma della società e delle istituzioni; se questa non avviene, saremo punto e a capo, e non solo in rapporto ai problemi del carcere, ma anche a quelli del vivere civile: allo stato attuale delle cose, e a dispetto di infondati proclami governativi di benessere diffuso, risulta, infatti, drammaticamente evidente la violazione in essere del rispetto di fondamentali esigenze di uguaglianza, solidarietà e della stessa dignità umana. Per l’immediato è assolutamente necessario un generoso provvedimento di ‘clemenza’. Suicidi a raffica e agenti stremati. Ma Delmastro pensa ai distintivi di Nello Trocchia Il Domani, 20 luglio 2025 La Polizia penitenziaria, che dipende dal sottosegretario, potrebbe presto avere 13 nuovi contrassegni. Non c’è il bando e neanche i fondi necessari, però spopolano i siti online dove è possibili acquistarli. Mentre il carcere è il regno dei suicidi, delle violenze, della droga e dei cellulari in cella con gli agenti allo stremo delle forze, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, attraverso il Dap, pensa a introdurre nuovi distintivi per la polizia penitenziaria. Negli ultimi mesi, infatti, c’è stata una sequela di provvedimenti del capo di dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per lo più quando alla guida c’era la fedelissima Lina Di Domenico, che hanno introdotto ben tredici nuovi stemmi. Si parte con il distintivo di “ricordo” per passare a quello dell’”appartenenza” fino a quello del “matricolista”. Una storia che si è presto trasformata anche in una questione di affarucci, con il solito caos conseguente. Nel carcere funzionante che le destre propinano al paese ormai, è diventata una costante. Nei mesi scorsi è nato prima un gruppo speciale di agenti, il Gio, che si arrampica e interviene in caso di sommosse; poi è stata presentata una nuova macchina nella quale non si “lascia respirare” i detenuti, citando proprio il sottosegretario alla Giustizia, fedelissimo di Giorgia Meloni. E adesso è il turno dei distintivi nuovi di pacca. Spetterebbe all’amministrazione penitenziaria fornirli agli agenti, ma non c’è ancora il bando, e neanche i fondi necessari: eppure online, nei gruppi Whatsapp, si moltiplicano i siti dove sono già in vendita. Prezzo modico: 7 euro e cinquanta centesimi più spese di spedizione. Tra questi c’è quello del” matricolista” in ragione della “necessità di prevedere un distintivo che identifichi il personale di Polizia penitenziaria”. Destinato “al personale del Corpo di polizia penitenziaria che presta servizio presso gli uffici matricola degli istituti penitenziari per adulti e per minorenni”. Non manca la descrizione: “Uno scudetto con fondo di colore blu scuro, suddiviso in più sezioni, bordate di grigio chiaro. Nella parte superiore è posto il fregio stilizzato del Corpo, di colore bianco, e, immediatamente sotto, la scritta in bianco Polizia penitenziaria”. Così è partita la caccia al distintivo: abbiamo trovato on line diversi siti che vendono il prodotto. Un sito - l’azienda indicata ha anche appalti con le forze armate - propone la vendita di un “Patch Scudetto Polizia Penitenziaria - Matricolista”, il materiale viene indicato come plastificato, leggermente difforme dall’originale. Quando si inoltra la richiesta per comprarlo ci si accorge che è riservato agli agenti, viene precisato che “la vendita di questo articolo è riservata ad appartenenti al corpo di riferimento identificati tramite tesserino di riconoscimento”. Domani ha chiesto al Dap una replica, ma non è arrivata. Sulla caccia al distintivo è intervenuto anche il sindacato. “Si è appreso che presso alcuni istituti penitenziari del paese sarebbero state avviate pratiche, simil commerciali, qualche volta a opera o sotto impulso del responsabile pro-tempore degli Uffici Matricola, finalizzate a favorire l’acquisto autonomo dei distintivi di cui in oggetto, prodotti e commercializzati non si sa da chi e con quali criteri”, denuncia la Uil-Pa. Il sindacato ha così chiesto al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “se ci si possa fregiare di qualsiasi distintivo afferente a una specializzazione o a una specialità del Corpo e di recente istituzione acquistandolo autonomamente e senza alcuna direttiva che ne disciplini il coordinamento e la contestualità”. Domande alle quali il Dap ha risposto così: “Attualmente non è stata rilasciata alcuna autorizzazione in merito alla produzione, approvvigionamento o utilizzo autonomo di distintivi relativi alla specializzazione “Matricolista”, disponendo altresì di interrompere eventuali autonome pratiche non autorizzate”. Insomma il caos, mentre il sistema collassa. Basta mettere le orecchie e gli occhi in un istituto di pena per scoprirlo. È quello che sta facendo la procura di Prato, guidata dal procuratore Luca Tescaroli, un passato da magistrato antimafia. Il locale carcere, nelle ultime settimane, è stato al centro di diverse notizie di cronaca, l’ultima è la morte di un detenuto di 58 anni mentre era in isolamento, gli inquirenti non escludono alcuna ipotesi. Nell’istituto succede di tutto. Il ritrovamento di un cellulare, quarantuno dispositivi in un anno, un detenuto in alta sicurezza che pubblica su Tiktok i video dalla cella. “Condotte criminose “in un contesto di mancanza di controlli e di comportamenti collusivi di esponenti della polizia penitenziaria”, scrivono i magistrati. Il governo ha introdotto il reato di rivolta punendo perfino la resistenza passiva, ma non ha alcun effetto. Solo a Prato nell’ultimo mese si sono verificate due sommosse. Non mancano soprusi, torture e violenze sessuali, almeno due sono state documentate negli ultimi anni. In carcere, in questo momento, ci sono oltre sessantamila detenuti, all’inferno quotidiano si aggiungono anche le temperature torride. Il governo racconta un’altra storia, il sottosegretario Delmastro Delle Vedove ha spiegato le azioni in corso: “Assunzioni ciclopiche sotto il profilo della polizia penitenziaria, con i droni, abbiamo scanner che ci consentono di vedere quando entra e quando esce la droga all’interno dei nostri istituti”. Ora sarebbe interessante capire come e perché esca droga da un carcere, ma sarà un quesito al quale difficilmente si potrà dare risposta. Sulle assunzioni, invece, i numeri restano inadeguati. Nelle scorse settimane nel carcere romano di Regina Coeli un agente è rimasto in servizio per ventisei ore. I sindacati hanno convocato un sit-in il 31 luglio per la situazione di caos nel carcere di Trapani, in sei mesi i poliziotti hanno dovuto effettuare 38mila ore di straordinario, gli agenti devono recuperare sedicimila giornate di congedo maturate nell’ultimo triennio. Il ministro Carlo Nordio, invece, ha parlato di una task force e della possibilità per diecimila detenuti di accedere a misure alternative. L’ennesimo annuncio mentre in carcere si muore. A scoprire facilmente il bluff è arrivata la nota dal carcere di Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma che sconta la sua pena ed è diventato testimone del disastro in corso. Con lo scrivano di Rebibbia, Fabio Falbo, ha attaccato a testa bassa Nordio perché la materia, quella relativa alle misure alternative, è di competenza dei magistrati di sorveglianza e non può essere affrontata con una commissione ministeriale, ma con organici adeguati. Ci si chiede perché venga avanzata una proposta cosi improbabile da apparire inutile”, scrivono. I due detenuti poi elencano tutti i rimedi “irrealizzabili e fantasiosi”, del ministro. Prima la promessa di costruzione di nuovi istituti poi l’eterna idea delle caserme dismesse poi l’annuncio di voler “mandare il 25 per cento dei detenuti, quelli con problemi di tossicodipendenza, alle comunità terapeutiche, che però sono già strapiene di persone in trattamento e non possono accoglierne molte altre”. Un ministro tutto chiacchiere e senza neanche distintivo. Ministro Nordio…. basta rinchiudere, reprimere, punire di Antonio Bincoletto* tuttieuropaventitrenta.eu, 20 luglio 2025 Quando si parla di sicurezza c’è un grosso equivoco che viene alimentato e una verità non detta che andrebbe svelata: non è con la pura repressione che si ottiene un mondo più sicuro. Lo dimostrano una quantità di studi e dati di fatto su esperienze umane passate e presenti. Negli Usa la pena di morte tuttora applicata in alcuni stati non ha dissuaso dal compiere reati anche molto gravi (si pensi per esempio alle periodiche stragi fatte con armi da fuoco nelle comunità scolastiche). Risulta inoltre che da quando negli States si è applicato il modello definito “tolleranza zero” il numero di persone recluse nelle carceri americane sia aumentato di cinque volte, mentre il numero dei reati pare essere rimasto stabile. Qua da noi le relazioni annuali sui reati e sullo stato della giustizia registrano di anno in anno un calo dei reati più gravi (l’omicidio volontario, per esempio, passato dai 1938 casi del 1991 ai 300 circa degli ultimi anni). Certo oggi preoccupano alcune tipologie di fenomeni, per esempio i reati informatici, i femminicidi, la criminalità minorile in aumento, ma c’è una sproporzione fra l’insicurezza percepita e l’allarme sociale sistematicamente amplificato dai media da una parte, e l’andamento reale dei fenomeni d’illegalità dall’altra. L’immagine che si vuole trasmettere è quella di un mondo sempre più pervaso da pericoli riconducibili prevalentemente a soggetti provenienti da dimensioni “altre” (stranieri, clandestini, zingari, drogati, disadattati, psicopatici, marginali, soggetti non omologati…), rappresentati come fonti di minaccia, apprensione, paura. Corpi estranei che, secondo la narrazione ora in voga, si dovrebbero confinare in carcere e sottoporre a dure punizioni, dato che finora si sarebbero lasciati agire indisturbati e impuniti. Insomma, tutto il bene fuori, da tutelare, tutto il male dentro, da reprimere. Visione semplicistica, populistica, manichea e, in quanto tale, rassicurante per chi si allinea al pensiero dominante. In realtà si tratta di un sentire primitivo e certo regressivo anche rispetto ai livelli raggiunti dal nostro sistema democratico 50 anni fa, quando finalmente, in attuazione del dettato costituzionale, venne varato il nuovo ordinamento penitenziario che, sostituendo il precedente di epoca fascista (1931), afferma la finalità rieducativa della pena e il rispetto della dignità umana anche nei confronti dei cittadini in stato di privazione o limitazione della libertà. Dunque detenzione concepita non come “vendetta di stato” bensì come espiazione associata ad opportunità di trattamento che rispettino la persona e consentano di avviare positivi percorsi di cambiamento e reinserimento. Questa ritengo sia l’unica via che permetta di incrementare la sicurezza sociale e di ridurre la recidiva. Gli studi fatti in merito dimostrano che chi durante la detenzione svolge un percorso trattamentale positivo, riuscendo in tal modo ad accedere alle misure alternative, una volta libero ricade nel reato in misura minima, a differenza di chi espia la pena rinchiuso fino all’ultimo giorno e in maniera passiva, senza accedere a forme diverse di esecuzione penale (domiciliari, semilibertà, affidamento ai servizi sociali). In questi casi infatti il tasso di recidiva sale a livelli superiori al 70%. Dunque i riscontri e gli elementi scientifici per parlare correttamente di sicurezza in relazione alle modalità di espiazione della pena ci sarebbero, ma non vengono tenuti nella dovuta considerazione, vengono sistematicamente ignorati, ritengo per motivi di orientamento ideologico o di propaganda politica. Ne è riprova il cosiddetto “pacchetto sicurezza”, di recente convertito in legge attraverso un iter a dir poco discutibile e già oggetto di forti critiche provenienti dal fronte giuridico sia interno (Cassazione, Corte costituzionale) che internazionale (Cedu). Tale provvedimento infatti, oltre a prevedere nove nuove fattispecie di reato e appesantimenti di pena per reati esistenti, che sicuramente contribuiranno ad aumentare il sovraffollamento delle nostre carceri, non contempla misure concrete che consentano davvero di migliorare il sistema dell’esecuzione penale, per esempio potenziando l’organico degli operatori trattamentali (educatori, psicologi, mediatori…). Viceversa, pare che l’attenzione principale sia rivolta alla creazione di nuovi reparti di polizia “antisommossa” e alla repressione di ogni forma di protesta, anche pacifica e passiva, che viene ora considerata reato punibile con altro carcere. “Rinchiudere”, “reprimere” e “punire” sono le azioni che paiono premere principalmente, se non esclusivamente, all’attuale esecutivo. Ma illudere che tale approccio sia portatore di maggior sicurezza sociale è, ripeto, una colpevole menzogna. Lo ha ricordato di recente anche il Presidente Mattarella: le carceri “non devono essere una fabbrica di criminalità”; lo ribadiamo noi Garanti: un criminale recuperato nella società è una garanzia di sicurezza per tutti e un obiettivo costituzionale. L’attuale sovraffollamento carcerario (15.000 detenuti in più rispetto alla capienza regolare) non consente però di realizzare tale obiettivo e mantiene il nostro sistema dell’esecuzione penale in perenne stato di sofferenza e emergenza. Il tasso di suicidi fra le persone ristrette e fra gli operatori penitenziari, di gran lunga superiore a quello registrato fra la popolazione libera, ne è una triste e evidente testimonianza. Ciò nonostante l’esecutivo pare considerare “normale” tale situazione e il Ministro Nordio continua a ripetere che l’adozione di misure straordinarie, previste dal nostro Ordinamento, per ridurre le presenze nei nostri istituti rappresenterebbe un fallimento per lo Stato. Qualcuno è in grado di spiegare al ministro che un fallimento reale è già presente e consiste nel tenere le persone recluse in condizioni di sovraffollamento, con organici insufficienti a garantire adeguati percorsi trattamentali? Come far capire al ministero della Giustizia che la vera sicurezza non si può costruire attraverso la progressiva estensione di una detenzione essenzialmente punitiva e poco conforme al dettato costituzionale? Che non bastano le mere dichiarazioni d’intenti (“costruiremo nuovi istituti, daremo lavoro ai reclusi, assumeremo nuovo personale…”) per far fronte ai problemi che oggi assillano il sistema e per introdurre maggior legalità e più sicurezza tanto nel carcere quanto nella società? L’ha capito in qualche modo anche il Presidente del Senato, on. La Russa, che bisognerebbe anzitutto riportare subito il sistema nelle condizioni di operare regolarmente e di assolvere alle funzioni affidategli dalla Costituzione. E l’ha giustamente definito un “obbligo” da parte dello Stato. Temo tuttavia che in chi governa manchi una vera volontà d’ascolto di queste argomentazioni, che si vogliano piuttosto assecondare le spinte più viscerali e primitive presenti nella pubblica opinione per acquisire facili consensi, rinunciando però in tal modo ad avviare percorsi virtuosi che potrebbero, quelli sì, condurre ad una maggiore sicurezza dentro e fuori dal carcere. *Garante delle persone private della liberà personale del Comune di Padova Carcere, quando il volontariato è una vocazione: incontri con i protagonisti di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 20 luglio 2025 La bellezza in carcere: Luciana Delle Donne e la “Maison” con le detenute. Vite e tessuti tenuti insieme da un filo sottile; il recupero, in entrambi i casi, significa investire sul futuro. Luciana Delle Donne lascia la sua carriera in banca per dedicarsi alle donne detenute della casa circondariale di Lecce, non solo con il lavoro. “Il bello esiste e va ricercato ovunque”, è lo slogan del marchio “Made in Carcere”, da lei fondato nel 2007. A maggior ragione in un penitenziario: le donne lavorano e allenano la creatività, creando borse e gadget con tessuti che, altrimenti, andrebbero al macero. Per la sua attività nei penitenziari, Delle Donne viene premiata al Quirinale dal Presidente Sergio Mattarella, nel 2023. Diciotto anni di attività in carcere: dove sente di essere arrivata? Questa settimana appena trascorsa è un po’ un esempio di dove siamo arrivati. Mercoledì scorso abbiamo presentato un libro e riaperto la ‘Maison’ nel penitenziario femminile di Lecce, chiusa dal 25 luglio del 2024, purtroppo, a causa di un incendio. Quali difficoltà ha incontrato? La direzione e tutta la comunità penitenziaria sono stati fantastici in questi anni; siamo diventati una famiglia. Ma le difficoltà ci sono state. Durante il Covid, ovviamente, ci è stato impedito di lavorare, il che ha danneggiato molto l’attività. Poi con l’incendio dell’anno scorso siamo stati fermi un anno, con 10 persone che non potevano lavorare più dentro l’istituto. Ma ce l’abbiamo fatta a superare queste difficoltà, anche grazie all’aiuto prezioso dei privati. Il libro che avete presentato si intitola “Sprigiona il valore!”, scritto con Micol Ferrara e edito da Franco Angeli. Di cosa parla e qual è l’obiettivo? C’è una parte scientifica, in cui abbiamo fatto uno studio di fattibilità sull’impatto che genera il lavoro in carcere. Una sezione è dedicata a quella “cassetta degli attrezzi” - valori, buone pratiche - che abbiamo cercato di trasferire e divulgare. E a proposito di valori, per me, per noi è importante evidenziare che alcuni sono poco misurati nell’attività lavorativa ‘fuori’, ma riemergono a un occhio attento quando si parla di lavoro in un penitenziario. Noi li abbiamo chiamati Bil, Benessere interno lordo, per contrapporli ironicamente al Pil, Prodotto interno lordo. Parlo di valori come la fiducia in sé stesse, il rispetto, il senso di appartenenza a un gruppo di lavoro, che è molto più facile vedere e misurare nella realtà di un istituto. La sostenibilità è un po’ la cifra della sua Onlus che, con gli anni, è diventata un marchio... Sì, la nostra filosofia ruota intorno all’attenzione per l’ambiente, tramite il recupero di tessuti e materiali che gli altri tendono a scartare. C’è tutto un segmento del tessile che lo stesso settore della moda distrugge: del resto, nella logica consumistica, l’idea è quella dell’usa e getta. Una