Carceri, la condizione “inumana” e i suicidi 25 volte superiori alla media di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 1 luglio 2025 Negli istituti visitati dall’associazione Antigone, oltre al fatto che un terzo avesse celle in cui non erano garantiti nemmeno i 3 mq. calpestabili a persona, in più della metà c’erano celle prive di doccia. Il boom di suicidi e i posti inagibili per ristrutturazione. Aumentano detenuti e tassi di suicidio in carcere, diminuiscono i posti disponibili. I 55.269 detenuti in media del 2022 (all’avvio del governo Meloni-Nordio) due mesi fa erano saliti a 62.445 in una capienza regolamentare (cioè calcolata sul decreto del 1975 che prescrive 9 mq. in cella singola o 7 mq. in celle collettive, e 20 metri cubi d’aria a testa) di 51.280 posti, persino una manciata meno di fine 2024, e appena 716 più di 5 anni fa. Ma, soprattutto, circa 4.500 di quei 51.280 posti teorici sono invece inagibili o in ristrutturazione (persino più di due anni fa quand’erano 3.646), sicché i posti realmente disponibili due mesi fa erano solo 46.811, addirittura 382 meno di cinque anni fa. Da qui il sovraffollamento medio del 133%, con record come San Vittore oltre il 200%. E non è solo questione di spazi: negli istituti visitati dall’associazione Antigone, oltre al fatto che un terzo avesse celle in cui non erano garantiti nemmeno i 3 mq. calpestabili a persona (minimo per la giurisprudenza europea sull’altrimenti condizione “inumana e degradante”), nel 45% c’erano celle senza acqua calda per tutto il giorno e tutto l’anno, e in più della metà c’erano celle prive di doccia. Dopo ripetuti annunci sulla costruzione di 7.000 posti in più in due anni con l’investimento di 236 milioni, un documento di Invitalia prevede entro gennaio 2026 al costo di 32 milioni l’installazione di 16 moduli prefabbricati in calcestruzzo trasportabili e smontabili, ciascuno progettato per 24 detenuti: quindi nel migliore dei casi tra 10 mesi ci saranno 384 posti in più, in grado di assorbire neanche 2 mesi di incremento medio di detenuti. Allo stesso modo il numero assoluto dei suicidi non è (per quanto sia cinico osservarlo) il parametro più pertinente, e non soltanto perché i criteri sdrucciolevoli di contabilità delle cause dei 245 morti in totale in carcere in un anno, con il limbo dei casi “da accertare”, fa oscillare i suicidi del 2024 tra i 91 contati e gli 83 ufficiali, con già 36 a metà 2025. Molto più significativo è rilevare che il tasso di suicidi (ogni 10.000 persone) tra i detenuti è 25 volte quello tra i liberi (14,8 contro 0,59); che negli ultimi 3 anni è stato 15,4-12-14,8 mentre fino al 2020 non aveva quasi mai raggiunto quota 10; e che tra i detenuti è più del doppio della media europea, mentre tra i liberi è la metà della media europea. E va aggiunto che secondo i dati dell’ufficio del Garante nel 2024 i tentati suicidi sono cresciuti del 9,3% rispetto al 2023, gli atti di autolesionismo del 4,1%, le aggressioni agli agenti il 22% e tra detenuti del 7%. Anche dopo dosi di assunzioni “consumate” però dai pensionamenti, gli agenti di polizia penitenziaria sono 30.964 invece dei previsti 34.162, c’è un educatore in media ogni 65 detenuti, i funzionari contabili sono 3.301 anziché 4.103. Eppure per questo sistema, che su dieci detenuti che finiscono di espiare in cella la pena vede tornarne in carcere più di sei, lo Stato spende 3,4 miliardi l’anno (di cui il 61,7% in spese per il personale): quasi un terzo del budget della giustizia. Sovraffollamento e suicidi: Mattarella suona l’allarme carceri di Simona Musco Il Dubbio, 1 luglio 2025 Il capo dello Stato: “È emergenza sociale”. Le opposizioni: ora provvedimenti di clemenza. E Delmastro attacca. “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi, per porvi fine immediatamente”. Sono parole pesanti quelle pronunciate dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante l’incontro al Quirinale con una delegazione della Polizia penitenziaria, nel giorno di San Basilide, patrono del Corpo. Ed è “per rispetto della Costituzione, ma anche della storia e dei caduti della Polizia penitenziaria, “che dobbiamo intervenire subito”, ha dichiarato. Si tratta del primo incontro ufficiale tra il Capo dello Stato e Stefano Carmine De Michele, nominato a capo del Dap dopo un tribolato iter a seguito delle dimissioni di Giovanni Russo. E il “battesimo” avviene con l’argomento più delicato, quello dei suicidi in carcere. La situazione, ha sottolineato Mattarella, è “preoccupante”, contrassegnata da “una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento”, condizioni strutturali “inadeguate”, sulle quali intervenire con urgenza, “nella consapevolezza che lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia, ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività, alla progettualità del trattamento”. Un richiamo esplicito alla sentenza della Consulta sull’affettività in carcere, a lungo negata nonostante la pronuncia del giudice delle Leggi. Non è la prima volta che il Capo dello Stato richiama il Parlamento al dovere costituzionale di rieducare. Ma oggi le sue parole sembrano avere il peso di un altolà: in un’Italia che inasprisce pene e introduce nuovi reati, parlare di investimenti nel recupero suona come una correzione di rotta implicita. Un approccio, quello del Capo dello Stato, che depotenzia implicitamente la tensione securitaria del governo. Serve - ha ribadito - un piano urgente di manutenzione e ristrutturazione degli istituti, il rafforzamento dell’organico, più educatori, accesso agevolato alle cure, soprattutto per chi ha problemi psichici, e nuove professionalità. Solo così i penitenziari smetteranno di essere “palestra di addestramento al crimine” o luoghi “senza speranza”, per orientarsi “effettivamente” al recupero di chi ha sbagliato. “Ogni detenuto recuperato - ha aggiunto - equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività, oltre a essere l’obiettivo di un impegno dichiaratamente costituzionale”. Ed è proprio per questo che le condizioni di vita e il trattamento dei detenuti devono essere “dignitosi”. Un risultato per il quale “servono investimenti necessari e lungimiranti, perché rivolti a garantire maggior sicurezza ai cittadini”, ha evidenziato Mattarella. De Michele - che ha donato a Mattarella un emblema della Repubblica, realizzato dai detenuti della Casa circondariale di Locri - ha richiamato, dal canto suo, i valori fondanti del Corpo: rispetto della legge, dignità umana, rieducazione. “La pena non è rivalsa dello Stato, ma sempre occasione di cambiamento, percorso di responsabilità, opportunità di riscatto”, ha sottolineato. Ma non può esserci rieducazione in condizioni di disuguaglianza, di prevaricazione e di violenza, ha chiarito. Da qui l’esigenza di ambienti più salubri e dignitosi e un impegno per la risocializzazione e la prevenzione della recidiva, attraverso protocolli e accordi per aumentare le opportunità di lavoro, soprattutto esterne. Un altro fronte è la prevenzione dell’autolesionismo, che ha definito “tema urgente”, da affrontare attraverso la formazione del personale, i protocolli di monitoraggio e l’assistenza psicologica, perché la vita e la dignità restano valori irrinunciabili, anche dietro le sbarre. L’appello di Mattarella ha subito smosso la politica, con le opposizioni che tornano a chiedere provvedimenti di clemenza: dal Pd ad Avs, passando per Italia Viva, fino a Riccardo Magi (+Europa). “Abbiamo strumenti pronti, dalla liberazione anticipata speciale alla revisione dell’articolo 79 della Costituzione, fino a proposte come l’”indultino” e le Case di reinserimento sociale - ricorda Magi -. Ma manca la volontà politica”. Secca la replica del sottosegretario Andrea Delmastro, che invita la sinistra a non “tirare per la giacca il Presidente della Repubblica” né a “farsi interpreti del suo pensiero”. Salvo poi interpretarlo e farlo coincidere con quello del governo, che sta già investendo “centinaia di milioni di euro” per la ristrutturazione delle carceri e per recuperare “circa 7.000 dei 10.000 posti detentivi mancanti”. Un concetto ribadito dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, secondo cui il governo starebbe già facendo abbastanza: prioritari, afferma, sono la prevenzione di autolesionismo e suicidi in carcere, “fenomeni che traggono origine da molti fattori legati al disagio ed allo sconforto del carcerato”. Da qui la promessa di un intervento “per il sostegno psicologico”, ricordando gli interventi già avviati: 3 milioni annui dal 2025 per tale scopo, 132 milioni per il lavoro dei detenuti e l’aumento di quasi 4.000 unità del personale addetto a prevenzione e controllo. Per ridurre il sovraffollamento, Nordio ha indicato tre strategie: detenzione differenziata per tossicodipendenti, espiazione della pena nei Paesi d’origine per gli stranieri e strutture per chi ha diritto alle misure alternative, ma manca di supporto socioeconomico. Fondamentale anche la riforma della custodia preventiva per reati non legati alla criminalità organizzata, visto che oltre il 20% dei detenuti è in attesa di giudizio, molti poi assolti. Infine, ha evidenziato l’impegno del Commissario straordinario per l’edilizia carceraria, che garantirà presto “un ampliamento efficace delle strutture detentive”. Insomma, misure la cui utilità si valuterà in futuro, mentre l’emergenza è attuale, ormai da troppo tempo, e necessita di misure drastiche. Dal fronte sindacale, Gennarino De Fazio (Uilpa) ringrazia Mattarella ma denuncia: “Meloni più che lavorare anche di notte per far funzionare i centri in Albania, dovrebbe operare alla luce del sole per mettere in legalità le carceri in “patria”“. Infine, Massimo Vespia, segretario generale della Fns Cisl, lancia l’ennesimo appello: “Ci auguriamo che il monito possa essere finalmente recepito dal mondo della politica. Serve intervenire sull’organizzazione del servizio, sull’Ordinamento penitenziario e sul codice penale”, conclude, chiedendo “azioni e provvedimenti strutturali e non misure episodiche”. A commentare le parole di Mattarella anche il presidente del Cnf, Francesco Greco. Le sue parole, afferma, “non possono restare inascoltate”. Il sistema penitenziario italiano è “al collasso”, sottolinea, a causa di sovraffollamento, condizioni disumane e di una rieducazione che rimane solo teorica. Greco evidenzia la necessità di una riforma strutturale, che ampli le misure alternative alla detenzione e valorizzi strumenti come la messa alla prova, il ruolo del terzo settore e il lavoro retribuito dentro e fuori dal carcere. In particolare, “sostenere il reinserimento delle madri significa proteggere i figli e prevenire la recidiva”. Critico verso il decreto Sicurezza, che ha introdotto alcune misure sull’occupazione esterna ma non ha risolto il nodo del lavoro intramurario, Greco richiama lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione, affermando che “la carcerazione preventiva deve essere l’estrema ratio” e che la liberazione anticipata non può essere svuotata di significato restringendo le garanzie difensive. “Umanizzare la pena, difendere le garanzie, ricostruire il senso della giustizia: è questa la strada obbligata per una democrazia matura”, conclude. La pena “non può ridursi a sofferenza, né il carcere a vendetta sociale. La nostra Costituzione impone una pena che educhi, non che annienti”. Allarme carceri, Mattarella: numero suicidi drammatico, porre fine a emergenza sociale di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 1 luglio 2025 Il capo dello Stato incontrando al Quirinale il capo dell’amministrazione penitenziaria: “I luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in palestra di addestramento al crimine”. Mancano educatori e cure sanitarie. “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, incontrando al Quirinale il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Stefano Carmine De Michele, ed una rappresentanza della Polizia Penitenziaria in occasione del 208° anniversario della sua costituzione. “Tutto questo deve esser fatto per rispetto dei valori della nostra Costituzione, per rispetto del vostro lavoro, per rispetto della storia del corpo di Polizia Penitenziaria, per rispetto dei suoi caduti vittime del terrorismo, della criminalità, e che ricordiamo con commozione”, ha detto il capo dello Stato. Mattarella non si è limitato a sottolineare l’emergenza, ma ha anche indicato delle linee guida per affrontarla: per le carceri “servono investimenti in modo di garantire un livello di vita dignitoso ai detenuti e al contempo migliori condizioni di lavoro che voi svolgete con scrupolo. Sono investimenti necessari e lungimiranti. È particolarmente importante che il sistema carcerario disponga delle risorse necessarie, umane e finanziarie, per assicurare a ogni detenuto un trattamento che si fondi su regole di custodia basate su valutazioni attuali, per ciascuno, con l’obiettivo per il futuro”. Il tema dell’organico carente, emerso drammaticamente anche nell’ultima vicenda legata al carcere di Prato, è un punto chiave per affrontare il problema: “Penso alla grave insufficienza del numero degli educatori, al difficile accesso alle cure sanitarie dentro gli istituti, specialmente per detenuti affetti da problemi di salute mentale. Occorre che gli istituti di pena siano dotati di nuove e più adeguate professionalità- sottolinea il presidente della Repubblica- In caso contrario, anche il vostro compito sarà inevitabilmente appesantito e gravato da un improprio sovraccarico di funzioni che dovrebbero essere affidate ad altri”, ha detto rivolgendosi agli agenti della Polizia penitenziaria. È anche una questione di investimento sociale, di capitale umano: “Ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività, oltre a essere l’obiettivo di un impegno notoriamente, dichiaratamente costituzionale”. Ed è fondamentale evitare il rischio opposto: i luoghi di detenzione, insiste Mattarella, “non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in palestra di addestramento al crimine, né in luoghi senza speranza ma devono essere effettivamente rivolti al recupero di chi ha sbagliato”. Sulle carceri non fate cadere nel vuoto, ancora una volta, le parole di Mattarella di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 1 luglio 2025 Trattandosi del Presidente della Repubblica, è opportuno cominciare da notizie certificate. Il Presidente Sergio Mattarella ha incontrato al Quirinale - sede quanto mai ufficiale e istituzionale - il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in occasione del 208 anniversario della sua costituzione. Ha colto l’occasione per esprimere un pensiero radicato, lo ha già espresso in altre occasioni: “È drammatico il problema dei suicidi nelle carceri che da troppo tempo non dà segni di arresto: si tratta di una vera emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porre fine immediatamente a tutto questo. Deve essere fatto per rispetto dei valori della Costituzione, per rispetto del vostro lavoro e della storia della polizia penitenziaria”. Il Presidente della Repubblica aggiunge che la Polizia Penitenziaria opera in “un panorama articolato e complesso. Delle funzioni che svolgete in conformità alla Costituzione e che non si esauriscono nella vigilanza. So che ogni giorno cercate di assolvere con sacrificio e professionalità il vostro impegno: impegno reso ancora più difficile dalle preoccupanti condizioni del sistema carcerario che è contrassegnato da una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento. I luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati, in palestra di addestramento al crimine, nei luoghi di senza speranza ma devono essere effettivamente rivolti al recupero di chi ha sbagliato. Ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio di sicurezza per la collettività oltre ad essere un obiettivo costituzionale”. Dunque: “Vera emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porre fine immediatamente a tutto questo”. È il passaggio “forte’ del messaggio del Presidente. Messaggio più di sempre opportuno e necessario: giorni fa un sovrintendente del Corpo di polizia penitenziaria di 58 anni si è tolto la vita sparandosi nel parcheggio della Casa Circondariale di Secondigliano. È il terzo operatore che dall’inizio dell’anno si suicida, oltre i 36 detenuti “ufficiali” dall’inizio dell’anno: segno evidente di una situazione carceraria che porta allo stremo. Con 16mila detenuti in eccesso e 18mila agenti mancanti i carichi di lavoro sono insostenibili e le turnazioni di servizio si protraggono sino a 26 ore continuative; il lavoro straordinario non viene pagato o viene remunerato meno dell’ordinario, dunque un vero e proprio caporalato di stato. Molteplici le ragioni che possono aver provocato il suicidio del sovrintendente. Dovrebbe comunque far riflettere (e di conseguenza agire e intervenire), il contesto in cui il suicidio è avvenuto: il carcere, con tutto il suo “corollario” di violenze, suicidi, tentati suicidi, atti autolesionistici e molto altro. A questo punto forse, pur con tutte le cautele e le prudenze che il ruolo impone e che sono la cifra peculiare del carattere del Presidente, attivo teorico della moral suasion, qualche gesto concreto dovrebbe seguire ai richiami, peraltro frequenti, circa la situazione carceraria. Se solo per le morti in cella ci fosse un briciolo del clamore per Garlasco (che certo fa fare alle tv molti più soldi) di Andrea Granata* Il Dubbio, 1 luglio 2025 Proprio nei giorni in cui ovunque impazzava la vicenda del delitto di Garlasco, con copertura mediatica davvero impressionante, nel silenzio quasi generale lo scorso 28 maggio veniva pubblicato “La Battitura, strage in carcere”. Si tratta di un podcast in sei episodi del Tg1 per Rai Play Sound scritto e condotto da due valenti giornalisti, Perla Di Poppa e Alessio Zucchini. La vicenda racconta della più grave strage in carcere dell’età repubblicana, avvenuta nel penitenziario di Modena in seguito a una rivolta scoppiata nel marzo 2020. Detonatore della rivolta fu il mix dei primi contagi da covid in carcere e le conseguenti restrizioni a visite e permessi. Tredici detenuti, tredici persone affidate allo Stato persero la vita. Di fronte alla semi clandestinità in cui è stata relegata la vicenda, sembra irreale sentire ovunque e da chiunque pronunciare frasi come “è meglio un colpevole libero piuttosto che un innocente in carcere” o l’evocazione della condanna solo “al di là di ogni ragionevole dubbio’. Neanche un briciolo dell’amore per la giustizia di cui da settimane sentiamo gli effluvi tra una pausa per gli acquisti e l’altra riesce a uscire dagli studi televisivi per dedicarsi ai luoghi in cui si svolgono gli esiti di quella giustizia: le carceri. Come dicono gli autori del podcast, di tutto quello che accade in carcere non interessa a nessuno, mentre sulla vicenda di Garlasco assistiamo al trionfo di quella cosa che Kundera definiva kitsch, la volontà dell’uomo di rendere ideale ciò che invece è reale, specchiandosi compiaciuto di questo abbellimento. Il carcere, forse la sua promiscuità, è evidentemente qualcosa che non si è ancora riusciti a idealizzare, qualcosa che resta il male o, come avrebbe detto Kundera, la merda, la negazione del kitsch e di ogni mondo ideale. Ci piacciano o meno i plastici di casa Poggi e i personaggi dei talk show, dobbiamo accettare che questa oggi è l’informazione, qualcosa che vive per compiacere i suoi fruitori, per farli sentire migliori, aspiranti costruttori di un mondo migliore. Godiamoci questa informazione che, da contro canto ai potenti, è diventata essa stessa un potere, gigioneggia tra il circense e l’impegno sociale e realizza fatturati da big pharma. *Avvocato Persone trans e carceri: “Un’emergenza invisibile” di Laura Di Domizio Il Domani, 1 luglio 2025 Intervista all’avvocata Maria Brucale. Il 24 giugno una detenuta trans ha denunciato di essere stata violentata da quattro uomini nella sezione “protetti” del carcere Arginone di Ferrara, dove si trovano persone ritenute vulnerabili. Aveva chiesto fin dal suo arrivo, a marzo, di essere trasferita in un istituto più sicuro, ma la sua richiesta è rimasta inascoltata. Che cosa non ha funzionato? Lo abbiamo chiesto a Maria Brucale, avvocata penalista da oltre vent’anni, esponente dell’associazione Nessuno Tocchi Caino. Avvocata, oggi in Italia come viene gestita la detenzione delle persone transgender? Una modifica all’articolo 14 dell’ordinamento penitenziario nel 2018 ha introdotto la possibilità per le persone vulnerabili, anche per ragioni di genere, di chiedere all’ingresso in carcere di essere ristrette in luoghi protetti. in teoria, le persone trans dovrebbero avere accesso a sezioni dedicate. In pratica, si tratta spesso di collocazioni residuali, all’interno di istituti maschili. E la cosiddetta “protezione” può tradursi in isolamento, o peggio. La sezione “protetta”, però, non ha impedito quanto avvenuto a Ferrara. Esatto. “Luogo protetto” non significa niente se non è realmente sicuro. In molti istituti, le persone trans finiscono in sezioni miste, con, forze dell’ordine, ex magistrati o condannati per reati sessuali: soggetti considerati a rischio aggressioni ma per motivi del tutto diversi. Ci sono reati ricorrenti tra le persone trans detenute? I reati più comuni sono legati alla prostituzione o allo spaccio. Ma al di là dei numeri, la questione è qualitativa le difficoltà pratiche e relazionali sono enormi. A partire dalla somministrazione degli ormoni. Esattamente. All’interno del carcere l’accesso agli ormoni è legato al riconoscimento della disforia sessuale da parte di un medico, e alla disponibilità della Asl. Ma l’interruzione della terapia può compromettere profondamente psico-fisico di queste persone. E in generale il diritto alla cura è messo in crisi dal sovraffollamento. Oggi accedere a qualsiasi tipo di cura è difficile. Figuriamoci a percorsi più specifici come questo. La mancanza di continuità terapeutica è uno dei problemi maggiori. Quali altre difficoltà riscontra? Sicuramente quelle relazionali e legate alle attività trattamentali. Le carceri dovrebbero offrire anche a loro spazi di relazione, intrattenimento, corsi, ma tutto viene filtrato da una concezione distorta della sessualità: si ragiona solo in termini di protezione dal desiderio, come se la sessualità fosse per forza rischio o abuso. Questo porta a isolarle, anche nei percorsi rieducativi. E con il personale ridotto al minimo, spesso non si riesce neppure a garantire le minime condizioni di sicurezza per includerle in attività comuni. Esistono figure formate per gestire queste situazioni, o tutto dipende dal buon senso del singolo? Non credo ci sia una formazione davvero mirata. Nelle carceri esiste il cosiddetto personale del “trattamento”, una parola brutta, che indica il percorso rieducativo previsto per ogni detenuto. Tra queste figure ci sono psicologi, psichiatri, educatori, mediatori culturali. Ma nella maggior parte dei casi non sono preparati ad affrontare la vulnerabilità specifica legata all’identità di genere, all’isolamento, al rischio di emarginazione o oggettivazione sessuale. E allora ci si affida alla sensibilità individuale, che può esserci o non esserci. Quando vengono inserite nella stessa sezione, tra persone trans si creano legami di solidarietà o emergono nuove fragilità? Entrambe le cose. Esistono forme di sostegno reciproco, ma anche conflitti. Dentro queste sezioni finiscono persone con sensibilità e vissuti molto diversi. A Rebibbia, per esempio, mi è capitato di vedere tensioni tra persone trans e persone omosessuali, che venivano emarginate. Si crea un ghetto nel ghetto. E una volta fuori, cosa succede? Come per tutti, il carcere isola. E per le persone trans, l’uscita può significare ancora più solitudine. La società le respinge, e la rieducazione, nella maggior parte dei casi, resta solo sulla carta. C’è un’emergenza strutturale? Assolutamente. Ma è un’emergenza invisibile. 12 società non è ancora pronta a riconoscere e valorizzare la differenza le carceri ne sono lo specchio più opaco. Se potesse indicare una priorità assoluta? il diritto alla sessualità. Se le carceri permettessero incontri intimi e relazioni affettive, come avviene per i colloqui familiari, verrebbe meno la logica della “protezione” basata sulla paura del desiderio. L’assenza di una vita sessuale normale crea frustrazione, tensione, e produce vulnerabilità. In carcere si costruisce brutalità, la si alimenta Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo. L’appello di Unicef Italia: “Mai più in carcere i figli di madri detenute” L’Espresso, 1 luglio 2025 L’intervento del presidente, Nicola Graziano, su uno dei punti più critici del decreto Sicurezza: “Dobbiamo evitare che queste vittime innocenti vivano in carcere. Gli Icam non sono reali alternative, agire sulle Case-famiglia”. Il decreto Sicurezza, voluto fortemente dal governo Meloni e definitivamente convertito in legge lo scorso 29 maggio, continua ad attirare critiche. In punta di diritto, come quelle recenti della Cassazione, ma anche di ambito umanitario, come quelle dell’Unicef, che “esprime preoccupazione sulla reale tutela dei diritti dei bambini figli di madri detenute”. Lo sottolinea in una nota il presidente di Unicef Italia, Nicola Graziano. E lo fa richiamandosi anche alle “osservazioni contenute nella relazione” degli ermellini. Il riferimento, in questo caso, è alla facoltatività - e non l’obbligatorietà - del rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a un anno. “Dobbiamo evitare - spiega Graziano - che i bambini, vittime innocenti, siano costretti a vivere in carcere con le madri. Bisogna individuare soluzioni adeguate a rendere concreta la tutela dei loro diritti che, come sancito dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia, ratificata dall’Italia con legge n. 176 del 1991, deve essere attuata senza alcuna discriminazione”. Rispettare “il principio del superiore interesse dei bambini significa - per Unicef Italia, che da sempre si occupa dei diritti dei più piccoli di ogni parte del mondo - salvaguardare la loro integrità psicofisica, al di sopra di ogni generalizzazione o possibile strumentalizzazione, dando prevalenza alle esigenze educative e genitoriali su quelle cautelari”. Unicef, come tante altre associazioni che si occupano quotidianamente del tema, ritiene “che gli Icam (Istituti a custodia attenuata per le detenute madri) non siano delle reali alternative al carcere, soprattutto se li osserviamo con gli occhi di un bambino o di una bambina”. Graziano sostiene a nome dell’associazione “la soluzione delle Case-famiglia protette che, allo stato, costituiscono un’effettiva alternativa alla detenzione”. In queste strutture, spiega il presidente dell’associazione umanitaria, “si dà valore alla funzione genitoriale, al recupero di un’autonomia e alla rieducazione alla legalità: in esse i bambini non sono ‘costretti’ ma piuttosto ‘protetti’ in percorsi di reinserimento educativo e sociale”. Quella delle Case-famiglia è, potenzialmente, una realtà già in vigore. Tuttavia, prosegue Graziano, “l’esclusione di oneri a carico della finanza pubblica per la loro realizzazione ne ha reso problematica la concreta attuazione. Attualmente - ricorda il comunicato di Unicef Italia - sono due le strutture attive sul nostro territorio, a Roma e a Milano, grazie a una forte collaborazione interistituzionale e con la valorizzazione dell’associazionismo. Per questo proponiamo la diffusione di queste esperienze anche su altri territori e chiediamo l’inserimento di adeguate risorse per gli Enti locali nella prossima legge di Bilancio: investire per l’attuazione dei diritti umani di bambini e bambine è un investimento, certo, per la sicurezza. La prima parola che i bambini devono imparare - conclude Graziano - è ‘mamma, papà’, non certo la parola ‘apri’”. Giustizia, la trappola perfetta di Michele Ainis La Repubblica, 1 luglio 2025 Il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati. Nella beata incoscienza del pubblico pagante, sta per scattare la trappola perfetta. Come funziona? Con un gioco illusionistico. Tu mostri per mesi una riforma - il premierato - che capovolge l’universo mondo, o almeno il mondo disegnato dai costituenti. S’accende un dibattito infinito, con tonnellate d’interviste, editoriali, audizioni parlamentari, bla bla bla. Strada facendo (ma forse lo sapevi già da subito) t’accorgi che quella riforma può diventare un harakiri per il tuo esecutivo, come accadde a Renzi, e in precedenza pure a Berlusconi, castigati entrambi da un referendum popolare. E allora, mentre le pupille degli astanti sono ancora illuminate dalla madre di tutte le riforme, tu concepisci il figlio: una giustizia tutta nuova. Battezzandola proprio quando il decreto sicurezza innalza un monumento all’ingiustizia, quando le carceri trasformano ogni pena giusta in una tortura ingiusta, come ha ricordato ieri il presidente Mattarella. A suo tempo (un anno fa) la creatura nasce al riparo da sguardi indiscreti, durante una riunione di 40 minuti fra 8 persone. Ma da allora in poi sgambetta veloce fra i banchi delle assemblee parlamentari. Pestando qualche piede, sicché s’alza il lamento dei contusi. Il Consiglio superiore della magistratura vota un parere di dissenso a larga maggioranza (24 consiglieri). L’Associazione nazionale magistrati proclama uno sciopero, con manifestazioni e assemblee pubbliche in 29 città. Gli avvocati invece applaudono, mentre il Consiglio nazionale forense protesta contro la protesta del corpo giudiziario. L’opposizione s’oppone, d’altronde è il suo mestiere. Ma senza troppa convinzione, anche perché gli animi sono tutti concentrati sulle guerre, sui dazi di Trump, sulla crisi della legalità internazionale. Nel frattempo la riforma corre come un treno. Il disegno di legge costituzionale era stato presentato il 13 giugno 2024. Il 16 gennaio 2025 la Camera lo approva - senza correggerne una virgola - in prima lettura. E oggi in Senato andrà in scena il rush finale, dopo aver sterilizzato i 1300 emendamenti scritti dalle minoranze attraverso la tecnica del “canguro”, altra creatura fantasmatica. Servirà poi la seconda lettura di ambedue le Camere, ma anche questo è un esito scontato. Da qui la nuova pelle del testo costituzionale, con 7 articoli che cambiano registro. Ma da qui, anche e soprattutto, un bel trappolone per gli avversari dell’esecutivo. Perché questi ultimi, ostacolando la riforma, si trovano a vestire l’abito dei conservatori, sono costretti - loro malgrado - a difendere il sistema giudiziario così come funziona adesso, o meglio non funziona. Perché il restyling della giustizia distoglie l’attenzione dal naufragio sul quale è incappato il premierato, trasformando l’insuccesso in un successo. E perché, alla fine della giostra, ci attende un referendum. Lo vincerà il governo, un risultato diverso sarebbe una sorpresa. Intanto, nel referendum costituzionale non c’è il quorum, sicché l’opposizione non può restituire la pariglia rispetto ai referendum sulla cittadinanza e sul lavoro dei primi di giugno, cavalcando l’astensione. E in secondo luogo l’oggetto di quel referendum non saranno i poteri del Premier, non sarà il faccione di Giorgia Meloni, che oggi piace e magari domani non piace. No, sarà il consenso verso il potere giudiziario, che da tempo vola rasoterra: ne ha fiducia soltanto il 39% degli italiani, attesta un sondaggio Tecnè diffuso a febbraio. E il 68% degli intervistati voterebbe a favore di questa riforma, dichiara il medesimo sondaggio. Conclusione: il governo Meloni s’accinge a incassare il suo bottino. Regolando i conti con la magistratura, e mettendo all’angolo il Pd, insieme ai suoi alleati. Ma in questo scenario c’è una responsabilità delle stesse opposizioni. Avrebbero dovuto scegliere una strategia diversa dal muro contro muro. Dopotutto, la separazione delle carriere è già in circolo nel nostro ordinamento: con la riforma Cartabia del 2022 