Sul carcere il silenzio uccide. Adesso basta di Franco Corleone L’Espresso, 18 luglio 2025 Il 2 luglio è stata ricordata a Firenze la figura di Alessandro Margara a nove anni dalla scomparsa e a cinquant’anni dalla riforma penitenziaria di cui fu uno degli ispiratori. Il “cavaliere dell’utopia concreta” offrì un contributo essenziale alla legge Gozzini del 1986 e scrisse il Regolamento penitenziario approvato nel 2000 che sostituiva quello di Alfredo Rocco del 1931; infine, consapevole dei limiti di quei testi, elaborò una proposta di legge per un “Nuovo ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene e delle altre misure privative o limitative della libertà”. La data è del 3 novembre 2005 (venti anni fa!) e porta il numero 6164 con le firme dei deputati Boato, Finocchiaro, Fanfani, Pisapia. Quella di Firenze non è stata una celebrazione ma un momento di riflessione e di denuncia, tanto più per la concomitanza con l’approvazione del famigerato decreto sicurezza che, come disse Grazia Zuffa, provoca “sgomento per la grande spregiudicatezza nell’inventare norme. Un’inventiva che sconfina nell’illegalità”: una definizione cruda, ma che aiuta a capire il motivo di una inaudita violenza istituzionale. Infatti, mentre il testo era in dirittura d’arrivo come disegno di legge, il governo, trasformandolo in decreto, ha voluto emulare una deriva trumpiana di forzatura democratica. Cento anni dopo le leggi fascistissime! Per fortuna il Massimario della Cassazione, ufficio tradizionalmente assai prudente, ha lanciato l’allarme. Il reato di rivolta passiva ora introdotto, con anni di pena, per chi rivendicasse diritti con le armi della nonviolenza, prefigura il carcere come luogo di prova della guerra civile. Non è un caso che sia in gestazione un nuovo decreto governativo che prevede “Operazioni sotto copertura per la sicurezza degli istituti penitenziari”. Si vorrebbe istituire nelle carceri un servizio segreto e ampliare i poteri della polizia penitenziaria, a completare quella libertà di azione, di infiltrazione e di provocazione già consentita alle polizie dal decreto sicurezza per una nuova strategia della tensione. Scongiurare questi pericoli significa operare per altre e opposte scelte politiche: amnistia e indulto, numero chiuso, case di reinserimento sociale, abolizione delle misure di sicurezza e scioglimento del nodo dei liberi sospesi. Già centomila persone usufruiscono di misure alternative, altre trentamila nel territorio anziché in cella risolverebbero il sovraffollamento, il problema degli spazi e del personale e consentirebbero un risparmio economico operato nel segno di quel mitico reinserimento sociale previsto dall’art. 27 della Costituzione. Quando si presentano tempi torbidi bisogna rivolgersi ai giganti e ricorrere al loro pensiero che dà scandalo, svelando le radici del problema. Come quello espresso da Norberto Bobbio nella prefazione al libro di Irene Invernizzi, “Il carcere come scuola di rivoluzione”: “Invece di accettare rassegnatamente la condanna, accusano, invece di starsene sottomessi per “espiare” o “emendarsi”, si ribellano, invece di ubbidire agli ordini, li discutono, invece di fare il loro dovere, reclamano i loro diritti, e quando possono, cioè quando riescono a raggiungere nel fuoco di una protesta un minimo di coesione, si rivoltano come si sono sempre rivoltati nella storia i popoli, le classi, le nazioni oppresse”. Carceri pieni e roventi, ma per Nordio se ne parla dopo l’estate di Angela Stella L’Unità, 18 luglio 2025 Coro di critiche per la task force sulle misure alternative annunciata dal ministero che tirerà le somme solo dopo l’estate. Giachetti: “Modo per bloccare la nostra pdl”. Serracchiani: “Servono misure immediate”. Due giorni fa il governo ha deciso di affrontare l’emergenza carceraria. Come? Con l’istituzione di una task force tra Ministero della Giustizia, magistratura di sorveglianza e singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni di 10.105 detenuti cosiddetti definitivi (6079 italiani, 4026 stranieri, con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi) potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere. Peccato però che le conclusioni del gruppo interistituzionale si vedranno a settembre 2025, quando le carceri avranno superato - non sappiamo ancora come - l’inferno che stanno vivendo in questi mesi di intensa calura. Nordio ovviamente ha escluso qualsiasi provvedimento di amnistia, indulto o liberazione anticipata speciale, come previsto dalla proposta di legge Giachetti. Proprio il deputato di Italia Viva ha commentato così l’iniziativa di via Arenula: “Per me quello che conta è intervenire sull’emergenza sovraffollamento. Per cui mi va benissimo anche quella strada. Temo, però - ha detto Giachetti - che stiamo ricalcando l’operazione esattamente di un anno fa quando per bloccare la nostra legge fecero un decreto che ovviamente non ha inciso per nulla sul sovraffollamento. Noi dobbiamo agire adesso perché è in estate che la situazione diviene ancor più drammatica. Una task force che a settembre farà il punto sul tema sarebbe solo fumo negli occhi. Domando per altro: nelle condizioni in cui si trovano gli uffici dei giudici di sorveglianza quanto tempo ci metterebbero ad esaminare oltre 10.000 posizioni? Chiunque conosce quello di cui parliamo sa perfettamente della debolezza di questo ennesimo annuncio”. È noto a tutti che ci sono solo 250 magistrati di sorveglianza nell’organico che devono seguire 63.000 detenuti e oltre 100.000 liberi sospesi. A bocciare l’iniziativa anche la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini: “Come fu l’anno scorso con il decreto carceri (da allora ad oggi i detenuti sono aumentati di 1.300) il rischio è che questa ‘trovata’ estiva sia un enorme presa in giro tanto più grave nel momento in cui la seconda carica dello Stato sta, al contrario delle chiacchiere, mettendo in piedi un’iniziativa parlamentare concreta e veramente risolutiva senza stravolgere l’ordinamento esistente”. Eh già, è proprio questo il nodo politico adesso: che cosa farà ora Ignazio La Russa? Nelle ultime settimane aveva aperto alla proposta di legge Giachetti e non era escluso che un testo correttivo venisse presentato in questi giorni al Senato grazie all’appoggio di una maggioranza trasversale. Adesso il numero due del Senato getterà la spugna dinanzi a questo palese specchietto per le allodole messo su dal Ministro Nordio o manterrà il punto in coerenza con tutti quello che ha detto fino ad oggi? Critica comunque sull’iniziativa del Guardasigilli anche la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani: “Noi siamo favorevoli alle iniziative che finalmente affrontino il sovraffollamento e la situazione disastrosa e indegna delle carceri italiane. Non pensiamo che la soluzione sia un tavolo con i magistrati di sorveglianza, ma l’approvazione immediata di strumenti legislativi come la liberazione anticipata speciale del collega Giachetti. Insomma abbiamo l’impressione che questa maggioranza non voglia assumersi alcuna responsabilità politica e non fare nulla per risolvere l’emergenza carceri, ma che al contrario ancora una volta intenda scaricare sulla magistratura, oggi di sorveglianza, ogni responsabilità”. Secondo Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, “il Ministero ha preso finalmente consapevolezza dell’esistenza del problema, ed è un passo avanti rispetto all’anno scorso, ma tempi e modi delle soluzioni prospettate sono del tutto inadeguati. Non si può aspettare settembre per prospettare iniziative che sono già tutte sul tavolo. Né si può pensare esclusivamente a misure alternative al carcere che sono già possibili a legislazione vigente, ma non vengono concesse a larga parte della popolazione detenuta”. La via maestra per Anastasia “resta quella di un provvedimento di clemenza che, senza scaricare responsabilità sui magistrati, dovrebbe vedere concordi maggioranza e opposizione, o almeno parte dell’una e dell’altra, come nel 2006. In alternativa, se vogliono ampliare la liberazione anticipata, lo facciano con coraggio, a partire dal termine dell’ultima liberazione anticipata speciale post-Torregiani, con almeno due mesi di sconto di pena in più all’anno e senza preclusioni, anzi condonando anche le sanzioni disciplinari. Così una liberazione anticipata speciale potrebbe avere effetti apprezzabili sul sovraffollamento. Ma perché si possano vedere in tempi accettabili, il governo dovrebbe una volta tanto adottare un decreto-legge con i requisiti costituzionali di necessità e urgenza e mettere immediatamente in moto la macchina amministrativa e giudiziaria”. Sorprende invece la posizione di Forza Italia che l’anno scorso si era detta favorevole alla pdl Giachetti: “È giusto che a fronte di questo sovraffollamento - ha dichiarato a Coffee break il senatore azzurro Pierantonio Zanettin - che è stato tante volte condannato anche dagli organismi internazionali, si diano delle risposte come quelle che sta ipotizzando il ministro Nordio e che mi trovano totalmente d’accordo”. Intanto ieri due detenuti del carcere di Ascoli Piceno del reparto ‘Articolazione tutela salute mentalè (Atsm) hanno dato fuoco a un materasso e poi si sono barricati in cella. Sono stati messi in salvo ma otto agenti di polizia penitenziaria sono rimasti intossicati e sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso. Al momento, inoltre, il sovraffollamento carcerario è intorno al 130 per cento e secondo il dossier di Ristretti Orizzonti quest’anno i suicidi negli istituti di pena sono stati 41, ai quali si aggiungono 33 decessi da accertare. A lamentarsi dell’overcrowding ci ha pensato ieri anche l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, rinchiuso a Rebibbia dopo una condanna a sei anni di reclusione per la morte di 40 persone su un pullman caduto da un viadotto autostradale nell’Avellinese. In particolare si è lamentato del fatto che in una cella da quattro ci siano sei persone. Ma non è solo questo il problema, se pensiamo che nella maggior parte delle carceri mancano ventilatori. Per questo l’ordine degli avvocati di Roma ha deciso di stanziare qualche giorno fa dei fondi per oltre 100 ventilatori destinati alle persone detenute a Rebibbia (reparti maschile e femminile) e Regina Coeli. Task force al ministero contro il sovraffollamento. Anastasìa: “Non si può aspettare settembre” (garantedetenutilazio.it) Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha accertato che ci sono 10.105 detenuti potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere. “Il ministero ha preso finalmente consapevolezza dell’esistenza del problema, ed è un passo avanti rispetto all’anno scorso, ma tempi e modi delle soluzioni prospettate sono del tutto inadeguati. Non si può aspettare settembre per prospettare iniziative che sono già tutte sul tavolo. Né si può pensare esclusivamente a misure alternative al carcere che sono già possibili a legislazione vigente, ma non vengono concesse a larga parte della popolazione detenuta”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, alla notizia che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha accertato che ci sono 10.105 detenuti cosiddetti definitivi potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere. In una nota del 15 luglio scorso, si legge che tali detenuti sono con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi e “di conseguenza, al ministero della Giustizia è stata istruita una task force che ha già attivato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni. Il gruppo - conclude la nota -, (…) si riunirà con cadenza settimanale e trarrà le sue conclusioni entro settembre 2025”. “La via maestra - prosegue Anastasìa - resta quella di un provvedimento di clemenza che, senza scaricare responsabilità sui magistrati, dovrebbe vedere concordi maggioranza e opposizione, o almeno parte dell’una e dell’altra, come nel 2006. In alternativa, se vogliono ampliare la liberazione anticipata, lo facciano con coraggio, a partire dal termine dell’ultima liberazione anticipata speciale post-Torregiani, con almeno due mesi di sconto di pena in più all’anno e senza preclusioni, anzi condonando anche le sanzioni disciplinari. Così una liberazione anticipata speciale potrebbe avere effetti apprezzabili sul sovraffollamento. Ma perché si possano vedere in tempi accettabili - conclude Anastasìa, il governo dovrebbe una volta tanto adottare un decreto-legge con i requisiti costituzionali di necessità e urgenza e mettere immediatamente in moto la macchina amministrativa e giudiziaria”. Le inutili e bizzarre trovate di Nordio per non ammettere che serve la pdl Giachetti di Gianni Alemanno* e Fabio Falbo** L’Unità, 18 luglio 2025 La costruzione di nuove carceri, l’idea di usare le caserme e poi quella di mandare i detenuti in comunità. Ora la task force. Intanto da quando c’è questo governo il sovraffollamento è aumentato dal 107% al 134,3%. La Task Force proposta dal Ministro Nordio per l’emergenza carceri sembra servire solo a perdere tempo, mentre il sovraffollamento continua a crescere ogni giorno. Sarà sicuramente vero che più di 10.000 persone detenute potrebbero ottenere l’accesso alle pene alternative, ma è assolutamente impensabile che questo possa essere propiziato dall’istituzione di una commissione ministeriale. Il Ministero della Giustizia non ha nessun potere d’intervento diretto sul lavoro dei Tribunali di sorveglianza, che, se fino ad ora non hanno concesso queste misure alternative, perché dovrebbero farlo adesso? Sarebbe come ammettere che finora non è stato fatto per ignavia o disinteresse alle condizioni delle persone detenute. In realtà esistono dei gravi problemi d’interpretazione giuridica e di carenza di organico, che hanno impedito ai magistrati di sorveglianza di decidere sulle migliaia di richieste ferme sui loro tavoli. Tutte queste realtà non possono non essere note al Ministero della Giustizia e quindi ci si chiede perché venga avanzata una proposta cosi improbabile da apparire inutile. D’altra parte non è la prima volta che il Ministro Nordio, di fronte al problema del sovraffollamento, presenta dei rimedi irrealizzabili e fantasiosi. All’inizio della legislatura aveva promesso la costruzione di nuove carceri ancora tutte da realizzare, poi ha indicato come sedi di custodia attenuata degli edifici demaniali dismessi, come le caserme, che le amministrazioni competenti non sono mai state disponibili a cedere, infine sta parlando di mandare il 25% dei detenuti, quelli con problemi di tossicodipendenza, alle comunità terapeutiche, che però sono già strapiene di persone in trattamento e non possono accoglierne molte altre. Forse l’unico scopo di tutte queste proposte è quello di non ammettere che il sovraffollamento può essere ridotto solo approvando una nuova specifica legge, che un numero significativo di parlamentari di maggioranza e di opposizione hanno individuato nella “Legge della buona condotta” proposta dall’onorevole Giachetti e recepita dal Presidente del Senato La Russa per concedere una “liberazione anticipata speciale” con effetto retroattivo a tutte le persone detenute che hanno mantenuto un comportamento irreprensibile. Ricordiamo al Ministro Nordio e a tutte le autorità competenti che dall’inizio del mandato di questo Governo il sovraffollamento è cresciuto dal 107% al 134,3% e che, se non viene approvata una nuova legge efficace, con questo andamento alla fine della legislatura il sovraffollamento supererà la cifra record del 160%. Suggeriamo al Ministro di risparmiare al Governo e a tutta l’Italia questa vergogna. *Già Ministro della Repubblica e Sindaco di Roma, detenuto nel carcere di Rebìbbia NC. **Scrivano de1 Braccio G8 laureato in Giurisprudenza in carcere, detenuto nel carcere di Rebìbbia NC Suicidi in carcere e sovraffollamento: una vergogna tutta italiana di Federica Delogu e Marica Fantauzzi valigiablu.it, 18 luglio 2025 Al suo 180º giorno di detenzione, Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, scrive una lettera dal carcere romano di Rebibbia. Se le lettere precedenti avevano creato un certo dibattito mediatico, questa volta il testo viene letto in Parlamento dal senatore del Partito Democratico Michele Fina: “La politica dorme (con l’aria condizionata) e si dimentica delle carceri sovraffollate e surriscaldate, aspettando indifferentemente che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sanzioni l’Italia per trattamento inumano e tortura delle persone detenute. Nel 2024, 71 persone detenute si sono tolte la vita, nei primi sei mesi del 2025, siamo già a 38, un suicidio ogni cinque giorni, numeri che gridano vendetta, ma che non fanno rumore, perché chi muore in carcere, spesso, muore due volte, nella cella e nell’indifferenza collettiva”. In un’altra missiva, datata 30 giugno, Alemanno e un altro detenuto, Fabio Falbo, scrivono: “Non chiediamo impunità, chiediamo umanità, non chiediamo clemenza, chiediamo giustizia, anche perché nessuna pena può diventare tortura, perché nessuna cella può diventare una tomba, perché nessuna persona mai dovrebbe essere trattata come meno di un essere umano”. Chissà se il giovane Gianni Alemanno si sarebbe mai immaginato che le sue lettere dal carcere, anni dopo, non avrebbero sortito alcun effetto tra i suoi, ora a Palazzo Chigi. Nato a Bari nel 1958, Alemanno a 12 anni si trasferisce a Roma. Entra giovanissimo tra le file del Movimento Sociale Italiano, diventa presto segretario del Fronte della Gioventù, poi aderisce ad Alleanza Nazionale, ricopre la carica di ministro delle Politiche Agricole nel 2001 e, qualche anno dopo, si candida a sindaco di Roma. È la prima volta che la città viene governata da un militante di area postfascista. Successivamente sarà coinvolto nell’inchiesta “Mondo di mezzo”: in primo grado è condannato per finanziamento illecito e corruzione. Poi arriva la sentenza definitiva che riformula il reato in traffico di influenze: la condanna è a un anno e 10 mesi. Poiché viola gli obblighi imposti dal magistrato sui servizi sociali, viene condotto in carcere il giorno di Capodanno del 2024. Da quel momento scopre il carcere: sovraffollamento, desolazione, malattia. C’è chi ha apprezzato la, seppur tardiva, presa di posizione dell’ex primo cittadino di Roma contro lo stato attuale in cui versa il sistema penitenziario italiano e chi, più vicino a lui per storia e identità politica, è rimasto imperturbabile. Per mesi nessuna forma di solidarietà, né per lui né per gli altri reclusi nei penitenziari italiani, dove il tasso di sovraffollamento in alcuni casi supera il 200%. Per buona parte della destra le lettere di Alemanno rappresentano una scomoda provocazione, che ostacola un progetto politico improntato al controllo e alla repressione a ogni costo. Solo Ignazio La Russa, presidente del Senato, e poi Luciano Fontana, presidente della Camera, hanno infine rotto il silenzio, recandosi personalmente a Rebibbia a trovare Alemanno. Il carcere, ancora una volta, sembra creare imbarazzo al potere politico. Non per le sue condizioni inumane ma perché osa parlare tramite la voce di chi lo abita quotidianamente. Quasi fosse un fastidio ricorrente a cui, altrettanto ciclicamente, non si vuole porre rimedio. Eppure il carcere finisce con il riguardarci sempre, in modo profondo e collettivo, tanto da indurre Papa Francesco a metterlo al centro dell’anno giubilare. Fu proprio quel Papa, del resto, a non esitare nel chiedere, nella sua enciclica, un atto di clemenza. Amnistia e indulto: parole che intimoriscono la politica di oggi e che, invece, sono talmente radicate nella nostra storia da essere previste dalla Costituzione. Per misurare il sovraffollamento, di norma, si fa riferimento al tasso di occupazione in relazione alla capacità detentiva ufficiale di un istituto. Ciò significa che il sovraffollamento esiste ogni volta che il numero delle persone recluse supera il limite di capacità. Quando si è sopra la soglia del 120%, ci si trova davanti a un tasso di sovraffollamento considerato critico. Al 30 giugno del 2025 in Italia, i detenuti totali sono 62.728, per una capienza regolamentare di 51.280 posti, di cui 4.500 di fatto inagibili. Su 189 istituti penitenziari, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, solo 36 non sono colpiti dal sovraffollamento. Solo nel 2024 sono entrate in carcere 43.417 persone, praticamente 3.000 in più rispetto agli ingressi dell’anno precedente. E, per la prima volta nella storia italiana, a essere colpiti dal sovraffollamento sono anche gli istituti penali per minorenni: Antigone evidenzia che sono 611 i ragazzi detenuti (una cifra da record se si considera che nel 2022 erano 381). Nella quotidianità detentiva sovraffollamento significa corpi che condividono spazi ristretti, celle che ospitano spesso sei persone adulte, forzatamente vicine: letti a castello, una sola finestra, un solo bagno che è anche cucina, con un fornelletto da campeggio, e il detenuto che prepara il pranzo costretto a interrompere per lasciar spazio ai bisogni urgenti di qualcun altro, per poi rientrare e continuare a cucinare. Significa un televisore perennemente acceso a volume alto, dalla mattina alla notte, come una presenza ulteriore, e quando si spegne in cella resta acceso quello della cella vicina e si continua a sentire il ronzio. Significa non avere mai spazi per sé, per leggere, stare in solitudine, non poter insomma mai gestire il proprio tempo. Valeria Verdolini, sociologa e docente di Mutamento sociale e devianza, presidente di Antigone Lombardia, spiega chiaramente il legame tra una cella sovraffollata, la sofferenza e, infine, il gesto anticonservativo: “L’aumento della popolazione detenuta non prevede un aumento dell’organico e di chi se ne occupa. La cosa più semplice per spiegare questa relazione è: sempre più persone dentro e sempre meno incaricati a seguire il loro percorso. Sovraffollamento significa paradossalmente una grande solitudine dei detenuti, non tanto e non solo materiale quanto istituzionale”. E questo abbandono ha una ripercussione immediata sulla concretezza della vita di chi è recluso: diventa impossibile essere visitati per tempo da un medico, veder attivato il proprio percorso alternativo nei casi di pene brevi e, in generale, - prosegue Verdolini - “quando le risorse scarseggiano è difficile intercettare la sofferenza, se non in caso di grandi gesti autolesionistici, auto o eterodistruttivi (l’incendio della cella è un caso classico in questo senso). Quando non ci sono manifestazioni esplicite della sofferenza, un carcere sovraffollato rende invisibile la persona. Ogni suicidio è per definizione una storia a sé, è necessario non generalizzare mai, ma il senso di abbandono che si prova nelle strutture sovraffollate incide, molto, anche sul senso di impotenza degli operatori”. Nel 2024 si sono registrati 91 suicidi tra le persone detenute e sette tra il personale di polizia penitenziaria. Se si somma l’anno passato con i primi mesi del 2025, si arriva a 132 suicidi, includendo anche quattro donne, giovani di 20?anni e il più anziano di 82. Sempre riprendendo quanto denunciato da Antigone, il tasso di suicidi in carcere nel 2024 è pari a 14,8 casi ogni 10.000 persone detenute. “Secondo l’Istituto