volta c’era l’abitudine di riciclare i vestiti, di darli agli altri quando stavano troppo stretti o non ti piacevano più. Sono felice di ricordare questa buona pratica tramite quello che facciamo, e che il modello sia stato replicato altrove. Cosa ha significato per lei lavorare con le donne detenute? Si parla di persone fragili, ma più che fragili ‘scomode’, perché trovare la chiave del reinserimento è sempre una scommessa. Ho avuto l’occasione di approfondire la loro conoscenza. Noi non vogliamo conoscere i reati, ma è importante scambiarsi le informazioni, soprattutto da un punto di vista psicologico, tant’è che vorremmo inserire la figura di un ‘coach’ che le aiuti a ricostruire il proprio percorso, anche a livello emotivo e non solo lavorativo. Mi piace pensare che, finora, ci siamo attivati per recuperare e mettere, diciamo, i ‘cerotti’ sulle ferite sia delle persone, che dell’ambiente. Finora non le abbiamo mai contate, non ci interessa farlo, ma sono state coinvolte circa 500 donne nella creazione dei prodotti ‘Made in Carcere’. Abbiamo ridato loro una nuova consapevolezza, proprio attraverso la creatività e la bellezza; cose che non si trovano facilmente in carcere, un luogo che viene sempre visto come di punizione e basta. “Nessuno si salva da solo” di Maria Teresa Caccavale* tuttieuropaventitrenta.eu, 20 luglio 2025 Fare volontariato in carcere non è semplice, non almeno come indicato dal precetto ecclesiale di fare visita ai carcerati. La nostra Associazione Happy Bridge con sede a Roma da anni si occupa di attività di volontariato a favore delle persone detenute e ex detenute o in detenzione domiciliare e sa bene quanta burocrazia e stigmi bisogna superare per realizzare gli scopi sociali. Il carcere è un luogo blindato dove la Sicurezza è l’obiettivo principale, il resto e precisamente la rieducazione e risocializzazione delle persone detenute è un problema secondario. Pertanto chi intraprende questa strada lo fa perché ci crede, oppure vuole farsi bravo agli occhi del prossimo. Noi di Happy Bridge apparteniamo alla categoria di quelli che ci credono e pertanto abbiamo bisogno di una grande energia per portare avanti le nostre attività. Siamo circa 18 soci effettivi, diversi volontari che si alternano nelle diverse attività, poi ci sono i simpatizzanti e poi ci sono i detenuti che coinvolgiamo nelle nostre attività. Quasi tutti professionisti, alcuni con esperienza in carcere come docenti, psicologi, avvocati, medici, ecc. I volontari invece sono professionisti che spesso non hanno avuto esperienza diretta in carcere ma che desiderano apportare un loro contributo in qualche nostra attività .L’attività principale della nostra Associazione è la formazione delle persone detenute e ex detenute al fine del loro reinserimento sociale e lavorativo, formazione che realizziamo non attraverso corsi professionali specifici ma attraverso attività culturali di vario genere che aiutino i detenuti a crescere culturalmente e ad orientarsi nel mondo del lavoro. L’esperienza ci ha insegnato che le persone detenute devono riformattare i propri pensieri prima di poter affrontare una attività lavorativa. Diciamo che è un processo più lungo e complesso quello che tentiamo di realizzare noi. Ovviamente diamo supporto continuo alle persone detenute sia attraverso il servizio mail o contatti con le famiglie, ad esempio per quanto riguarda il percorso trattamentale, legale, e di istruzione scolastica. Cerchiamo di orientarli verso il futuro e di essere per loro un punto di riferimento a cui rivolgersi in caso di necessità. Ci rapportiamo infatti con i servizi sociali, con l’Uepe, con la Caritas e Sant’Egidio, e anche con altre associazioni che magari si occupano di trovare alloggio o lavoro, insomma cerchiamo di creare reti per la soluzione dei problemi. Sotto il profilo economico non abbiamo mai ricevuto sussidi pubblici, autofinanziando tutte le nostre attività sia attraverso le quote sociali o donazioni di privati. Attualmente i nostri progetti riguardano i Laboratori di scrittura creativa in carcere, che si sviluppano in due incontri mensili presso la Casa Circondariale di Rebibbia e due incontri semestrali presso il Carcere di Frosinone. Riceviamo poi elaborati scritti dai detenuti nel Carcere di Paliano. Ci occupiamo inoltre di progetti europei sull’inclusione delle persone detenute e con fragilità, visitando e osservando le diverse carceri europee e disseminando i risultati delle Buone pratiche. Stiamo lavorando su un progetto Erasmus che si chiama Advice e ha lo scopo di creare ambienti di apprendimento più inclusivi e prevede la mobilità in Europa di 12 Learners, due attività di jobshadwing e un corso mobilità per lo Staff. Vorremmo coinvolgere qualche dipendente dell’amministrazione penitenziaria per cercare di sviluppare un dialogo di confronto sulla grave situazione in cui versano le carceri in Italia. Portiamo avanti opere di sensibilizzazione sociale sulle tematiche carcerarie, attraverso incontri organizzati da privati e da Enti pubblici, cercando di abbattere i muri e i pregiudizi della società civile. “Perché lui sì e io no”, come diceva anche Papa Francesco, e “nessuno si salva da solo”. Il nostro è un cammino continuo, Senza sosta, con cuore aperto, e desiderio di ascoltare e dare voce agli ultimi, agli invisibili, nella convinzione che il destino non ce lo scegliamo, portando loro speranza e coraggio per ricucire i fili della propria esistenza. *Associazione Happy Bridge Giustizia e lotte politiche di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 20 luglio 2025 Il ricorso in Cassazione per la sentenza Open Arms. Leggere le norme con gli occhiali della politica alimenta le polemiche. La battaglia che s’è innescata sul terreno della giustizia è arrivata al punto che su ogni iniziativa giudiziaria che abbia anche una minima ed eventuale valenza politica, si scatena un putiferio. Anche quella avviata con intenzioni tutt’altro che velleitarie, come pensavano i pubblici ministeri di Palermo decidendo di rivolgersi direttamente alla Cassazione per impugnare l’assoluzione di Matteo Salvini nel processo Open Arms. Immaginare che si accontentassero del primo verdetto dopo aver chiesto la condanna dell’imputato a sei anni di detenzione (calcolata basandosi sul minimo della pena prevista dal codice) era poco plausibile, ma nei loro propositi rinunciare all’appello e andare direttamente davanti al giudice di legittimità per sottoporgli una questione di puro diritto era il modo più limpido e neutro per ribadire che si stavano occupando di un procedimento penale, non di politica. Evitando in questo modo un secondo grado di giudizio che tornasse sul merito della vicenda affrontato in primo grado: il presunto sequestro di persona, le modalità di trattenimento dei migranti a bordo della nave, il cambio di linea del governo Conte 1 e tutte le altre questioni già vagliate nel dibattimento. Hanno scelto la via esclusivamente tecnica di rivolgere un quesito alla Cassazione, difficilmente eludibile dopo un’ordinanza della stessa Corte suprema (le Sezioni unite civili) sul caso simile della nave Diciotti che appare in palese contrasto con quanto affermato dal tribunale del caso Open Arms. Hanno chiesto come vanno interpretate le norme italiane e internazionale sui soccorsi in mare, in materia di concessione dello sbarco in luogo sicuro, e solo su questo punto si giocherà il resto della partita con la difesa di Salvini. Difficile immaginare una strada meno incline a strumentalizzazioni politiche e più garantista di questa. Ma nonostante le intenzioni, è scoppiata ugualmente la bagarre. E la prima reazione del ministro della Giustizia è stata l’annuncio di una riforma che preveda il divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione. Evidentemente neanche in Cassazione per questioni di legittimità. Una novità assoluta. Quando nel 2006 il Parlamento a maggioranza berlusconiana approvò la cosiddetta legge Pecorella (poi dichiarata incostituzionale dalla Consulta) per impedire ai pm di fare appello dopo un verdetto di non colpevolezza, aveva fatto salvo proprio il ricorso alla Corte suprema. Garantito peraltro dall’articolo 111 della Costituzione, che fissa i principi del giusto processo e in nome del quale l’attuale maggioranza e il governo in carica stanno approvando a tappe forzate la riforma della magistratura (separazione delle carriere tra giudici e pm; istituzione di due Csm separati costituti con il sorteggio puro nella componente togata; attribuzione dei procedimenti disciplinari a un’apposita Alta corte sganciata dall’organo di autogoverno), senza che il Parlamento abbia modificato una virgola del testo predisposto al ministero della Giustizia e approvato a palazzo Chigi. Che cosa abbia in mente il Guardasigilli per superare questo principio costituzionale si vedrà, ma intanto resta l’eco di uno “scandalo politico” evocato ai più alti livelli governativi suscitato da un ricorso esclusivamente tecnico, basato su una presunta “inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche”. Questione che solo la Cassazione può dirimere. Come resta la bacchettata del Guardasigilli al magistrato che ne avrebbe criticato il comportamento sul “caso Almasri”, paventando per lui persino un procedimento disciplinare. Ma in un articolo scientifico scritto per la rivista Cassazione penale (lungo 19 pagine e con un apparato di ben 52 note, poi riassunto in un’intervista a una testata online talmente tecnica da risultare anch’essa poco digeribile per i non addetti ai lavori), prima ancora del ministro il sostituto procuratore generale della Cassazione Raffele Piccirillo criticava i suoi colleghi della Procura generale e della Corte d’appello di Roma. I primi a sbagliare, a suo giudizio, nel non trattenere in carcere il libico ricercato dalla Corte penale internazionale (seguendo peraltro l’originaria versione governativa sulla vicenda, che attribuiva ogni responsabilità alle toghe); e solo in un secondo momento il Guardasigilli, che non intervenne per sanare il presunto vizio nell’arresto di Almasri. Questione di interpretazione delle norme, ancora una volta. Che se lette con gli occhiali della politica finiscono sempre e comunque per alimentare la polemica politica. Al di là di ogni più neutrale intenzione. Giustizia, promesse al palo: tra edilizia ferma e processo telematico al rallentatore di Irene Famà La Stampa, 20 luglio 2025 Le riforme sono solo a colpi di slogan e parte dei fondi del Pnrr è ancora da spendere. Caos giustizia. I temi sul tavolo del ministero sono numerosi: questione carceri, giustizia penale e giustizia civile, risorse del Pnrr. E sullo sfondo ci sono i toni sempre più aspri tra governo e toghe sulla riforma costituzionale in discussione e non solo. Carceri affollate ma edilizia penitenziaria ferma al palo - Strutture fatiscenti, pochi posti per troppi detenuti, carenza di personale: questi sono solo alcuni dei problemi del sistema carcerario. Il sovraffollamento è intorno al 130% e il numero dei detenuti è di oltre 62mila per 51.280 posti (oltre 4500 non sono disponibili per inabilità o ristrutturazione). Il decreto Carceri sicure del luglio 2024 ha previsto nuove infrastrutture e investimenti per 250 milioni di euro. Si è tornato a discutere sulla possibilità di utilizzare le caserme dismesse e a marzo è stato pubblicato il bando per la costruzione delle nuove celle. Il modello è quello dei centri in Albania con nuovi padiglioni da montare in spazi liberi nel perimetro di nove carceri già esistenti. “La costruzione di nuovi spazi non è neppure cominciata. E quale personale si occuperebbe delle nuove strutture, viste le gravi carenze attuali di organico?”, chiede il vicesegretario dell’Associazione nazionale magistrati Stefano Celli. Si valutano anche soluzioni alternative alla detenzione per circa 10mila detenuti con pene residue di meno di due anni, senza reati gravi o sanzioni disciplinari. E il ministero della Giustizia ha istituito una task force che ha già attivato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari per definire le posizioni. Il decreto prevedeva anche l’istituzione di un albo nazionale di comunità che possono accogliere detenuti con residui di pena bassi o con problemi di tossicodipendenza. “Poteva essere uno strumento utile - dice Celli -. A un anno dal decreto, però, non si ha notizia dell’albo”. Per il comparto giustizia sono stati stanziati oltre 2,8 miliardi di fondi Pnrr e parte sono ancora da spendere. Le maggiori risorse sono state destinate al reclutamento di nuovo personale per l’Ufficio del Processo, alla digitalizzazione e all’edilizia giudiziaria. A quanto si apprende solo il 41% dei funzionari previsti sarebbe stato assunto e poco meno del 20% dei fondi per l’edilizia sarebbe stato utilizzato. “Avrebbe dovuto esserci un piano nazionale condiviso, sostenuto da strumenti adeguati e da una visione complessiva della giustizia come leva di sviluppo - riflette Marco Bisogni, consigliere del Consiglio superiore della magistratura (Unicost) -. Il fatto che oggi ci troviamo a confrontarci con misure necessariamente emergenziali è già segno che quello spirito è stato disatteso”. Sul fronte della giustizia civile, il Pnrr puntava a una riduzione del 95% dell’arretrato entro fine 2024 e del 90% entro metà 2025. Obiettivo praticamente raggiunto, ma nel 2024 i procedimenti pendenti sono aumentati del 12%. “Occorreva incidere sulle cause strutturali alla base della durata dei processi” aggiunge Bisogni. Che ricorda come dal 2019 al 2025 “le scoperture sono passate dall’11,35% a più del 17%. Oggi mancano 1817 magistrati e circa il 40% del personale amministrativo e solo di recente il trend sulle scoperture dei magistrati segna un miglioramento”. Proprio al Csm è stata approvata una delibera in cui si suggeriscono interventi deflattivi, ovvero quelle misure come la mediazione o la conciliazione, per semplificare e velocizzare i contenziosi. Gli obiettivi Pnrr, che prevedevano una riduzione del 25% della durata media dei processi penali, sono stati superati, con una riduzione di circa il 28% a fine 2024. A creare particolari disagi, però, è stata App, l’applicazione promossa dal ministero della Giustizia per gestire il processo penale telematico. Dopo mesi di sperimentazione, dal 2 gennaio l’utilizzo di App è diventato obbligatorio non più solo nei casi di archiviazione o riapertura delle indagini, ma anche per tutti gli altri atti e i flussi processuali. Ed è stato il caos. Crash, errori di sistema, impossibilità di depositare i documenti e molti tribunali hanno ripristinato il deposito cartaceo, dando vita a un “doppio binario” in vigore sino al 31 marzo 2025. Centrale la riforma della giustizia voluta dal governo Meloni. Ecco i punti principali: la separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante, la creazione di due Consigli superiori della magistratura, con i componenti nominati per sorteggio, e la creazione di un’Alta Corte disciplinare. Tra governo e toghe è scontro. L’Anm denuncia che questa riforma mina l’autonomia del pubblico ministero e rischia di sottoporlo al potere dell’esecutivo. L’obiettivo, sostengono dal governo, è di aumentare l’efficienza e garantire l’imparzialità. “Questa riforma non sarà un’umiliazione dei magistrati, piuttosto un recupero della loro dignità e libertà - ha dichiarato Nordio -. Mai mi sognerei di entrare in conflitto con la magistratura. L’indipendenza è un principio non negoziabile”. “Assoluzioni impugnabili solo per i reati più gravi”, Nordio studia la riforma di Andrea Bulleri Il Messaggero, 20 luglio 2025 Si pensa a una norma per ridurre gli appelli contro le sentenze di proscioglimento L’ipotesi di uno “scudo” totale e i paletti della Consulta (che lo bocciò nel 2007). “Rimedieremo”. Non è una promessa dal sen fuggita, quella arrivata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio subito dopo la notizia del ricorso dei pm di Palermo contro l’assoluzione di Matteo Salvini. “Nei Paesi civili, le sentenze di assoluzione non si impugnano”, è la linea del Guardasigilli. Che presto potrebbe tradursi in un nuovo intervento per rivedere questo aspetto del processo penale, almeno per quanto riguarda la maggior parte dei reati. E impedire che chi è già stato giudicato innocente una volta non si veda poi condannato in secondo grado. Il dossier è allo studio di via Arenula. E venerdì è stato al centro di una riunione della Lega: al tavolo, gli esponenti del Carroccio con maggior voce in capitolo sul tema Giustizia. Ma anche dentro Forza Italia e Fratelli d’Italia è diffusa la convinzione che serva una riforma, per completare il lavoro cominciato un anno fa. Già il ddl Nordio infatti, approvato nel 2024, aveva messo una serie di paletti alla possibilità del pm di chiedere la revisione di una sentenza di non colpevolezza, escludendola per i reati minori (quelli cosiddetti “a citazione diretta”), che prevedono cioè una pena al di sotto dei quattro anni. Il primo tentativo - Sia il ministro che molti dentro Forza Italia, da sempre, sono convinti che questo “scudo” contro la possibilità di impugnare le sentenze di assoluzione andrebbe esteso a tutti i reati. Con una motivazione, per così dire, logica: come si può condannare qualcuno “oltre ogni ragionevole dubbio”, quando c’è già un giudice di primo grado che quei dubbi li ha messi nero su bianco in un verdetto? E infatti il centrodestra ci aveva già provato. Era il 2006, un’era politica fa, quando il governo Berlusconi partorì la legge Pecorella: un addio, tout court, alla possibilità per il pm di impugnare le assoluzioni. Una norma che l’opposizione dell’epoca bollò come “ad personam”. E che la Consulta di fatto cancellò un anno dopo. Con la motivazione che pm e imputato, essendo due parti in causa sullo stesso piano, devono poter disporre delle stesse “armi” processuali. E così, ecco il problema. Come elaborare una nuova riforma che vada nella direzione indicata da Nordio senza vedersela bocciare di nuovo dalla Corte costituzionale? Chi ha cominciato a studiare il dossier, nella Lega ma anche a via della Scrofa, ipotizza una via d’uscita. Questa: allargare il perimetro dei reati per i