il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante può avvenire una sola volta in tutta la carriera, e con l’obbligo di cambiare sede; tanto che l’1% appena dei magistrati trasmigra da una funzione all’altra. Dunque si tratta d’una riforma manifesto, sostanzialmente innocua nelle sue concrete conseguenze. Nonché appoggiata da varie personalità della sinistra, in nome d’un garantismo spesso declamato ma assai poco praticato. Non è il caso, insomma, di farne una crociata. A sua volta, l’uso del sorteggio per formare gli organi d’autogoverno è forse l’unico sistema per arginare le correnti giudiziarie, dopo tanti tentativi andati a vuoto. La deriva correntizia, la spartizione dei ruoli di vertice in virtù del peso che assumono le diverse associazioni dei magistrati, nuoce al prestigio stesso del corpo giudiziario. Mentre il sorteggio rappresenta la più antica procedura democratica, già in uso nell’Atene del V secolo a.C. Magari la ricetta Nordio è troppo radicale, magari sarebbe stato meglio conservare una quota di membri elettivi, senza infliggere un’umiliazione al potere giudiziario. E magari le opposizioni avrebbero potuto suggerirlo con qualche emendamento costruttivo, anziché puramente distruttivo. Chissà, forse Togliatti avrebbe scelto questa posizione. Lui le trappole le fiutava, invece di caderci dentro mani e piedi. Giustizia e governo, un conflitto che corrode la divisione tra i poteri di Massimo Franco Corriere della Sera, 1 luglio 2025 Il fatto che giustizia, decreto Sicurezza e immigrazione siano considerati dalla maggioranza come fiori all’occhiello, complica il dialogo. Si stanno incrociando troppe cose. E tutte congiurano per un inasprimento del conflitto del governo sia con le opposizioni, sia con un’istituzione di garanzia fondamentale come la magistratura. Il fatto che giustizia, decreto Sicurezza e immigrazione siano considerati dalla maggioranza come fiori all’occhiello, complica il dialogo. Questo fa apparire qualsiasi critica come un attentato all’autonomia della politica. Non si tratta di una polemica nuova, in realtà. La novità, semmai, è nella tendenza del governo a vedere perfino in un organo come la Corte di Cassazione una centrale di boicottaggio politico delle sue leggi. Persa per strada per i rilievi di costituzionalità la riforma dell’autonomia regionale, e insabbiata per mancanza di chiarezza quella del premierato, alla fine rimane solo la giustizia. Per la coalizione di Giorgia Meloni significa dimostrare che vengono rispettate le promesse elettorali. Dunque, avanti a ogni costo. Ma proprio per questo lo scontro con l’ordine giudiziario sta diventando patologico. Gli stessi centri di accoglienza in Albania, per quanto siano un modello che altri Paesi europei vorrebbero imitare, finora sono stati un esperimento costoso, giuridicamente discutibile e poco efficace. Eppure vengono branditi dal governo a conferma dell’ostilità ideologica di alcuni settori del potere giudiziario: tesi che qualcuno ha, senza volerlo, legittimato. La sensazione, tuttavia, è che sia proprio la coalizione di destra a volere la resa dei conti con la magistratura; di fatto, anticipando un clima da scontro referendario che l’anno prossimo si potrebbe consumare sulla separazione delle carriere. È una situazione che ieri ha rischiato di proiettare un’ombra sulla solennità del ricordo di Paolo Borsellino, il giudice assassinato nel 1992 dalla mafia con cinque agenti della scorta in un attentato a Palermo. Borsellino è stato ricordato dalle massime cariche dello Stato con parole commosse e comuni. Il problema è che, al di là di queste occasioni unitarie, provvedimenti come il decreto Sicurezza dividono e seminano perplessità trasversali. E offrono alle opposizioni un’altra occasione per accusare il governo di far regredire i diritti. La situazione penosa e preoccupante delle carceri è ritenuta emblematica. Ma le recriminazioni senza fine possono produrre una conseguenza di sistema allarmante: corrodono la divisione e il bilanciamento tra i poteri dello Stato. Giustizia, l’analisi di Luciano Violante: “Servono spazi neutri di dialogo” di Raffaele Marmo La Nazione, 1 luglio 2025 L’ex presidente della Camera ed ex magistrato: i pareri della Cassazione non sono vincolanti. “La separazione delle carriere? Per come è fatta sarà un danno grave soprattutto per la politica”. Quale è la sua valutazione dell’intervento del Massimario della Cassazione? “Il Massimario ha il compito istituzionale di studiare le leggi che sono approvate dal Parlamento, di farne un’analisi scientifica come uno studio pubblicato su riviste scientifiche - spiega Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera, storico punto di riferimento della sinistra per la giustizia, da anni sostenitore di un riequilibrio tra politica e magistratura -. Poi chi è d’accordo seguirà quella linea, chi non è d’accordo non lo farà; si tratta di analisi fornite ai magistrati della Cassazione che si potrebbero trovare di fronte a quel problema e che leggono, piuttosto che un articolo specializzato, la disamina che fa l’Ufficio del Massimario”. Vuol dire che è stato attribuito un “valore” giuridicamente e politicamente eccessivo alla “lettura” data dal Massimario? “Si tratta, come accennato, di un’analisi scientifica che non è vincolante per nessuno. A scriverla, del resto, non sono giudici che scrivono sentenze; gli estensori dunque, non hanno anticipato un giudizio. È sbagliato, allora, irritarsi o considerarla un’invasione di campo”. Il punto è che, provenendo da un Ufficio della Cassazione, lo “studio” è diventato l’oggetto di un’altra puntata dell’eterno scontro politica-giustizia... “Capisco, ma non credo che questo approccio sia corretto. È necessario, invece, che la politica abbia la mente fredda sempre perché altrimenti, specificamente per cose delicate come queste, si rischia di commettere errori e di perdere autorevolezza”. All’eccesso di sensibilità della maggioranza fa da contrappunto, però, l’uso strumentale dell’analisi fatta dall’opposizione… “Certamente. Non mi stupisco che da un lato le opposizioni si siano impossessate di questi argomenti per contestare ulteriormente il governo. Il governo, d’altro canto, si è sentito impropriamente criticato da una istituzione, ma così non era perché non si trattava una sentenza. C’è stata un’esagerazione da una parte e dall’altra. In certe occasioni, però, come questa, sarebbe opportuno fermarsi e riflettere”. I profili di presunta incostituzionalità sollevati non rischiano di essere una sorta di critica anche alla valutazione che c’era stata da parte degli uffici della presidenza della Repubblica? “Non credo, perché più volte la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali leggi che i presidenti della Repubblica nel corso del tempo hanno promulgato. La funzione del Capo dello Stato non è quella di sindacare la costituzionalità ma guardare il quadro generale delle questioni anche sulla base di valutazioni che riguardano la sua responsabilità di tenuta dell’unità nazionale. Tocca, invece, alla Corte Costituzionale, se sollecitata dalla magistratura, intervenire nel merito delle vicende costituzionali”. Certo è che i rapporti tra magistratura e politica rimangono un nervo scopertissimo, come dimostra anche questa vicenda… “Il problema è che in un Paese, in una comunità nazionale bisogna anche trovare spazi neutri, spazi nei quali non c’è contesa, altrimenti se tutto è oggetto di scontro nulla diventa credibile. Io, però, vedo che da un po’ di tempo a questa parte facciamo fatica a trovare punti di rispetto reciproco tra le parti, che sono, invece, necessari, perché se non c’è rispetto reciproco è chiaro che il sistema non va avanti, il Paese non va avanti”. Lei più volte ha sostenuto che serve un riequilibrio tra politica e magistratura: può servire a questo fine la separazione delle carriere voluta dal governo? “Quella separazione, per come è stata fatta, sarà un danno grave soprattutto per la politica: è un modo per farsi male da soli. La destra critica, anche giustamente, le procure come casta, ma sta costruendo un’ipercasta, perché un gruppo di magistrati separati dagli altri, con un proprio consiglio superiore, senza vincoli gerarchici, con l’obbligatorietà dell’azione penale (che vuol dire che faccio quello che voglio, tanto per capirci), costituisce una supercasta che si scontrerà con l’autorità politica che l’ha costituita. Un eccesso ideologico ha prodotto quel tipo di riforma, che sarà dannosa un po’ per i cittadini, ma di più per la politica”. Non ritiene che ci sia dell’autolesionismo o del paradosso anche nell’introduzione di decine di nuovi reati, che di fatto ampliano i poteri dei pm? “Certo. Da un lato si attribuiscono maggiori poteri di intrusione della giurisdizione nella vita dei cittadini, della società, delle imprese, delle famiglie e così via. Dall’altro poi ci lamentiamo che i pm esercitano quei poteri che la stessa politica ha dato loro. Il nodo, però, è culturale: c’è un’idea di fondo, un’idea, se mi permette un po’ antica, secondo la quale attraverso la pena io ricostruisco un ordine. Ma la pena lacera, non ricostruisce mai. E, tra l’altro, non siamo neanche in grado di tenere in piedi un sistema penitenziario in condizioni di vivibilità, come dimostrano tanti episodi anche di queste ore”. Decreti sicurezza, Sisto: “Demolire le leggi è inaccettabile. Quello è il parere di sei magistrati, non una sentenza di Cassazione” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 1 luglio 2025 Il viceministro: noi rispettosi dei giudici, ma c’è modo e modo di dissentire. Sulla bocciatura in Cassazione dei decreti sicurezza e Albania il ministro Nordio si dice “incredulo” e la presidente della Cassazione Cassano “stupita del suo stupore”. Francesco Paolo Sisto, da viceministro della Giustizia forzista, lei? “Non sono mai stato innamorato degli scontri con la magistratura che considero deleteri, ma bisogna dare alle cose il giusto peso”. Non è pesante questa bocciatura? “È il parere di sei magistrati rispetto ai 9.600 che rappresentano la magistratura”. A loro però vengono demandati pareri tecnici della Cassazione. “È questo il punto. Il documento non è una sentenza, meno che mai un precedente. Solo un parere istruttorio, una opinione, pur qualificata, che non rappresenta la Cassazione, ma alcuni esponenti dell’ufficio studi del Massimario”. Allora perché l’ha definita un’invasione di campo? “Perché si dà erroneamente l’impressione che sia pronunciata in nome e per conto della Cassazione. Cosa che crea dei rischi”. Quali? “Che questo parere, venga sventolato nei processi sostenendo “la Cassazione ha detto così”, cercando così di condizionare le scelte giurisprudenziali. Ma non è vero: è una mera opzione culturale”. Allora perché vi preoccupate dei toni? “Perché nel parere devi comunque mantenere un equilibrio. Invece qui c’è un eccesso di severità che tracima in una inaccettabile demolizione costituzionale della legge. E questo non va bene”. Non è così? “Sul dl Sicurezza si dice che non ci può essere eterogeneità. Ma ormai è stato stabilito anche dalla Consulta che se la finalità è unica il decreto può essere eterogeneo”. Sul decreto Sicurezza è forte anche la bacchettata per la decretazione di urgenza in materia penale. “Prescindendo dalla condivisione o meno, è pacifico che si possa decretare di urgenza sulle norme penali, perché è prassi costituzionale ormai accettata”. Non è che non vi piace il contenuto del parere e allora lo ritenete di parte? “Il parere dovrebbe orientare non condizionare il magistrato: qui si corre il rischio che possa apparire addirittura caratterizzato da componenti politiche. Ci vogliono toni e modi correttamente sintonizzati alla funzione che l’atto ha”. Manderete gli ispettori? “Ma no. Non scherziamo”. È dissenso fisiologico? “C’è modo e modo di esprimerlo. La sistematica aggressione del provvedimento, eccessiva e talvolta fuori luogo, corre il rischio di apparire il frutto di una sorta di nervosismo da riforma costituzionale”. La presidente Cassano lancia l’allarme sulla mancanza di rispetto istituzionale da parte del governo nei confronti del magistrato, ogni volta che ci sono rilievi. “Non c’è persona più rispettosa di me nei confronti dei giudici a favore dei quali facciamo la riforma: un giudice terzo e imparziale, una magistratura libera dal giogo delle correnti”. Forza Italia si professa la forza più garantista del governo: dopo questi altri rilievi, sul decreto Albania non avete dubbi? “No, l’abbiamo convintamente votato. E abbiamo un metodo nel governo: le perplessità le risolviamo all’interno, poi la decisione della coalizione è e resta granitica”. L’opposizione vi accusa di essere cinici, illegali e inefficienti. Non è così? “FI è tutto fuorché cinica. La dose di umanità che ci caratterizza da sempre è riconosciuta da tutti. E tutto si può dire tranne che il governo non sia efficiente, e anche con il decreto Sicurezza lo ha dimostrato. E quanto all’illegalità ci si convinca: siamo in condizioni di scrivere le leggi, in modo legale, anche senza passare dal via libera di Anm e Csm. Secondo l’articolo 101 della Carta, nessuno deve disturbare che scrive le leggi, nessuno deve disturbare chi ha il dovere di applicarle”. Invece? “Invece così si provoca la crisi della legge. Se tra le disapplicazioni, i ricorsi alla giustizia europea, il calo dei ricorsi alla Corte costituzionale e le sentenze creative ora ci mettiamo anche le opinioni del Massimario della Cassazione, si pregiudica il valore dei percorsi parlamentari. E questo non deve, per rispetto della geometria costituzionale, essere consentito”. Dl Sicurezza, è polemica per il Massimario della Cassazione. Mazza: “Fare dottrina non è tra i suoi compiti” di Simona Musco Il Dubbio, 1 luglio 2025 La critica del giurista: “Dogmatismo d’imperio”. Gasparri: “Uso politico”. Non si arrestano le polemiche contro l’ufficio del Massimario della Cassazione, dopo il documento - di cui il Dubbio vi ha raccontato in anteprima - sul decreto Sicurezza e quello, reso noto dal Manifesto, sul decreto Albania. Relazioni che hanno fatto trasecolare il ministro della Giustizia Carlo Nordio, al punto da annunciare approfondimenti per “conoscere l’ordinario regime di divulgazione” di quei testi, da sempre accessibili online senza particolari difficoltà. Incredulità condivisa dall’Anm, ma in senso contrario: uno dei compiti specifici dell’Ufficio del Massimario, ha replicato il sindacato delle toghe, “è proprio quello di redigere le relazioni sulle novità normative, evidenziandone anche le eventuali criticità dal punto di vista della tenuta costituzionale”. La critica sul merito del testo è trasversale alla comunità dei giuristi: avvocati, magistrati e docenti hanno infatti evidenziato più volte i pericoli insiti nel testo, manifestando un’unità di posizioni mai vista prima. Ed è proprio quelle posizioni che il Massimario riporta, citando punto per punto l’origine delle riflessioni critiche. Ma per il professore Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca, il problema è di metodo. E in uno Stato di diritto non è una questione secondaria. “Non vorrei che l’incredulità reciproca fra Nordio e Anm facesse passare in secondo piano la vera posta in gioco ossia l’indipendenza della magistratura - spiega -. Perché il Massimario si pronuncia su temi che la Cassazione affronterà, forse, tra qualche anno? A che titolo scrive il Massimario se non c’è nulla da massimare, mancando la giurisprudenza sul dl sicurezza e meno che mai la giurisprudenza di Cassazione?”