Superiore di Sanità, nel 2021 il tasso di suicidi in Italia era pari a 0,59 casi ogni 10.000 abitanti. Mettendo in relazione i due dati, vediamo come oggi in carcere ci si levi la vita ben 25 volte in più rispetto alla società esterna”, conclude l’associazione. Nordio, il prestanome del business della galera di Carmelo Palma linkiesta.it, 18 luglio 2025 Chi si oppone a qualunque misura volta a ridurre la popolazione carceraria, invocando la certezza della pena, finisce per garantire un’altra certezza: quella della recidiva, tanto più inevitabile quanto più la carcerazione si fa afflittiva e disumana. Il problema del sistema di esecuzione penale in Italia non è la certezza della pena, ma quella della recidiva. Circa due detenuti su tre escono di galera per rientrarvi non troppo tempo dopo, mentre, tra quanti usufruiscono di misure alternative alla detenzione, il tasso di recidiva è di tre volte inferiore. Questi ultimi sono ovviamente un campione, per così dire, migliore, proprio per il fatto di non avere condizioni ostative, ed essere eleggibili a questi e altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Ma eleggibili lo diventano anche se la detenzione consente loro di diventare migliori di com’erano entrati. Proprio questo, tuttavia, pur essendo il fine costituzionalmente preminente, sembra l’obiettivo meno condiviso, se non apertamente osteggiato, dai padroni della galera, cioè dalle principali organizzazioni criminali, che, quanto più gli istituti di pena sono degradati e corrotti, tanto più vi spadroneggiano e reclutano maestranze a prezzo di saldo, e dalle principali forze politiche da cui l’ordalia carceraria è considerata la forma più ammissibile, se non obbligata, di sacrificio umano, per soddisfare e circoscrivere quella strabordante domanda di violenza, che alligna nella democrazia dell’invidia e del rancore. Facendo i conti all’ingrosso, dei circa ventiquattromila detenuti con condanna definitiva che, al dicembre scorso, avevano meno di tre anni da scontare, circa sedicimila, rebus sic stantibus, sono destinati, presto o tardi, a rientrare in carcere. Se questo è però un argomento per sostenere, come fanno i fanatici della certezza della pena, che misure deflattive speciali e automatiche - liberazione anticipata straordinaria o provvedimenti di clemenza - non hanno di per sé un effetto strutturale, non è neppure un argomento per illudersi, che sigillare tutti i detenuti in galera fino all’ultimo giorno di pena protegga meglio la società dalla recidiva criminale, rappresentando questa, al contrario, il prodotto più caratteristico di carceri sovraffollate e invivibili, senza spazio per alcuna iniziativa riabilitativa. Al momento la discussione su un intervento legislativo che faccia fronte a una situazione fuori controllo è, nei fatti, una partita interna a Fratelli d’Italia, con il presidente del Senato Ignazio La Russa che ha richiamato l’obbligo, e non solo l’opportunità, della tutela della dignità dei detenuti da parte dello Stato, e il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che solo la scorsa settimana, rispondendo a un’interrogazione del senatore di Azione Marco Lombardo sull’estensione della misura della liberazione anticipata, proposta da Roberto Giachetti e Rita Bernardini, ha risposto che, dal punto di vista logico, si trattava di una “istigazione a delinquere”. Eppure trattasi della stessa istigazione di cui lo stesso Nordio è stato per anni reo e recidivo, se pochi mesi prima di entrare in Parlamento e di lì subito in via Arenula diceva che: “in una visione liberale e moderna, il carcere inteso come manette, come catenaccio, come sbarre di acciaio, deve essere considerata una sorta di forma obsoleta di sanzione, non solo e non tanto perché è contrario a quella tendenza rieducativa della pena, che è scritta nella Costituzione, ma perché ha dimostrato di essere quasi un elemento criminogeno. (…) Bisogna orientarsi verso un diritto penale minimo e, soprattutto, verso un diritto penale che preveda come sanzione le varie “pene alternative” o “pene suppletive”, che siano alternative, appunto, al carcere. Si pensi ai lavori utili, agli arresti domiciliari, a tutte quelle forme che possano essere delle sanzioni vere, anche afflittive, ma che non confliggano né con il principio di tendenza rieducativa della pena né con quello della incapacità dello Stato di gestire una popolazione carceraria, che è incompatibile con le strutture che esistono in Italia”. Era però - occorre dirlo - la stagione in cui questo garantista double face si impegnava a scalare i ranghi della politica facendo sfoggio di un’eccentrica trasversalità umanitaria - di qui il sostegno, ancora da magistrato in servizio, alle campagne sull’amnistia di Marco Pannella tra il 2013 e il 2015 - che adesso infastidirebbe il suo sopracciò Andrea Delmastro, il quale virilmente disprezza gli infedeli che vanno in pellegrinaggio alla Mecca dei detenuti e teorizza l’uso politico della galera senza respiro, come soddisfacimento sadico della parafilia securitaria. Nonostante la chiusura ufficialmente opposta da Nordio alla sua proposta, Giachetti ha ostentato fino a pochi giorni fa ottimismo, confidando nella mediazione di La Russa per portare a casa un provvedimento non troppo distante da quello proposto, cioè un nuovo regime di liberazione anticipata in vigore per due anni, con un aumento da quarantacinque a settantacinque giorni di sconto di pena per ogni semestre di detenzione, calcolato retroattivamente per dieci anni. In questo modo, nel giro di pochissimo, il sistema penitenziario sarebbe tornato almeno alla sua capienza regolamentare. L’intervista di ieri di Nordio al Corriere della Sera - no a provvedimenti di clemenza, no alla liberazione anticipata - ha chiuso, nei fatti, la partita, ufficializzando che a comandare, sul tema, dentro il Governo e FdI è sempre il sottosegretario alla galera, di cui il ministro della Giustizia è una sorta di segnaposto o prestanome, per ragioni di presentabilità sociale. Quello che Nordio propone in alternativa alla liberazione anticipata e all’indulto è un programma straordinario di misure alternative per i detenuti meritevoli con meno di ventiquattro mesi da scontare, affidate alla valutazione dei giudici di sorveglianza. Una proposta pure restrittiva rispetto alla situazione esistente - alle misure alternative possono già accedere, oggi, se meritevoli, tutti i detenuti fino a tre anni di pena residua - e perfino provocatoria nella sua impraticabilità, considerando che, attualmente, nell’imbuto dei tribunali di sorveglianza finiscono bloccati per svariati mesi, quando non per anni, procedimenti che, a termini di legge, dovrebbero arrivare a decisione entro quarantacinque giorni. Semplicemente manca chi, dentro e fuori dal carcere, sia in grado di smaltire tutto il lavoro che questi procedimenti comportano, ma si fa finta di credere che, per risolvere il problema, basti un abracadabra legislativo e tanta buona volontà. Nordio ha paradossalmente le sue ragioni a sostenere che non si possono dare tutte le colpe al sovraffollamento. In dieci anni il sovraffollamento è passato dal centootto per cento al cento trentatré per cento (quando l’attuale Governo è entrato in carica era del centodiciassette per cento), ma la letalità del carcere (somma dei morti per suicidio, overdose, violenze, cause naturali o non determinate) è raddoppiata. A metà di luglio del 2025 i morti in carcere hanno già superato quelli dell’intero 2026 (cento trentaquattro contro centoundici). Come titolava un libro dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, in Italia si è passati dalla pena di morte alla morte per pena. Tutto ciò non significa però che il sovraffollamento non concorra all’emergenza, bensì che altre cause vi si aggiungono, rendendola, a un tempo, più mortifera e più criminogena, senza renderla neppure più economica, visto che tenere una persona in carcere costa circa centocinquanta euro al giorno e che, per costruire nuovi istituti, la spesa media supera i centocinquantamila euro a posto letto, mentre, con poche decine di euro al giorno, si possono attivare percorsi alternativi alla detenzione. Dunque, è vero, non si può dare la colpa di tutto al sovraffollamento delle celle. Le colpe sono tutte, sovraffollamento compreso, di una politica in cui la pena ha assunto una funzione liturgica, e la galera è diventata uno spettacolo di consumo collettivo, e la recidiva è dunque un affare. L’emergenza è la gallina dalle uova d’oro del business della galera, sia di quello legale (cioè politico-elettorale), sia di quello illegale (cioè affaristico-criminale), uniti in un’inossidabile convergenza di interessi. Suicidi in carcere, secondo Nordio il sovraffollamento fa bene: “È una forma di controllo” dire.it, 18 luglio 2025 Il Ministro della Giustizia: “Sono problemi gravi ma non correlati. È la solitudine che porta al suicidio”. No, le inquietanti statistiche sui suicidi in carcere non sono legate all’endemico sovraffollamento delle prigioni italiane. Sono “due problemi gravi, ma non connessi”, dice il Ministro Carlo Nordio intervistato dal Corriere della Sera. “Anzi - rilancia - paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. È la solitudine che porta al suicidio. Ma soprattutto la mancanza di speranza e l’incertezza del domani. Molti si uccidono proprio quando è imminente la loro liberazione. Il sostegno psicologico è essenziale. Abbiamo stanziato risorse importanti”. Una lettura… originale, quella del Ministro: le celle con decine di persone ammassate senza aria condizionata, sporcizia, malattie, violenza sono tutto sommato un dissuasore. Nordio poi, interrogato sui risvolti dell’inchiesta sull’urbanistica milanese, rivendica la sua norma sull’arresto posticipato all’interrogatorio: “Con la mia riforma, a Milano oggi hanno tutti evitato il carcere. Vorrei sapere cosa ne pensa il Pd”. E rilancia sulla legge Salva Milano: “Le leggi non vanno presentate o ritirate sulla base di ciò che suscita emotività”. Tornando al sovraffollamento delle carceri, Nordio rassicura che non ci saranno “né indulto né liberazione anticipata. Se motivati dal ridurre il sovraffollamento, non solo costituiscono una manifestazione di debolezza dello Stato o addirittura di resa, ma sono anche inutili. Parlano le cifre. Nel luglio 2006, con il governo Prodi, la popolazione era di 60.710 detenuti. Con l’indulto ne fu liberato il 36%. Tre anni dopo erano arrivati a 63.472, con una crescita costante e una recidiva del 48%”. E il famoso piano carceri? “Abbiamo aperto oggi un interpello per 102 amministrativi adibiti esclusivamente alla magistratura di sorveglianza. E posso anticipare che ci sarà anche un ampliamento della pianta organica dei magistrati di sorveglianza di 58 unità: due per ogni ufficio giudiziario. Dal 30 giugno, poi, dei 6.000 addetti all’ufficio del processo che stabilizzeremo con fondi nazionali una parte cospicua sarà assegnata alla magistratura di sorveglianza”. Risultati? “Già da settembre. Nel frattempo interverremo su tre fronti. Carcerazione preventiva: oltre 15.000 detenuti sono in attesa di una condanna definitiva. Trasferimento dei detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi d’origine: basterebbe mandarne via la metà. E tossicodipendenti: abbiamo stanziato 5 milioni di euro annui per il loro trattamento in custodia attenuata, in comunità o altre strutture accreditate. Anche qui siamo vicini alla soluzione. Ma non sono cose che si improvvisano”. Le lettere dal carcere di Alemanno? Noi lo aspettiamo fuori. A battersi per chi sarà rimasto dentro di Fabrizio Roncone Sette - Corriere della Sera, 18 luglio 2025 Questa, dai cronisti che s’occupano di politica, verrà ricordata anche un po’ come la calda estate del camerata Gianni Alemanno, costretto a starsene in una cella del penitenziario romano di Rebibbia, costruito negli anni Settanta e quindi tutto cemento armato e niente coibentazione, d’inverno i reclusi battono i denti avvolti nelle coperte e d’estate stanno come dentro un forno - scrive proprio così Alemanno, nel suo tragico diario pubblicato su Facebook, rispettando le procedure previste dalla legge: stanno dentro un forno acceso in cui cercano di sopravvivere, già ben stretti, ammucchiati, come in una galera settecentesca. Alemanno scopre, sulla sua pelle, il dramma del sovraffollamento delle carceri e certe disumane condizioni di vita quotidiana. Aggiunge - polemico - che “la politica dorme con l’aria condizionala” e non s’accorge che “le proteste carcerarie sparse per Malia sono ormai già cinque”. Il racconto di Alemanno è pieno di verità tremende. Denuncia quello che, per anni, hanno denunciato rari e coraggiosi personaggi, penso a Marco Pannella, a Luigi Manconi, nel colpevole disinteresse del Parlamento, perché - come noto - i diritti della popolazione carceraria vengono dopo quelli di tanti, compresi i tassisti e la comunità Lgbt, che invece muovono consenso, e voti. Va così. E va male se pensiamo che Alemanno ha scoperto tutto solo dopo Gianni Alemanno, 67 anni, ex sindaco di Roma: è in carcere dal 31 dicembre 2024 essere stato arrestato la sera dello scorso 31 dicembre (vabbè, la data è curiosa) per violazione degli obblighi imposti dai magistrati di sorveglianza: ritenuto colpevole di traffico d’influenze illecite nell’inchiesta “Mondo di mezzo”, condannato a un anno e dieci mesi, era stato affidato ai servizi sociali e lì doveva restarsene buono e accucciato. Invece ha iniziato ad andare in giro, ha continuato a fare politica nella sua deriva rossoscura, occhieggiando al comunista Marco Rizzo. L’ultima volta l’ho incontrato all’Aria che tira su La7. Ci conosciamo da tempo, e sa cosa penso della sua esperienza da sindaco di Roma, su cui è opportuno stendere un velo pietoso (fu, però, un buon ministro dell’Agricoltura, nei governi Berlusconi II e III). Se vuole, sa essere simpatico. Di certo, sa cos’è l’onore. Sono sicuro che, una volta fuori dal gabbio, si batterà come un leone per rendere la vita migliore a chi è rimasto dentro. Dal carcere alla maturità. Storia di Cloe, la detenuta di 19 anni che ama la filosofia di Diana Ligorio Il Domani, 18 luglio 2025 Per due anni è uscita ogni giorno per frequentare il liceo di scienze umane. Dall’istituto penale all’istituto scolastico: “Sono tre minuti a piedi. Tre minuti di libertà”. Il tema che ha scelto è quello sul rispetto: “Significa riconoscere la dignità dell’altro, accettare le differenze, dialogare senza prevaricare, ascoltare senza giudicare”. Cloe ha fatto colazione ed è uscita per andare a fare l’esame di maturità come tutti gli studenti della sua età. Ma a differenza dei ragazzi della sua età, Cloe non ha salutato la famiglia, non è uscita di casa. Ha firmato, ha oltrepassato un cancello che si è chiuso al suo passaggio e si è lasciata alle spalle l’istituto penale minorile femminile di Pontremoli al confine tra Liguria e Toscana. Cloe viene da una città del nord. Ha 19 anni, in carcere da quando ne ha 17: “Manca ancora un po’ per la fine della pena”. Per due anni è uscita ogni giorno per frequentare il liceo di scienze umane. Dall’istituto penale all’istituto scolastico. “In classe avevo gli occhi puntati addosso. Mi hanno chiesto da dove venivo e ho detto subito la verità: sono una detenuta. Sono rimaste scioccate”. I primi tempi Cloe è stata accompagnata dalla penitenziaria o dagli educatori nel tragitto dal carcere a scuola. Poi le è stato concesso di andare da sola. “Sono tre minuti a piedi. Tre minuti di libertà”. In classe ha legato con due compagne in particolare: “Erano quelle disposte a comunicare con me”. La materia preferita di Cloe è filosofia: Kierkegaard, Simon Weil e soprattutto Hannah Arendt. “In La banalità del male lei sostiene che il male compiuto da Eichmann - spiega Cloe - non era dovuto a un’indole maligna ma al fatto che non era consapevole delle sue azioni”. I libri consentono a chi legge di vivere più vite possibili, ma in un carcere minorile è il libro stesso a rivivere in una storia, in una nuova luce. A giugno è suonata la campanella. Anche Cloe ha avuto la sua notte prima degli esami. Anche lei ha avuto la sua strofa nella canzone di Venditti: “Notte di polizia, certo qualcuno te lo sei portato via”. Alla prova scritta ha scelto la traccia sul rispetto: “Non c’è nessun significato particolare, era il tema per me più semplice”. Il foglio ministeriale che Cloe aveva tra le mani diceva: “Rispetto significa riconoscere la dignità dell’altro, accettare le differenze, dialogare senza prevaricare, ascoltare senza giudicare”. Proprio un mese prima dell’esame, Cloe ha portato il concetto di rispetto sul palco grazie a un’esperienza unica che da anni caratterizza il carcere di Pontremoli: ogni anno le ragazze detenute fanno un corso di teatro con i ragazzi della città e insieme portano lo spettacolo fuori dal carcere, in piazza con il Curae Festival. Cloe era la protagonista dello spettacolo, intitolato Stigmate: “Avevo una lettera marchiata addosso. È la cosa a cui pensiamo di più, l’etichetta che ci porteremo sempre una volta libere”. All’esame orale le hanno mostrato l’immagine di una trincea. Chissà se Cloe in classe e in carcere si è sentita in trincea. Certo è che nella vita si è dovuta difendere: “Sono stata molto aggressiva. In istituto faccio boxe. Mi ha aiutata ma in minima parte. La rabbia sta nella mia testa. È una cosa mia ma anche del mondo”. Davanti alla commissione Cloe ha parlato dell’esperimento sociale dello psicologo Milgram su obbedienza e autorità: “Il potere sulle persone può portare ad atrocità”, dice. All’orale Cloe si è arrampicata dal fossato per mostrare la sua guerra nel rapporto tra potere e devianza. “Quando mi abituerò a essere libera voglio fare un corso di tatuaggi”. Dallo stigma subito a quello scelto. “Mi piace lo stile chicana con le donne iperrealistiche che prendono forma intorno ai simboli”, dice Cloe con il tatuaggio di un diamante sulla pelle. “Negli anni l’utenza è cambiata”, dice Francesca Capone, direttrice dell’istituto di Pontremoli. “In passato i reati erano per lo più contro il patrimonio, ora sono frequenti anche reati contro la persona e lesioni spesso gravissime”. L’istituto rispecchia la situazione sociale fuori: “L’emancipazione femminile passa anche dalla commissione di reati che forse prima le ragazze commettevano in maniera residuale”. Secondo la direttrice, la tipologia dei reati dipende anche da un altro fattore: “Queste ragazze non riescono a sentirsi, non sanno percepire e gestire le loro emozioni”. Ogni giorno in istituto bisogna aggiustare qualcosa che è stato rotto. “Le ragazze sono molto aggressive, compiono tanti danneggiamenti. Non è semplice vandalismo, è il loro modo di comunicare. Questa rabbia da dove viene? Su questo ci dobbiamo interrogare”. È una domanda che si è posta anche Cloe ma la risposta la tiene per sé: “All’università studierò psicologia. Vorrei fare la psicologa nelle carceri minorili”. Il pensiero di tornare libera la rende felice ma la spaventa: “Non sono più abituata. Ho fatto una gita a Napoli con la scuola e sono stata male. Io sono abituata al letto e alla routine del carcere”. Ma c’è un’altra ragione per quel malessere: “Alcune ragazze hanno letto ad alta voce certi messaggi contro di me dai telefonini delle mie compagne”. Sbattere la testa - “Tutti possono sbagliare”, dice Cloe. “Ci sono tante variabili. Ti trovi a picchiarti con una persona, quella sbatte la testa e muore. Per esempio”. Del tema sul rispetto Cloe non ricorda nulla, non ricorda cosa ha scritto perché la maturità è capire che forse un esame non insegna niente, forse il carcere non insegna niente e così anche la vita. Forse la vita di una diciannovenne detenuta è una camminata di tre minuti tra la cella e la scuola verso l’ennesima prova, cantando Venditti, pensando a tutto il male di Hannah Arendt e anche di più, stringendo i pugni per i cazzotti non dati, sognando il tatuaggio da farsi una volta libera: una ragazza con la sua arma, appena sbucata dalla trincea, una ragazza che diventa diamante. Decreto Sicurezza, la difesa legittima non può diventare principio assoluto di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 18 luglio 2025 La riforma ha accentuato il conflitto tra sicurezza soggettiva e legalità penale Di fronte a questo scenario era lecito attendersi una presa di posizione chiara. Con l’entrata in vigore del nuovo Decreto sicurezza - varato con l’intento dichiarato di rafforzare la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza urbana - il Legislatore ha mancato un’occasione importante: quella di intervenire nuovamente in materia di legittima difesa, offrendo un quadro normativo più equilibrato, razionale e rispettoso dei principi costituzionali. È notizia di alcuni giorni fa l’ultimo fatto di cronaca destinato a far discutere in materia. Nel comune di Centola, in provincia di Salerno, un uomo ha fatto fuoco con un fucile dopo aver sorpreso tre ladri nella sua abitazione. Uno dei tre banditi è rimasto ferito gravemente. E in casi come questi in molti si chiedono quando è legittimo o meno il ricorso all’uso della forza. A distanza di alcuni anni dalla riforma del 2019, introdotta con la legge n. 36/ 2019, le criticità legate all’attuale assetto normativo dell’art. 52 c. p. non solo permangono, ma risultano oggi acuite da un contesto sociale e mediatico che tende, troppo spesso, a contrapporre sicurezza e garanzie, legittimazione della difesa domiciliare e rispetto della vita umana. Il nuovo decreto - che avrebbe potuto rappresentare un’occasione di sintesi tra queste istanze - si è invece limitato ad interventi settoriali, trascurando la necessità di affrontare con rigore tecnico-giuridico il tema della difesa legittima. La riforma del 2019, come noto, ha introdotto una presunzione legale di proporzionalità in caso di difesa domiciliare, modificando il secondo comma dell’art. 52 c. p. e stabilendo che “sussiste sempre” il rapporto di proporzione nei casi previsti, ove l’offesa sia posta in essere con violenza o minaccia. Al contempo, il novellato art. 55 c. p. ha escluso l’eccesso colposo in presenza di uno stato di grave turbamento o minorata difesa, spostando l’asse valutativo dal profilo oggettivo a quello soggettivo. Una simile costruzione, tuttavia, ha determinato l’introduzione di elementi presuntivi e psicologici di difficile armonizzazione con il principio di colpevolezza e con il dovere costituzionale di tutela della vita, anche dell’aggressore. La giurisprudenza, chiamata a colmare le ambiguità interpretative della novella, ha oscillato tra tentativi di lettura costituzionalmente orientata e derive giustificazioniste che rischiano di legittimare condotte non realmente necessitate. In tal senso, la riforma ha finito per accentuare - anziché risolvere - il conflitto tra sicurezza soggettiva e legalità penale. Di fronte a questo scenario così lacunoso, era lecito attendersi dal nuovo Decreto sicurezza una presa di posizione chiara e sistematica: una riforma che, pur riaffermando la centralità della tutela del domicilio e dell’incolumità personale, restituisse coerenza dogmatica all’istituto della scriminante, riportando al centro l’analisi del pericolo attuale e della necessità della reazione. Non si trattava di “arretrare” nella difesa dei cittadini, bensì di evitare pericolose zone grigie di impunità. La difesa legittima non può diventare un principio assoluto, né essere ancorata alla sola percezione soggettiva del pericolo. Occorre invece un bilanciamento ragionevole, che valorizzi l’esigenza di autotutela ma entro i confini rigorosi dell’ordinamento democratico. Un tale bilanciamento è oggi più che mai necessario, specie in un momento storico in cui la percezione sociale della sicurezza rischia di piegare il diritto penale a logiche simboliche e populiste. Il Legislatore, scegliendo, ancora una volta, di non intervenire sul tema in maniera significativa, ha confermato una tendenza alla frammentazione e alla riforma episodica, rinunciando a un riordino complessivo dell’istituto. In definitiva, il nuovo Decreto sicurezza ha perso l’occasione di chiarire e ristrutturare un campo del diritto penale che merita maggiore sistematicità e che incide profondamente sul patto di convivenza civile. La sicurezza, infatti, non può essere solo difesa armata del singolo: deve essere, prima di tutto, responsabilità dello Stato e garanzia di legalità per tutti. *Avvocato, Direttore Ispeg Il garantismo della destra è un gargarismo di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 luglio 2025 Politici, giornali. Il caso Sala? Termometro del rispetto delle garanzie (con eccezioni). C’è una cosa che il centrodestra dovrebbe smettere di fare: parlare di garantismo, se poi ogni volta che un politico di centrosinistra finisce in un’inchiesta giudiziaria, il principio di non colpevolezza si scioglie come neve al sole. L’indagine sulla giunta milanese e sul sindaco Sala ne è la prova più clamorosa. I titoli di alcuni quotidiani di destra - con la sola, significativa eccezione del Giornale di Sallusti - si lanciano in un poco elegante linciaggio. “Un mattone in testa a Sala”, titola la Verità. “A Milano si bevono il Pd”, rincara Libero. Cronache o sfoghi? Se si cambia campo di gioco, non si farà fatica a notare che erano gli stessi partiti oggi al governo a invocare una riforma profonda della giustizia per restituire equilibrio tra potere legislativo e potere giudiziario. Gli stessi che un tempo dicevano che “un avviso di garanzia non è una condanna”. Bene: oggi quell’avviso riguarda un avversario politico, e tutto cambia. Allora il garantismo cos’è? Un principio o un gargarismo? Ci si sciacqua la bocca, detto con rispetto, si fa il verso dei giusti, poi si sputa via, pronti a chiedere dimissioni, sanzioni morali, crocifissioni preventive. Fa bene il direttore Sallusti, invece, a dire che la politica non può farsi dettare l’agenda dai pm. Perché è questa la vera stortura: un potere giudiziario che può influenzare, anche solo con un titolo, la vita pubblica, le alleanze, persino il voto. Ma fa male, molto male, vedere chi diceva di voler correggere questi squilibri trasformarsi nel più zelante dei giustizialisti. La doppia morale è la più sottile forma di ipocrisia (e a destra, al momento, si salva solo Forza Italia, che ha avuto il buon gusto di non cavalcare l’inchiesta, e il ministro Crosetto, che ieri ha detto che “la magistratura non deve e non può sostituirsi al corpo elettorale”, neanche quando tocca a un avversario politico). Se il garantismo vale solo per i propri, allora non è garantismo: è triste faziosità. E se la difesa del garantismo serve solo a proteggere i propri leader, non è una riforma: è una copertura. Ci vuole più coraggio, e più coerenza. Anche - e soprattutto - quando a finire sotto inchiesta è chi si vorrebbe battere solo alle urne, e non in tribunale. Cosa vuol dire criminalizzare la politica scommettendo sulla cultura del sospetto di Claudio Cerasa Il Foglio, 18 luglio 2025 Colloquio con Flick: “Quando la giustizia smette di occuparsi dei fatti verificati e inizia a occuparsi di sospetti, di teoremi, di fenomeni concentrandosi sul consenso nasce un problema”. Lo sconcerto nella “repubblica dei giudici e dei pm”. Una chiacchierata con il giurista ed ex ministro di Prodi. Giovanni Maria Flick è un importante giurista italiano. È stato ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Prodi, è stato presidente della Corte costituzionale tra il 2008 e il 2009. È un uomo di sinistra, è un giurista cresciuto nel mondo progressista, ma da anni, in modo discreto ma deciso, ha iniziato una sua personale battaglia culturale per provare a mettere di fronte agli occhi della politica, sia quella di destra sia quella di sinistra, una verità necessaria: i danni creati da una repubblica fondata sulle esondazioni della magistratura. Flick ha accettato di dialogare con il Foglio su questo tema, in modo schietto, sincero e sorprendente, mettendo insieme tre elementi apparentemente molto diversi l’uno dall’altro. Il primo elemento riguarda le indagini sul lavoro portate avanti a Milano da un pubblico ministero ormai noto alle cronache, Paolo Storari, anche se per delicatezza Flick non lo nomina mai. Il secondo riguarda le indagini sull’urbanistica portate avanti sempre a Milano dalla stessa procura, che hanno condotto ieri anche a un’indagine a carico del sindaco Giuseppe Sala. Il terzo elemento riguarda le motivazioni, clamorose e sottovalutate, depositate dalla Cassazione in merito a un incidente mortale con un bus ad Avellino, avvenuto nel luglio del 2013. Il filo conduttore che Flick intravede in queste storie rientra all’interno di un problema che sta a cuore a questo giornale. L’Italia, dice Flick, ha scelto di osservare con indifferenza le esondazioni della magistratura. Nell’osservare con indifferenza queste esondazioni ha creato un vuoto, uno spazio, all’interno del quale la politica ha accettato di dare alla magistratura poteri superiori a quelli che le spetterebbero. La magistratura ha spesso riempito questi vuoti andando a trasformare la cultura del sospetto nel motore principale del sistema giudiziario italiano. E l’incapacità della politica di riappropriarsi di quello spazio ha creato un problema enorme: la presenza di una magistratura che non si limita a occuparsi di reati ma che sceglie di occuparsi di fenomeni, facendo dunque prevalere nella sua azione un obiettivo non più legato al solo rispetto del codice penale e delle sue garanzie in tema di legge, reato, responsabilità personale e pena, ma legato a un pericoloso rispetto del codice etico. Il codice penale, lo sappiamo, permette una discrezionalità limitata. Il codice della prevenzione, invece, permette una discrezionalità illimitata. Secondo Flick, l’eccesso nell’uso delle misure di prevenzione, come l’amministrazione giudiziaria senza reato accertato, rappresenta un problema per il paese perché mina il principio di legalità, sostituendo la certezza del diritto con il sospetto, e perché permette, come è successo a Milano con molte inchieste, di “passare dalla repressione di fatti penalmente rilevanti a interventi su fenomeni fondati su giudizi di contesto, percezioni di rischio o finalità etico-sociali”. Questo approccio, dice Flick, “espone le imprese a una responsabilità anticipata e indeterminata, scoraggia gli investimenti, introduce incertezza nei rapporti economici e affida alla magistratura funzioni di controllo che spettano alla politica”. E non solo: “Così facendo il diritto penale diventa uno strumento di moralizzazione preventiva, con effetti distorsivi sia sulla responsabilità e sulla libertà d’impresa, sia sulla tutela dei diritti fondamentali”. Il caso della scelta di sottoporre Loro Piana a un’amministrazione giudiziaria sulla base di un’interpretazione creativa del diritto al lavoro - Loro Piana secondo la procura di Milano non avrebbe messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative nelle aziende appaltatrici - è secondo Flick un caso di scuola e mostra esattamente ciò che il giurista critica: l’uso del diritto penale in chiave preventiva e discrezionale. L’azienda non è accusata di aver sfruttato lavoratori, ma di non aver vigilato abbastanza su un fornitore. È la logica dell’”agevolazione colposa”, che punisce senza dolo, solo per una colpa ambientale presunta. E in questa logica, misure come sequestri o amministrazioni giudiziarie diventano sanzioni anticipate, prima di un processo. Si passa, dice Flick, dal reato accertato al giudizio di contesto, dove la magistratura interviene per moralizzare il sistema più che per applicare la legge. E tutto questo mina il principio di legalità, genera incertezza giuridica, danneggia le imprese e scoraggia gli investimenti. L’effetto finale è un diritto penale simbolico, che sostituisce la politica e indebolisce lo stato di diritto. “Si sta applicando, con un certo compiacimento generale, un approccio nato per le misure di prevenzione antimafia. Originariamente quelle misure erano pensate per il controllo delle persone fisiche, poi queste misure si sono ampliate nel tempo e si sono sviluppate come strumenti per monitorare le infiltrazioni mafiose nella società apparentemente sana. Il problema è che tali misure prevedono pochissime garanzie: si applicano non in presenza di un reato commesso, ma sulla base della pericolosità presunta del soggetto. Non sono misure di sicurezza successive a un reato, bensì strumenti che agiscono sul sospetto. Questo ha portato a una dilatazione del concetto stesso di ‘prevenzione’ e a uno spostamento sempre più marcato sul piano patrimoniale. Col tempo, le misure di prevenzione sono diventate sempre più patrimoniali: si guarda da dove arriva e dove va il denaro. Il paradosso attuale è che si applicano misure di prevenzione al denaro anche indipendentemente da chi lo riceve, con una logica di controllo pervasiva. E nel caso milanese, ad esempio, si esercitano misure di prevenzione estese, come l’amministrazione giudiziaria, anche quando non vi è la prova di un reato. E quando si crea un meccanismo in cui, applicando norme sulla prevenzione, si arriva a sequestrare o a intervenire giudiziariamente in assenza di reati accertati, si guarda più al risultato finale o al consenso di tutti, complice la ‘acquiescenza coatta’ del soggetto inquisito”. Il secondo punto che sta a cuore a Flick riguarda un altro tema delicato che ha colpito Milano negli ultimi giorni: le indagini portate avanti dalla procura sul tema dell’urbanistica. A differenza del caso precedente, dice Flick, su questo tema vi è una questione di fondo importante. Il principio costituzionale impone che il reato debba essere previsto dalla legge prima di essere commesso, e che non debba essere troppo creativo, e sull’urbanistica i reati contestati, in alcuni casi, ci sono, sono comprensibili, sono chiari. Non si tratta di dire che gli indagati siano davvero colpevoli, questo sarà il tempo a dircelo, ma si tratta di distinguere tra un magistrato che si occupa solo di fenomeni e uno che si occupa anche di fatti. Ma anche qui, dice Flick, un rischio c’è. Ed è evidente: il pericolo che si affermi una visione giustizialista con cui si finisce per criminalizzare la politica urbanistica in quanto tale. Flick osserva che spesso il Parlamento interviene con “interpretazioni autentiche ex post” per legittimare decisioni urbanistiche già prese, col rischio di piegare la legge alle esigenze di progetti controversi. Il passaggio dalla pianificazione all’indagine giudiziaria, però, avviene spesso in un contesto normativo confuso e frammentato, che non distingue abbastanza tra scelte discutibili e comportamenti illeciti. E quando la magistratura estende troppo i confini del penalmente rilevante per colmare i vuoti della politica o della legge, “si corre il rischio di sostituire alla decisione democratica il sospetto”. Il paletto è necessario invece: “Un conto è occuparsi di un eventuale reato della politica, un altro è criminalizzare il mestiere della politica”. Il terzo punto affrontato da Flick riguarda la recente sentenza della Cassazione (di due giorni fa) sul caso del pullman privo di freni precipitato a causa di un guardrail difettoso ad Avellino, nel 2013. In quella sentenza, dice Flick, la Cassazione ha accertato la responsabilità dei vertici dell’impresa incaricata, ridefinendo in modo molto ampio - forse troppo - il concetto di “organizzazione d’impresa”. Il rischio, dice Flick, in casi come questi “è che si passi da una responsabilità per colpa a una responsabilità oggettiva: non rispondi più solo se hai agito con dolo (cioè con intenzione) o con colpa (cioè per negligenza o imperizia), ma anche se hai semplicemente contribuito, in modo remoto o indiretto, a un evento dannoso. Si tratta di una logica pericolosa, perché introduce elementi di responsabilità non legati a un comportamento diretto o a una violazione di regole, ma a una costruzione giuridica astratta del rischio”. La questione è evidente ed è la stessa che mesi fa si è posto su queste pagine il nostro Ermes Antonucci: “Com’è stato possibile che la giustizia abbia finito per attribuire all’amministratore delegato di una società di quasi diecimila dipendenti, e che gestisce circa 2.800 chilometri di autostrade, la responsabilità per il cedimento del guardrail di un viadotto? “Quando la cultura di riferimento della giustizia diventa quella del non poteva non sapere, non poteva non vigilare, non poteva non essere a conoscenza, il rischio è che si affacci un’idea di giustizia che smette di occuparsi dei fatti verificati e inizia a occuparsi di sospetti, di teoremi, di fenomeni. Ciò che fra l’altro testimonia l’ignoranza reciproca che vi è tra l’impresa, la sua organizzazione e l’attività del magistrato”. Conclude Flick: “C’è una storia che racconto spesso a chi si avvicina al mondo della giustizia e a chi cerca di capire quali sono gli errori che vanno evitati quando si ragiona attorno a questo mondo. È la storia di un nonno che amministra la giustizia sotto l’albero. Quel nonno un giorno sceglie di portare sotto l’albero il nipotino. E con il nipotino inizia a giudicare un caso. Arriva un contendente e dopo pochi minuti di colloquio il nonno dice: ‘Hai ragione, vai pure’. Arriva l’avversario e dopo pochi minuti dice anche a lui: ‘Vai pure, hai ragione tu’. Il nipote non capisce e chiede: ‘Nonno, come fanno ad avere tutti ragione? Non si capisce nulla’. Il nonno ci pensa un po’ e risponde dicendo: ‘È vero, hai ragione anche tu’. Morale della favola. La giustizia deve tornare a discutere di fatti concreti, deve occuparsi di non farsi strumentalizzare, deve imparare a giudicare senza farsi prendere dalla volontà di avere un consenso diffuso, e la politica deve imparare a riconoscere quando vi è una giustizia che si basa sui fatti e quando invece vi è una giustizia che si occupa di fenomeni, ovvero di etica. È un duro lavoro ma è l’essenza della nostra democrazia. Vale la pena pensarci e magari persino provarci”. Nordio sull’inchiesta di Milano: “Evitano la cella grazie a me, che cosa ne pensa il Pd?” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 18 luglio 2025 Nordio: “Evitano la cella grazie a me, che cosa ne pensa il Pd? Ecco come ridurrò i detenuti”. “Con la mia riforma, a Milano oggi hanno tutti evitato il carcere. Vorrei sapere cosa ne pensa il Pd”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, parte dall’operazione anticorruzione sull’urbanistica milanese per parlare delle carceri e annunciare le nuove misure in arrivo “a breve”. Rivendica la sua norma sull’arresto posticipato all’interrogatorio. Non coglie l’invito a ritirare la legge Salva Milano: “Le leggi non vanno presentate o ritirate sulla base di ciò che suscita emotività”. E sulla corruzione dice: “Nel merito non so se ci sia o no. Le leggi ci sono. Ma è illusorio pensare che possano fermare un fenomeno che c’è dai tempi di Cicerone”. Sul sovraffollamento carcerario prima il presidente Mattarella e ora i parlamentari chiedono quando si tornerà alla legalità costituzionale? “Abbiamo sempre ascoltato con attenzione e riverenza gli appelli del presidente, e cercato di darvi una risposta che coniugasse certezza del diritto e diritti dell’umanità. Stiamo raggiungendo i primi obiettivi, cominciando con i detenuti che possono usufruire di misure alternative”. Ma cosa si farà e quando? “Prima quello che non si farà: né indulto né liberazione anticipata. Se motivati dal ridurre il sovraffollamento, non solo costituiscono una manifestazione di debolezza dello Stato o addirittura di resa, ma sono anche inutili”. Inutili? “Parlano le cifre. Nel luglio 2006, con il governo Prodi, la popolazione era di 60.710 detenuti. Con l’indulto ne fu liberato il 36%. Tre anni dopo erano arrivati a 63.472, con una crescita costante e una recidiva del 48%”. Allora meglio il nulla? “No. Noi ora ci stiamo occupando di 10.105 detenuti definitivi, con pena residua sotto i 24 mesi, che possono fruire di misure alternative. Se solo la metà ne fosse riconosciuta meritevole saremmo già a buon punto”. Siamo ancora ai “se”? “Spetta ai magistrati di sorveglianza decidere, caso per caso, se ne abbiano il diritto. Con loro abbiamo avviato un intenso confronto e li ringraziamo, ma sono pochi, come i loro assistenti. Per questo abbiamo sollecitato già nello scorso agosto il Csm a colmare i posti scoperti”. E il famoso piano carceri? “Abbiamo aperto oggi un interpello per 102 amministrativi adibiti esclusivamente alla magistratura di sorveglianza. E posso anticipare che ci sarà anche un ampliamento della pianta organica dei magistrati di sorveglianza di 58 unità: due per ogni ufficio giudiziario. Dal 30 giugno, poi, dei 6.000 addetti all’ufficio del processo che stabilizzeremo con fondi nazionali una parte cospicua sarà assegnata alla magistratura di sorveglianza”. Quando vedremo risultati? “Già da settembre. Nel frattempo interverremo su tre fronti. Carcerazione preventiva: oltre 15.000 detenuti sono in attesa di una condanna definitiva. Trasferimento dei detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi d’origine: basterebbe mandarne via la metà. E tossicodipendenti: abbiamo stanziato 5 milioni di euro annui per il loro trattamento in custodia attenuata, in comunità o altre strutture accreditate. Anche qui siamo vicini alla soluzione. Ma non sono cose che si improvvisano”. Perché ancora si attende? “Finora non è stato fatto granché perché è difficilissimo rimuovere situazioni consolidatesi nei decenni. Non si è mai investito molto nelle carceri, soprattutto perché non danno un immediato riscontro elettorale: se spendi 100 milioni per un ospedale son tutti contenti, se lo fai per un carcere molti si domandano se non sarebbe stato meglio costruire scuole o impianti sportivi. Ma con il nuovo commissario straordinario stiamo rimediando anche a questo”. Intanto i detenuti muoiono per il sovraffollamento. “Due problemi gravi, ma non connessi. Anzi, paradossalmente il sovraffollamento è una forma di controllo: alcuni tentativi di suicidio sono stati sventati proprio dai compagni di cella. È la solitudine che porta al suicidio. Ma soprattutto la mancanza di speranza e l’incertezza del domani. Molti si uccidono proprio quando è imminente la loro liberazione. Il sostegno psicologico è essenziale. Abbiamo stanziato risorse importanti”. La separazione delle carriere si avvia al nuovo sì senza l’approvazione di alcun emendamento. Non è una “torsione illiberale”, come dice il Pd? “No. Perché la separazione delle carriere è normale negli Stati dove è nata la democrazia: dalla Gran Bretagna agli Usa. E in quasi tutta Europa. Questo linguaggio apocalittico e sgangherato rivela debolezza argomentativa”. Ma si è usato il “canguro” per saltare l’esame di emendamenti a una riforma costituzionale. “L’opposizione ha fatto, come suo diritto, un rigido ostruzionismo. Noi, altrettanto legittimamente, ci siamo avvalsi dei regolamenti”. Il dialogo con l’Anm, auspicato a parole, è sfumato. “È sempre auspicabile. Ma noto che il suo segretario mi ha addebitato, sul caso Almasri, “un goffo tentativo” di attribuire alla magistratura l’intento di ostacolare l’operato del governo. Io non ho mai attaccato su questo episodio i magistrati, tantomeno il Tribunale dei ministri, di cui attendo rispettosamente la decisione. Queste uscite improprie rivelano un’aggressività livorosa che non è di buon auspicio”. E su Almasri? “Ho già detto tutto”. Borsellino, un tradimento lungo 33 anni di Enrico Bellavia L’Espresso, 18 luglio 2025 Puntare soltanto sul dossier del Ros è fuorviante. Nell’anniversario della strage, ricordiamo il contesto. Ostacolato, ignorato. Tradito. Ucciso. E poi tradito ancora. Per 33 anni. È una gigantesca perpetua impostura quella perpetrata ai danni della memoria di Paolo Borsellino. Iniziata, nel nido di vipere del Palazzo, ben prima del furto dell’agenda rossa, in mezzo ai resti fumanti della carneficina di via D’Amelio. Seguita nel buio di un’indagine sbilenca. Schiantatasi sulle bugie di Scarantino, il pupo vestito da pentito. Protrattasi nella rincorsa a verità di comodo. Continuata nel vortice di carte mischiate a proteggere carriere, complicità, connivenze e silenzi inossidabili. Proseguita ora nell’obliquo tentativo di revisionare l’intera storia. Accade in un’Antimafia che ha per suggeritori due ex ufficiali del Ros, Mario Mori e Giuseppe De Dormo. Ovvero i protagonisti dell’opaca stagione negoziale che anziché fermare le bombe mafiose, le moltiplicò, nella convinzione dei boss di incassare il dividendo dell’orrore. La giustizia ha escluso che fu reato trattare con l’ex sindaco emissario dei Corleonesi, Vito Ciancimino. Ma la sentenza non cancella il dubbio che Cosa nostra ne ricavò la certezza di una sicura remunerazione dei propri sforzi al tritolo. Una strategia terroristica iniziata il 23 maggio del 1992 a Capaci, proseguita 1119 luglio in via D’Amelio e poi esportata in Continente con le bombe di Firenze, Roma e Milano. Di questo l’Antimafia si occupa meno. Al contrario della procura di Firenze che indaga su Mori. Della coppia di ex militari, ai commissari interessa di più il dossier mafia e appalti. Si tratta di un rapporto investigativo sugli interessi diretti dei padrini nel controllo delle opere pubbliche. D’intesa con alcuni politici. Il grosso dei nomi, a dire il vero, circolava a beneficio dei giornali, quasi ce ne fosse un secondo, più completo, di dossier. Presentato nel 1991 alla procura di Palermo, diretta allora da Pietro Giammanco, il rapporto fu messo in sonno, poi ripreso, scandagliato, in parte archiviato, e sviluppato con l’impulso dello Sco, fino a processi e condanne. Nel vortice degli stracci di un rinnovato interesse, pure la procura di Caltanissetta si incarica di riscrivere come andò la tortuosa vita di quel fascicolo. Borsellino, è vero, si interessò al rapporto. Ma di sicuro non era l’unica fonte della sua curiosità sul tema. E nulla seppe del dialogo aperto con Ciancimino. Sapeva per conto proprio degli affari siciliani della Calcestruzzi di Ravenna, come del legame tra Vittorio Mangano e Dell’Utri. Sarà comodo per qualcuno, ma ricondurre la strage solo al dossier del Ros rischia di non far vedere il contesto. Quel grumo in cui affonda il passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, mentre Tangentopoli scompaginava l’arco costituzionale, i partiti erano allo sbando e la mafia giocava la sua partita, salutando poi con la tregua il nuovo corso del Paese che da lì a poco si sarebbe inaugurato. Ma