quali già oggi è previsto lo “scudo” anti-appello. Tenendo in piedi la possibilità di impugnare un proscioglimento solo per i reati più gravi, o quelli di maggiore allarme sociale. Terrorismo e criminalità organizzata, certo. Ma forse anche i reati violenti, e quelli relativi ad ambiti particolari come il codice rosso. Ipotesi su cui è cominciato il ragionamento, appunto. Una bozza di lavoro ancora non c’è, almeno a via Arenula. Ma potrebbe vedere la luce a breve. Specie se da Palazzo Chigi arriverà un imput in questo senso. Del resto è stata proprio Giorgia Meloni, due giorni fa, a mettere in chiaro che sulla giustizia è ora di “eliminare le storture”. Mentre per quanto riguarda il Carroccio, una proposta di legge del partito potrebbe essere presentata a stretto giro. E chissà che non serva da base per cominciare il confronto più nel dettaglio. Un’altra ipotesi di correttivo accreditata, seppur più light, è quella che prevede una sorta di punizione contro gli appelli “temerari”: se dopo un’assoluzione il pm fa appello e l’imputato è di nuovo assolto, questo finisce per pesare nel fascicolo di valutazione del magistrato stesso. Un’idea lanciata tempo fa con un emendamento del forzista Enrico Costa, che poi non si è tradotta in legge. Ma che è tornata a girare nei ragionamenti di queste ore. Lo scudo - Modifiche che, va però precisato, non riguarderebbero nello specifico il caso di Salvini (che ieri ha incassato la solidarietà dei colleghi sovranisti Marine Le Pen e Geert Wilders): i pm di Palermo, infatti, hanno fatto ricorso non in appello ma direttamente in Cassazione, una possibilità prevista dall’articolo 111 della Costituzione. E nessuno, almeno dentro FI e FdI, crede che “realisticamente” si possa cambiare la Carta su questo punto (non fosse altro che per mancanza di tempo, visto che servirebbe una legge costituzionale il cui iter è ben più tortuoso rispetto a quello ordinario). Al ministero della Giustizia però, sullo sfondo, emerge pure una seconda ipotesi più “estrema”. Quella secondo cui i tempi sarebbero maturi per provare di nuovo a reintrodurre uno scudo totale. Una legge Pecorella 2.0, insomma. Del resto, per quanto possa apparire improbabile, non è escluso che la Consulta (il cui verdetto due decenni fa fu criticato da molti giuristi) chiamata a esprimersi su un nuovo provvedimento non possa decidere diversamente rispetto al 2007. A sostegno di questa tesi, qualcuno ricorda le conclusioni della commissione Lattanzi, il team di giuristi che nel 2021, sotto la guardasigilli Marta Cartabia, elaborò alcune proposte di riforma della Giustizia. Tra cui, all’articolo 7, proprio la riforma delle impugnazioni, compresa (lettera C) “l’inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero”, motivata con un richiamo ai principi espressi dalla Cedu, la convenzione europea dei diritti dell’uomo. Quattro anni fa quella relazione fu riposta nel cassetto. Chissà che a via Arenula a qualcuno non venga in mente di rispolverarla. Perché i giudici chiedono dialogo (e rispetto) al Governo di Angelo Picariello Avvenire, 20 luglio 2025 Il procuratore antimafia Melillo: al sospetto si sostituisca l’attenzione. Parodi (Anm): dobbiamo poter esprimere le nostre considerazioni. Nordio studia intanto l’inappellabilità delle assoluzioni. Più che scontro, incomunicabilità. Ognuno per la sua strada, governo e magistrati: dopo l’annuncio della Procura di Palermo del ricorso in Cassazione contro la sentenza che ha assolto Salvini per la vicenda Open Arms - un “ricorso per saltum” che evita l’appello ma richiede una pronuncia della Suprema Corte - tiene banco la contromossa che il governo ha in mente, porre uno stop sull’impugnabilità delle sentenze di assoluzione. “La ricerca di nuovi equilibri intorno al principio di indipendenza della magistratura è legittima, ma si dovrebbe realizzare sostituendo al sospetto e alla sfiducia, l’attenzione e il rispetto; all’invettiva e alla contrapposizione polemica, il dialogo e la condivisione di un comune senso di responsabilità altrimenti si consuma progressivamente il tessuto istituzionale”, è il monito del procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo, da Palermo che confessa di aver inutilmente sperato in un allentamento delle tensioni almeno per l’anniversario di via D’Amelio. Niente, invece. “Non si capisce perché Matteo Salvini, come tanti altri italiani riconosciuti innocenti, debba subire la gogna e la fatica di un secondo giudizio. Siamo al lavoro per fare un ulteriore passo in avanti e assicurare a tutti i cittadini giudizi con sentenze chiare e tempi certi”, l’annuncio del sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, della Lega. I giuristi convengono sul principio. Alfonso Celotto, costituzionalista di Roma Tre, ricorda che, fra le proposte per combattere l’ingolfamento si parla da tempo dell’abolizione del ricorso in appello per le sentenze di assoluzione in primo grado, fatto salvo - però - quello in Cassazione. La Costituzione non garantisce il ricorso in appello, ma soltanto quello per Cassazione”, per cui si potrebbe eliminare l’impugnazione in secondo grado per tutti, aggiunge il costituzionalista. Ma, restando sul caso specifico, per Open Arms “non è stato fatto un appello, ma un ricorso in Cassazione. E il ricorso in Cassazione è previsto dalla Costituzione”, conviene il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Cesare Parodi, intervistato da La Stampa. E rivolto a Nordio replica: “O si cambia la Costituzione o il ricorso in Cassazione non potrà essere limitato”. Quanto alla premier Giorgia Meloni che aveva parlato di “accanimento”, per il presidente dell’Anm “il ricorso in Cassazione è possibile per ogni caso. Se ogni volta che accade è un accanimento, allora mi permetta di dire che si tratta di un accanimento diffuso. Semmai si tratta di una scelta diretta a semplificare il futuro”. E questo perché “una volta che la Cassazione si sarà pronunciata sul tema, che potrà riproporsi, tutte le procure italiane dovranno adeguarsi. La Suprema Corte scioglie i dubbi interpretativi e fornisce una linea di massima chiarezza e trasparenza”. Parodi si occupa anche degli attacchi del Guardasigilli al magistrato Raffaele Piccirillo il quale, a suo avviso, criticando il ministro per il comportamento sul caso Almasri “non ha dato un giudizio di valori, ma, a fronte anche della sua lunga esperienza, ha fatto una lunga serie di argomentazioni puntuali che sono il sale della discussione e dell’interlocuzione”. Mentre la replica di Nordio, nel “rifiutare con quei toni non la critica secca, ma l’argomentazione nel dettaglio, è una cosa che preoccupa parecchio noi magistrati. Se non è possibile neppure esprimere considerazioni in modo pacato e professionale, allora è un grave problema che l’Anm affronterà con determinazione”, avverte Parodi. “Nordio pensa di essere Churchill ma mi pare somigli più a Trump: ha la stessa idiosincrasia verso il diritto di critica e lo stesso progetto di addomesticare i magistrati”, attacca Giovanni Zaccaro, segretario di Area, corrente progressista dei magistrati. Uno scontro “ormai permanente” tra politica e magistrati la cui intensità “sale proporzionalmente all’avvicinarsi dell’approvazione della riforma costituzionale”, afferma, da altro punto di vista, il presidente delle Camere Penali, Francesco Petrelli. “La verità è che questo governo ha un problema serio con il dissenso”, sostiene invece la deputata del Pd Debora Serracchiani. Nordio senza freni imbarazza il Governo. Milano, i dubbi di Sala di Enrica Riera Il Domani, 20 luglio 2025 Le esternazioni del guardasigilli creano malumore nel governo. Che non può scaricarlo. Il sindaco indagato lunedì parlerà in aula. Carlo Nordio è dall’inizio della legislatura croce e delizia di Giorgia Meloni. Gaffeur semiprofessionista (contro le intercettazioni disse che i mafiosi non usano più il telefonino, si scoprì che Matteo Messina Denaro ne possedeva diversi durante la latitanza), re dei pasticci del caso dell’oligarca russo Artem Uss e della vicenda Almasri che ha portato pure la premier ad essere iscritta nel registro degli indagati, il ministro della Giustizia resta un intoccabile. Anche quando, da una piscina con Alfonso Signorini al Forte, attacca la magistratura a una manciata di giorni dal voto finale in Senato sulla riforma della giustizia. Dopo le ultime esternazioni del guardasigilli Carlo Nordio - che senza freni inibitori ha sparato a zero sul Csm e su un magistrato che ha osato criticare le sue scelte sul torturatore libico - a Palazzo Chigi le sono bocche sono cucite. L’ordine è quello di non commentare le parole del capo del dicastero di via Arenula che, per le sue riforme - basti pensare all’abrogazione dell’abuso di ufficio - è il simbolo delle battaglie garantiste della destra. Chigi si imbarazza - Tuttavia fonti accreditate spiegano a Domani che proprio in quei corridoi le uscite semi-eversive del ministro (che di fatto ha intimato silenzio ai giudici rei di lesa maestà, e ignorato - nel caso Open Arms - le norme della Costituzione che prevedono la possibilità per accusa e difesa di ricorrere in appello, hanno creato nuovi imbarazzi. “Meloni è nera”, viene riferito a questo giornale. Anche, sempre in base a quanto si apprende, all’ennesimo strafalcione istituzionale non esiste nessuna via di fuga. Nemmeno un eventuale provvedimento di rinvio a giudizio di Nordio da parte del tribunale dei ministri porterebbe il governo a scaricare il Guardasigilli, le cui sparate sono mal tollerate, ma il cui ruolo resta centrale, anche perché la riforma della separazione della carriere dei magistrati sarà l’unica tra quelle messe in cantiere a vedere la luce prima della fine della legislatura. Non solo: pensionare Nordio per questioni giudiziarie implicherebbe dover dare una spiegazione sul perché il governo invece protegge la ministra del Turismo Daniela Santanchè, afflitta da uno e più guai giudiziari, e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, condannato in primo grado per rivelazione di segreto. L’iper garantismo meloniano, di fronte all’inchiesta di Milano che ha travolto la giunta del sindaco Beppe Sala, non è infatti convinzione culturale della premier, ma è figlia delle contingenze: chiedere all’opposizione dimissioni per avvisi di garanzia o sentenze giudiziarie rischia di diventare un suicidio politico comunicativo. Caos a Milano - Lunedì intanto per il primo cittadino sarà il giorno della verità. Sala, come annunciato all’indomani dell’inchiesta coordinata dall’aggiunta Tiziana Siciliano, riferirà in consiglio comunale. Resistere o lasciare? Proseguire fino al 2027, anno di scadenza naturale del mandato, o andare a elezioni anticipate? Un dubbio che probabilmente ha trovato soluzione dopo tre giorni di incontri serrati con i partiti della sua maggioranza e con l’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi, per cui i magistrati hanno chiesto gli arresti domiciliari e che invece va verso le dimissioni. Per lo stesso Tancredi, di cui i pm meneghini rilevano i conflitti di interesse rispetto alla gestione della cosa pubblica, è stato fissato a mercoledì l’interrogatorio preventivo davanti al gip. Due dirigenti del Comune di Milano, invece, sono stati già ascoltati nei giorni scorsi come testimoni. Segno di come l’inchiesta che conta ben settantaquattro indagati, accusati a vario titolo di corruzione, falso e induzione indebita a dare o a promettere utilità, sia solo all’inizio. Così, mentre alcuni tra gli iscritti “eccellenti”, come l’imprenditore di Coima Manfredi Catella, mette in dubbio attraverso una nota la ricostruzione dei fatti da parte della procura milanese, il dibattito politico sulla vicenda impazza. E c’è chi, tra le fila di Fratelli d’Italia, ne approfitta per rilanciare. “Noi continuiamo a dire che Beppe Sala è un pessimo sindaco ma è innocente fino a prova contraria. Lo ha ribadito anche il presidente La Russa - ha detto il vicecapogruppo di FdI alla Camera, Alfredo Antoniozzi - Dovrebbe dimettersi solo ed esclusivamente sul piano politico, perché, come dice Giorgia Meloni, non basta un avviso di garanzia per essere colpevoli. Il Pd, purtroppo, non ha usato lo stesso metodo contro Giovanni Toti, contro Daniela Santanché, Andrea Delmastro e Roberto Occhiuto, invocando le dimissioni subito e solo per motivi giudiziari”. Questione di contingenza? Caso Open Arms, il viceministro della Giustizia: “Dai pm testardaggine processuale” di Simone Arminio La Nazione, 20 luglio 2025 Paolo Sisto, il vicario di Nordio: sulla riforma noto un certo nervosismo, eppure è una rivoluzione democratica. Il ricorso per saltum sull’assoluzione di Salvini e il caso Open Arms? “È un esempio di testardaggine processuale, pur nella regolarità del gesto tecnico - chiarisce Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia, senatore di Forza Italia e avvocato di lungo corso -. Come corretta e ben scritta continuo a pensare sia la sentenza di assoluzione in primo grado nei confronti di Matteo Salvini”. Senatore, come andrà a finire? “Sarà la Cassazione a dire la sua, non posso certo entrare nel merito del processo. Va detto che il ricorso ‘per saltum’ è nel tessuto connettivo del rito penale, anche se indubbiamente non frequentemente praticato”. Era lecito farlo? “La scelta di impugnare o no una sentenza è nella piena facoltà delle parti: chiedere il controllo della correttezza della decisione di un giudice è il presupposto che legittima i tre gradi di giudizio”. Dia il suo parere da avvocato... “Sarebbe impossibile, ed imprudente, senza una approfondita conoscenza degli atti. Se quello che si legge fosse vero, mi limito dall’esterno a segnalare che una decisione del giudice civile, anche se vi fosse assoluta identità di fattispecie, non ha il potere di condizionare una decisione penale, per espressa previsione normativa. Ma sarà la Cassazione a dire la sua”. Lei che idea si era fatto sul processo Open Arms? “Credo che la sentenza del tribunale dei ministri su Salvini sia assolutamente convincente ed equilibrata sia sul profilo del fatto che su quello del diritto, frutto del gran lavoro di Giulia Bongiorno. E d’altronde è davvero difficile pensare, anche sul piano logico, che il comportamento di un ministro possa essere autonomamente ritenuto illecito indipendentemente dalle scelte del Governo. C’è una naturale corresponsabilità con il presidente del Consiglio. Che in quel caso, ricordo, era Conte”. Secondo la Lega la procura di Palermo “cerca vendetta”. Secondo la premier Meloni su Salvini c’è un “accanimento surreale”... “Fermo il diritto di impugnare una sentenza, in questo caso, visto l’andamento del processo e la qualità della sentenza di assoluzione, il rischio che si tratti di un incaponimento della pubblica accusa indubbiamente c’è”. Crede abbia a che fare con la riforma Nordio, in aula martedì? “Certa magistratura, quella più legata alle logiche correntizie, mostra un indubbio nervosismo. Lo si legge in certe reazioni eccessivamente aggressive nei confronti di una riforma che, chiariamo, non è più del governo, ma del Parlamento. Sorretta da numeri, voglio sottolinearlo, che non sono più solo quelli della maggioranza”. State cambiando la Costituzione... “E dov’è l’eresia? Meuccio Ruini, in conclusione dei lavori della Costituente, disse che la nostra Costituzione sarebbe stata eterna proprio perché prevede di potere essere cambiata. E la cambieranno gli italiani, votando nel Referendum che seguirà i percorsi parlamentari, con l’esercizio rassicurante della democrazia diretta. Non è la prima volta e non sarà certo l’ultima. Senza dimenticare quanto siano illustri i padri della separazione delle carriere: da Matteotti a Calamandrei, Terracini, Chiaromonte, lo stesso Moro, fino a Falcone e molti altri. Noi di Forza Italia siamo figli di questi ideali”. Ma riuscirete a portarla a casa? “Credo, da sempre, forte degli input di Silvio Berlusconi ed oggi di Antonio Tajani, negli obiettivi che ci siamo posti. Questa riforma aggiunge democrazia e punta a restituire fiducia al cittadino nei confronti della giustizia, assicurando sempre la possibilità di avere un giudice terzo e imparziale, distante e diverso da chi difende come da chi accusa. E credo che anche molti magistrati, nel segreto dell’urna, condivideranno, oltre a questa naturale differenziazione, l’introduzione del sorteggio per i togati del Csm. Questo sarà il presupposto per garantire a ciascuno di loro la libertà di non dipendere più dalle correnti interne alla magistratura, ieri e oggi necessarie per potere fare carriera”. Torniamo a oggi. Che idea si è fatto del caso Sala? “Noi di Forza Italia siamo da sempre e indiscutibilmente garantisti. Una informazione di garanzia, per Costituzione, non consente di chiamare colpevole nessuno. La regola vale anche per tutti, Sala compreso. Nel caso specifico, semmai, Il rischio che vedo è che si voglia far inammissibilmente rivivere una norma abrogata, come l’abuso d’ufficio, trasformandola in una fattispecie ben più grave come la corruzione. Questo sarebbe gravissimo”. Ma è tornata Tangentopoli? “Da Tangentopoli abbiamo, ahimè, imparato molto, è stata una rivoluzione politica a mezzo indagini giudiziarie cruente. Un fenomeno che credo, nell’interesse di tutti, non si possa e non si debba più ripetere. E meno che mai abbiamo bisogno di nuovi pm protagonisti, che magari approfittino della loro funzione per acquisire popolarità e legittimazione a carriere diverse, come tanti ne abbiamo visti dopo Tangentopoli”. Come crede che si concluderà invece la vicenda Almasri? “Sull’operato del ministro Nordio è in corso un’inchiesta del tribunale dei Ministri, che va rispettata con la cautela nei giudizi. Detto ciò, ritengo che quanto da lui sostenuto abbia una linearità sia giuridica che fattuale. Ai tanti opinionisti che si lanciano in ricostruzioni spericolate, senza peraltro conoscere gli atti del procedimento, suggerirei più garbo e pazienza”. Musolino (Md): “Nordio non sa di cosa parla quando attacca il ricorso in Cassazione” di Giansandro Merli Il Manifesto, 20 luglio 2025 Intervista al segretario nazionale di Md dopo le polemiche scaturite dalla vicenda Salvini-Open Arms. “Se