. La risposta, secondo il giurista, può essere soltanto una: “Un dogmatismo d’imperio, una interpretazione preventiva al di fuori di ogni compito giurisdizionale, con l’evidente intento di condizionare le giurisdizioni di merito prima ancora che si formi una giurisprudenza di legittimità. Se il Massimario vuole fare dottrina - aggiunge Mazza -, dismetta i panni della Cassazione e si ponga sullo stesso piano degli altri interpreti. Ne va dell’indipendenza organica interna della magistratura, valore non inferiore a quello della indipendenza esterna dalla politica”. L’interpretazione preventiva dei testi di legge, aggiunge Mazza, “non rientra tra i compiti del Massimario”. Il suo ruolo è disciplinato dall’articolo 68 della legge di ordinamento giudiziario: compito del Massimario “è l’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, condotta allo scopo di creare un’utile e diffusa informazione (interna ed esterna alla Corte di Cassazione) necessaria per il miglior esercizio della funzione nomofilattica della stessa Corte”“. Questa attività, “ossia favorire la nomofilachia della Cassazione, “si articola” anche nella redazione di relazioni “su novità legislative, specie se di immediata incidenza sul giudizio di legittimità”. Dunque, come può essere di ausilio alla nomofilachia interna della Cassazione e al lavoro dei giudici della Corte di Cassazione la relazione sul dl sicurezza, posto che di tale materia per anni non dovranno occuparsi?”. Mazza cita anche Giuliano Scarselli, secondo cui “se la Corte di Cassazione, attraverso l’Ufficio del Massimario, si rende essa stessa dottrina”, allora “il problema si pone, perché quell’orientamento può condizionare la libertà dei giudici”. La polemica è rovente, tanto da spingere la Prima Presidente, Margherita Cassano, a replicare tramite due interviste alla polemica, difendendo l’operato del Massimario: “Si tratta di analisi tecnico-scientifiche messe a disposizione dei giudici, senza alcun automatismo né condizionamento - ha dichiarato al Corriere -. Ogni giudice resta libero e autonomo”. Ma la discussione va avanti. Il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, minimizza il peso del parere, ma avverte sul “rischio di un’invasione di campo nei processi interpretativi”, criticando i toni “eccessivamente severi e di parte”, che “rischiano di apparire politici”. Più moderato il deputato di Forza Italia, Enrico Costa, che rigetta “posizioni sbagliate” sia di chi attacca il decreto sia di chi accusa la Cassazione di fare politica. Costa ricorda come la Cassazione abbia il diritto e dovere di analizzare le norme, anche se “queste analisi non sono sempre oro colato”. Molto duro Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di FI, che accusa il Massimario di svolgere una “valutazione preventiva non prevista dalle norme” e di esercitare “un contropotere”, con “un uso politico della giustizia che si estende ad altre strutture”. Giustizia, i 12mila precari del Pnrr protestano a un anno dalla scadenza dei contratti di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2025 “Nessuna certezza sul futuro”. Nonostante anni di lavoro negli uffici, finora il governo ha garantito l’assunzione a tempo indeterminato di solo un dipendente su quattro. La solidarietà dell’Anm. Dodicimila dipendenti statali ancora senza certezze sulla stabilizzazione a un anno esatto alla scadenza dei loro contratti a termine, prevista per il 30 giugno del 2026. Sono i precari della giustizia assunti con fondi europei (2,2 miliardi di euro) per raggiungere gli obiettivi del Pnrr, al lavoro da anni negli uffici giudiziari di tutta Italia: quasi novemila addetti all’Ufficio per il processo - funzionari laureati con il compito di assistere i magistrati nello studio delle cause e nella scrittura dei provvedimenti - ma anche tremila tra amministrativi e tecnici. A più di tre anni dall’entrata in servizio dei primi assunti (febbraio 2022), e dopo una proroga già concessa, il governo non ha ancora dato una risposta certa sul loro futuro: i fondi stanziati finora, infatti, coprono l’assunzione a tempo indeterminato di soli tremila lavoratori, circa uno su quattro, che verranno individuati in base a criteri ancora ignoti. In questi anni l’assenza di prospettive certe ha già causato un’emorragia di personale, con migliaia di funzionari che hanno abbandonato il posto alla ricerca di un impiego stabile (quasi sempre in altre pubbliche amministrazioni). Per questo, tra lunedì e martedì, i precari manifestano di fronte ai palazzi di giustizia di tutta Italia in una mobilitazione indetta da Fp Cgil, Uilpa e Usb, con lo stesso slogan usato dall’inizio della loro battaglia: “Abbattiamo l’arretrato, come premio il precariato”. Il 30 giugno si sono tenuti presidi ad Ancona, Bari, Bologna, Brindisi, Foggia, Genova, Lecce, Modena, Napoli, Pesaro, Reggio Emilia, Taranto e Torino, mentre il 1° luglio sarà il turno di Alessandria, Asti, Catania, Perugia, Reggio Calabria, Milano, Nuoro, Cagliari e Roma (sia Tribunale sia Corte di Cassazione). “A un anno dalla scadenza dei contratti dei precari Pnrr al Ministero della giustizia e a sei mesi dalla approvazione della prossima legge di Bilancio, che dovrà individuare le risorse per la stabilizzazione, le organizzazioni sindacali ritengono necessario rilanciare con forza la mobilitazione per chiedere la stabilizzazione di tutte e tutti i 12mila attualmente in servizio. Il contributo dato dalle precarie e dai precari in questi anni all’ammodernamento del sistema giustizia, dalla riduzione dell’arretrato all’innovazione digitale e organizzativa è innegabile”, si legge in un comunicato congiunto di Fp Cgil, Uilpa e Usb. “La stabilizzazione di solo una parte del personale attualmente in servizio, come nelle intenzioni del governo, penalizzerà migliaia di lavoratrici e lavoratori, che presto potrebbero rimanere disoccupate, ma anche il personale in servizio a tempo indeterminato, che sarà ulteriormente sfruttato, e il sistema giustizia tutto”. La protesta dei precari raccoglie anche l’adesione dell’Associazione nazionale magistrati, che ha inserito la questione della loro stabilizzazione tra le richieste ufficiali portate al governo per il miglioramento della giustizia. “Esprimiamo il nostro appoggio ai precari della giustizia che in questa giornata manifestano davanti a diversi tribunali per chiedere garanzie per il loro futuro. Le garanzie che chiedono non riguardano solo le proprie prospettive lavorative, ma quelle dell’intero sistema giustizia che ha bisogno del prezioso contributo degli addetti all’Ufficio per il processo. La loro stabilizzazione è prerequisito necessario per una giustizia più veloce ed efficiente. Si tratterebbe oltre tutto di un investimento produttivo perché la riduzione dei tempi processuali avrebbe un impatto positivo su tutto il Paese. Di questo abbiamo bisogno”, afferma in una nota la Giunta esecutiva centrale dell’organismo di rappresentanza delle toghe. A Lecce, Taranto e Brindisi i rappresentanti dell’Anm hanno partecipato alle manifestazioni esprimendo “vicinanza e sostegno” al personale precario, che ha fornito, si legge in una nota della giunta distrettuale, “un contributo prezioso all’efficacia e all’efficienza del servizio giustizia”. L’istituzione dell’Ufficio del processo, prosegue il comunicato, “ha fornito un contribuito prezioso perché le sempre crescenti domande di giustizia potessero ricevere risposte ancor più rapide ed efficaci”. A Taranto, addirittura, a schierarsi con i precari è arrivata una nota ufficiale - scritta a nome di tutti i magistrati - della presidente del Tribunale Rosa Anna Depalo: “Si ritiene che il nuovo istituto abbia introdotto una modalità di lavoro oramai irrinunciabile, la cui mancanza non potrà che ricadere negativamente sull’efficienza del servizio giustizia reso alla collettività”. A Catanzaro invece la solidarietà è arrivata dalla sezione locale di Area, la maggiore corrente progressista della magistratura. “Senza queste donne e questi uomini, gli sforzi della magistratura sarebbero vani: si tratta di risorse preziosissime che hanno contribuito al miglioramento del sistema e il cui apporto risulta fondamentale per garantire a tutta l’utenza una giustizia efficace”, si legge in una nota. A Napoli al presidio ha partecipato anche il deputato Pd Marco Sarracino: “Siamo al fianco dei precari della giustizia, ragazze e ragazzi che hanno lavorato con competenza e impegno per migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione e ridurre i tempi dei processi. Assunti grazie al Pnrr, tra un anno vedranno scadere i loro contratti senza alcuna prospettiva occupazionale. È inaccettabile che, dopo aver contribuito al funzionamento quotidiano della giustizia italiana, vengano ora condannati alla precarietà perenne in un contesto di carenza di personale nell’amministrazione giudiziaria”, afferma. Dagli atti alle sentenze, quei funzionari-chiave cruciali per la giustizia di Michela Allegri Il Messaggero, 1 luglio 2025 Si occupano di rendere effettive le decisioni e anche di informare in modo corretto le parti processuali. ?????Sono il braccio operativo della giustizia, quelli che, concretamente, fanno andare avanti i tribunali e le procure, rendendo effettive e tangibili le decisioni dei giudici. Notificano gli atti relativi a inchieste e procedimenti, si occupano di fare eseguire in modo tempestivo le sentenze, dai sequestri ai pignoramenti, fino agli sfratti e alle esecuzioni forzate. Nel caso in cui sentenze e provvedimenti non vengano rispettati dai diretti interessati, gli ufficiali giudiziari hanno il compito di intervenire, segnalando le irregolarità e facendo rapporto ai magistrati. Dipendenti del ministero della Giustizia, operano negli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti (Unep), presenti in ogni tribunale e corte d’appello del paese. Uffici dove, da anni, viene denunciata carenza di personale, dovuta a pensionamenti non rimpiazzati, blocchi del turnover, difficoltà nel reclutamento. In passato ci sono anche stati vincoli di bilancio che hanno limitato le risorse destinate all’assunzione e alla formazione del nuovo personale. E il risultato è stato un rallentamento, ulteriore, della macchina della giustizia. La carenza di ufficiali giudiziari, insieme a quella di personale amministrativo, è una delle principali criticità dei tribunali italiani: l’impatto sull’efficienza e sui tempi della giustizia è importante. In Italia, nel 2025, la dotazione organica degli ufficiali giudiziari è di 1.538 posti, di cui 433 occupati, secondo i dati del Ministero della Giustizia relativi al 2024. Ma sono in programma ulteriori assunzioni nei prossimi anni. Gli Unep hanno un ruolo cruciale, visto che si occupano quotidianamente di rendere effettive le decisioni e gli atti: curano la notifica di citazioni, decreti, sentenze alle parti coinvolte in inchieste e processi. Un’attività fondamentale: per raggiungere di volta in volta gli step successivi in un procedimento è necessario che le parti siano informate ufficialmente delle decisioni prese e degli atti processuali, rispettando tutti i passaggi legali previste. In questo modo ogni punto è trasparente e nessuno dei diretti interessati può dire - per cercare di prendere tempo, oppure sottrarsi ai propri doveri - di non essere stato avvisato, oppure chiamato in causa. In sostanza gli ufficiali giudiziari sono il collegamento operativo tra i tribunali e le procure, e il mondo esterno, quando viene coinvolto in procedimenti penali, civili o amministrativi. Sono sempre gli ufficiali giudiziari a eseguire materialmente le decisioni, dal pignoramento di beni allo sfratto. Ma possono anche effettuare accertamenti - su ordine del magistrato - per raccogliere informazioni. E ancora: si occupano di redigere verbali e rapporti. Nei casi di pignoramento possono occuparsi anche della custodia temporanea dei beni. Possono anche collaborare con il personale giudiziario e con le forze dell’ordine durante lo svolgimento di attività connesse ai processi. Per diventare ufficiale giudiziario è necessario partecipare a un concorso pubblico nazionale, bandito dal Ministero. I vincitori devono poi seguire un periodo di formazione pratica negli uffici, oppure frequentare scuole di formazione specifiche, per apprendere procedure, tecniche di notifica, esecuzione e gestione degli atti. Il passo successivo è la nomina e l’assegnazione a un ufficio Unep. C’è anche la possibilità di specializzarsi in particolari tipi di esecuzioni o notifiche. Pene sostitutive, la Cassazione: no automatismi, si decide caso per caso di Antonio Alizzi Il Dubbio, 1 luglio 2025 La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla corretta applicazione delle nuove pene sostitutive previste dalla riforma Cartabia, affermando un principio chiaro: la decisione sulla sostituzione della pena detentiva con sanzioni alternative spetta al giudice, non all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). Un’affermazione che, nel caso specifico, ha comportato l’annullamento con rinvio della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Lecce nei confronti di un imputato, condannato per simulazione di reato. Nel corso del giudizio di secondo grado, l’imputato aveva chiesto la sostituzione della pena detentiva con lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, facendo riferimento a un programma predisposto dall’Uepe. La Corte territoriale, pur ritenendo astrattamente ammissibile la sostituzione, aveva respinto la richiesta, sostenendo che il programma non rispettasse i parametri minimi previsti per legge e fosse incongruo rispetto alla gravità del fatto. Secondo i giudici salentini, una volta ritenuto non idoneo il programma proposto, non spettava al collegio interloquire ulteriormente con l’Uepe, né modificarne il contenuto, dal momento che l’articolo 545- bis del codice di procedura penale non attribuirebbe al giudice poteri di intervento in tal senso. Una lettura, questa, che la Suprema Corte ha giudicato errata e viziata da un fraintendimento sostanziale del nuovo assetto normativo. La sentenza chiarisce infatti che, proprio alla luce delle modifiche introdotte dalla riforma del 2022 (e rafforzate, secondo quanto scritto in sentenza, dal decreto legislativo n. 31/ 2024), il giudice mantiene un ruolo centrale e attivo nella determinazione della pena individualizzata. L’articolo 545- bis del codice di procedura penale attribuisce infatti alla giurisdizione il compito non solo di verificare l’ammissibilità astratta della sostituzione, ma anche di procedere all’acquisizione di tutte le informazioni utili per calibrare una risposta sanzionatoria coerente con le esigenze rieducative del reo. Secondo i giudici di legittimità, l’approccio adottato dalla Corte d’Appello di Lecce ha finito per svilire la funzione del giudice, riducendolo a un soggetto passivo, tenuto a recepire o rigettare le proposte dell’Uepe senza possibilità di intervento correttivo o integrativo. Una posizione inaccettabile, secondo la sesta sezione penale del Palazzaccio, perché finisce per attribuire a un ufficio amministrativo - esterno alla giurisdizione - una funzione che, per legge e principio costituzionale, spetta esclusivamente al potere giudicante. La Cassazione sottolinea che il modello delineato dalla nuova disciplina processuale non contempla automatismi né rigidità procedimentali. Al contrario, il legislatore ha voluto disegnare un sistema flessibile e partecipativo, in cui il giudice, le parti e l’Uepe interagiscono per costruire un trattamento sanzionatorio “ritagliato sull’unicità del condannato”, tenendo conto delle sue condizioni personali, familiari, economiche e sociali. In questa logica, il giudice può (e deve) attivare un’interlocuzione con l’Uepe per chiarimenti, modifiche, integrazioni e per ottenere una proposta compatibile con gli obiettivi costituzionali della pena: evitare la recidiva e favorire il reinserimento sociale. Il caso di specie evidenzia come tale dialogo non sia stato attivato: la Corte d’Appello di Lecce si è limitata a constatare l’inidoneità del programma proposto, senza spiegare perché non fosse possibile richiedere una riformulazione o valutare soluzioni alternative. Secondo la Cassazione, tale omissione ha rappresentato una compressione ingiustificata del potere- dovere del giudice di procedere a una valutazione complessiva, non solo quantitativa, ma anche qualitativa, della sanzione da applicare. Richiamando l’articolo 58 della legge n. 689/ 1981, nella versione del decreto legislativo