anche soltanto a volere stare stretti sui 57 giorni tra Capaci e via D’Amelio, ci sarebbe stato molto da approfondire. E in parte si potrebbe ancora, almeno fino a quando qualcuno dei protagonisti di allora è ancora in vita. Borsellino ebbe modo di sollecitare che i colleghi di Caltanissetta lo ascoltassero per fargli dire ciò che sapeva intorno alla fine di Giovanni Falcone. Nessuno lo chiamò. Non ci si è sforzato di trovare quel “qualcuno” che lo aveva “tradito” di cui parlò. Né, quando era possibile, si approfondì il perché il procuratore capo di Palermo Pietro Giammanco gli impedì di indagare sul capoluogo, concedendoglielo solo con una telefonata all’alba del giorno della strage. Né perché non ci fosse neppure un divieto di sosta sulla via della morte a proteggere l’uomo più a esposto e più solo d’Italia. E il più tradito. Storia di Vincenzo T. di Paolo Persichetti insorgenze.net, 18 luglio 2025 Ho conosciuto Vincenzo T nel carcere Mammagialla di Viterbo. Era il 2003, da pochi mesi ero stato riconsegnato all’Italia dopo undici anni di esilio. Ceduto con un sotterfugio in un’alba di fine agosto alla polizia italiana sotto il tunnel del Monte Bianco. Le televisioni avevano lungamente diffuso le immagini del mio arresto attorniato da poliziotti nel cortile della questura torinese, evento salutato con un brindisi nella dimora in Costa Smeralda dell’allora capo del governo Berlusconi. Trascorse alcune settimane in osservazione ero stato trasferito nella sezione penale del carcere. Si faceva sera, il corridoio del reparto era affollato perché le celle in quel luogo venivano aperte per le ore di socialità pomeridiana. Una bella novità dopo i lunghi mesi di isolamento passati a Marino del Tronto. In sezione al mio arrivo tutti mi salutano, qualcuno aveva avvertito che sarebbe arrivato il brigatista. Butto il mio sacco nella cella che mi era stata assegnata e vado subito a passeggiare, su e giù in quel brusio generale. Una sensazione bellissima che avevo dimenticato. È lì che si avvicina Vincenzo T. Testa rapata, viso cotto dal sole, naso a patata. “Paolo ti devo parlare”. Si rivolge a me come se mi avesse sempre conosciuto. “Ti devo dire una cosa che solo tu puoi capire. Di te mi fido, degli altri no”. Vicenzo T mi rivela così il segreto della sua esistenza che tanto lo tormentava. Una sofferenza esistenziale di cui aveva lentamente preso coscienza. “Ho un problema con la testa, sento le voci. Forse ho un problema psichiatrico, ma qui non lo posso dire a nessuno, devo fingere di essere normale”. Nelle settimane e mesi che seguirono Vincenzo T mi ha raccontato tutta la sua travagliata esistenza. Abbiamo passato quasi quattro anni insieme al Mammagialla, leggendo libri discutendo dell’universo mondo perché Vincenzo nonostante i pochi studi ha una fame incredibile di letture e ragiona tanto, anche troppo. Gli sono stato accanto sempre, come un fratello maggiore, cercando di proteggerlo e aiutarlo. In quella sezione ho conosciuto altri “matti”, con loro ho legato molto e passato i momenti più belli della mia carcerazione. A volte mi sembrava di rivivere alcune scene di Qualcuno volò sul nido del cuculo, mi sentivo Jack Nicholson con i suoi picchiatelli. Il direttore dell’Istituto si lamentava di questa situazione: al Mammagialla un terzo della popolazione detenuta era psichiatrica, l’altro terzo con dipendenze, infine migranti e poi gli altri. La prigione discarica sociale gli impediva di portare avanti progetti di eccellenza, guadagnare punti per la carriera, finire sulle televisioni mostrando pièce teatrali e progetti d’avanguardia, impossibili in un carcere sentina della terra. Per lui era solo un problema di carriera. Con noi c’era Pino, divenuto psichiatrico per l’abuso di psicofarmaci, e il suo cocellante che parlava in doccia con le trote e ci spiegava che i marziani erano arrivati in skate a Frosinone. Pino era riuscito ad avere la pensione, gli avevo preparato la pratica. Pochi giorni prima di uscire era angosciato perché non sapeva come custodire i cinquemila euro che aveva nel libretto. A dire il vero non sapeva nemmeno dove andare, era nel panico. La prima sera da libero si perse. Non era riuscito a ritrovare la strada della casa famiglia dove lo ospitavano. Passò la notte su una panchina. Poi c’era Vladimiro, il “comandante”, condannato perché aveva rubato delle biciclette e una catenina scavalcando una finestra a piano terra. Anche lui sentiva le voci, “sono come Giovanna D’Arco”, diceva. Ricordo una sua lettera arrivata anni dopo, era finito in un carcere psichiatrico, in un grande camerone dove si mangiavano solo patate lesse e altri detenuti si masturbavano guardando la televisione. Ma quella di Vincenzo T. era la storia più dura, un grumo di sofferenza, stigma sociale, persecuzione giudiziaria, abbandono e ignoranza. In carcere cominciarono ad arrivargli con frequenza regolare notifiche di condanna e denunce per violazione degli obblighi della sorveglianza. Ogni volta montava di rabbia, con fatica lo calmavo. Lentamente cominciammo a capire: quando era in sorveglianza speciale, dopo la sua prima lunga condanna, Vincenzo T. aveva frequenti crisi psichiatriche. Venivano così disposti dei trattamenti sanitari obbligatori. I carabinieri del suo paese non trovandolo a casa, invece di segnalare il ricovero ospedaliero lo denunciavano per evasione. Sei mesi di condanna ogni volta. Gli feci chiedere le cartelle cliniche, confrontammo le date, erano perfettamente sovrapponibili con le denunce presentate da quella caserma infame. Inviammo tutto all’avvocato che per una volta ebbe gioco facile a smontare le accuse. Ma questo è solo un assaggio, il resto è storia di una mancata diagnosi, dell’assenza di cure, dell’abbandono da parte di una famiglia priva di strumenti culturali ma soprattutto da parte della società, delle istituzioni, come si dice. Solo, senza protezione, Vincenzo T. in preda alle sue periodiche crisi psicotiche aveva cominciato girovagare per l’Italia alternando momenti di tranquillità, dove lavorava come autista di scavatrici per ditte che si occupavano di appalti stradali, a crisi acute. E ad ogni crisi invece della cura arrivava la denuncia e il carcere: oltraggio e violenza a pubblico ufficiale, danneggiamenti, litigi di strada, occupazione di immobili (una vecchia stazione ferroviaria abbandonata, utilizzata come giaciglio in assenza di una casa) e ancora, e ancora. Ricordo quando in semilibertà lo andai a trovare nella zona di Trastevere, dove viveva dopo aver terminato il carcere. Non stava bene, vedeva demoni sorgere dal selciato, era alterato. Anche se non potevo, stavo violando il programma trattamentale, cercai di acchiapparlo per portarlo in ospedale. Fuggì. Sapevo cosa sarebbe successo di lì a poco. Il giorno dopo era di nuovo a Regina Coeli, rinchiuso per oltraggio e violenza a pubblico ufficiale. Morta l’anziana madre si sono guastati gli ultimi legami con la famiglia che lo aveva estromesso dall’eredità, qualche campagna e la casa materna. Fonte ulteriore di sofferenza, sensazione di una ingiustizia insopportabile. Ancora denunce e condanne, direttissime senza difesa. Negli ultimi tempi Vincenzo T. aveva messo un po’ di ordine nella sua vita. La famiglia finalmente gli aveva riconosciuto una parte di quanto gli spettava. Con quei soldi aveva comprato una piccola casa, con un amico l’aveva rimessa posto. Lavorava nelle campagne etnee, al nero, la sera lo vedevo sui social fare i suoi balletti con amiche lontane fino a quando è arrivato un cumulo di vecchie condanne, di cui non si era preso cura, a precipitarlo nuovamente nell’abisso del carcere. Da oltre due anni Vincenzo T. è di nuovo in detenzione, in Sicilia. Senza soldi, non riesce a percepire la sua pensione di invalidità psichica perché la carta postale è bloccata. Non ha colloqui e telefonate. Vive nell’indigenza assoluta e i giudici di sorveglianza gli negano sistematicamente le misure alternative, sottolineando la sua “pericolosità” sociale. Vincenzo T mi scrive lunghe lettere dove racconta il carcere di oggi. Per la prima volta non trovo parole per rispondergli. Manganelli, bugie e insabbiamenti: così moriva 20 anni fa Federico Aldrovandi, picchiato da 4 poliziotti di Valentina Santarpia Corriere della Sera, 18 luglio 2025 “Lo abbiamo bastonato di brutto”. Oggi Federico, all’epoca 18enne, avrebbe compiuto 38 anni. Il padre: “I nostri sogni spazzati via dalla pazzia criminale degli uomini”. Le telefonate al 113, le manette e le botte: la storia dall’inizio. Il telefonino di Federico Aldrovandi squilla a vuoto su una panchina la mattina del 25 settembre 2005. Il suo corpo giace tumefatto, sdraiato supino sull’asfalto, con le braccia allargate che disegnano una croce, così come lo ha mostrato Filippo Vendemmiati nel suo bel documentario, È stato morto un ragazzo. Il papà Lino lo sta aspettando con angoscia, quando intorno alle 11 del mattino vede arrivare due poliziotti al cancelletto di casa. Non è un bel segnale. Chiede, a bruciapelo: “È morto?”. E loro non dicono di no. Sono trascorsi quasi vent’anni dalla morte di Federico, 18enne di Ferrara, incensurato, disarmato, che il 17 luglio 2025 avrebbe compiuto 38 anni. Nonostante la verità giudiziaria sia stata stabilita- e siano stati condannati quattro poliziotti a tre anni e sei mesi per omicidio colposo per eccesso di mezzi di contenimento- la vicenda di Federico resta una ferita aperta per il Paese, ed è diventata il simbolo di una battaglia culturale dolorosa e complessa, sollevando interrogativi brucianti sul ruolo delle forze dell’ordine e sulla gestione della sicurezza. “Tanti giovani studenti, ben educati, di buona famiglia, incensurati e di regolare condotta, con i problemi esistenziali che caratterizzano i diciottenni di tutte le epoche, possono morire a quell’età - scrive il giudice Francesco Maria Caruso nelle motivazioni della sentenza - Pochissimi, o forse nessuno, muore nelle circostanze nelle quali muore Federico Aldrovandi: all’alba, in un parco cittadino, dopo uno scontro fisico violento con quattro agenti di polizia, senza alcuna effettiva ragione”. Federico è un ragazzo come tanti in quel 2005: nato a Ferrara il 17 luglio 1987, frequenta l’Itis elettronica, ha molte passioni, tra cui il calcio (tifoso della Spal), la musica e le arti marziali. Suona il clarinetto e pratica karate fin da bambino. Inoltre, si è impegnato in un progetto scolastico per la prevenzione delle tossicodipendenze. In attesa di sostenere l’esame per la patente, svolge occasionalmente lavori come pony express in una pizzeria. La sera del 24 settembre esce con gli amici di sempre, quelli con cui si vedeva a scuola, ma anche “nella stessa compagnia”, come si diceva allora. “Una serata tranquilla”, racconta dopo anni uno dei suoi più cari amici. Erano andati a vedere un concerto reggae al Link, un centro sociale all’aperto, “abbiamo riso, scherzato, una serata normalissima: era ancora caldo, un po’ di musica, qualche birra, si stava bene”. Gli esami tossicologici diranno che Federico aveva modeste quantità di alcol e droga nel sangue, sostanze rilassanti, non eccitanti. Al ritorno in auto Matteo Parmegiani guida, Aldo Boldrini è “copilota”, dietro ci sono due ragazze e in mezzo “Aldro”, sulla strada di ritorno cantano e parlano, Federico è attivo e sveglio. Poi si addormenta quando loro si fermano all’autogrill per prendere qualcosa da mangiare. “Siamo passati davanti a casa sua e Matteo gli ha chiesto se voleva che lo lasciassimo a casa, ma lui ha detto che avrebbe preferito venire con noi e fermarsi al parchetto per poi andare a fare colazione. L’ultima volta che l’abbiamo visto è stato quando lo abbiamo lasciato al parchetto, camminava in direzione via Bologna, una traversa di via Ippodromo”, racconta Boldrini nel podcast Rumore di Francesca Zanni. Sono le 5 del mattino: Federico scende al parcheggio delle scuole elementari Tumiati, come faceva spesso perché amava fare quattro passi prima di rientrare a casa. Tra le 5 e le 5,20 Federico fa nove telefonate, tutte ai suoi amici, più o meno intimi: ma nessuno gli risponde. Stava cercando aiuto? Nessuno lo saprà mai. L’ultima telefonata la fa alle 5.23, da quel momento c’è un buco di mezz’ora: quello che succede in quel lasso di tempo è stato solo in parte chiarito. Cos’è successo la mattina del 25 settembre 2005 - Alle 5.48 una residente di via Ippodromo, Cristina Chiarelli, che sta per uscire per andare a lavoro, chiama i carabinieri per avvisare che c’è “uno che sta andando in escandescenza, sta urlando come il matto: non ho capito se sono uno o due, è nascosto dagli alberi. Le voci vengono da lì”, dice parlando al plurale. Chiarelli dice anche di aver sentito la persona urlare parolacce, come “gente di merda”. Il centralinista, nel passare la comunicazione alla polizia, dice che c’è una persona che sta sbattendo la testa contro i pali, facendo intuire che stia adottando gesti di autolesionismo. Una versione che Chiarelli poi smentirà in tribunale. Di testimonianze ce ne sono altre. Massimiliano Solmi avrebbe iniziato il suo turno a bordo di un’autombulanza del soccorso pubblico alle sei di quella mattina. Il deposito delle autombulanze è proprio nella via dove sta avvenendo il trambusto. Rendendosi conto che sta accadendo qualcosa, sentendo qualcuno urlare “bastardi”, si affaccia per capire cosa stia succedendo. Si tranquillizza perché vede una macchina della polizia. Anche Christian Fogli, che abita in via Poletti, ma ha le finestre su via Ippodromo, si allarma perché teme che i rumori possano svegliare sua figlia neonata: parla di un ragazzo in stato di semi ubriachezza che sta urlando, e al numero di emergenza gli rispondono che una volante sta già intervenendo. Probabilmente parla di Alpha 3, la volante con a bordo Enzo Pontani, capo pattuglia, e Luca Pollastri. Poco dopo arrivano i “rinforzi”, la volante Alpha 2, composta da Monica Segatto e Paolo Forlani. Sul luogo arrivano anche i carabinieri. Alle 6.04 i poliziotti chiamano un’ambulanza, che arriva poco dopo, seguita da un’auto medica. Gli operatori dell’ambulanza trovano Federico sdraiato sulla strada, in posizione prona, i polsi ammanettati dietro la schiena. È immobile, eppure - raccontano i carabinieri - i poliziotti sono ancora inginocchiati per cercare di tenerlo fermo. A questo punto Federico con ogni probabilità è già morto. Il corpo sull’asfalto - I sanitari chiedono ai poliziotti di rimuovere le manette e girare il ragazzo per effettuare le manovre di rianimazione. Purtroppo qualsiasi tentativo è vano. Nel frattempo la famiglia non sa nulla. Il padre, Lino, agente della polizia municipale, che con la moglie Patrizia Moretti, figlia di un carabiniere, ha condotto una lunga battaglia per ottenere giustizia, ha scritto: “Il 25 settembre di ogni anno, giunta l’alba, si ripete quello che per me rimarrà per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell’uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita”. È proprio Lino a chiamare il cellulare del figlio, quella maledetta mattina, quando gli risponde l’ispettore che ha accanto a sé il corpo sanguinante di Federico: “Lei chi è?”. “Chi è lei? - ribatte Lino Aldrovandi - Perché risponde al cellulare di mio figlio?”. L’ispettore non gli dice nulla, gli chiede di descrivere il figlio. “Avrei dovuto capire che mi stava chiedendo di descrivere mio figlio che era lì, ma non mi è venuto - racconta Lino - e quindi mi ha rimesso giù, mi ha detto: le faremo sapere. Abbiamo continuato a chiamare gli ospedali. Poi abbiamo chiamato un amico della Digos, che non era a casa perché quel giorno era stata chiamata tutta la Questura lì, tranne il magistrato, la dottoressa Maria Emanuela Guerra”. È la pm che poi chiese di essere sollevata dall’incarico perché insinuarono che non potesse essere imparziale, essendo figlia di un operatore della Polizia di Stato. “Federico? È morto?” - Il fratello minore di Federico, Stefano, esce in bicicletta a cercarlo, ma va dalla parte sbagliata, e non vede nulla. Il corpo di Federico rimane steso sull’asfalto, senza un lenzuolo, per ore, e senza che la famiglia sappia cosa gli sia successo. A riconoscere Federico è un funzionario amico di famiglia, Nicola Solito, ispettore di polizia di Ferrara. È proprio lui a presentarsi poi insieme a due poliziotti al cancelletto di casa Aldovrandi, lui a tacere abbassando gli occhi quando Lino gli chiede: “Federico? È morto?”. Entrano in casa, il papà cade in ginocchio disperato, gli chiede perché. Solito risponde che c’è stato uno scontro con dei colleghi. “Si sono fatti male?”, chiede Lino nell’incoscienza del momento. L’amico risponde di no, che Federico aveva perso la testa, era quasi impazzito, era salito sul tetto della macchina, gridava, “sbatteva contro i pali”. La stessa ricostruzione che il centralinista aveva dato alla polizia. Ma la scientifica non ha mai trovato riscontro. La prima ipotesi fatta circolare all’epoca sulla morte di Aldrovandi presupponeva un malore, causato da un mix di alcol e droghe assunto durante la serata. Il ministro Carlo Giovanardi, in risposta ad una interrogazione parlamentare, parlò di Federico come di un “eroinomane”. Lo stesso Giovanardi verrà poi denunciato per diffamazione aggravata dalla famiglia qualche anno dopo quando, parlando della foto del volto tumefatto di Federico mostrata dalla madre, disse che non si trattava di sangue ma di un cuscino. I manganelli spezzati - La prima perizia effettuata accertò da subito la presenza di 54 lesioni ed ecchimosi. Le successive stabilirono che la morte era avvenuta per un arresto cardiaco dovuto a compressione toracica e alle numerose percosse subite, non all’assunzione di sostanze. Gli agenti hanno sostenuto durante i processi la tesi per cui il ragazzo fosse in stato di agitazione e avesse tentato di aggredirli. Accanto al suo corpo, quella stessa mattina, furono trovati due manganelli spezzati a metà, di cui parlò per la prima volta Giovanardi. Non sono mancati, negli anni dell’iter giudiziario, querele, denunce e insulti tra le parti, ma alla fine la giustizia ha stabilito la colpevolezza dei poliziotti. Nel marzo 2006, i quattro agenti coinvolti - Monica Segatto, Paolo Forlani, Enzo Pontani e Luca Pollastri - vennero iscritti nel registro degli indagati per omicidio colposo. Nel 2007, il professor Gustavo Thiene dell’Università di Padova confermò che Federico era morto per asfissia da compressione toracica, provocata dal peso esercitato dagli agenti sul suo corpo. Nel 2009, il tribunale di Ferrara ha condannato i quattro poliziotti a tre anni e sei mesi di carcere, per omicidio colposo ed “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. La Corte d’Appello e la Corte di Cassazione hanno confermato la sentenza nel 2011 e nel 2012. I giudici hanno stabilito che la morte di Aldrovandi è stata causata dalle percosse subite quando era già ammanettato. Sei mesi di carcere - La pena è stata in seguito ridotta a soli sei mesi per l’indulto. Nel 2010 viene stabilito il risarcimento di due milioni di euro nei confronti della famiglia di Aldrovandi. In quello stesso anno la Corte d’Appello di Bologna confermava la sentenza emessa in primo grado. Nel 2013, Monica Segatto ha ottenuto i domiciliari dopo due mesi di detenzione. I quattro agenti sono rientrati in servizio nel febbraio del 2014, seppure in ruoli amministrativi. Nel processo Aldrovandi bis, quello aperto per depistaggi, sono stati condannati anche Paolo Marino, dirigente dell’Upg all’epoca, a un anno di reclusione per omissione di atti d’ufficio, per aver indotto in errore il pm di turno non facendola intervenire sul posto; Marcello Bulgarelli, responsabile della centrale operativa, a dieci mesi per omissione e favoreggiamento; Marco Pirani, ispettore di polizia giudiziaria, a otto mesi per non aver trasmesso, se non dopo diversi mesi, il brogliaccio degli interventi di quella mattina. In Cassazione i familiari di Federico Aldrovandi non si costituirono parte civile, avendo raggiunto una transazione col ministero dell’Interno e ricevuto le scuse del capo della Polizia Antonio Manganelli, che incontrò i genitori del giovane durante una visita privata. Ma in tutti questi anni i genitori non hanno mai smesso di lottare per far conoscere la storia del proprio figlio. Al caso sono stati dedicati film, documentari, podcast, canzoni, convegni, eventi, libri, tra cui “Federico”, quello dell’avvocato Fabio Anselmo, che si è occupato del caso e anche di quello di Stefano Cucchi. Anselmo racconta che all’inizio non poteva credere che fossero stati proprio i poliziotti a ridurlo in quelle condizioni, che aveva paura di andare avanti su quella strada perché aveva dovuto lasciare lo studio per diversi mesi per motivi personali, che si sentiva sprovveduto a dover affrontare una questione così grave. “Mi convinse la mia socia - racconta nel podcast Rumore - Mi disse: ma se non facciamo casi così, che facciamo a fare gli avvocati?”. La zona del silenzio - Davanti al cancello dell’Ippodromo di Ferrara, vicino al luogo dove è morto Federico, c’è un cartello con scritto “Zona del silenzio”, che si riferiva alla necessità di non fare rumore per non disturbare i cavalli. Ma che ha acquisito un significato simbolico della vicenda Aldrovandi, ricordando il silenzio che inizialmente avvolse la morte del ragazzo. La madre, Patrizia Moretti, aprì un blog nel gennaio del 2006 che scosse le coscienze: la sua lettera di denuncia raccolse un migliaio di commenti in pochi giorni, un record per quel periodo. Molti di quei commenti venivano da chi aveva sentito e capito, quella mattina, e che grazie a quella richiesta, trovò la forza e il coraggio di denunciare. Iniziò a farsi strada solo allora, quattro mesi dopo la morte, l’ipotesi che Federico fosse morto durante l’intervento degli agenti: dai racconti emergeva che Federico fosse rimasto a lungo a terra, con almeno un poliziotto sulla schiena, che aveva difficoltà respirare e chiedeva invano di essere aiutato. La lettera venne ripostata su Indimedia, un portale a libero accesso, dove gli attivisti potevano postare notizie in maniera indipendente. Grazie alla diffusione di quel post si interessò della vicenda anche Amnesty International, che poi nell’ottobre del 2018 avrebbe lanciato una campagna per chiedere l’introduzione, anche in Italia, di codici identificativi sulle uniformi e sui caschi degli agenti impegnati in attività di ordine pubblico. E laddove le fonti ufficiali avevano nascosto, edulcorato, insabbiato, la scelta della famiglia e dei legali di dare piena visibilità a quanto accaduto a Federico cambiò completamente il corso delle indagini e della percezione pubblica di una cittadina di provincia. La fotografia di Federico massacrato che venne pubblicata per scelta dell’avvocato, con i segni dei manganelli sul volto e la macchia di sangue che si allargava sul lenzuolo bianco sotto di lui, fu un vero choc. E anche chi aveva paura di parlare si convinse: come Anna Marie Tsangue, una donna camerunese di 35 anni che aveva il permesso di soggiorno in scadenza, che in una prima fase disse di non aver visto nulla, poi si confidò col suo parroco e poi con un legale. Fu uno dei testimoni fondamentali in tribunale per raccontare quanto successo: “Quattro di loro su di lui che lo picchiavano”, un brutale pestaggio da parte degli agenti di polizia, nato da un diverbio, come raccontò un altro testimone a Chi l’ha visto, nato chissà per quale motivo. Le testimonianze del pestaggio furono tante nel corso del processo ma una delle più rilevanti fu proprio quella di uno degli imputati, Enzo Pontani, che la mattina del 25 settembre nel chiamare in centrale disse: “Una lotta di mezz’ora con questo qua... lo abbiamo bastonato di brutto... ora è svenuto, mezzo morto”. Federico probabilmente era già morto. In tribunale Pontani cercò di farla passare come una metafora calcistica. A distanza di quasi vent’anni dalla morte di Federico Aldrovandi, suo padre Lino continua a tenerlo in vita sui suoi social con post strazianti, dove i ricordi si intrecciano con i rimpianti. Per il suo “trentottesimo compleanno” ha scritto: “Saresti qui Federico, questo ci disse il difficile percorso giudiziario che portò alla condanna di chi ti uccise per l’appunto senza una ragione. Ti guardo in una delle tue ultime foto e non posso che pensare a come saresti ora. Stringo forte i pugni e chiudendo gli occhi non posso che immaginare che saresti bellissimo. Lo saresti sia fuori, nell’aspetto, ma soprattutto dentro, nel cuore e nell’anima. Ci sono cose di un figlio che non si possono dimenticare: le carezze, gli abbracci, i tanti “ti voglio bene”, ma anche le tante preoccupazioni di farlo crescere nel miglior modo possibile. E nel tuo caso, in quel 2005, quando tutto sembrava volgere al meglio nella nostra vita famigliare pur nei sacrifici, non avevamo previsto che in un’alba maledetta di un nero settembre, tutti i nostri sogni sarebbero stati spazzati via dalla pazzia criminale degli uomini, di quegli uomini (...)”