“Un atto di clemenza per i carcerati è un atto di giustizia, ogni ritardo si misura in vite perse” di Angela Stella L’Unità, 19 luglio 2025 Parla Glauco Giostra. “Altro che istigazione per delinquere!” Tuona il giurista, che nel 2017 fu a capo della commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario. La task force di Nordio? “Senza senso”. In questi ultimi giorni, il ministro Nordio si è reso protagonista di pensieri davvero poco encomiabili sulla situazione carceraria. In più ha messo su una task force che dovrebbe risolvere il sovraffollamento, ma che in realtà è solo uno specchietto per le allodole. Ne parliamo con il professor Glauco Giostra, già Coordinatore del Comitato Scientifico degli Stati Generali dell’Esecuzione penale ed ex Presidente del Gruppo di studio per elaborare una proposta di interventi in tema di ordinamento penitenziario e, in particolare, di misure alternative alla detenzione. Che ne pensa dell’iniziativa del ministro Nordio di costituire una task force con i Presidenti dei tribunali di sorveglianza? Prima di entrare nel merito delle soluzioni indicate, mi consenta di risponderle con una domanda. Si prefiguri questa situazione. Lei passeggiando ai margini della strada si accorge che sull’asfalto è riversa una persona, che urla per il dolore e perde copiosamente sangue, verosimilmente investita da una autovettura. Sopraggiunge finalmente il comandante della polizia stradale del posto che, invece di soccorrerla e di chiamare un’autoambulanza, si preoccupa di rassicurare le persone accorse promettendo che studierà l’opportunità di introdurre un più severo limite di velocità in quel tratto di strada, di posizionare telecamere e di predisporre un percorso alternativo per i pedoni. Cosa penserebbe? Intende dire che la situazione è di una tale gravità che si deve intervenire subito e con efficacia? Certo. La situazione è da tempo gravissima e indegna di un Paese civile. Da più di vent’anni il sovraffollamento carcerario costituisce l’insufficienza più grave nella pagella civile di questo nostro Paese, al punto da meritarci ustionanti condanne da parte della Corte di Strasburgo per violazione dell’art.3 (divieto di tortura) della Convenzione europea, perché infliggiamo alle persone ristrette nei nostri penitenziari trattamenti inumani e degradanti. L’attuale drammatica situazione non è certo responsabilità solo dell’attuale governo, anche se questo è riuscito nell’improbo compito di peggiorarla con ripetute scorrerie legislative, all’insegna di una cieca repressione penale che, nel giro di meno di tre anni, hanno aumentato la popolazione penitenziaria di quasi il 30%. Molti dei nostri penitenziari sono ormai ridotti a invivibili stabulari che cagionano disturbi mentali, numerosi gesti di autolesionismo, il più agghiacciante numero di suicidi nella non edificante storia penitenziaria del nostro Paese. A proposito di suicidi, come giudica la considerazione del ministro Nordio secondo cui “paradossalmente, il sovraffollamento è una forma di controllo” dato che “alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella”? Ineffabile. Se si tratta di una battuta, sarebbe di cattivo gusto tenuto conto della realtà cui si riferisce; altrimenti, sarebbe di cattivo gusto il commento che ne seguirebbe spontaneo. Resterebbe inspiegabile, poi, come sia allora possibile che il numero dei suicidi sia aumentato con l’aumentare del sovraffollamento. Oltretutto, a voler ammettere questa funzione “provvidenziale” del sovraffollamento, dovremmo aggiungere al già raccapricciante elenco dei suicidi quello di coloro che hanno maturato la straziante decisione di togliersi la vita, sebbene poi salvati in extremis. Torniamo alle linee di intervento che il governo intenderebbe perseguire... Mi sembra una giacca non abbottonata in corrispondenza delle asole. A normativa costante, infatti, delle due l’una: o ci sono oggettive difficoltà a perseguire le soluzioni indicate dal ministro (riguardanti stranieri, tossicodipendenti, imputati) o è la magistratura a non svolgere bene e sino in fondo l’attuazione della normativa vigente. In entrambi i casi, istituire la task force con i magistrati di sorveglianza per dare risposte entro settembre non ha senso. Se, come è molto più probabile, sussistono ostacoli normativi, carenze strutturali, gravi deficit di organico, è sulla rimozione di queste cause che si dovrebbe semmai intervenire; ma, come ha chiarito il ministro, non sono soluzioni che si improvvisano. La sensazione, affiorata sin dalla promessa mai realizzata di utilizzare come strutture da adibire a soluzioni di custodia attenuata edifici demaniali, confermata con l’inutile e talvolta controproducente DL carcere sicuro, è che si continui con la politica del “promettente differimento”. Mediante la quale tacitare ad un tempo sia le voci di quanti, anche nella maggioranza, non sono più disposti ad accettare l’immobilismo dinanzi al disperato grido di dolore che da tempo giunge dalle nostre carceri e sia quelle di chi solleciterebbe ulteriori inasprimenti della risposta sanzionatoria. Il problema, almeno per la coscienza di chi non ha optato per una cinica sordità, è che ogni ritardo in tal caso si misura in vite umane perdute o comunque distrutte. Quali dovrebbero essere le soluzioni in grado di risolvere o quanto meno drasticamente ridurre il sovraffollamento carcerario? Intanto, mi lasci dire, il primo rimedio sarebbe stato quello di non produrlo, il sovraffollamento, come invece è accaduto con una politica che sa soltanto digrignare i denti della punizione carceraria per ostentare demagogicamente che si intende contrastare ogni illegalità. Emblematica la popolazione penitenziaria minorile, che era l’unica a non presentare nessun problema di eccedenza rispetto alle capienze regolamentari ed ora è già oltre il limite consentito. Anzitutto andrebbe elaborata una soluzione sulla falsariga di quanto previsto dalla proposta Giachetti: aumentare lo sconto di pena attualmente previsto per i condannati meritevoli, tenendo presente che non si tratterebbe di una regalia, di una prova di debolezza, come pure è stato purtroppo affermato, ma di un adeguamento di giustizia, poiché la riduzione di pena vigente è stata “pensata” dal legislatore per i condannati che se ne dimostrassero meritevoli in normali contesti di restrizione, e non - come avviene negli ultimi decenni - in una realtà che li sottopone ad un trattamento contrario al senso di umanità, vietato dalla nostra Costituzione (art.27, comma 3). Essendo poi questa soluzione probabilmente insufficiente, si dovrebbe emanare un indulto attentamente circoscritto quanto a tipologie di reato, che tenda ad evitare gli ultimi due anni di pena carceraria. Ma non varrebbe la obiezione del ministro Nordio, secondo cui “da un punto di vista logico” questa sarebbe “un’istigazione a delinquere”? I provvedimenti clemenziali hanno in genere diminuito - come studi indipendenti hanno attestato - la propensione a delinquere di coloro che ne hanno beneficiato, anche perché, ove recidivassero, dovrebbero scontare anche la parte di pena condonata. Non mi sembra, poi, che le preoccupazioni del nostro ministro abbiano turbato la Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha confermato, quindici anni fa nel caso Brown v. Plata, l’ordine al Governatore della California di liberare circa 36000 detenuti (sic!) per le condizioni degradanti e disumane in cui il sovraffollamento costringeva i ristretti nei penitenziari di quello Stato. Come pure, stranamente insensibili a questo caveat del ministro, si mostrano l’ordinamento tedesco che ammette la sospensione dell’esecuzione della pena se deve avvenire in condizioni contrarie al senso di umanità e la nostra stessa Corte costituzionale, che in una sentenza del 2013 ha precisato che sarebbe bene che una soluzione analoga andasse disciplinata dal legislatore, ma ha ammonito che “non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema” delle condizioni contrarie al senso di umanità determinate dal sovraffollamento. Mobilitazione dei Garanti territoriali dei diritti dei detenuti il 30 luglio in tutta Italia Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2025 Il Portavoce, Ciambriello: “Bisogna fermare la strage di vite e di diritti delle carceri italiane”. “Da decenni i numeri dei suicidi, del sovraffollamento, delle pessime condizioni igienico-sanitarie, dei detenuti chiusi per venti ore al giorno nelle celle, delle poche misure alternative al carcere, dell’eccessivo uso del carcere preventivo ci inducono a pensare che è difficile parlare di un carcere nella Costituzione, perché semplicemente non esiste nella realtà. Non esiste oggi un carcere che incarna i principi costituzionali.”. Così Samuele Ciambriello, Garante campano delle persone private della libertà personale e Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti territoriali, nel comunicare che la Conferenza ha indetto per il 30 luglio una manifestazione per sensibilizzare l’opinione pubblica e per sollecitare la politica nel suo complesso, e non soltanto il Governo, a mettere in campo soluzioni immediate e concrete alle accorate parole inequivocabili del presidente della Repubblica sul tema delle carceri. A un mese esatto dall’appello del Presidente della Repubblica durante l’incontro con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Portavoce dei Garanti territoriali ricorda che attualmente sui 62.000 detenuti in Italia, 7913 hanno un residuo pena inferiore ad un anno e non hanno reati ostativi. Ancora, il Portavoce ricorda che ci sono 1348 detenuti che hanno una pena inflitta a meno di un anno. I 100 garanti territoriali, regionali, provinciali e comunali ricordano altresì che in tutta Italia per i 46.000 detenuti definitivi ci sono appena 250 magistrati nei 29 Tribunali di Sorveglianza e nei 58 Uffici di Sorveglianza, sono sottorganico anche rispetto al personale di supporto. Il Portavoce Samuele Ciambriello così conclude: “Appaiono surreali e bizzarre le proposte e le considerazioni del Ministro della Giustizia su come affrontare il sovraffollamento, la mancanza di speranza nelle carceri italiane e soprattutto la mancanza di reinserimento sociale dei detenuti. È necessario un provvedimento urgente finalizzato alla riduzione del sovraffollamento in nome della dignità, come ad esempio è stato fatto dal Governo Berlusconi nel 2003 e nel 2010. Bisogna che la politica intervenga non subito, ma ORA! Da subito approvare la proposta Giacchetti inerente alla liberazione anticipata sociale che appare per molti versi in linea con le attuali emergenze seppur di contenuto deflattivo. Il 30 luglio invitiamo deputati, senatori, europarlamentari e consiglieri regionali a entrare con Noi negli istituti penitenziari adulti e minorili”. La Cedu contro il processo di disumanizzazione della pena di Osservatorio Carcere e Osservatorio Doppio Binario e Giusto Processo dell’UCPI camerepenali.it, 19 luglio 2025 La tenuta costituzionale del regime differenziato del 41 bis resta ancorata alla sua temporaneità e alla stretta correlazione a comprovate esigenze di sicurezza. La Cedu ha messo un freno all’automatica privazione dei diritti fondamentali della persona umana, ancorché detenuta. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha di nuovo riscontrato una violazione dei diritti di un detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. pen., recentemente agli onori delle cronache per la assurda vicenda che ha interessato diversi difensori, destinatari di segnalazione ai rispettivi Consigli dell’Ordine di appartenenza per aver salutato troppo affettuosamente i loro assistiti al termine di un colloquio. La “specialità” del regime detentivo, evidentemente, passa anche per la censura di rapporti umani considerati addirittura “criminalmente solidali”. Nei mesi scorsi la Corte, nella causa Morabito c. Italia, aveva già condannato il nostro Paese per violazione dell’art. 3 Convenzione EDU per aver reiterato il citato regime speciale nonostante il detenuto, novantenne, fosse affetto da un decadimento cognitivo severo (con diagnosi del morbo di Alzheimer), circostanza che gli impediva di intrattenere qualsivoglia comunicazione criminogena con l’esterno. Con la recente sentenza pubblicata il 10 luglio 2025, la Corte ha condannato nuovamente l’Italia in relazione alla procedura promossa da Gullotti c. Italia (proc. n. 64753/14), in questo caso per la violazione dell’art. 8 Convenzione EDU. La CEDU, all’articolo 8, garantisce - come, del resto, la nostra Carta fondamentale - il diritto al rispetto della vita privata e della corrispondenza, consentendo limitazioni solo se “previste dalla legge” e “necessarie in una società democratica” a tutela di specifici interessi pubblici. Proprio su questi requisiti la Corte EDU incentra la propria analisi: sottolinea che ogni restrizione deve essere non solo formalmente prevista, ma anche motivata in modo individualizzato, proporzionata e soggetta a un controllo giurisdizionale effettivo. La sola adesione a motivazioni generiche, come spesso avviene nei provvedimenti relativi al regime 41-bis Ord. Pen. in Italia, non è sufficiente a giustificare una restrizione così incisiva del diritto alla corrispondenza. Nel caso di specie, il ricorrente era destinatario di un doppio regime restrittivo, il primo della censura della corrispondenza derivante dall’art. 41-bis Ord. Pen., l’altro scaturito da alcuni provvedimenti adottati dal Magistro di Sorveglianza ai sensi dell’art. 18-ter Ord. Pen., coi quali veniva limitata la possibilità di intrattenere comunicazioni epistolari coi soli familiari ammessi ai colloqui. I provvedimenti restrittivi a carico del ricorrente erano stati adottati, sostanzialmente, per relationem con un decreto di rinnovo del regime speciale di cui all’art. 41-bis Ord. Pen. La censura che è stata mossa dalla Corte EDU (che richiama anche la propria giurisprudenza maturata in riferimento alla vecchia disciplina dell’art. 18 Ord. Pen., poi novellato nel 2004 proprio a seguito di alcune condanne dell’Italia) riguarda l’assenza di una motivazione adeguata a fondamento del provvedimento adottato dal Magistrato di Sorveglianza. Se è vero che le restrizioni al diritto di corrispondenza - osserva la Corte - sono contemplabili a fronte di particolari esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, è altrettanto vero che, quando tali misure sono adottate, “è essenziale che vengano fornite le ragioni poste a fondamento dell’interferenza [col citato diritto], in modo che il ricorrente e il proprio legale possano essere sicuri che la legge sia stata applicata correttamente nel proprio caso e che la decisione adottata non sia irragionevole o arbitraria” (§26). Nell’analizzare la disciplina dell’art. 18-ter Ord. Pen., la Corte osserva come essa preveda delle condizioni ben precise per poter adottare provvedimenti restrittivi alla corrispondenza epistolare: esigenze attinenti alle indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto. Tali condizioni (contemplate anche dall’art. 8, co. 2 Conv. EDU) - stando alla Corte - non possono essere in alcun modo presunte, devono essere “rilevanti e sufficienti” e “proporzionate allo scopo perseguito” (§33) e, per tale motivo, puntualmente motivate. Quest’ultimo aspetto è stato oggetto della censura mossa dalla Corte, poiché il decreto adottato dall’Ufficio di Sorveglianza che reiterava la limitazione della corrispondenza consentendola solo con i familiari aventi diritto al colloquio, pur facendo riferimento generico al “ruolo apicale assunto dal ricorrente all’interno dell’organizzazione criminale”, non ha fornito alcuna precisa motivazione in ordine alle ragioni poste a fondamento della speciale, ulteriore restrizione. Il Magistrato di Sorveglianza, infatti, si era limitato a richiamare la “documentazione relativa al ricorrente”, al quale era stato rinnovato il regime di cui all’art. 41-bis Ord. Pen. (il cui decreto peraltro non è stato rinvenuto nel fascicolo), senza maturare alcuna valutazione autonoma e “individualizzata” che fornisse la “spiegazione delle ragioni per le quali il controllo generale della corrispondenza del detenuto, senza limitazioni relative ai mittenti e ai destinatari, fosse reputata insufficiente” (§39), privando, quindi, la Corte della possibilità di valutare i documenti e gli atti posti “in concreto” a fondamento della decisione (§40). In un successivo passaggio la Corte pone anche un problema di “attualità” della valutazione della pericolosità del detenuto, evidenziando come il Governo italiano non abbia fornito alcun chiarimento sul perché le intercettazioni poste a fondamento del giudizio di pericolosità - risalenti a dieci anni prima! - fossero ancora considerate rilevanti (§40). La Corte, dunque, alla luce di tali osservazioni, ha ritenuto che vi fosse un difetto di motivazione nei provvedimenti dell’Ufficio di Sorveglianza (§43) e, all’unanimità, ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 8 Conv. EDU. La pronuncia della Corte, al di là del caso specifico, è di particolare interesse poiché pone dei limiti alla prassi di semplificazione delle motivazioni e del ricorso alle presunzioni di pericolosità, invalse soprattutto in materia di “doppio binario”, ancor più se si tratta di detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis Ord. Pen. (si pensi agli automatismi dei rinnovi del regime differenziato). È doveroso, invece - ammonisce la Corte - ricorrere ad una valutazione puntuale e aggiornata della posizione individuale del detenuto, in assenza del quale si rischia di svuotare di significato il controllo giurisdizionale, riducendolo a un atto meramente formale e non sostanziale. Tali argomentazioni rimandano ad alcuni pronunciamenti della Consulta che hanno nel tempo, da ultimo con sentenza n. 30 del 2025 in materia di ore d’aria, affermato con forza il principio che le compressioni della libertà dell’individuo, anche nel regime privativo, siano legittime soltanto quando si rivelino strettamente funzionali alla tutela della sicurezza collettiva. Ove non corrispondano in alcun modo alla funzione istituzionale del regime differenziato, e determinino, quindi, un improprio “surplus di punizione” (sentenza n. 18 del 2022), le limitazioni nell’accesso ai diritti soggettivi ulteriori e più pressanti di quelle patite dai detenuti in regime ordinario violano il principio di proporzionalità e di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., insieme al finalismo rieducativo della pena di cui al terzo comma dell’art. 27 Cost. Piccole crepe che sembrano segnare la consapevolezza che si fa strada nelle Giurisdizioni superiori di un istituto, il regime di cui all’art. 41 bis, sempre più distante dalla sua funzione originaria e configurato, anche attraverso prescrizioni imposte da regolamenti interni e circolari ministeriali, come “carcere duro”, più privativo e punitivo e sottratto al volto costituzionale di ogni pena. Il 41 bis è, infatti, allo stato, diuturnamente prorogato, radicalmente mancante di una offerta trattamentale e perfino della predisposizione astratta di un progetto rieducativo. La tenuta costituzionale del regime differenziato resta, infatti, ancorata alla sua temporaneità e alla sua stretta correlazione ad attuali e comprovate esigenze di sicurezza. L’ininterrotta soggezione alle restrizioni determinate dalla reclusione “speciale”, infatti, si traduce nella negazione dell’obiettivo costituzionale e convenzionale di ogni pena al reinserimento del ristretto e alla speranza. Anche in tale prospettiva l’Unione ha trasmesso, quale Amicus curiae, il proprio atto di intervento nel ricorso pendente avanti alla Corte di Strasburgo, Sez. I, “Trovato + 3 c. Italia”, censurando la pulsione normativa, esasperata negli ultimi anni, ad azzerare, per le persone in 41 bis, gli spazi di accesso al trattamento individualizzante e alle attese di riabilitazione. La salute e il benessere dietro le sbarre: vivere tra diritti negati e future prospettive di Norina Di Blasio La Repubblica, 19 luglio 2025 La salute nei luoghi di pena è un tema spesso trascurato, quasi un tabù. “Entrare in un carcere per vedere con i propri occhi come vivono i detenuti è un’esperienza che andrebbe resa obbligatoria nella scuola dell’obbligo”. Lo afferma Antonella Camposeragna, del Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1. Prima di entrare in stato di reclusione sei costretto a lasciare tutto fuori: tutti gli effetti personali, a partire dal telefono; entrare di per sé significa essere esclusi dal mondo. Poi c’è il rumore dei blindati alti quattro metri, di acciaio, che si chiudono alle spalle, a confermarti che sei in un luogo ‘a parte’. Eppure, il carcere è un mondo osmotico: persone entrano ed escono, operatori entrano ed escono. La salute di chi è in cella è quasi un tabù. La salute in carcere è un tema spesso trascurato, quasi un tabù. L’idea diffusa è che chi sconta una pena sia in un mondo a parte, scollegato dalla nostra società. Eppure la realtà è ben diversa: il carcere è parte integrante del nostro tessuto sociale e la maggior parte delle persone detenute farà ritorno nel mondo esterno. Non considerare la salute e il benessere di questa popolazione significa ignorare una questione di salute pubblica che ci riguarda tutti. Gli screening sanitari per chi varca la soglia. Il carcere è per molti il punto di primo contatto con il Servizio sanitario nazionale. Al momento dell’ingresso in struttura, i detenuti sono sottoposti a una prima visita, e spesso le carceri sono sede di screening sanitari, come quelli per l’epatite. Tuttavia, l’invisibilità di questo mondo, anche da un punto di vista epidemiologico, sembra essere un ostacolo a una programmazione sanitaria efficace. Nonostante la centralità dello Stato nella cura dei detenuti (sono persone la cui salute dipende interamente dall’istituzione) l’attenzione è scarsa e i dati insufficienti, o forse solo poco considerati. Una popolazione invisibile. Quella carceraria è una popolazione invisibile, con tanti dati ma frammentari a descriverla. “Ci domandavamo perché il più grande e importante consesso di epidemiologi in Italia non affrontasse un tema così evidente e prevalente come quello dello stato di salute dei detenuti”, sottolinea Edoardo Corsi Decenti, del Centro nazionale per la prevenzione delle malattie e la promozione della salute dell’Istituto superiore di sanità, in occasione dell’ultimo convegno dell’Associazione italiana di epidemiologia. Le criticità maggiori. Una delle criticità maggiori è l’assenza di un sistema strutturato di rilevazione dello stato di salute e benessere della popolazione carceraria. “Una carenza che si è aggravata dopo il passaggio delle competenze sulla salute dei detenuti dal Ministero della Giustizia a quello della Salute nel 2008”, come spiega Camposeragna. “Sebbene questo passaggio fosse stato accolto con speranza per equiparare le opportunità di cura dei detenuti a quelle dei cittadini liberi, in realtà ha portato a un minore flusso di dati e alla mancata attuazione di osservatori regionali e di un sistema informativo nazionale”. L’urgenza della salute mentale. Tra i temi più urgenti emerge quello della salute mentale, strettamente correlata al sovraffollamento e al preoccupante fenomeno dei suicidi in carcere. Al 25 maggio scorso, sono stati contati 33 suicidi negli istituti penitenziari italiani. Dati recenti rivelano che l’Italia detiene il record di suicidi in cella, a cui si aggiunge la sovra-prescrizione di psicofarmaci, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica grave, come evidenziato da uno studio condotto nel Lazio che Camposeragna ci racconta nell’intervista. La genitorialità negata e bambini dietro le sbarre. È un paradosso inaccettabile. La condizione minorile e la genitorialità in carcere sono un altro tema. “Paolo ha 4 anni. […] ‘Vorrei invitare i miei amici a giocare da me, ma non posso perché la mia mamma ha sempre mal di testa’. […] Lo so che è una bugia, ma ne dico solo una, solo questa”: è una delle storie raccolte da Gemma Tuccillo, già capo del Dipartimento per la giustizia minorile, nel libro Senza colpe. Bambini in carcere, di Paolo Siani. Parole che restituiscono tutta la complessità emotiva e simbolica della condizione minorile in carcere, fatta di menzogne protettive, solitudini non dette e infanzie consumate troppo in fretta. I bambini dietro le sbarre. Secondo il ‘Primo rapporto sulle donne detenute in Italia’, curato dall’associazione Antigone, al 31 gennaio 2023 nelle carceri italiane erano presenti 17 bambini insieme a 15 madri detenute, un dato che collocava l’Italia al secondo posto in Europa dopo la Polonia per numero di minori reclusi con un genitore. Dati più recenti del Ministero della Giustizia ci dicono che al 30 aprile 2025 i bambini dietro le sbarre delle carceri italiane sono 11. Bambini molto piccoli, spesso sotto i tre anni, che vivono in un ambiente inadatto alla loro crescita. Sono poi circa 30.000 i genitori detenuti con figli a carico che vivono il dramma della separazione. Il bisogno di saluto dei più piccoli. Il bisogno di salute, spesso inespresso, di questi minori e l’interruzione del legame genitoriale sono fattori che possono avere ripercussioni significative sullo sviluppo e sulla salute futura dei bambini. La mancanza di dati strutturati sulla salute e sull’evoluzione psicologica è un’ulteriore conferma dell’invisibilità di queste problematiche per chi è in carcere. Una lacuna epidemiologica grave e un segnale dell’invisibilità sociale di questa fascia estremamente vulnerabile. Dalla punizione alla riabilitazione. È un’occasione mancata. La Costituzione italiana assegna al carcere una funzione riabilitativa, non meramente punitiva. Tuttavia, la tendenza attuale è quella di investire più nell’edilizia penitenziaria che nel miglioramento dell’offerta riabilitativa. Eppure diversi studi dimostrano che offrire percorsi formativi e opportunità lavorative in carcere riduce significativamente la recidiva. Un maggiore dialogo e una maggiore trasparenza sui dati potrebbero portare a una diminuzione della popolazione detenuta e a un miglioramento complessivo della salute pubblica. Carcere! Carcerare! Ma l’appetito per la reclusione non risolve nulla di Bernard Bolze L’Unità, 19 luglio 2025 La festa è finita! Gli Incontri estivi sul confinamento, dal nome Concertina*, hanno appena smontato, a Dieulefit, nella provincia francese della Drôme, il loro tendone. Si va avanti verso il 2026 e alla sesta edizione. “Appetiti” è stato il tema di questa quinta edizione, così pensata: “Negli Appetiti c’è il desiderio. L’esperienza della privazione della libertà è infinitamente più complessa di come ci viene rappresentata. I luoghi di confinamento celano le più grandi frustrazioni e gli appetiti più sfrenati. La prigionia li acuisce, privando di tutto. L’alterazione dei sensi può anche portare alla perdita dell’appetito. Orco o passero, a ciascuno il suo (...)”