n. 150/2022, la Corte di Cassazione ribadisce che la scelta tra le diverse pene sostitutive non può essere predefinita o meccanica: deve tenere conto delle esigenze di rieducazione, della prevenzione della recidiva, ma anche dell’impatto sulla libertà personale dell’imputato, da contenere nei limiti strettamente necessari. Solo nel caso in cui il giudice ritenga che la semilibertà o la detenzione domiciliare siano preferibili rispetto al lavoro di pubblica utilità o alla pena pecuniaria, è tenuto a fornire una motivazione rafforzata, trattandosi di misure più afflittive. In definitiva, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando la sentenza e rinviando per un nuovo esame a una sezione diversa della Corte d’appello di Lecce, che dovrà applicare correttamente i principi delineati, attivando un nuovo confronto con l’Uepe e le parti per valutare in che misura - e con quali modalità - la pena possa essere effettivamente sostituita. No all’espulsione come misura alternativa alla detenzione se la famiglia è in Italia di Maria Fiore La Provincia Pavese, 1 luglio 2025 Meglio il carcere che tornare nel suo paese di origine, dove non ha più nessuno e dove potrebbe essere perseguitato per la sua bisessualità. Il tribunale di sorveglianza di Milano ha accolto il ricorso di un giovane di 28 anni di origini senegalesi, detenuto nel carcere di Torre del Gallo, che aveva contestato, attraverso l’avvocato Pierluigi Vittadini, il provvedimento con cui il tribunale di sorveglianza di Pavia ne ordinava l’espulsione dallo Stato in alternativa alla detenzione. Il giovane, che sta scontando una pena per reati contro il patrimonio, che durerà fino ad agosto del prossimo anno, aveva chiesto nel suo ricorso di restare in provincia di Pavia - anche se ora è in carcere - dove vive da anni, dove ha studiato per diventare meccanico e dove ha la sua vita. I giudici di Milano gli hanno dato ragione. “L’espulsione, disposta come misura alternativa alla detenzione” si tradurrebbe, si legge nel provvedimento, “in un’ingerenza nella vita privata e familiare dell’interessato, vietata dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. I giudici ripercorrono la relazione del carcere, da cui si apprende che “entrambi i genitori” del ragazzo vivono in Italia, “il padre da oltre 25 anni e ha sempre lavorato con contratti regolari, mentre la madre svolge in modo saltuario l’attività di parrucchiera. Questa insieme al figlio aveva raggiunto il marito in Italia nel 2015 per ricongiungimento”. Il giovane aveva poi “frequentato le scuole conseguendo il diploma di meccanico presso un istituto professionale di Voghera e poi ha iniziato a lavorare nell’azienda del padre”. Un vissuto, secondo i giudici, che non può essere messo in discussione dal suo debito con la giustizia. Nel ricorso il giovane aveva anche spiegato che in Senegal “non ha più un parente né un amico disposto ad accoglierlo” e ha sostenuto anche che nel suo Paese “potrebbe essere perseguitato a causa della sua bisessualità”. Circostanze, ad avviso dell’avvocato difensore Vittadini, ostative alla sua espulsione. I giudici della sorveglianza di Milano gli hanno dato ragione. m. fio. Milano. Sciascia, Tortora e l’idea da realizzare: tirocinio in carcere per le toghe di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 1 luglio 2025 Si è tenuto ieri all’interno del carcere di San Vittore il convegno di presentazione della legge “Sciascia-Tortora”. L’evento è stato co-organizzato dall’Ordine degli avvocati e dalla Camera penale di Milano, insieme all’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, a ItaliaStatodidiritto, alla Fondazione Internazionale per la Giustizia Enzo Tortora, alla Società della Ragione, e all’Unione Camere penali. Tutti promotori dell’iniziativa legislativa attualmente all’esame della Camera. Il progetto di legge, illustrato ieri da Francesca Biondi, docente dell’Università degli Studi di Milano, si propone di rinnovare profondamente la formazione della magistratura ordinaria. Fra i punti principali si segnala l’introduzione obbligatoria dello studio del diritto penitenziario nel percorso formativo dei magistrati; l’inserimento della letteratura dedicata alla giustizia, ai diritti fondamentali e alle derive dello Stato di diritto, “per una riflessione culturale e civile sul ruolo del giudice”; la previsione di un tirocinio obbligatorio di 15 giorni in carcere, comprensivo di pernottamento, “per una reale comprensione della condizione detentiva e dell’impatto delle decisioni giudiziarie”. “Questo progetto di legge pone al centro della formazione del magistrato la consapevolezza umana e culturale del proprio ruolo”, ha esordito La Lumia. “Piero Calamandrei a proposito del carcere scriveva che “bisogna vedere, bisogna starci per rendersene conto” e Leonardo Sciascia, nella sua riflessione civile sul rapporto tra giustizia e verità, affermava “un rimedio, paradossale quanto si vuole, sarebbe quello di far fare ad ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere tra i comuni detenuti”, ha aggiunto La Lumia. “Questa proposta non è una offesa alla magistratura”, ha puntualizzato Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora. Concetto ribadito da Simona Viola, presidente dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, la quale ha ricordato come lo scrittore siciliano vivesse “con angoscia l’inadeguatezza del magistrato”. Alla successiva tavola rotonda, moderata dall’avvocato Guido Camera, presidente di ItaliaStatodidiritto, hanno preso alcuni firmatari del testo, fra cui Maria Elena Boschi (Iv), Benedetto Della Vedova (+ Europa), Debora Serracchiani (Pd), Giorgio Mulè (FI). Roberto Crepaldi, giudice del tribunale di Milano, ha ricordato la propria esperienza di quando aveva visitato da giovane magistrato le strutture detentive e di essere rimasto molto scosso, soprattutto gli Icam dove sono rinchiuse le detenute con i propri bambini. “Alla Scuola della magistratura di Bordeaux i magistrati in formazione condividono alcune giornate con la polizia e con i detenuti, per acquisire una visione più completa del contesto in cui saranno chiamati ad operare”, ha affermato Claudia Eccher, componente laico del Csm in quota Lega. “Abbiamo dei magistrati ordinari in tirocinio di poco più di venti anni, magari appena laureati i quali spesso, pur essendo molto preparati ed equilibrati non hanno esperienze relative a situazioni di difficoltà ed emarginazione”, ha aggiunto Eccher. Voce fuori dal coro quella del senatore Sandro Sisler (FdI): “Stiamo riformando la magistratura e ci sono ora altre priorità”. Busto Arsizio. “Nessuno tocchi Caino” nel carcere: “Sovraffollato, ma qui qualità e dignità” di Andrea Aliverti malpensa24.it, 1 luglio 2025 Sovraffollamento al 180%, ma rispetto alla media “qui il livello è medio alto”. È il giudizio sul carcere di Busto Arsizio di Sergio D’Elia, segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, accompagnato dagli avvocati della Camera Penale in visita alla Casa Circondariale di via per Cassano. Attualmente sono 424 i detenuti ospitati, contro una capienza ufficiale di 240 posti, gestiti da 116 agenti effettivi di Polizia Penitenziaria contro i 190 che sarebbero necessari. “Rispetto a tante altre carceri, quello di Busto Arsizio ha molti meno problemi” rivela il presidente della Camera Penale di Busto Arsizio Tiberio Massironi che rivolge un pensiero a Rita Bernardini, in sciopero della fame. “Ma il sovraffollamento è un problema che si sta incancrenendo. Segno che un atto di clemenza serve”. La visita - La delegazione di “Nessuno Tocchi Caino”, accompagnata da quella della Camera Penale di Busto Arsizio, è stata in visita al carcere di via per Cassano, oggi, 30 giugno. Accolti a distanza dalla direttrice Maria Pitaniello e, in carne ed ossa, dalla comandante della polizia penitenziaria Rossella Panaro e dalla capo area trattamentale Valentina Settineri. “Se dovessi fare una “classifica” della qualità e dignità della detenzione, va detto che non c’è paragone tra Busto Arsizio e Como, carcere che abbiamo visitato settimana scorsa - afferma Sergio D’Elia - qui il livello è medio-alto rispetto alla situazione delle carceri in Italia in generale. A Como il sovraffollamento quasi del 200% si nota, qui a Busto quasi non si nota. Pulizia dei luoghi, luminosità, qualità dell’aria ma soprattutto delle relazioni umane e degli operatori sanitari”. I dati - Eppure i numeri “condannano” la Casa circondariale bustocca al pari delle altre. Li snocciola Alessandra Salomoni, responsabile dell’osservatorio carcere della Camera Penale di Busto Arsizio: 424 persone detenute, contro una capienza di 240 posti disponibili. Con una divisione quasi al 50% tra italiani e stranieri (208 e 216). Numeri che mostrano un carcere “drammaticamente sovraffollato”, come fa notare il “past president” Samuele Genoni: “Solo le persone rendono la vita meno drammatica ai detenuti”. “Piangono” anche i dati sulle pene alternative: “solo” 7 permessi premio e “solo” 2 detenuti al lavoro all’esterno in base all’articolo 21, “pochissimi” rispetto ai 281 condannati in via definitiva. Ed è “in sofferenza” anche l’organico della Polizia penitenziaria, alle prese con la cronica carenza di personale: sono 116 gli effettivi, più 11 nel nucleo traduzioni, ma “ne sarebbero necessari 190”. Se la cava invece l’area trattamentale: “su 5 unità previste, ne sono presenti 4”. Pregi e difetti - “Come ci può essere un processo di riabilitazione in queste condizioni? È miracoloso il lavoro che fanno questi operatori - sintetizza l’ex parlamentare D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino” - le persone fanno la differenza, e qui ho trovato operatori che hanno cura di questa “galera” come se fosse la loro casa. Beati i costruttori di pace, armonia e riduzione del danno in un luogo connaturato con il dolore, la sofferenza e la pena”. Unico neo, che si fa sentire molto in questi giorni: il caldo. “Problema strutturale - lo definisce il medico Federico Canziani, di NTC - anche nell’area sanitaria, che è un fiore all’occhiello, con la sala di riabilitazione, gli ambulatori funzionanti e la telemedicina attiva, mancano i condizionatori”. Investimenti che anche la Camera Penale cercherà di sollecitare, anche se il cappellano don David Maria Riboldi spenderebbe i soldi “per aiutare le persone ad uscire”, visto che dei 33 assunti negli anni da La Valle di Ezechiele “uno solo ha commesso reato”. Venezia. Detenuti al lavoro alla Biennale in cantieri, ristoranti e alberghi di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 1 luglio 2025 Uscite diurne dal carcere per lavorare, il progetto prende piede. Buttafuoco: “Tener vivi il rapporto e la speranza è un nostro dovere”. C’è l’imprenditore che è a Santa Maria Maggiore per scontare una pena per bancarotta: esce dal carcere ogni mattina e va al lavoro tra i cantieri dei restauri di Piazza San Marco, assunto dalla impresa di restauri Lares. C’è il trentenne veneto condannato per essere rimasto invischiato nel mondo della droga, che ora studia Ingegneria informatica: parte dal Due Palazzi per raggiungere la biglietteria della Biennale di Architettura. C’è chi sta scontando una pena per reati contro il patrimonio ed è appena stato assunto al bar della stazione di Venezia della catena My Resturant. Sono tre esempi - tra le decine a Venezia, le centinaia in Veneto e in tutta Italia - della complessa, ma sempre più veloce macchina di “seconde opportunità”, messa in moto dall’incontro tra l’associazione Seconda Chance (creata nel 2022 dall’energia della giornalista Flavia Filippi e animata da una rete di colleghi, che in Triveneto ha come referente la collega Giovanna Pastega), la disponibilità del Dap e di direttori di istituti di pena, l’attenzione felicemente contagiosa di aziende grandi e piccole ed enti pubblici, nel cogliere il messaggio: “Le persone non sono tutte e per sempre il reato che hanno commesso e il lavoro è lo strumento per dare a loro una seconda opportunità e alla società più sicurezza: chi lavora riacquista dignità e la recidiva crolla”. Un anno fa erano solo quattro i detenuti che la mattina lasciavano Santa Maria Maggiore per raggiungere un posto di lavoro “oltre il muro”, tornando in cella per la notte: oggi sono già quaranta. E altri operano all’interno del carcere, diventando così una sessantina in tutto: c’è un protocollo con Ance per la formazione nel campo dell’edilizia e alcuni detenuti sono impiegati nella manutenzione dell’istituto. Un altro grande filone è quello alberghiero e della ristorazione e con l’Associazione italiana direzione personale si stanno organizzando corsi per ottenere il patentino Haccp per addetto alla cucina, molto richiesto. Infine, all’interno di Santa Maria Maggiore è stato attivato anche un corso per Archivista digitale. “Posso dire che ora c’è la “coda” fuori della mia porta di aziende pronte a offrire opportunità di impiego, ma purtroppo - pur avendo 270 detenuti - non tutti hanno le caratteristiche previste dalla legge per poter accedere al lavoro esterno”, ha detto il direttore Enrico Farina, a margine dell’incontro Recidiva Zero, organizzato al Cnel dal presidente Renato Brunetta, “il mondo dell’impresa e delle istituzioni, a Venezia, ha risposto in maniera meravigliosa, con grande disponibilità alla chiamata fatta anche insieme a Seconda Chance: c’è volontà di offrire opportunità di reinserimento sociale. Si può dire anche in maniera opportunistica, perché si fa del bene alla persona detenuta, dandole l’opportunità di imparare un lavoro che spesso prosegue una volta scontata la pena, e perché si fa del bene alla comunità, perché se esci dal carcere e non hai un lavoro, ti ritrovi nuovamente ai margini e il rischio che torni a fare quello che facevi è alto. Venezia potrebbe essere la capitale del reinserimento sociale dopo-pena: mostrare al mondo come si fa”. Lungo l’elenco delle aziende e degli istituti che hanno aderito al progetto Seconda Chance e il rischio è di dimenticarne di sicuro molti: da Illy con l’Università del caffè a Autogrill, da McDonald’s a My Resturant. Veritas, le Gallerie dell’Accademia, Muve, E, ancora, l’Associazione degli albergatori veneziani, la Confcommercio, l’Aepe e i pubblici esercizi. Poi il protocollo con l’Ance, l’associazione dei costruttori. E la Biennale, conosciuta in tutto il mondo: l’occasione che ha portato quattro detenuti a lavorare alla mostra del Cinema e ora alla Biennale di Architettura, è scoccata all’inaugurazione del padiglione della Santa Sede al Carcere femminile della Giudecca, nell’incontro tra Buttafuoco, il patriarca Moraglia e Seconda Chance. E il primo detenuto è stato assunto per la Mostra del Cinema. “È stato molto emozionante per lui e per noi che in occasione della Festa di San Marco, il Comune abbia consegnato un’osella al primo signore che è venuto a lavorare con noi alla Mostra del Cinema, l’anno scorso. Ora sono quattro i detenuti che lavorano alla Biennale Architettura e altre opportunità si apriranno”, commenta il presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco, “così si trasforma una comunità in una comunità pensante. È un dovere istituzionale tenere viva la fenditura tra le mura e la misericordia”. È un mondo vasto, un’opportunità complessa da sviluppare - quella di far incontrare il mondo del lavoro e quello delle carceri, in vista di un reinserimento sociale di chi oggi è detenuto - ma ricca di soggetti e attenzione: sembra giunto il momento in cui l’energia di chi da volontario si impegna e la risposta di chi il lavoro lo dà s’incontrano. Senza per altro dimenticare chi, da decenni, nelle carceri veneziane opera con laboratori di stampa, sartoria, raccolta di erbe officinali e prodotti di cosmesi naturale, come le cooperative Rio terà dei Pensieri e Il Cerchio, con Veritas e Actv coinvolte. “Abbiamo appena fatto la nostra prima assunzione su Venezia, nel caffè che abbiamo in stazione e siamo molto felici”, commenta Riccardo Orlandi, per la catena di ristorazione My Chef, “è un “do