. “Sono trascorsi ben vent’anni dalla tua morte assurda” prosegue il post di Lino Aldrovandi, “o peggio, dalla tua uccisione assurda, e ho capito che il dolore insopportabile dell’assenza di un figlio, nel tuo caso come di un fiore sradicato dalla terra senza un motivo, in me, tuo padre, non potrà mai trovare pace”. Milano. “Le carceri sono invivibili”: il grido d’allarme degli avvocati di Ruben Razzante* Il Giorno, 18 luglio 2025 Il degrado in cui versano le carceri italiane ha stimolato nelle settimane scorse alcune ferme prese di posizione da parte di associazioni culturali e di intere categorie di professionisti. Anche l’Ordine degli Avvocati di Milano ha deciso di non tacere. Il suo presidente, Nino La Lumia, ha annunciato nei giorni scorsi il progetto “Aria di umanità”, per cercare di garantire un ventilatore in ogni cella, come segno concreto di rispetto della dignità della persona anche nei mesi estivi, quando le condizioni ambientali nelle carceri diventano insostenibili. Il direttore dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Carmelo Ferraro, anche come presidente del comitato “Mi’mpegno”, ha aderito alla giornata di digiuno a staffetta promossa da operatori della giustizia contro il sovraffollamento carcerario. “Un’adesione - ha chiarito Ferraro - che non è stata solo simbolica: il digiuno è in questo caso richiesta urgente di attenzione e responsabilità. Le condizioni disumane in cui versano molte strutture detentive italiane sono una ferita aperta per uno Stato di diritto. C’è una realtà quotidiana fatta di violazioni sistematiche: celle sovraffollate, carenze strutturali, assenza di percorsi rieducativi. Tutto questo è una violazione della dignità di chi è detenuto, e un grave pregiudizio per chi lavora all’interno degli istituti penitenziari, come il personale della Polizia Penitenziaria, costretto a operare in condizioni difficili”. Ferraro sta sostenendo l’iniziativa legislativa dell’onorevole Roberto Giachetti che, con un disegno di legge, ha proposto l’allargamento temporaneo della liberazione anticipata, per far fronte al dramma del sovraffollamento e garantire la funzione rieducativa della pena, prevista nella Costituzione. *Docente di Diritto dell’informazione Università Cattolica Monza. Una cella rovente all’Arengario dove sperimentare il carcere di Stefania Totaro Il Giorno, 18 luglio 2025 Denuncia in piazza degli avvocati della Camera penale di Monza sulle condizioni di tanti detenuti. Cosa accadrebbe se vi rinchiudessero insieme ad altri in una cella di 4 passi per 2 che si trasforma in un forno in piena estate? Che ne sarebbe della vostra dignità di persone? Ieri una struttura delle stesse dimensioni è stata montata all’Arengario dagli avvocati delle Camere penali del distretto di Corte di Appello di Milano-Lombardia occidentale (Busto Arsizio, Como-Lecco, Milano, Monza, Pavia, Sondrio, Varese) per sperimentare concretamente cosa significa vivere nelle condizioni che migliaia di detenuti subiscono ogni giorno nelle carceri, Monza compresa. In uno spazio da condividere ridotto al minimo che con il caldo diventa l’inferno. Tanto che alcuni cittadini si sono mossi per fare avere dei ventilatori ai detenuti di via Sanquirico. “R-Estate in cella: il tema caldo del carcere” è stata l’occasione per fare il punto su una situazione bollente. “Volevamo suscitare curiosità per denunciare come si vive l’espiazione della pena e spiegare che il carcere vissuto così non è rieducazione ma è una scuola di recidiva, quindi è interesse di tutti capire senza voltare lo sguardo”, ha dichiarato il presidente della Camera penale di Monza, l’avvocato Marco Negrini. Perché il 30% delle persone in carcere è in attesa di giudizio e potrebbe essere innocente. Come è successo a Marco Sorbara, 55 anni, l’ex assessore di Aosta e consigliere regionale che ha trascorso 909 giorni dietro le sbarre con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Arrestato nel 2019, condannato in primo grado a 10 anni di reclusione, poi assolto, anche grazie alla difesa dell’avvocato monzese Raffaele Della Valle. Ora ha trasformato questa esperienza drammatica in impegno sociale. La cella fac-simile l’ha costruita lui e la porta con sé quando va a raccontare cosa gli è accaduto. “All’inizio volevo scappare perché mi sentivo sporco, inadeguato e non più considerato una brava persona - ha ricordato Marco Sorbara - e ho capito che alla politica di queste cose non interessa niente. Ma quello che è successo a me può capitare a chiunque. Al carcere di Biella sono stato 45 giorni in isolamento, di cui 33 senza vedere la mia famiglia, in una cella con il letto in ferro cementato. Ti tolgono tutto, anche la dignità”. La recidiva è del 70%, ma nelle carceri dove c’è reinserimento scende sotto il 5%. “Stiamo lavorando sulla formazione e sul reinserimento lavorativo dei detenuti perché quello fatto fino ad oggi evidentemente non basta, altrimenti non saremmo in questa situazione”, ha annunciato la consigliera lombarda e presidente della Commissione carceri Alessia Villa. Sulmona (Aq). Suicidi dietro le sbarre, Alessandra Faiella inizia lo sciopero della fame ilgerme.it, 18 luglio 2025 Tappare la bocca per mangiare ma non per denunciare l’indifferenza sui suicidi e il sovraffollamento nelle carceri italiane. Anche l’avvocata del foro di Sulmona, Alessandra Faiella, inizia lo sciopero della fame in segno di protesta per le condizioni precarie in cui vivono i detenuti delle case di reclusione. Faiella aderisce alla staffetta di protesta che a macchia d’olio si sta espandendo a livello nazionale, tra magistrati e avvocati. “Non riesco più a restare in silenzio”, spiega Faiella, snocciolando i dati horror in merito ai suicidi dietro le sbarre. Già 40 i detenuti si sono tolti la vita nel 2025. Un problema legato anche alle condizioni di vita quotidiane. Le carceri italiane ospitano oltre 62.000 persone a fronte di una capienza reale di meno di 47.000 posti. Il tasso di affollamento supera il 134%, rendendo le condizioni invivibili. L’obiettivo dello sciopero è la revisione del pdl Giachetti per aumentare i giorni di liberazione anticipata in caso di buona condotta. “Non è la soluzione, ma un passo per ridare dignità e legalità al sistema penitenziario - conclude Faiella -. La dignità del detenuto è un valore anteriore allo Stato. Un uomo può guardare dall’alto in basso un altro solo per aiutarlo a rialzarsi”. Cagliari. Ipm di Quartucciu, la Garante: “Sovraffollamento record, il sistema sta implodendo” di Francesca Melis L’Unione Sarda, 18 luglio 2025 Carla Puligheddu denuncia una situazione aggravata dagli effetti distorti del cosiddetto Decreto Caivano, in vigore dal settembre 2023. Un tasso di affollamento che sfiora il 150%, celle piene oltre ogni limite, spazi educativi ridotti al minimo e una tensione crescente tra le mura dell’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu. A lanciare l’allarme è la Garante regionale per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Puligheddu, che denuncia una situazione mai vista prima, aggravata - secondo lei - dagli effetti distorti del cosiddetto Decreto Caivano, in vigore dal settembre 2023. “Quartucciu è l’IPM più colpito in Italia per sovraffollamento”, afferma la Garante, aderendo all’appello promosso da Antigone, Defence for Children Italia e Libera per chiedere un ripensamento radicale del decreto. “A livello nazionale - spiega - i 17 istituti penali per minori registrano mediamente un incremento di presenze superiore al 55%, ma a Quartucciu il dato è ben peggiore: un sovraccarico strutturale mai sperimentato prima, che rischia di vanificare anni di buone pratiche e di lavoro educativo”. Puligheddu mette in discussione l’impianto stesso del decreto: “Ha favorito in modo sproporzionato un approccio repressivo e punitivo, accantonando l’unico elemento che avrebbe dovuto guidare ogni intervento sulla devianza minorile: l’educazione e la reintegrazione sociale. Oggi il sistema non si adatta più al giovane, ma pretende che sia il giovane ad adattarsi al sistema. E chi non ci riesce resta indietro, escluso, spezzato”. Il grido d’allarme è accompagnato da un forte riconoscimento al lavoro quotidiano svolto da chi opera dentro l’istituto: direttrice, agenti di polizia penitenziaria, educatrice ed educatori, volontarie e volontari, che negli anni hanno cercato di trasformare il carcere minorile di Quartucciu in una comunità educante, nonostante le sbarre. Ma oggi, sottolinea la Garante, quel modello è in grave pericolo: “La dedizione degli operatori non basta più. Il numero dei ragazzi supera ogni capacità di risposta. E un carcere minorile troppo affollato non rieduca: al contrario, produce altra marginalità”. Il richiamo è dunque politico e urgente: rivedere il Decreto Caivano, evitare che la repressione offuschi il senso stesso della giustizia minorile e restituire centralità a un principio che dovrebbe essere inviolabile: il diritto dei minori a un futuro diverso dal proprio errore. Cremona. “Vi racconto l’umanità del carcere”, grande partecipazione di pubblico per l’evento cremonasera.it, 18 luglio 2025 Le parole e i racconti di don Roberto Musa, cappellano del carcere di Cremona. Una serata molto partecipata quella promossa lunedì scorso a Pieve d’Olmi dall’associazione Olmo APS presso la Casa della Cultura: un momento intenso e toccante che ha messo al centro il tema dell’umanità carceraria, grazie alla presenza e alla testimonianza di Don Roberto Musa, cappellano del carcere di Cremona: “Vi racconto l’umanità del carcere” il titolo scelto per la serata di riflessione introdotta da Thomas Priori e moderata dalla giornalista Michela Garatti che ha guidato gli interventi e facilitato un dialogo tra don Roberto e il pubblico. L’evento si è proposto come un momento importante di ascolto, confronto e consapevolezza, restando lontani da ogni giudizio per avvicinarsi alla realtà di chi vive il mondo della detenzione. In questo, don Musa ha portato la sua esperienza diretta, raccontando la vita quotidiana dietro le sbarre, fatta di sofferenze, solitudini, speranze, tentativi di rinascita che purtroppo non sempre hanno successo, raccontando un’umanità che spesso resta fuori dai radar, composta sia dai detenuti che da agenti, educatori, i volontari. Il suo racconto ha commosso ed emozionato, aprendo uno squarcio su un’umanità fragile ma viva, fatta di storie che chiedono ascolto più che condanna; molte le domande da parte del pubblico, su tematiche profonde e sfidanti: il significato della pena, le possibilità di redenzione, il ruolo della comunità fuori dal carcere. “Non si può parlare di giustizia senza parlare di misericordia,” ha commentato Don Musa, richiamando il dovere etico e civile di non voltarsi dall’altra parte. L’iniziativa si inserisce nel ciclo di incontri promossi da Olmo APS, che da tempo lavora per promuovere la cultura dell’inclusione e i momenti di confronto Reggio Calabria. “Cinema Dentro”, uno spazio di incontro e dialogo tra magistrati e detenuti reggiotoday.it, 18 luglio 2025 Nasce a Reggio Calabria “Cinema Dentro” un progetto ambizioso e coinvolgente ideato dalla sezione distrettuale di Magistratura Democratica in collaborazione con il Circolo del cinema C. Chaplin. Un’iniziativa che vuole superare le barriere del mondo giudiziario e penitenziario per creare un vero e proprio spazio di incontro e dialogo tra magistrati e persone detenute. Da luglio a novembre 2025, negli istituti penitenziari G. Panzera di Reggio Calabria si svolgeranno dieci appuntamenti in cui la visione condivisa di film selezionati si alternerà a momenti di riflessione e confronto. Attraverso il linguaggio universale del cinema, “Cinema Dentro” mira a stimolare consapevolezza, ascolto e capacità di mettersi nei panni dell’altro. Il progetto coinvolgerà circa trenta detenuti, scelti in modo rappresentativo, e vedrà la partecipazione attiva di magistrati, esperti cinematografici, operatori e registi. Il cinema diventa così strumento per affrontare temi sociali e culturali, per interrogarsi sulle proprie esperienze e costruire un terreno comune di dialogo, favorendo la risocializzazione e promuovendo una cultura della responsabilità e del riconoscimento reciproco. Ma “Cinema Dentro” è soprattutto un progetto che mette al centro la relazione: in un contesto spesso segnato dalla distanza e dalla rigidità dei ruoli, si vuole creare uno spazio autentico di incontro, dove persone possano riconoscersi e aprirsi al cambiamento. Non un evento isolato, ma l’inizio di un percorso in continua evoluzione: sono infatti previste attività complementari come un podcast con le riflessioni sviluppate durante gli incontri e collaborazioni con l’Università per portare il dialogo anche fuori dalle mura penitenziarie. Un ponte tra “dentro” e “fuori”, tra istituzioni e persone, per costruire una società più inclusiva e consapevole. Roma. L’arte che cura: si chiama “Benu” ed è nel carcere di Rebibbia sguardoadest.it, 18 luglio 2025 “Benu” è il progetto site-specific permanente nel carcere di Rebibbia. Non potete ammirarlo come fate di solito con le consuete mostre che puntellano la città di Roma. È un viaggio virtuale, che il vostro cuore può fare guardando le foto che sono state scattate all’interno del penitenziario. È un percorso che ci fa fare l’arte, la bellezza che salverà il mondo come diceva Dostoevskij, dove la bellezza è quella spirituale, quella che ognuno di noi può coltivare per rinascere, proprio come hanno fatto le donne del Carcere di Rebibbia. L’arte è un mezzo, un veicolo che ci libera e ci libra verso la speranza, quella che bisogna coltivare, nutrire con ogni pretesto, ogni giorno. Ed è proprio questo il cammino che hanno intrapreso le detenute del Carcere di Rebibbia con il supporto di Eugenio Tibaldi, artista sempre attento ai temi sociali che coinvolgono persone e territori ai margini. Il progetto Benu, a cura di Marcello Smarrelli e promosso dalla Fondazione Severino e dalla Fondazione Pastificio Cerere, è stato realizzato in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Entrambe le Fondazioni collaborano da anni in progetti congiunti che hanno l’obiettivo di portare l’arte contemporanea all’interno degli istituti di detenzione. “Eugenio Tibaldi - racconta Marcello Smarrelli curatore del progetto - si è calato con profonda umanità e con un’empatia non comune all’interno del contesto carcerario, costruendo con le detenute una relazione forte che ha permesso loro di superare ogni forma di diffidenza, infondendo nuova fiducia nelle loro possibilità. Attraverso l’ausilio del disegno le detenute hanno potuto raccontarsi, mettendo a nudo i loro pregi e difetti che sono diventati altrettanti attributi di queste fenici immaginarie che diventano un autoritratto collettivo. Tibaldi ha sperimentato nel carcere una nuova modalità di committenza, dove l’opera d’arte torna ad essere materia viva che pulsa in uno spazio abitato da chi ha contribuito a realizzarla attraverso la manifestazione dei propri desideri e necessità”. Benu nel Carcere di Rebibbia - Cos’è Benu? A cosa fa riferimento questo termine misterioso? Se la parola vi evoca qualcosa di antico e ancestrale non vi sbagliate. Si tratta di una creatura mitologica, un uccello dalle lunghe ali colorate in cui predominano il rosso e l’oro. Per gli antichi egizi era un uccello sacro, consacrato a Ra, divinità del Creato, per i greci, e poi per i cristiani invece, si trasforma nella mitica Fenice, simbolo di rinascita e rigenerazione. Ed è proprio con spirito di rinascita che le donne del Carcere di Rebibbia hanno abbracciato con entusiasmo il progetto artistico di Eugenio Tibaldi, che ha organizzato un percorso partecipativo ricco di confronti, stimoli e dialoghi. I laboratori sono stati un momento di ascolto finalizzati alla raccolta di storie personali, aspirazioni e desideri tradotti in forma simbolica attraverso la pratica del disegno. Carioca ha fornito tutti i materiali (dalla carta alle matite, dai colori ai pennarelli) per la realizzazione dei laboratori e dei workshop. Come ha ricordato Paola Severino: “L’arte è uno strumento formidabile per chi ha la fortuna di poterla praticare e consente - tra le altre cose - di fare emergere delle parti di sé e del proprio vissuto, di lavorare sull’autostima e di ritagliarsi dei momenti di serenità. Realizzare un’opera permanente in un istituto di detenzione significa contribuire a rendere il carcere un luogo capace di dialogare con la società e creare un ponte tra il dentro e il fuori. Attraverso questo progetto speriamo di avere avvicinato al bello le detenute che vi hanno partecipato e di avere acceso un faro su un luogo dimenticato dai più, che meriterebbe invece maggiore considerazione. Attraverso il contributo della cittadinanza il carcere potrebbe infatti diventare davvero un luogo nel quale i detenuti vengano aiutati ad acquisire gli strumenti per un nuovo percorso nella legalità”. L’arte è sempre più veicolo di valori, mezzo espressivo attraverso cui trasmettere il proprio mondo interiore in relazione a ciò che ci circonda. In questo senso, il progetto Benu nel Carcere di Rebibbia è stato un momento di costruzione creativa, che ha permesso alle detenute di esprimere attraverso il disegno le storie personali e il proprio immaginario, consentendo di porre piccoli mattoncini per iniziare a costruire un futuro di rinascita e rigenerazione. Il carcere non è un mondo a parte, ma un pezzo di società che richiede attenzione di Flavia Belladonna asvis.it, 18 luglio 2025 Affrontare sovraffollamento, suicidi e reinserimento richiede politiche strutturali, coordinate e rispettose dei diritti fondamentali. Lo racconta chi le storie di fragilità e solitudine celate dietro alle sbarre le vive da vicino. Una ragazza di 17 anni che ha perso da poco la madre. Un forte legame con il padre. Una vita a scuola come tante. Poi, un giorno, una lite con la nuova compagna del padre mentre è in cucina. Riceve uno schiaffo. E d’istinto lei, con il coltello che ha in mano per cucinare, trafigge la donna. Poi il carcere. E il tentato suicidio. È la storia di Sofia, protagonista del film “Una figlia” di Ivano De Matteo, con Ginevra Francesconi e Stefano Accorsi. Una storia di quelle che si leggono sui giornali, di liti familiari, di violenza. Quello che ci racconta il regista, però, è ciò che si nasconde dietro a queste storie. La vita sconvolta di un’adolescente, quasi in stato di trance, che perde i contatti con il resto del mondo. Mentre intanto ci si chiede: quanto può perdonare un genitore? Perché la vita cambia non solo per chi è dentro, ma anche per chi resta fuori. Nel carcere è nascosto un universo di oltre 250mila storie, tra detenute e detenuti, soggetti in esecuzione esterna e in attesa di esecuzione della pena. Nove su dieci sono uomini. Persone che hanno commesso gravi crimini, anche imperdonabili agli occhi della società, ma che restano esseri umani titolari di diritti e dignità umana, secondo l’art. 27 della nostra Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Il sovraffollamento, l’inadeguatezza delle strutture, la mancanza di personale e fondi e il dramma dei suicidi sono temi che non possono essere ignorati. Secondo i dati riportati nel Rapporto ASviS, l’Italia è al sestultimo posto su 27 Paesi Ue relativamente al 16esimo Obiettivo di sviluppo sostenibile “Pace, giustizia e istituzioni solide” dell’Agenda 2030 dell’Onu. Un Obiettivo che, con il suo Target 16.3, si occupa anche di “promuovere lo stato di diritto a livello nazionale e internazionale e garantire parità di accesso alla giustizia per tutti”. “Il sistema carcerario è contrassegnato da una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento, nonché da condizioni strutturali inadeguate di molti istituti”, ha affermato alcune settimane fa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “sono necessari interventi di manutenzione e ristrutturazioni da intraprendere con urgenza nella consapevolezza che lo spazio non può essere concepito unicamente come luogo di custodia ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività, alla progettualità del trattamento”. Nel 2023 c’erano 117,6 detenute e detenuti per 100 posti disponibili, rispetto a un obiettivo al 2030 di azzerare il sovraffollamento. Inoltre, secondo Antigone, anche se continua a calare la percentuale di persone detenute in custodia cautelare, le persone in attesa di giudizio e presunte innocenti continuano a rappresentare più di un quarto delle detenute e dei detenuti. Dal ministero della Giustizia si leva un primo segnale sul sovraffollamento: entro settembre una task force ministeriale valuterà la fattibilità di interventi in favore dei reclusi con ancora due anni da scontare e che non abbiano avuto sanzioni disciplinari. Ad affrontare le innumerevoli sfide del carcere ci sono i 254 direttrici e direttori degli istituti penitenziari del nostro Paese, a fronte di un organico previsto di 350 unità, secondo i dati al 31 dicembre 2024 riportati in un articolo su Avvenire. Un articolo che dà voce a chi il carcere lo vive da vicino. La direttrice di Brescia, Francesca Paola Lucrezi, parla della sofferenza doppia che vivono le detenute donne, che hanno vissuto “quasi sempre storie di violenze e di traumi subiti, oltre che di reati commessi” e che essendo state fulcro del proprio nucleo familiare vedono le proprie famiglie disgregarsi portandole in uno stato di profonda solitudine. Le direttrici di Busto Arsizio Maria Pitaniello e di Varese Carla Santandrea entrano invece nel merito del tema suicidi, che “non