. Come dovremmo considerare un evento dalla connotazione poco alettante - la privazione della libertà - quando la maggior parte dei media, compresi i più progressisti, guardano dall’altra parte? In tre parole: la gioia di stare insieme, l’intelligenza collettiva, la speranza della diffusione. I soggetti più cupi invitano a evocarli nell’amicizia e nella solidarietà e quindi nella gioia. Questo è il paradosso vertiginoso che dobbiamo affrontare. Pinar Selek, Presidente dell’edizione 2025, ha dato la tonalità degli Incontri in un discorso di apertura potente e caloroso che il suo passaggio nelle prigioni turche e la tortura associata hanno rafforzato di tutto il loro peso. Sociologa e autrice, rifugiata in Francia, è ancora perseguita dal governo del suo paese nonostante le ripetute assoluzioni. Ecco cosa ci dice nel preambolo: “Non è facile agire d’urgenza prendendosi il tempo di pensare. Eppure questi due movimenti devono coesistere, articolarsi, nutrirsi. Ecco perché sono così commossa ad aprire questa quinta edizione di Concertina, Incontri estivi intorno al confinamento, che si iscrivono nelle lunghe lotte contro le logiche del confinamento, incrociando resistenze militanti, creazione artistica e riflessione sui diritti delle persone private della libertà. A partire da questi luoghi di reclusione, ci prenderemo il tempo per pensare insieme, per cogliere meglio i dispositivi di potere che ci circondano, ma anc he per innaffiare, nutrire, abbellire il mondo poetico che stiamo costruendo da tanto tempo”. L’intelligenza collettiva risiede nell’accettazione della diversità dei punti di vista (accademici, militanti, o quelli degli “utenti”), del loro confronto a volte ruvido e della presenza di personale dell’amministrazione penitenziaria o della salute che se ne prendono il rischio. I cinquanta eventi programmati sono stati altrettante occasioni per ascoltare: Mohamedou Ould Slahi, ex detenuto di Guantanamo e quattordici anni di detenzione e tortura per nulla; Antoine Chao, con Alla partenza, c’è Guernica, una storia familiare e radiofonica della resistenza al fascismo; Ramla Dahmani, la sorella di un avvocato tunisino rinchiusa a causa del suo lavoro a favore dei migranti subsahariani a Tunisi; i membri del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa Alan Mitchel, Kristina Pardalos ed Elisabetta Zamparutti, intervenuta anche come esponente di Nessuno tocchi Caino. “Appetiti”, uno splendido titolo inciso come una medaglia, con il suo dritto e il suo rovescio. Da un lato c’è la carcerazione come sollecitazione del desiderio carnivoro di politici che la propongono come LA soluzione. Un modo crudele per camuffare il rifiuto di condividere la ricchezza, il tradimento dei valori dell’accoglienza, minare la giustizia. Inizia sempre imponendosi sui prigionieri di diritto comune e finisce col reprimere gli spiriti liberi. L’appetito per la reclusione favorisce il manganello che colpisce, il controllo degli individui, il passaggio dal controllo sui loro corpi al controllo sulle loro menti. Da un altro lato, c’è l’incontro di persone che hanno trascorso molto tempo in prigione o in un reparto psichiatrico e che frequentano o si occupano di carcere. Sono coloro che manifestano fame di resilienza, filosofia, fraternità, apprendimento, buon cibo e ci aiutano a comprendere il loro percorso. La differenza risiede proprio in questo punto, così ben definito da Stig Dagerman, sensibile scrittore e anarchico svedese: “Il mio potere è formidabile finché riesco a opporre la forza delle mie parole a quella del mondo, perché chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà”. Restano da immaginare le prospettive, quelle dello svolgimento degli Incontri, che non hanno interesse alla massificazione nella loro culla d’origine ma la cui espansione deve essere pensata verso altre città e altri paesi. Perché non un giorno a Ginevra, Bruxelles, Roma? Coloro che non hanno il coraggio di sognare non hanno la forza di combattere! *La concertina è uno strumento musicale a fiato, simile alla fisarmonica. Ha dato il suo nome al filo spinato che arrotolato in grandi bobine che possono espandersi come lo strumento. Questo filo è diventato il simbolo del confinamento. “Chi sbaglia paghi, ma il carcere non sia una tortura di Stato” di Giuseppe Bonaccorsi Il Dubbio, 19 luglio 2025 “Se nulla fa la società, che non urla per denunciare quello che sta succedendo nelle nostre prigioni e per difendere la dignità dei detenuti, nulla fa la politica che è lo specchio della società ed è alla perenne ricerca del consenso”. “Spesso sento dire: “Chi ha sbagliato deve pagare”. Ed è vero. Ma la pena in carcere, per essere giusta, deve contenere in sé un seme di speranza. Non può ridursi a un parcheggio di carne umana, non può diventare una condanna all’asfissia, alla solitudine, alla follia”. Lo dice il segretario della nuova Dc, ex presidente della Regione Sicilia e soprattutto ex carcerato Totò Cuffaro. All’annuncio del ministro Nordio che si dice pronto, per combattere il sovraffollamento nelle celle, a far uscire dalle carceri 10 mila detenuti con pene al di sotto dei due anni, Cuffaro si sofferma sui dati dell’emergenza e ricorda che la civiltà di un Paese “si misura nelle nostre carceri”. Poi in un accenno sui suoi trascorsi da detenuto, spiega che “il carcere non è il luogo della vendetta, ma è e dovrebbe essere il luogo di recupero” e di rispetto, ma non solo per i carcerati, anche per migliaia di guardie penitenziarie che vivono lo stesso “inferno”. Lo abbiamo sentito. Segretario Cuffaro, poco tempo fa il Tribunale del riesame di Catania ha risarcito con 11mila euro, per violazione della Carta dei Diritti dell’uomo, un ex detenuto costretto a vivere per mesi in una cella sovraffollata, con soli 3 mq a disposizione. Lei in vista dell’annunciato aumento delle temperature di questi giorni già roventi, ha detto che ‘con questo caldo torrido il carcere si trasforma in una agonia..., il tutto tra l’indifferenza della società… Si parte dalla sentenza Torregiani, del 2013, emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che condannò lo Stato Italia per lo stato di sovraffollamento delle nostre carceri. Sostanzialmente la parte più consistente di quella sentenza si riferisce a tutti quei detenuti che non hanno a disposizione i metri quadrati idonei per la detenzione disposti dalla Convenzione europea. Se oggi un imprenditore italiano volesse avviare un allevamento di maiali con fondi Ue, l” Europa gli chiederebbe per ogni maiale, di prevedere almeno 7 mq a disposizione dell’animale. Io lo dico per esperienza personale. Quando ero carcerato ci siamo ritrovati in 4, 5 e talvolta 6, con a disposizione solo una cella di 12 mq. Allora lo Stato emanò una legge in cui disse che bisognava prevedere per i detenuti ai quali era stata riconosciuta una detenzione non idonea uno sconto di pena. Quella buona legge non è stata mai applicata o quasi. È stata una presa per i fondelli. Sono stati pochissimi i Tribunali del Riesame ad osservare la norma. Quindi va dato atto al tribunale di Catania di aver avuto il coraggio di applicarla”. Lei recentemente ha detto che ‘quando un paese accetta che in una cella pensata per una sola persona ne vivano tre, quando si ignora il grido silenzioso che sale da quelle mura, quella società ha smarrito la propria umanità’... La più grande disumanità del nostro tempo è la mancanza di umanità che attraversa sia lo Stato che i cittadini. E se nulla fa la società che non urla per dire quello che sta succedendo nelle carceri, nulla fa la politica che è lo specchio della società ed è alla ricerca del consenso. Bisogna che l’opinione pubblica maturi l’idea che chi va in carcere per scontare la sua pena deve avere rispettata la sua dignità e bisogna che maturi l’idea che le carceri non sono luogo di pena, ma di rieducazione e di risocializzazione. Recentemente anche il presidente Mattarella s’è soffermato sull’emergenza carceri ed è tornato ad invocare un intervento urgente per risolvere il drammatico problema delle condizioni di vita dei detenuti e dei suicidi “causati anche da un sovraffollamento insostenibile’. Il presidente ha aggiunto che ‘i luoghi di detenzione non devono trasformarsi in palestra per nuovi reati’ e che ‘ ogni detenuto recuperato equivale a un vantaggio in sicurezza per la collettività’... Ma questo lo diciamo tutti anche perché lo sancisce la nostra Costituzione che sostanzialmente dice che in Italia la pena deve essere rieducativa e risocializzante, non punitiva. Purtroppo questi articoli della costituzione sono solo una bella scrittura, ma nessuno li rispetta. Lei ha vissuto per anni in prigione per un reato pesante, quello di concorso esterno in associazione mafiosa. Che idea si è fatto di questo regime carcerario che spinge molti detenuti a suicidarsi? Io ho trascorso 1.768 giorni di calvario. Non ho avuto un giorno di sconto, né i servizi sociali che mi spettavano. Su di me lo Stato ha voluto dare una punizione esemplare. Io lo capisco, non vivo nell’Iperuranio. Ho accettato la detenzione per intero. E ho vissuto dentro una cella con 4 persone, col caldo torrido dell’estate e con le zanzare che ti uccidevano e col freddo terribile d’inverno che non potevi riscaldarti perché non avevi coperte a sufficienza. Inoltre avevo un letto duro e terribile. Avevamo una latrina che ci serviva anche da cucina, dove cucinavamo perché se non avessimo avuto quel poco di pasta da cucinarci rischiavamo di non avere da mangiare. In carcere si dimagrisce perché c’è poco da mangiare. Lei sa quanto destina il carcere per i pasti di ogni detenuto mattina, pranzo e cena? Poco più di 3 euro a persona. Un detenuto con un passato da ministro ed ex sindaco di Roma come Gianni Alemanno dal carcere ha scritto una lettera ai presidenti di Camera e Senato, La Russa e Fontana, per denunciare l’inferno delle “celle forno” con 45 gradi… “mentre la politica dorme con l’aria condizionata”... Alemanno dice cose vere, ha tutta la mia comprensione e rivivo, con lui, le mie sofferenze, i miei patimenti e il mio dolore. Le celle sono forni e se fossero solo tali potrebbero già essere difficili da accettare, ma sopportabili. Ed invece sono dei forni con all’interno zanzare che entrano nelle celle perché le finestre rimangono aperte per fare passare l’aria e che assaltano i detenuti, divenendo causa di infezioni, prurito, dolore. Una cosa terrificante. Ricordo l’insopportabile caldo, il sudore, le zanzare e il tanfo che emana il carcere e che esce dai bagni. La sofferenza di Alemanno riflette la mia, ho vissuto quei giorni terribili e mi sono salvato soltanto grazie all’amore per i miei familiari e alla speranza di poter tornare ad essere una persona in un mondo civile. La detenzione, come lei scrive, dovrebbe essere rieducativa e contenere il seme della speranza. “Spesso - lei ha aggiunto - invece, appare come un mezzo vendicativo verso chi ha sbagliato, tra l’indifferenza della gente che non comprende che uno Stato democratico non può vendicarsi, ma deve puntare al recupero”. Allora segretario Cuffaro pensa che nelle carceri italiane si stia smarrendo del tutto la nostra civiltà? In molte occasioni abbiamo smarrito questa civiltà e senz’altro l’abbiamo smarrita nelle carceri. Io ho riassunto in una frase il dramma che si vive nei nostri penitenziari: il carcere non è storia di corpi, è storia di anime. Uno Stato non può essere vendicativo. Deve essere padre per i suoi figli e lo deve essere anche per quelli che hanno sbagliato. È una scelta etica prima ancora che religiosa. Maggioranza qualificata per le leggi penali? Molto rischioso nell’era del populismo di Oliviero Mazza Il Dubbio, 19 luglio 2025 Per contrastare la montante ondata di populismo punitivo, Vittorio Manes e Nicolò Zanon hanno recentemente suggerito, dalle colonne de Il Sole 24 Ore, di introdurre nella Costituzione la previsione di maggioranze parlamentari qualificate per l’adozione di ogni nuova legge penale. Proposta certamente interessante e suggestiva, ma non inedita, dato che già Enzo Musco, nel 2004, l’aveva formulata nel suo bel volume dal titolo “L’illusione penalistica”. Questo va sottolineato perché sono trascorsi inutilmente oltre vent’anni da quando Musco notava che “la legislazione penale non può più essere il frutto della mera discrezionalità politica di una maggioranza, ma necessita di un larghissimo consenso parlamentare, al fine di evitare abusi e prevaricazioni”. L’esperienza passata dimostra che la concreta praticabilità dell’idea liberale di prevedere un procedimento legislativo speciale per le leggi penali è assai ridotta, per non dire velleitaria. Ciò non toglie che provare oggi a rilanciare l’originaria proposta sia comunque moralmente doveroso, pur nella consapevolezza che la stessa è già stata da tempo consegnata all’oblio dal decisore politico. Per dare maggior forza alla riflessione, è certamente opportuno affrontare alcune questioni di carattere pregiudiziale, a partire dalla esatta perimetrazione della proposta. Bisogna chiarire, anzitutto, se la logica sottesa alla richiesta di una maggioranza qualificata riguardi solo le nuove incriminazioni oppure ogni modifica, anche in favor, delle leggi penali. La logica del sistema costituzionale sembrerebbe deporre proprio per questa seconda opzione, dato che la stessa ratio di una più ampia condivisione parlamentare non potrebbe essere negata nel caso in cui si ritenessero determinati beni giuridici non più meritevoli della maggior tutela penale. Nel sistema penale sostanziale, il concetto di libertà personale non è autosufficiente, dovendosi sempre confrontare e bilanciare con tutti gli interessi che il legislatore vuole tutelare. Dunque, l’esigenza di quella ponderata valutazione si presenterebbe anche nel caso di riespansione della libertà personale a discapito degli altri beni originariamente protetti. Ciò significherebbe, ad esempio, che se fosse stata richiesta la maggioranza parlamentare dei due terzi, sulla falsariga di quanto già previsto per i provvedimenti clemenziali di amnistia e indulto, l’abrogazione dell’abuso d’ufficio non avrebbe trovato il necessario consenso nell’attuale composizione del Parlamento. Bisognerebbe, inoltre, porsi il problema delle norme processuali direttamente incidenti sulla libertà personale: sarebbero anche loro attratte nella logica della proposta di riforma? Per l’evidente identità di ratio, ossia per assicurare un più solido presidio alla libertà, la risposta dovrebbe essere affermativa. Se così fosse, si registrerebbe, però, una paradossale eterogenesi dei fini: con tutta probabilità, la recente riforma sull’interrogatorio preventivo e sul gip collegiale non sarebbe stata approvata con l’iter parlamentare rafforzato. A ciò si aggiunga che, anche volendo limitare la portata applicativa alle modifiche sfavorevoli, sarebbe spesso impossibile distinguere ex ante il procedimento legislativo in funzione del segno della riforma processuale: anzitutto, perché fino a quando il disegno di legge non è definitivamente approvato non se ne possono apprezzare compiutamente e stabilmente i contenuti; inoltre, risulterebbe difficile catalogare alcuni istituti che presentano una connotazione ancipite: ad esempio, l’interrogatorio preventivo che, per una parte della dottrina, va considerato, non a torto, “pericoloso” per l’imputato. Vi è poi una questione che, per la sua portata, finisce per sovrastare nettamente tutte le altre. Se l’intervento penale dovesse essere sorretto da una larga convergenza politico- parlamentare, espressiva di un altrettanto ampio consenso popolare, la giurisprudenza, che non presenta alcuna forma di collegamento e di legittimazione con il voto popolare, non potrebbe certamente rimanere una fonte di produzione delle norme incriminatrici, come invece accade oggi grazie all’accettazione di un sistema che, in forma del tutto atipica e per linee interne, è divenuto di common law. Pensiamo, scegliendo nell’ampia casistica giurisprudenziale, alla violenza sessuale, il cui fatto tipico è integrato dalla mancanza di consenso, sebbene tale elemento non sia testualmente previsto dall’art. 609- bis c. p., oppure al concetto di rapporti para famigliari che ha consentito l’applicazione dell’art. 572 c. p. ben oltre i limiti della famiglia e dei conviventi. Bisognerebbe, quindi, accompagnare la riforma costituzionale con la netta preclusione di ogni forma di interpretazione creativa da parte della giurisprudenza e con un altrettanto rigido apparato di sanzioni nel caso di sconfinamenti. La tensione valoriale sarebbe insostenibile se al giudice, che non ha alcuna legittimazione popolare, si consentisse quello che sarebbe precluso al Parlamento, se non attraverso maggioranze qualificate. Infine, ma non da ultimo, la proposta di riforma sarebbe sterile a fronte di un populismo penale così diffuso da coagulare un consenso trasversale su proposte di legge lucro- elettorali, come quella oggi in discussione sul reato di femminicidio. Viene quindi da chiedersi se sia opportuno ingessare l’intero sistema penale, anche nella sua evoluzione eventualmente più favorevole al reo, a fronte comunque di una composizione parlamentare che democraticamente rispecchia le tendenze della società attratta in larghissima maggioranza dalla risposta repressiva penale, senza distinzioni di segno politico. Il vero rimedio, probabilmente, sarebbe una rivoluzione culturale che oggi sembra pura utopia, ma l’utopia, come scriveva Eduardo Galeano, serve per continuare a camminare. Nordio: “La riforma fa paura ma state certi: si farà. Ci saranno aggressioni e molta adrenalina” di Gianni Alati Il Dubbio, 19 luglio 2025 “Sarà una vera riforma, fa paura ma state certi che la faremo”. Ha detto ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio alla quarta edizione dell’evento “Parlate di mafia”, organizzato dai gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia. “All’inizio nessuno credeva in questa riforma perché tutte le volte che si era cercato di farla c’era stato un niet della magistratura. E la politica ha sempre ceduto perché aveva paura: noi non abbiamo paura. Sappiamo che ci saranno aggressioni di vario tipo - alcune in linea con la democrazia ossia in parlamento - altre meno quando la stampa altera alcune ricostruzioni e poi ne avremo anche delle altre”. “Ai miei amici scherzosamente ho detto: non c’è niente da fare ogni aggressione in più, è un pizzico di adrenalina che aumenta”. Il ministro ha poi dichiarato: “L’altro giorno c’è stato un intervento di un magistrato in servizio che si è permesso di indicare tutti gli errori che aveva fatto il ministro sul caso Almasri: in qualsiasi Paese al mondo avrebbero chiamato gli infermieri. Perché noi non lo facciamo? Innanzitutto, sarà e potrebbe essere oggetto di valutazione” mediatica senza precedenti. E non è un caso che proprio la Procura da cui partì l’indagine, quella di Catanzaro, abbia nel tempo collezionato un numero altissimo di richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. Un dato che interroga, che inquieta, e che impone una seria riflessione sul rapporto tra potere giudiziario, media e tenuta democratica delle istituzioni locali”. La donna, addirittura, in vista delle elezioni dello scorso fine maggio era stata pure inserita tra candidati “sconsigliati” dalla Commissione parlamentare Antimafia. L’accusa? Aver fatto parte di un’amministrazione - quella del Comune di Rende - sciolta per infiltrazioni mafiose. Eppure, nel documento che aveva motivato lo scioglimento, il suo nome non compare mai e oggi a maggior ragione si scopre che quell’amministrazione non doveva decadere. Il movimento Laboratorio Civico Rende ha aggiunto: “lo scioglimento del Comune di Rende si è rivelato un provvedimento infondato, ingiusto e profondamente dannoso. Un atto che ha interrotto bruscamente un percorso amministrativo solido, paralizzato progetti, bloccato risorse, minato la fiducia dei cittadini verso le istituzioni. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: un rallentamento economico, uno svuotamento del confronto democratico, una ferita alla coesione sociale”. A parlare anche la Camera penale di Cosenza: “1050 giorni di gogna mediatica, di distruzione politica di una Comunità, di tentativi di delegittimazione, di sofferenza e di ferite, riferite a lui e a tutta l’Avvocatura, alla nostra Camera penale, di cui l’Avvocato Manna è Presidente Emerito, all’Unione delle Camere Penali Italiane, della cui Giunta l’Avvocato Manna è stato componente. 1050 giorni di strenua difesa da parte del suo Collegio difensivo per sentir pronunciare quell’articolo 530 del codice di rito penale che restituisce - ahinoi- solo qualcosa, troppo poco”. Per questo, hanno concluso i penalisti del Direttivo della Camera penale di Cosenza, “l’Avvocato Marcello Manna non è stato - solo- assolto. L’Avvocato Marcello Manna è innocente”. Nordio: “Alcune toghe non accettano la realtà, ma rimedieremo” di Luciana Cimino Il Manifesto, 19 luglio 2025 Il venerdì nero in cui Carlo Nordio è esondato (per usare un’espressione cara al ministro della Giustizia, tanto da rivolgerla ai magistrati che criticano il suo operato). Ieri il guardasigilli, trovandosi nel contesto amico di “Parlate di mafia”, evento organizzato da Fratelli d’Italia, ha dichiarato a tutto campo. Mal gliene incolse. Anche perché questa volta non si tratta di gaffe, come l’ultima risalente a neanche 48 ore prima, sul sovraffollamento delle carceri che avrebbe contribuito a sventare i suicidi tra i detenuti, ma di attacchi alla magistratura di particolare virulenza. “Un magistrato in servizio si è permesso di indicare su un giornale tutti gli errori fatti dal ministro nel caso Almasri - ha detto Nordio (indagato per omissione di atti d’ufficio in relazione alla vicenda del torturatore libico scarcerato dal governo italiano e riportato a casa con volo di stato) parlando di sé in terza persona - in qualsiasi paese al mondo avrebbero chiamato gli infermieri, noi non lo facciamo perché la valutazione spetta al Csm composto da persone elette da quelli che devono essere giudicati e per questo hanno paura”, ha detto riferendosi all’intervista su Repubblica del sostituto procuratore generale Raffaele Piccirillo. Per poi caricare: “I magistrati sono convinti di godere di una impunità tale da poter dire quello che vogliono, fino a che non faremo una riforma perché non c’è sanzione di fronte a esondazioni improprie”, confermando così la volontà del governo Meloni di censurare e punire i magistrati con diversi mezzi, tra cui il ddl sulla separazione delle carriere. L’intervento del ministro, davanti ai meloniani, più che una difesa del suo operato è tutto un avvertimento ai suoi detrattori. “Nei Paesi civili non si impugnano le assoluzioni. La lentezza della nostra giustizia dipende anche dall’incapacità di molti magistrati di opporsi all’evidenza, rimedieremo”, ha assicurato per poi insinuare complotti: “Si comincia a votare la separazione delle carriere e torna fuori il caso Almasri, poi si vota il Csm e torna il processo Open Arms”, oppure “il caso Cospito è stato il primo tentativo di minare la funzione di questo governo sulla giustizia, ci saranno aggressioni di vario tipo, è adrenalina che aumenta”, ha detto, forse orgoglioso di avere molti nemici e molto onore. Quella che doveva essere una banale mezz’ora nella giornata di un ministro si è trasformata in un lungo pomeriggio di reazioni alle sue parole, tutte a sottolineare l’inadeguatezza alla carica. L’Associazione nazionale magistrati esprime “sdegno e viva preoccupazione” per le parole di Nordio. “Da parte del ministro si registra un uso ricorrente della minaccia disciplinare - ha scritto l’Anm - evocata come uno strumento di pressione nei confronti di decisioni sgradite o legittime critiche, il vero obiettivo della riforma sembra essere quello di indebolire e ridurre al silenzio la magistratura”. Anche il segretario di AreaDg, la corrente progressista della magistratura, Giovanni Zaccaro, legge nelle dichiarazioni del guardasigilli un tentativo “di intimidire i magistrati che osano criticarlo”. Il modello di Nordio, per Zaccaro, “è Trump che licenzia i magistrati che indagano i suoi amici”. Anche per il renziano Ernesto Carbone, componente laico del Csm, quelle del titolare di via Arenula sono “minacce scomposte”. Arriva pure la richiesta al Comitato di Presidenza del Consiglio superiore della magistratura di aprire una pratica a tutela di Piccirillo, sottoscritta dai consiglieri togati e laici di Palazzo Bachelet (eccetto tre) dato che il ministro “ha dileggiato e tentato di intimidire un magistrato”. Nordio sembra incassare ma perde di nuovo la ragione davanti alle critiche dell’opposizione “allibita” dalle sue esternazioni, come ha detto il senatore dem Francesco Boccia, insieme al resto del centro sinistra che parla di “intimidazioni inaudite” (PiùEuropa), “iniziativa punitiva” (Avs), “intemerata per sterilizzare la magistratura” (M5S), “posizioni insostenibili” e “indegnità nel fare il ministro” (Pd). “Se i colleghi ritengono che un procuratore possa esprimere giudizi sull’operato di un ministro sottoposto a indagine, lo dicano”, ha risposto Nordio, senza, evidentemente, aver letto. Perché la riforma stravolge il Csm di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 19 luglio 2025 Nel nuovo ordinamento la competenza disciplinare è affidata ad un’Alta Corte bizzarra e disfunzionale. Il Senato, respinti tutti gli emendanti, si appresta ad approvare il Ddl S. 1353. Presentare la riforma come “Separazione delle carriere tra giudici e Pm”, è “frode di etichette” (per usare una espressione della dottrina giuridica). Di altro, infatti, si tratta: si riscrivono, ben oltre quanto richiederebbe la separazione, i due articoli della Costituzione su composizione e attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, “pietra angolare” del nuovo ordinamento giudiziario (così Corte Costituzionale sent. n. 4/1986). Rimane sì all’esordio dell’art. 104 la proclamazione dell’indipendenza della magistratura da “ogni altro potere”, ma con le modifiche dei commi successivi e dell’art. 105 si ridefinisce il rapporto tra potere politico e potere giudiziario. La Costituzione si può riformare, ma il saggio Costituente ha invitato a pensarci non due, ma quattro volte e con un ulteriore spazio temporale di riflessione. Con la “blindatura” al Senato del testo della Camera si è reso irrilevante il bicameralismo, pur tuttora vigente. La ulteriore “blindatura” renderebbe irrilevante anche la seconda fase. Le audizioni in Commissione alla Camera e poi al Senato ridotte a rito inutile. Respinti tutti gli emendamenti delle opposizioni, ma ignorate anche le voci di giuristi, persino di quelli che, pur apprezzando in linea di principio le modifiche, ne segnalavano approssimazioni e forzature. Per il Csm si proponeva in alternativa una strutturazione su due sezioni con una istanza plenaria per i numerosi temi che coinvolgono sia giudici che Pm. Persino i sostenitori del sorteggio hanno trovato insensata la versione “secca” per i componenti togati che assegna al puro caso la composizione del Csm, con quali vantaggi per la funzionalità della gestione è facile prevedere. La competenza disciplinare è affidata ad un’Alta Corte così bizzarra e disfunzionale che anche i, pochi, giuristi favorevoli al principio avanzano critiche radicali. Ignorati i rilievi della relazione di minoranza del Csm proposta dai laici espressi dai partiti di governo e redatta