passa la riforma della giustizia le bordate contro i giudici potranno condizionarli. Mentre le attuali istituzioni tutelano la magistratura dalle intimidazioni governative”. “Contro le toghe usano il manganello mediatico”. È netto Stefano Musolino, segretario nazionale di Magistratura democratica e procuratore aggiunto di Reggio Calabria, il giorno dopo il nuovo round di attacchi governativi alla magistratura sui casi Open Arms e Almasri. Il vicepremier Matteo Salvini ha detto che i suoi avvocati davano il ricorso per scontato. C’è un pregiudizio? Salvini non si aspettava di subire un processo, convinto di un’immunità che non aveva. Ma il ricorso non è un fatto di preconcetti. Semplicemente nel frattempo c’è stata una sentenza delle Sezioni unite civili della Cassazione che su un caso analogo ha enunciato un principio di diritto difforme da quello fatto proprio dal Tribunale di Palermo in primo grado. Anche uno studente di giurisprudenza, mettendo insieme le cose, avrebbe preannunciato un ricorso dei pm. Sarebbe stato strano il contrario. I pm hanno scelto di andare dritti in Cassazione “per saltum”. In quali casi si adotta tale strada e cosa può succedere ora? È un percorso lineare: afferma che il fatto è stato accertato, ma resta il problema della qualificazione in diritto. Il miglior giudice che può risolverlo è la Cassazione, che può conformarsi alle Sezioni unite civili o esprimere un parere distonico. Tendenzialmente gli insegnamenti delle Sezioni unite, anche quelle civili, hanno un riflesso sul penale. Sebbene Cassazione penale e civile siano istituzioni diverse. A me pare improbabile una presa di posizione contro le Sezioni unite civili senza rimettere la questione alle Sezioni unite penali. Ma i giudici faranno ciò che ritengono meglio. Nordio dice che “nei Paesi civili non si ricorre contro l’assoluzione” e ha annunciato un intervento per impedirlo. Può eliminare il ricorso per Cassazione? No, ancora una volta Nordio non sa esattamente di cosa parla. Perché può, come è già stato proposto, impedire al pm il ricorso di appello sul presupposto che il ragionevole dubbio è in ogni caso superato dal fatto che un giudice si è espresso a favore dell’imputato. Ma se il tema non è la ricostruzione del fatto, ma la qualificazione in diritto è impossibile impedire al pm di ricorrere per Cassazione. O meglio: è molto rischioso. Significherebbe che il giudice di primo grado può commettere strafalcioni senza che la procura possa evidenziare l’errore in Cassazione. Il ministro dell’Interno difende sempre la polizia. Quello della Giustizia attacca continuamente i magistrati. Cosa dice questa dinamica? Dice che il governo ci vorrebbe come la polizia: un’istituzione servente. Ma solo una magistratura autonoma e indipendente può tutelare i diritti dei cittadini. Questo vale in tantissime cose di cui non si ha l’esatta percezione. Se la magistratura fosse servente farebbe gli interessi dell’esecutivo non dei cittadini. L’offensiva contro le toghe è su più fronti, ma ha particolare frequenza sui diritti fondamentali dei cittadini stranieri. Qui gli attacchi hanno colpito perfino Cassazione e Corte Edu. Perché su questo terreno? C’è la percezione che sul fronte migranti le preoccupazioni generate dai flussi spostino in ogni caso l’attenzione dell’opinione pubblica verso chi caldeggia quelle paure. Pur non avendo soluzioni. Neanche Meloni ne ha. Non c’è il rischio che il clima influenzi le decisioni dei giudici? Se passerà la riforma sulla separazione delle carriere tra pm e giudici probabilmente sì. Perché quella riforma riguarda soprattutto l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, intervenendo sul Consiglio superiore della magistratura e sul disciplinare. Con le istituzioni di garanzia attuali, che tutelano la magistratura dalle intimidazioni governative anche a mezzo stampa, i cittadini possono stare più tranquilli. Nordio dice che i magistrati, grazie a quelle istituzioni, credono di godere di “impunità”... Lo ha detto rispetto a un magistrato (il sostituto procuratore generale di Cassazione Raffaele Piccirillo, ndr) che ha espresso un’opinione qualificata su come Nordio ha gestito il caso Almasri. È una gravissima intimidazione. Evidentemente l’unica risposta del ministro ad argomenti di diritto è il manganello mediatico. Su quanto davvero il Csm operi con le modalità descritte da Nordio basta sentire cosa ne pensa il vicepresidente Fabio Tinelli e tutti gli altri eletti in quota centrodestra. Borsellino e la giustizia secondo Nordio di Francesco La Licata La Stampa, 20 luglio 2025 Ieri si è celebrato il 33°anniversario della strage di via D’Amelio, che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai 5 agenti della scorta: Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli. Così, come ogni anno, ci è toccato di assistere all’ipocrita e indebita appropriazione della memoria dei nostri martiri, caduti mentre portavano avanti, in perfetta solitudine, una difficilissima e pericolosa battaglia contro la “mafia totale” che aveva “conquistato” la Sicilia e si apprestava a varcarne i confini fino al resto del territorio nazionale. E, come ogni anno, assistiamo al poco gradevole vezzo di attribuire appartenenze politiche ai morti che, ovviamente, non possono confermare né smentire. Su Borsellino, poi, è da tempo che il centrodestra (prima Berlusconi, oggi la Meloni) portano avanti il tentativo stucchevole di trascinare dalla loro parte i morti, soprattutto a difesa di iniziative discutibili come molte delle proposte contenute nella cosiddetta prossima riforma della giustizia. Ora, passi per le fiaccolate e le manifestazioni “condivise ma non troppo” (a Palermo Arianna Meloni ma non la premier, forse in imbarazzo per i disastri giudiziari di elementi di spicco del suo partito in Sicilia), passi per il “buon ricordo di Borsellino”, ma non si può soprassedere davanti alle falsificazioni storiche di autorevoli rappresentanti del governo. Prendiamo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ex magistrato con un non eccelso curriculum, che da quando si è insediato cerca di distruggere sistematicamente quanto di buono c’è nel lascito a noi pervenuto dal lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tutto in nome di una presunta riforma che dovrebbe avere l’obiettivo di offrire maggiori garanzie e libertà ai cittadini e che, invece, va sempre di più somigliando ad una sorta di “rivalsa” di un ministro in passato poco amato dai colleghi. E ogni colpo di piccone, dalle critiche al concorso esterno (voluto da Giovanni Falcone), alla “riforma del CSM, alle limitazioni sulle intercettazioni che debilitano le inchieste, alla separazione delle carriere dei magistrati, viene puntualmente “sostenuto” dal ricorso alla fatidica frase: “Anche Borsellino e Falcone erano d’accordo”. Ovviamente non è così. Borsellino e Falcone erano strenui difensori dell’indipendenza della magistratura, ritenuta un bene irrinunciabile. Perché quei giudici non facevano le inchieste “per politica” ma non si tiravano indietro se si imbattevano in qualche politico che commetteva reati. E Borsellino, che in gioventù era stato iscritto ad una organizzazione giovanile del MSI non si sognava gesti di arroganza politica come quelli a cui oggi assistiamo. Basti pensare che lavorava in armonia con persone lontane dalle sue passate idee politiche, persone come Falcone che era un liberale di sinistra o addirittura Giuseppe Di Lello che scriveva sul Manifesto. No, non era questa la riforma della giustizia pensata da Borsellino e da Falcone. E non erano le loro diverse idee politiche a guidarli. E neppure erano soliti abbandonarsi a eccessi di potere se ricevevano critiche. Atteggiamento lontano dallo “stile Nordio” che pretende di avviare procedimento disciplinare contro il sostituto procuratore generale in Cassazione Raffaele Piccirillo “colpevole” di aver rilasciato una intervista per criticare iil comportamento del ministro nel caso Almasri. Cosa avrebbe fatto, Nordio, all’”amato Paolo Borsellino” quando non esitò (1988) a rilasciare due interviste (Unità e Repubblica) per denunciare lo smantellamento del pool antimafia portato avanti dal consigliere istruttore Antonino Meli, preferito a Giovanni Falcone? Via D’Amelio, Salvatore Borsellino: “Non sapremo mai la verità” di Alfredo Marsala Il Manifesto, 20 luglio 2025 Memoria e animazione sociale sono stati il fulcro delle celebrazioni, nessuna passerella istituzionale. La strage di via D’Amelio “ha impresso un segno indelebile nella storia italiana”. Parole nette che il Capo dello Stato Mattarella ha pronunciato nel giorno dell’anniversario dell’assassinio di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. Sono trascorsi 33 anni da quel 19 luglio del 1992, ma sono tanti gli interrogativi senza risposta sui quali la procura di Caltanissetta sta tentando di fare luce indagando sui depistaggi. L’ultima iniziativa è stata la perquisizione a casa dei familiari dell’ex procuratore Giovanni Tinebra, sotto accusa insieme all’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, ritenuto il ladro dell’agenda rossa. Giustizia e verità che continua a rivendicare il movimento delle agende rosse, con in testa Salvatore Borsellino, animatore della manifestazione che anche quest’anno ha riunito migliaia di persone in via D’Amelio, provenienti da ogni parte d’Italia. “Ho perso le speranze di raggiungere la verità. Ogni anno sembra di ricominciare. Ci hanno fatto vedere la borsa, ma non l’agenda rossa. L’agenda parla la borsa no” è la riflessione amara di Luciano Traina, fratello dell’agente di scorta morto nell’attentato. “Questo è un giorno che dovrebbe essere dedicato solo ai familiari. Le passerelle non ci interessano - aggiunge -Quel giorno arrivai in questa strada mezz’ora dopo l’esplosione. Ho riconosciuto mio fratello dalla gamba spezzata e dalla scarpa che indossava”. Memoria e animazione sociale sono stati il fulcro delle celebrazioni, con l’iniziativa ‘coloriamo via D’Amelio’ organizzata dal centro studi Paolo e Rita Borsellino: decine di bambini hanno disegnato nel luogo in cui quel pomeriggio di luglio c’era solo fumo e distruzione. Allestita anche la mostra “La scia di sangue delle stragi in Italia. Mafia eversione nera, servizi deviati e poteri infedeli” di Gaetano Porcasi. Nessuna passerella istituzionale, come imposto dal movimento delle agende rosse, anche se sono stati tanti i politici del Pd e 5s a partecipare. Elly Schlein è arrivata una decina di minuti dopo le 16.58, l’ora della strage ricordata con le note del silenzio, l’inno nazionale e le agende rosse alzate in aria dagli attivisti. La segretaria dem è rimasta una ventina di minuti, soffermandosi con la gente, a distanza dal palco. “È estremamente importante essere qui per portare avanti l’impegno che serve quotidianamente contro ogni fenomeno mafioso presente nella nostra società - ha detto Schlein -. Il fenomeno mafioso cambia pelle ma è sempre vivo, quando non spara o non mette le bombe non va sottovalutato. Il contrasto si porta avanti sia supportando il lavoro della magistratura sia facendo prevenzione, impedendo che la mafia arrivi prima dello Stato dove c’è ingiustizia sociale”. Come fa da anni, Fdi ha sfilato in serata con la fiaccolata organizzata da comunità ‘92 e Forum XIX luglio: in testa Arianna Meloni, Donzelli e i ministri Abodi e Ciriani. Nei giorni scorsi il partito di Meloni aveva annullato la tradizionale kermesse organizzata a Palermo dai gruppi di Camera e Senato proprio per celebrare l’anniversario, spostandola a Roma, per evitare eventuali polemiche per l’indagine della procura che ha iscritto nel registro degli indagati per corruzione due pezzi grossi di Fdi in Sicilia: Elvira Amata, assessora regionale al Turismo, e Gaetano Galvagno, presidente del parlamento siciliano. Quest’ultimo è stato immortalato in alcune foto pubblicate sui social alla festa per il matrimonio del figlio di Totò Cuffaro, nella tenuta agricola della famiglia del segretario della Dc in provincia di Catania proprio mentre a Palermo si commemorava la strage Borsellino. Il procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo: “La ricerca di nuovi equilibri intorno al principio di indipendenza della magistratura è legittima ma penso pure che non si possa realizzare se non sostituendo al sospetto e alla sfiducia l’attenzione e il rispetto; all’invettiva e alla contrapposizione polemica il dialogo e la condivisione di un comune senso di responsabilità, altrimenti si consuma progressivamente il tessuto istituzionale”. “L’Operazione Borsellino” porta all’anniversario più buio dell’antimafia di Attilio Bolzoni Il Domani, 20 luglio 2025 Informazione mischiata a disinformazione intorno al dossier su Mafia e Appalti che, secondo un generale ancora oggi indagato nel contesto delle stragi del 1993, è il movente dell’uccisione del magistrato. Una tesi sostenuta anche dalla commissione antimafia e che piace alla procura di Caltanissetta. L’operazione è stata orchestrata da gente del mestiere, che ha sapientemente mischiato informazione e disinformazione, una campagna a vasto raggio iniziata in sordina un paio di anni fa ed esplosa in tutta la sua virulenza quest’estate. È l’”Operazione Borsellino”, quella che sta segnando il trentatreesimo anniversario della strage di via Mariano D’Amelio, la verità e nient’altro che la verità sull’attentato che il 19 luglio del 1992 ha fatto saltare in aria l’amico più caro di Giovanni Falcone. La verità confezionata e imposta dall’”Operazione Borsellino” è rintracciabile in un migliaio di pagine di un rapporto giudiziario che era stato valutato monco e vago da più procuratori, il famigerato dossier su mafia e appalti dei carabinieri dei reparti speciali del generale Mario Mori, un documento che una propaganda di regime ha fatto diventare un totem. Una sorta di scatola nera che contiene tutti i segreti sull’uccisione di Paolo Borsellino, uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte ucciso dal cinismo di un’Italia canaglia che oggi è sicura di avere trovato il movente che per oltre trent’anni è stato scartato e bollato, nel migliore dei casi, come “fuorviante”. C’è ormai solo mafia e appalti per spiegare la morte del procuratore, c’è solo l’insabbiamento di un dossier per ricostruire i perché di quell’autobomba, resta solo la codardia e anche le contiguità della magistratura palermitana del tempo per capire cosa è accaduto o cosa non è accaduto fra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992. La verità, nient’altro che la verità. Prima era solo nelle tasche di un generale dal tempestoso passato, oggi è la verità e basta. L’”Operazione Borsellino” ha colpito forte: ha fatto centro. Qualche settimana fa un programma di attualità della Rai, Far West, ha titolato così la puntata: “L’ombra di mafia e appalti sulla morte dei due giudici”. Aggiungendo, tanto per abbondare perché non si sa mai, anche il nome di Giovanni Falcone fra le vittime eccellenti di ciò che ruotava intorno ai patti fra le imprese mafiose e i grandi gruppi industriali del Nord. Nessuno vuole sentire più parlare di piste nere o di patrimoni riciclati a Milano dall’aristocrazia mafiosa, è solo un gioco di borse che appaiono e scompaiono, di mezze frasi, di allusioni, di qualche nome appena sussurrato. Anniversario di manovre oblique, anniversario di falsità mascherate e di doppi giochi, di poteri sporchi che si annusano e di cavalieri serventi travestiti da opinionisti. Scatenatissimi, molti di loro probabilmente non hanno mai letto una sola riga di quel dossier, ma si mostrano certi che dentro quel migliaio di pagine - e soltanto lì - si possa trovare la soluzione del mistero. Un 19 luglio più cattivo era difficile da prevedere. Dietro l’”Operazione Borsellino” non è invece facile immaginare chi ci sia e quanto sia esperto di queste azioni di avvelenamento dei pozzi. Ma ciò che veramente preoccupa è altro, è che l’”Operazione Borsellino” è stata parallelamente accompagnata dalle attività ufficiali della commissione parlamentare antimafia e dall’inchiesta della procura della Repubblica di Caltanissetta. Si è assunta una grande responsabilità la presidente dell’Antimafia Chiara Colosimo, voluta a tutti i costi a Palazzo San Macuto dalla premier Giorgia Meloni, a farsi prendere per mano dal generale Mori (l’aveva fatto anche con l’ex terrorista nero Luigi Ciavardini, salvo poi chiedere pubblicamente perdono) e dirottare totalmente i lavori della sua commissione in favore della tesi di mafia e appalti come causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Un convincimento raggiunto senza alcuna istruttoria, una tesi prefabbricata e spacciata come inchiesta. Si stanno assumendo una grande responsabilità anche gli uffici inquirenti di Caltanissetta - e lo scriviamo con il massimo rispetto per il procuratore capo della Repubblica Salvatore De Luca - che hanno orientato principalmente le loro indagini sulla strage del 19 luglio nella direzione tanto amata dal generale Mori (e seguita pedissequamente dalla commissione antimafia), nonostante sia apparso un verbale di Paolo Borsellino che lega l’uccisione di Falcone a personaggi dell’eversione di destra. Il procuratore De Luca avrà sicuramente le sue ragioni, e speriamo di vedere presto i frutti delle sue investigazioni. Ma non siamo così sicuri che arriveranno rovistando fra quel dossier o assecondando i desideri di un generale che, è un forte nostro presentimento, sta portando tutti fuori pista. Calabria. “Nelle cucine delle carceri topi, insetti e zero controlli” di Lucio Musolino Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2025 Scioccante rapporto dell’Anticorruzione sulle condizioni del cibo per detenuti e agenti. Allarme per la correttezza degli appalti. Topi e insetti nelle cucine. Nessuna tracciabilità degli alimenti. Assenza dell’attestato Haccp. Mancata sostituzione dei filtri degli erogatori d’acqua. Irregolarità nella gestione e pulizia della cucina e dei magazzini. Ma anche “mancata verifica dell’etichettatura dei prodotti alimentari, scadenze non sempre monitorate, mancata verifica dello stato e funzionalità delle attrezzature di refrigerazione”, comprese