dipendono solo dal sovraffollamento ma dalla fragilità degli ultimi fra gli ultimi con cui siamo chiamate a confrontarci ogni giorno e che arrivano in cella”. Secondo il 21esimo Rapporto di Antigone - focus sui suicidi, il 2024 è stato l’anno con più suicidi in carcere di sempre, almeno 91, mentre tra gennaio e maggio 2025 almeno 33. Molte persone decedute erano giovanissime, tante le persone di origine straniera. Diverse le situazioni di marginalità sociale. Alcune avevano disagi psichici, altre passati di tossicodipendenza. Come la storia raccontata da Antigone di un 55enne, di origini calabresi, suicida, arrestato per una rapina che aveva fruttato un bottino di appena 55 euro, il quale aveva restituito i soldi e risarcito il danno alla parte offesa. Avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. Potenziare il supporto psicologico e psichiatrico, con assistenza immediata nei momenti critici (come l’ingresso in carcere), rafforzare la formazione del personale, migliorare la qualità della vita in carcere e dare centralità al reinserimento sociale anziché adottare un approccio punitivo diventano in questo contesto azioni cruciali. Tra le esperienze di reinserimento sociale, voglio raccontarne una particolarmente significativa che ho scoperto attraverso una persona a me cara. Si tratta del Pastificio Futuro, un progetto che offre una seconda possibilità ai ragazzi detenuti nel carcere minorile di Casal del Marmo di Roma, dando loro lavoro, dignità e speranza. Sul sito del pastificio si possono leggere alcune celebri parole di Papa Francesco, che ha poi creduto fortemente nell’iniziativa, sostenendola anche con una generosa donazione proveniente dai propri risparmi personali: “Non abbiate paura di diventare artigiani di sogni e di speranza. I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta… Anche se sbagli, potrai sempre rialzare la testa e ricominciare, perché nessuno ha il diritto di rubarti la speranza”. Oggi la diffusione dei prodotti del pastificio Futuro, disponibili nei supermercati, attraverso e-commerce e il punto vendita dedicato, sta aumentando molto. Un risultato che dimostra come offrire fiducia e opportunità concrete possa cambiare il destino di tanti giovani. Tornando al mondo dietro alle sbarre, il 2024 è stato anche l’anno con più decessi in carcere in generale: sono 246 le persone che hanno perso la vita nel corso della loro detenzione, “segno di un carcere sempre più malato”, come si legge nel Rapporto Antigone. Per la direttrice uscente di San Vittore, Elisabetta Palù, “da fuori bisognerebbe iniziare a curare le ferite del carcere”: politiche sociosanitarie più attente al disagio psichico o alla tossicodipendenza soprattutto delle giovani e dei giovani, con progetti educativi, con un occhio di riguardo alle prime e seconde generazioni di stranieri. Palù parla dell’aumento dei detenuti tossicodipendenti, delle diagnosi psichiatriche che portano con sé nel 75% dei casi, della necessità di formazione per gli agenti. Le direttrici delle carceri lombarde denunciano la solitudine non solo della popolazione detenuta, ma anche dell’amministrazione penitenziaria. Alcune risposte migliorative sembrano però poter arrivare, secondo quanto emerso dalla giornata del 7 luglio “Le persone dimenticate”, promossa dall’Organismo congressuale forense presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), in cui si è parlato di sovraffollamento, suicidi e lavoro in carcere. Il presidente del Cnel Renato Brunetta, già ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, in apertura dell’incontro ha proprio sottolineato che il tema carcerario non può più essere affidato solo alla buona volontà dei singoli: per dare risposte strutturali servono interventi sistemici, replicabili in tutti gli istituti penitenziari italiani. Per questo, ha affermato, “abbiamo avviato un accordo con Cassa depositi e prestiti, coinvolgendo le sue partecipate, per promuovere numerosi progetti di investimento in carcere: spazi, formazione, capitale umano, logistica, tecnologie, contrattualistica. Parallelamente, stiamo lavorando per includere i detenuti nella piattaforma Siisl del ministero del Lavoro, nata per il matching tra domanda e offerta per i soggetti più fragili. Un’infrastruttura che, se estesa anche al mondo penitenziario, potrà diventare uno strumento reale di reinserimento sociale e lavorativo. È un lavoro complesso, ma necessario. Solo dando struttura, visione e continuità all’azione istituzionale, potremo onorare davvero l’articolo 27 della nostra Costituzione”. Per affrontare realmente il dramma del carcere, serve il coraggio di mettere al centro le persone, le storie, le fragilità. Occorre passare da una logica emergenziale a una visione sistemica, capace di costruire risposte strutturate, coordinate, replicabili. Ma serve anche una scelta collettiva di civiltà: riconoscere che il carcere non è un mondo a parte, ma parte della nostra società. Un luogo dove si decide se credere ancora o meno nella possibilità del cambiamento. Alla possibilità di poter tornare a essere qualcosa di più del proprio reato. A poter essere guardati, un giorno, non solo per ciò che si è fatto, ma per ciò che si potrà ancora diventare. Proprio come Sofia. Gli errori giudiziari rovinano la vita. E costano quasi un miliardo di euro di Gabriele Rosana Il Messaggero, 18 luglio 2025 I cronisti Lattanzi e Maimone nel libro “Innocenti” analizzano i molti casi in cui si e sbagliato. Le vittime? 100 mila in 30 anni. Centomila persone. Quelle che entrano allo stadio per un derby, o che, se si tenessero per mano, formerebbero una catena umana da Roma a Napoli. Centomila persone finite in carcere ingiustamente. Innocenti ma detenute, in attesa di giudizio, spesso in condizioni disumane. Centomila persone in 30 anni, di cui soltanto un terzo saranno risarcite dallo Stato: molti non presentano nemmeno la domanda per ottenere l’indennizzo, perché non ne vogliono più sapere della loro vicenda o non hanno più i soldi per le pratiche. Persone che finiscono in prigione per un errore procedurale, un’omonimia, un’indagine sbagliata o la scelta mal ponderata di un gip, e che vedono la propria vita distrutta. Protagonisti, loro malgrado, di una emergenza tutta italiana. Alle vittime di ingiusta detenzione, due giornalisti hanno dedicato un libro-inchiesta, “Innocenti” (Giappichelli), in libreria e sulle piattaforme online in questi giorni. Due cronisti, Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, che anni fa hanno realizzato errorigiudiziari.com, aggiornatissima banca dati utilizzata in primis da avvocati e magistrati. I numeri fanno impressione. Dal 1992 a oggi lo Stato ha speso quasi un miliardo per pagare gli indennizzi. Detto che i danni umani, gli strascichi psicologici, non sono quantificabili e risarcibili con assegni. Spiega nella prefazione del libro Gian Domenico Caiazza - già presidente dell’Unione delle camere penali, nonché avvocato di Enzo Tortora e Marco Pannella - a proposito dell’abuso della custodia cautelare: “Pericolo di fuga, di inquinamento probatorio, e di reiterazione del reato sono condizioni troppo spesso intese come implicite, connaturate alla formulazione di un’accusa grave, piuttosto che vagliate nella loro autonoma, concreta e necessaria evidenza. È un deragliamento gravissimo e ingiustificato, perché se l’errore è nella natura umana, l’abuso di uno strumento in danno della libertà delle persone è un atto imperdonabile”. Il carcere (ma vale anche per i domiciliari) previsto come strumento cautelare dovrebbe essere una extrema ratio disposta da un giudice. E invece troppo spesso viene utilizzato, ingiustamente, come frizione per accelerare un’indagine. Risultato: se la tesi accusatoria cade, il sistema giudiziario avrà procurato un’ingiustizia difficilmente riparabile a un innocente, detenuto senza ragione in molti, troppi casi. Visti i noti tempi della giustizia e il livello di sovraffollamento raggiunto dai nostri istituti penitenziari, Innocenti diventa una lettura urgente e necessaria. Pianosa: da colonia penale e fattoria a carcere di massima sicurezza per terroristi e mafiosi di Manlio Pisu Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2025 Un lembo di terra a pochi chilometri dall’Elba, l’isola era stata scelta dai romani come luogo di esilio di lusso, poi trasformata in colonia penale illuminata, da sempre votata all’agricoltura. Oggi rimane un borgo affascinante e semiabbandonato, con un futuro tutto da scrivere. A partire da una mobilità sostenibile e selvaggia. C’è una perla nascosta in mezzo al Tirreno. È rimasta miracolosamente al riparo dai flussi turistici di massa, protetta dalla sua storia e dalla geografia. È talmente bassa sul livello del mare che a poche miglia di distanza non si riesce neanche a vederla. Fin dai tempi dei romani è stata luogo di esilio, di isolamento, sofferenza e reclusione. Ma è stata anche un granaio fiorente, centro di produzione agricola che regalava ogni ben di Dio, esportava vino, olio, pollame. C’è un minuscolo borgo ottocentesco, grazioso, un tempo animato e vivace e oggi in stato di totale abbandono. Nella memoria di chi ha conosciuto quel piccolo mondo antico ha lasciato un ricordo indelebile, come una sorta di paradiso perduto. Un triangolino nel mare - È Pianosa, un triangolino di terra affiorante dal mare, a una dozzina di chilometri dalla costa sud-occidentale dell’isola d’Elba. I geologi ci dicono che negli ultimi 500mila anni il livello del mare è salito e sceso più volte al ritmo del respiro della Terra. Pianosa e l’Elba sono state a fasi alterne isole, come ai giorni nostri, oppure parte di un’unica grande penisola che dalla costa di quella che oggi è la Toscana si insinuava nel Tirreno, protendendosi verso la Corsica. I dieci chilometri quadrati di questa piattaforma non sono altro che fondali marini compressi ed emersi. La roccia, morbida e porosa, è formata da strati fossili di conchiglie, coralli e altri detriti del mare. È a questa conformazione che si devono i colori caraibici dei fondali, turchese e verde smeraldo. Abitata fin dai tempi del neolitico, Pianosa (per i romani Planasia) fu scelta da Augusto come luogo per allontanare da Roma Marco Agrippa Postumo, uno dei suoi nipoti nonché figlio adottivo, che - nelle trame di potere di Livia, seconda moglie dell’imperatore - avrebbe potuto insidiare l’ascesa al trono imperiale di Tiberio, figlio di primo letto della stessa Livia. Per Agrippa Postumo fu creata una prigione dorata: una splendida villa sul mare, con tanto di terme e di teatro, le cui rovine sono ancora oggi visibili. Poi, nel 14 d.C., Tiberio, ormai imperatore, inviò un sicario che uccise Agrippa. Due porti, a Nord e a Est, assicuravano l’attracco delle navi romane in tutte le condizioni di mare. L’isola era coltivata. L’acqua era assicurata da un sistema di pozzi. Poi, dopo il tracollo dell’Impero Romano d’Occidente, il lungo declino. Con il rilievo più alto di appena 29 metri l’isola era indifendibile, facile preda di incursioni. Per secoli i pirati saraceni hanno fatto il bello e il cattivo tempo, contrastati solo in parte dalla potenza marittima della Repubblica di Pisa. La colonia penale agricola - In epoca più recente il Granducato di Toscana ha tentato invano di ripopolare l’isola. Fu così che nel 1858, appena tre anni prima della nascita del Regno d’Italia, il Granduca Leopoldo II diede avvio alla grande Colonia penale agricola, un esperimento molto innovativo per l’epoca, che di fatto anticipava la pratica odierna delle pene alternative. Grazie all’opera di dirigenti illuminati, il direttore della Colonia e l’agronomo, Pianosa divenne rapidamente una grande fattoria-modello, suddivisa in poderi dedicati alle varie coltivazioni: grano, olivi, vite, frutta, ortaggi, ma anche allevamento di bovini, ovini e polli (un impianto di avicoltura da cinque ettari, il pollaio all’epoca più grande d’Europa). Le condizioni di vita dei detenuti erano durissime, ma sempre meglio della cella di un carcere dell’epoca. Il vino di Pianosa arrivava fino in Inghilterra. La Colonia penale partecipava con successo alle manifestazioni nazionali di agricoltura, facendo incetta di premi per qualità e innovazione tecnologica, tra cui - nel ventennio fascista - i riconoscimenti mussoliniani al tempo della battaglia del grano. Fuori dal mondo - Nelle guerre mondiali del secolo scorso Pianosa è rimasta ai margini della storia. Il cibo non è mai mancato. Isolati su un lembo di terra al di fuori dal resto del mondo, persino i soldati tedeschi, durante l’occupazione militare seguita all’armistizio del 1943, hanno mostrato un volto umano, arrivando talvolta a familiarizzare con i locali. Le cronache, però, raccontano anche di un eccidio costato la vita a una quindicina di detenuti. Poi nel secondo Dopoguerra il boom economico e gli “anni di piombo”. Per iniziativa del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa la Colonia penale fu ampliata. Negli anni Settanta furono costruiti due nuovi padiglioni di massima sicurezza. Da qui sono passati vari esponenti delle brigate rosse e banditi come Renato Vallanzasca. L’isola è arrivata ad ospitare circa duemila persone tra popolazione carceraria, guardie penitenziarie, le loro famiglie, le forze dell’ordine, i militari, il personale amministrativo. L’ultimo capitolo della Colonia penale è quello del 41bis, il regime di carcere duro. Tra il 1992 e il 1997 Pianosa ha ospitato i detenuti per reati di mafia. Abbandono e degrado - Infine nel 1998 la chiusura del carcere, che ha segnato anche la fine di tutte le attività legate all’indotto. La vita si è ritirata da Pianosa. Non ci sono più famiglie. Niente più bambini. Non ci sono più la scuola né l’ufficio postale. Il piccolo borgo si è svuotato. Gli edifici, costruiti a metà Ottocento in un aggraziato stile eclettico, che richiama le architetture del passato, sono pericolanti e transennati. Nelle poche strade non c’è illuminazione pubblica. Le uniche luci sono quelle della luna e di un cielo stellato mozzafiato. D’estate nelle acque cristalline del piccolo porto vecchio si aggirano soltanto i barracuda. Di quasi due secoli di esperienza penale oggi resta ben poco. I poderi, un tempo giardini fertili e coltivatissimi, sono stati riconquistati dalla vegetazione spontanea. Una ventina di detenuti provenienti dal carcere di Porto Azzurro (isola d’Elba) può beneficiare, per motivi di buona condotta, di un regime di semi-libertà. Abitano in uno degli edifici della vecchia Colonia. Si muovono a piedi o in bicicletta. La loro manodopera contribuisce a mandare avanti l’unico albergo presente sull’isola (Hotel Milena, in tutto una decina di stanze), ricavato dalla casa ottocentesca del direttore della Colonia. I detenuti mandano avanti anche l’unico ristorante di Pianosa nella ex mensa delle guardie penitenziarie. Vicina e remota - Sull’isola oggi non ci sono negozi. Non c’è un bar. Non c’è un bancomat. Non c’è la farmacia. Da metà degli anni Novanta del secolo scorso Pianosa fa parte del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. È un luogo al tempo stesso vicino e remoto. L’isola è uno scrigno di immenso valore dal punto vista paesaggistico, naturalistico e ambientale. È a un tiro di schioppo dal monte Capanne sull’Elba (1000 metri di altezza). Lo sguardo spazia tra la Corsica e Montecristo. È un paradiso ornitologico. È un enorme parco giochi per i biologi marini. Fa parte del Santuario dei cetacei dell’Alto Tirreno. È facile vedere le testuggini di mare che vengono a nidificare e a depositare le uova. È uno scrigno prezioso anche dal punto di vista geologico, archeologico, paleocristiano (c’è un sito di catacombe). Dal punto di vista sociologico ospita ancora oggi un esempio interessante di reinserimento dei detenuti nella vita civile. L’isola ha indubbiamente una storia pesante di sofferenza, che però si attenua e tende a svanire nel sorriso con cui i detenuti, consapevoli del privilegio conquistato della semi-libertà, accolgono i pochissimi turisti in arrivo. Il Parco disciplina in modo rigoroso la fruizione di questo straordinario patrimonio. Gli accessi sono contingentati. Partenze da Piombino e da Marina di Campo (Elba). Non è consentito attraccare con la propria barca né avvicinarsi all’isola nel raggio di un miglio dalla costa. Il bagno in mare si può fare in un unico punto, Cala Giovanna, a ridosso del muro di cinta in cemento armato costruito per il carcere di massima sicurezza e già in stato avanzato di degrado con i ferri arrugginiti affioranti a vista. È raro trovare nel Mediterraneo di oggi una spiaggia così, con quei colori da acquerello e l’acqua così cristallina. Non è un posto per tutti - La possibilità di movimento sull’isola è limitata. Il turista non può andare in giro a proprio piacimento. Fatta salva l’area tra l’albergo e il ristorante, deve sempre essere accompagnato da una delle guardie del Parco. In definitiva Pianosa ospita ancora dei detenuti. Il Parco organizza escursioni guidate a piedi, in mountain bike, in kayak, visite ai siti archeologici e al carcere, snorkeling nelle calette. E vale la pena di farle tutte, perché il posto è davvero straordinario. Ma di certo non è un posto per tutti. È adatto a chi vuole staccare la spina, a chi cerca quiete, silenzio e buone letture. I telefoni cellulari prendono. Ma dopo un paio di giorni a Pianosa la vita quotidiana da cui provenite potrà apparirvi lontana anni luce. Oltre la rassegnazione - Naturalmente viene da chiedersi se non sia possibile ripensare Pianosa in una prospettiva diversa. La vista del borgo abbandonato con le case pericolanti fa stringere il cuore. Rattrista e al tempo stesso indigna. Come è possibile lasciar andare in malora un patrimonio di questo tipo? Di certo non aiuta la sovrapposizione delle competenze amministrative di enti diversi, tra cui Agenzia del Demanio, Parco nazionale, ministero della Giustizia, Comune di Campo nell’Elba, Soprintendenza ai beni archeologici, Vaticano (per le catacombe) ecc. “Laddove sia stato possibile intervenire, d’intesa con il Demanio, siamo intervenuti”, osserva Maurizio Berlando, direttore del Parco. “Abbiamo recuperato - aggiunge - diverse strutture”, tra cui la bellissima Casa dell’Agronomo. Qualcosa nel frattempo si muove e sembra andare nella direzione giusta. Un segnale positivo è il recente protocollo d’intesa sottoscritto da tutti i soggetti istituzionali a vario titolo coinvolti con l’obiettivo comune di preservare e valorizzare l’isola a cominciare dal recupero del borgo. La collaborazione dovrebbe prendere il via già dall’estate 2025. È un buon punto di partenza ed è quello che Pianosa, piccolo angolo di paradiso, meritava da tempo. Io la sparo grossa, e tu ti indigni: il noioso copione della politica di Fabrizio Sinisi* Il Domani, 18 luglio 2025 La dialettica destra-sinistra degli ultimi anni si può riassumere pressappoco così: da un lato qualcuno dice qualcosa di “scorretto”, e di là qualcun altro s’indigna. È un dispositivo semiautomatico, che va avanti a fasi alterne da una trentina d’anni. Un ingranaggio che, a guardarlo un po’ più dall’esterno, pare il più collaudato gioco delle parti, l’eterna declinazione della stessa scena. Al punto che questa sembra essere diventata l’unica vera formula della vita politica italiana: una pochade grottesca dove a identificare i personaggi non è l’ideologia o la rappresentanza, ma il modo di reagire a certe affermazioni. A chi importa che la moglie del ministro Adolfo Urso abbia saltato la fila all’aeroporto? A nessuno, evidentemente, se non a coloro che aspirano a saltarla a loro volta; ma consente l’esecuzione di uno schema teatrale: la ribellione dei buoni contro le insolenze dei cattivi. Un meccanismo frusto e consumato, ma da cui sembra impossibile prescindere. L’effetto è quello di una distribuzione di ruoli, dove si ha spesso l’impressione che da destra si facciano certe cose solo per provocarne l’effetto, e a che a sinistra si reagisca ad esse per dovere d’ufficio, quasi che il suo unico strumento di autoidentificazione fosse quel grido querulo e disperato: questo non si può dire, questo non si può fare. Se il termine più frequentemente associato alla politica è “teatrino”, è proprio perché la vita pubblica italiana sembra ormai legata imprescindibilmente a questo schema, dove da un lato sparano il petardo e dall’altra abbaiano, più o meno a comando, entrambi col dovere teatrale di essere fedeli alla maschera che indossano. Se c’è una scena che riassume efficacemente questa dialettica è quella gag di Che bella giornata di Zalone dove, durante un tipico matrimonio meridionale, il rozzo pugliese Checco introduce la colta maghrebina Farah a contemplare - come fosse un rito segreto - il piccolo mistero che racchiude l’anima arcaica del paese: la vecchia nonna che, prigioniera in un trullo, se ne sta curva a filare la maglia alla luce della lampada, e si addormenta ogni volta che la lampada si spegne. Checco accende e spegne la lampada a intermittenza, mostrando a Farah come la vecchia donna, schiava suo malgrado di questo riflesso coattivo, si attiva a filare ogni volta che la lampada si accende e si riaddormenta ogni volta che si spegne, inconsapevole del proprio essersi tramutata in un Sisifo comico, prigioniera di un incantesimo perverso da cui non riesce a sciogliersi. Non esiste metafora più azzeccata della sinistra italiana di questa povera vecchia, incatenata senza scampo alla sua azione, così schiava di questo riflesso pavloviano da non riuscire più a smettere di compiere il suo gesto insensato. “Quello che non si può più dire” - Sembra un duetto collaudato, simile a quello fra Don Giovanni e la Statua del Commendatore che chiude l’opera mozartiana, con la sinistra che urla: “Pentiti!” e il peccatore che risponde: “No! Io non mi pento!”. La stessa espressione “stracciarsi le vesti” proviene, del resto, da un teatrino a sua volta ipocrita e fintissimo, che risale addirittura ai Vangeli: i sommi sacerdoti portano Gesù nel sinedrio e gli fanno pubblicamente quelle domande a cui sanno benissimo come risponderà, col solo scopo di strapparsi le vesti - appunto - e gridare a beneficio terzi: “Ha bestemmiato!”