da un professore di diritto costituzionale. Ignorati gli aggiustamenti tecnici segnalati dall’Ufficio studi del Senato. Il “lassismo” disciplinare del Csm è smentito dai dati che mostrano numerose condanne, talune severe fino all’espulsione dalla magistratura; e naturalmente anche assoluzioni, a meno che per i magistrati debba valere che tutte le richieste dell’accusa siano accolte dal giudice. Se delle procedure disciplinari il Ministro ne promuove 1/3, i restanti 2/3 essendo di iniziativa della Procura generale della Cassazione, vuol dire che il Ministro non rileva alcun “lassismo”. Degli esposti dei privati il 66% viene archiviato come infondato, ma il Ministro, cui queste decisioni vengono comunicate, nemmeno una volta ha deciso di riesaminarli. Il Csm è spezzettato in due istituzioni non comunicanti, gli si sottrae la competenza disciplinare e attraverso il sorteggio dei componenti se ne affida il funzionamento al caso. L’esperienza delle dittature del secolo scorso e le recenti involuzioni in Europa (e negli Usa) ci insegnano che a nulla vale proclamare l’indipendenza della magistratura, se non sono apprestati istituti che ne garantiscano l’effettività. L’indipendenza della magistratura è una garanzia per tutti, anche per la politica, al di là delle contingenti maggioranze. Il Csm italiano è stato riferimento per i paesi dell’Europa dell’est dopo la caduta del muro di Berlino. Consigli superiori della magistratura, Consigli di Giustizia, Alte autorità variamente composte o particolari sistemi di equilibrio nel rapporto tra i poteri sono le diverse soluzioni adottate nelle democrazie. Il Csm previsto dalla Costituzione non è l’unico strumento astrattamente possibile. Ma lo si riduce all’irrilevanza e non vi si sostituisce nulla in alternativa. “Lo Stato di diritto, vuole che sia garantita l’imparziale giustizia per tutti e perciò avverte che la magistratura ha bisogno di indipendenza, di guarentigie della sua indipendenza. Ora l’indipendenza dei giudici è corroborata da nuove garanzie costituzionali e istituzionali. Un fondamentale precetto costituzionale trova oggi adempimento. “Così il Ministro della Giustizia Guido Gonella il 18 luglio 1959 per l’insediamento del primo Csm. Quelle fondamentali “guarentigie” introdotte dalla Costituzione del 1948, che il democristiano Gonella, enfatizzava oggi sarebbero messe a grave rischio. Del Csm rimarrebbe quasi solo il nome, quello di un istituto già esistente, e del tutto ininfluente, nell’Italia liberale e poi in quella fascista. Un passo indietro per lo Stato di diritto e nessun passo avanti per la funzionalità del sistema giudiziario. Ma quale bavaglio: riecco dappertutto le intercettazioni (coi loro rischi) di Danilo Paolini Avvenire, 19 luglio 2025 A oltre trent’anni da Tangentopoli un invito alla prudenza: la giustizia spettacolarizzata s’è spesso fusa con una narrazione mediatica che ha condannato gli indagati prima di qualsiasi sentenza. La buona notizia è che il bavaglio non c’è o che, se c’era, è caduto. Dell’inchiesta di Milano sul presunto giro di corruzione finalizzato al saccheggio edilizio della città sappiamo tutto. O meglio, sappiamo tutto quello che la Procura ha ritenuto di allegare alle richieste di arresto per alcuni indagati. Insomma, il divieto di pubblicare integralmente o per stralci le ordinanze di custodia cautelare - previsto appunto dalla cosiddetta “legge bavaglio” approvata nel dicembre scorso - si è sciolto come neve sotto il sole di luglio, paradossalmente grazie a una norma voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per consentire agli indagati di difendersi: l’ordinanza cautelare, eventuale, è infatti anticipata dall’avviso di “interrogatorio preventivo”, a garanzia delle persone di cui gli inquirenti chiedono l’arresto. E così sono emerse le carte finite sui giornali in questi giorni, con tanto di intercettazioni e virgolettati. Il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha denunciato di aver saputo di essere indagato proprio dai giornali. È giusto e sacrosanto, intendiamoci, che l’opinione pubblica sia informata su fatti potenzialmente di grave allarme sociale che sarebbero avvenuti nella capitale economica e, come si sarebbe detto un tempo, morale del Paese. Il reato di corruzione e quelli che lo precedono o ne derivano sono particolarmente odiosi perché derubano la collettività. Per di più, nel caso di specie, il furto sarebbe non soltanto di natura economica, ma anche sociale e ambientale. Tuttavia, le condotte delittuose vanno argomentate davanti a un giudice terzo e verificate, in ultimo arriverà la sentenza. Colpisce, perciò, il linguaggio ricco di aggettivi già “giudicanti” utilizzato negli atti istruttori, in cui si leggono espressioni come “spregiudicato faccendiere, incline alla corruzione” (sembra più una valutazione etica che giudiziaria), di “corruzione vorticosa” , di territorio “svilito a merce da saccheggiare”. Presto, con gli interrogatori preventivi, che sono un’anticipazione del dibattimento nell’ambito cautelare, conosceremo anche la versione di chi rischia la privazione preventiva della libertà personale. Dopo di che la giustizia faccia il suo corso e, se ci sono colpevoli, paghino. Ma, a oltre trent’anni di distanza da Tangentopoli, sarebbe sempre il caso di tenere a mente le insidie di una narrazione troppo, quando non esclusivamente, orientata sulle tesi dell’accusa. Borsellino, via D’Amelio e l’esibizione della new age dell’antimafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 luglio 2025 Trentatré anni sono passati e il dolore bruciante non si placa: notti insonni, lacrime trattenute e un lutto mai davvero compiuto, soffocato dalle inchieste giudiziarie che si rincorrono senza fine. In questo mare di tensione, Lucia, Fiammetta e Manfredi, figli di Paolo Borsellino, camminano a testa alta, custodi di una memoria rispettosa delle istituzioni. Sul fronte opposto esplode il caos: fanatismi, accuse scomposte e tesi sempre mutevoli, come onde in tempesta. Oggi, 19 luglio 2025, la commemorazione in via D’Amelio raduna migliaia di persone perbene, ignare di essere pedine di un copione già scritto: si deresponsabilizza in primis chi ha contribuito al mascariamento e isolamento in Sicilia, terra in cui Cosa Nostra ha prosperato, e si scaricano le colpe su Roma, sui vertici politici, sullo Stato. Così si offre alla mafia l’alibi che da sempre attende. Ma non solo. Come già all’anniversario di Capaci, anche oggi le celebrazioni in via D’Amelio soprattutto quelle “alternative” - diventano palcoscenico inadeguato per guardare davvero a quei fatti: spesso tradiscono il ricordo, snaturano il senso di chi vogliamo onorare. “Retorica aiutando e spirito critico mancando”, annotava Sciascia a proposito della battaglia culturale contro la mafia. Ricordare dopo quasi tre quarti di secolo Giovanni Falcone e Paolo Borsellino osservando la realtà del nostro Paese come ancora attanagliata dalla presenza pervasiva della organizzazione mafiosa che i due eroici magistrati hanno combattuto con efficacia a prezzo della loro vita non rende certo loro quello che meritano. Piuttosto, li riduce a “eroi gentili” ma inutili sognatori: ed è tutto ciò che non furono. Questo velleitarismo appartiene piuttosto a una stagione successiva dove si sono costruite tesi del tutto inconsistenti, ma di grande impatto mediatico. E per quanti danni possa aver causato non ha potuto inficiare i risultati concreti ottenuti con un prezzo così elevato. Non si tratta solo di un problema di buona creanza nei confronti dei celebrati ma di analisi razionale dei fatti attraverso una lettura empiricamente verificabile. Potrebbe bastare la cronologia. Ricordare che sono passati 33 anni dalla stagione delle stragi di mafia e dei “delitti eccellenti” comporta automaticamente la considerazione che ne sono trascorsi 32, non un battito di ciglia, senza che il fenomeno si sia ripresentato. Certo la mafia esiste ancora, e l’attuale Procura di Palermo ha sgominato sia i “vecchi” - Buscemi e Bonura - nostalgici di quel passato potentissimo, all’epoca fatto non di piccole imprese locali ma di grandi potentati economici, sia i “nuovi”, quei giovani di Cosa Nostra che si sono adattati al business del presente. Nulla, però, ricorda quegli anni in cui i Corleonesi scelsero la strategia terroristica mafiosa, né la truce guerra di faide che consegnò Riina al vertice del terrore. Eppure sembra chi siamo rimasti fermi agli anni ‘ 90, rispondendo con le logiche emergenziali del 41 bis, mentre gli strumenti devono essere nuovi e adeguati al presente. Ma torniamo alla manifestazione odierna. La lotta alla mafia si è trasformata in un teatrino di opposizione politica, capace paradossalmente di darle nuova linfa invece di spegnerla. A illuminare il corto circuito è proprio Giovanni Falcone, che a pagina 61 del suo libro scritto con Marcelle Padovani, ricordava come per vent’anni l’Italia sia stata “governata da un regime fascista in cui ogni dialettica democratica era stata abolita”, fino al monopolio di un unico partito, la Democrazia Cristiana, che in Sicilia - pur con alleati occasionali - ha dettato legge fin dal giorno della Liberazione. Eppure, avvertiva Falcone, anche chi si opponeva alla mafia non sempre era all’altezza, confondendo la battaglia politica contro la DC con le indagini giudiziarie su Cosa Nostra o cullandosi in pregiudizi: “Contro la mafia non si può far niente fino a quando al potere ci sarà questo governo con questi uomini”. Una denuncia coraggiosa e impopolare all’epoca, che oggi risuona con drammatica attualità. Calandoci nella genesi delle stragi mafiose, si perde spesso di vista la concretezza. È vero che ora emerge con chiarezza il ruolo degli appalti, ma subito lo si minimizza, relegandolo a concausa all’interno di un disegno più ampio. Ma, come insegnarono Falcone e Borsellino, la mafia ha perseguito da sempre un solo obiettivo: la sopravvivenza dell’organizzazione stessa. I problemi politici non la sfiorano finché non percepisce una minaccia diretta al suo potere o alle sue fonti di guadagno. Bastava eleggere amministratori e politici “amici” e, talvolta, infilare membri dell’organizzazione nelle istituzioni. Così poteva indirizzare la spesa pubblica, far approvare leggi a vantaggio dei suoi interessi e bocciare quelle pericolose per il suo giro d’affari. La presenza di amministrazioni comunali docili valeva a evitare un possibile freno alla sua espansione, sia per il rifiuto di concessioni edilizie, sia per controlli troppo approfonditi su appalti e subappalti. Dal punto di vista delle indagini, la mafia aveva ha disposizione un tale ricchezza economica in grado di fermare e far affossare le inchieste giudiziarie scottanti. È evidente che era la mafia a dettare le condizioni ai politici, e non il contrario. Per definizione, Cosa Nostra non prova alcuna simpatia per la politica, che dovrebbe curare l’interesse generale: le importa solo garantire la propria sopravvivenza. Attenzione. Come spiegava Falcone, questo non significa che Riina fosse incapace di fare politica. Al contrario, l’ha praticata a modo suo, violento e spiccio, assassinando chi gli dava fastidio: Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana e democristiano, nel 1980; Pio La Torre, deputato comunista e promotore della legge che porta il suo nome, nel 1982; e Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana, nel 1979. Questi delitti “eccellenti”, insieme alle stragi siciliane e continentali del 1993, hanno alimentato l’idea del “terzo livello”, secondo cui al di sopra di Cosa Nostra esisterebbe una rete composta da massoni, servizi segreti, ministri e forze eversive, capace di impartire ordini o perfino di partecipare attivamente alle stragi. Si perde tempo. E infatti una delle conseguenze è scoprire, come ha recentemente rivelato il procuratore capo Salvatore De Luca al giornalista Roberto Ruvolo del Tg regionale, che esistono faldoni di documenti relativi a Capaci e a Via D’Amelio, lasciati a marcire negli scantinati. Talmente abbandonati a se stessi che nessuno ha pensato di informatizzarli. Tanto di cappello alla Procura di Caltanissetta, che ora li sta recuperando tutti. Ma già questo dimostra che, mentre per quasi tre quarti di secolo si è perso tempo inseguendo mandanti esterni, ci si è dimenticati delle indagini capillari che Borsellino stava conducendo sulla morte di Falcone e sui delitti eccellenti, come quello del maresciallo Guazzelli. Questo è il vero discorso unitario e non parcellizzato. Eppure, “mafia- appalti” finisce per essere relegata a piccola concausa, dimenticando che in quegli anni i corleonesi avevano puntato tutto su quel fronte. Non solo per il profitto, ma anche per assicurarsi un controllo capillare del territorio, persino oltre i confini siciliani. Era quello che pensava Falcone, ed era quello che perseguiva Paolo Borsellino. Quest’ultimo, come rivelò il pentito Giuffrè, era diventato ancora più pericoloso di Falcone sul fronte degli appalti. Però alla fine, il rischio che questa causa venga parcellizzata è di nuovo all’orizzonte. Ma è inutile. In Via D’Amelio, viene ricordato Borsellino con le ultime tesi: siamo passati da Borsellino ucciso perché poteva essere un ostacolo all’inesistente trattativa Stato- Mafia, a Delle Chiaie, detto “er caccola”. Forse è arrivato il momento di mettere un punto, prima di arrivare a ipotizzare i dischi volanti. Credo che il modo migliore per rispettare i morti - e in particolare la grande statura di Falcone e Borsellino - sia lasciar scivolare la memoria nell’oblio. E lasciare che i figli elaborino in santa pace un lutto che ancora li avvolge dal dolore. Non meritano altre sofferenze aggiuntive per il solo fatto di non sposare quelle piazze occupate da personaggi che hanno creato la new age dell’antimafia. La vendetta in Commissione Antimafia si consuma su Via D’Amelio di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2025 Chiara Colosimo, meloniana di ferro, ha fatto della “strage di via D’Amelio” il grimaldello per entrare dentro quel pezzo di passato drammatico e consegnarlo ai posteri in un’altra versione. Mentre la vendetta della destra attraverso la strage di Via D’Amelio potrebbe consumarsi definitivamente, c’è il rischio di trovarsi ad un passo da un nuovo 12 marzo 1992, nella distrazione quasi totale. Il piano di questa destra di “eredi-al-quadrato” (del Duce e di Berlusconi) riesce a coniugare insieme il “meglio” del progetto anti-costituzionale perseguito dalla Loggia P2 di Licio Gelli. Il progressivo asservimento dell’azione penale al potere esecutivo attraverso la riforma della magistratura, votata a tamburo battente in Parlamento, l’orizzonte del premierato, l’impunità per gli abusi di potere, la stretta sulla libertà di informazione, la mortificazione della scuola pubblica…) con i foschi propositi di vendetta di pezzi dello Stato che sentono arrivato il tempo della rivincita su quanti non hanno mai piegato il principio di legalità a quello del primato della prepotenza politica. L’epicentro simbolico di questo piano, a suo modo eversivo, è la Commissione parlamentare antimafia guidata dalla on. Chiara Colosimo, meloniana di ferro, che ha fatto della “strage di via D’Amelio” il grimaldello per entrare dentro quel pezzo di passato italiano così drammatico e gravido di conseguenze al fine di neutralizzarlo e consegnarlo ai posteri in una versione funzionale agli intenti della parte politica che rappresenta. Una versione, lo abbiamo scritto tante volte, che non prevede né i “neri”, né i così detti “pezzi deviati degli apparati dello Stato” e che ha per tanto la capacità di sradicare la strage di Via D’amelio dal contesto terroristico-stragista servito a contenere la democrazia costituzionale italiana fin da Portella della Ginestra. Una versione poi che non prevede la proiezione politica di Via D’Amelio sul futuro assetto del potere in Italia, un potere terremotato dal fatale 1989, e che quindi prova a banalizzare il senso delle stragi del 1992 risolvendolo in un feroce colpo di coda difensivo da parte di un potere mafioso-affaristico ormai azzoppato. Come se non ci fossero state le “bombe del dialogo” (cit. Luciano Violante allora presidente della Commissione parlamentare antimafia) del 1993, come se non ci fosse stato il rapporto “Oriente” del col. Michele Riccio al quale il boss Luigi Ilardo aveva confidato i nuovi “investimenti” politici di Cosa Nostra, prima di essere tempestivamente assassinato ad un passo dall’inizio della collaborazione con la giustizia. Come se non ci fosse stato Gaspare Spatuzza a smontare un castello di falsità costruito ad arte da “servitori infedeli” dello Stato e molto più recentemente, a riprova di quel fiume carsico di ricatti figli di una pacificazione fatta di impunità e denaro, come se non ci fossero state le inspiegate profezie del gelataio di Omegna, Salvatore Baiardo, che hanno fatto passare un brutto quarto d’ora a Massimo Giletti e che ci hanno accompagnato fino alle porte della “Dogville” di Campobello di Mazara dove l’ultimo boss stragista corleonese per trent’anni latitante è stato consegnato all’opinione pubblica italiana tra amanti, vecchi medici massoni, faccendieri mafiosi stra noti alle forze dell’ordine, supermercati, Viagra, video cassette, calamite e chemioterapie. Intanto Colosimo tace. Tace sulla Cassazione che ha definitivamente condannato Paolo Bellini per la strage di Bologna, tace sulle intercettazioni agli atti della Procura di Firenze che riguarderebbero gli intenti vendicativi e manipolativi del gen. Mori, tace sulle vergognose frasi pronunciate in Commissione dal duo De Donno-Mori che esaltano il valore di Marcello Dell’Utri e offendono col disprezzo i magistrati della Procura di Palermo. Lo scontro dentro il ring di questo epicentro simbolico è alle fasi finali e bene sarebbe non lasciarne il peso su poche spalle, alcune delle quali sono le “solite” spalle che da decenni si caricano l’onere delle verità più scomode: il silenzio non è una opzione, è diserzione. Ma la presidente Colosimo, apostola della centralità del rapporto tra mafia e appalti, tace colpevolmente anche sugli allarmi suonati attorno all’imminente, imponente, campagna di nuovi appalti pubblici. L’anniversario della strage di Via D’amelio infatti arriva quest’anno in un frangente molto particolare, segnato da guerre combattute a suon di bombe, ma anche a suon di dazi, che rischiano di soffocare l’economia o, più precisamente, di far guadagnare soltanto alcuni a discapito di tanti altri, il che si porrebbe in grave contrasto con la regola aurea “Quando si cala la pasta, si cala per tutti” ed in Italia quel “tutti” ha spesso considerato anche le mafie le quali in ampie porzioni di Paese sono “ormai una istituzione” (cit. Giuseppe Lombardo procuratore aggiunto a Reggio Calabria), destinata a svolgere un ruolo crescente nell’annunciato arretramento dello Stato dalle così dette “aree interne” sempre più impoverite e spopolate. Ecco perché mi preoccupa molto l’accelerazione voluta dal governo sul Dl Sicurezza e sul Dl Infrastrutture che, combinati insieme, compongono l’habitat migliore per l’apertura dei cantieri per il Ponte sullo Stretto di Messina. Una accelerazione che mi ha riportato alla mente l’agitazione che mosse Salvo Lima fino al fatale 12 marzo 1992. Ai mafiosi le “promesse da marinaio” non sono mai piaciute. *Articolo 21 Piemonte, Deputato Pd XVII Legislatura Perquisizione all’attivista di Extinction Rebellion, il gip chiede di indagare il sostituto commissario della questura di Enrica Riera Il Domani, 19 luglio 2025 Il 25 luglio dello scorso anno l’attivista aveva denunciato quanto accaduto dopo un’azione dimostrativa e pacifica realizzata dal movimento presso il palazzo comunale. Oggi il gip archivia la posizione dell’agente donna che aveva realizzato la perquisizione. Ma chiede una nuova imputazione. C’è una novità sulla vicenda giudiziaria che riguarda l’attivista di Extinction Rebellion che il 25 luglio dello scorso anno aveva denunciato la perquisizione personale subita all’interno della questura di Bologna dopo un’azione dimostrativa e pacifica realizzata dal movimento presso il palazzo comunale. La giovane attivista aveva sottolineato i modi “particolarmente invasivi” utilizzati dagli operatori che avevano proceduto alla perquisizione, “ritenuta illegale e in contrasto con i diritti”. Ma il pm a febbraio scorso aveva chiesto di archiviare. Oggi, dopo l’opposizione presentata dalla denunciante, il giudice Letizio Magliaro del tribunale di Bologna ha deciso di archiviare la posizione dell’agente donna verso cui si era inteso procedere e che aveva materialmente realizzato la perquisizione. Tuttavia ha chiesto l’iscrizione nel registro degli indagati del sostituto commissario della Questura di Bologna, che avrebbe ordinato la perquisizione, per il reato di perquisizione e ispezione personali arbitrarie. “Non si può non rilevare come l’accompagnamento dei presunti autori del reato nella locale questura non fosse necessario ai fini della loro identificazione, dal momento che viene esplicitamente riferito che tutti i manifestanti avevano permesso la loro identificazione mostrando i documenti d’identità, dei quali non vi era alcuna ragione di ritenere la falsità. Dunque, non ricorrendo alcuna ipotesi che giustificasse l’arresto o il trattenimento in questura, non si capisce la necessità di tale accompagnamento. Durante il percorso a piedi tra il luogo dei fatti e la questura, alla persona offesa non è stato consentito di utilizzare il suo cellulare, come da lei stessa riferito, divieto del tutto incomprensibile e ingiustificato”, scrive la gip nelle dieci pagine di ordinanza. “In tale contesto appare dunque che la perquisizione in esame sia stata realizzata con abuso di potere da parte dei pubblici ufficiali, in quanto non funzionale allo scopo normativamente previsto di rinvenire cose pertinenti al reato, ma ad altri fini”, si legge ancora. La notizia è stata accolta con entusiasmo da tutto il movimento. “La polizia ha il ruolo e il dovere di proteggere i cittadini, a maggior ragione quando si trovano, anche temporaneamente, sotto la sua custodia - riporta Extinction Rebellion. In uno stato democratico non può esserci spazio per una gestione dell’ordine pubblico basata su abusi e intimidazioni, sempre più frequenti nelle Questure e nelle piazze italiane per ordine del Governo. A prescindere da come andrà a finire, è essenziale che storie come queste vengano portate alla luce e vengano sottoposte a un processo trasparente. Ne va del futuro della nostra democrazia”. Messa alla prova, non può essere negata per la misura cautelare personale in atto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2025 L’istituto che prevede prima la sospensione del processo e poi, in caso di esito positivo sul reinserimento sociale dell’imputato, l’estinzione del reato non dispone alcuna preclusione per la carcerazione cautelare o i domiciliari. La richiesta dell’imputato maggiorenne di sospensione del processo per ottenere l’estinzione del reato tramite un percorso di messa alla prova che dia esito positivo è richiesta che necessariamente il giudice deve vagliare in base agli elementi sulla gravità del reato come indicati dall’articolo 133 del Codice penale. È quindi illegittima la decisione negativa sull’istanza assunta de plano dal giudice che semplicemente constati - come ostacolo alla messa alla prova - la circostanza che l’imputato sia assoggettato alla misura cautelare personale detentiva, senza effettuare il vaglio suinidicato. Infatti, se è vero che l’adozione della misura cautelare restrittiva è indice di rischio di reiterazione del reato essa non costituisce un caso di esclusione che sia stato previsto dal Legislatore per la concessione della messa alla prova. La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 26411/2025 - ha accolto il ricorso dell’imputato accusato del reato di detenzione di materiale pedopornografico (articolo 600 quater del Cp) aggravato dall’ingente quantità di immagini e di utilizzo di mezzi idonei a impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche ove venivano prelevate e diffuse le immagini ritraenti minori anche di soli due anni. In appello il ricorrente aveva ottenuto l’equivalenza delle aggravanti con le circostanze attenuanti generiche altro elemento sintomatico positivo ai fini dell’accoglimento della sua istanza. La Corte di legittimità - accogliendo lo specifico motivo di ricorso sulla domanda di sospensione del processo - censura il diniego del giudice di appello adottato in assenza di specifico esame sui presupposti dettati per la messa alla prova e con motivazione appiattita sulla circostanza che era stata disposta la misura cautelare della detenzione. Le misure cautelari in atto non impediscono, infatti, il rimedio alternativo alla condanna e all’applicazione della sanzione penale che deriva dal buon esito della messa prova. Come ricorda la Suprema Corte la messa alla prova è strumento alternativo al completo svolgimento del processo penale che può essere concesso o negato in base allo svolgimento delle conclusioni di una valutazione prognostica favorevole all’ipotesi che grazie a tale percorso emendativo il responsabile di un reato non ricadrà nel crimine. Quindi l’istituto della messa alla prova che impone di base l’adozione di condotte volte a eliminare le conseguenze del reato, lo svolgimento di un lavoro di pubblica utilità e l’affidamento al servizio sociale è istituto giuridico che può essere azionato dalla parte e adottato dal giudice in base a valutazioni puntuali del comportamento tenuto dalla persona accusata di un reato tanto nella veste di indagato quanto in quella successiva di imputato senza alcuna automatica rilevanza del fatto che la persona sia in custodia cautelare. Inoltre, nel caso specifico, il ricorrente inizialmente sottoposto alla custodia in carcere era stato posto già in primo grado alla misura cautelare meno afflittiva degli arresti domiciliari proprio grazie al percorso di recupero dimostrato con il comportamento collaborativo mostrato durante la fase delle indagini, ammettendo tutti gli addebiti e fornendo le chiavi di accesso al sistema informatico utilizzato per acquisire e conservare le immagini oggetto del reato sessuale pedofilo. Successivamente alla conversione della carcerazione con la detenzione domiciliare il percorso di rinserimento sociale era proseguito. Infatti, il ricorrente aveva mostrato un ripensamento sui propri comportamenti durante la detenzione in carcere avendo espresso il proposito di sottoporsi a un iter terapeutico. Ciò che secondo la Cassazione avrebbe potuto integrare uno dei presupposti fondamentali per l’avvio della messa alla prova. Il giudice di appello ha perciò omesso il dovuto esame sull’istanza di messa alla prova sia in relazione all’avvenuta attenuazione del trattamento cautelare sia per le già intervenute autorizzazioni ad allontanarsi dai domiciliari per seguire uno specifico trattamento psicoterapeutico: circostanze illegittimamente pretermesse dalla decisione impugnata che si è arrestata di fronte alla mera sussistenza di una misura cautelare in atto considerata in sé indice di pericolosità e di rischio di