ut des”: noi abbiamo bisogno di personale e diamo un’occasione a chi nella vita si è ritrovato in carcere, a ripartire rispettando le regole e avendo la possibilità di rinserisi nella società attraverso il lavoro. Invito le altre aziende a fare altrettanto: è un’opportunità positiva a vantaggio dei singoli, delle aziende, della collettività”. In questi giorni, Seconda Chance, sta siglando un nuovo protocollo con McDonald’s per portare la formazione all’interno del carcere minorile di Treviso, l’unico in Veneto. Venezia. Cup in carcere, detenuti gestiscono 300 prenotazioni al giorno veneziatoday.it, 1 luglio 2025 “Abbiamo chiesto ai ragazzi da quale settore lavorativo erano maggiormente attratti e in coro ci hanno risposto la ristorazione”, racconta Giovanna Pastega, “e da qui siamo partiti: McDonald’s organizzerà dei corsi di formazione, una Academy al termine della quale sarà rilasciata una certificazione spendibile all’esterno, con inserimenti lavorativi anche all’interno della stessa azienda. Porteremo questo protocollo anche negli istituti per minori in Friuli Venezia Giulia”. “Alla fine non ci interessa parlare di noi, di Seconda Chance”, dice Flavia Filippi, “ma far parlare chi già ha fatto questa esperienza di accoglienza al lavoro di detenuti e ex detenuti, uomini e donne, perché “contagi” altri a fare altrettanto”. Sono stati assunti lo scorso mese di novembre, ora hanno un ufficio più grande, gestiscono 300 telefonate al giorno, e da tre sono passati a nove, uno dei quali è stato promosso oltre le sbarre, ritrovandosi con la stessa mansione all’ospedale dell’Angelo di Mestre. È il gruppo di telefonisti detenuti nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia, divenuto parte integrante del Cup dell’Ulss 3. Gli impiegati, tutti italiani tra i 25 e i 45 anni di età, sono stati selezionati tra i circa 270 ospiti della struttura. Molti di loro sono laureati e con elevate competenze informatiche utili a svolgere la loro mansione, avendo a che fare quotidianamente con agende di prenotazioni elettroniche. Tutti, via via, saranno inquadrati con un contratto a tempo indeterminato. La casa circondariale lagunare aveva inizialmente individuato un locale al suo interno, poi l’azienda sanitaria, insieme al consorzio che ha in gestione il servizio di prenotazione, lo ha attrezzato e reso operativo, trasformandolo in una vera piccola sede distaccata del Cup: rete interna aziendale, linea, macchinari, computer, software e agende per gli appuntamenti. Ora i nove operatori si trasferiscono in un ufficio ancora più grande, sempre all’interno del carcere, eccetto uno, già promosso all’ufficio Cup dell’ospedale di Mestre. “Per noi relazionarci con il mondo fuori è motivo di entusiasmo, e quando poi, soprattutto con gli utenti anziani, riusciamo a rispondere alle loro richieste d’aiuto, diventa gioia vera - ha dichiarato uno di loro -. Questo lavoro ci ricollega alla società, e la gratificazione che abbiamo dagli utenti stessi ci esorta non solo a fare sempre meglio il nostro lavoro, ma anche a vivere meglio il carcere”. Da quando “abbiamo questo lavoro - ha spiegato un altro -, andiamo a letto prima alla sera per essere più concentrati nell’attività, e abbiamo la voglia di portare il sano anche nel resto delle ore che trascorriamo qui. Non viviamo più, la vita carceraria, alla giornata: abbiamo uno scopo”. La sanità “ha la funzione importante di curare, ma curare significa prendere per mano la persona - ha commentato il direttore generale dell’azienda sanitaria, Edgardo Contato -. Salute è stato di benessere fisico, psichico e anche sociale. E in questo la detenzione non deve essere esclusione, ma tentativo di riallinearsi con il mondo che è pronto ad accogliere fuori. Deve essere momento di crescita. Il Cup diventa una finestra del carcere che si apre verso l’esterno. È un contatto con l’esterno in una fase di riappacificazione con la comunità” Carinola (Ce). Innerwheel Caserta Terra di Lavoro ancora in campo per i detenuti casertanews.it, 1 luglio 2025 Un laboratorio che apre le porte alla creatività, allo sviluppo di competenze artistiche e a nuove forme di rieducazione. È con questo obiettivo che nasce la stanza bricolage presso la Casa di Reclusione “G.B. Novelli” di Carinola a cui il Club Innerwheel Caserta Terra di Lavoro ha donato tutto il necessario per la realizzazione. La sala, consegnata lo scorso 25 giugno, è stata completamente arredata con tavoli, armadietti, sedie e fornita di un’ampia gamma di materiali per attività creative, tra cui colori, pennelli, strumenti per il decoupage e le belle arti. Un intervento che si inserisce nel più ampio progetto “Battiti d’umanità nelle carceri”, che il club casertano porta avanti dallo scorso ottobre e che aveva già visto la donazione dei pranzi di Natale presso le case di reclusione di Arienzo e Carinola, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, insieme ad altre attività di sostegno alle realtà penitenziarie. Come evidenziato dal direttore dell’istituto di Carinola, Carlo Brunetti, la nuova sala consentirà ai detenuti di esprimere le proprie attitudini artistiche e creative attraverso la realizzazione di piccoli lavori e di creare un clima relazionale, non conflittuale e non competitivo, nel quale instaurare nuove relazioni improntate alla condivisione. “Certe storie - ha dichiarato la presidente del Club Innerwheel Caserta Terra di Lavoro, Gabriella Amato - meritano di essere riscritte con colori più belli. È fondamentale sostenere i detenuti attraverso attività che non rappresentino solo momenti di svago costruttivo, ma che possano gettare le basi per un futuro reinserimento lavorativo. Attraverso l’arte è possibile investire sulla persona, sulle sue capacità e sulla sua rieducazione, ottenere competenze professionali spendibili una volta scontata la pena. Ringrazio il direttore Brunetti per averci reso partecipi di questo progetto e per il dialogo costante con cui, da tempo, ci consente di dare sostegno concreto alla comunità carceraria di Carinola”. Alla cerimonia di consegna hanno partecipato, oltre alla presidente Amato e a una delegazione del club, la vice direttrice del carcere Daniela Puglia, l’educatrice Paola Freda, una rappresentanza di detenuti e il presidente dell’associazione Generazione Libera, Rosario Laudato, che cura la pasticceria “i FaRinati” all’interno dell’istituto. Sondrio. Uno sguardo da dentro: il carcere raccontato attraverso gli scatti dei detenuti csvlombardia.it, 1 luglio 2025 Martedì 1 luglio alle ore 17:30 verrà inaugurata presso le sale espositive di Palazzo Pretorio la mostra fotografica “Uno sguardo da dentro: il carcere raccontato attraverso gli scatti dei detenuti”. La mostra è il risultato finale di un laboratorio di fotografia finanziato da Fondazione ProValtellina e realizzato da Fondazione Enaip Lombardia - sede di Morbegno - in collaborazione con la Casa Circondariale di Sondrio e svoltosi all’interno dell’istituto penitenziario nell’anno 2024. Alla realizzazione del corso hanno partecipato sei detenuti, coordinati e istruiti dal fotografo professionista Domiziano Lisignoli; la finalità del progetto infatti era proprio quella di esprimere il vissuto dell’esperienza detentiva attraverso le capacità tecniche del mezzo fotografico, in particolare i detenuti hanno scelto alcuni momenti significativi della vita penitenziaria, ad esempio i momenti di socialità, di cura del sé, di rito religioso, i momenti di colloquio con i propri familiari e in generale scene di vita quotidiana nel contesto detentivo. La prima mostra è stata realizzata all’interno della Casa Circondariale di Sondrio il 24 novembre 2024 e ha previsto la presenza delle Autorità locali, dopodiché la stessa si è svolta anche negli spazi del Centro formativo Enaip di Morbegno, ora, con il patrocinio del Comune di Sondrio, l’intento è quello di poter estendere all’intera cittadinanza la possibilità di prendere visione di quanto realizzato. Durante la giornata dell’inaugurazione saranno presenti il Direttore, Ylenia Santantonio, e il Comandante, Mattia Bonanno, della Casa Circondariale, il professionista che ha condotto il laboratorio, Domiziano Lisignoli, e rappresentanti di Fondazione Enaip, i quali introdurranno e spiegheranno ciò che è stato realizzato durante il laboratorio. In seguito all’evento di inaugurazione sarà possibile fruire della mostra presso Palazzo Pretorio dalle ore 09:00 alle ore 12:00 e dalle ore 14:30 alle ore 16:30 fino al giorno 10 luglio. “Fondazione ProValtellina è da sempre vicina al sociale, alle fragilità, a chi in un momento della propria esistenza ha particolarmente bisogno. Dare voce a chi non ha voce far tornare a sognare chi crede d’aver perduto la propria vita. Il carcere è emarginazione, sofferenza, disagio. Ricordiamoci sempre che esistono persone che vanno aiutate, il nostro contributo va proprio in questa direzione, essere al fianco di chi ha bisogno. Ringraziamo Enaip, la casa Circondariale di Sondrio, il Direttore il Comandante e tutto il personale per questa bella collaborazione” dichiara Marco Dell’Acqua, presidente della Fondazione ProValtellina e membro della Commissione Centrale di Beneficenza Fondazione Cariplo. Bryan Pace e Andrea Donegà, rispettivamente formatore Enaip e tutor del corso e direttore Enaip Morbegno, commentano: “Questa mostra non è solo un insieme di fotografie stupende, ma è un’esperienza da vivere perché dietro ogni quadro ci sono le storie delle persone. Per noi, sicuramente, è stato un percorso importante dal punto di vista professionale e, soprattutto, un momento di crescita umana. La mostra, partita dal carcere e passata per le aule di Enaip, ora viene messa a disposizione del territorio e della cittadinanza - e per questo ringraziamo molto il Sindaco e l’Assessore del Comune di Sondrio - proprio per proseguire l’impegno civico per cui è nata, ovvero quello di ricordare che il carcere deve essere un luogo dove scontare la pena ma, soprattutto, il luogo dove ci sia il diritto di immaginare un futuro possibile. E immaginare il futuro alimenta la speranza che è ciò che tiene viva la persona, ovunque si trovi. Ecco, fare tutto ciò con dei corsi professionalizzanti che possano dare la possibilità alle persone di acquisire delle competenze da spendere nel mondo del lavoro, una volta fuori, diventa un modo per riconciliarsi con la società, preparandosi a rientrarvi a pieno titolo, e un aiuto a trovare un’occupazione. Perché il lavoro, oltre a dare dignità alla persona, abbatte il rischio di recidiva garantendo il diritto di riprendersi in mano la propria vita. La formazione assume quindi un grande valore pedagogico e sociale, un impegno che, come Enaip, proseguiremo. Ringraziamo molto la Fondazione ProValtellina e mi unisco ai ringraziamenti alla direttrice del carcere, al comandante e agli agenti della Polizia Penitenziaria, al funzionario giuridico-pedagogico dott.ssa Angie Ignazzi e a tutto il personale. La mostra è a disposizione anche di tutte le scuole che lo richiederanno”. Domiziano Lisignoli, fotografo professionista e docente del corso, oltre che formatore di Enaip, dichiara: “è stata un’esperienza importante che mi ha permesso di entrare in contatto con una realtà poco conosciuta. Il rapporto con i detenuti è stato da subito costruttivo, hanno partecipato in modo attivo alle lezioni iniziali dedicate alla tecnica acquisendo velocemente le competenze necessarie per affrontare la fase pratica. Sono pienamente soddisfatto della loro risposta sia sul piano tecnico che sul piano estetico, perché hanno dimostrato di saper esprimere con la fotocamera il loro sentire più intimo, regalandoci, con questi scatti, il loro punto di vista: lo sguardo da dentro”. Udine. Libro bianco su droghe e carceri, in aumento i detenuti con dipendenza di Dario Ronzoni rainews.it, 1 luglio 2025 La 16ma edizione del report indipendente presentata anche a Udine con Trieste il carcere tra i più sovraffollati. Su circa 60mila detenuti in Italia, almeno un terzo è in carcere per reati legati alla droga, spesso di piccola entità. Rispetto alla media europea è quasi il doppio. E il fenomeno è in crescita ogni anno. Sono alcune delle indicazioni contenute nel Libro bianco sulle droghe, promosso dalla Società della Ragione e arrivato alla sua edizione numero 16, dal titolo “Non mollare”. Dopo l’incontro alla Camera dei Deputati il 26 giugno, è stato presentato anche a Udine, in un locale del centro. Una questione che riguarda anche Udine, che segue la stessa tendenza e dove il totale dei detenuti è di 182, a fronte di una capienza di 95. Con difficoltà crescenti di convivenza tra carcerati e polizia: “Ci vorrebbe un provvedimento di indulto o l’uscita dal carcere di persone che hanno un fine pena di sei mesi o di un anno” - rimarca Corleone. La soluzione - viene detto - è l’applicazione di misure alternative al carcere. Andrea Sandra, garante per i diritti dei detenuti di Udine: “Che possono essere applicate dal magistrato, dal Tribunale di sorveglianza e sarebbe utile che ciò avvenisse, abbiamo una carenza però di strutture come le comunità terapeutiche che andrebbero incentivate in modo da garantire l’accoglienza di più persone possibile”. C’è spazio anche per tornare sulla polemica aperta dal Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, dopo l’aggressione subita da quattro agenti da parte di due detenuti: “Noi paghiamo le conseguenze del sistema carcerario, - aveva detto il delegato nazionale Massimo Russo -mentre la politica e le associazioni si preoccupano di ventilatori, frigoriferi e delle celle dell’affettività”. Parole alle quali Sandra replica: “Il riferimento a quello che noi e le associazioni di volontariato fanno per garantire ai detenuti condizioni di vita decorose non può essere una critica”. Cagliari. La sala d’attesa del carcere di Uta si trasforma in un luogo di arte e creatività di Sara Panarelli castedduonline.it, 1 luglio 2025 Colori e bellezza per i figli minori dei detenuti. All’interno del progetto “Liberi dentro per crescere fuori” per migliorare l’esperienza della visita, rendendola meno ansiogena e più positiva per i bambini: con i piccoli c’è Manu Invisible. L’arte che cura, la bellezza che è terapia, i colori che rendono più bella la vita. Anche nella sala d’attesa di un carcere, soprattutto per i figli minori dei detenuti, che proprio grazie all’arte e alla bellezza possono superare più facilmente l’ansia per un appuntamento così emotivamente coinvolgente. E dunque, la sala d’attesa destinata ai visitatori della Casa circondariale di Uta si trasforma in uno spazio accogliente e a misura di bambino grazie a un innovativo progetto di riqualificazione. Da domani al 4 luglio, lo street artist Manu Invisible realizzerà interventi artistici per rendere più accogliente quello che l’antropologo Marc Augé avrebbe indicato come non-luogo, ossia uno spazio che non può essere definito come luogo antropologico perché manca di identità, relazioni e storia. L’obiettivo è proprio quello di rendere l’ambiente più sereno, specialmente per i minori in visita ai genitori detenuti. Durante la prima giornata di intervento si terrà anche un laboratorio artistico in cui il creativo affiderà colori e pennelli proprio ai destinatari del progetto, i figli minori delle persone che scontano la pena. Questo laboratorio non solo coinvolgerà attivamente i bambini in un’attività creativa, ma contribuirà anche a dare un nuovo significato al luogo d’ingresso, trasformandolo da spazio istituzionale a un ambiente più familiare e accogliente. Lo scopo è supportare la genitorialità e aiutare i minori ad affrontare l’incontro familiare con maggiore serenità. Questo progetto sottolinea l’importanza di creare ambienti che favoriscano il benessere psicologico ed emotivo dei minori, anche in contesti difficili come quello carcerario. L’arte e la creatività diventano strumenti fondamentali per superare le barriere e promuovere un’esperienza più umana e meno traumatica. L’intervento, parte di Liberi dentro per crescere fuori, il progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile in riferimento al bando nazionale Liberi di crescere, è curato dal partner Exmè & Affini Onlus e punta a migliorare l’esperienza della visita, rendendola meno ansiogena e più positiva per i bambini. La realizzazione dell’intera iniziativa vede impegnate le cooperative sociali cagliaritane Elan (capofila), Exmè & Affini, Panta Rei Sardegna, Solidarietà Consorzio; Casa delle Stelle, la Casa circondariale “Ettore Scalas” di Uta, l’Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per la Sardegna (Uiepe), il Servizio Politiche Sociali Abitative e per La Salute del Comune di Cagliari, l’associazione Prohairesis e Aragorn S.r.l. Migranti. Nuovo decreto flussi, nuovo bluff: restano clic day e sfruttamento di Luciana Cimino Il Manifesto, 1 luglio 2025 Il Dpcm amplia le quote per i lavoratori stranieri ma è uguale al precedente che aveva funzionato solo per il 10% dei migranti. Lea propaganda del governo sulle migrazioni, vessillo identitario delle destre nazionaliste, oltre all’impianto securitario del progetto albanese, alla retorica degli scafisti da “inseguire nel globo terraqueo” (come da celebre frase di Giorgia Meloni) prevede anche la riorganizzazione degli ingressi per lavoro. Già all’indomani dell’insediamento dell’esecutivo, il ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti e le associazioni datoriali avevano fatto capire che le frasi da campagna elettorale (“Basta ingressi nel nostro paese”) erano inadeguate davanti alla presa d’atto che serve forza lavoro per mandare avanti la produzione italiana. Ed ecco che il governo arriva al suo secondo decreto flussi, approvato ieri dal consiglio dei Ministri, ampliando il numero dei lavoratori stranieri ammessi: 500 mila lavoratori stranieri nel triennio 2026/2028. Il primo decreto era stato un fallimento, tanto che nel corso della legislatura era stato più volte modificato ma senza intervenire sulle dinamiche distorsive della procedura, ancorata alla lotteria del clic day e a una burocratizzazione elevata. Con il risultato che la stragrande maggioranza delle persone che avevano fatto richiesta è rimasta senza contratto, senza regolarizzazione, senza diritti: nel 2024 solo il 7,8% dei lavoratori entrati in Italia attraverso il decreto flussi ha ottenuto sia il permesso di soggiorno che un impiego stabile: sono state 9.331 le domande accolte dalle prefetture, su un totale di 119.890 quote assegnate nel corso dell’anno, secondo l’analisi della campagna Ero straniero (promossa da A Buon Diritto Onlus, ActionAid, Asgi, Federazione Chiese Evangeliche Italiane, Oxfam, Arci, Cnca, Cild, Fondazione Angelo Abriani) elaborata sui dati del Viminale. “Il sistema non funziona e non solo per il mancato soddisfacimento delle esigenze del mondo produttivo, ma anche rispetto alla possibilità di garantire canali di ingresso accessibili e praticabili, con tutte le tutele previste alle persone straniere che intendono venire a lavorare in Italia - spiegano gli estensori della campagna - Dalla nostra analisi dei dati degli ultimi decreti flussi emerge chiaramente che solo una parte, esigua, delle persone entrate con i clic day degli ultimi anni ha oggi un contratto e un permesso di soggiorno. Il resto, molto probabilmente, vive nel nostro Paese nella totale precarietà e senza documenti, a rischio sfruttamento”. Il nuovo Dpcm stabilisce che gli ingressi dei lavoratori extracomunitari siano suddivisi in 164.850 quote per il 2026, 165.850 per il 2027 e 166.850 per il 2028. Per settore, invece, ci saranno 76.850 ingressi per ciascuno dei tre anni per il lavoro subordinato non stagionale e per il lavoro autonomo; per gli stagionali 88.000 per il 2026, 89.000 per il 2027 e 90.000 per il 2028, e infine per colf e badanti 13.600 per il 2026, 14.000 per il 2027 e 14.200 per il 2028. Inoltre, ci saranno “quote preferenziali per lavoratori ad alta qualifica e provenienti da Paesi partner che informano sui rischi dell’immigrazione irregolare”, rende noto l’esecutivo, e cioè con gli stessi paesi con cui sono stati fatti accordi per i rimpatri. “Il principio guida - sostengono dal Cdm - è calibrare i flussi sul fabbisogno reale del mercato e sulla capacità di accoglienza a livello locale, favorendo i canali regolari e scoraggiando quelli illeciti”. Spiegazione che, però, non ha convinto le formazioni di estrema destra, come Casapound, che hanno parlato di “invasione legalizzata”. Le cifre sono in linea con quanto richiesto dalle categorie degli edili e degli agricoltori, settori a maggioranza di manodopera straniera. Ma i meccanismi che creano la disparità tra domande pervenute e domande accolte non è stato modificato. Lo nota anche Coldiretti, organizzazione non di certo ostile al governo Meloni. “Uno dei problemi principali del meccanismo del decreto era legato al fatto che i lavoratori ricevevano spesso il nulla osta quando le attività di raccolta erano terminate - spiegano dall’organizzazione degli imprenditori agricoli - ora deve seguire il definitivo superamento del clic day permettendo alle imprese di presentare le richieste durante tutto l’anno, in base alle reali esigenze stagionali”. “Decidere di aumentare e programmare le quote d’ingresso - è il commento di Ero Straniero al manifesto - è un fatto positivo, ma non basta né al paese che ha bisogno di un sistema di ingressi per lavoro flessibile efficace, né a lavoratori e lavoratrici, se non riescono poi a stabilirsi nel nostro paese e lavorare con tutte le tutele”. Per i giuristi dell’associazione “serve con urgenza un permesso di soggiorno temporaneo per le decine di migliaia di persone entrate col decreto flussi ma che poi sono rimaste senza documenti perché non sono state assunte dall’azienda che le ha chiamate a lavorare. Solo questo può mettere fine alle irregolarità che questo stesso sistema crea”. Ma, insistono, questo “sistema non solo va scardinato, a partire dal clic day, ma va totalmente superato”. Perplessità anche nelle opposizioni: “Non basta aumentare le quote - ragiona Stefano Vaccari, capogruppo Pd in commissione ecomafie - serve una legge che consideri l’immigrazione una risorsa programmando flussi e rapporti bilaterali. Lavoratori formati, con paghe dignitose e tutele sanitarie sono le precondizioni per contrastare il lavoro irregolare e il caporalato”. “L’ennesimo decreto flussi inutile senza riforma della Bossi-Fini”, ha chiosato il segretario di Più Europa Riccardo Magi. Così i migranti restano merce per la propaganda di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 luglio 2025 Per la retorica del governo, il pugno di ferro contro i migranti che sbarcano dal mare e i decreti flussi record per farli arrivare in aereo sono parte di uno stesso piano. “Decidiamo noi chi entra in Italia”, ripete Giorgia Meloni. In quest’ottica il sostegno ai regimi che torturano i rifugiati, la persecuzione delle navi ong, i centri in Albania contrari alle norme sovraordinate sarebbero coerenti con l’apertura ad altri 500mila ingressi regolari di lavoratori stranieri. In realtà l’unico punto di incontro tra i due piani è l’interesse dell’esecutivo. Il primo piano serve a dire agli elettori della destra: stiamo facendo quello per cui ci avete votato, diamo seguito alle crociate anti-migranti che alimentavamo dai banchi dell’opposizione. Il secondo piano risponde invece ai bisogni della struttura economica e demografica del paese. Perché, chiusi i social network e spente le televisioni, restano gli imprenditori - specie quelli amici e finanziatori - che non trovano manodopera. La sola coerenza tra i due piani è l’obiettivo della maggioranza di sfruttare l’immigrazione sia come capitale politico, fomentando il razzismo e la percezione di insicurezza che si traducono in misure liberticide per stranieri e italiani, sia come manodopera da ricattare attraverso il nesso tra permanenza e lavoro. Il vero marchio distintivo della legge Bossi-Fini che nessuno vuole superare: perché quando un migrante viene licenziato rischia di essere deportato e questo lo spinge ad accettare ogni condizione di impiego, a ingoiare qualsiasi sopruso. Poco più di un anno fa, Banca d’Italia ha pubblicato un report secondo il quale nel 2040 potrebbero esserci 5,4 milioni di persone in età da lavoro in meno: il Pil calerebbe del 13%. I dati del rapporto annuale dei servizi segreti sono ancora più allarmanti. A palazzo Chigi conoscono bene questi numeri. Sanno che i circa 90mila sbarchi registrati mediamente ogni dodici mesi negli ultimi dieci anni hanno un impatto minimo sul problema. Anche perché molti stranieri poi continuano il viaggio verso altri paesi. Il governo sa anche che se si realizzasse davvero il milione di ingressi previsti dai decreti flussi meloniani (tra il triennio scorso e quello a venire) sarebbe comunque insufficiente a colmare il gap. E in più non si realizza perché in concreto gli ingressi reali sono una minima percentuale di quelli annunciati. Il fallimento dipende solo in parte da truffe e organizzazioni criminali, che pure sulle frontiere fanno business. La causa vera è che il decreto flussi è strutturalmente incapace di rispondere alle due esigenze che dovrebbero incrociarsi, le richieste di emigrare e le richieste di forza lavoro immigrata. L’incontro virtuale tra domanda e offerta di impiego è un’ipotesi teorica che negli anni è stata sempre smentita dalla pratica. Altre strade percorribili ci sarebbero: dall’istituto dello sponsor, che in Italia permetteva l’arrivo di cittadini stranieri attraverso un garante già presente sul territorio nazionale, a meccanismi di regolarizzazione permanente che renderebbero possibile per chi vive e lavora in questo paese di uscire dalla clandestinità. Perché le persone sono sempre le stesse e l’unica differenza è la possibilità o meno di ottenere un documento. Tanto che l’Italia concede le quote per i flussi solo ai paesi che accettano i rimpatri. Tanto che in agricoltura sono occupati senza documenti tantissimi cittadini stranieri che vengono dagli stessi paesi per cui poi si stabiliscono le quote di ingresso. Ben vengano allora maggiori arrivi regolari, magari reali. È però necessario rispondere anche ai bisogni di chi sbarca come può. In primo luogo attraverso un sistema di accoglienza sottratto al ministero degli Interni e inserito in quello del Lavoro e delle politiche sociali. Per dare un’opportunità concreta ai nuovi concittadini, con servizi di qualità, percorsi di inserimento sociale, istruzione qualificata. E poi con misure di welfare veramente universali. Si creerebbe così un indotto di lavoro dignitoso per tante figure professionali - insegnanti, formatori, psicologi, operatori - che in Italia sono costrette ad affrontare ogni giorno precarietà e disoccupazione. Sarebbe un ottimo modo per ridurre i fenomeni di marginalità e le tensioni tra migranti e residenti. Per dimostrare che l’immigrazione, tutta, è un’opportunità per tutti. Ma a quel punto su cosa costruirebbe il suo consenso la destra? Così hanno sepolto il diritto internazionale di Massimo Cacciari La Stampa, 1 luglio 2025 Lo stato delle cose è segnato dal crollo di ogni diritto internazionale, anche nelle sue versioni retoriche. La Terra è gravida - questo soltanto è certo. Su che cosa si accinga a partorire gli oracoli, al solito, hanno parole doppie, ambigue, enigmatiche. L’interprete ha il compito di discernere in esse il possibile dal semplicemente impossibile, in base all’analisi realistica dello stato delle cose. Poi, può sempre irrompere l’imprevedibile Fortuna a far fallire ciò che è atteso e a compiere l’inatteso. Tuttavia, osservare, vigilare, tracciare un nostro cammino dovrebbero aiutarci ad affrontarla evitando di risolvere le nostre contese attraverso il bellum nefandum. Lo stato delle cose è segnato dal crollo forse irreversibile di ogni diritto internazionale, anche nelle sue versioni retoriche. Quando si decise per l’invasione dell’Iraq, e si fece quella guerra prologo di altre violenze ancor più sciagurate, si pensò pure necessario un passaggio all’Onu, si mandò pure un generale in quella sede a metterci (e perderci) la faccia, si finse pure di sondare il parere degli alleati. Solo ipocrisie di cui sarebbe bene sbarazzarsi e basta? Non sono d’accordo; l’ipocrisia fa ancora parte di un’arte politica che non si riduce a pura esibizione di forza, è ancora un aspetto della diplomazia che cerca di scongiurare la guerra. Ora i grandi spazi imperiali sono uno di fronte all’altro e ognuno dichiara che intende muoversi senza altro obbiettivo che l’imposizione del proprio interesse. Terzietà non esiste sotto nessun riguardo; nessun organismo sovra-statuale svolge un’azione efficace di prevenzione; tantomeno esistono principi o valori che costituiscano un riferimento comune capaci almeno di contenere la volontà di potenza di ciascun, reale o preteso, impero. Il suo limite non è dettato da altro che dai mezzi di cui dispone e da quelli di cui pensa disponga l’avversario. La regola è una sola: puoi farlo? Fallo. Se questa è la situazione ed essa segna davvero un salto d’epoca, è del tutto ragionevole e legittimo che ogni spazio politico adotti proprie ed efficaci strategie di difesa. È infatti evidente che una realistica politica di disarmo potrebbe essere soltanto la conseguenza del rafforzamento di organismi e istituzioni internazionali dotate di effettivo potere con una conseguente rinuncia di sovranità da parte degli Stati. L’Europa deve perciò perseguire questo obbiettivo. Ma è assoluto dovere delle sue classi dirigenti perseguirlo con metodo e razionalità, chiarendone i motivi e i costi a tutti i cittadini. Etica della responsabilità, si diceva una volta. Dove sei finita? Para bellum se vuoi la pace? Credo che la prima condizione per prepararlo dovrebbe essere quella di avere un esercito e un ponte di comando comuni. Mi risulta che a Roma, visto che siamo d’accordo coi romani, ci fossero. Altrimenti non si prepara la guerra né si vuole la pace, ma semplicemente si aumentano spese e debiti per aiuti di Stato a settori industriali in gravissime difficoltà. Si dice che questo non è che un primo passo. E sui successivi che si vogliono compiere e sui tempi previsti per compierli c’è qualche generale romano che cortesemente ci informa? La domanda più interessante è tuttavia un’altra. Per tutto il dopoguerra la difesa europea è stata “delegata” alla Nato e cioè agli Stati Uniti. L’autonomia in questo campo che oggi si vorrebbe costruire come si integra con la situazione in atto? L’ipotesi strategica in base alla quale ci si muove è quella di un progressivo “scioglimento” della Nato o si tratta in buona sostanza di aumentare drasticamente il nostro contributo al suo funzionamento, mantenendone il comando? Ci fu un momento, per la verità brevissimo, quando si trattava di avere il via libera del tutto pacifico da parte dell’Urss per la riunificazione della Germania, in cui, anche da parte di qualche esponente della leadership americana, venne adombrata l’ipotesi di una graduale “dismissione” della Nato, in quanto sembrava esser venuto meno il Nemico. È evidente infatti che, anche a Roma, si preparava la guerra in base a chi si riteneva fosse il Nemico. Ci sono tante guerre quante sono i Nemici, reali o potenziali. E altrettante politiche di deterrenza. Dunque, quale Nemico rende oggi urgentemente necessario un drastico aumento di spese militari, se vogliamo la pace? Su quale Nemico dobbiamo esercitare la nostra deterrenza? Sui Galli, sui Parti, sulla regina di Palmira? In base alla risposta cambia ovviamente anche l’ordine delle spese necessarie e la compattezza dell’organizzazione militare da mettere in campo. Il Nemico è la Russia? Si ritiene seriamente che la Russia abbia oggi intenti egemonici sull’Unione europea e che la guerra in Ucraina ne sia espressione? Ma allora per esercitare una reale deterrenza su un Nemico di tali dimensioni a ben altre spese per il rafforzamento dei nostri apparati militari dobbiamo essere pronti! Allora è a una vera economia di guerra che dobbiamo