. Quante volte, nella dialettica culturale e politica, vediamo riprodursi questo giochino? Sorprende piuttosto che, a sinistra, non si sia capito che questo dispositivo agisce contro chi lo adopera: non solo perché la gente simpatizza sempre più per chi dice “quello che non si può dire” (qualunque cosa sia) che per chi ne sanziona il divieto, ma anche perché - le leggi del mercato e quelle della psicanalisi lo sanno bene - ogni divieto aumenta il valore di ciò che proibisce. Si può anzi dire che, in molti casi, è il divieto stesso a dare valore a contenuti che altrimenti non ne avrebbero alcuno. La vicenda Vannacci è un caso scuola: decidendo di trattare un libro infarcito di scemenze e pensierini da scuola media con lo stesso atteggiamento dell’ayatollah Khomeini all’uscita dei Versi satanici di Rushdie, si è riusciti a compiere un doppio, tafazziano miracolo: consacrare sulla ribalta nazionale, contemporaneamente, uno scrittore ridicolo e un politico tremendo, le cui idee (non diverse, né nella forma né nel contenuto, da quello dello zio Pippo al bar del paese), mai avrebbero raggiunto le soglie della percezione. La funzionalità di questo schema è stata d’altronde talmente così ben capita a destra che è ormai pratica comune rilasciare una dichiarazione controversa per alzare il polverone e distrarre da altri contestuali, spesso più significativi provvedimenti, usando così il riflesso pavloviano dell’indignazione come uno strumento utile alla propria comunicazione. Ti dici, all’ennesimo trappolone sul manifesto di Ventotene: non ci cascheranno, non abboccheranno anche stavolta. Invece sì, abboccano sempre. Al punto che è lecito credere che quell’indignazione sia qualcosa di più che un’errata strategia di comunicazione: piuttosto, forse, il sintomo di una questione più profonda. Una ferita segreta; una frattura nascosta. Di cosa sia l’indignazione parla anche un testo di Henry James del 1911, The Outcry. In questo romanzo, tutto ruota intorno al conflitto tra un nobile decaduto inglese, Lord Theign, e un ricchissimo americano, Breckenridge Bender. Il primo, indebitato fino al collo, è costretto a vendere al secondo uno dei più importanti quadri della sua un tempo munifica famiglia. La questione si complica però quando i due non si trovano d’accordo sulla quotazione di mercato del quadro: troppo alta per l’americano, troppo bassa per l’inglese. La vicenda si allarga fino a diventare di dominio pubblico, coinvolgendo l’intera Inghilterra sul tema del progressivo depauperamento del patrimonio artistico nazionale. L’indignazione è, in questo caso, il sentimento che prova Lord Theign nel constatare quanto scarso sia diventato il distintivo della nobiltà quando esso viene verificato sul mercato. L’indignazione è quindi, per James, il tic nevrotico di chi sente di aver perso un privilegio storico: quello di poter stabilire i valori delle cose. L’indignazione come il gesto frustrato e disperante di chi si accorge di aver perduto il suo privilegio più grande: la gestione del linguaggio. L’indignazione è il sentimento dell’aristocratico costretto a svendere ai barbari il gioiello di famiglia: la sovranità sulle parole. Ma c’è anche un altro aspetto, su cui ci viene un soccorso un altro romanzo: “Indignazione, di Philip Roth”. In questo libro del 2008, il protagonista Marcus Messner, figlio di un macellaio di Newark, frequenta il Winesburg College in Ohio. Quasi completamente privo di esperienza sessuale, rimane sconcertato quando, al termine del loro primo appuntamento, la ragazza che gli piace - Olivia - gli pratica una fellatio. Nei giorni successivi, Marcus è confuso e imbarazzato. L’episodio non gli è dispiaciuto. Anzi. Tuttavia, non riesce a togliersi dalla testa che, se una ragazza fa quella cosa - tanto più se al primo appuntamento - dev’essere senz’altro una persona disprezzabile e priva di ogni senso morale. Marcus esita a lungo in questa polarità: da un lato, l’attrazione per Olivia; dall’altro l’indignazione, che come un martello continua a ripetergli in testa che lei non doveva fare ciò che ha fatto. Ma perché “non doveva”? Quando prova a chiederlo a lei, Olivia gli risponde: l’ho fatto per te, pensavo che ti avrebbe fatto piacere. Roth ci svela la natura profonda dell’indignazione: il sentimento con cui ci accorgiamo di desiderare quello che non vorremmo e che pensiamo non si dovrebbe; l’invidia che proviamo verso chi, più disinibito di noi, mette in atto quello che noi ci vergogniamo di volere; l’aspirazione a ciò che stigmatizziamo. Superare l’indignazione sarà forse, allora, scoprire una connessione più diretta, più libera con la propria natura e i propri desideri. Traslitterando politicamente: ricollegarsi con la verità del linguaggio, con la realtà del mondo e con i suoi veri desideri. Dismettere la divisa da vigili urbani del discorso pubblico e riscoprire la sessualità cifrata che si nasconde nella politica. E qual è l’equivalente politico dell’atto erotico, a cui la destra occhieggia, e che la sinistra desidera senza ammettere di volere? Il linguaggio del conflitto - il demone erotico che si nasconde, sempre e da sempre, nelle parole della lotta. *Drammaturgo Morire per scelta: il dilemma etico che nessuna legge potrà risolvere di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 18 luglio 2025 Come è stato anticipato dal Dubbio, sembra esserci ancora del tempo per ottenere dal Parlamento un testo sull’aiuto al suicidio medicalizzato, che possa, come richiesto dalla Corte costituzionale, riempire alcuni vuoti inevitabili della sentenza n. 242/2019. Il ddl più recente, presentato al Senato dai relatori Pierantonio Zanettin e Ignazio Zullo, si allontana dal disposto della Corte costituzionale, prevedendo nuove regole fondamentali: un comitato nazionale di valutazione, così da accantonare i diversi comitati etici regionali; la “privatizzazione” dell’aiuto al suicidio medicalizzato, così che il personale, strumenti e farmaci del servizio sanitario nazionale non saranno utilizzati per pratiche di aiuto al suicidio medicalizzato. Non occorre un’analisi approfondita per rendersi conto che rispetto ai parametri della sentenza della Corte costituzionale il testo adottato dalle Commissioni presenta su questi punti una modifica fortemente limitativa della possibilità per il paziente di accedere all’aiuto al suicidio medicalizzato. D’altronde, l’insegnamento della Corte costituzionale ha subito una lunga stasi di circa sei anni prima che venisse presentato questo testo e ciò nel timore da parte del governo che l’aiuto al suicidio potesse aprire la via alla “deriva suicidaria e omicidaria”. Nell’arco che questo tempo si è dato il Parlamento sono state previste delle audizioni in sede consultiva: due a favore e due contro il testo, ritenute necessarie anche per valutare possibili mediazioni. Senza entrare in una analisi critica di queste nuove regole di cui si è già molto scritto, la vicenda che il nostro Paese si trova a vivere evidenzia, ancora una volta, il contrasto fra due dottrine etiche che conducono a due diverse soluzioni giuridiche del fine vita. Da un lato, abbiamo quelle dottrine che condannano soluzioni definite di “mascherata eutanasia”, richiamando con vigore i principi etici e giuridici dell’inviolabilità e indisponibilità di ogni vita umana. La ragione nel nuovo progetto di legge, della “privatizzazione” dell’aiuto al suicidio con la esclusione del ricorso al Servizio Sanitario Nazionale, è quella che la Corte costituzionale si sia limitata a stabilire il “diritto a non essere punito” per colui che aiuta e che assiste il suicidio (art. 580 c. p.), ma non di riconoscere un “diritto a morire”. D’altronde, per questa dottrina la vita umana non può mai essere considerata come un bene negoziabile: non si può disporne per ottenere, in cambio, una serie di vantaggi anche considerevoli. Inoltre, il suo valore non è mai determinato in funzione di criteri come lo “stato di salute” del suo titolare, misurato anche in termini di utilità sociale. Ogni uomo rappresenta un progetto biologico- naturale o politico- sociale indispensabile per l’esistenza e lo sviluppo della stessa società civile, di modo che la vita umana è indisponibile in ogni sua età di sviluppo a prescindere da qualsiasi condizione di grave disabilità o compromissione della salute. In questa prospettiva antropologica e morale la vita umana contiene in sé, in ogni circostanza, la propria dignità. Ne consegue che non sussiste un diritto a essere uccisi e neppure un diritto a essere aiutati a uccidersi ed è evidente che la legge dello Stato ha il dovere di tutelare la vita in modo effettivo, impedendo che la richiesta di essere aiutati a morire si trasformi in un “diritto”. Su tali basi si ritiene che un eventuale legittimazione del suicidio medicalmente assistito attivi un vulnus irrimediabile al principio secondo il quale compito primario inderogabile del medico (e più in generale di ogni operatore e di ogni sistema sanitario) sia l’assoluto rispetto della vita dei pazienti, anche nei casi in cui essi stessi formulino esplicite richieste di aiuto al suicidio. Oltre al fatto che una volta indebolito il principio del più rigido rispetto nei confronti della vita si sostiene che questa possibilità provochi comunque un progressivo superamento dei limiti che si vogliono porre, come avvenuto in diverse legislazioni che hanno esteso la procedura a minori, a soggetti psicologicamente o psichiatricamente fragili, agli anziani non autosufficienti, fornendo prove evidenti della difficoltà di porre un freno. A questa dottrina, brevemente riassunta, si contrappongono altre ragioni sia etiche che giuridiche a favore di pratiche che conducono verso l’eutanasia o il suicidio assistito. In genere, si muove da alcuni requisiti ritenuti fondamentali per ritenere legittima la pratica: oltre al consenso informato, espresso, contestuale del paziente o anticipato attraverso le DAT, la presenza di una condizione di malattia irreversibile, dolorosa, anche sotto il profilo psicologico, e, a seguito di ciò, di una vita ritenuta non dignitosa da chi la vive e dalla disponibilità del terzo, attraverso la sua azione e/ o omissione nel cagionare la morte, di operare nel rispetto della volontà di chi richiede la pozione fatale. Le normative a favore dell’eutanasia o dell’aiuto al suicidio (Svizzera, Spagna, Portogallo, Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Germania, ecc.) si avvalgono di criteri di accuratezza e questi percorsi trovano il loro sostegno in teorie filosofiche che, pur riconoscendo in generale la vita come valore, ritengono che sia la persona che conferisce senso alla propria vita vissuta e da vivere. La vita non è semplice animazione della materia, ma si identifica con il rispetto dell’individuo, della ragione, della dignità e libertà. Pertanto, il problema dell’aiuto al suicidio non mette in gioco il valore della vita, ma il valore dell’uomo che in certe condizioni può sentirsi in diritto di decidere di porre fine ad un’esistenza in cui non si riconosce più e che vede tradursi in un processo biologico che, mediante l’assistenza tecnica, procede come mero prolungamento artificiale nella sua anonima irreversibilità. Scuole di pensiero spingono, dunque, affinché lo Stato non obblighi i suoi cittadini alla mistica della sofferenza e del sacrificio. Filosofi quali Peter Singer, Helga Kuse e James Rachels ritengono che sia l’individuo che prende in mano la propria vita. Da un punto di vista culturale generale, questa concezione può essere considerata come una indiretta conseguenza della progressiva “secolarizzazione” delle società occidentali, le quali si stanno allontanando da un modello di pensiero integralista e religioso della vita. Si pensa che lo Stato debba ritirarsi dal suo antico, tradizionale ruolo di difensore di valori morali, che debba perdere in certo senso il carattere di “Stato etico”, facendo proprie posizioni di “laica neutralità”. Non si dimentichi poi che nel nostro Paese, se in forza della legge 219/ 2017 è possibile accettare la volontà dell’interessato che chiede la sospensione delle terapie salvavita che lo porterà a morte, non si vede come mai non sia possibile fare lo stesso per la richiesta della persona che chiede di essere aiutata in altro modo a giungere allo stesso risultato. Sapere di avere la possibilità di mantenere la propria dignità fino alla fine della propria vita è un aspetto centrale del proprio benessere complessivo e fornisce quel senso di sicurezza che può rasserenare l’esistenza, anche qualora non si richieda concretamente alcuna assistenza a morire. L’attuale discussione sul testo legislativo concernente l’aiuto al suicidio medicalizzato, al di là degli interventi giudicati positivi o negativi sui singoli aspetti, muove da queste due diverse visioni etiche. Tradurle in rigide regole giuridiche pare a chi scrive un errore, perché va considerata soprattutto l’attuale “cultura della morte”: il modo cioè con cui una società tratta i morenti. Nella trasformazione sociale della grande famiglia patriarcale in quella mono parentale, anche il trattamento del morente si è profondamente modificato: da una vicenda intima, caratterizzata da affetto e umanità ad una vicenda anonima, spesso rifiutata per plurime ragioni: psicologiche, economiche, pratiche e logistiche- organizzative. Tutto ciò può anche spingere verso la tragica decisione del paziente a porre fine alla propria esistenza e sull’obbligo di chi si oppone all’aiuto al suicidio di riflettere sull’elaborazione mentale della sofferenza, dell’emarginazione, dell’infelicità che genera la malattia. Non stupisce, allora, la difficoltà di ricavare dal nostro ordinamento giuridico certezza sui possibili significati del diritto di lasciarsi morire, quando vi sia un processo causale che naturalmente conduce alla morte, quando gli strumenti ancora in grado di opporsi a tale evento siano onerosi per il paziente e per la sua dignità. Difficile allora rispondere al quesito quando il bene vita, come valore in sé, debba cedere il passo alla tragica volontà del malato. Oltre cento emendamenti sul fine vita. E FdI prepara la stretta al (suo) testo di Francesca Spasiano Il Dubbio, 18 luglio 2025 La valanga non c’è stata. Il testo della maggioranza sul fine vita se la “cava” con circa 140 emendamenti, di cui oltre un centinaio da parte delle opposizioni. Il termine per presentarli è scaduto ieri alle 11, proprio nel giorno inizialmente cerchiato sul calendario per l’approdo in Aula al Senato. Che ovviamente slitta, e con ogni probabilità a settembre. Il Pd spererebbe di avviare la discussione nelle commissioni riunite Giustizia e Affari sociali prima della pausa estiva, per non perdere di vista l’obiettivo. Ma sarà l’ufficio di presidenza, la prossima settimana, a stabilire l’iter e i tempi. Nel frattempo, i principali negoziatori in campo dovranno valutare il clima e lo spazio di mediazione sul testo di quattro articoli confezionato dai senatori Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Ignazio Zullo (Fratelli d’Italia). Sia con le opposizioni che dentro il centrodestra, con Forza Italia che propone tre modifiche - come Noi Moderati - e Fratelli d’Italia che ne deposita una decina. Niente da ridire da parte della Lega, che non ha presentando alcun emendamento così come non ha mai scoperto le proprie carte negli ultimi mesi. “Ci riserviamo per l’aula”, ha spiegato la senatrice del Carroccio Erika Stefani. Dopo quel laconico “con calma” con cui Matteo Salvini aveva commentato lo sprint sulla legge da Palazzo Chigi. Senza fascicolo tra le mani, al momento, l’impressione è che il partito della premier voglia spingere verso la stretta. A partire da un inasprimento della pena prevista dall’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio): un emendamento a prima firma della senatrice di FdI Lavinia Mennuni prevederebbe la reclusione da uno a due anni “se il fatto è commesso per motivi di lucro o se l’autore riceve per la sua condotta una utilità economica anche indiretta, fatti salvi i diritti ereditari”. La stessa senatrice chiede di garantire piena libertà di scelta al medico chiamato a fornire assistenza al suicidio. Ancora Fratelli d’Italia vuole mettere nero su bianco il no secco all’eutanasia, sulla quale si esprimerà nelle prossime settimane la Consulta. Gli altri emendamenti, invece, sarebbero destinati a modificare l’articolo del testo che istituisce il Comitato nazionale di valutazione delle richieste dei pazienti, nell’ottica di blindare i percorsi. FdI punterebbe infatti a rendere il parere espresso dal Comitato di nomina governativa vincolante, oltre che inappellabile davanti all’autorità giudiziaria. Così da sventare l’ipotesi di ingorgare i tribunali, come sospettano anche i giuristi auditi in Commissione affari costituzionale. Forza Italia, da parte sua, propone che il Comitato “venga composto da tre sezioni, come accade per i tribunali, in modo tale che le varie situazioni possano essere valutate più rapidamente”. A spiegarlo è il presidente dei senatori azzurri Maurizio Gasparri, il quale ribadisce che il suicidio assistito non è un diritto. E che non c’è alcuno spazio per l’eutanasia. Resta da “trattare” sul ruolo del Servizio sanitario nazionale, dopo aver chiarito che non saranno in alcun modo tollerate strutture che si occupino esclusivamente di fine vita, le cosiddette “cliniche della morte”. Su questo, ovvero sul nodo relativo alla sanità pubblica, arriva la proposta del dem Andrea Crisanti, professore di microbiologia. Il quale suggerisce la possibilità di inserire i percorsi di fine vita “in regime di intramoenia”, con costi non a carico del paziente, ma “sostenuti esclusivamente da organizzazioni senza scopo di lucro appositamente accreditate”. In tutto, per le opposizioni, si contano una cinquantina di emendamenti del Pd, 29 di Avs, 21 dal M5s e 5 da Italia viva. La maggior parte delle modifiche vertono sul Comitato - da rivedere in termini di componenti e nomina o da sostituire con i comitati etici territoriali già istituiti, come chiede il dem Alfredo Bazoli - e sui tempi previsti per l’espressione del parere e sulla possibilità di ripresentare la richiesta da parte dei pazienti, che al momento prevede uno stop obbligato di 180 giorni in caso di rifiuto. “L’idea che vuol far passare questa maggioranza che il Ssn si debba occupare solo di vita e non di morte a nostro avviso è molto pericolosa perché mette in discussione anche la 194”, dice la vicepresidente del Senato in quota M5S Mariolina Castellone. L’intesa potrebbe arrivare sull’obiezione di coscienza per il personale sanitario, ma sarà difficile “aprire” nuovi varchi nella strada stretta segnata dal partito del no. Cittadinanza, il gioco dell’oca di una riforma di Giuliano Tortolano L’Espresso, 18 luglio 2025 Il Governo non trova la quadra sullo ius scholae. Mentre l’opposizione non è unita dallo ius soli. Così la revisione delle norme del 1992 slitta un’altra volta. Come da tradizione parlamentare. Per come si è ingarbugliata la matassa, molto probabilmente sarà solo un tema elettorale delle prossime Politiche, saltando a piè pari l’ultimo tratto di legislatura. Dopo l’allineamento Giorgia Meloni-Antonio Tajani sulla “non priorità” dello ius scholae, appare particolarmente difficile che una nuova legge sulla cittadinanza possa essere approvata da questo Parlamento. Poi, prevedibilmente, se non l’intero “campo progressista”, almeno il Pd - in compagnia di Avs e +Europa - rilancerà il progetto nella versione più radicale, quella dello ius soli: si diventa italiani con la nascita sul territorio della Repubblica. I migranti residenti in Italia cominciano ad avere un peso elettorale da non sottovalutare, costituendo quasi il nove per cento della popolazione, con una concentrazione nel Centro-Nord. Di rimando, l’insistenza del centrosinistra tornerà utile alla Lega di Matteo Salvini (e di Roberto Vannacci) per accreditarsi, davanti agli elettori, come l’interprete più inflessibile di una presunta “italianità” minacciata dalle ondate migratorie. È lo scenario che comincia ad aprirsi, quando mancano poco più di due anni alla scadenza naturale della legislatura. Oggetto dello scontro: la revisione della vecchia legge del 1992, lo ius sanguinis, che riconosce la cittadinanza, al momento della nascita, solo ai figli di genitori che siano cittadini, prevedendo per chi nasce da genitori immigrati la possibilità di ottenerla al compimento della maggiore età, dopo avere vissuto legalmente e senza interruzione in Italia. Se la nascita è avvenuta all’estero (si tratta qui di extracomunitari) per la cittadinanza occorre avere risieduto legalmente almeno dieci anni. Ed è quest’ultima la norma sulla quale interveniva uno dei cinque referendum dello scorso giugno, senza ottenere il quorum come gli altri quattro quesiti, ma con un effetto boomerang per i promotori particolarmente devastante perché ha rafforzato le posizioni di Lega e Fratelli d’Italia. I due partiti fanno leva sull’argomento che gli italiani avrebbero dimostrato di non essere favorevoli a un cambiamento, anche perché, oltre al mancato raggiungimento del quorum, i no all’abrogazione hanno raggiunto il 35 per cento. Insomma, una doppia sconfitta che ha contribuito a indebolire anche il tentativo di Tajani. Conseguenza: la situazione non è cambiata in nulla, anzi è anche politicamente peggiorata per i fautori della nuova cittadinanza rispetto all’estate di un anno fa, quando Forza Italia propose lo ius scholae, il centrosinistra offrì subito la disponibilità a varare quello schema di riforma, poi la Lega si pose di traverso trovando una sponda in Fratelli d’Italia e proprio nella premier. Tutto già nell’agosto 2024 si concluse con un rinvio da parte del partito di Tajani per non aprire un solco nella maggioranza. Esattamente come è avvenuto nelle ultime settimane. Con questo passo dell’oca addirittura si torna indietro di quasi otto anni, quando, negli ultimi giorni del 2017, l’allora premier Paolo Gentiloni preferì anche lui il rinvio, limitandosi a definire la riforma della cittadinanza “un obbligo per la prossima legislatura”, dopo avere preso atto che il suo governo non era riuscito a condurla in porto. Per sconfiggere l’ostruzionismo parlamentare della Lega contro un provvedimento volto a introdurre una forma temperata di ius soli (si richiedeva anche il compimento di un ciclo scolastico), il governo a guida Pd - che racchiudeva anche la componente moderata di Angelino Alfano - avrebbe potuto porre la fiducia nel passaggio più impegnativo davanti al muro di emendamenti, nell’aula del Senato dopo il sì della Camera (conquistato con Matteo Renzi a Palazzo Chigi), ma evitò di farlo per non acuire lo scontro politico-parlamentare con chi addirittura denunciò “l’africanizzazione dell’Italia”, evocando anche il “suicidio etnico” del Paese, come disse un deputato salviniano. Con le elezioni politiche alle porte, si temeva il rischio di regalare voti alla destra, considerando che i sondaggi già indicavano un netto calo di consensi del Pd. Si preferì accantonare il provvedimento. Poi, le elezioni del 2018 condussero ai due governi di Giuseppe Conte, di cui il primo con la presenza di Salvini e dei suoi ministri… Ma il tema della cittadinanza non ha mai entusiasmato più di tanto il Movimento fondato da Beppe Grillo (l’ex comico, alla fine, definì il provvedimento della precedente legislatura “un pastrocchio invotabile”). E comunque è stato un veto sempre della Lega a impedire che la riforma fosse poi inserita nel programma del governo di Mario Draghi, quando fu riproposta sia pure cautamente dal Pd. Oggi, il quadro è ancora più complicato. In teoria, solo un’iniziativa parlamentare trasversale tra Forza Italia e le opposizioni, non impegnando direttamente il governo, potrebbe rimettere in movimento la situazione, che al momento resta bloccata. La stessa posizione dei berlusconiani - la cittadinanza sempre dopo dieci anni e avendo completato almeno un ciclo di studi - è lontana dalla riforma che vorrebbe l’opposizione, compresi i riformisti del Pd e i Cinque Stelle che vedrebbero bene lo ius scholae, ma con tempi più brevi per ottenere la cittadinanza. Occorre, tuttavia, lavorare politicamente proprio sulla “via scolastica”, che non solo appare realisticamente l’unico approdo in materia di riforma della cittadinanza, ma potrebbe anche