recidiva. Sardegna. Irene Testa: “Le carceri stanno esplodendo” di Valter Canavese manifestosardo.org, 19 luglio 2025 Di persone recluse, istituti di detenzione in Sardegna e, più in generale, dei temi che emergono nel mondo penitenziario in Sardegna, ne abbiamo parlato con Irene Testa, Garante regionale delle persone private della libertà personale all’indomani della presentazione della relazione sulle carceri in Sardegna relativa al 2024. Da sempre impegnata nei diritti civili, anche per l’estrazione politica che la vede da anni nel partito Radicale, la garante traccia un quadro con molte ombre - in Sardegna c’è un sovraffollamento della popolazione carceraria dell’83% - e ben poche luci. Dottoressa Testa c’è un riferimento normativo e di prassi comune a tutti i Garanti regionali delle persone detenute? No. Oggi ci troviamo ad avere tante leggi in ogni regione diverse. Ogni garante regionale opera a seguendo le indicazioni della rispettiva legge regionale e questo vale anche per i garanti comunali. Non c’è a livello nazionale una normativa che coordina le attività dei garanti. Ognuno svolge il ruolo a seconda di come interpreta la legge, però ci sono chiaramente dei doveri a cui bisogna attenersi, come le relazioni annuali. La gravità oggettiva e reiterata della condizione delle persone detenute in Italia è stata sancita sia sotto il profilo amministrativo contabile con la relazione della Corte dei conti e sia attraverso le numerose condanne impartite all’Italia da parte della Corte europea dei Diritti per l’uomo... La situazione è paradossale. Questi importanti organismi denunciano rilievi che non portano a nessun tipo di reazione. Né la lunga lista di denunce come la recente condanna della reclusione di un ragazzo con problemi psichiatrici detenuto a Sassari, con l’unico risultato che invece di trasferirlo in una comunità è stato spostato nel carcere di Bancali. Sui rilievi della Corte dei conti che sollecita il governo a risolvere il dramma del sovrappopolamento, abbiamo una doppia problematica legata a tempi imprecisati sulla costruzione di nuovi blocchi, blocchi che mantengono l’invivibilità data dai progetti, oppure una soluzione “più veloce” data dalla installazione di blocchi container vicini o attaccati agli istituti con costi che aumentano in maniera spropositata. Un’ipotesi del genere nasconde sotto il tappeto un problema evidente. Se già adesso il numero delle guardie carcerarie è molto insufficiente, questi nuovi blocchi o containers da chi saranno sorvegliati? Quale condizione vivono le detenute donne e le persone della comunità LGBTQIA+? Le donne detenute sono poche. In Sardegna, tra il carcere di Bancali e quello di Uta sono circa 40, ma è un numero che varia a seconda dei mesi. Alcune vivono dietro le sbarre con patologie psichiatriche, molte sono persone con dipendenza. L’attenzione e gli sforzi si concentrano prevalentemente verso la popolazione maschile a partire dalla presenza dei medici, dall’organizzazione e dalle scarse attività ricreative. Anche questa separazione radicale tra uomini e donne fa sì che l’intero sistema penale non faccia nessuno sforzo per tentare soluzioni diverse. Se poi si considera che le donne non rappresentano neanche il 4% della popolazione reclusa, si dovrebbe favorire quanto più possibile il ricorso a misure alternative. Nel caso di persone Lgbtqia+ i numeri sono ancor a più esigui e anche per questo è necessario, sempre nell’ambito delle misure previste, strumenti normativi alternativi al carcere. In due anni e mezzo lei ha effettuato oltre un centinaio di sopralluoghi negli istituti detentivi in Sardegna evidenziando le gravi condizioni delle persone recluse. Quali sono le criticità più evidenti e le buone pratiche? Il primo problema conclamato è il sovraffollamento delle carceri legato a condizioni insostenibili. Quattro persone per cella, un caldo insopportabile, poca acqua da bere e per le docce. Condizioni di degrado acuite da una assenza di attività in carcere. Il tempo per lo più si passa in branda, con percentuali di persone che presentano problemi psichiatrici importanti. Nel carcere di Bancali il rapporto al 31 dicembre 2024 rilevava che 400 persone su 536 fanno uso di psicofarmaci. Questo significa che c’è un disagio molto importante, con un numero di psicologi molto al di sotto delle reali necessità. Non c’è nessun tipo di coordinamento tra le ASL e i garanti. Un garante deve essere autorizzato dal detenuto per poter visionare la cartella clinica, con tempi burocratici che danneggiano una efficace presa in carico da parte del sistema sanitario. Il passaggio della Sanità alle Regioni ha acuito i problemi laddove prima l’assistenza faceva capo al Ministero della Giustizia. Ci vuole un maggiore raccordo tra le istituzioni e in questo senso diventa importante potenziare il tavolo di concertazione dell’Osservatorio della Sanità sulle carceri con riunioni periodiche che possano stabilire gli interventi. In tema di misure alternative le comunità agricole in Sardegna hanno dato un ottimo risultato... Vero, in Sardegna abbiamo un modello unico e da imitare un po’ in tutta Italia. A mio avviso tutti i detenuti che si trovano nelle aziende agricole migliorano sensibilmente la loro condizione, sotto l’aspetto psicologico dell’apprendimento di un lavoro che potrà tornare utile a fine pena, con la possibilità di mettere un po’ da parte del denaro. È una detenzione completamente diversa, raramente capitano evasione, rientrano in cielo per dormire per mangiare dopo che finiscono il turno lavorativo ma tutto il giorno solo impegnati da lavoro e questo chiaramente aiuta a vivere una detenzione sicuramente migliore rispetto a un carcere chiuso anche come ci indica la costituzione e il diritto. Ci deve essere la possibilità di investire in questa misura detentiva per estenderla quanto più possibile con innegabili vantaggi sia per le persone sia per la società. La sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 ha riconosciuto il diritto all’affettività in carcere dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia. Negli istituti in Sardegna cosa sta succedendo a riguardo? Tra i vari colloqui con le istituzioni ho potuto constatare come il Provveditore abbia attivato un’azione concreta affinché tutti gli istituti presenti nell’isola possano avere una sala. La possibilità di mantenere un livello minimo di affettività con la propria famiglia è importante sia per i parenti stessa che per il detenuto. Il Provveditore mi diceva che stava pensando di predisporre delle casettine in prossimità delle strutture. Sono stati avviati i lavori nel carcere di Uta per l’ampliamento della sezione per i detenuti reclusi ai sensi dell’art. 41 bis. Quali sono le implicazioni a suo avviso? Ci sono già sufficienti problemi che si aggraveranno con la presenza di altri cento detenuti. La Sardegna ha già una presenza rilevante di detenuti ai sensi del 41 bis. Si ipotizza che i nuovi settori siano pronti con l’inizio del prossimo anno. Tra l’altro c’è anche poi l’aspetto dei familiari di queste persone e dei loro figli che sono costrette a intraprendere viaggi costosi e scomodi. Teniamo conto che nell’isola abbiamo più di mille detenuti, tra Alta sicurezza e 41 bis, che non sono sardi, e anche questo incide sulla difficoltà di gestire gli istituti di pena in Sardegna. Qual è la situazione dei familiari dei detenuti? Ci sono periodi in cui il carcere di Uta presenta molti problemi di prenotazione degli incontri. Con una certa cadenza non si riesce a prenotare i colloqui. Il problema si evidenzia soprattutto a Uta e lo abbiamo segnalato moltissime volte. Ricevo tantissime richieste di familiari che si lamentano. La responsabilità è del numero insufficiente del personale e dei problemi di ordine tecnico del centralino, si spera, in via di risoluzione. Il DDL Sicurezza 1660, ora Decreto-legge 84, ha introdotto nuovi reati anche per le proteste nelle carceri. Quali rischi intravede? I nuovi reati non faranno che peggiorare lo stato della detenzione. Un detenuto che fa uno sciopero della fame, quindi un’iniziativa non violenta, può essere accusato rientrare nella rivolta? Abbiamo condizioni di detenzione gravi, con delle inadempienze da parte dello Stato condannato dalle sentenze della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. È sbagliato far ricadere questa responsabilità su chi reagisce a condizioni impietose. Credo che i dubbi sollevati da più parti dal mondo giudiziario, politico e sociale sul complesso di questo Decreto abbiano delle motivazioni più che fondate. Campania. “Sinergie virtuose e azioni di sistema sui territori per un reinserimento duraturo” di Camilla Curcio Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2025 L’intervista a Lucia Castellano, provveditrice regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Campania: “Non basta offrire opportunità di lavoro, serve responsabilizzare i detenuti”. Plasmare un carcere “umano” e attento ai diritti delle persone non è una missione impossibile. E passa da una sinergia positiva che mette in campo azioni di sistema mirate, investimenti intelligenti e percorsi di reintegro sociale proiettati oltre le quattro mura della cella. Ne è convinta Lucia Castellano, provveditrice regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Campania e, tra i vari incarichi, anche ex direttrice del carcere di Bollate. Spazi insufficienti, suicidi in aumento, temperature critiche. Oggi le carceri versano in condizioni difficili: come si può sbloccare questa situazione? Si sta intervenendo con un piano di riqualificazione edilizia - affidato a un commissario straordinario - e tutti i provveditori sono stati ingaggiati in un percorso accelerato per recuperare posti chiusi o a rischio chiusura. Stiamo facendo una corsa contro il tempo, con un lavoro di rete notevole e impiegando tutte le risorse possibili. E per il caldo sono state approntate misure di emergenza, come nebulizzatori e spostamento degli orari dei cortili passeggio. Spingere sulle misure alternative potrebbe ridurre il sovraffollamento? Stiamo lavorando con gli uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) e le magistrature di sorveglianza per accelerare i flussi in uscita. Non solo: abbiamo anche in ballo diversi progetti con le regioni e la Cassa ammende per l’accoglienza in misura alternativa. Anche in questo caso, serve la collaborazione di più enti: dalle carceri ai provveditorati, passando per Uepe, Regioni, istituzioni e Terzo settore. Perché c’è un altro tema dirimente: molti detenuti non possono scontare la pena in misura alternativa perché non hanno un posto dove andare né una struttura che li accolga. Quindi, dato il quadro complesso, come bisognerebbe agire per arrivare a un sistema che tuteli i detenuti? L’obiettivo è evitare trattamenti disumani e degradanti, come impone la Costituzione. Credo, però, che il carcere da solo non possa farcela, è solo un pezzo di città. Ognuno deve fare la propria parte: le strutture sportive possono dare un contributo con campi e palestre. Scuola e università con piani formativi efficaci. Occorre fare affidamento su un pensiero collegiale, che non inizi e finisca col carcere e metta al centro i detenuti e i loro bisogni. Parlando di reinserimento. Tra ieri e oggi cosa è cambiato e cosa ancora c’è da fare? Tra ieri e oggi, forse è subentrata una consapevolezza diversa. Quello che ieri era un’eccezione, ad esempio il carcere di Bollate, oggi è un obiettivo interiorizzato dal Dap. E poi è essenziale, lo ripeto, predisporre azioni di sistema, che partano da Roma e si irradino a tutte le periferie. Come il progetto “Recidiva zero” che stiamo portando avanti con il Cnel per creare un ponte tra detenuti e imprese. O quello che stiamo facendo in Campania con Coldiretti, mettendo a frutto i sei ettari del carcere di Carinola e gestendo un laboratorio dove vengono essiccati prodotti provenienti anche dagli istituti di Aversa o Arezzo. Creare, insomma, una filiera virtuosa: sono queste le soluzioni che agevolano il reintegro di detenuti ed ex detenuti. Pensa che il modello del carcere di Bollate possa diventare uno standard? L’obiettivo è quello. In primis, creando occasioni di lavoro vero e superando il sistema delle lavorazioni penitenziarie. Sistema che, usato al 95% al Sud, assicura occasioni professionali pagate dall’Amministrazione penitenziaria ma non qualificanti. Bisogna, invece, far sì che aziende e grandi associazioni di categoria garantiscano ai detenuti assunzioni alle dipendenze di terzi, che possano poi stabilizzarsi all’esterno. In che modo? Puntando, ad esempio, sulle cooperative sociali e incentivando l’imprenditoria privata. Il vantaggio sarebbe doppio: l’imprenditore può portare un pezzo della sua attività in carcere, godendo del comodato gratuito del laboratorio e degli sgravi della legge Smuraglia, il detenuto può contare su una chance di lavoro (e reinserimento) che non si esaurisce con la fine della pena. Da qui al futuro, quali sono gli obiettivi da raggiungere per rendere il reintegro strutturale e superare le criticità? Penso che l’azione di sistema predisposta dal Dap vada declinata in modo quanto più parcellizzato possibile sui territori. Si devono intercettare le risorse che un’area può offrire e collocare i detenuti nel perimetro giusto. Poi è importante ribadire che il lavoro, da solo, non basta. È una condizione necessaria ma non sufficiente al reintegro perché ci sono persone non abituate a lavorare o abituate a lavori con guadagni facili. E in questo caso il sistema di reintegro trova una concorrenza dura a morire. Serve un’opera di osservazione e studio dei singoli individui, oltre che di responsabilizzazione. Non basta offrire cento posti di lavoro, ma è fondamentale lavorare con psicologi, educatori, direttori, magistrati per verificare la tenuta dei detenuti e affiancarli in un percorso faticoso. Bisogna procedere con attenzione ma il reinserimento resta una scommessa su cui puntare. Perché ce lo dice la Costituzione. E perché, altrimenti, la pena non avrebbe alcun senso. Piemonte. Scuola, lavoro, investimenti “svuota celle” di Mauro Gentile La Voce e il Tempo, 19 luglio 2025 Dal ministero della Giustizia arrivano alla Regione Piemonte oltre 2 milioni e 600 mila euro per finanziare la realizzazione di percorsi di orientamento, formazione, housing sociale e attivare una rete per favorire il reinserimento sociale e lavorativo di persone sottoposte a misura penale esterna o in uscita dagli istituti penitenziari. “Il sostegno finanziario al progetto regionale da parte del ministero della Giustizia” commenta Bruno Mellano, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione “appare come una conferma per il lavoro messo in campo in questi anni. Le attività sperimentate con lo Sportello lavoro e con lo Sportello multiservizi sono alla base dell’azione di rete ora riconosciuto con il contributo nazionale. La sfida è di far diventare sistema le azioni sperimentali attuate, in sinergia con gli interventi storici che hanno da decenni caratterizzato e definito il ruolo della Regione Piemonte in ambito penitenziario, a 50 anni dal ‘nuovo’ Ordinamento (legge 354/1975) che ha chiaramente indicato le responsabilità dei territori e delle istituzioni al fianco dell’Amministrazione penitenziaria per un’esecuzione penale costituzionalmente orientata”. Con i fondi governativi, la Regione persegue l’obiettivo di creare un sistema integrato di interventi e nuove sinergie e collaborazioni sui territori. Una parte delle risorse sarà impiegata per l’ampliamento e il miglioramento funzionale di spazi per le attività di formazione e inclusione socio-lavorativa, un’altra sarà investita sulla residenzialità assistita e temporanea. Per il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Delmastro, si tratta di un “un modello di reinserimento che può fare scuola. Poiché lavoro, formazione e inclusione abitativa sono i pilastri per ridare dignità e opportunità a chi ha sbagliato, ha espiato la pena e vuole ricostruirsi un futuro onesto”. La Regione Piemonte” sottolinea il vicepresidente della Regione Elena Chiorino “crede fermamente che la vera sicurezza passi anche dalla capacità di offrire opportunità di reinserimento sociale e lavorativo a chi ha pagato il proprio debito con la giustizia. Con questo progetto vogliamo dare strumenti concreti per ricominciare, puntando su formazione e orientamento”. I fondi per i penitenziari piemontesi sono stati disposti proprio alla vigilia dell’annuncio da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio di voler “sfoltire” il drammatico sovraffollamento delle carceri italiane a partire dagli oltre 10 mila ristretti idonei alle pene alternative alla detenzione. Per questi reclusi “definitivi” (con pena residua sotto i 24 mesi) - dopo un confronto con la magistratura di Sorveglianza, il Guardasigilli avrebbe considerato di mettere in atto le misure alternative alla detenzione previste dalla legge (arresti domiciliari, messa alla prova, semilibertà). Prato. Un’altra morte sospetta nel carcere col record di suicidi di Fulvio Fulvi Avvenire, 19 luglio 2025 La Procura indaga sul decesso, in cella, di un detenuto romeno di 58 anni. L’uomo, in buona salute, sarebbe uscito tra sette mesi. Nel 2024, alla Dogaia in sei si sono tolti la vita. Sulla “strana” morte di un detenuto romeno di 58 anni in una cella del reparto isolamento della Casa di reclusione della Dogaia di Prato, una delle più turbolente carceri d’Italia, la procura ha aperto un’inchiesta per omicidio. Il corpo senza vita del recluso, che stava scontando una sanzione disciplinare, è stato rinvenuto ieri mattina dagli agenti di polizia penitenziaria durante un normale controllo. All’interno della camera, come ha sottolineato lo stesso procuratore Luca Tescaroli in un comunicato, non sono stati trovati lacci, corde, lenzuola o altri strumenti che possano far pensare a un suicidio. D’altra parte, l’uomo, finito dentro per violenza sessuale, maltrattamenti, calunnia, minacce e lesioni personali, sarebbe uscito per fine pena fra sette mesi, il 27 febbraio 2026: gli era rimasto poco tempo da scontare dietro le sbarre, cosa l’avrebbe spinto a togliersi la vita? Inoltre, a quanto pare, godeva di una buona salute e l’ipotesi di un decesso per cause naturali appare agli inquirenti piuttosto improbabile. Sarà in ogni caso l’esame autoptico del medico legale, già disposto dal magistrato, a chiarire i molti dubbi che avvolgono questa morte. Si stanno esaminando anche i filmati dell’impianto di videosorveglianza interno. Nel 2024 sono stati 6 i suicidi registrati all’interno della struttura penitenziaria di Prato: in nessun altro istituto penale ne sono avvenuti così tanti in quei dodici mesi. Sempre qui, il 14 febbraio scorso, un detenuto marocchino di 32 anni ha deciso di uccidersi inalando gas dalla bomboletta del fornello. E il 5 luglio è scoppiata una rivolta (brandine e oggetti sono stati bruciati e scagliati contro i muri causando ingenti danni e feriti tra gli addetti alla sorveglianza) alla quale ha partecipato con delle armi rudimentali, lo stesso detenuto romeno sulla cui morte ora si indaga. “Il suo caso - precisa il procuratore Tescaroli - si inserisce in un contesto carcerario già fortemente critico” in un quadro di “preoccupante ricorso alla violenza” tra gruppi di detenuti e una “estrema facilità di movimento” anche tra le sezioni a maggiore restrizione come l’isolamento, e una continua infiltrazione di oggetti illeciti. Giovedì sera all’interno di una camera di sicurezza dell’ottava sezione sono stati sequestrati 5 grammi di hashish suddivisi in dieci dosi. “Dal 1° luglio 2024 ad oggi - aggiunge il magistrato - sono stati rinvenuti ben 44 telefoni cellulari, e altri risultano ancora nella disponibilità dei detenuti”. Durante una perquisizione, nel reparto di Alta Sicurezza, dove ci sono anche detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, sono stati trovati utensili costruiti artigianalmente come una lama affilata e tre cacciaviti. Alla Dogaia sono ristrette attualmente circa 600 persone su una capienza regolamentare di 589 posti: non c’è un tasso di sovraffollamento paragonabile a quelli di altre carceri italiane ma esistono un’alta percentuale di patologie psicologiche gravi e casi di tossicodipendenza (la metà della popolazione carceraria è sottoposta a terapie di tipo farmacologico o psichiatrico). Inoltre, come denunciano i sindacati di categoria, mancano in organico più di 70 agenti di polizia penitenziaria. Tra le vicende più clamorose registrate di recente nella prigione pratese, il video in diretta su un social di un detenuto con scambio di messaggi con follower e la scoperta, da parte delle forze dell’ordine, all’esterno dell’istituto, di un punto di stoccaggio della droga destinata ai carcerati. Nel carcere di Prato, inoltre, sono state ben 6 le evasioni negli ultimi dodici mesi. “Il sistema carcerario in Italia è allo sbando, è all’abbandono. L’unica ricetta che il ministro Nordio ha individuato è quello delle misure alternative che è come inventare l’acqua calda, erano già disponibili prima. La pratica dell’isolamento è devastante ed è oramai utilizzato con grande facilità quale strumento di gestione quasi ordinaria del carcere”, afferma la coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone, Susanna Marietti, commentando la morte del detenuto. “Situazione carceraria fuori controllo, a Prato come altrove”, osserva il segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria (Spp), Aldo Di Giacomo. A confermare l’emergenza dell’intero sistema penitenziario c’è anche la “violentissima aggressione”, avvenuta giovedì scorso, da parte di un detenuto in danno di un altro nella sezione “Giovani adulti” dell’istituto penale bolognese della Dozza: la vittima è stata ferita alla testa, alla schiena e a una mano con un’arma da taglio artigianale. A denunciare l’episodio è il Garante per i detenuti del capoluogo emiliano, Antonio Ianniello. Prato. Nel carcere delle violenze muore in cella il capo della rivolta di Luca Serranò La Repubblica, 19 luglio 2025 L’autopsia chiarirà le cause del decesso di un detenuto romeno di 58 anni. Alla Dogaia è l’ennesimo caso nel giro di pochi giorni. Lo scorso 5 luglio aveva guidato la rivolta nel carcere, insieme ad altri dieci detenuti. Ieri, nella cella di isolamento in cui era stato confinato in seguito alla protesta, l’hanno trovato morto nel suo letto. Una morte sospetta, secondo la procura, forse legata proprio al ruolo di vertice nelle dinamiche criminali della casa circondariale. Si indaga per omicidio volontario sul caso di Costel Scripcaru, 58 anni, cittadino romeno che stava scontando condanne per diversi reati (anche violenza sessuale) alla Dogaia di Prato; solo l’ultima tragedia nel carcere della città toscana, teatro dall’inizio dell’anno di una impressionante catena di violenze - compresa l’aggressione con olio bollente contro il killer delle escort Vasile Frumuzache - e dove solo poche settimane fa sono stati sequestrati decine di cellulari e ingenti quantità di stupefacente. L’uomo è stato soccorso ieri mattina dalla polizia penitenziaria e dal 118. In un primo momento si è pensato a un suicidio, ma sia l’ispezione nella cella (non c’erano lacci corde o farmaci) che l’esame del corpo hanno indirizzato gli inquirenti verso altre ipotesi: il detenuto aveva dimestichezza con le armi (durante la rivolta gli erano stati sequestrati dei coltelli costruiti in modo artigianale) e soprattutto faceva parte di uno dei gruppi più influenti tra i carcerati, motivo per cui non si esclude che fosse tra i bersagli di una banda rivale. Alcune testimonianze raccolte nelle ultime settimane dalla procura, inoltre, hanno confermato la libertà di movimento di alcuni carcerati, specie quelli di maggior spessore criminale, capaci di far arrivare intimidazioni e minacce anche ai reclusi in isolamento. Per le prime risposte, anche riguardo l’ipotesi ancora aperta di un malore per cause naturali, si attende ora l’autopsia: il procuratore di Prato Luca Tescaroli ha chiesto tra le altre cose di procedere con gli accertamenti tossicologici e di individuare eventuali lesioni interne (il primo esame non ha evidenziato segni di violenza). Decisive potrebbero essere anche le immagini delle telecamere puntate sui corridoi della sezione. Il detenuto, ha accertato la procura, era finito dietro le sbarre nel lontano 2013 e avrebbe finito di scontare le condanne nel prossimo febbraio. Il suo nome era particolarmente noto tra gli stessi operatori della Dogaia, non solo per la rivolta dello scorso 5 luglio ma anche per altre azioni commesse negli ultimi anni. Non solo. Il giorno prima della tragedia, aveva cercato di dare fuoco ad alcuni oggetti nella sua cella, forse per protestare contro l’isolamento. Una vicenda, la sua, che arriva proprio nel corso di una stagione di violenze e soprusi tra detenuti, compresi due casi di abusi sessuali affiorati proprio nei giorni scorsi grazie a una indagine della procura. Inevitabile la polemica politica: “Il sistema penitenziario è allo sfascio - attacca la senatrice Avs Ilaria Cucchi - Mentre un uomo viene trovato morto in una cella di isolamento nel carcere di Prato, il sottosegretario Delmastro si dice fiero del carcere duro. Un tempismo tragicamente perfetto. Una vergogna”. E ancora: “Parla di sicurezza nazionale ma ignora i morti dietro le sbarre, i suicidi, le condizioni disumane in cui vivono migliaia di detenuti. Si vanta di scanner e droni contro lo spaccio, ma non spende una parola su come sia possibile morire in isolamento, in una sezione che dovrebbe essere la più sorvegliata di tutte. E il ministro Nordio? - conclude Cucchi - Peggio ancora. Tace, preoccupato solo di “evadere” dalle sue responsabilità per aver scarcerato un torturatore e stupratore di bambini come Almasri”. Duro anche il deputato Pd Marco Furfaro: “La Dogaia è il simbolo di un sistema penitenziario al collasso. La morte di un detenuto è l’ennesimo fallimento di uno Stato che abbandona i suoi doveri costituzionali. Sovraffollamento, organici ridotti, assistenza sanitaria e psichiatrica assente, in queste condizioni il carcere non rieduca, non restituisce dignità”. Sulla stessa linea l’associazione Antigone, con la coordinatrice nazionale Susanna Marietti che parla di “carceri allo sbando” e di “isolamento usato come strumento ordinario di gestione”. Per poi aggiungere: “È assurdo che un detenuto possa essere ucciso proprio nel regime in cui dovrebbe essere maggiormente controllato”. Latina. Detenuto muore soffocato, avrebbe ingurgitato un pezzo di spugna del materasso di Bernardo Bassoli latinatu.it, 19 luglio 2025 Morto un detenuto lo scorso 16 luglio all’interno del carcere di Latina. Le cause della morte, ufficialmente, sono ascrivibili a un malore. “La morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato. Quello che è accaduto a Latina è un grido d’allarme che non può essere ignorato,” dichiara Massimo Costantino, Segretario Generale Fns Cisl Lazio. “Abbiamo bisogno di assunzioni straordinarie e di un piano serio per ridurre il sovraffollamento, anche utilizzando le misure alternative previste per chi ha pene residue inferiori ai due anni”. Secondo