quelle sulla temperatura del cibo nei frigoriferi. Il tutto garantito da “attestazioni di conformità positive”. Non è un ristorante degli orrori o un esercente “distratto” finito nel mirino dei Nas, ma sono le mense nelle carceri calabresi dove il controllore (lo Stato) non controlla e il controllato (l’azienda privata) intasca soldi pubblici per gestire, male, il vitto dei detenuti e degli agenti della polizia penitenziaria. In estrema sintesi è quanto” si legge in una delibera dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), notificata nei giorni scorsi dalle parti di via Arenula. Un provvedimento che fotografa cosa succede all’interno delle case circondariali. Tutto è iniziato nel 2023 quando il presidente dell’Anac, Giuseppe Busia, aveva delegato alla Ragioneria Generale dello Stato “l’esecuzione di specifici accertamenti ispettivi nei confronti del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria per la Calabria”. Da Castrovillari a Reggio, passando per Cosenza, Crotone e Catanzaro, l’esito è devastante per tutti: non solo perché certifica l’irregolarità nella gestione di tre appalti e dei relativi controlli (che funzionari pubblici avrebbero dovuto eseguire in maniera adeguata nei confronti delle società private a cui è stato affidato il servizio delle mense e della vendita di generi extravitto), ma anche perché dà la misura dell’attenzione dello Stato nei confronti della polizia penitenziaria e di chi è privato della libertà. Eppure, la procedura per vigilare sull’esecuzione del contratto esiste e prevede “tre livelli di controllo” da parte dei direttori dei singoli istituti penitenziari, del direttore dell’esecuzione del contratto (il Dec) e della Commissione di verifica e collaudo. A questo si dovrebbe aggiungere che “l’impresa affidataria è gravata da specifici obblighi documentali finalizzati a garantire la tracciabilità e la qualità del servizio erogato”. Niente di tutto questo funziona come dovrebbe. Anzi, a parte qualche segnalazione che ha portato a multe di poche migliaia di euro, l’amministrazione penitenziaria ha rilasciato sempre certificazioni di regolare esecuzione dell’appalto anche in presenza di gravi rilievi. Tranne in rare occasioni, infatti, nessuna penale applicata e “tolleranza verso inadempienze documentate” da parte delle aziende che hanno vinto appalti milionari grazie a ribassi fino al 15%. L’Anac non ha dubbi: “Le attività di controllo sono risultate frammentarie, talora meramente formali, e comunque inidonee”. La sensazione è quella di chi nasconde la polvere sotto il tappeto. Solo che in questo caso è lo Stato a farlo. Un esempio: visionando il registro delle segnalazioni, gli ispettori hanno scoperto che il 22 ottobre 2023 nel carcere di Catanzaro “un utente dichiarava di aver rinvenuto pezzi di metallo all’interno di un piatto di riso”. Eppure “non risultavano effettuati né approfondimenti, - scrive l’Anac - né l’adozione di provvedimenti conseguenti”. Sempre nella stessa struttura: “Condensa e muffa sulle pareti, obsolescenza delle scaffalature e dei frigoriferi, lavastoviglie non funzionante e mancato aggiornamento dei registri di disinfestazione”. A “San Pietro”, storico carcere di Reggio Calabria, la situazione supera ogni limite e il “rischio di proteste interne” è sempre dietro l’angolo: il 6 novembre 2023 il rup pro tempore ha confermato la “grave carenza igienico-sanitaria, con presenza di escrementi di roditori e insetti nei locali della cucina”. Pochi giorni prima era stata sollecitata una sanificazione che la società appaltatrice aveva dichiarato di aver eseguito con tre “interventi di derattizzazione”. Per uno di questi, quello del 27 agosto, non c’è alcun “riscontro documentale di un effettivo accesso del personale della ditta incaricata”. Tradotto: era domenica e quel giorno nessuno ha varcato i cancelli di “San Pietro”. Conseguenza una piccola multa e contratto non rescisso. Le conclusioni dell’Anac sono impietose per i funzionari pubblici: “Gravi criticità in ordine all’effettività dei controlli in fase di esecuzione contrattuale”. E la delibera, oltre che al “responsabile della prevenzione corruzione e trasparenza del ministero della Giustizia”, stando a quanto risulta al Fatto Quotidiano, sarebbe stata trasmessa anche alle varie Procure calabresi e alla Corte dei Conti affinché valutino ipotesi di responsabilità penali o, quantomeno, un eventuale danno erariale. Roma. A Rebibbia ancora un suicidio. “Così il carcere è una condanna a morte” di Luca Monaco La Repubblica, 20 luglio 2025 Detenuto si suicida a Rebibbia: aveva 54 anni. È il quarantunesimo caso dall’inizio dell’anno. Maurizio Di Battista, un uomo romano di 54 anni, sabato mattina è stato trovato morto nella sua cella singola al primo piano del carcere, nel reparto G12: è il quarantunesimo suicidio dall’inizio dell’anno. La dem Michela De Biase: “È una strage silenziosa”. Ancora un suicidio in carcere: un detenuto di 54 anni si è tolto la vita nel carcere di Rebibbia a Roma. A darne notizia è il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio. L’uomo lavorava presso la cucina del carcere fino a qualche mese fa. Ieri mattina - spiega De Fazio - è stato ritrovato impiccato nella sua cella singola al primo piano del reparto G-12 della casa circondariale di Roma Rebibbia. È il 41esimo detenuto che si toglie la vita dall’inizio dell’anno (più uno ammesso al lavoro all’esterno e un altro in una Rems), cui bisogna aggiungere ben tre operatori per un totale di 44 morti di carcere e per carcere. Un sistema detentivo, quello italiano, che infligge la pena di morte di fatto e che colpisce indiscriminatamente ristretti e operatori. I primi indipendentemente dal reato eventualmente commesso, i secondi per la sola ‘colpa’ di essere al servizio dello Stato”. De Fazio ricorda che a Rebibbia “sono stipati 1.565 detenuti a fronte di una capienza per 1.068 con un sovraffollamento di oltre il 143%. Per di più, il peso detentivo, compreso il surplus, è gestito da soli 650 agenti di Polizia penitenziaria (spesso solo sulla carta) a fronte di un fabbisogno di almeno 1.137 (quantificazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Con la conseguenza che i carichi di lavoro risultano esorbitanti e non completamenti espletabili e le turnazioni non hanno di fatto un limite, con la restrizione di diritti anche di rango costituzionale. Più che i palliativi balneari il Guardasigilli e l’intero esecutivo dovrebbero varare misure immediate per deflazionare concretamente la densità detentiva e potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, con gli agenti sempre più sguarniti nelle carceri fino a subire il caporalato di stato con turnazioni che si protraggono sino a 26 ore ininterrotte, ben differentemente dalle narrazioni governative”. L’ultimo suicidio si era registrato a Frosinone, dove un detenuto di 30 anni è morto in carcere dopo aver provato a togliersi la vita in cella. Ad aggiornare costantemente il bilancio di questa strage silenziosa è il dossier di Ristretti Orizzonti, che conta 43 suicidi dall’inizio dell’anno. “Siamo davanti a una vera e propria strage silenziosa che si consuma dentro le mura delle nostre carceri. Uno Stato civile non può tollerare che la detenzione si traduca, di fatto, in una condanna a morte”, dichiara in una nota la deputata del Partito democratico Michela Di Biase, componente della commissione Giustizia. “Il carcere di Rebibbia ospita oggi più di 1.560 detenuti, a fronte di una capienza di poco superiore ai mille. Il sovraffollamento è a livelli intollerabili, le condizioni igienico-sanitarie e psicologiche sono critiche, e chi lavora in questi istituti è lasciato solo”, spiega. “Di fronte a questa emergenza, il governo tace o, peggio, minimizza. Le dichiarazioni del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sono inadeguate e offensive verso una realtà che grida vendetta. Le carceri italiane sono allo stremo e chi ha la responsabilità politica della giustizia non può continuare a voltarsi dall’altra parte”, conclude Di Biase. Monza. Trovato impiccato nella sua cella, detenuto di 29 anni muore in ospedale di Dario Crippa Il Giorno, 20 luglio 2025 Alla fine non ce l’ha fatta. È morto all’ospedale San Gerardo di Monza Boussahab Otmane, un marocchino di 29 anni: era ricoverato dopo essere stato trovato impiccato nella sua cella. Detenuto alla casa circondariale di via Sanquirico da un anno, arrivava dal carcere di Vigevano dove scontava una pena per furti e aveva problemi di droga. Detenuto problematico, pare avesse grossi problemi di adattamento alla vita carceraria, soprattutto con gli altri detenuti. Con cui spesso litigava ed era coinvolto in risse. Di recente era riuscito ad accedere al lavoro e la sua pena sarebbe terminata nel settembre del 2027. Non è bastato, nel pomeriggio dell’8 luglio il 29enne è stato trovato dagli agenti di polizia penitenziaria impiccato. Rianimato e portato d’urgenza al reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Monza, è deceduto dopo tre giorni di agonia. L’ultimo suicidio in carcere a Monza risale a un anno fa, quando un detenuto straniero di 45 anni si era soffocato con un sacchetto di plastica. Un altro detenuto di 22 anni tunisino si era ucciso l’anno prima, sempre d’estate (ad agosto) sottolineando i problemi strutturali di un carcere sovraffollato e bollente d’estate. Carente di assistenza sanitaria e psichiatrica. Come comunicato di recente in Consiglio comunale dalla direttrice Cosima Buccoliero e come approfondito dai sindacati (dalla Uilpa alla Cgil) nella struttura monzese sono detenute circa 730 persone a fronte di una capienza di 411 posti. A giugno si è toccata quota 750. Al carcere di Monza il sovraffollamento è quasi dell’80 per cento, il che significa che ci sono quasi 8 persone ogni 4 posti disponibili. Spazi ridotti e strapieni, il caldo insopportabile, tanto che in città sono state avviate raccolte fondi per dotare i detenuti di ventilatori. Circa 500 persone ristrette hanno problemi di tossicodipendenza, gli stranierei sono 347. Gli episodi critici sono sempre più frequenti: 359 interventi disciplinari in sei mesi, 10 aggressioni, 29 oltraggi e violenze verbali, 71 colluttazioni, un incendio. Gli agenti di polizia penitenziaria troppo pochi: a fronte di un organico di 296 unità, in servizio effettivo ci sono 278 agenti. E “R-Estate in cella: il tema caldo del carcere” è il titolo dell’iniziativa che ha spinto l’altro giorno gli avvocati delle Camere penali del distretto di Corte di Appello di Milano-Lombardia occidentale (Busto Arsizio, Como-Lecco, Milano, Monza, Pavia, Sondrio, Varese) a montare sotto l’Arengario, nel cuore di Monza, la riproduzione di una cella. Con una domanda ai cittadini: cosa accadrebbe se vi rinchiudessero con altri in una cella di 4 metri per 2 che si trasforma in un forno in piena estate? Lucera (Fg). Detenuto trovato morto in carcere: si indaga su un possibile suicidio di Giovanna Tambo statoquotidiano.it, 20 luglio 2025 Il corpo dell’uomo è stato trovato privo di vita nel locale doccia del reparto detentivo. Una drammatica scoperta è avvenuta nella mattinata di ieri all’interno della Casa circondariale di Lucera, dove è stato rinvenuto il corpo senza vita di Danit Ionel Bucur, cittadino rumeno di 47 anni, detenuto dal marzo scorso. Secondo una prima ricostruzione, Bucur si sarebbe tolto la vita legando una corda - presumibilmente ricavata da lenzuola o indumenti - al soffione della doccia, provocandosi contestualmente anche una profonda ferita alla gola. Accanto al corpo è stata rinvenuta una penna modificata artigianalmente, la cui punta era stata affilata con evidenti intenti autolesionistici. Il taglio alla gola è apparso compatibile con una ferita autoinflitta. Sul luogo della tragedia è prontamente intervenuto il personale della Polizia Penitenziaria, che ha provveduto a mettere in sicurezza l’area e a dare immediata comunicazione all’autorità giudiziaria. A seguire, sono giunti il magistrato di turno della Procura della Repubblica di Foggia, il sostituto procuratore incaricato, e il medico legale, che ha effettuato i primi rilievi necroscopici sul corpo. L’identificazione è avvenuta senza dubbi, e il corpo è stato successivamente trasferito presso l’Istituto di medicina legale per l’esame autoptico, disposto dalla Procura al fine di accertare con certezza le cause del decesso. Danit Ionel Bucur si trovava ristretto presso l’istituto penitenziario dall’8 marzo 2025, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa a seguito di gravi reati: maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e tentata estorsione. Le indagini a suo carico erano ancora in corso, ma il quadro accusatorio appariva particolarmente pesante. Gli inquirenti non escludono tuttavia nessuna pista. Sebbene l’ipotesi principale resti quella del suicidio, sarà l’autopsia a stabilire se vi siano segni riconducibili a una colluttazione o ad un’eventuale aggressione. Prato. Il detenuto trovato morto nella cella di isolamento e il suo sfogo sul carcere di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 20 luglio 2025 Ancora nessuna ipotesi sulle cause del decesso è stata esclusa Al suo legale il detenuto aveva denunciato soprusi e il trasferimento punitivo. Il detenuto di 58 anni morto venerdì in cella di isolamento alla Dogaia di Prato, nei giorni scorsi aveva denunciato al suo legale di subire soprusi e di essere vittima di un trasferimento punitivo a suo giudizio ingiusto. Ed era pronto a fare formale reclamo. Ancora un mistero le cause della morte. “Non ho partecipato alla protesta alla Dogaia. Sono in isolamento, ma sono stato punito ingiustamente”. Aveva chiesto aiuto Costel, il detenuto rumeno di 58 anni trovato morto nel carcere di Prato venerdì mattina sul letto della sua cella nel carcere di Prato. Due giorni prima, l’uomo - condannato per violenza sessuale, maltrattamenti e lesioni, aveva chiesto un incontro al difensore perché voleva denunciare la difficile quotidianità del carcere e preparare un reclamo contro il provvedimento disciplinare che gli era stato inflitto. “Non ho fatto nulla” ripeteva in forte stato di agitazione al telefono. L’avvocato, impegnato per lavoro fuori dalla Toscana, aveva fissato un colloquio con lui il prossimo 22 luglio, suggerendogli di anticipare il reclamo all’ufficio matricola. Ma a quell’appuntamento Costel non si presenterà più. Non avrà modo di far sentire la sua voce. Come già aveva fatto in passato. Nel febbraio 2023 aveva denunciato alla garante dei detenuti di Prato Margherita Michelini le condizioni di estremo disagio in cui viveva e gli “scontri” con gli agenti della polizia penitenziaria. Protestava perché, condannato per violenza sessuale, era stato trasferito dalla settima sezione protetta a una ordinaria, a seguito della denuncia di molestie da parte di un recluso. Il suo stato di salute era precario, ma nonostante avesse sollecitato accertamenti clinici alla direzione sanitaria, non aveva mai ricevuto risposta. Era quasi sordo, percepiva in maniera distorta le parole e chiedeva un apparecchio acustico. Richiesta caduta nel vuoto. Era afflitto da dolori alla schiena che gli impedivano di sollevare pesi. Pativa per essere stato emarginato dagli altri reclusi: per questo preferiva restare in cella anche nell’ora di aria. Non sopportava più la vita nel carcere della Dogaia, aveva spiegato alla Garante: per questo aveva messo in atto uno sciopero della fame e della sete, aveva tentato di togliersi la vita danneggiando alcuni elementi in cella. Tutto per attirare l’attenzione sulla propria condizione: doveva scontare la pena ma voleva farlo in maniera dignitosa. Anche il difensore aveva segnalato alla Garante di aver notato lividi ed escoriazioni sul corpo di Costel che si era sollevato la maglietta per mostrarli. “Era depresso e avevo sollecitato al Provveditore per l’Amministrazione penitenziaria il suo trasferimento in un’altra struttura penitenziaria, ma evidentemente la richiesta è stata ignorata - spiega Margherita Michelini - Dopo due incontri Costel non aveva sollecitato altri colloqui e per questo pensavo che fosse stato spostato dalla casa circondariale di Prato. Non è andata così”. La Dogaia, con i suoi 600 detenuti, è retta temporaneamente da Patrizia Bravetti che a fine agosto sarà destinata ad altro incarico. Dopo tre mesi, tra qualche settimana, volge al termine anche l’incarico del comandante della polizia penitenziaria. “Sono stati mandati in missione a tempo determinato in attesa della nomina del nuovo direttore, ruolo al quale pare nessuno ambisca. La situazione è grave”, spiega la Garante. Nessuno infatti ha presentato la candidatura all’interpello bandito dall’amministrazione penitenziaria. Intanto la Procura di Prato guidata da Luca Tescaroli, ieri ha affidato l’incarico per l’autopsia sul corpo del detenuto. Apparentemente non ci sono segni di violenza esterna, quindi non si esclude la morte per cause naturali ma visto da tempo il carcere è nella bufera, con numerosi episodi di violenza, sono stati disposti accertamenti approfonditi per dissipare ogni dubbio. Sanremo (Im). Detenuto tenta di impiccarsi. “Domani 13 reclusi verranno trasferiti” di Giovanna Loccatelli La Stampa, 20 luglio 2025 Rimane critica la situazione nel carcere di Sanremo. Venerdì sera un detenuto, di origine magrebina, ha cercato di togliersi la vita impiccandosi. È stato salvato in extremis dalla polizia penitenziaria. “Ha utilizzato un lenzuolo come corda, gli agenti hanno sentito dei rumori strani e sono subito intervenuti” spiega Fabio Pagani, segretario della Uilpa. Questo episodio non è un caso isolato, chiarisce il medico dell’infermeria, Lorenzo Vigo: “In generale, ci sono tanti atti dimostrativi in carcere”. Poi scende del dettaglio: “C’è chi lo simula per attrarre l’attenzione, magari con la speranza di essere trasferito in un’altra struttura. Senza sapere che ci sono carceri ben peggiori di questo”. Oppure ci sono “magrebini che si tagliano”, con le stesse motivazioni. Il problema racconta Pagani è che ci sono “tanti tossicodipendenti e persone con problemi di salute mentale che dovrebbero essere curati altrove. Chiuderli in carcere h24 non