prepararci. Con conseguente indebitamento e crollo di ogni residuo di Stato sociale. Poiché nulla è tanto odioso come la spudorata menzogna che si possano difendere redditi bassi, pensioni, scuole, sanità e perseguire insieme politiche di riarmo contro Nemici di dimensioni imperiali. Può darsi che Roma preparasse la guerra perché voleva la pace. Simone Weil si rovescia nel sepolcro a sentirlo, ma non importa. Quel che è certo è che Roma la preparava davvero, ne sapeva i costi e conosceva benissimo chi fossero i suoi Nemici. Le cose si fanno con metodo, gli obbiettivi si dichiarano all’opinione pubblica insieme ai sacrifici che essi comportano. Così si racconta funzionano le democrazie. È diventata una favola? Dalla Siria alle guerre di oggi. Quei congegni di morte che massacrano gli innocenti di Domenico Quirico La Stampa, 1 luglio 2025 Non c’è il conflitto “corretto”, l’unica regola è vincere con qualsiasi mezzo. Per capire bisogna raccontare. Era un ragazzo siriano, uno studente credo. Un ribelle dell’armata siriana libera. Erano i tempi in cui della guerra santa ancora non parlava nessuno. Non sapeva come era accaduto. Ricordava solo che in quella mattinata combattuta tra intenzioni di sole e sospetti di una strana nebbia stava camminando, il primo della fila, ecco il suo errore, su un sentiero: una zona contesa tra rivolta ed esercito del regime, zona di agguati e rappresaglie. Ma in Siria quale luogo non era così in quella fine del 2012, tempi di crudeltà e di rapina? Le avevano nascoste bene le mine i soldati di Assad, tiravano con i mortai sui lati del sentiero per farti camminare dritti verso la morte. Era roba russa: semplice rustica e micidiale. I compagni lo avevano depositato dentro una coperta, non c’erano barelle o ambulanze. Forse sarebbe arrivato un pick up per portarlo verso Aleppo. Forse no... Se non c’era battaglia. Ma forse era troppo tardi comunque. La sua coscia sinistra puntava verso il cielo e finiva in una massa carnosa di un colore tra il marrone e il rossiccio con i legamenti contorti e i muscoli gelatinosi allo scoperto, coaguli di sangue e lunghe schegge di ossa. Il ginocchio non c’era più e parte della gamba pendeva inerte insieme con lembi di pelle e di stoffa. Vicino alla barella improvvisata, nell’erba, c’era la scarpa di quel ragazzo, si vedeva sporgere la parte inferiore della gamba. Le sue palpebre erano spalancate in modo innaturale e lo sguardo era fisso nel vuoto. Non vedeva nulla, credo, aveva già visto troppo. La sua bocca si apriva mettendo allo scoperto i denti, come se stesse cercando di parlare o semplicemente di gridare. Uno spasimo di dolore incontrollabile alterava i muscoli della faccia. Il torace si alzava e si abbassava rapidamente. Un rivolo rosso e marrone si allargava sulla barella di fortuna creando colorazioni strane sulla tela verde. Perché ho raccontato tutto questo? Perché per vincere le guerre è utile ma non completamente necessario essere vivi. E le mine sono i funebri arredi della guerra, memorie dimenticate sul palcoscenico di uno spettacolo orribile che si credeva concluso. Non sono cimeli inerti. La guerra con questi oggetti poco costosi e permanenti annulla il tempo, realizza la sua fosca perfezione. Completa, dopo i combattenti come il mio ragazzo siriano, l’ecatombe anche degli uomini giusti, il massacro degli innocenti. Il diritto internazionale e umanitario, i crimini di guerra, la protezione dei civili, il rispetto dei prigionieri: stiamo smontando, pezzo per pezzo, conflitto dopo conflitto, le ipocrisie dei tempi in cui volevano farci credere che la guerra potesse avere regole diverse da quella unica ed universale, vincere con qualsiasi mezzo. Quella guerra corretta, rispettosa è rimasta come materia di esame per cattedre universitarie e storia impietrita per convegni sul nulla. È come un frutto che dentro si è disseccato e fa ancora bella figura solo perché ha una scorza di bel colore. Ora è la volta di registrare lo sgretolarsi di una delle ultime illusioni degli anni novanta, del tempo dei catechisti dell’ottimismo: il trattato di Ottawa che mise al bando le mine antiuomo. Lo firmarono 164 Stati, ma non la Russia e gli Stati Uniti. Se ne vietava l’uso la produzione e la vendita, c’era l’obbligo di distruggere i loro stock e sminare le aree che erano state arate con questi subdoli e duraturi strumenti di morte. Sembrava funzionasse. Tra il 1999 e il 2013 il numero annuale delle vittime, in larga parte civili, passò da 23 mila a tremilatrecento. Cinquanta milioni di mine furono distrutte. Una nuova linea rossa, invalicabile sembrava tracciata contro la barbarie. Si illusero perfino i signori del Nobel della pace che ne assegnarono uno collettivo. Poi proprio in Siria il ricorso alle mine antiuomo è ripreso e si è accelerato con la guerra in Ucraina. I russi le hanno usate per spezzare la velleitaria controffensiva di Kiev. Zelensky ha annunciato di ritirarsi dalla convenzione di Ottawa: servono per difenderci. I Paesi confinanti con Mosca, i Baltici e la Polonia che ha ripreso la produzione, stanno minando quella che ormai è la nuova cortina di ferro. Tutti vogliono avere le mani libere in questi tempi di isterismo morale, di ossessione bellicista. Resteranno dunque mille campi di tenebra accanto alla altra orribile immondizia della guerra. Il fogliame delle foreste e i campi di grano copriranno questi diabolici arnesi in agguato pronti a dare una morte invisibile e ancor più atroce perché colpirà persone che credevano di aver trovato il tempo della pace. Come in Afghanistan, in libia, in Iraq. Srebrenica e il torbido contesto dei massacri d’oggi di Adriano Sofri Il Foglio, 1 luglio 2025 Delle manifestazioni di Belgrado si coglie il peso inaudito del contesto in cui avvengono. Tra 10 giorni si celebrerà il trentennale del massacro di Srebrenica: allora bastò poco per capire che si era perpetrata la carneficina più terribile dopo la Shoah. Oggi le stragi vengono messe nel conto della “guerra”. La manifestazione, molto grande, di Belgrado, colpisce per la tenuta di un movimento che dura da otto mesi, e non ha fatto che estendere la sua capacità di persuasione dagli studenti e i giovani al resto della società. Ci sono delle novità. Una è la netta rivendicazione delle dimissioni del presidente Aleksandar Vucic? e delle elezioni politiche anticipate (la scadenza è tra due anni). Un’altra è lo scontro fra i manifestanti e le forze antisommossa. Ce n’è una terza, e più che una novità è il peso inaudito del contesto. Fra 10 giorni si celebrerà a Srebrenica il trentennale del massacro, sancito dalla giustizia internazionale, e da un anno anche dalle Nazioni Unite, come genocidio. Nel 2015, nel ventennale, Vu?i? commise l’imprudenza, e l’impudenza, di presenziare alla commemorazione, e dovette fuggire dallo sconfinato cimitero, protetto dalle guardie del corpo, alla ribellione di migliaia di donne e uomini che gli lanciarono sassi, bottiglie e tutto quello che riuscirono a raccattare. “Un tentato assassinio”, dissero i suoi. Quest’anno non si sognerà di venire. Anche perché appunto l’anno scorso l’Assemblea Generale dell’ONU ha votato una Risoluzione che dichiara l’11 luglio “Giorno internazionale della riflessione e della commemorazione del genocidio del 1995 a Srebrenica”. 84 Stati a favore, 19 contro (Russia, Cina, Ungheria...), 68 astenuti. (Al Consiglio di Sicurezza c’era il veto russo). Lui, Vu?i?, aveva fatto di tutto per impedire quel voto. Che ha un corollario morale, in vigore da quest’anno: la condanna di ogni negazione del genocidio di Srebrenica in quanto storicamente avvenuto, e di ogni intento di glorificare le persone condannate per crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e genocidio. Persone come quel generale Ratko Mladi? che allora si fece riprendere che carezzava la testa di un frugolo musulmano, e gli offriva le caramelle. E mentre brindava con gli ufficiali olandesi dell’Onu prima che se la squagliassero lasciando in balia della strage le migliaia di uomini, dai 12 anni in su, affidati alla loro tutela. Il suo socio e concorrente, Radovan Karadzi?, 80 anni, sconta l’ergastolo in una prigione speciale nell’Isola di Wight, scherzi della storia. Mladi?, 83, ha chiesto ancora di essere rilasciato perché è malato: richiesta passabile se non volesse dire la consegna alla Serbia accompagnata dalle celebrazioni del suo eroismo. Del contesto fa parte anche la stretta affinità fra la guerra serbista alla Bosnia musulmana del ‘92-’95, e quella russa all’Ucraina: la Grande Serbia e la Grande Russia. Hanno preferito non accorgersene in tanti, quelli che la guerra è “tornata in Europa” solo coi bombardamenti della Nato sulla Serbia del 1999 (!) e quelli dell’Ucraina che tanto abbaiò che si fece invadere. (Ieri Antonio Carioti, in una giusta ricostruzione per la newsletter del Corriere, ha però scritto che “almeno allora era raro trovare qualcuno pronto a sposare le ragioni dell’aggressore o, peggio ancora, a organizzare manifestazioni ‘per la pace’ in favore dei suoi interessi”. Magari! Le organizzavano le manifestazioni, anche dopo Srebrenica, anche dopo la strage del mercato - che oggi imputano ai bosgnacchi, un’autostrage - anche quando finalmente gli aerei decollarono da Aviano). Vu?i?, formato all’estremismo nazionalista - “100 musulmani per ogni serbo ucciso!”- è morbidamente passato all’arte di barcamenarsi fra la candidatura all’Unione Europea e la complicità alla Russia di Putin. Ma chiama ancora Srebrenica “il vaso di Pandora”: stessa scuola. Non si barcamena il boss politico della Republika Srpska, una delle tre entità in cui l’accordo di Dayton, che fece finire la guerra senza far cominciare la pace (e regalò il comune di Srebrenica ai serbisti del genocidio), Milorad Dodik, che da allora ha cavalcato la minaccia della secessione. Condannato in Bosnia per attentato alla Costituzione - un anno di galera, 6 di privazione dei diritti - Dodik è frequente visitatore del Cremlino, accolto da un altro ricercato dalla Corte Penale internazionale: condizione oggi estesa a una gran parte dei padroni del mondo, dall’alba al tramonto del sole. Le ambizioni slavofile del nazionalismo ex jugoslavo sono frenate dal desiderio di essere accolti dall’Europa e dai suoi finanziamenti, ma sono insperatamente rafforzate dalla tenerezza fra Usa di Trump e Federazione di Putin. La Moldavia, la Transnistria, l’Ungheria, e la stessa Romania delle elezioni cancellate sono vicinissime, e l’Ucraina in mezzo. Odessa, per l’esattezza. Trent’anni fa, bastò poco per capire che attorno a Srebrenica, per quattro giorni di sangue e sudore, si era perpetrato il massacro più terribile dopo la Shoah. Oggi, è l’aspetto del più largo e torbido contesto, le stragi in Ucraina vengono messe nel conto della “guerra” - in cui “sono tutti colpevoli”, in cui Bucha è “controversa” - e la carneficina a Gaza confisca il nome di genocidio, fottendosene della futura questione giuridica e sentendo inevitabilmente un’enormità che non sopporta se non la denominazione più forte. Forse sarà perciò meno sofferta la memoria di Srebrenica, o forse no, e una vicinanza fra gli 8 mila musulmani bosgnacchi trucidati a mano da più di duemila manovali di macelleria (poi, più facilmente ignorati, vennero i musulmani ceceni) e i musulmani palestinesi, farà gridare a Gaza anche nell’11 luglio di Poto?ari. E la lugubre archeologia di Srebrenica - periti forensi di 32 paesi del mondo, e una fatica ancora incompiuta che non serve solo a ridare i nomi, ma a certificare i modi bestiali degli assassinii - avrà a Gaza, se mai, un campo sterminato di applicazione. Ogni tristo capitolo della storia è diverso, e insieme ne richiama un altro. Srebrenica richiamò Auschwitz. Forse si richiamerà Srebrenica per Gaza, contro Auschwitz. È tutto umano, troppo. Colombia. Archiviazione senza giustizia per la morte di Mario Paciolla di Gianpaolo Contestabile e Simone Ferrari Il Manifesto, 1 luglio 2025 Sul caso del cooperante italiano il tribunale sposa la versione delle autorità colombiane. Per i genitori “decisione oltraggiosa”. Ieri, giovedì 30 giugno, il Tribunale di Roma si è espresso rispetto al caso giudiziario della morte di Mario Paciolla chiedendo l’archiviazione dell’inchiesta per omicidio contro ignoti. Secondo il giudice non ci sarebbero elementi concreti che porterebbero a mettere in discussione la versione delle autorità colombiane, secondo cui il cooperante italiano si sarebbe tolto la vita il 15 luglio 2020, morendo per asfissia nella sua casa a San Vicente del Caguán. L’archiviazione arriva dopo una lunga battaglia giudiziaria: si tratta infatti della seconda richiesta di chiusura del caso avanzata dalla procura. In entrambe le occasioni, le consulenti legali della famiglia Paciolla si sono opposte, e il giudice per le indagini preliminari ha sospeso l’iter per approfondire gli elementi emersi, pronunciandosi sempre contro l’apertura dell’inchiesta per omicidio. I genitori di Mario hanno appreso “con amarezza” la decisione del tribunale e hanno ancora una volta rivendicato la loro posizione: “Mario non si è tolto la vita ma è stato ucciso perché aveva fatto troppo bene il suo lavoro umanitario in un contesto difficilissimo e pericoloso in cui evidentemente non bisognava fidarsi di nessuno”. La famiglia Paciolla ha denunciato più volte la mancanza di trasparenza nelle indagini condotte in Colombia subito dopo la morte del figlio. Inoltre, hanno fin da subito rilevato incongruenze e scorrettezze nel comportamento della Missione delle Nazioni Unite per cui Mario prestava servizio quando è morto, e da cui sembrava volersi allontanare improvvisamente. Poche ore prima della morte, infatti, Mario aveva comprato un biglietto aereo per tornare in Italia: un viaggio che avrebbe dovuto iniziare all’indomani della notte in cui il suo corpo è stato ritrovato senza vita. Numerose inchieste giornalistiche e reportage hanno portato alla luce gli errori commessi durante le indagini e la manomissione della presunta scena del crimine da parte del responsabile della sicurezza della Missione di Verificazione dell’Onu, l’ex militare Christian Thompson. La stessa ricostruzione della morte autoinflitta stride con i risultati dell’autopsia svoltasi in Italia, secondo cui i segni sul collo sarebbero riconducibili a uno strangolamento e i tagli sui polsi potrebbero essere stati inflitti post mortem. Inoltre, la dinamica ipotizzata del presunto suicidio solleva diversi dubbi: Mario, dopo essersi tagliato i polsi, avrebbe compiuto l’ardua impresa di usare un lenzuolo per impiccarsi a una grata del soffitto posta a un’altezza che non avrebbe potuto raggiungere nemmeno con l’aiuto di una sedia, il tutto senza lasciare macchie di sangue. Sono queste le evidenze “frutto di anni di investigazioni e perizie” che citano Anna e Pino Paciolla. I due genitori, insieme agli amici di Mario e all’associazione che chiede “Verità e giustizia” sulla vicenda, non hanno mai smesso di percorrere scuole, piazze, festival, congressi e manifestazioni per mantenere accesi i riflettori sull’accaduto. Insieme a loro la Federazione Nazionale Stampa Italiana (Fnsi), dato che Mario Paciolla era anche un giornalista, l’associazione Libera contro le mafie, il gruppo Pd dei diritti umani, parlamentari di Verdi-Avs e M5S hanno espresso dolore e sconcerto. L’archiviazione non mette la parola fine a questa lotta, come la definiscono gli stessi genitori di Mario: “Sappiamo che questa è solo una tappa, per quanto ardua e oltraggiosa, del nostro percorso di verità e giustizia. Continueremo a lottare finché non otterremo una verità processuale e non sarà restituita dignità a nostro figlio”. Nella serata di ieri l’associazione Verità e Giustizia per Mario Paciolla ha organizzato un sit-in fuori dal tribunale di Roma alla cui testa c’erano i genitori del cooperante che sono pronti a impugnare il provvedimento: “Sappiamo però che non siamo e non resteremo mai soli. Grazie a tutte le persone che staranno al nostro fianco fino a quando la battaglia non sarà vinta”.