Costantino, la situazione attuale ostacola il percorso rieducativo dei detenuti. “Non possiamo permettere che le carceri diventino luoghi di abbandono e di tragedie annunciate”. Secondo una prima ricostruzione, il detenuto deceduta sulla cinquantina si trovava nella cella da solo da circa due settimane. Pare che l’uomo da giorni avesse dei raptus, tanto da spaccare con i denti i materassi. Una situazione al limite segnalata anche da altri detenuti agli agenti penitenziari. L’uomo sarebbe morto per soffocamento in quanto avrebbe ingurgitato una spugna. Una ricostruzione che, però, al momento, non trova conferme. Fatto che il detenuto è morto dopo aver esalato gli ultimi respiri. Vano l’intervento delle guardie carcerarie. Parma. Morto in carcere: un indagato per omicidio volontario di Paolo Marino Libertà, 19 luglio 2025 Svolta nelle indagini sulla fine del 27enne originario del Burkina Faso che era legato a Lugagnano. Svolta nelle indagini sulla morte di Adama Compaore, il 34enne originario del Burkina Faso - molto legato a Lugagnano, dove aveva familiari e amici - morto il 12 giugno scorso in un letto d’ospedale, dove era stato ricoverato dopo il trasporto d’urgenza dal carcere di Parma. Un uomo di 27 anni nato in Nigeria è indagato per omicidio volontario. Si tratta di un altro detenuto, anch’egli custodito nella casa circondariale di Parma. Potrebbe trattarsi di un compagno di cella, ma in merito gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Dopo l’autopsia eseguita il 16 giugno, la procura di Parma ha disposto nuovi accertamenti medico-legali, che saranno eseguiti martedì 22 luglio presso la sezione di Biologia dei carabinieri del Ris di Parma. “Abbiamo saputo che Adama è stato trovato da un compagno di cella che ha lanciato l’allarme - aveva spiegato alcuni giorni fa l’avvocata Michela Cucchetti, che segue il caso per conto dei familiari e degli amici di Adama -. Era a terra in bagno. L’autopsia dovrebbe dirci se le lesioni riscontrate sul capo sono compatibili con l’ipotesi di una caduta causata da un malore”. Gli esiti dell’autopsia, alla quale ha partecipato il medico legale Alberto Siclari in qualità di consulente di parte, avrebbero invece messo in dubbio la prima ricostruzione dell’accaduto e reso necessario un approfondimento. Adama era stato arrestato il 2 giugno per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale. Il giorno successivo era stato processato per direttissima, dopodiché era stata disposta la detenzione in carcere. Il ritrovamento in cella privo di conoscenza risale all’11 giugno. Dopo meno di ventiquattr’ore trascorso in condizioni disperate, il suo cuore aveva cessato di battere. Venezia. Agenti accusati di pestaggio su un detenuto: “Lesioni alla milza da verificare” di Giacomo Costa La Nuova Venezia, 19 luglio 2025 Il 23enne di origini rumene, residente a Mestre e incarcerato a Santa Maria Maggiore, si suicidò la vita subito dopo il trasferimento nel carcere di Verona. La difesa dei quattro agenti: il detenuto aveva avuto scontri con altri detenuti. Il sindacato: “Se hanno sbagliato pagheranno, ma è difficile gestire certi casi”. “La rottura della milza è avvenuta in due passaggi, come è stato evidenziato nel parere medico di parte che abbiamo già depositato. Prima si è verificato un ingrossamento e un conseguente indebolimento della membrana protettiva, poi l’effettiva lacerazione. Il fatto è che la prima condizione può essere asintomatica e derivare anche da problemi molto diversi, come ad esempio una prolungata tossicodipendenza; la rottura, poi, può avvenire in seguito a traumi di ogni tipo, e la vittima in questione si era già reso protagonista di scontri con altri detenuti, di litigi con le guardie, anche di episodi di autolesionismo. Chiediamo, insomma, che un medico legale stabilisca oltre ogni ragionevole dubbio che è stato proprio quello che è accaduto il 19 febbraio 2024 a segnare la ferita fatale, in caso contrario i nostri assistiti non possono esserne ritenuti responsabili”. L’avvocato Mauro Serpico, difensore di uno degli agenti di polizia penitenziaria finiti sotto accusa per il suicidio di un carcerato 23enne, spiega passo passo quali siano i dubbi su cui intende insistere assieme ai colleghi Francesco Paolo Simone Policorvo e Martina Pinciroli. La vicenda è quella su cui, lo scorso anno, avevano chiesto chiarimenti anche la responsabile della Giustizia del Pd, Debora Serracchiani, la sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e l’associazione per la tutela dei detenuti Antigone, anche costituitasi parte civile nella causa. Un 23enne di origini rumene, residente a Mestre e incarcerato a Santa Maria Maggiore per una rapina a Spinea, si era tolto la vita dopo il trasferimento al Montorio di Verona; in mezzo, le accuse di lesioni e falso per quattro agenti e un medico. Secondo il racconto fornito dal giovane alla madre tutto sarebbe nato dalla richiesta di telefonare a casa, negatagli. A quel punto il ragazzo ha dato fuoco ad alcuni giornali in cella, è stato prelevato e accompagnato in un corridoio; le telecamere riprendono la scena e lo inquadrano mentre cerca di scappare dagli agenti, che lo afferrano e lo portano a forza dentro una stanza. Il detenuto prova a liberarsi e sferra un pugno. Poi fuori cala il silenzio. Dentro la stanza, invece, secondo le accuse del pm Andrea Petroni avviene il pestaggio che causerà la rottura della milza. “Se gli agenti hanno sbagliato è giusto che paghino”, premette il segretario regionale Uilpa Massimo Zanetti, “Senza voler giustificare nessuno e in attesa che la magistratura dia le giuste risposte, è giusto evidenziare come le carceri siano diventati ambienti troppo complessi, dove sono costretti a convivere individui dai profili estremamente problematici. Le guardie non sono sanitari, ma servirebbe personale specializzato per gestire soggetti psichiatrici. A questo si aggiungono turni massacranti dovuti alla carenza di personale e condizioni di lavoro non adeguate. Serve una riforma del sistema carcerario, che manca da vent’anni”. Parma. “Mio padre va ai processi in ambulanza ma la richiesta dei domiciliari è stata respinta” di Christian Donelli parmatoday.it, 19 luglio 2025 La paradossale vicenda che riguarda un detenuto di 64 anni, da dieci nel carcere di via Burla a Parma, la testimonianza del figlio: “Ha diverse patologie, certificate dai medici del carcere, e gravi problemi di salute, che si sono aggravati in 15 anni di detenzione”. Ogni martedì va a trovare il padre di 64 anni, detenuto da circa dieci anni nel carcere di via Burla a Parma ma secondo quanto riportato nel documento che rigetta la richiesta degli arresti domiciliari - presentata proprio per il padre gravemente malato - risulta lui stesso “attualmente sottoposto alla misura della detenzione domiciliare”. È questo il paradosso che si è verificato nelle scorse settimane e che riguarda un detenuto del carcere di Parma con svariate patologie. Nel maggio del 2025 il figlio ha presentato, tramite il suo legale, la richiesta dei domiciliari per il padre a casa sua. L’istanza è motivata dal fatto che l’uomo si trova in gravi condizioni di salute e sostiene di aver subito un peggioramento delle condizioni di salute durante gli anni passati in carcere anche per “una massiva somministrazione di farmaci, tale da deteriorare gravemente le sue capacità cognitive”. “Nel documento c’è scritto che sono agli arresti domiciliari ma non è vero. Ogni settimana vado in carcere a Parma per i colloqui e lavoro” esordisce così il figlio, che affida la sua testimonianza a Parmatoday. “Tra l’altro il provvedimento di rigetto non è ancora stato notificato né a me né al mio avvocato”. “Abbiamo aspettato un anno per avere una risposta in merito alla richiesta di far entrare in carcere due nostri medici di fiducia per visitare mio padre, che ha diverse patologie e gravi problemi di salute. Hanno risposto richiedendo nuovamente la documentazione che avevamo già inviato. Dopo questo passaggio abbiamo provato ad agire tramite l’avvocato e attraverso la Garante dei diritti dei detenuti. La risposta, poi, è arrivata: hanno autorizzato l’ingresso di uno solo dei due medici che avevamo indicato”. L’istanza per la richiesta dei domiciliari è stata rigettata perché, secondo i magistrati, le sue condizioni di salute sarebbero compatibili con la detenzione in carcere e perché le varie patologie possono essere curate e gestite anche all’interno della struttura penitenziaria. “Gli stessi medici del carcere hanno verificato - sottolinea il figlio - che mio padre ha diversi problemi di salute. Ha le vertebre schiacciate, diversi polipi - per fortuna benigni - tra lo stomaco e il colon, l’acqua nelle ginocchia che periodicamente gli deve essere tolta. Ha anche i piedi deformi e non riesce a mettersi le scarpe. Mio padre è stato riconosciuto invalido civile ma non percepisce l’indennità. È costretto ad andare ai processi, sempre con l’accompagnamento dell’ambulanza. Nel corso degli anni di detenzione, in totale quindici, le sue condizioni di salute si sono costantemente aggravate”. Ancona. Celle piene di muffa, 5 detenuti in 10 mq: non possono stare in piedi tutti insieme di Claudio Desideri Il Resto del Carlino, 19 luglio 2025 Cinque in dieci metri quadri con tavolini, sedie, letti, tavoli e bagno. La visita di Garante, Osservatorio carceri, Camera penale e Magistratura. La situazione di sovraffollamento in cui versa la maggior parte degli istituti penitenziari italiani non lascia indenne il carcere anconetano di Montacuto visitato ieri da una folta delegazione dell’Osservatorio carceri UCPI, del CNF, della Camera Penale marchigiana, del Garante regionale dei detenuti, accademici e membri della Magistratura di sorveglianza. Al termine del sopralluogo si è tenuta una conferenza stampa cui sono intervenuti Giampaolo Catanzariti, Responsabile Osservatorio Carceri delle Camere penali italiane, Francesca Petruzzo, Presidente della Camera Penale di Ancona, Lina Caraceni, docente di diritto penitenziario all’Università di Macerata, Maria Brucale dell’Osservatorio Carceri UCP italiane, Simone Mancini dell’UCP Marche, Francesca Palma del Consiglio nazionale forense per le carceri, Luca Maggiora e Massimiliano Chioccolo della CP di Firenze. Dalla visita è emersa una situazione di altissima criticità, come ha evidenziato Catanzariti. A Montacuto si sono trovate celle con muffa e pareti sconnesse dove invece di quattro detenuti ve ne sono cinque in uno spazio di 10 mq, con letti, tavoli, sedie, bagno. Praticamente i reclusi non possono stare in piedi tutti insieme. Alcune celle hanno finestre che non possono aprirsi totalmente, perché incastrate dai letti a castello. La sofferenza si tocca con mano con un elevato numero di casi psichiatrici che non vengono trattati. “Un detenuto - dicono - è stato trovato nell’angolo di una cella di isolamento completamente vuota”. Il carcere anconetano ha una capienza massima di 256 detenuti e oggi ne ospita 338 con un totale di 700 detenuti che annualmente qui transitano da ad altri istituti. I detenuti hanno lamentato la mancanza di prodotti di pulizia e per la pulizia personale perché questi anche se lasciati dalle famiglie non vengono consegnati. La causa è la mancanza del personale contabile, addetto alla consegna dei pacchi e del denaro, due persone invece delle nove stabilite nell’organico. Un altro problema evidenziato è la mancanza di cure sanitarie e il conseguente ridimensionamento delle malattie. Molti degli ospiti non possono essere portati a curarsi perché il numero ridotto delle guardie non lo consente. Non mancano certo episodi autolesionisti. Mancano le guardie carcerarie sotto organico di 70 unità, quasi la metà del totale necessario. Guardie che non riescono a coprire le proprie trasferte e sono costrette a svolgere mansioni che non son di loro competenza come il supporto psicologico, l’aiuto sanitario, la spiegazione di cose incomprensibili come la impossibilità dei detenuti di comunicare telefonicamente con i propri cari perché “la linea telefonica non regge”. Nessuna lamentela per le guardie, tutt’altro, persone che cercano di svolgere il proprio lavoro con competenza e sacrificio nonostante le grandi difficoltà. Situazione opposta a Barcaglione definito “istituto capace di dare speranza per il reinserimento”. I detenuti lavorano tutti o dentro le mura o esternamente. Anche qui il problema del sovraffollamento con 122 ospiti contro i 90 stabiliti. I presenti alla conferenza hanno lamentato “la totale mancanza di interesse, per il problema carceri, da parte del Governo e del Ministro Nordio auspicando che Consiglieri regionali e Parlamentari vadano personalmente a vedere lo stato in cui si trovano gli istituti di pena, un vero dramma sociale”. Trento. “Il nuovo carcere di Spini di Gardolo è già sovraffollato, lo Stato rispetti i patti” di Paolo Piffer giornaletrentino.it, 19 luglio 2025 Il consigliere Civico chiede correttivi: “Serve una direzione duratura, che prenda in mano la gestione della struttura”. Il nuovo carcere di Spini di Gardolo, inaugurato nel febbraio del 2011, è costato alla Provincia 112,5 milioni di euro. Un carcere modello, di nuova concezione, se non fosse che, come sta evidenziando l’inchiesta del Trentino, è già sovraffollato e con meno personale rispetto a quanto necessario e previsto. Nonostante l’accordo di programma quadro tra Provincia e governo sia molto preciso al riguardo. Mattia Civico, consigliere provinciale del Pd, che di questo tema si occupa da tempo, non ci sta. “Oggettivamente - attacca - il sovraffollamento porta ad una vivibilità interna molto più ridotta. Riducendosi gli spazi la situazione in cui sono costretti a vivere i detenuti non è certo delle più facili. Ricordiamoci che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato l’Italia per le condizioni delle sue carceri”. Appunto, è una situazione generale... E perché? Perché la legge Giovanardi-Fini prevede che si finisca in carcere anche in attesa di giudizio e per reati legati alla piccola detenzione di stupefacenti. A Trento il 60% dei detenuti è dentro sulla base di queste due condizioni. Non è possibile. Quindi? È necessario cambiare la legge. E prevedere misure di recupero alla legalità diverse dalla detenzione, alternative al carcere. In galera ci deve stare chi ha commesso reati gravi ed è pericoloso per la società. Ma c’è anche un problema di rapporti Stato-Provincia. L’accordo prevede che i detenuti siano non più di 240. E ce ne sono quasi 300... La Provincia ha fatto un grosso investimento per garantire condizioni di vivibilità ai detenuti. Ed è innegabile che a tutto ciò non corrisponde il rispetto dell’accordo. Non c’è dubbio che la Provincia debba richiamare lo Stato a rispettare i patti. Seguendo quali strade? Ad esempio richiedendo con forza che ci sia una direzione definitiva. Dopo la rimozione, più di un anno fa, di Antonella Forgione, si sono succedute direzioni a scavalco e part time, prima dal Friuli, poi da Padova, adesso da Bolzano. In questo modo non c’è una regia complessiva che governa la struttura in tutti i suoi aspetti. Se la situazione di precarietà si protraesse, è a rischio la possibilità del recupero del detenuto? È un dettato costituzionale che la pena sia orientata al recupero. Se non ci sono progetti seri e il ricorso a misure alternative il rischio c’è. Ora il carcere di Trento è un luogo isolato con rapporti con l’esterno fragili e non strutturati. E la politica trentina che può fare? Non avere paura. Decidere che queste persone fanno parte della nostra comunità, che è necessario investire in percorsi di inserimento lavorativo e sociale. Perché, in questo modo, possiamo recuperare alla legalità molti individui ed evitare che tornino a delinquere. Concretamente... Istituire il garante dei detenuti, figura fondamentale per adottare buone pratiche di reintegro lavorativo e sociale. E poi passare dallo Stato alla Provincia la competenza socio-trattamentale. Il carcere non può essere una sorta di discarica umana di cui disinteressarsi. Milano. Don Burgio: “Al Beccaria 9 detenuti su 10 sono minori stranieri non accompagnati” di Ilaria Dioguardi vita.it, 19 luglio 2025 Un dato impressionante, ma che si ritrova anche nelle altre carceri minorili del Nord Italia, dice don Claudio Burgio, cappellano del Beccaria. “È cambiato il progetto migratorio, molti di questi ragazzi girano l’Europa in cerca di soldi, verosimilmente legati a una organizzazione. Altri dall’Ipm potrebbero anche uscire, ma mancano le comunità”. “Al Beccaria, in questo momento circa l’87% dei ragazzi presenti è costituito da minori stranieri non accompagnati, tra i 14 e i 17 anni”. A parlare è don Claudio Burgio, da vent’anni attivo nell’istituto penale per minorenni Cesare Beccaria di Milano, dove è diventato nel 2024 cappellano al posto di don Gino Rigoldi. Don Burgio è anche fondatore della comunità Kayrós. Quanti sono i minori stranieri non accompagnati - msna presenti in questo momento al Beccaria? In questo momento circa l’87% dei ragazzi presenti è costituito da minori stranieri non accompagnati, in gran parte egiziani, poi tunisini e marocchini. Tutti maschi, hanno un’età in alcuni casi anche bassa, dai 14 fino ai 17 anni. Sono molto frequenti gli atti di autolesionismo e hanno una maleducazione ormai atavica. Il problema è che i minori stranieri non accompagnati potrebbero anche uscire, ma mancano le comunità, che già sono in difficoltà e non riescono ad assorbire tutti i posti richiesti. Poi c’è anche una certa fatica ad accogliere i ragazzi minori stranieri non accompagnati, anche perché il loro progetto migratorio è ben diverso da quello del passato. Ci spieghi, perché è diverso? Prima arrivavano ragazzi che volevano formarsi, stabilirsi in Italia, andavano a scuola, poi andavano al lavoro e si inserivano. Oggi questi sono ragazzi che girano l’Europa in cerca di soldi, non hanno un’etica e di conseguenza, spesso diventano veri e propri predatori. Anche quando sono rimessi in libertà, difficilmente riescono a cambiare perché tornano spesso alle loro compagnie e anche, probabilmente, a un’organizzazione, almeno per quanto riguarda gli egiziani. Parliamo di molti furti, rapine significative. Don Claudio Burgio Ci ha detto che l’87% dei ragazzi al Beccaria sono msna: è una percentuale altissima… Sì, ma è un numero abbastanza in linea con tutte le carceri minorili del Nord. A Milano, Torino, Bologna ci sono moltissimi ragazzi stranieri soli. Mentre a Napoli, e nel Sud in generale, ci sono ragazzi per lo più italiani. Come mai? Perché tutti questi ragazzi cercano prevalentemente le grandi città, dove c’è la possibilità di guadagno, Milano in primis. Moltissimi minori stranieri arrivano in città e non accettano di essere collocati in comunità che non siano a Milano. Questo già fa capire che il loro intento è quello di rimanere qui e di continuare la loro progettualità un po’ predatoria. I minori stranieri non accompagnati spesso ritornano al Beccaria, dopo essere usciti? Dopo essere usciti, sì, moltissimi ritornano in carcere: anche due o tre volte. Alcuni si allontanano e vanno in altri Paesi europei, poi se vengono beccati in Francia, tornano in Italia o vanno in Spagna. Ci sono dei veri e propri giri tra questi Paesi, non so quanto estemporanei e legati all’impulsività dei ragazzi, che sono anche molto piccoli, oppure se dietro ci sia proprio un’organizzazione. Questo non lo so, però questo fenomeno di nomadismo in tutta Europa è evidentissimo. Nel dossier di Antigone sull’emergenza negli istituti penali per minorenni A un anno dal decreto Caivano (pubblicato il 2 ottobre 2024), si fa riferimento alla crescita dell’utilizzo degli psicofarmaci negli istituti penali per minorenni, affermando che al Beccaria si è registrato un aumento del 219% tra il 2020 e il 2022 nella somministrazione di psicofarmaci (dati Altroconsumo). Le risulta un uso massiccio degli psicofarmaci? Adesso su questo fronte si è più attenti, non è così massiccio questo tipo di somministrazione. Il dato fa riferimento al periodo tra il 2020 e il 2022, quando la situazione era diversa, anche a causa della pandemia. Molte volte gli psicofarmaci sono richiesti dai ragazzi stessi perché non riescono a dormire, perché hanno stati psico-emotivi molto forti. È vero però che al Beccaria gli atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Quindi è chiaro che sono richiesti soprattutto ansiolitici dai ragazzi. Mi risulta esserci una grande attenzione alla medicalizzazione che, secondo me, rimane un problema delle famiglie italiane in generale: c’è un ricorso eccessivo ai farmaci, come se il farmaco potesse lenire le angosce, quando invece - a volte - semplicemente le addormenta. Lei riesce un po’ a lenire le angosce di questi ragazzi stranieri non accompagnati? Cosa le chiedono? Nel mio caso, sanno che ho una comunità e, quindi, la richiesta continua ed estenuante, quotidiana da parte loro è quella di essere accolti nella mia comunità. Poi quando sono nella mia comunità, alcuni si impegnano, ce la fanno, altri rischiano e spesso tornano al Beccaria perché non hanno sviluppato una mentalità diversa da quella che li ha condotti in carcere precedentemente. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha di recente ribadito che tra le misure allo studio per ridurre il sovraffollamento, c’è la detenzione differenziata in comunità per i detenuti tossicodipendenti... Il problema delle comunità è che stanno chiudendo. Mancano gli operatori, mancano gli educatori, c’è una emergenza totale da questo punto di vista. Per cui la situazione è molto precaria, un po’ in tutta Italia, al Nord in modo particolare. Molti ragazzi, per esempio, vengono inviati in comunità, magari al Centro-Sud, ma poi da lì scappano puntualmente, soprattutto chi ha dei riferimenti parentali al Nord. Quindi, la situazione delle comunità potrebbe essere una risorsa, ma di fatto non incide perché le comunità sono in enorme difficoltà nella gestione di questi ragazzi. Ad aprile 2024 lei ci ha rilasciato un’intervista in occasione di una vicenda che vedeva coinvolti alcuni agenti della Polizia penitenziaria del Beccaria. Com’è la situazione ora? La situazione di emergenza è rientrata, grazie anche al lavoro sinergico tra direzione, sicurezza ed educatori. Probabilmente ci si è resi un po’ più esperti rispetto a questo tipo di ragazzi. Adesso le cose vanno decisamente meglio, dal mio punto di vista. C’è sempre un dirigente facente funzione, però la dottoressa Teresa Mazzotta, essendo di grande esperienza, è una donna molto capace. In questo momento c’è una sinergia forte tra le varie parti, tra lei e la nuova comandante, che già si è inserita e prenderà il comando ufficialmente nei mesi prossimi, e anche con gli operatori, gli educatori. È chiaro che le difficoltà ci sono. Le va di condividere con noi un momento particolarmente difficile, di questi 20 anni? Mi è capitato di recente. Un giorno mi sono ritrovato a camminare nel sangue, in una sezione. Questa è una cosa che in tanti anni non avevo mai provato e mi ha colpito, dopo 20 anni che sono al Beccaria. Era immediatamente dopo un episodio in cui un ragazzo si era tagliato le gambe, era un momento di forte stress da parte dei ragazzi e, inevitabilmente, da parte di tutto l’ambiente. Ci siamo quasi abituati a questo tipo di situazioni. Ma l’approccio, il modo, il metodo sembrano dare qualche risultato e c’è una situazione più quieta rispetto a un po’ di tempo fa. Certamente in estate, mancano spesso presìdi, per cui le attività sono sporadiche e i ragazzi passano molte ore in cella, al caldo, quindi è chiaro che qualche momento di intemperanza c’è, però non paragonabile a quello degli anni scorsi. Secondo i dati del Dipartimento giustizia minorile e di comunità del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2024 al Beccaria c’era un sovraffollamento del 146,67%, con 66 ragazzi presenti a fronte di 45 posti disponibili. L’istituto è sempre molto sovraffollato? Sì, questo è un fenomeno unico. In Italia, per la prima volta, le carceri minorili sono in sovraffollamento, non era mai successo in tutta la storia repubblicana, è un dato che preoccupa. Sarà l’esito dei decreti legge, sarà questa ondata migratoria molto intensa. Oggi al Beccaria ci sono quasi 80 ragazzi, è chiaro che anche il sovraffollamento mette in difficoltà tutto l’ambiente. A breve il Beccaria avrà un imam, Abdullah Tchina, 58 anni, già imam della comunità islamica di Sesto San Giovanni. È il primo Ipm in Italia ad avere un imam... Sì, collaboreremo insieme, inizierà a settembre. Ha già fatto visita all’istituto, è stato accolto bene dai ragazzi e da tutto il personale. Ravenna. Due detenuti per ogni cella e pochi agenti di polizia penitenziaria di Andrea Alberizia ravennaedintorni.it, 19 luglio 2025 La struttura è attiva dal 1909 e ha una capienza di 49 persone, gli stranieri sono un terzo Numerose attività di rieducazione. Ispezione Ausl: temperature a 30 gradi e muffa sui muri. Il carcere di Ravenna, aperto nel 1909, è strutturato per ospitare al massimo 49 detenuti, ma ormai da anni sono stabilmente una ottantina (negli ultimi dodici mesi sono stati tra 68 e 87). Nell’edificio oggi sono in servizio 64 agenti di polizia penitenziaria, ma la pianta organica ne prevede una quindicina in più. L’ultimo suicidio all’interno risale al 2023. Sono i numeri principali che fotografano la struttura in via Port’Aurea. Che per la precisione è una casa circondariale e non carcere: cioè ospita detenuti con pene fino a 5 anni o in attesa di giudizio. L’associazione Antigone, realtà indipendente che non riceve fondi dai governi, dal 1991 promuove azioni concrete e campagne culturali per garantire diritti e garanzie nel sistema penale e penitenziario e ogni anno visita le carceri italiane. L’ultima visita a Port’Aurea risale a settembre 2024, ma rispetto allo scenario di quel momento, per quanto riguarda le questioni fondamentali, non ci sono stati cambiamenti di rilievo. Il giudizio espresso nella relazione finale fu positivo: “L’istituto è storicamente caratterizzato da una forte vocazione trattamentale: molte sono infatti le attività formative, culturali, ricreative proposte, pur a fronte della carenza di spazi adeguati. Il clima generale appare buono. Positivo l’incremento dei funzionari giuridico pedagogici, in tutto 4. Permane invece la carenza di medici”. Quel giorno erano presenti 80 persone ristrette: 40 in attesa di primo giudizio, 30 condannate in via definitiva, un appellante, un ricorrente e due con posizione mista. Gli stranieri erano il 55 percento, in media il dato è leggermente più basso. Carlo Storace è il vicecomandante del reparto della Polpen a Port’Aurea dove lavora da 36 anni. L’abbiamo ascoltato in veste di delegato provinciale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). “La carenza di organico è il problema principale che dobbiamo gestire. Ci troviamo a dover svolgere turni da 8 ore e non da 6 come dovrebbe essere e spesso un agente deve coprire due postazioni”. Le nuove assunzioni a livello centrale non sono mancate, ma sono state assegnate altrove: “Di solito per la distribuzione di nuovo personale si tiene conto delle situazioni più critiche. Ravenna è un