serve a nulla”. Il sindacalista osserva che non sarebbe male mettere in pratica l’idea del ministro Nordio: ossia “trasferire in comunità terapeutiche i detenuti per reati collegati alla tossicodipendenza”. In effetti, se si guardano i numeri snocciolati da Sergio D’Elia di Nessuno Tocchi Caino, la questione assume dimensioni preoccupanti: “Durante la nostra ultima visita, il responsabile Serd- Servizio dipendenze Asl1- ci ha detto che il 35 per cento dei detenuti sono dipendenti da sostanze (ci sono 265 detenuti in tutto). Lo psichiatra ci ha comunicato che tra il 5 ed il 10 per cento sono psichiatrici puri e oltre il 50 per cento sono affetti da un disagio mentale”. Per ora le uniche soluzioni sul tavolo sono quelle “imposte” dal provveditore Galati che ha visitato il carcere di Valle Armea il 12 luglio scorso: “Ha puntato molto sull’organizzazione interna” spiega Pagani che poi aggiunge: “I detenuti devono essere chiusi nelle loro celle alle 19. A Sanremo non facevano rispettare questa regola. C’è da dire però che senza un maggior organico sarà molto difficile mettere in pratica le indicazioni”. Poi enumera le altre regole dettate dal provveditore: “I detenuti non possono andare in giro come vogliono e quando vogliono. Ha regolamentato l’accesso in infermeria. E soprattutto devono rimanere nel proprio piano, ci sono in tutto tre piani”. Tra i “miglioramenti” promessi, il trasferimento di alcuni reclusi in altre strutture: “Venti verranno trasferiti. Intanto domani ne partono 13”. Galati tornerà a fine estate, conclude Pagani: “Sarà nuovamente a Sanremo il 31 agosto. Se non troverà una situazione migliorata dal punto di vista organizzativo, alcune sedie salteranno, la prima quella della direttrice”. Milano. Un imam al Beccaria: un sostegno spirituale anche per i giovani musulmani detenuti di Tiziana Cairati mitomorrow.it, 20 luglio 2025 Per la prima volta nella storia dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, un imam entra ufficialmente a far parte del percorso educativo e spirituale offerto ai giovani detenuti. Si tratta di una svolta significativa per una struttura che oggi ospita un’ampia maggioranza di ragazzi di origine straniera, molti dei quali provenienti da paesi a cultura islamica. Secondo i dati ufficiali, il 78% dei giovani detenuti al Beccaria è straniero e, di questi, l’87% arriva da contesti dove l’Islam rappresenta la religione prevalente. Un dato che ha spinto le istituzioni a riflettere sulla necessità di offrire una guida spirituale adeguata anche ai ragazzi musulmani, così da garantirne l’assistenza morale in modo inclusivo e rispettoso delle loro radici culturali e religiose. Il protocollo tra istituzioni, Chiesa e comunità islamica - Il nuovo percorso nasce dalla sottoscrizione di un protocollo condiviso da più soggetti: il Tribunale per i Minorenni, la Procura dei Minorenni, il Centro di Giustizia Minorile della Lombardia, la direzione dell’Ipm Beccaria, l’Arcidiocesi di Milano e la comunità islamica rappresentata da una figura riconosciuta e autorevole. Il progetto ha ottenuto l’approvazione formale da parte del Ministero dell’Interno e il parere positivo del Ministero della Giustizia. Abdullah Tchina: un ponte tra fede e società - A ricoprire il ruolo sarà l’imam Abdullah Tchina, guida religiosa della comunità islamica di Sesto San Giovanni. La sua presenza al Beccaria non si limiterà alla funzione religiosa, ma avrà anche un valore educativo e sociale. Come ha spiegato la presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, Tchina sarà una “guida morale” per quei ragazzi stranieri, spesso non accompagnati, che faticano a trovare punti di riferimento. Prevenzione del disagio e contrasto alla radicalizzazione - Uno degli obiettivi centrali dell’iniziativa è la prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione, sempre più presenti nelle carceri. Offrire un punto di riferimento autorevole come l’imam permetterà di intercettare in anticipo situazioni di disagio o isolamento, offrendo ai ragazzi un’interpretazione equilibrata della fede e una via concreta per il reinserimento sociale, basata sul rispetto reciproco e sulla convivenza civile. Le parole dell’imam: “Essere un ponte” - “Per me questa è una nuova esperienza - ha dichiarato l’imam Tchina - ma è anche un’opportunità importante per costruire un ponte tra i giovani detenuti, le istituzioni e le altre religioni. Voglio dare loro una lettura religiosa equilibrata, ma anche accompagnarli socialmente verso un futuro possibile, dove possano sentirsi ascoltati e integrati”. Beccaria come laboratorio di inclusione - L’arrivo dell’imam al Beccaria rappresenta un segnale forte da parte delle istituzioni: non un gesto simbolico, ma un progetto concreto di inclusione e prevenzione. Un passo in avanti verso un carcere minorile che non sia solo luogo di detenzione, ma anche spazio di ascolto, crescita e possibilità di riscatto, per tutti. L’Aquila. Riaprono le porte del carcere minorile, vicina l’inaugurazione ilcapoluogo.it, 20 luglio 2025 A inizio agosto sarà inaugurato il carcere minorile dell’Aquila, che riapre le sue porte in città 16 anni dopo nei locali che ospitavano la Facoltà di Economia L’Istituto penale per minorenni riapre all’Aquila. Il carcere minorile era chiuso dal 2009, in seguito al terremoto, poi nel 2016 era stato un decreto del Ministero della Giustizia a sancirne la cancellazione. Adesso è tutto pronto per la riapertura, con l’inaugurazione in programma il prossimo 4 agosto, in località Acquasanta, negli spazi che ospitavano Economia. Se gli studenti Univaq, infatti, fin dal prossimo autunno saranno nei locali dell’ex monastero di San Basilio, gli spazi lasciati liberi potranno ospitare l’IPM: naturalmente, il complesso è stato completamente rinnovato ed adeguato alle nuove esigenze. Per la cerimonia inaugurale potrebbe arrivare in città anche il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, tuttavia i dettagli della giornata sono ancora da definire. Una riapertura che ha visto un lavoro partito da lontano da parte del Comune dell’Aquila. Il sindaco Biondi ha sottolineato la collaborazione tra attori: non solo Comune e Università, ma anche i sindacati e tutta la struttura dell’amministrazione della giustizia. Come specifica Il Messaggero, l’Istituto accoglierà minorenni e giovani fino ai 25 anni e avrà il compito di garantire non soltanto la custodia, ma anche formazione e reinserimento sociale. Come he evidenziato, infatti, la Garante regionale dei detenuti, Monia Scalera, “la riapertura è stato il primo impegno fin dal momento del mio insediamento. La presenza dell’ilm è importantissima in quanto va a colmare una grave lacuna che è quella dell’affettività e i minori sono i primi ad avvertire questa necessitò. Ma è importante anche la formazione, per questo stiamo lavorando con l’assessore Roberto Santangelo, che ha già destinato parte dei fondi FSE alla giustizia riparativa, per fare in modo che ci siano più gradi di istruzione”. Cagliari. “Le mani in pasta”, progetto per futuro lavoro delle detenute Ristretti Orizzonti, 20 luglio 2025 Saper realizzare prodotti alimentari tradizionali di qualità e confezionarli nel rispetto delle norme igienico-sanitarie per poterli vendere a privati e/o a ristoranti o alle gastronomie garantendo quindi tipicità e salubrità. Sono state le caratteristiche del progetto “Le Mani in Pasta”, il corso di pasta fresca tipica della Sardegna e dolci, curato dalla chef Laura Sechi di Vitanova di Cagliari. Una scommessa, promossa dall’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che ha consentito a 4 detenute della Casa Circondariale di Cagliari-Uta di ottenere anche l’attestato di partecipazione al corso di sicurezza alimentare (Ahccp) curato da Alberto Manca dell’omonimo studio di prevenzione cagliaritano. “Non si è trattato semplicemente di far apprendere le tecniche per confezionare malloreddus, ravioli con formaggio o ricotta, culurgiones con la menta o lorighittas - ha precisato Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Sdr - ma di promuovere nelle detenute una mentalità “imprenditoriale” per un futuro di emancipazione, lontano dalle sbarre e carico di prospettive. Le ragazze hanno appreso a lavorare in team a rispettare i ruoli e a utilizzare la manualità secondo protocolli molto rigidi”. “Per me - ha affermato Laura Sechi, che ha insegnato alle detenute anche i “segreti” per realizzare dolci, creme e torte - si è trattato di un’importante esperienza professionale e umana. Le ragazze erano fortemente motivate, attente, prendevano appunti e seguivano le lezioni con trasporto. Professionalmente ho riscontrato quella caratteristica passione che anima chi non apprende una tecnica solo per se stessa ma perché sente di poter condividere con altre persone il frutto del suo lavoro. Sono stati incontri importanti anche per me. Non a caso anziché 5 appuntamenti il corso è arrivato a otto lezioni”. Il percorso formativo sarà completato martedì 22 luglio nella cucina della sezione femminile della Casa Circondariale quando alle 12, nel corso di una conferenza stampa alla presenza del Direttore Pietro Borruto e della Responsabile dell’Area Educativa Giuseppina Pani verranno consegnati gli attestati, Seguirà un assaggio delle produzioni alimentari delle detenute. “Le mani in pasta” si è avvalso dei prodotti della Crai Sardegna Supermercati e del sostegno finanziario della Fondazione di Sardegna e della Grendi Holding SPA Benefit. Gli operatori dell’informazione scritta, televisiva, radiofonica e online sono invitati alla conferenza stampa. L’ingresso è stato autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Appuntamento martedì 22 luglio ore 12.00 Casa circondariale Cagliari-Uta. Napoli. Vincenzo Capuano, la pizza con i detenuti di Secondigliano Il Mattino, 20 luglio 2025 “Che possa essere una nuova opportunità”. Emozionatissimo, alla fine dell’incontro condivide con tutti i suoi fan un video sui social per raccontare del progetto. “Vivere di pizza è meraviglioso!”. Così Vincenzo Capuano, il campione mondiale della pizza contemporanea, dice in un video postato sui suoi canali social. Il video mostra il pizzaiolo davanti le mura del Centro Penitenziario di Secondigliano, il quartiere in cui è nato. Il video inizia con una frase d’impatto: “Si è appena concluso uno degli eventi più emozionanti della mia vita”. Vincenzo Capuano, artigiano della pizza partenopea, oltre a fare la pizza migliore (come ha decretato 50 Top Pizza), possiede anche un grande cuore. Da questo, forse, nasce la bella iniziativa: la bontà della pizza entra nel carcere di Secondigliano e diventa per i detenuti non soltanto occasione di imparare ma anche, e soprattutto, un momento di forte emozione e condivisione. Capuano continua così: “Io che sono di questo quartiere mi sento fortunato, e grazie alla pizza ho scelto una strada diversa”. Ed è vero: la storia di Vincenzo è frutto di sacrifici e riscatto e la pizza, forse, l’ha salvato da un destino che, invece, ha travolto molti altri. Ma il pizzaiolo dal cuore grande continua: “Voglio essere vicino a tutte le persone che hanno sbagliato e che attraverso la pizza possono trovare una nuova opportunità”. Non si è trattato soltanto di tramandare la maestria col quale compone un impasto di fama mondiale. Le storie di queste persone e il tempo condiviso con loro, è evidente nel video: lo hanno profondamente emozionato. La promessa, quindi, resta quella di tornare ancora. E, chissà, che la pizza possa segnare la redenzione e salvare la vita pure a qualcun altro. D’altronde la pizza “non è solo cibo” e, ancora una volta ne abbiamo avuto la prova. Unione, tradizione, passione e solidarietà. Ravenna. Teatro dietro le sbarre, il regista Sideri: “Non salva la vita, ma aiuta a migliorarla” di Maria Vittoria Fariselli ravennaedintorni.it, 20 luglio 2025 Dal 2016 i carcerati della casa circondariale ravennate frequentano corsi di recitazione. Il pubblico nell’istituto per lo spettacolo finale. “Il carcere è la manifestazione concreta dell’assenza di libertà. Il nostro lavoro ci permette di ricostruirla, almeno metaforicamente, creando un ponte con il mondo esterno”. Così Eugenio Sideri, regista e fondatore della compagnia ravennate Lady Godiva Teatro, commenta il progetto Teatro-Carcere, attivo dal 2016 nella Casa circondariale di Ravenna. Ogni anno, sono circa quaranta i detenuti coinvolti: “È una situazione particolare, dove molte cose date per scontate all’esterno qui non lo sono. Ogni anno è una nuova scommessa”. Il laboratorio si sviluppa nell’arco di diversi mesi (quest’anno da aprile a novembre) con incontri settimanali che si intensificano all’avvicinarsi del debutto in scena. Il progetto culmina poi nel festival “Trasparenze”, organizzato in collaborazione con gli altri otto istituti penitenziari in regione, che offre a spettatori esterni l’opportunità di assistere agli spettacoli dentro le carceri: “Non si tratta di visite di curiosità, ma di vere performance, spesso sorprendenti per qualità artistica e umanità”. Sideri, da regista, come seleziona i testi da rappresentare in un contesto tanto particolare? “Insieme agli altri registi del coordinamento regionale viene definito un tema triennale da sviluppare liberamente. Il ciclo precedente, Miti e utopie, ha ispirato rappresentazioni come l’epopea di Ercole, il mito di Orfeo ed Euridice e l’Inferno di Dante. Il nuovo triennio è dedicato ad Antonin Artaud e si apre con uno spettacolo che mette in dialogo la sua opera con la pittura di Ligabue: due artisti terrigni, veraci, feroci, che credo susciteranno molta emozione. Un aspetto centrale nella scelta delle tematiche è il distacco dalle biografie degli attori-carcerati. Non voglio conoscere le ragioni della loro detenzione, né che si identifichino nelle scene. Quando entro in carcere, lo faccio come regista, esattamente come farei con qualsiasi altra compagnia teatrale. Quest’anno però sarò impegnato con il progetto “I 7 cervi” e la regia passerà in mano alla mia collaboratrice Beatrice Cevolani”. Il progetto ha anche una valenza formativa? “Credo sia un aspetto intrinseco al percorso: alla preparazione attoriale si affiancano momenti di studio e analisi di testi, immagini e musiche. Questo approccio si arricchisce grazie alla contaminazione con l’esterno: ogni anno coinvolgiamo nello spettacolo attori della nostra compagnia e studenti, inizialmente del liceo classico, oggi del Ginanni. È un modo concreto per creare scambio e un’esperienza di crescita condivisa”. Ci sono stati casi di detenuti che, una volta usciti, hanno proseguito nel teatro? “A Ravenna direi di no, ma a Modena ci sono stati alcuni esempi. Personalmente non incoraggio questa strada: il teatro è un percorso complesso e precario, consiglio invece lavori più stabili economicamente. Negli ultimi anni però, grazie al progetto sviluppato con il Serd di Ravenna e la dottoressa Ludovica De Fazio, ho avuto l’occasione di rincontrare diversi ex detenuti, felici di mantenere un legame con quell’esperienza. Non vogliamo creare utopie con il nostro lavoro: il teatro non salva la vita a nessuno, ma può fornire qualche strumento in più per migliorarla”. Ci sono mai stati momenti difficili o imprevisti nel percorso? “Non abbiamo mai vissuto situazioni di tensione o conflitto, le difficoltà maggiori riguardano il basso livello di scolarizzazione di alcuni detenuti o le eventuali barriere linguistiche per gli stranieri. Un anno però, un ragazzo si è tolto la vita pochi giorni dello spettacolo. Non faceva parte della compagnia, ma l’evento ha avuto forte impatto su tutti. Lo spettacolo è inteso da sempre come un momento di festa e di comunità: ho riflettuto a lungo con i ragazzi della compagnia, chiedendoci se fosse il caso di proseguire. Loro non hanno avuto dubbi, lo spettacolo si sarebbe fatto, anche e soprattutto per lui, e per alleggerire quell’enorme dolore. Qui torna l’aspetto terapeutico del teatro…” Da esterno, come descriverebbe la situazione del carcere di Ravenna? “Risente di alcune delle criticità comuni alla maggior parte degli istituti italiani: sovraffollamento, carenza di personale e strutture datate. È piccolo, e in questo periodo dell’anno fa davvero molto caldo. Nonostante i limiti strutturali però, credo che sia amministrato al meglio, con competenza e grande umanità. Il progetto Teatro-Carcere è solo una delle proposte culturali attive e non mancano le opportunità di formazione professionale”. Stop a escalation bellica e macelleria sociale di Giorgio De Girolamo Il Manifesto, 20 luglio 2025 Sotto il combinato disposto di sole, asfalto e cemento, si è aperto poco dopo le 9 di ieri il presidio convocato dal nodo italiano della rete Stop Rearm Europe (che vede tra promotori e aderenti, tra gli altri, Arci, Cgil, Legambiente e Un Ponte Per) all’ingresso della base militare di Camp Darby, a pochi chilometri da Pisa, uno dei più strategici arsenali Usa nel paese. In 1.500 si sono riuniti intorno a una piattaforma di opposizione all’escalation bellica, al piano europeo di investimenti nel riarmo, e al genocidio del popolo palestinese del quale supporto essenziale sono i silenzi e le complicità degli stati occidentali, tra cui anche il governo italiano. Una rete complessa che ieri si è data un primo grande appuntamento politico dopo il corteo nazionale di 100mila persone a Roma dello scorso 21 giugno: un collettore di pacifismi, culture e linguaggi politici che stanno trovando nel bisogno di creare un’opposizione alle guerre, al genocidio, al riarmo e alla conseguente austerità, un’occasione di superamento delle fratture diffuse. È questo infatti il principale obiettivo, come sottolineato da Raffaella Bolini, vicepresidente nazionale dell’Arci: “Solo il 16% dei cittadini è disponibile ad andare a combattere. Il nostro compito è intercettare questo popolo, dare loro voce”. Forte anche la partecipazione del sindacato, con la segretaria della Cgil Toscana, Anna Maria Romano, che ha sottolineato: “La spesa militare è sbagliata anche in termini di ricaduta occupazionale e di sviluppo a lungo termine del paese”. Non sono mancati infine gli interventi degli studenti e dei precari della ricerca, colpiti in questo ultimo anno da un taglio di 500 milioni al fondo di finanziamento ordinario e da una riforma che ha aumentato ulteriormente la precarietà del lavoro accademico. In contemporanea a Firenze, in piazza degli Uffizi, veniva animato un presidio da parte dei lavoratori degli appalti dei principali musei fiorentini, che denunciano pessime condizioni di lavoro e salari da fame. Il legame tra riarmo e austerità sociale è evidente. Quello di Camp Darby è un tassello della rete di militarizzazione che pesa sul territorio pisano, da tre anni peraltro a rischio di ulteriore espansione. A denunciarlo è il movimento No base (presente ieri) che dopo lo spostamento da Coltano, al centro dell’area protetta del Parco di San Rossore, del progetto di una nuova base militare dei Carabinieri, si oppone a un analogo intervento di recupero ed espansione dell’area ex Cisam. Quest’ultimo, come denunciato nei giorni scorsi dal movimento, può beneficiare di una corsia preferenziale proposta con alcuni emendamenti di maggioranza al dl Infrastrutture, che farebbero venir meno il bisogno della Valutazione di impatto ambientale a fronte di opere considerate strategiche per la difesa. Dal palco è intervenuta anche una delegazione degli operai del Collettivo di fabbrica ex Gkn che, pur confessando “l’imbarazzo di parlare di lavoro di fronte a centinaia di migliaia di morti”, si è chiesta quali siano i valori occidentali che con guerre e riarmo si pretenderebbe difendere: “Due femminicidi e 3 operai morti al giorno, oppure quelli più fortunati come noi che con una mail si ritrovano senza lavoro dalla sera alla mattina?”