facilitare - ed è questa la cosa più importante - un’integrazione non fittizia. Un’integrazione che passi attraverso una condivisione almeno dei valori di base della nostra comunità. Dovrebbe essere nell’interesse dell’intera politica italiana. Se a credere nella pace è rimasto solo papa Leone XIV di Mario Giro* Il Domani, 18 luglio 2025 Il pontefice è rimasto solo a parlare di pace con convinzione. Da Washington a Mosca, dal Congo a Gaza, da Kiev alle capitali europee, gli altri leader pare detestino l’ipotesi della pace, considerandola irrealistica o cercando di trarre vantaggio dal caos attuale. Papa Leone XIV insiste sul tema della pace. I nemici devono parlarsi - sostiene - e invita ad incontrarsi in Vaticano. Proseguendo nella tradizione della chiesa cattolica, il papa di Roma è l’unico leader globale a parlare di pace con convinzione. Gli altri leader pare detestino l’ipotesi della pace, considerandola irrealistica o cercando di trarre vantaggio dal caos attuale. Benjamin Netanyahu e Hamas esecrano la pace proseguendo nella spirale dell’odio che annienta Gaza e ora minaccia la Cisgiordania. Entrambi cadono nell’impotenza: alla fine nessuno vince. Anche Vladimir Putin non vuole la pace e crede che la grandezza della Russia sia incastonata nella vittoria del 1945: vorrebbe ripetere quelle gesta ma non può. Risponde di no a Donald Trump sperando di approfittare della disunione dell’Occidente per mangiarsi ancora un po’ di Ucraina. Così rischia perché in guerra tutto si rovescia facilmente. Nemmeno molti responsabili (politici e religiosi) ucraini vogliono la pace, convinti che l’Occidente li aiuterà a “vincere la Russia” senza rendersi conto di quanto sia illusorio. Forse Volodymyr Zelensky desidera la fine del conflitto un po’ più degli altri, dimostrandosi abile nel muoversi sulla scacchiera instabile di Trump. Su altri quadranti non vogliono la pace i capi sudanesi delle due parti: si sono “accomodati” in una guerra durevole a scapito del loro popolo. Ci sono più morti in Sudan che a Gaza, ma non se ne parla. Non sembrano volere la pace nemmeno gli antagonisti nei due Kivu, ove la questione è materiale: sia la Repubblica democratica del Congo che il Ruanda puntano alle risorse delle terre rare. Gli Stati Uniti sono finalmente riusciti a farli ragionare e firmare un accordo ma nessuno sa chi disarmerà le decine di gruppi armati presenti nella regione. Tra coloro che credono che la pace sia irrealistica ci sono i leader “volenterosi” europei: in Germania si è convinti che nel 2030 la Russia attaccherà. Il successo dell’AfD post-nazista dipende anche da una reazione a tale profezia di guerra “certa”. Non diversamente la pensano i romeni: tanti voti sono andati alla destra estrema per esorcizzare la guerra. I popoli sono incerti: nessuno in Europa vuole essere comandato da Mosca ma nemmeno desidera trovarsi in guerra coi russi. Non credono alla pace i paesi arabi del Golfo alcuni dei quali finanziano guerre in Africa e Medio Oriente. Non si rendono conto che si tratta di un boomerang che potrebbe un giorno rivoltarsi contro di loro. Chi li appoggerà in caso di pericolo? Infine la Cina non fa ciò che potrebbe per costruire la pace: prosegue la sua giusta causa in favore del multilateralismo, ma non opera concretamente per frenare chi combatte (russi ma anche africani) laddove avrebbe il potere di farlo. Continua ad aspettare di vedere cosa le convenga di più. Così la pace resta orfana, senza nessuno che la difenda, che ci creda o la apprezzi, salvo la Chiesa cattolica. È stato il messaggio che papa Leone ha dato urbi et orbi dalla Loggia di San Pietro: una pace disarmata e disarmante. È stato il tema del suo discorso ai giornalisti e ai diplomatici. Pace come prima cosa. E poi giustizia come lotta agli squilibri e alle disparità globali. E infine verità nel senso di opporsi alla post-verità dei fake, con “parole dai connotati ambigui e ambivalenti”. Una preoccupazione per “il mondo virtuale, con la sua mutata percezione del reale, che prende il sopravvento senza controllo”. Senza tutto questo è arduo costruire rapporti autentici, parlarsi davvero e fare pace. *Politologo Se la giustizia internazionale fallisce la colpa è degli Stati di Fabio Marcelli* Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2025 Sono ripartite le litanie ma la responsabilità dell’efficacia non è “del diritto internazionale”. Sono gli Stati, come il nostro, a rifornire di armi e appoggio politico chi compie reati. La situazione internazionale, col suo odioso corredo di guerre e genocidi, in un mondo apparentemente sempre più proiettato verso la catastrofe bellica definitiva e il conseguente ritorno all’Età della Pietra (copyright Albert Einstein), sta scatenando le consuete lamentose litanie sulla fine del diritto internazionale e sull’impossibilità della giustizia internazionale (di cui il 17 luglio si celebra la Giornata mondiale, ndr). Prima di pronunciare sentenze definitive e inappellabili, che solitamente si coniugano all’instaurazione di uno stato di frustrazione psicologica che spinge coloro che ne sono colpiti all’inazione, all’abbandono di iniziative politiche e giuridiche e alla contemplazione dei paradisi artificiali, occorre tuttavia riflettere attentamente sulla natura del diritto internazionale stesso. Comincio accennando al rapporto tra diritto internazionale e giustizia internazionale. La seconda può essere intesa come finalità complessiva da raggiungere mediante il primo ovvero come apparato giudiziario destinato ad agevolarne l’attuazione. Impossibile quindi negare lo stretto legame esistente, in entrambi i sensi, tra l’uno e l’altra, anche se concettualmente autonomi l’uno rispetto all’altra. Un secondo elemento da tenere presente è la natura del tutto peculiare del diritto internazionale rispetto a quelli cui siamo abituati, che sono quelli interni, i quali tutti presuppongono un livello superiore di integrazione, che permette il funzionamento di organi giudiziari ed esecutivi stabili, destinati ad essere sorretti, in media, anche se non sempre e necessariamente, dal consenso dei cosiddetti consociati. Il diritto internazionale invece è, per definizione, sprovvisto di apparati del genere e deve necessariamente far ricorso a quelli degli Stati. Pertanto, il livello di effettività del diritto internazionale dipende dai rapporti di forza esistenti tra gli Stati, dal loro funzionamento più o meno democratico, e dal modo in cui essi considerano meglio tutelati i propri interessi. Chi volesse approfondire questa discussione può consultare il mio libro di un paio di anni fa “Diritto internazionale, appunti critici”, di cui mi riprometto di pubblicare prossimamente un’edizione aggiornata. L’attuale tumultuosa fase di transizione dal monopolarismo statunitense al multipolarismo dialettico e conflittuale è caratterizzata da una forte precarietà del diritto proprio perché il vecchio ordine sta andando (e fortunatamente) in frantumi, mentre il nuovo ancora non emerge in modo chiaro e compiuto. Ne consegue l’evidente impotenza delle Nazioni Unite, bloccate dai veti statunitensi qualora volessero imporre il rispetto del diritto internazionale a Israele o altri vassalli della potenza imperiale, che è in declino, ma pur sempre dotata di strumenti giuridici e politici volti all’affermazione dei suoi disegni. Ovviamente sono fortemente sconvolgenti le immagini che provengono ogni giorno da Gaza, dove è in corso in modo pressoché indisturbato da quasi due anni ormai un vero e proprio genocidio conclamato (dopo quello a piccole dosi che avviene da vari decenni) ad opera del governo israeliano, così come quelle che provengono da scenari di guerra come l’Ucraina, il Sudan, il Congo e altri ancora. Occorre però ben chiarire, per contrastare una sorta di “pensiero magico” che tende purtroppo a farsi strada nei cervelli meno avvertiti, e non solo in quelli, che la colpa non è “del diritto internazionale”, ma degli Stati che, come il nostro, non solo assistono passivamente al genocidio, ma riforniscono di armi, munizioni ed appoggio politico chi li compie. Non solo non operano fattivamente per bloccare le guerre promuovendo il negoziato, ma le alimentano fornendo armi agli Stati che vi partecipano. Non solo non promuovono l’azione degli organismi internazionali competenti, ma subiscono passivamente il loro boicottaggio, come sta avvenendo per Corte penale internazionale, considerata da Trump alla stregua di un’organizzazione terroristica, o per la Relatrice Speciale sui diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati, la nostra concittadina Francesca Albanese, che per la sua coraggiosa ed esemplare opera di denuncia del genocidio israeliano e delle complicità che lo permettono è stata a sua volta colpita da gravi sanzioni statunitensi senza che né Mattarella, né Meloni, né l’ignavo Tajani si siano finora degnati di aprire bocca al riguardo. La vigenza del diritto internazionale, insomma, è legata ai rapporti di forza esistenti, e non solo a quelli tra gli Stati ma anche a quelli interni agli Stati, e si vede senza dubbio corroborata dall’esistenza di opinioni pubbliche informate e sensibili al tema dello Stato di diritto. Appare in questo momento storico di fondamentale importanza che le forze emergenti, prime fra tutte la Cina e i Brics, si dimostrino attente a questi aspetti. Da questo punto di vista sia il pensiero della dirigenza politica cinese in materia, che è consegnato alla dottrina del destino condiviso dell’umanità, formulata già tredici anni da Xi Jin Ping, che l’azione concreta dei Brics, quale ad esempio si è espressa nel recente Vertice di Rio de Janeiro, costituiscono un buon inizio e lasciano ben sperare. A condizione beninteso che si capisca bene che il diritto internazionale e la giustizia internazionale non sono regali che cadono dall’alto, ma conquiste per le quali dobbiamo operare concretamente e fattivamente ogni giorno, nell’interesse della pace, dei diritti e delle generazioni future. *Giurista internazionale Stati Uniti. L’American dream è una galera di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’Espresso, 18 luglio 2025 Colloquio con John Burris, avvocato per i diritti civili. “Trump cavalca la furia giustizialista: riapre prigioni, allarga penitenziari e aumenta le detenzioni. Così la giustizia diventa un dramma sociale. E un business senza scrupoli: intorno alle carceri private ci sono interessi economici importanti, è una filiera da cui sono in molti a trarre profitto. Per questo vogliono che la gente continui a finire in gabbia”. In principio era il muro. Ora sono le sbarre. Nel secondo tempo di Donald Trump alla Casa Bianca, le carceri sono diventate il nuovo feticcio. Rinchiudere e ostentare i muscoli: la ricetta del “law and order” è servita ogni giorno alla base più intransigente del popolo Maga. Negli ultimi mesi, il governo ha spinto per la riapertura di almeno cinque penitenziari dismessi e per l’ampliamento di prigioni e centri per immigrati senza documenti, destinati all’espulsione. In ballo è tornata anche la base di Guantánamo, dove gli ergastolani della guerra al terrore fanno posto ai migranti catturati nei raid. I bersagli della nuova repressione. Molti non hanno precedenti o hanno commesso reati minori. Un terzo dei detenuti spediti a Guantánamo ha la fedina penale pulita, come pure tanti degli stranieri fatti volare senza processo a El Salvador, diretti al maxi-carcere di Cecot. Sin dal suo insediamento, Trump ha spinto il sistema penale verso un modello più punitivo. Ha smantellato la banca dati sui poliziotti violenti, tagliato centinaia di programmi e imposto restrizioni ai reclusi transgender. Ha ordinato pene più dure e cancellato le riforme volute da Joe Biden (inclusa la moratoria sulla pena di morte federale), che miravano a ridurre le condanne, limitare le carceri private e ampliare le misure di reinserimento. Il tutto per mano della ministra della giustizia Pam Sondi, incarnazione vivente della dottrina della tolleranza zero. La sparata più clamorosa di Trump, però, resta la proposta (impossibile) di riaprire Alcatraz, oggi museo. In attesa di restaurare la fortezza californiana di Al Capone, è arrivato un piano B: l’Alligator Alcatraz, una struttura nelle paludi Everglades della Florida, presidiata da una fauna minacciosa di alligatori, serpenti e zanzare. “Sono trovate a effetto. Al presidente piace mostrarsi duro ai suoi elettori. Non prova empatia, soprattutto quando si tratta di rinchiudere in cella le minoranze. È tutto un esercizio di potere e immagine”. John Burris osserva l’America trumpiana con lo scetticismo di chi, per decenni, ha dovuto fare i conti con un sistema endemicamente malato. Avvocato per i diritti civili, si batte da una vita contro la brutalità delle forze dell’ordine e la discriminazione. La sua fama esplose negli anni Novanta, quando difese Rodney King, l’uomo pestato dalla polizia di Los Angeles: un caso che incendiò il Paese grazie alle immagini dell’aggressione rubate da una telecamera. Andiamo a incontrarlo a casa sua, su una collinetta che si affaccia su Oakland in California. La chiacchierata è anche un’occasione per riprendere il discorso sulla situazione drammatica delle carceri americane. Gli attivisti come Burris non sono sorpresi: sapevano che Trump non avrebbe riscoperto la clemenza e non avrebbe mai rinunciato al piacere di saziare l’appetito giustizialista. Eppure, durante il primo mandato, aveva sostenuto alcune riforme. Come il First Step Act del 2018, che puntava a ridurre le condanne federali inutilmente lunghe, migliorare le condizioni e favorire il reinserimento. Un pacchetto che però ha prodotto risultati modesti. “Sono molto preoccupato dagli sforzi di questa amministrazione. Assistiamo a una graduale eliminazione dei diritti fondamentali delle persone”, avverte Burris, denunciando come l’ossessione carceraria sia un moltiplicatore di danni. Ma l’apparato era in affanno molto prima che il tycoon tornasse alla Casa Bianca. Quella statunitense, infatti, è una piovra con migliaia di istituti che sorvegliano 2 milioni di persone, inghiottendo ogni anno 182 miliardi di fondi pubblici. Secondo la Prison Policy Initiative, ci sono oltre 1.500 prigioni statali, un centinaio federali, più di tremila locali e circa un migliaio tra centri di detenzione per migranti e minori. Dagli anni Settanta, con l’escalation della “war on drugs”, la popolazione dietro le sbarre è cresciuta del 500 per cento. Tanto che oggi, gli Stati Uniti pur contando meno del 5 per cento della popolazione mondiale, hanno oltre il 20 per cento dei reclusi del Pianeta. “Le incarcerazioni di massa sono un problema enorme e non solo per il detenuto in sé. Negli anni devastano le famiglie, ma anche quartieri e comunità con un danno sociale irreparabile. Ora, chi finisce in gattabuia? Per la maggior parte persone di colore, ovvero neri e ispanici”, ci dice indignato Burris. “Per anni le leggi sulle droghe sono state applicate in modo sproporzionato contro gli afroamericani: facevano uso di marijuana, cocaina e crack agli stessi livelli dei bianchi ma venivano puniti dieci volte di più”. I numeri gli danno ragione: nonostante costituiscano il 13 per cento della popolazione, rappresentano circa il 37 per cento dei detenuti. Secondo l’American Civil Liberties Union, oggi un bambino nero su tre può aspettarsi di finire in prigione nel corso della vita, uno su sei tra i latinoamericani e appena uno su 17 tra i bianchi. Un destino che riflette decenni di ingiustizie. “Ho praticato diritto penale a lungo. Le scene che ho visto in tribunale mi hanno disgustato. È un sistema profondamente razzista. Per reati simili, la punizione per i neri è sempre più dura di quella per i bianchi”, ci racconta. “È impossibile ignorare la disparità. Quando la marijuana è stata legalizzata per la prima volta in posti come Washington D.C. o in Colorado, la gente faceva festa, ma intanto le carceri erano piene di afroamericani arrestati per averla venduta in strada. Non grandi trafficanti, solo ragazzini, piccoli spacciatori”. Soprattutto poveri, in una nazione in cui la miseria è una condanna preventiva: cauzioni di 10mila dollari tengono migliaia di persone in cella per mesi in attesa di processo. Iniquità che presenta conti generazionali. In Usa quasi metà dei detenuti soffre di disturbi mentali, ma spesso non riceve cure adeguate. L’uso della forza e dell’isolamento aggrava ansia, depressione e paranoia. Un carcerato ha una probabilità tre volte maggiore di morire per suicidio. Il sovraffollamento cronico, le carenze di personale e le violenze, poi, rendono impossibile qualsiasi recupero. Ma la questione è anche finanziaria. “Ci sono enormi interessi economici legati al sistema privatizzato delle carceri americane - ci spiega Burris - L’amministrazione e parte dei repubblicani stanno cercando di privatizzare molti servizi pubblici”. Lo conferma un rapporto della non profit Marshall Project: le grandi aziende che gestiscono i penitenziari privati (che oggi ospitano 1’8 per cento degli internati) stanno vivendo un’espansione senza precedenti grazie alle politiche del presidente. A fregarsi le mani sono colossi come CoreCivic, ad esempio, che si sono aggiudicati i contratti per confinare migranti per conto dell’Immigration and Customs Enforcement. Queste compagnie stanno registrando un’espansione massiccia e una domanda crescente di celle private finanziate dal governo federale. “Le prigioni sono motori economici per intere comunità - sottolinea John Burris - Creano una catena di servizi e posti di lavoro da cui molti traggono profitto. Quando si parla di chiuderle, i sindacati carcerari sono i primi a protestare: vogliono che la gente continui a finire in gabbia”. Perché nell’America di Trump, la libertà diventa merce, la sofferenza un business in attivo. Stati Uniti. “Durante la pandemia eravamo essenziali. Ora ci chiamano criminali” di Luca Celada Il Manifesto, 18 luglio 2025 La testimonianza di Gabriel Valladolid, bracciante agricolo. “In questi giorni si raccoglie la lattuga. Un lavoro che spezza la schiena, non si ferma mai. Chi di voi con la previdenza sociale lo farebbe con questo caldo? Nessuno, ve lo dico io”. All’annuncio dello sciopero parliamo con Gabriel Valladolid, sulla cinquantina, scarponi da lavoro sporchi di fango (“ne vado orgoglioso”). Ci racconta i suoi 35 anni nei campi, la sua storia, antica come la terra riarsa dal sole della Central Valley, il paniere che sfama mezzo paese. La pianura che da sopra Sacramento scende fin sopra Los Angeles, 500 km irrigati intensivamente che sono la regione agricola più produttiva del paese. Durante la conferenza stampa lo abbiamo visto svuotare una sporta davanti ai giornalisti da cui sono usciti una dozzina di plichi, ognuno contrassegnato da un anno. Gabriel ha portato le sue dichiarazioni dei redditi per sbugiardare la narrazione per lui più oltraggiosa, quella che dipinge la sua gente come scansafatiche a carico dello stato. Abbiamo raccolto la sua testimonianza. “Sono arrivato qui nel 1990 e ho sempre lavorato nei campi. Potete guardare, controllate pure, 2010, 2013, 2011, 2017, anno dopo anno dopo anno. E se leggete, ogni anno mi trattengono 2.700, 3.500 dollari perché non ho persone a carico. Sono un lavoratore single, e in più non appena ricevo l’assegno, mi prendono un’altra fortuna. E sono soldi che non rivedrò mai più. Non potrò andare in pensione. Per me non ci sono festività. Lavoro il 4 luglio, il 1° maggio, il Labor Day, il Memorial Day, il Veterans Day. Il lavoro agricolo è mal pagato. Se pensate che un cittadino americano vada a raccogliere i raspi d’uva, pagati 25 centesimi l’uno… In questi giorni si raccoglie la lattuga, andate a vedere , la lattuga è dappertutto. Un lavoro che spezza la schiena, non si ferma mai. La sera escono distrutti. Chi di voi con la previdenza sociale, con un permesso di lavoro, lo farebbe con questo caldo? Nessuno, ve lo dico io. E allora perché ci chiamano criminali e dicono che siamo qui per rubare? Non siamo venuti per rubare. Abbiamo pagato per essere qui, abbiamo pagato. Ecco le tasse. Ho fatto le mie dichiarazioni (dei redditi, ndr) per 20 anni e senza ricevere alcun sussidio, nessun sussidio. Mai. Più di 20 anni senza ricevere un solo giorno di disoccupazione. Controlla pure, puoi guardare il 2023, il 2024, il 2016. Ho quello del 2019, quello della pandemia. Ecco quello della pandemia. Ho lavorato per tutta la pandemia, tre miei colleghi sono morti, ho dovuto vederli morire. Sapete cosa? A noi braccianti hanno dato un pezzettino di carta che diceva che se la polizia ci avesse fermati, ci avrebbero lasciato andare, sapete perché? Perché uscivamo a raccogliere frutta e verdura. Durante la pandemia, quando mai vi è mancata l’insalata? Quando siete rimasti senza pomodori? I raccolti non si sono mai fermati. Sono ingrati. Come mai vengono da noi 4, 5 anni dopo e ci dicono che siamo dei criminali? Potevano dircelo durante la pandemia, invece allora ci chiamavano ‘essenziali’. Con i raid dell’Ice la mia comunità si stente perseguitata, spaventata. Molte persone non vanno a lavorare perché non sanno se saranno i prossimi. È per questo che siamo qui, è per questo che lanciamo il nostro appello. E non solo ai braccianti agricoli. Io lavoro nei campi ma l’appello è per tutti. Ci rivolgiamo agli influencer, agli artisti, che si uniscano a noi, che abbiano empatia, che si rendano conto che stanno violando i nostri diritti umani, i diritti civili. Ci sono persone scomparse, questa è la realtà. A Camarillo è appena morta una persona. Noi qui abbiamo una storia; la California è la quarta o quinta economia al mondo. Guardati attorno e ti rendi conto che qui intorno c’è tutta una comunità latina. Guarda dietro di me, guarda avanti, guarda di lato. Siamo noi immigrati, siamo dappertutto. È una politica folle proprio perché questa nazione è stata costruita dagli immigrati. Io sono un nativo americano, i miei antenati sono nati in America, il mio Dna è americano, sono americano, non ho attraversato l’oceano, non vengo dall’Europa, vengo dall’America, sono americano, nativo americano, i miei nonni sono americani. La mia famiglia in Messico vive bene. Per loro devo fare questo sacrificio. Anche se a volte mi chiedo che valore può avere? Ho appena perso mio padre. Non ho potuto dirgli addio perché ho dovuto prendere la decisione tra restare e dirgli addio. Non sarei potuto tornare. È un sacrificio enorme e il prezzo che paghiamo è molto alto. Basta. Non possiamo permettere che ci abusino così. I nostri figli sono confusi. La generazione no sabo (i figli oriundi, ndr) è confusa, e questo è pericoloso. Perché quella generazione, i bambini che sono venuti qui a 3, 4 anni, non hanno visto nessun altro paese se non questo. La loro cultura è questa. Le loro amicizie sono queste. Le loro radici ora sono queste. Ma cosa succede quando vedono i loro genitori perseguitati e arrestati come se fossero criminali? Reagiscono e tirano pietre. È una reazione normale di un figlio proteggere la madre, il padre. Quindi, quello che succede poi è che possono essere arrestati. Ecco perché è molto importante per noi fare questa battaglia prima che i nostri figli facciano qualcosa del genere. Perché la loro reazione è diversa dalla nostra”.