carcere piccolo con un buon clima di collaborazione, dove i casi di disordini sono rari e questo porta il ministero a preferire altre strutture per i rinforzi”. Nuove forze servirebbero anche per abbassare l’età media: “Oggi siamo sui 48-50 anni, ma ci sono mansioni che possono diventare pesanti. Per esempio il turno di guardia armata sul muro di cinta da fare all’aperto portando l’arma è impegnativo”. Le presenze superano la capienza, ma Storace aggiunge un paio di dettagli per leggere meglio i numeri. Prima di tutto gli spazi: “In passato siamo arrivati ad avere 170 detenuti e lì davvero eravamo costretti a far dormire le persone su materassi a terra nelle celle. Oggi non sono più di due per ogni camera detentiva che sono da 9 mq e rispettano le indicazioni della sentenza Torreggiani del 2013: almeno 3 mq per detenuto”. E poi in due sezioni su tre le porte delle celle sono aperte dalle 8.30 alle 18.45: “I detenuti possono muoversi nella sezione per momenti di condivisione e sono molte le attività a disposizione per impegnare il tempo. Diciamo che la cella diventa solo lo spazio per dormire la notte”. Dare ai detenuti le possibilità per occupare le ore del giorno è lo strumento migliore, secondo il sindacalista, non solo per favorire la riabilitazione ma anche per agevolare la serenità del clima: “Ci sono corsi di mosaico, di teatro, di pizzeria, di pasticceria, di restauro. Se la persona trova qualcosa che lo stimola è più raro che nascano rivalità, gruppi ostili e tensioni”. Il personale dell’Igiene pubblica dell’Ausl ha compiuto un sopralluogo nell’edificio nell’agosto del 2024. Tra le segnalazioni nel verbale vennero riportate le temperature rilevate in alcune celle e nel corridoio: 29-30 gradi, ma in molte camere di detenzione era disponibile un ventilatore. Storace prova a circoscrivere il problema: “L’edificio è molto vecchio, i muri di grande spessore aiutano a contrastare il caldo e le sezioni vengono arieggiate. All’ultimo piano può capitare che dove batte il sole ci sia qualche situazione più pesante”. L’ispezione Ausl aveva segnalato anche la presenza di umidità e muffa in alcuni ambienti. Storace era presente durante quella visita: “Il problema riguarda i locali delle docce che sono in ogni piano, 4 docce per ogni 20-25 detenuti. Anche cercando di tenere arieggiati gli spazi, l’umidità resta e i muri ne risentono. La tinteggiatura viene fatta di frequente ma non basta per eliminare il problema”. Così tanti anni di servizi tra le celle fanno di Storace anche un osservatore in grado di riflettere sui cambiamenti della popolazione carceraria: “Oggi il mondo entra in carcere. Cioè sono tante le realtà, come associazioni di volontariato o di altra natura, che vengono a fare attività dentro la struttura. Questo è un bene e fa anche sì che eventuali situazioni critiche diventino note più in fretta. Questo però ha generato anche un atteggiamento diverso nel detenuto che vede comportamenti scorretti da parte delle istituzioni anche quando invece è solo problematica burocratica”. L’esempio del delegato Sappe è per le telefonate ai parenti: “Soprattutto per gli stranieri, non è facile accertare che il numero da chiamare sia davvero di un familiare e che risponda lui. Servono verifiche che allungano i tempi e al detenuto può sembrare che venga ostacolato”. Oristano. Carcere di Massama, il lavoro dei sanitari dalla parte degli “ultimi” asl5oristano.it, 19 luglio 2025 L’istituto penitenziario, che ospita circa 220 detenuti, può contare oggi su un team sanitario, organizzato dalla Asl 5 di Oristano e composto da una dirigente sanitaria e sei medici che garantiscono l’assistenza di base, più uno psichiatra, uno psicologo, diversi specialisti otto infermieri e due operatori socio-sanitari. All’interno anche la videointervista al giovane medico, che lavora in carcere. “Ho scelto questo lavoro perché sono affezionato agli ultimi”. Sono le parole di uno dei medici che lavorano nel carcere di massima sicurezza di Massama. L’istituto penitenziario, che ospita circa 220 detenuti, può contare oggi su un team sanitario, organizzato dalla Asl 5 di Oristano e composto da una dirigente sanitaria e sei medici - due dei quali si alternano nell’assicurare i turni diurni dalle 8.00 alle 20.00, e i restanti a coprire i notturni, dalle 20.00 alle 8.00 del giorno successivo -, più uno psichiatra, uno psicologo, diversi specialisti (tra cui un chirurgo, un diabetologo, un endocrinologo e un cardiologo), otto infermieri e due operatori socio-sanitari. Ogni giorno vengono visitati in media 30 pazienti: ogni detenuto ha la possibilità di richiedere la visita durante il giro che gli infermieri fanno la mattina presto. I professionisti dell’area sanitaria sono impegnati nel garantire l’assistenza pressoché h 24 all’interno della struttura, dove sono presenti anche strumentazioni diagnostiche come l’ecografo e l’elettrocardiografo, mentre nei casi più gravi ed urgenti vengono disposti i trasferimenti protetti in ospedale o nelle strutture sanitarie del territorio. La dirigente sanitaria - Arrivata a Massama circa sette anni fa dopo un percorso ospedaliero, da allora si occupa a tempo pieno dei pazienti reclusi. “È un’esperienza forte perché ci si trova a contatto con una realtà difficilmente immaginabile dall’esterno, ma che arricchisce professionalmente e umanamente - spiega la dirigente - . Purtroppo la carenza di medici si registra anche qui, ma attualmente un piccolo gruppo di giovani colleghi sta facendo l’esperienza del lavoro in carcere e stiamo formando un bel team di lavoro”. Il medico - “Si tratta di una realtà in cui cerchiamo di assicurare il maggior numero di prestazioni possibile all’interno del carcere, perché disporre visite e controlli all’esterno è particolarmente complesso dal punto di vista organizzativo - spiega il medico -. Per questo, ci troviamo ad affrontare una varietà estrema di patologie, da quelle croniche, come le cardiopatie o il diabete, a quelle che rientrano nella sfera psichiatrica, che hanno un’incidenza particolarmente elevata”. Il bilancio del giovane medico, che per la prima volta a febbraio ha visto chiudersi il portone del carcere dietro le sue spalle, è oggi estremamente positivo: “Quando sono entrato per la prima volta, non nascondo di aver avuto un certo timore nell’affrontare questa realtà - spiega il medico -. Oggi questo timore si è completamente dissolto. Si è creato un rapporto di fiducia con i detenuti, che sanno di trovare in me e nei colleghi un punto di riferimento per ciò che riguarda i loro problemi di salute, sono consapevoli che siamo lì per aiutarli a stare meglio in una condizione che è, oggettivamente, difficile, essendo privati della libertà. Io - aggiunge il medico - dall’altra parte vedo semplicemente un essere umano. Per scelta, non voglio sapere quali reati i detenuti hanno commesso, perché questo potrebbe influenzarmi: per me sono semplicemente dei pazienti”. Quanto alla sicurezza, il medico smonta i luoghi comuni che dipingono il carcere come un luogo pericoloso per chi ci lavora: “Devo dire - aggiunge il professionista - che in tutti questi mesi non ho mai subito minacce o aggressioni e che, paradossalmente, il penitenziario mi sembra un ambiente di lavoro più sicuro rispetto a un punto di guardia medica o a un Pronto Soccorso, dove purtroppo si registrano spesso episodi di violenza ai danni degli operatori sanitari”. “Penso che l’esperienza della medicina penitenziaria sia preziosa per un giovane medico, sia dal punto di vista professionale che umano - chiarisce -. Professionale, perché vediamo una estrema varietà di patologie che difficilmente demandiamo all’esterno: è una grande palestra. Umano, perché impariamo ad andare oltre i pregiudizi, a vedere non persone che hanno sbagliato, ma esseri umani che hanno bisogno di essere curati, qualunque sia la loro identità e il loro passato”. Brescia. Mandela’s rule day, i detenuti: “Non perdete l’umanità” di Paola Gregorio Giornale di Brescia, 19 luglio 2025 Nel pomeriggio la manifestazione organizzata da “Carcere e territorio” e patrocinata dalla Loggia per la giornata dedicata a Nelson Mandela. “Abbiamo perso la libertà, ma voi non perdete l’umanità”: è uno dei messaggi scritti sui cartelloni in largo Formentone realizzati dai detenuti di Canton Mombello e Verziano che si sono interrogati su come portare nel mondo esterno il loro vissuto. L’occasione è la manifestazione organizzata da “Carcere e territorio” e patrocinata dalla Loggia per il “Mandela’s rule day”, la giornata dedicata a Nelson Mandela per promuovere i diritti dei detenuti e far conoscere alla comunità le regole internazionali sulla detenzione e sul giusto trattamento dei detenuti approvate dalle Nazioni Unite. Sono chiamate “Mandela rules” in onore delle battaglie contro l’apartheid e per i diritti umani del primo presidente sudafricano non bianco. “Purtroppo le condizioni di vita nelle carceri italiane sono drammatiche e limitanti per i diritti umani, in particolare nei mesi estivi, e non solo per il sovraffollamento”, dice Luisa Ravagnani, già Garante dei detenuti di Brescia e ora in rappresentanza di “Carcere e territorio” riferendosi alla situazione nel Nerio Fischione. “Tutti gli studi criminologici - dice - dimostrano che non c’è correlazione tra la pena più dura e riduzione della recidiva. Le idee di questo Governo sono molto lontane da una giustizia giusta per chi sconta la pena, per le vittime e per la comunità. Se si aumentano le tipologie di reati avremo sempre istituti sovraffollati. Invece bisognerebbe utilizzare i percorsi alternativi alla pena, quando è possibile”. Arianna Carminati, nuova Garante dei detenuti di Brescia: “I diritti umani dentro il carcere non devono arretrare - ribadisce. Gli ultimi provvedimenti governativi cozzano contro il principio che il carcere deve essere anche rieducazione”. “Come Comune - conclude il presidente del Consiglio comunale, Roberto Rossini - possiamo lavorare per creare la comunità attorno al carcere che non deve essere realtà separata dalla città”. Modena. Storie di vita tra i fornelli e le sbarre di Enrico Ronchetti voce.it, 19 luglio 2025 Il Laboratorio Gastronomico Sant’Anna è un progetto della cooperativa sociale Eortè con il quale i detenuti del carcere di Modena vengono coinvolti in un percorso di inclusione e riscatto attraverso la cucina. Le loro produzioni artigianali finiscono infatti al Mercato Contadino di Carpi ogni sabato mattina. Utilizzando materie prime locali, a cominciare dalle verdure coltivate nell’orto del carcere, ogni settimana il laboratorio produce in media 120-130 chili di pasta fresca ripiena (tortellini, tortelloni, tortelli e tortellacci) e 150 chili di prodotti secchi da forno, dolci e salati (biscotti, grissini, streghette). A guidarne la realizzazione c’è il cuoco carpigiano Nicola Bertoncelli. Nicola, che esperienza è quella nel carcere? “Credo si possa definire l’Esperienza xon la E maiuscola. Da ogni punto di vista, è l’esperienza più complessa, articolata ed emotivamente intensa che io abbia mai vissuto, perché coinvolge profondamente tutti gli aspetti della vita: professionale, emotiva, educativa e relazionale. La dimensione professionale riguarda il prodotto; quella emotiva, le storie, le esperienze e le personalità con cui mi confronto ogni giorno; educativa, perché mi trovo spesso a dover trasmettere consigli, ma anche a gestire comportamenti, atteggiamenti e attitudini. Per fortuna sono riuscito a non crearmi aspettative: ho iniziato questa esperienza con l’attitudine giusta, pronto ad accogliere tutto ciò che sarebbe arrivato”. segue Come è nata questa sua collaborazione con Eortè? “La mia collaborazione con la Coop Eortè è nata nel modo migliore possibile: tramite il passaparola della rete amicale. Un’amica mi ha parlato del progetto e ho contattato la responsabile il giorno stesso. È un progetto molto impegnativo, che mi assorbe per almeno 38 ore settimanali. Questo non mi lascia molto tempo libero. L’unica attività che ho voluto comunque mantenere è quella da volontario presso il circolo Arcobaleno di Santacroce. Insieme a Ilaria Facchini, che si occupa della parte organizzativa, gestisco il laboratorio in autonomia ma con il supporto della cooperativa Eorte’ con la quale il confronto e’ costante e cerchiamo i trovare sempre soluzioni e opportunità nuove per sviluppare questo progetto. Ora, ad esempio, stiamo cercando una figura di aiuto cuoco… anzi, se qualcuno fosse interessato...”. Com’è la sua giornata tipo all’interno del carcere? “Comincia con una buona dose di pazienza: il carcere ha un suo ritmo e bisogna saperlo assecondare. Si parte con un caffè al bar interno, dove spesso incontro il personale sanitario, pedagogico e altri con cui collaboro per il laboratorio. Dopo due controlli e il passaggio al metal detector (non è possibile portare all’interno cellulari, smartwatch, ecc.), attendo che mi aprano le porte. Le aperture sono tutte comandate da agenti nelle postazioni blindate. Entro nel complesso principale, affronto un ulteriore controllo per ritirare le chiavi della cucina, supero altre tre porte... e finalmente posso aprire il laboratorio. L’inizio è sempre un’incognita: dopo i saluti, cerco di capire l’umore del gruppo, stimolarli e/o semplicemente ascoltarli. Poi tiriamo la pasta e iniziamo a chiu dere tortellini... e tutto si trasforma. Il laboratorio diventa uno spazio sicuro, dove ci si può aprire, parlare senza doversi guardare attorno. A volte si chiacchiera di calcio, altre volte si rimane in silenzio anche per ore. Poi, magari, qualcuno tira fuori Temptation Island e si ride commentando le varie avventure. Alle 13 i ragazzi rientrano in sezione per il pranzo, mentre io porto all’esterno i prodotti confezionati, che vengono ritirati da un nostro collaboratore e stoccati nel nostro piccolo magazzino. Il pomeriggio riprendiamo alle 14 fino alle 17”. In questo contesto, ha creato rapporti con le persone all’interno? “I rapporti con il personale penitenziario ed educativo sono fondamentali: ogni attività (l’ingresso di materiali, attrezzature o persone, ecc.) deve essere autorizzata e supervisionata dagli agenti, che ci permettono di lavorare in sicurezza. Inoltre, ogni detenuto è seguito da una psicologa e da un’educatrice, con cui mi confronto spesso, sia per monitorare il loro percorso, sia - come accaduto di recente - per chiedere di proporci alcuni candidati in vista dell’amplia mento del nostro staff. Stiamo infatti cercando il quarto futuro pastaio”. Come affrontano questa avventura i detenuti? “I ragazzi, alcuni dei quali miei colleghi dato che la cooperativa li ha assunti, affrontano il laboratorio con grande dedizione e costanza, perché ne percepiscono i benefici su più livelli: professionalmente, perché stanno imparando un mestiere che può offrire loro opportunità concrete e stabilità; emotivamente, perché trascorrono la giornata in un luogo accogliente, sereno, dove si sentono ascoltati, valorizzati e “visti”. Stanno facendo del loro meglio, e noi cerchiamo di sostenerli in ogni modo. Due di loro hanno già esperienze in cucina, mentre gli altri non avevano mai visto un tortellino nemmeno in foto. Eppure, in pochi mesi, hanno sviluppato doti manuali sorprendenti, migliorandosi di settimana in settimana”. La situazione del carcere di Modena è così drammatica per sovraffollamento come si racconta all’esterno? “Che il carcere sia sovraffollato è un dato di fatto e purtroppo non è l’unico in queste condizioni. La gestione ne risente inevitabilmente, così come le condizioni strutturali, che riflettono l’età dell’edificio: tutto questo rende complesso lavorare. Lo noto anche nei turni massacranti che, a volte, il personale penitenziario è costretto a coprire. E poi c’è il dato drammatico dei suicidi...”. segue Quanto pensa sia importante portare questo tipo di attività, che danno uno sguardo verso la vita all’esterno, alle persone che vivono il carcere? “Credo che queste attività siano fondamentali, perché senza una prospettiva e una possibilità si diventa invisibili. Durante un recente convegno sul carcere si sottolineava come attività di questo tipo abbattano drasticamente il rischio di recidiva. Servono anche a riavvicinare noi cittadini a una parte di società che per troppo tempo abbiamo ignorato, o peggio, dimenticato”. I detenuti le hanno mai detto che vorrebbero intraprendere un percorso nella cucina una volta usciti? “L’interesse per la cucina, qualcuno lo sta scoprendo e coltivando... chissà”. Eortè è convinta del beneficio che la formazione può portare all’interno di ambienti marginali, trasformando i tempi morti della detenzione in competenza lavorativa, crescita personale e autostima. Il Laboratorio Gastrononico Sant’Anna gode del patrocinio del Comune di Modena, è co-finanziato dall’arcidiocesi di Modena-Nonantola, Bper, Fondazione Cattolica Assicurazioni, Fondazione di Modena, Cassa Ammende, Fonda zione Bsgsp ed è un progetto aperto a collaborazioni di welfare aziendale e responsabilità sociale d’impresa. Cagliari. Al carcere di Uta l’arte colorata di Manu Invisible trasforma la sala d’attesa in un luogo a misura di bambino sassarinotizie.com, 19 luglio 2025 La Casa circondariale di Uta si apre all’arte per trasformare uno dei suoi spazi più delicati e carichi di emozioni: la sala d’attesa destinata ai visitatori. Grazie all’intervento dello street artist Manu Invisible, questo “non-luogo”, dove familiari e, in particolare, i figli minorenni attendono i controlli prima di incontrare i detenuti, ha assunto un volto nuovo, più accogliente e a misura di bambino. Lo spazio è stato presentato alla stampa questa mattina alla presenza di Pietro Borruto, direttore della Casa circondariale di Uta, Manu Invisible, Elenia Carrus, responsabile del progetto Liberi dentro per crescere fuori (e rappresentante della coop Elan, capofila) e Ugo Bressanello per Exmè & Affini. L’opera artistica è parte integrante di “Liberi dentro per crescere fuori”, l’ambizioso progetto selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo primario di questa specifica azione è chiaro: rendere l’ambiente della sala d’attesa più sereno e meno opprimente, specialmente per i minori che si apprestano a vivere l’incontro con un genitore recluso. L’arte diventa così uno strumento per lenire l’ansia e offrire un’atmosfera più confortevole in un contesto intrinsecamente difficile: “Le diverse forme di arte consentono a ognuno di noi di esprime al meglio la nostra personalità. Questo avviene a maggior ragione con i più piccoli che in un ambiente colorato e accogliente, a dispetto del luogo in cui si trovano, hanno l’opportunità di riallacciare e fortificare il legame col genitore sottoposto a regime carcerario in questa fase transitoria che va dalla detenzione alla libertà. I progetti come questo molto importanti per l’attuazione del principio fondamentale della rieducazione” spiega il direttore dell’istituto penitenziario Pietro Borruto. L’intervento di Manu Invisible, curato dal partner Exmè & Affini Onlus, ha sovvertito l’assunto generale per cui tra le mura di un carcere vige la costrizione. Con la tecnica degli stencil ha creato una serie di messaggi che aprono alla concessione: concesse emozioni, concesso giocare in quest’area, concesse effusioni, concesso accarezzarsi, concesso mangiare, concedere il contatto: “Capovolgere il messaggio è l’essenza della street art e questo lavoro è pienamente coerente con ciò che porto avanti ormai da anni”, chiarisce l’artista. “L’uso del colore, in questo contesto, diventa una forma di gioia tangibile, un modo per infondere calore e speranza in un ambiente che altrimenti potrebbe risultare opprimente. E questa attenzione minuziosa, questa cura nel creare un luogo accogliente e dignitoso per i più piccoli, è la più pura forma di rispetto verso di loro e verso le loro famiglie, riconoscendo il loro bisogno di normalità e serenità anche in circostanze difficili”, sottolinea Ugo Bressanello per Exmé & Affini Onlus. Questo intervento non è un gesto isolato, ma un tassello visibile di un impegno più ampio per contrastare la povertà educativa minorile e abbattere stigmi e pregiudizi legati alla detenzione: “Il progetto “Liberi dentro per crescere fuori” nasce con una visione più ampia e profonda: promuovere un sano processo di crescita e di integrazione sociale dei figli minori di genitori detenuti. L’iniziativa mira a potenziare il legame affettivo tra i bambini e i loro genitori, attraverso l’attivazione di un sistema integrato di interventi personalizzati e multidimensionali di supporto al nucleo familiare” conclude Elenia Carrus, responsabile di “Liberi dentro per crescere fuori” per conto della cooperativa Elan, capofila del progetto. Trasformando un ambiente anonimo e spesso carico di tensione in uno spazio vibrante di colori e forme, si offre un segnale concreto di attenzione e cura per i più piccoli, che sono le prime vittime silenziose delle conseguenze della detenzione di un genitore. L’arte, in questo contesto, diventa un veicolo di speranza e un catalizzatore per un cambiamento culturale che mira a mettere al centro il benessere e la crescita armonica dei bambini, anche in situazioni di estrema fragilità. “Liberi dentro per crescere fuori” è frutto della collaborazione tra diverse realtà del territorio: le cooperative sociali cagliaritane Elan (capofila), Exmè & Affini, Casa delle Stelle, Panta Rei Sardegna e Solidarietà Consorzio, insieme alla Casa circondariale di Uta, all’Ufficio di esecuzione penale esterna della Sardegna (Uiepe), al Comune di Cagliari e alle associazioni Prohairesis e Aragorn S.r.l. Dal diritto alla forza, il mosaico dell’impunità nelle istituzioni totali di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 19 luglio 2025 Sembra un mosaico in accurata composizione, tassello dopo tassello per rafforzare il potere di chi lo esercita e silenziare la voce di chi lo subisce. Nelle carceri italiane, il tasso di sovraffollamento ha superato il 133 per cento nel giugno 2025: Milano San Vittore ha raggiunto il 220 per cento, Foggia il 212. Secondo il ministero della giustizia, tra gennaio e giugno si sono registrati trentasei suicidi, cui si sommano i novantuno del 2024, triste record assoluto nella storia penitenziaria. È il segno di un sistema al collasso, dove i corpi diventano esuberi amministrativi e la dignità si riduce a statistica. Di fronte a tutto ciò, l’istituzione deputata a garantire trasparenza nei luoghi di privazione della libertà è oggi muta. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, istituito a seguito della sentenza Torreggiani nel 2013, è attualmente presieduto da Riccardo Turrini Vita: magistrato e dirigente di lungo corso del ministero della giustizia, con una carriera soprattutto nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Turrini Vita è stato nominato nell’ottobre 2024 su proposta del ministro Nordio, con delibera del consiglio dei ministri, affiancato da Irma Conti e Mario Serio. Tuttavia, la relazione annuale al parlamento non è ancora stata presentata dall’attuale collegio, anzi l’ultima risale addirittura al 2023 (sotto la gestione di Mauro Palma). Il garante non effettua inoltre ispezioni non annunciate ed è stato segnalato da avvocati e associazioni come difficilmente raggiungibile dai detenuti, i quali inviano istanze e comunicazioni senza ricevere risposta. A giugno 2025 Michele Passione, storico legale del garante, e le avvocate Maria Brucale, Antonella Calcaterra e Giovanni Rossi, psichiatra e membro esperto, hanno lasciato il loro incarico. La decisione è maturata, da parte di tutti, di fronte a un contesto sempre più impermeabile all’ascolto e al confronto. Passione ha motivato così la sua scelta, in una dichiarazione pubblica: “Se non entri nei luoghi della detenzione, se non guardi, non puoi nemmeno vedere cosa sta succedendo. Io mandavo report, segnalavo, ma nessuno rispondeva. Quando il garante smette di ascoltare, è finita”. Sempre Passione ha rilevato come, dall’inizio del mandato, l’attuale garante “non abbia mai effettuato visite nei centri per migranti in Albania, né svolto alcun monitoraggio dei voli di rimpatrio”. Per quanto riguarda le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture che ospitano persone sottoposte a misure detentive per motivi psichiatrici, risulta che nel primo semestre del 2025 sia stata effettuata soltanto una visita ufficiale, il 30 gennaio, a Rieti. Un dato che lascia perplessi sulla continuità e sull’effettiva incisività dell’attività di monitoraggio in luoghi tanto delicati. Anche il governo, intanto, posizionava i suoi tasselli. Il Decreto sicurezza (Dl?48/2025), convertito in legge il 9 giugno 2025, prevede all’articolo 22 un fondo per coprire le spese legali degli agenti di polizia penitenziaria e delle forze dell’ordine indagati per atti commessi durante il servizio. Il rimborso può arrivare fino a diecimila euro per ciascuna fase del procedimento penale, comprese le indagini preliminari: un vero e proprio scudo legale a favore degli imputati pubblici ufficiali. Contestualmente, il decreto introduce il reato di “rivolta carceraria”, estendendo la resistenza passiva (incluse la battitura delle sbarre e lo sciopero della fame) a una fattispecie punibile con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Si aggiungono aggravanti per le manifestazioni “dentro e fuori le stazioni ferroviarie e della metropolitana”, una nuova disciplina sulla detenzione di materiale “propedeutico al terrorismo” punita con reclusione da due a sei anni anche in assenza di reati collegati, e restrizioni all’accesso a misure alternative per le detenute madri. La Corte di Cassazione, nella Relazione n.?33/2025 (23 giugno 2025), ha mosso critiche durissime al provvedimento. Ha rilevato l’assenza dei presupposti di necessità e urgenza per il ricorso al decreto legge, denunciandone l’eterogeneità, l’approccio repressivo e la vocazione simbolica, definendolo una forma di “ipertrofia penalistica” che rischia di criminalizzare anche le proteste non violente. Secondo la Suprema Corte, il decreto non solo punisce l’intenzione più che l’atto, ma compromette anche l’equilibrio tra accusa e difesa, il principio di proporzionalità, il divieto di trattamenti inumani o degradanti, e il diritto alla libera manifestazione del pensiero. Pochi giorni dopo, il 25 giugno 2025, Matteo Salvini ha annunciato in conferenza stampa alla Camera l’intenzione di proporre una modifica dell’articolo 613 bis del Codice Penale, che disciplina il reato di tortura, introdotto con la legge 110/2017 dopo la condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani per i fatti del G8 di Genova, in particolare per le violenze alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto. Salvini ha dichiarato che il reato di tortura dovrebbe essere modificato per permettere alla polizia penitenziaria di svolgere il proprio lavoro senza rischiare accuse ingiustificate. Ha sottolineato che gli agenti penitenziari sono spesso etichettati come “aguzzini e torturatori” senza motivo. Se Mario Serio, componente del collegio del garante nazionale, ha dichiarato che “il garante continuerà a costituirsi in giudizio contro le forze di polizia accusate di maltrattamenti