. Il piano da essi elaborato di reindustrializzazione in senso ecologicamente sostenibile dello stabilimento (che da 4 anni presidiano e che oggi rischia lo sgombero) è forse la più chiara alternativa in reazione al netto abbandono da parte dell’Ue dei target di contrasto alla crisi climatica che ha lasciato spazio solo a investimenti nell’industria bellica per rimpiazzare il settore automotive. Gli organizzatori: “Il 12 ottobre ci sarà la marcia Perugia-Assisi. Entro il 15 ottobre il governo deve trasmettere alla commissione europea il Documento programmatico di bilancio, che sarà una macelleria sociale. Quale migliore data per organizzare una grande mobilitazione?”. I passi indietro sul fine vita di Marco Cappato* La Repubblica, 20 luglio 2025 In Parlamento si discute di fine vita. Quarant’anni dopo la prima proposta di legge per l’eutanasia a firma Loris Fortuna, a vent’anni dal caso Welby e a otto dal primo sollecito della Corte costituzionale, si vorrebbe poter dire “finalmente”. Potrebbe però non essere una buona notizia per chi soffre e chiede libertà di scelta. Delle regole sul fine vita, infatti, già esistono e c’è il concreto rischio che siano drasticamente peggiorate. Sono passati sette anni da quando la Corte costituzionale, con la sentenza sull’aiuto da me fornito a Dj Fabo, depenalizzò il suicidio assistito. Da allora i capi partito di ogni colore hanno continuato a ripetere “ci vuole una legge!” senza mai volerla fare, contando sul boicottaggio della sentenza da parte delle strutture sanitarie. Poi però la sentenza ha iniziato a essere applicata: otto persone hanno ottenuto legalmente l’aiuto a morire e la Toscana ha approvato la nostra legge regionale di iniziativa popolare che stabilisce procedure e tempi certi che il servizio sanitario deve rispettare nel dare risposta a chi soffre. Dopo l’approvazione della legge toscana e la sua applicazione nel caso di Daniele Pieroni i partiti di maggioranza si sono detti che il boicottaggio non è più sufficiente. Una legge è diventata indispensabile anche per loro: non per disciplinare l’attuazione del diritto già stabilito dalla Consulta, ma per cancellarlo. Non per consentire quella che Massimo Recalcati ha definito “la resa di fronte all’inesorabilità del male”, ma per ridare campo libero all’accanimento contro la volontà del malato e i pronunciamenti della Corte. Il testo di legge del governo è stato reso pubblico il giorno in cui Meloni ha incontrato il Papa ed è stato approvato in Commissione in fretta e furia. È una proposta che annulla il diritto oggi esistente all’aiuto alla morte volontaria in tre modi: 1. riduce la platea potenziale degli aventi diritto, trasforma il criterio della “dipendenza da trattamenti di sostegno vitale” in “trattamenti sostitutivi di funzioni vitali”, escludendo le persone dipendenti da assistenza e trattamenti forniti da familiari o caregiver; 2. prevede tempistiche tali da negare di fatto l’aiuto alla morte volontaria di malati terminali o con malattie neurodegenerative che potrebbero attendere fino a sei mesi una risposta; 3. cancella il ruolo del servizio sanitario nazionale sostituendo il parere consultivo dei Comitati etici territoriali e la valutazione dei medici della Asl con la decisione di un Comitato nazionale di nomina governativa che non avrà la possibilità di stabilire un rapporto personale con i malati; la persona che abbia ricevuto il parere positivo dal Comitato dovrebbe a quel punto rivolgersi ai privati, in Italia o in Svizzera. Un’ultima considerazione riguarda il metodo scelto. In Francia e in Gran Bretagna il dibattito sull’aiuto alla morte volontaria si svolge fuori da logiche di partito. In Gran Bretagna il testo è passato con il voto contrario di due ministri. In Francia il testo di iniziativa parlamentare è stato preceduto da un’assemblea di cittadini estratti a sorte, durata mesi. In Italia il governo ha invece deciso di portare in aula un testo che è espressione dell’accordo tra i partiti di maggioranza, sul quale non ha condotto alcuna consultazione, a parte quelle informali con la Cei. Come Associazione Luca Coscioni abbiamo deciso di mettere a disposizione una proposta alternativa, nel metodo e nel contenuto: la legge di iniziativa popolare “Eutanasia legale”, già sottoscritta da oltre 50.000 persone, che va nella direzione del rafforzamento dei diritti esistenti, per consentire l’aiuto alla morte volontaria anche per mano di un medico e anche per pazienti non dipendenti da trattamenti sanitari. Non ci facciamo illusioni. Le stesse persone che hanno boicottato per anni l’applicazione dei diritti esistenti ripeteranno ora il mantra “abbiamo fatto la legge che tutti chiedevano”. Davanti a un tema sentito e vissuto, come quello della legalizzazione dell’eutanasia, l’unico modo per tenere insieme proibizioni violente e consenso popolare è infatti mischiare le carte, far credere che con la nuova legge arrivino nuovi diritti. Il compito di spiegare come stanno le cose è di ciascuno di noi, dentro e fuori le istituzioni. *Associazione Luca Coscioni Migranti. Destini fuori gioco di Lorenzo D’Agostino Il Manifesto, 20 luglio 2025 Libia Alà Faraj è un ex calciatore libico in cella da 10 anni in Italia. Condannato, nonostante molti ragionevoli dubbi, con l’accusa di essere uno scafista responsabile della morte di 49 persone. “Ha detto: Il 9 di luglio è la mia data di nascita”, riferisce l’avvocata Cinzia Pecoraro, riagganciando il telefono. Dall’altro lato del filo c’è Alà Faraj, rinchiuso all’Ucciardone di Palermo. “Non è il vero compleanno, vuole dire che è come oggi fosse rinato”, specifica la professoressa Alessandra Sciurba, che di Alà ha curato una raccolta di lettere, in uscita a settembre per Sellerio e conosce il suo modo di esprimersi. Dopo dieci anni in prigione, il trentenne libico parla un perfetto italiano, ma restano le sfumature culturali. Capirsi non è facile. Il 9 di luglio Alà si sente rinato perché, per la prima volta da quando è stato accusato di essere uno scafista e un assassino, i suoi genitori sono venuti a trovarlo. Dieci anni fa la marina italiana lo salvò su un peschereccio con 49 morti. Asfissiati nella stiva, dissero i medici legali. Ammazzati, secondo i tribunali, da Alà e sette suoi complici, il presunto equipaggio di un barcone pilotato da un tunisino reo confesso che ha giurato, non creduto, che gli altri imputati non avevano alcun ruolo a bordo. Le famiglie di tre di loro sono arrivate da Bengasi per una visita organizzata in gran segreto dall’ambasciata libica. Pecoraro ripete le parole di Alà: “Ha detto: Avere la famiglia accanto è una cosa strana, che tu ti stacchi dal mondo, non senti più il tempo, ti dimentichi del posto… io oggi ho scoperto il vero significato del bello”. Sono le sei del pomeriggio e le famiglie libiche hanno appena lasciato lo studio di Pecoraro, sospinte da due funzionari dell’ambasciata, che hanno fretta di riportarle in aeroporto. Non hanno gradito la presenza di una troupe del Tg3, invitata a registrare un appello della madre di Faraj: “Chiedo al primo ministro italiano di prendere in considerazione la vicenda di mio figlio: lui è un calciatore, è venuto qui da ragazzino, ed è innocente”. La signora non riesce a trattenere le lacrime e chiede all’operatore un momento per ricomporsi. “No no, se piange è meglio!”, esclama l’avvocata. Pecoraro viene spesso paragonata a un mastino, per la tenacia con cui difende i suoi clienti. Un mastino, forse, è più sensibile. Ma è anche grazie a lei che su questa storia non è calato lo stesso silenzio che opprime tanti altri presunti scafisti sepolti nelle carceri italiane. “Io ho dei ragazzi che rischiano di farsi altri vent’anni da innocenti e voi dite che non se ne deve parlare?”, ha urlato ai funzionari che le rimproveravano la presenza dei giornalisti. Lei stessa non era stata avvisata dell’arrivo a Palermo delle famiglie dei suoi assistiti, ma è difficile tenere nascosta una cosa così. I funzionari temono che la pubblicità metta a rischio un accordo tra Italia e Libia per il rimpatrio dei detenuti, che sconterebbero la pena nel paese d’origine. Il negoziato ruota attorno a questo caso e va avanti da anni. Sei mesi fa sembrava cosa fatta: l’accordo era stato approvato nell’ultimo Consiglio dei ministri prima di Natale. In Italia la notizia è passata quasi inosservata, la stampa libica ne ha parlato con entusiasmo. A gennaio, pur mancando la ratifica parlamentare, il Libya Observer dava per probabile entro l’inizio del Ramadan il rientro in patria dei “calciatori di Bengasi” (tutti ormai associati alla professione che in verità il solo Alà svolgeva). Poi è esploso il caso Almasri, il torturatore ricercato dalla Corte penale internazionale che l’Italia ha scarcerato per rimandarlo a Tripoli con gli onori di Stato, e nello stesso periodo lo scandalo Paragon, il programma spia usato dal governo italiano contro attivisti e giornalisti. Tra loro l’attivista libico Osama El Goumati, che al giornalista Marco Lillo ha dichiarato: “Sono stato hackerato mentre mediavo con i servizi per la liberazione dei calciatori di Bengasi”. Così salta tutto. Le condizioni per restituire alla Libia quelli che l’Italia considera trafficanti e assassini non ci sono più. Per tenere tranquille le famiglie, che sui social iniziano a vociare contro l’ambasciata, arrivano i permessi per questa visita. Ma senza fare rumore: “Questo è un affare di Stato”, si lascia sfuggire un funzionario per calmare la furia dell’avvocata. Un affare di stato: di prima mattina all’Ucciardone, in attesa delle famiglie, era arrivata una telefonata dai piani alti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per raccomandare “la massima attenzione con questa visita”. “Massima attenzione in che senso?”. “Nel senso di facilitare le cose. Che se manca qualche documento, non mandarli a fare in culo come faremmo con qualsiasi cittadino italiano!”, dice, ridendo, un secondino. Ma un cittadino italiano non avrebbe neanche subito un processo per omicidio così approssimativo. Dopo la visita dei parenti, durata poco più delle tre ore concesse, è il turno dei funzionari dell’ambasciata. La madre di Alà siede in sala d’attesa accanto a quella di Tarek Laamami, che ha una gamba ingessata. Appaiono entrambe scosse, con gli occhi lucidi. Gli uomini fumano fuori. C’è anche un professore di Bengasi, insegna geometria a Palermo. È qui perché crede all’innocenza dei “calciatori”. Fa da interprete mentre si discute del perché siano stati arrestati proprio quei ragazzi. “Perché sono libici”, sintetizza. È anche il senso della testimonianza dell’ispettore Santo Macaluso, che a processo ha raccontato di averli individuati appena salito sulla nave di soccorso: “Ho notato un movimento strano di alcuni migranti che si distinguevano dagli altri, subito, per il colore della pelle, che era molto più chiaro rispetto agli altri”. Poi ci sono i verbali di polizia. Le dichiarazioni dei testimoni che raccontano le violenze contro i passeggeri nella stiva sono praticamente identiche, ripetute parola per parola, errori di battitura compresi. Copiate e incollate da un verbale all’altro. Un dettaglio che non sembra sorprendere molto il padre di Alà. Ma chissà fino a che punto ci si capisce attraverso l’interprete. Capirsi non è facile. E invece per polizia e magistrati è stato facile capirsi con i nove testimoni stranieri che, poche ore dopo lo sbarco, hanno ricostruito oltre ogni ragionevole dubbio la dinamica della morte di 49 persone nella notte di Ferragosto 2015. Si sono capiti facilmente con quattro donne ivoriane che sugli album fotografici non hanno riconosciuto i loro mariti e fratelli morti, ma con certezza otto membri dell’equipaggio (una ha provato a ritrattare in lacrime davanti al giudice: “Non ho riconosciuto nessuno”. Nessuno l’ha ascoltata). Con un cittadino pakistano di lingua urdu interrogato con interprete dall’inglese, che non parla. Con un profugo sudanese rinchiuso in stiva che a processo giura: a bordo non ci furono violenze, in stiva nessuno si muoveva per paura di affondare. Con tre migranti marocchini, uno dei quali nega di aver mai firmato gli album fotografici, ma poi accetta di riconoscere come suoi gli scarabocchi accanto alle foto degli imputati. Con tutti si sono capiti, e tutti, per la loro collaborazione, hanno ottenuto un permesso di soggiorno. Pene di trent’anni per i cinque imputati che hanno scelto il processo ordinario, venti per i tre che hanno chiesto l’abbreviato. Da allora non si è smesso di far politica sulla pelle degli otto detenuti. Cinque anni fa, quando 18 pescatori di Mazara del Vallo furono sequestrati in Libia per un conflitto sulle zone di pesca, qualcuno ipotizzò uno scambio: “I vostri pescatori in cambio dei nostri calciatori”. La proposta, respinta, fu definita “ripugnante” dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Il signore della guerra Haftar la abbandonò in cambio di una legittimazione internazionale: un viaggio a Bengasi di Conte e Di Maio, con foto di famiglia. Zuccaro, lo stesso pm che una volta accusò le navi ong di coltivare piani segreti per destabilizzare l’Italia, definì la vicenda dei giovani libici “un episodio fra i più brutali mai registrati”. Disse, senza saperlo, la verità. Migranti. “Nata in Italia e invisibile per 30 anni, sentivo di non esistere” di Sara Del Dot Il Domani, 20 luglio 2025 Una storia di apolidia. La presidente dell’Unione italiana Apolidi è cresciuta nel nostro paese senza documenti né diritti. “Come se non mi volessero né qui né nelle Filippine. La cittadinanza le permette di partecipare”. Karen Ducusin era solo una bambina quando le parole di un’assistente sociale l’hanno colpita come pietre, spiegando quella sensazione che l’aveva accompagnata per tutta la vita. Quella di essere diversa. Perché per quasi trent’anni non ha avuto documenti né cittadinanza, nonostante sia nata e cresciuta in Italia. “Quando sono nata, nel 1994 a Messina, mio padre voleva vendermi. A differenza dei miei fratelli non mi ha registrata all’anagrafe”, racconta. “Mia madre l’ha scoperto e, aiutata dai servizi sociali, mi ha portata con sé a Latina. Era incinta, non parlava bene l’italiano (i miei genitori sono di origine filippina). Per paura che le togliessero i figli, non ha fatto nulla”. Questa situazione ha attraversato tutta la sua crescita. Andava a scuola, a pianoforte, proseguiva la sua vita di bambina, ma non poteva partecipare alle gite con i compagni. Non aveva un medico di base. L’unico documento che aveva era un vecchio codice fiscale verde. A circa 12 anni è riuscita a dare un nome a quella sensazione. “Andavamo all’ambasciata filippina e mi dicevano che era competenza dell’Italia, ma in Italia mi veniva detto il contrario. Era come se non mi volessero né qui né nelle Filippine”, racconta. “L’esame di maturità”, aggiunge, “l’ho fatto con un foglio dell’ambasciata. Non potevo fare richiesta di cittadinanza perché ufficialmente non avevo la residenza. Era come se fossi invisibile e nessuno sapeva come aiutarmi. Davanti a me c’erano solo porte chiuse”. Anche all’ospedale di Messina non era possibile recuperare l’atto di nascita. “Emotivamente ho attraversato tante fasi. A volte mi rassegnavo all’idea di rimanere nascosta per sempre, altre volte subentrava l’apatia, non mi importava più di nulla”, spiega. Quando vedeva le amiche tornare dai viaggi si chiedeva: “‘E io?’ Alla fine cercavo sempre una soluzione perché avevo tanti sogni. Volevo fare l’università, volevo viaggiare”. Per anni Karen ha conservato ogni oggetto che potesse testimoniare il fatto che era sempre stata qui: “Cartoline, pagelle di scuola, pagamenti, lettere di auguri, ogni cosa su cui c’era il mio nome e che provava la mia esistenza”. Nessun riconoscimento - L’articolo 15 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sancisce che “ogni individuo ha diritto a una cittadinanza”. Eppure quello di Karen Ducusin non è un caso isolato. Si chiama apolidia, significa “non essere considerato cittadino da nessuno stato” ed è riconosciuta come violazione dei diritti umani, in grado di avere un impatto dannoso, impedendo la realizzazione del proprio potenziale o di svolgere un ruolo attivo nella società. Significa essere esposto a pericoli e abusi, essere escluso da diritti come il voto, il lavoro, l’assistenza sanitaria, l’eredità, l’affitto di una casa. Gli occhi del mondo, su di loro, sono chiusi. A ricordarlo è la “Mappatura dell’apolidia in Italia” di Unhcr, che stima la presenza di milioni di persone apolidi a livello globale. L’Italia, dove se ne contano circa 3mila, fa parte dei 30 paesi del mondo in cui esiste una procedura di determinazione di questo status, con l’obbligo di identificare e togliere gli apolidi dalla loro condizione di invisibilità. Tra le cause ci sono discriminazioni su base razziale, etnica o religiosa (oltre il 75 per cento della popolazione apolide riconosciuta appartiene a gruppi minoritari), ma anche lacune e conflitti nelle leggi sulla cittadinanza o ostacoli di natura burocratico-amministrativa. Alcuni apolidi hanno affrontato percorsi migratori, altri non sono mai usciti dal paese in cui sono nati, proprio come Karen. Che inizia a vedere una luce nel 2019, quando con un’avvocata è riuscita a fare una registrazione tardiva a Messina. Aveva 25 anni. Un anno dopo ha ottenuto la protezione speciale, e si è iscritta all’università. La cittadinanza ha continuato a esserle negata, ha fatto ricorso, e con il supporto di Unhcr ha richiesto lo status di apolide. Poi, a febbraio 2024, la svolta. A 30 anni, Karen Ducusin è diventata cittadina italiana. “Per prima cosa ho chiamato mia madre e il mio fidanzato. Ho pianto disperatamente e riletto per ore la sentenza. E ricevuta la carta d’identità ho fatto il primo viaggio della mia vita”, racconta. Oggi è presidente dell’Unione italiana Apolidi, fondata per impedire che altre persone possano sentirsi perse come troppo spesso si è sentita lei. Ha mantenuto l’abitudine a conservare le sue piccole prove di esistenza, anche se ora non le servono più. “Ci contattano molte persone per capire se sono apolidi, ma anche chi vuole togliersi la cittadinanza, senza però rendersi conto del diritto di cui vorrebbe privarsi. È bellissimo - conclude - perché per tanto tempo ho avuto voglia di partecipare ma non potevo. Adesso invece è come se avessi tutto in mano. Quanto ho desiderato tutto questo”. Droghe. “Così il Fentanyl è finito nelle mani della ‘ndrangheta” di Antonio Maria Mira Avvenire, 20 luglio 2025 “Un fatto molto preoccupante, un salto di qualità terrificante”. Così il procuratore facente funzioni di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, conferma l’allarme Fentanyl lanciato in occasione della doppia operazione “Arangea bis-Oikos” contro il narcotraffico in mano alla ‘ndrangheta, cocaina soprattutto ma ora anche il pericolosissimo stupefacente sintetico che sta provocando migliaia di morti, soprattutto negli Usa. “Il Fentanyl è tra noi - avverte Lombardo -. È una traccia molto preoccupante, perché senza andare troppo nei dettagli sappiamo bene quanto questo oppiaceo abbia di recente occupato spazi nell’enorme mercato delle sostanze stupefacenti, non soltanto in ambito europeo. Siamo preoccupati perché quando questo tipo di droga entra in circolazione il rischio sociale diventa incalcolabile”. Il procuratore non si stupisce che la ‘ndrangheta abbia fiutato anche questo affare. “Il suo programma criminale è molto ampio e non tralascia nulla, ma credo che l’attenzione investigativa sia altissima”. Piuttosto, è il suo appello, “noi continuiamo a chiedere la collaborazione di tutti coloro che vivono sulla loro pelle la gravità del fenomeno e la sua capacità straordinaria di incidere sulla vita di tutti noi non solo sul territorio calabrese ma in tutta l’Italia e in un ambito globale nel quale la ‘ndrangheta è definitivamente protagonista assoluta di determinate dinamiche”. Anche da queste vicende, sottolinea Lombardo, “è emersa ancora una volta l’ampiezza del fenomeno ‘ndrangheta, che costantemente si evolve, si espande, cerca nuovi mercati, dispone di risorse economiche enormi, ed è formato da una rete straordinariamente efficiente di soggetti stabilmente in grado di gestire operazioni complesse”. Ovviamente, sottolinea Lombardo, “il narcotraffico è in questo momento l’ambito in cui opera di più e che consente di generare tutta una serie di sinergie criminali che hanno trasformata la ‘ndrangheta e l’hanno fatta diventare un protagonista assoluto a livello mondiale di quelle che sono le grandi rotte che riguardano non solo l’Europa ma il resto del mondo”. Così “una tonnellata di cocaina rende 100 milioni in Europa e 300 milioni in Australia e questo fa comprendere come la ‘ndrangheta investa dove si riescono a raggiungere risultati ad altissima redditività”. Dunque, spiega il magistrato che guida la Dda di Reggio Calabria, “la Calabria rimane baricentrica ma le logiche criminali che governano la ‘ndrangheta sono globali e vanno ben oltre l’ambito locale che però noi cerchiamo di investigare costantemente perché le risposte poi arrivano partendo sempre da qui”. Dunque “è necessario non interrompere mai l’attività investigativa perché sappiamo che perderli di vista anche per poco tempo significa rischiare di non riconoscerli più e soprattutto di non riconoscere la loro straordinaria capacità di adattamento a determinate logiche criminali che non sono più calabresi, non sono italiane, non sono europee ma si inseriscono in uno scenario mondiale che guarda con crescente attenzione a tutta una serie di evoluzioni del mercato, in particolare quello degli stupefacenti”. Così indagando proprio sulle cosche reggine, anche in piccoli paesi come San Roberto, gli investigatori hanno scoperto la presenza del Fentanyl. Ma, avverte il procuratore, “le investigazioni sono sempre più difficili perché le modalità di comunicazione sono in continua evoluzione. Le tecnologie investigative vanno utilizzate anche cercando di recuperare il gap rispetto ad altre realtà che avevano investito di più e meglio in questo ambito. Senza sfruttare fino in fondo le nuove tecnologie è difficile bucare le filiere comunicative che caratterizzano le organizzazioni criminali più evolute”. Ricordando che “colpire la ‘ndrangheta vuol dire colpire la componente più importante del sistema criminale integrato”. Stati Uniti. Alligator Alcatraz, due italiani detenuti nel centro migranti in Florida di Viviana Mazza Corriere della Sera, 20 luglio 2025 Si tratterebbe dell’italo-argentino Fernando Eduardo Artese (titolare anche di cittadinanza argentina) e del siciliano Gaetano Cateno Mirabella Costa, di 45 anni. La Farnesina ha confermato che due italiani si trovano ad Alligator Alcatraz, il centro di detenzione per migranti irregolari così soprannominato perché circondato da paludi con coccodrilli. Il presidente Trump ha detto che il centro è destinato “ad alcune delle persone più feroci del pianeta” in attesa di essere espulse dagli Stati Uniti. I due italiani sono Fernando Eduardo Artese, 63 anni, con passaporto italiano-argentino, e Gaetano Cateno Mirabella Costa, 45 anni, nato a Taormina. La denuncia - “Questo è un centro di concentramento, ci trattano come criminali, lo scopo è l’umiliazione. Siamo lavoratori e gente che lotta per le proprie famiglie”, ha detto Artese in un’intervista telefonica con il quotidiano Tampa Bay Times. Sua moglie Monica Riveira e la figlia Carla Artese raccontano che è stato fermato in Florida il 25 giugno alla guida del loro camper, mentre cercavano di lasciare il Paese a causa dei problemi di visto: erano diretti in California per oltrepassare il confine, andare in Argentina e da lì a Madrid dove Carla, 19 anni, nata in Spagna, avrebbe iniziato l’università. Volevano documentare il viaggio su Youtube col titolo “Argentinomades”. Quando la polizia li ha fermati è emerso un mandato d’arresto: a marzo Artese era stato multato per guida senza patente e non si era presentato in tribunale temendo l’espulsione. Era arrivato nel 2001 con il programma Esta, è rimasto oltre i 90 giorni consentiti, raggiunto nel 2018 dalla moglie 62enne con visto studentesco e, legalmente, dalla figlia. Lavorava installando telecamere e vivevano in un parco di case mobili. Mirabella Costa invece sarebbe stato trasferito nel centro di detenzione lo scorso 9 luglio, dopo l’arresto lo scorso gennaio per detenzione di stupefacenti senza prescrizione medica e aggressione di un anziano; è stato condannato a maggio a sei mesi di carcere. Poi è stata disposta la sua espulsione in Italia per violazione delle norme migratorie. La polemica - Le condizioni della “Alcatraz degli alligatori” sono diventate oggetto di polemica. In un’altra intervista uscita l’11 luglio sul Miami New Times, Artese dice che indossa la stessa tuta arancione ricevuta all’arrivo, che ci sono solo tre docce e quando i gabinetti si sono rotti i detenuti hanno dovuto rimuovere le feci con le mani. La moglie ha detto a La Nacion: “Lo tengono in una sorta di pollaio, una gabbia che contiene fino a 32 persone. Quando vanno in refettorio devono tenere le mani dietro la testa”. In un post sul sito per la raccolta fondi GoFundMe, Carla afferma che suo padre è pronto ad “auto-espellersi quando glielo lasceranno fare e dovrebbe pagare per il biglietto”. Il consolato di Miami e l’ambasciata a Washington sono in contatto con i familiari e le autorità per capire le condizioni di salute e i tempi di rimpatrio dei due italiani. Medio Oriente. La nuova strage nella Striscia: i “dubbi” di Parolin sul raid israeliano di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 20 luglio 2025 Il Vaticano: errore l’attacco alla Chiesa? Legittimo pensare che non lo sia. Appello di Mattarella. E se il proiettile sparato dal carro armato israeliano contro la chiesa cattolica di Gaza due giorni fa non fosse un errore? Il quesito lo solleva direttamente il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin parlando al Tg2 Post. Legittimo “dubitare” che il raid alla sacra Famiglia non sia stato voluto, come invece si giustifica Israele. Ed è un dubbio più che lecito, specie se si tiene conto delle forze estremiste messianiche che compongono oggi il governo Netanyahu e il contesto delle dinamiche terrificanti dei massacri di civili palestinesi che da 21 mesi insanguinano Gaza. E la strage continua: ieri ancora un centinaio di morti nella Striscia. Parolin spiega che la Santa Sede considera “positiva” la telefonata dal premier Netanyahu a papa Leone: dunque ci si aspetta una spiegazione più chiara per “capire cosa effettivamente sia successo”, dato che sono morte 3 persone e 10 sono rimaste ferite tra i 550 sfollati nella chiesa, e oltretutto non è la prima volta che gli israeliani le sparano contro. Ma Parolin insiste, perché occorre vedere “se è stato veramente un errore, cosa di cui si può legittimamente dubitare, o se c’è stata una volontà di colpire direttamente una chiesa cristiana, sapendo quanto i cristiani sono un elemento di moderazione proprio all’interno del quadro del Medio Oriente e anche nei rapporti tra palestinesi ed ebrei”. Le unità dell’esercito legate ai coloni estremisti - Già venerdì mattina, arrivando in visita a Gaza, il cardinale Pizzaballa aveva sottolineato che gran parte dei palestinesi cristiani e ancor più di quelli musulmani non crede affatto alla tesi dell’errore. Ieri a Gerusalemme abbiamo raccolto nuove testimonianze in questo senso. La stessa stampa israeliana da tempo racconta di unità dell’esercito legate ai circoli dei coloni e dell’estrema destra che agiscono in modo autonomo e criminale nei confronti dei palestinesi delle regioni occupate sia di Gaza che della Cisgiordania, anche contravvenendo agli ordini superiori. E i loro crimini restano quasi sempre impuniti. Centinaia i casi di palestinesi assassinati senza che i responsabili, coloni o soldati regolari, siano mai stati processati e condannati. Anche il presidente Sergio Mattarella ieri ha puntato il dito contro le stragi di civili sia in Ucraina che a Gaza, in violazione del diritto internazionale e della Convenzione di Ginevra. Protesta persino l’ambasciatore Usa - Il tema è così pressante e le conseguenze delle operazioni militari lanciate da Israele, in risposta all’attacco condotto da Hamas il 7 ottobre 2023, tanto gravi che ieri persino l’ambasciatore Usa Mike Huckabee ha definito “terroristiche” le azioni condotte dai coloni ebrei contro Taybeh, unico villaggio completamente cristiano della Cisgiordania. Huckabee è noto per il suo acceso sostegno ai coloni estremisti, ma pochi giorni fa ha condannato l’assassinio da parte di “terroristi” ebrei di un ventenne palestinese con cittadinanza americana in Cisgiordania, e ieri ha voluto recarsi a Taybeh, vedere le zone degli incendi e dei vandalismi vicino alla chiesa locale, che lo stesso Pizzaballa aveva visitato una settimana fa assieme al patriarca greco ortodosso. In coda per gli aiuti - Ma su tutto questo dominano con una cappa di sangue e orrore i racconti delle uccisioni di massa quotidiane a Gaza. Ieri circa 100 i morti. Almeno 32 civili, Al Jazeera parla di 38, hanno perso la vita all’alba mentre attendevano in coda di fronte al centro di distribuzione del cibo di Khan Younis. I responsabili Usa della controversa Gaza Humanitarian Foundation negano ogni responsabilità e mettono in guardia dall’”avvicinarsi di notte”. Altre 12 persone sono morte sotto un bombardamento vicino all’ospedale al Awda. Parecchie vittime si contano nel nord, non lontano dalla Sacra Famiglia, dove è in corso una vasta operazione di distruzione di tutti gli edifici. Medio Oriente. L’accusa di pulizia etnica non ferma la “città umanitaria” di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 luglio 2025 Il capo del Mossad ha chiesto agli Usa di trovare i paesi in cui “trasferire” gli abitanti di Gaza. Netanyahu vuole il campo di concentramento per palestinesi a Rafah. Neppure i costi elevati e i tempi lunghi della sua attuazione - almeno un anno - sono riusciti a persuadere Benyamin Netanyahu. Il premier israeliano e i suoi ministri non rinunciano al piano volto a concentrare centinaia di migliaia di civili palestinesi in un gigantesco campo di internamento di massa che sorgerà sulle rovine di Rafah: la cosiddetta “città umanitaria” annunciata il 7 luglio dal ministro della Difesa, Israel Katz. Il progetto va avanti e David Barnea, direttore del Mossad, si è recato a Washington per chiedere agli Stati Uniti di convincere altri paesi ad accogliere i palestinesi che decideranno di lasciare “volontariamente” Gaza. Si tratterebbe, secondo il sito Axios, di Libia, Etiopia e Indonesia, e Barnea avrebbe esortato l’inviato speciale Usa, Steve Witkoff, a esercitare le pressioni necessarie per ottenere il via libera da quei tre paesi. A parere del capo del Mossad, gli Usa dovrebbero offrire “incentivi” per convincere Libia, Etiopia e Indonesia. Witkoff, aggiunge Axios, non si è pronunciato. Dopo il clamore suscitato da Donald Trump, che a febbraio ha proposto l’espulsione di oltre due milioni di palestinesi per ricostruire Gaza e farne la “Riviera del Medio oriente”, la Casa Bianca si è mostrata più prudente a causa delle resistenze espresse dai Paesi arabi. Ma, non ha abbandonato l’idea di attuare una pulizia etnica mascherata. Quando Netanyahu ha visitato la Casa Bianca a inizio luglio, i giornalisti hanno chiesto a Trump un commento sull’argomento. Il presidente ha rimandato la questione al premier israeliano, il quale ha risposto con soddisfazione che Israele lavora “a stretto contatto” con Washington per trovare gli Stati disposti ad accogliere i palestinesi di Gaza. “Penso che il presidente Trump abbia avuto una visione brillante. Si chiama libera scelta. Sapete, se le persone vogliono restare, possono restare, ma se volessero andarsene dovrebbero poterlo fare. Non dovrebbe essere una prigione”, ha detto Netanyahu. “È a dir poco fuorviante l’idea che tali partenze di massa possano essere considerate volontarie, frutto della libera scelta di cui parla Netanyahu, mentre proseguono bombardamenti, distruzioni, uccisioni quotidiane e la popolazione palestinese è alla fame”, dice al manifesto Yigal Bronner, docente dell’Università Ebraica di Gerusalemme. “Inoltre - aggiunge - puoi chiamarlo come ti pare: città umanitaria, centro di accoglienza, tutto ciò che vuoi, ma quello che hanno in mente Netanyahu e Katz è un campo di concentramento. Quando ammassi tante persone in uno spazio ristretto hai dato vita a un campo di concentramento”. Qualche giorno fa un gruppo di 16 studiosi e docenti israeliani di giurisprudenza ha firmato una lettera in cui si condanna il progetto del governo. “Se attuato, il piano costituirà una serie di crimini di guerra e contro l’umanità e, in determinate condizioni, potrebbe equivalere al crimine di genocidio”, si legge nella lettera. Dietro le voci dei firmatari e quelle di pochi altri accademici, intellettuali e personalità, c’è l’indifferenza dell’opinione pubblica israeliana e di quasi tutto il mondo politico nei confronti del progetto. I media ne parlano, ma, con rare eccezioni, tendono a privilegiare gli aspetti tecnici, come i costi per la realizzazione del campo, trascurando invece le sue implicazioni etiche e morali e la violazione della legalità internazionale. Al momento, sono scarse le notizie sul documento presentato dall’esercito a Netanyahu, che lo ha respinto e ora chiede un progetto meno costoso e più rapido da realizzare, approfittando dei due mesi di possibile cessate il fuoco a Gaza per riprendere la guerra al termine della tregua. L’emittente pubblica israeliana Kan ha confermato che la “città umanitaria” sorgerà tra i corridoi Filadelfia e Morag, nel sud della Striscia, tra l’area di Mawasi e ciò che resta di Rafah. Sarà una sorta di campo di “attesa e trasferimento” fuori da Gaza. I costi previsti, secondo il quotidiano Yediot Ahronot, variano tra 2,7 e 4,5 miliardi di dollari. Troppi per il governo israeliano che comunque è disposto a coprire quasi l’intero importo iniziale al fine “di creare un luogo in cui i palestinesi si trasferiscano volentieri, con cibo in abbondanza, condizioni di vita dignitose, alloggi a lungo termine, assistenza medica, inclusi ospedali e anche servizi educativi”. Al suo interno saranno operativi quattro centri di distribuzione di aiuti umanitari, affidati alla contestata Ghf americana. Descritto così il campo sembra quasi un resort turistico. E invece è una prigione: l’uscita sarà vietata una volta entrati, salvo che per l’”emigrazione volontaria”. “Se verrà realizzato - avverte Yigal Bronner - sarà un luogo dalle condizioni di vita insopportabili, pensato per cacciare via i palestinesi da Gaza”.