e tortura”, Michele Passione, a cui è stato richiesto un commento sul punto, ha precisato: “Quanto alla volontà dichiarata di proseguire nell’attività processuale del garante, a oggi non posso affermare con certezza che siano stati nominati nuovi avvocati. Posso solo rilevare che, dopo la mia rinuncia, ho continuato a ricevere notifiche dalle autorità giudiziarie presso le quali ero parte civile. Sembrerebbe quindi che non sia stata ancora depositata una nuova nomina: per legge, infatti, il difensore della parte civile è domiciliatario. Alle date in cui ho ricevuto le notifiche, quindi, un nuovo difensore non era stato probabilmente nominato”. Il 6 aprile 2020, a Santa Maria Capua Vetere, telecamere interne all’istituto riprendevano un vero e proprio raid punitivo condotto da quasi trecento agenti penitenziari. Durante questo raid cento settantasette detenuti furono pestati, insultati, denudati e umiliati. L’inchiesta ha indagato su centoventi persone e portato all’emissione di cinquantadue misure cautelari, ma l’attenzione pubblica si è velocemente dissolta. A Foggia, l’11 agosto 2023, dieci agenti aggredivano e picchiavano due detenuti per oltre mezz’ora: uno di loro soffriva di una grave patologia psichiatrica. L’indagine, supportata da video e testimonianze interne, ha portato a quattordici ordinanze cautelari nel marzo 2024. Nel 2025, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per tortura, concussione e falsità ideologica, evidenziando coperture sanitarie e tentativi di insabbiamento. Non si tratta di episodi isolati. A San Gimignano, il 9 marzo 2023, il Tribunale di Siena ha condannato cinque agenti della polizia penitenziaria a pene tra cinque anni e dieci mesi e i sei anni e sei mesi per tortura, falso e minaccia aggravata. I fatti risalivano all’ottobre 2018, quando un detenuto tunisino era stato brutalmente pestato. La sentenza ha riconosciuto non solo la violenza sproporzionata, ma anche il tentativo sistematico di copertura dell’accaduto. La Corte d’Appello di Firenze ha successivamente confermato tutte le condanne, sebbene cinque imputati abbiano ricevuto uno sconto di pena. Ancora - ma si potrebbe andare avanti a lungo - nel febbraio 2025 il Gup di Reggio Emilia ha condannato dieci agenti di polizia penitenziaria per il pestaggio di un detenuto tunisino avvenuto il 3 aprile 2023 nel carcere della Pulce. In quel caso il reato di tortura non è stato riconosciuto, e le condanne per abuso di autorità, lesioni e falso ideologico sono variate da quattro mesi a due anni (nonostante ciò, l’impianto accusatorio ha mostrato pratiche di violenza istituzionale reiterata, perseguibili solo grazie alla legge 110/2017, oggi sotto attacco). Alla violenza fisica si accompagna una crescente medicalizzazione della custodia. Il XXI Rapporto di Antigone (Senza Respiro, presentato il 29 maggio 2025) ha rilevato che il quarantaquattro per cento dei detenuti assume sedativi o ipnotici, mentre il venti per cento fa uso di stabilizzanti dell’umore, antidepressivi o antipsicotici, spesso in assenza di una diagnosi psichiatrica formale. Il fenomeno è particolarmente allarmante nelle carceri minorili, dove il consumo di psicofarmaci è aumentato drasticamente (del sessantaquattro per cento all’istituto di Torino e del trecento cinquantadue per cento a Nisida, rispetto al 2022) Nei reparti per l’”osservazione psichiatrica” sono state documentate prassi come l’isolamento prolungato per settimane, la sedazione forzata e la contenzione meccanica. Secondo le linee guida delle Nazioni Unite e le raccomandazioni del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt), tali pratiche possono configurare trattamenti inumani o degradanti. In istituti come Poggioreale e Vigevano il Cpt ha segnalato la totale assenza di monitoraggio esterno, l’uso di farmaci senza consenso informato e gravi lacune nella documentazione degli episodi di contenzione, compromettendo ogni forma di trasparenza e tutela. L’approccio segregativo e le pratiche di tortura si estendono sempre più anche all’esterno dei luoghi carcerari “tradizionali”. Da gennaio 2025 l’Italia ha avviato i primi trasferimenti di migranti irregolari nei Cpr albanesi costruiti a Shëngjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale del 6 novembre 2023. Queste strutture, gestite con appalti diretti e contratti blindati, sono collocate fuori dal territorio nazionale: secondo la narrazione governativa, ciò le escluderebbe dalla giurisdizione italiana. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.?23105 del 20 giugno 2025, ha stabilito che i centri albanesi sono “formalmente e sostanzialmente sottratti alle garanzie giurisdizionali italiane”, in violazione della Direttiva 2008/115/CE e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La Suprema Corte ha inoltre sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affermando che il trattenimento nei Cpr albanesi rappresenta “una forma di detenzione extragiudiziale in territorio straniero, priva delle tutele minime previste dal diritto europeo”. Secondo quanto riportato dall’Asgi, nei primi sei mesi del 2025 oltre centoventicinque migranti sono stati trasferiti nei Cpr albanesi di Shengjin e Gjader, nell’ambito dell’accordo bilaterale siglato tra Italia e Albania. Diverse autorità giudiziarie italiane, tra cui i giudici di pace di Roma, Bologna e Catania, hanno successivamente disposto il rilascio immediato di alcuni richiedenti asilo, ritenendo il trattenimento “giuridicamente nullo” per l’assenza di tutele legali e giurisdizionali. Il 3 luglio 2025 la Corte Costituzionale (con la sentenza n.?96/2025) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della disciplina del trattenimento nei Cpr, per violazione dell’articolo?13 della Costituzione. La Consulta ha rilevato che la privazione della libertà personale nei centri per il rimpatrio avviene sulla base di una norma, l’articolo ?14, comma?2 del Testo Unico Immigrazione, che non definisce con sufficiente precisione i modi del trattenimento, rinviando a fonti secondarie e a prassi amministrative, in violazione della riserva assoluta di legge in materia di libertà personale. La Corte ha inoltre sottolineato che l’attuale disciplina non garantisce un controllo giurisdizionale effettivo e continuo, come imposto dall’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che tutela ogni persona da forme di detenzione amministrativa arbitrarie. In assenza di una normativa primaria che disciplini condizioni, durata e modalità del trattenimento, questo si configura come un assoggettamento fisico all’altrui potere, potenzialmente lesivo della libertà personale e privo delle necessarie garanzie di legge. Sono state inoltre sollevate (anche se dichiarate inammissibili) questioni relative alla violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, in particolare per la mancata effettività del diritto alla difesa, l’assenza di informazioni chiare sui diritti del trattenuto e le difficoltà nell’accesso a un avvocato e nel ricorso contro il trattenimento. La Corte ha ritenuto inoltre non scrutinabili le questioni relative alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, che denunciavano una disparità di trattamento rispetto al regime carcerario ordinario. Nel merito, va sottolineato, non ha fornito una disciplina sostitutiva, ma ha rivolto un preciso monito al legislatore: in mancanza di un intervento normativo che regolamenti in modo chiaro il trattenimento nei Cpr quanto a modalità, durata, condizioni materiali e garanzie giurisdizionali, la misura risulta costituzionalmente inammissibile. È chiaro, tuttavia, che un intervento meramente giurisdizionale non può essere sufficiente davanti a un mosaico che si compone e ricompone di continuo. Un garante che non parla, una legge che protegge chi picchia, un decreto che finanzia la difesa degli imputati in divisa, una riforma che sterilizza il reato di tortura, una giurisdizione che si dissolve verso strutture extraterritoriali: tutto è coerente con l’obiettivo di silenziare la denuncia, ridurre al minimo le garanzie, garantire l’impunità e normalizzare l’eccezione. È il passaggio dalla giustizia alla gestione, dal diritto alla forza, e non è solo una crisi: è una precisa scelta politica. Di fronte a un sistema che si regge sulla paura e sull’opacità, il rischio non riguarda solo i detenuti, i migranti o i marginali: è un rischio per tutti, e per gli equilibri democratici generali, perché quando il potere si protegge dalla legge e non con la legge, la libertà smette di essere un principio, e diventa un privilegio. *Yairaiha Ets Siamo andati sulla strada per capire i ragazzi: “I maranza? Non esistono” di Marco Birolini Avvenire, 19 luglio 2025 “Maranza? È una parola che non dice nulla”. Vista dalla strada, è solo un’etichetta appiccicata su una scatola vuota, dove puoi metterci dentro tutti e nessuno. Le Giovani Onde, gli educatori del Consorzio Solco arruolati dal Comune di Bergamo per intercettare i gruppi di giovani (tra cui tanti nordafricani) che fluttuano tra i quartieri cittadini, lo spiegano senza tanti fronzoli: “Nessuno si riconosce in quella definizione - spiega la coordinatrice Arianna Boroni. E se anche qualcuno si descrive così, lo fa per sfida. In strada esiste una grande pluralità, è difficile e anche inutile stabilire delle categorie”. Se si vuole tentare di comprendere gli under 18, senza ridurli a “problema” o portatori di disagio, il primo passo è proprio andare oltre luoghi comuni e stereotipi. “Solo così si apre la via all’incontro e al dialogo” spiega Riccardo, uno degli educatori, mentre cammina per il quartiere di Loreto, dove ultimamente si sono registrati alcuni episodi di microcriminalità. Pochi giorni fa il parroco ha chiesto un incontro con le Giovani Onde e la polizia locale, preoccupato dalle intemperanze che sfiorano anche l’oratorio. Il metodo è quello già sperimentato da 5 anni in altri quartieri della città: osservare, capire, cercare soluzioni. E soprattutto mediare tra adolescenti e mondo adulto, che spesso guarda ai primi come se fossero fastidiosi alieni. “E invece sono solo ragazzi alle prese con le problematiche della loro età, cui si aggiunge l’incertezza sulle proprie radici. Molti non si sentono né italiani né stranieri, e questo li disorienta ulteriormente - osserva Marzia Marchesi, assessore alle politiche giovanili - Le regole non si discutono, ma poi occorre andare oltre, dare loro l’opportunità di farsi notare senza bisogno di fare gli spacconi”. Le Giovani Onde portano nei luoghi di ritrovo momenti informali e creativi che aiutano a esprimere doti più o meno nascoste. Gli educatori si fermano per suonare i bonghi, tracciare un graffito, improvvisare una performance. Eventi portati quasi per caso, come messaggi in bottiglia dalla marea. I ragazzi raccolgono l’invito, partecipano, si impegnano. È nato anche un podcast che raccoglie le tante voci della strada. “Finalmente ci vedete” disse una adolescente all’assessora durante lo spettacolo organizzato mesi fa davanti alla stazione ferroviaria, crocevia da sempre critico. Accorgersi di loro, ecco quello che chiedono. “Ci avviciniamo e ci presentiamo - aggiunge Riccardo - senza forzare il contatto né occupare il loro spazio. Due battute, qualche sorriso, soprattutto niente prediche. Al massimo qualche consiglio”. Mentre gli educatori sostano su una panchina, dal passaggio del Filatoio - punto di transito e ritrovo dei giovani nomadi urbani - sbuca un gruppetto di vispi 14enni. Avvistano Riccardo e il compagno Dennis (le Onde si muovono sempre a coppia), si sbracciano e ridacchiano. Uno sfoggia la maglia del Marocco, con il nome di Ziyech, talento ribelle passato da Ajax e Chelsea. Arrivano e stringono le mani, uno mostra l’occhiale stravagante con orgoglio (“L’ho pagato solo 5 euro, bello no?”), si fermano a chiacchierare. “Come mai non siete al Centro estivo dell’oratorio?” chiede Dennis. “Avevano già chiuso le iscrizioni…” rispondono. Dopo qualche minuto gli educatori salutano e se ne vanno, fedeli alla linea dell’approccio “soft”. Si va verso il centro, mentre Dennis racconta i rischi della dimensione social. “Il cyberbullismo ultimamente si è attenuato, semmai occorre fare attenzione ai trend che rilanciano le challenge, ovvero sfide spesso goliardiche che però a volte degenerano in spirali pericolose. Sono fenomeni rapidi, che raccolgono “like” e trovano tanti emulatori in poco tempo”. Davanti al Triangolo, enorme caseggiato a due passi dal centro, ci si incontra con Nando e Samuele, le altre due “Onde” in servizio, che indicano l’ultimo piano del parcheggio. “Sul finire dell’emergenza Covid alcuni gruppi salivano lassù per cimentarsi nelle battle (sfide di danza o a suon di rap, ndr), è stato uno dei primi interventi delle Giovani Onde. Il progetto era nato per gestire i ritrovi spontanei in cui non si osservava il distanziamento, da lì è proseguito in altre situazioni che richiedevano osservazione e proposte di intervento”. Come alle piscine Italcementi tra 2023 e 2024, quando ci furono tensioni innescate da comitive di giovani nordafricani, tra piccoli furti e provocazioni. “Si creò un muro contro muro con la vigilanza che peggiorava le cose. In mezzo ci siamo inseriti noi, dando spazio alle ragioni degli uni e degli altri. Il nervosismo si è abbassato, anche perché poi abbiamo proposto momenti di aggregazione che hanno contributo a creare un clima più sereno”. L’opera di mediazione degli educatori è apprezzata anche dalla polizia locale, che li interpella spesso per “decifrare” comportamenti e situazioni. “Gli sceriffi non servono, meglio la prevenzione - sottolinea l’assessora Marchesi - all’inizio agenti e Onde si parlavano poco, adesso sono complementari. Ma la via è questa: bisogna collaborare perché nessuno risolve le cose da solo. Anche il Comune fa rete con scuole, oratori e associazioni culturali: solo il lavoro collettivo facilita l’integrazione”. Possibilmente sul campo, senza grandi piani calati dall’alto. “Sulla strada certe situazioni le vedi da vicino, le senti, le annusi. Impari a sporcarti le mani e questo ti aiuta a comprendere” riflette Samuele. “Sei un osservatore “in” strada”, e non “di” strada. Sei nel mezzo, non fuori o al di sopra - aggiunge Nando - Solo così puoi sperare di capire i ragazzi”. Migranti. Cpr, rischio paralisi se i giudici sollevano questioni di costituzionalità su “larga scala” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2025 L’Ufficio del Massimario della Cassazione fa il punto sulle conseguenze della decisione n. 96/2025 della Consulta negando il potere di disapplicazione delle Corte di appello. C’è il rischio che una valanga di nuove eccezioni di costituzionalità blocchi il sistema dei CPR. A lanciare l’allarme è l’Ufficio del Massimario della Cassazione, che nella Relazione n. 65/2025 analizza le conseguenze della sentenza n. 96 della Corte costituzionale, e nega alle Corti di appello il potere di disapplicare direttamente le norme sui trattenimenti degli stranieri. Di fronte ad una “incostituzionalità accertata ma non dichiarata” dalla Consulta, infatti, i giudici investiti dell’istanza di convalida, potrebbero sollevare nuovamente (come è possibile in questi casi), e “su larga scala”, la questione di legittimità costituzionale con conseguente sospensione del giudizio a quo e le “inevitabili conseguenze sulla condizione della persona del cui trattenimento si discute”. La Corte costituzionale pur avendo individuato un vulnus per la libertà dei migranti, nella assenza di una normazione primaria nella definizione dei “modi” con cui si svolge il “trattenimento” (affidato a fonti regolamentari), ha poi dichiarato l’inammissibilità della questione per l’impossibilità di rimediare, non rinvenendosi nell’ordinamento una soluzione adeguata. La Cassazione prende invece le distanze dalla lettura fatta propria da alcune corti di Appello, e parte della dottrina, secondo cui sarebbe possibile procedere direttamente alla disapplicazione della normativa di fonte secondaria. Così facendo, affermano i giudici, si “rischia di creare un corto circuito nel sistema, finendo per risolversi in una sorta di controllo diffuso di costituzionalità”. Se è vero, argomenta il “Massimario”, che la Consulta ha affermato la “inadeguatezza” della normativa primaria rispetto ai requisiti richiesti dall’art. 13 Costituzione, che richiede che siano in essa disciplinati “i casi” e “i modi” delle altre restrizioni della libertà personale; al contempo, “non ha parlato di una totale assenza della disciplina”, anzi ha più volte chiarito che i “casi” di trattenimento sono disciplinati e ha evidenziato come la disciplina dei “modi” del trattenimento sia affidata “pressoché esclusivamente a fonti subordinate ad atti amministrativi”, con ciò - argomentano l’Ufficio - implicitamente ammettendo che una parte, sia pure lacunosa, si rinviene nella fonte primaria. E allora, continua la Relazione, “sembra coerente concludere che esiste una disciplina di carattere primario della materia dei trattenimenti, sia pure inadeguata e non satisfattiva della riserva di legge assoluta rinforzata fissata dall’art. 13 Cost.”. Ne deriva che questa disciplina - pur lacunosa e manchevole e, per questo, “ritenuta” costituzionalmente illegittima dalla Consulta - continua a esistere nell’ordinamento e, fino a che non venga “dichiarata costituzionalmente illegittima” con una sentenza di accoglimento delle relative questioni, deve essere applicata dal giudice. La Relazione ricorda che le Corti di Appello di Roma, Genova, Sassari (Cagliari) hanno rigettato alcune istanze di convalida del trattenimento, ma in base a motivazioni ulteriori o parallele, come: lo stato di salute e la vulnerabilità dello straniero non valutati correttamente; l’inesistenza dei presupposti di pericolosità sociale o rischio di fuga. In queste decisioni, tuttavia, hanno sempre richiamato la sentenza n. 96/2025 parlando di “considerazioni che non possono essere eluse dal giudice chiamato a decidere sulle convalide di intrattenimento e sulle relative proroghe”. Ed affermando (Sassari) che “non può che riespandersi il diritto alla libertà personale, il cui vulnus è chiaramente espresso dalla Consulta”. Mentre per Roma e Genova la pronuncia, se lascia intatta la disciplina vigente, “deve trovare ad oggi un riscontro anche in sede di convalida del trattenimento, dovendosi evitare lesioni di diritti fondamentali”. Ma come visto la Cassazione ha bocciato tali letture troppo avanzate ricordando che “allo stato, in attesa dell’intervento del legislatore, al fine di assicurare tutela ai diritti fondamentali delle persone trattenute, è sicuramente possibile per i soggetti trattenuti fare ricorso agli strumenti cautelari atipici ex art. 700 c.p.c.”. A cui si affianca la tutela, di carattere riparatorio e compensativo, offerta dal generale principio del neminem laedere, prevista dall’art. 2043 c.c. Si, tratta, conclude la Cassazione, di un “apparato di strumenti che non rappresenta una forma di tutela pienamente satisfattiva rispetto al vulnus ravvisato, restando, quindi, ferma la necessità dell’intervento del legislatore per porre rimedio alla ravvisata situazione di violazione dei valori costituzionali. Pur tuttavia, sono strumenti già previsti dall’ordinamento che possono apprestare una minima tutela ai diritti in gioco”. Oltre, come detto, alla possibilità di sollevare nuovamente la questione di costituzionalità. La palla ora è nel campo del Legislatore chiamato a colmare il vulnus. In caso contrario la Consulta potrebbe, prendendo atto dell’inerzia del Parlamento, assumere direttamente una decisione. Migranti. Open Arms, la rabbia di Salvini dopo il ricorso dei pm di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 19 luglio 2025 “Qualche pm evidentemente non si rassegna”. Matteo Salvini è torvo. Il ricorso della Procura di Palermo contro la sua assoluzione nel processo per i fatti della nave Open Arms non era affatto inatteso: “I miei avvocati si aspettavano la mossa della Procura”. Il vicepremier ha appreso la notizia mentre era “in viaggio da Palermo a Milano, me l’ha riferita Giulia Bongiorno che ringrazio sempre per la straordinaria vicinanza umana oltre che per la nota professionalità”. Salvini ammette però di non averla presa bene: “Onestamente, la mia prima reazione è stata un mix di stupore e di rabbia. Incazzatura, anche”. Il leader leghista si ferma prima di riprendere, di getto e in crescendo: “Ma come? Come è possibile? Dopo quattro anni di processo? Dopo decine di testimonianze che hanno portato all’assoluzione, si rischia di ricominciare tutto da capo?”. La Procura ha fatto un ricorso per saltum, direttamente in Corte di Cassazione senza passare dall’istanza di appello. Significa che i pm di Palermo non ritengono di aver bisogno di portare nuovi elementi in secondo grado, ma confidano che il giudizio di legittimità della Cassazione possa già riformare la sentenza di assoluzione. Salvini scuote vistosamente la testa: “La mia assoluzione è contenuta in 268 pagine. Pagine solide e impeccabili”. Anzi, Salvini s’interrompe per ringraziare di questo “il tribunale di Palermo che ha studiato in modo approfondito tutti gli atti” di un lungo processo. Nato da fatti dell’agosto 2019, quando Salvini era ministro dell’Interno. E chiuso in prima istanza nel dicembre dello scorso anno: “Anni di lavoro, appunto. Decine e decine di udienze. E ora, daccapo”. La Cassazione potrebbe infatti decidere che sia necessario un nuovo processo. Nella vicenda, Salvini comunque non vuole leggere un ennesimo capitolo della pluridecennale guerra tra politici e magistrati: “I magistrati politicizzati e di sinistra sono ormai una esigua, anche se discretamente rumorosa, minoranza”. Il vicepremier non vuole pensare che il ricorso si leghi “alla riforma della giustizia che stiamo portando avanti. Che non è contro i giudici e i magistrati, ma cerca di togliere spazio alle correnti”. Il fondatore dell’ong catalana Open Arms, Oscar Camps, si è dimostrato ottimista sul fatto che la Cassazione possa rimettere in discussione l’assoluzione di Salvini: “I fatti sono stati ampiamente ricostruiti in primo grado, abbiamo piena fiducia nel lavoro della Procura”. Il ministro dei Trasporti pare punto sul vivo: “Camps fa una battaglia politica contro di me, ma sulla pelle delle persone”. Salvini accenna a cercare qualcosa sul telefonino: “Lo ha dimostrato anche un video, festeggiava urlando di aver fatto cadere il sottoscritto, e chi se ne frega se aveva messo a rischio centinaia di vite rifiutando altri porti e altri sbarchi”. Un nuovo scuotimento del capo: “E questa sarebbe “solidarietà”?”. Le virgolette intorno alla parola solidarietà sono tutte nel tono. Di certo, Salvini ha ricevuto la solidarietà di tutto il centrodestra, a partire da Giorgia Meloni che ha fatto un post su Instagram per definire “surreale” l’accanimento della Procura. E dal “Forza Matteo!” della sorella della premier, Arianna. Tutte attestazioni che hanno fatto “molto piacere” al vicepremier, che aggiunge qualche parola anche sul suo successore al Viminale, Matteo Piantedosi, che si è dichiarato “coimputabile” nel processo Open Arms. All’epoca dei fatti guidava la macchina del ministero dell’Interno: “Piantedosi è un amico e un ottimo ministro, come è stato un ottimo capo di gabinetto al Viminale. Lo stimo e lo ringrazio”. Mentre le ire di Salvini, oggi come ieri, sono rivolte alle opposizioni: “Il processo è iniziato per il voto della sinistra in Parlamento”. E in particolare, del Movimento Cinque Stelle che - nonostante all’epoca dei fatti fosse alleato della Lega - ha votato per l’autorizzazione a procedere che ha avviato il processo: “Per me coerenza, lealtà, onestà e coraggio non sono solo parole, sono una condotta di vita. Invece loro hanno cambiato idea solo perché avevo tolto la fiducia a Conte”. Migranti. La suprema Corte e il precedente della Diciotti di Luca Masera* Il Manifesto, 19 luglio 2025 La sentenza del Tribunale di Palermo appare giuridicamente molto debole, e il ricorso della Procura era scontato, oltre che doveroso. Se non fosse ormai scontato l’attacco ai magistrati che prendono posizioni non gradite alla maggioranza, ci sarebbe da stupirsi delle durissime reazioni di diversi esponenti di Governo nei confronti del ricorso della Procura di Palermo contro l’assoluzione del ministro Matteo Salvini. La sentenza del Tribunale di Palermo appare giuridicamente molto debole, e il ricorso della Procura era scontato, oltre che doveroso. L’assoluzione è motivata da un unico argomento di diritto, che non ha nulla a che vedere con il dovere di tutelare la sicurezza delle frontiere, evocato anche nelle ultime dichiarazioni di Salvini e Piantedosi. Il Tribunale ritiene che, secondo la normativa internazionale in materia di soccorsi in mare, non fosse ragionevolmente certo che il ministro dell’Interno avesse il dovere di fare sbarcare in Italia i naufraghi-migranti trattenuti sulla Open Arms. Si tratterebbe di una normativa farraginosa e poco adatta a regolare situazioni come quella oggetto del processo, rispetto alla quale non sarebbe ricavabile in termini inequivoci il dovere giuridico di consentire lo sbarco in Italia e, in mancanza di un sicuro obbligo giuridico, verrebbe meno il presupposto fondamentale per configurare la responsabilità a titolo omissivo contestata al ministro. Si tratta di un argomento molto fragile, anzitutto perché la Cassazione civile, a Sezioni unite, ha già affermato il contrario. Ci riferiamo alla decisione, passata quasi sotto silenzio, con cui nel marzo di quest’anno la Cassazione ha annullato la pronuncia della Corte d’appello di Roma che aveva respinto la richiesta di risarcimento del danno avanzata da alcuni tra gli stranieri trattenuti dal ministro Salvini sulla nave Diciotti nell’agosto 2018. In sede penale il processo richiesto dal Tribunale dei ministri di Catania era stato impedito dal rifiuto del Senato di concedere l’autorizzazione a procedere, ma in sede civile la Cassazione ha detto a chiare lettere che il rifiuto del ministro di concedere lo sbarco aveva provocato una illegittima privazione di libertà dei naufraghi (che hanno per questo diritto a ottenere dallo Stato il risarcimento del danno), stabilendo la sussistenza di un ben preciso obbligo giuridico del Viminale di consentire la conclusione delle operazioni di soccorso e lo sbarco dei migranti. La Cassazione, quindi, ha già stabilito che la pratica dei “porti chiusi” nel 2018 e 2019, con il trattenimento dei naufraghi sulle navi soccorritrici, era illegittima perché contraria alla normativa sui soccorsi in mare. Il Tribunale di Palermo neppure si confronta con tale decisione, e ritiene che la circostanza che la nave battesse bandiera spagnola e il soccorso fosse stato operato in zona Sar maltese esonerasse le autorità italiane dal dovere di concedere lo sbarco, anche se la nave si trovava ormai a pochi metri da Lampedusa e le difficili condizioni igienico-sanitarie a bordo rendevano concretamente impossibile che l’Open Arms iniziasse un viaggio verso le coste spagnole o maltesi. Una conclusione che correttamente la Procura contesta, essendoci diverse norme di diritto internazionale che impongono agli Stati obblighi di cooperazione in materia di soccorsi in mare e che, in caso di mancato intervento degli altri Stati obbligati, pongono il dovere di sbarco in capo allo Stato che può offrire un luogo sicuro ai soccorsi. La Procura di Palermo, con una scelta inusuale ma condivisibile considerate le peculiarità del caso, ha deciso di proporre ricorso per saltum, cioè ha deciso di non impugnare la sentenza davanti alla Corte d’appello, ma di interrogare direttamente la Cassazione, trattandosi di una questione di diritto, il fatto storico risultando accertato dal Tribunale in termini conformi all’imputazione. Vedremo dunque se la Cassazione penale confermerà i principi di diritto affermati dalla Cassazione civile, ma non ci pare in effetti che ci siano ragioni per cui dovrebbe discostarsene. La strategia di trattenere per giorni i soccorsi prima di concedere lo sbarco non aveva nulla a che vedere con la legittima tutela delle frontiere, ma era una pratica odiosa e inumana, oltre che inutile (tanto che non è più stata praticata, né viene praticata dall’attuale governo che pure la difende), che violava una pluralità di norme in tema di diritto del mare e di tutela dei diritti fondamentali. Sostenere che, di fronte a una sentenza di assoluzione così motivata, la Procura avrebbe dovuto rinunciare a fare ricorso significa richiedere un atteggiamento di supina e acritica acquiescenza della magistratura ai desiderata governativi: visto il clima, non c’è da stupirsi. *Ordinario di diritto penale presso l’Università di Brescia Migranti. “Più rimpatri, anche in Siria e Afghanistan” Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2025 La stretta di Germania, Francia e altri quattro Paesi Ue. Il ministro degli Interni tedesco, Alexander Dobrindt, ha riunito gli omologhi di Austria, Danimarca, Francia, Repubblica Ceca e Polonia: “Nel nostro Paese non esiste alcun diritto di soggiorno per i criminali gravi”. “Oggi sappiamo che con tutta evidenza in questo ambito non ce l’abbiamo fatta, come lei intendeva allora”, ha detto il cancelliere tedesco Friedrich Merz a proposito della frase dell’ex cancelliera Angela Merkel che nel 2015, nel pieno della crisi migratoria, coniò il celebre slogan “ce la facciamo” ma anche “andrà tutto bene” (Wir schaffen das). A segnare la svolta arriva anche l’iniziativa che vede la Germania unirsi alla Francia e ad altri quattro Paesi Ue in una dichiarazione congiunta per una stretta sul diritto d’asilo e in particolare sui rimpatri degli irregolari. “C’è la volontà comune di ridurre l’immigrazione di rifugiati in Europa. L’intenzione è quella di inviare un segnale visibile di unità, solidarietà e impegno comune”, ha detto il ministro degli Interni tedesco, Alexander Dobrindt, al fianco degli omologhi di Austria, Danimarca, Francia, Repubblica Ceca e Polonia. Intenzioni messe nero su bianco durante un incontro sullo Zugspitze, in Baviera, al quale ha preso parte anche il Commissario europeo per gli Affari Interni Magnus Brunner. L’attenzione è rivolta a espulsioni sistematiche, anche verso Siria e Afghanistan, a una migliore protezione delle frontiere esterne dell’Ue e a un maggior numero di ammissioni di richiedenti asilo respinti da parte di Stati extra-Ue. Dobrindt ha sottolineato la “linea comune” che lui e i suoi interlocutori avrebbero perseguito in materia di politica migratoria. L’esito delle consultazioni è stato “un segnale visibile di unità, visibilità e impegno condiviso”. La Germania non è più “un freno” in Europa sulla migrazione ma è la forza trainante, ha assicurato Dobrindt, aggiungendo che “vogliamo procedure di asilo più rapide; non vogliamo più tripli controlli”. “I rimpatri effettivi sono un prerequisito essenziale per la fiducia in una politica migratoria europea equilibrata”, si legge nella dichiarazione congiunta. Questi devono essere “possibili”, affermano i ministri nella loro dichiarazione con riferimento anche a Paesi come Siria e Afghanistan. ?E proprio “questa mattina la Germania ha deportato 81 cittadini afghani nel loro Paese d’origine nell’ambito di un’operazione di rimpatrio collettivo. Si tratta di uomini afghani legalmente obbligati a lasciare il Paese e con precedenti penali”, ha comunicato Dobrindt, spiegando che si tratta dell’attuazione “di un’importante disposizione dell’accordo di coalizione, che prevede anche deportazioni in Afghanistan, a partire dai criminali e da coloro che sono considerati pericolosi”. L’operazione di rimpatrio è stata realizzata “con l’ausilio del partenariato strategico per la sicurezza con l’Emirato del Qatar”. Ancora: “Le espulsioni in Afghanistan devono continuare a essere possibili in modo sicuro. Nel nostro Paese non esiste alcun diritto di soggiorno per i criminali gravi”, ha dichiarato il ministro. “I deportati sono uomini afghani legalmente obbligati a lasciare il Paese. Verrà loro imposto un divieto di ingresso e soggiorno. Il governo federale intende continuare a effettuare rimpatri in Afghanistan anche in futuro”. L’angoscia padrona dell’epoca di Walter Veltroni Corriere della Sera, 19 luglio 2025 I dazi, le guerre, la fame e i morti di Gaza ci spingono verso ansia e angoscia. Ma bisogna reagire e agire. E recuperare il valore della speranza. Certe volte penso se nel 1943, durante il bombardamento di San Lorenzo o uno dei tanti attacchi aerei che hanno distrutto case, scuole, ospedali e seminato sangue e disperazione nel nostro Paese, un bambino come quello di Germania anno zero, quello che cammina tra le macerie di Berlino distrutta, fosse andato in mezzo alle persone che contavano i danni o che piangevano i loro cari morti dicendo: “Abbiate fiducia, perché tra 15 anni il mondo sarà in pace, conoscerà la più impetuosa fase di sviluppo mai vista”. E dicendo ancora: “Coloro che oggi si combattono l’uno contro l’altro si stringeranno la mano, si abbracceranno, collaboreranno tra loro. E proprio a Roma, poco lontano dai bombardamenti, magari ci saranno i Giochi Olimpici, nei quali chi oggi vuole sterminare l’altro se lo troverà a fianco, amico, e dormiranno nelle stesse case, mangeranno allo stesso tavolo”. Lo avrebbero scambiato per un pazzo, quel bambino. Ma è proprio questa la forza della speranza, la forza che bisogna usare quando tutto, come di nuovo oggi, sembra dominato dal sentimento opposto, il sentimento dell’angoscia, la sensazione che domani sarà peggio di oggi, che non ci sarà uscita dal tunnel. E che quindi i nostri figli, o i figli dei nostri figli dovranno solo misurare a che velocità corrono le lancette dell’orologio dell’Apocalisse. L’angoscia è la vera prigione nella quale stiamo precipitando. O nella quale ci stanno precipitando. L’angoscia è prodotta dallo spezzettamento della società, dalla rimozione dei contatti sociali, dalla riduzione dell’esperienza di conoscenza e di vicinanza ad una pura relazione virtuale. L’angoscia è sorella della solitudine. L’angoscia è una specie di prigione nella quale si viene cacciati. Non che manchino le ragioni obiettive: l’orrore delle guerre, la minaccia climatica o le spaventose diseguaglianze sociali che attraversano il mondo e lo lacerano. Ma nei confronti di ogni tragedia, in ogni momento della storia umana, è stata la speranza ad agire in controtendenza avendo la forza di contrastare l’angoscia e la sensazione di fine inesorabile e di trasformarla invece in luce, esattamente come fu dopo il ‘45. Il bambino immaginario del quale abbiamo parlato avrebbe avuto ragione nel vedere l’italiano Livio Berruti vincere i 200 metri alle Olimpiadi di Roma e il tedesco Armin Hary aggiudicarsi i 100 metri. Per paradosso, due esponenti delle due nazioni che avevano perduto la Seconda guerra mondiale, venivano ora celebrati da tutto il mondo come degli eroi. Il mondo era cambiato radicalmente e lo aveva fatto cambiare la speranza, quella speranza che aveva ispirato la Resistenza, che aveva mosso gli Alleati e che aveva fatto prevalere la libertà e la democrazia sulla dittatura e sull’odio. E lo stesso fu nel 1989, con la spinta dei giovani per il crollo delle dittature comuniste. Oggi esiste una vera industria dell’angoscia. Esiste ed è fondata su un principio decisivo per la diffusione di questo stato d’animo: la rimozione di ogni senso compiuto, la frammentazione dell’esistenza individuale in una solitudine disperatamente egocentrica, lo spezzettamento di ogni discorso comune e dunque condiviso, nella rapsodicità dei comportamenti dei decisori pubblici che, in quanto detentori del potere, si arrogano il diritto di prescindere non solo dal consenso, ma perfino dal senso delle cose. Trump è l’epifenomeno di tutto questo. Narcisismo e improvvisazione, ambedue totali, si alimentano della sottrazione del senso razionale delle cose. Tutto è possibile e quello che si è detto ieri non vale oggi. Pensiamo al gioco infantile e bullista sui dazi che diffonde il panico in tutto il mondo, in imprese e famiglie. Come può tutto questo non seminare angoscia? Ma l’angoscia, sorella dell’ansia, fenomeno ormai generalizzato, non è un sentimento neutro. Come ha scritto Byung-Chul Han nel suo ultimo libro: “Angoscia e democrazia sono incompatibili”. Sembra assurdo mettere in relazione un sentimento con una forma, la migliore, di organizzazione della convivenza umana? No, perché le dittature nascono sempre sui sentimenti scuri, sui risentimenti, sulle solitudini e le paure. Non c’è miglior rimedio all’angoscia che ti imbriglia, dell’uomo che decide per te. Non devi pensare a nulla, ci pensa lui. Tu scrolla, twitta, posta. Ma resta tra le sbarre nere dell’angoscia collettiva. L’angoscia postula l’inazione, l’attesa passiva, la convinzione che bisogna ritrarsi nel guscio. Ma ciò che si sente mancare è anche, forse soprattutto, la fabbrica della speranza, della razionale speranza. Che non sia un’utopia, ma esperienza, ce lo dice il sogno di Ventotene. La speranza si costruisce e il materiale con cui è eretta non è fatto solo di no. Non basta, non è mai bastato. Dice ancora Byung-Chul Han che “La modalità temporale della speranza è il non ancora”. Ma la speranza non è un dono, è un grande progetto umano, richiede capacità visionaria e realismo delle soluzioni. Si può ancora avere il coraggio di immaginare un futuro, il “non ancora”, in questo tempo sfilacciato? I dazi, le guerre, la fame di Gaza, il silenzio complice che accompagna il disegno di Putin, la democrazia destrutturata, la fine dell’unità dell’Occidente. Il mondo, ci piaccia o no, non tornerà dove era prima. O si farà dominare dall’angoscia oppure bisognerà affrontare la grande, esaltante fatica, di fare proprio come quel bambino immaginario. Consiglio d’Europa: sovraffollamento carceri. Situazioni gravi in Slovenia, Cipro, Francia e Italia agenparl.eu, 19 luglio 2025 Il numero di detenuti ogni 100 posti disponibili è aumentato da 93,5 a 94,9 tra il 31 gennaio 2023 e il 31 gennaio 2024. “Il sovraffollamento carcerario rimane una sfida importante per un terzo delle amministrazioni penitenziarie in Europa”, secondo le statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria (Space I) per il 2024, pubblicate oggi. Nel complesso, in Europa, il numero di detenuti ogni 100 posti disponibili è aumentato da 93,5 a 94,9 tra il 31 gennaio 2023 e il 31 gennaio 2024, con differenze significative tra i Paesi. Nei Paesi con una popolazione superiore a 500.000 abitanti, quindici amministrazioni penitenziarie hanno segnalato un sovraffollamento grave: Slovenia (134 detenuti ogni 100 posti), Cipro (132), Francia (124), Italia (118), Romania (116) e Belgio (113). Altre otto amministrazioni penitenziarie, si legge ancora nell’indagine promossa dal Consiglio d’Europa, hanno segnalato un sovraffollamento moderato: Croazia (110), Irlanda (105), Svezia (105), Ungheria (104), Azerbaigian (103), Finlandia (103), Turchia (101) e Macedonia del Nord (101). Inoltre, le amministrazioni penitenziarie di Scozia (100) e Inghilterra e Galles (98) (Regno Unito), così come la Serbia (98), operavano a piena capacità o quasi. Leggendo le statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa sulla popolazione carceraria (Space I), risulta che al 31 gennaio 2024, c’erano 1.021.431 di detenuti nelle 51 amministrazioni penitenziarie degli Stati membri del Consiglio d’Europa, rappresentando un tasso di popolazione carceraria mediana di 105 detenuti ogni 100.000 abitanti in tutto il continente. Considerando le amministrazioni penitenziarie dei Paesi con una popolazione superiore a un milione e riportando i dati per il 2023 e il 2024, il tasso medio della popolazione carceraria in Europa è diminuito leggermente, da 116,2 a 115,1 detenuti ogni 100.000 abitanti (-0,9%). Tredici amministrazioni penitenziarie hanno registrato un aumento significativo dei tassi di popolazione carceraria: fra queste Slovenia, Svezia, Malta, Serbia, Croazia, Azerbaigian, Italia, Albania, Regno Unito, Belgio e Irlanda. I tassi di incarcerazione sono diminuiti significativamente solo in Bulgaria, Lussemburgo, Turchia, Estonia, Lituania e Ungheria. I Paesi con i tassi di incarcerazione più elevati sono stati: Turchia (356 detenuti ogni 100.000 abitanti), Azerbaigian (264), Georgia (261), Repubblica di Moldavia (235), Polonia (202), Ungheria (195), Albania (192), Repubblica Ceca (180), Slovacchia (179), Serbia (177), Lettonia (175) e Montenegro (164). Altri Paesi con alti tassi di incarcerazione sono Lituania (158), Regno Unito (Inghilterra e Galles) (145) e Macedonia del Nord (143). “Il sovraffollamento compromette seriamente le condizioni di vita della popolazione carceraria e gli sforzi riabilitativi delle amministrazioni penitenziarie. I dati sulla durata della pena mostrano che pene detentive medie più brevi tendono a essere correlate a tassi di popolazione carceraria più bassi”. Marcelo Aebi, responsabile del team di ricerca Space del Consiglio d’Europa, docente presso l’Università di Losanna, commenta i risultati delle statistiche penali diffuse oggi a Strasburgo. “Sebbene vi siano eccezioni a questa regola, questa correlazione sottolinea l’importanza della durata della pena come leva per la gestione del sovraffollamento carcerario. Oltre a promuovere pene alternative alla detenzione, la riduzione della durata della pena, in particolare per i criminali non violenti e a basso rischio, può essere un potente strumento per ridurre i tassi di incarcerazione”. I crimini violenti rappresentavano circa un terzo della popolazione carceraria condannata, tra cui omicidio (11,9%), reati sessuali (8,7%), aggressione (6,7%) e rapina (6,3%). I reati più comuni per cui le persone stavano scontando una pena detentiva erano reati di droga (16,7%) e furto (12,3%). Complessivamente, il 2,9% dei detenuti è stato condannato per reati stradali e il 2,4% per reati economici o finanziari. Il 26% di tutti i detenuti nelle carceri europee si trovava in custodia cautelare. “I cittadini stranieri rappresentano una percentuale significativa della popolazione carceraria, ma la loro distribuzione varia notevolmente da Paese a Paese, a causa dei flussi migratori, dei quadri giuridici e della geografia geopolitica. Complessivamente, in Europa, il 16% dei detenuti nelle carceri europee era di nazionalità straniera”. “L’età media dei detenuti nelle carceri europee era di 37 anni. Le popolazioni carcerarie più giovani sono state osservate in Lituania (32), Svezia e Catalogna (34), nonché in Danimarca e Francia (35). La Georgia ha registrato l’età media più alta (44 anni), seguita da Italia, Portogallo e Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (42 anni)”. Complessivamente, la percentuale di donne nella popolazione carceraria era del 4,9% e risultava costante in tutti i Paesi. Le percentuali più elevate di donne detenute sono state osservate in Repubblica Ceca (8,8%), Ungheria (8,4%) e Finlandia (8%), mentre quelle più basse in Albania e Georgia (entrambe 1,4%), nonché in Croazia (2,1%). Turchia. Reportage da Silivri, il più grande carcere di massima sicurezza in Europa di Elena Zacchetti ilpost.it, 19 luglio 2025 Si trova poco lontano da Istanbul, in Turchia, e al suo interno sono detenuti migliaia di dissidenti e oppositori del presidente Erdogan. Mercoledì Ekrem Imamoglu, ex sindaco di Istanbul, è stato condannato da un tribunale turco a scontare 20 mesi di carcere per aver criticato un pubblico ufficiale. La sentenza non cambierà le sue condizioni: dalla fine di marzo è già detenuto sulla base di altre accuse ritenute politicamente motivate nella prigione Marmara a Silivri, una settantina di chilometri a ovest di Istanbul. Marmara è il più grande carcere di massima sicurezza in Europa per numero di detenuti, e anche il posto dove si sono tenuti alcuni tra i processi politici più importanti in Turchia degli ultimi quindici anni. Qui sono incarcerati migliaia di oppositori politici, intellettuali, attivisti e giornalisti arrestati con accuse pretestuose, perché critici nei confronti del governo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Il carcere di Silivri fu realizzato nel 2008 per rispondere al cronico problema del sovraffollamento del sistema penitenziario turco, e delle sue strutture vecchie e malmesse. Venne presentato come un centro all’avanguardia, moderno e tecnologico: l’intera struttura occupa una superficie di un chilometro quadrato e comprende 9 diversi edifici per le celle, un ospedale, una moschea, una scuola elementare per i figli dei dipendenti. Tuttavia negli anni i detenuti e le organizzazioni per i diritti umani hanno raccontato un posto molto diverso da quello descritto pubblicamente. Prima di tutto è gravemente sovraffollato: ha una capienza massima di 11mila posti ma ospita almeno 22mila detenuti, il doppio. Per fare un paragone, il carcere romano di Rebibbia, il più grande in Italia, ha una superficie di circa un quarto, una capienza di 1.171 detenuti e ne ospita 1.573. Negli anni a Silivri sono state denunciate condizioni igienico-sanitarie pessime, detenuti privati delle cure, razioni di cibo insufficienti, carenza di acqua calda, celle fredde e frequenti abusi e punizioni corporali da parte delle guardie carcerarie. Sono frequenti anche i decessi e i suicidi tra i detenuti. Se queste condizioni sono comuni a molte altre carceri turche (e a molte altre carceri in generale), quello che rende Marmara un posto particolare è il blocco 9, cioè quello riservato ai prigionieri politici, che fa del carcere il simbolo di come il sistema penitenziario turco venga sempre più usato dal governo di Erdogan come uno strumento di repressione del dissenso. Non è comunque l’unico dove vengono imprigionati dissidenti e oppositori. Oltre a Imamoglu si trovano a Silivri anche l’imprenditore e filantropo Osman Kavala (condannato all’ergastolo nel 2022); l’avvocato per i diritti umani Can Atalay, che sta scontando una pena di 18 anni per tentata sovversione; e vari politici curdi, tra cui il più noto e carismatico di loro, Selahattin Demirta?. Il primo grande gruppo di prigionieri politici a Silivri ci arrivò poco dopo l’apertura del carcere, in seguito a un processo di massa che si tenne nelle aule di tribunale della struttura. È qui infatti che vennero processati gli oltre 270 imputati di Ergenekon, un controverso caso giudiziario che nel 2013 portò all’arresto e alla condanna di centinaia di persone - tra cui militari, giornalisti e accademici - accusate di far parte di una presunta organizzazione clandestina ultranazionalista che aveva l’intento di rovesciare il governo di Erdogan. Sempre a Silivri vennero condotti molti dei processi relativi al fallito colpo di stato del 2016, che segnò una svolta in termini di repressione delle opposizioni in Turchia. Quel giorno un gruppo di militari tentò di rovesciare il governo di Erdogan, ma fallì. In quegli eventi il presidente turco trovò il pretesto per governare in modo sempre più autoritario, limitando l’indipendenza della magistratura e perseguitando le opposizioni anche in modo violento. Seguirono purghe nel sistema giudiziario, nell’esercito e tra i dipendenti pubblici, e centinaia di migliaia di persone vennero arrestate, in molti casi con accuse pretestuose. Molte finirono a Silivri (ad esempio, Kavala è in carcere nell’ambito di quei processi). Non esistono dati ufficiali su quanti siano i detenuti nel blocco 9: si sa però per esempio che degli oltre 23mila che erano qui nel 2022, 2.017 erano incarcerati con l’accusa di terrorismo, quella usata più frequentemente dalla giustizia turca per condannare i dissidenti (la magistratura in Turchia non è indipendente e spesso la validità di queste sentenze è messa in discussione dalle organizzazioni per i diritti umani e dai tribunali internazionali). Anche sulle condizioni specifiche del blocco 9 si sa poco, ma per esempio dai racconti di chi ne è uscito si sa che è frequente la pratica dell’isolamento, anche a tempo indeterminato: ha gravi conseguenze sulla salute mentale dei detenuti ed è considerata una violazione dei diritti umani (è utilizzata in almeno altre 40 carceri in Turchia). Un’altra cosa che si sa è che è molto difficile per chi si trova qui ottenere libri, soprattutto se considerati problematici per il regime (per esempio se di scrittori curdi). Che il governo di Erdogan usi il carcere come strumento di repressione è evidente nei numeri. Prima di tutto il numero di detenuti in Turchia è aumentato in modo spaventoso negli ultimi vent’anni (cioè quelli in cui Erdogan è stato al potere, prima come primo ministro, poi come presidente): nel 2002 erano 59.429, oggi sono 398.694. L’aumento non è tutto imputabile ai reati motivati politicamente, ma avvocati turchi hanno denunciato una sproporzione nell’attenzione delle forze dell’ordine verso questi reati rispetto a quelli comuni. Lo hanno dimostrato anche le centinaia di arresti in seguito alle proteste per la detenzione di Imamoglu, a marzo. Inoltre un rapporto del 2021 del Consiglio d’Europa aveva mostrato come la Turchia (che è il paese con il più alto numero di detenuti in generale in tutto il continente, dopo la Russia) avesse il 95 per cento dei detenuti condannati per terrorismo in Europa: 30.555 su 32.006. La maggior parte di queste condanne riguarda presunti legami col movimento accusato del colpo di stato, mentre il secondo gruppo più numeroso è in carcere per legami con il PKK, il gruppo armato curdo. Il terzo, nettamente inferiore, per legami con lo Stato Islamico. Iran. Il regime usa la pena di morte come arma contro il popolo di Elisabetta Zamparutti L’Unità, 19 luglio 2025 Grande è l’attenzione sulla guerra tra Iran e Israele o sul programma nucleare di Teheran. Totale la distrazione sull’impressionante numero di esecuzioni compiute dal regime clericale nei confronti dei propri cittadini. Cifre destinate ad aumentare e che non possiamo ignorare. È connotato costitutivo di questo regime, sin dalla sua nascita con la Rivoluzione del 1979, rispondere alle minacce alla propria autorità con brutali repressioni del dissenso interno. Come nel caso delle manifestazioni seguite alla morte di Masha Amini, uccisa per mano della polizia morale di Teheran nel settembre 2022, quando cittadini iraniani si sono riversati nelle città di tutte le 31 province del Paese. Secondo il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, coalizione di gruppi di opposizione pro-democrazia, di cui i Mujaheddin del Popolo dell’Iran (MEK) sono la componente principale, circa 750 manifestanti sono stati uccisi durante quella rivolta del 2022. Nello stesso periodo si sono registrati oltre 30.000 arresti - una cifra poi di fatto confermata anche dai media statali iraniani. I procedimenti giudiziari successivi hanno portato a un numero non precisato di condanne a morte, di cui circa una dozzina già eseguite. Chi allora è sceso in piazza sapeva a cosa andava incontro. Meno di tre anni prima, nel novembre 2019, un’altra ondata di proteste aveva portato all’uccisione di circa 1.500 manifestanti. Tanto più il regime si sente minacciato, tanto più efferata è la repressione. Come quando nell’estate del 1988, la teocrazia dei Mullah si trovò ad affrontare sia la crescita dell’opposizione interna che l’umiliante conclusione della guerra durata otto anni con il vicino Iraq. Allora, la Guida Suprema Khomeini, emanò una fatwa dichiarando che l’opposizione, in particolare il MEK, erano “nemici di Dio” e pertanto andavano puniti con la morte. Si istituirono nelle carceri le “commissioni della morte” per interrogare i prigionieri politici. Dopo circa tre mesi di questi procedimenti, oltre 30.000 detenuti - il 90% dei quali affiliati al MEK - furono giustiziati e sepolti in fosse comuni segrete. Con le debite distinzioni in termini numerici, emerge oggi dal passato quel massacro del 1988. I media di Stato iraniani hanno apertamente riportato che circa 700 persone sono state arrestate o durante il conflitto iraniano-israeliano, mentre alcuni attivisti per i diritti umani stimano che il numero reale superi i 1.000. In modo allarmante, l’agenzia Fars News - affiliata al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) - il 7 luglio ha esplicitamente invocato la ripetizione del massacro del 1988. La gravità della situazione è stata sottolineata da dieci esperti delle Nazioni Unite il 4 luglio, i quali hanno espresso profonda preoccupazione per l’intensificarsi della repressione, affermando che “l’Iran non deve permettere che la storia si ripeta ricorrendo agli stessi oscuri modelli repressivi che hanno devastato il suo popolo nei periodi successivi ai conflitti del passato.” La nuova ondata repressiva contro il dissenso coincide con un’impennata di esecuzioni, iniziata come estensione della repressione legata alla rivolta del 2022. Nel 2023 è stato riportato che oltre 850 iraniani sono stati giustiziati per una vasta gamma di accuse, molte delle quali infondate o pretestuose. Una cifra ampiamente superata nel 2024, quando sono state eseguite circa 1.000 esecuzioni - il numero più alto degli ultimi vent’anni. Tragicamente, le esecuzioni sono diventate parte integrante del DNA del regime attuale. E le previsioni per il 2025 sono ancora più allarmanti. Mentre scrivo, Nessuno tocchi Caino ha contato almeno 700 esecuzioni compiute quest’anno. E siamo solo a poco più di metà anno! Sappiamo quanto sia fallimentare la politica dell’accondiscendenza. Come è evidente che la guerra esterna non rappresenti una soluzione. Per Maryam Rajavi, eletta dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) come presidente per il periodo di transizione dopo la caduta dei mullah, la soluzione definitiva sta in un cambiamento di regime a opera del popolo iraniano e della sua resistenza organizzata. Cosa possiamo fare noi? Non concentriamoci esclusivamente sulla questione nucleare, ma guardiamo all’arma della pena di morte usata contro il popolo iraniano. Cerchiamo di disinnescare questo ordigno. Facciamoci forti di quello sciopero della fame dei condannati a morte in Iran, a cui danno corpo ogni martedì da un numero sempre crescente di carceri. Io lo faccio ogni martedì. Sarebbe bene farlo in molti, magari aderendo ogni martedì. Prendiamo atto che nel piano in dieci punti per l’Iran libero di Maryam Rajavi è prevista l’abolizione della pena di morte. Riconosciamola come un interlocutore politico e il regime iraniano cadrà.