La trovata di Nordio per far fuori la legge Giachetti di Angela Stella L’Unità, 17 luglio 2025 Coro di critiche per la task force sulle misure alternative annunciata dal ministero che tirerà le somme solo dopo l’estate. Giachetti: “Modo per bloccare la nostra pdl”. Serracchiani: “Servono misure immediate”. Due giorni fa il governo ha deciso di affrontare l’emergenza carceraria. Come? Con l’istituzione di una task force tra Ministero della Giustizia, magistratura di sorveglianza e singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni di 10.105 detenuti cosiddetti definitivi (6.079 italiani, 4.026 stranieri, con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi) potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere. Peccato però che le conclusioni del gruppo interistituzionale si vedranno a settembre 2025, quando le carceri avranno superato - non sappiamo ancora come - l’inferno che stanno vivendo in questi mesi di intensa calura. Nordio ovviamente ha escluso qualsiasi provvedimento di amnistia, indulto o liberazione anticipata speciale, come previsto dalla proposta di legge Giachetti. Proprio il deputato di Italia Viva ha commentato così l’iniziativa di via Arenula: “Per me quello che conta è intervenire sull’emergenza sovraffollamento. Per cui mi va benissimo anche quella strada. Temo, però - ha detto Giachetti - che stiamo ricalcando l’operazione esattamente di un anno fa quando per bloccare la nostra legge fecero un decreto che ovviamente non ha inciso per nulla sul sovraffollamento. Noi dobbiamo agire adesso perché è in estate che la situazione diviene ancor più drammatica. Una task force che a settembre farà il punto sul tema sarebbe solo fumo negli occhi. Domando per altro: nelle condizioni in cui si trovano gli uffici dei giudici di sorveglianza quanto tempo ci metterebbero ad esaminare oltre 10.000 posizioni? Chiunque conosce quello di cui parliamo sa perfettamente della debolezza di questo ennesimo annuncio”. È noto a tutti che ci sono solo 250 magistrati di sorveglianza nell’organico che devono seguire 63.000 detenuti e oltre 100.000 liberi sospesi. A bocciare l’iniziativa anche la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini: “Come fu l’anno scorso con il decreto carceri (da allora ad oggi i detenuti sono aumentati di 1.300) il rischio è che questa ‘trovata’ estiva sia un enorme presa in giro tanto più grave nel momento in cui la seconda carica dello Stato sta, al contrario delle chiacchiere, mettendo in piedi un’iniziativa parlamentare concreta e veramente risolutiva senza stravolgere l’ordinamento esistente”. Eh già, è proprio questo il nodo politico adesso: che cosa farà ora Ignazio La Russa? Nelle ultime settimane aveva aperto alla proposta di legge Giachetti e non era escluso che un testo correttivo venisse presentato in questi giorni al Senato grazie all’appoggio di una maggioranza trasversale. Adesso il numero due del Senato getterà la spugna dinanzi a questo palese specchietto per le allodole messo su dal Ministro Nordio o manterrà il punto in coerenza con tutti quello che ha detto fino ad oggi? Critica comunque sull’iniziativa del Guardasigilli anche la responsabile giustizia del Pd, Debora Serracchiani: “Noi siamo favorevoli alle iniziative che finalmente affrontino il sovraffollamento e la situazione disastrosa e indegna delle carceri italiane. Non pensiamo che la soluzione sia un tavolo con i magistrati di sorveglianza, ma l’approvazione immediata di strumenti legislativi come la liberazione anticipata speciale del collega Giachetti. Insomma abbiamo l’impressione che questa maggioranza non voglia assumersi alcuna responsabilità politica e non fare nulla per risolvere l’emergenza carceri, ma che al contrario ancora una volta intenda scaricare sulla magistratura, oggi di sorveglianza, ogni responsabilità”. Secondo Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, “il Ministero ha preso finalmente consapevolezza dell’esistenza del problema, ed è un passo avanti rispetto all’anno scorso, ma tempi e modi delle soluzioni prospettate sono del tutto inadeguati. Non si può aspettare settembre per prospettare iniziative che sono già tutte sul tavolo. Né si può pensare esclusivamente a misure alternative al carcere che sono già possibili a legislazione vigente, ma non vengono concesse a larga parte della popolazione detenuta”. La via maestra per Anastasia “resta quella di un provvedimento di clemenza che, senza scaricare responsabilità sui magistrati, dovrebbe vedere concordi maggioranza e opposizione, o almeno parte dell’una e dell’altra, come nel 2006. In alternativa, se vogliono ampliare la liberazione anticipata, lo facciano con coraggio, a partire dal termine dell’ultima liberazione anticipata speciale post-Torregiani, con almeno due mesi di sconto di pena in più all’anno e senza preclusioni, anzi condonando anche le sanzioni disciplinari. Così una liberazione anticipata speciale potrebbe avere effetti apprezzabili sul sovraffollamento. Ma perché si possano vedere in tempi accettabili, il governo dovrebbe una volta tanto adottare un decreto-legge con i requisiti costituzionali di necessità e urgenza e mettere immediatamente in moto la macchina amministrativa e giudiziaria”. Sorprende invece la posizione di Forza Italia che l’anno scorso si era detta alla pdl Giachetti: “È giusto che a fronte di questo sovraffollamento - ha dichiarato a Coffee break il senatore azzurro Pierantonio Zanettin - che è stato tante volte condannato anche dagli organismi internazionali, si diano delle risposte come quelle che sta ipotizzando il ministro Nordio e che mi trovano totalmente d’accordo”. Intanto ieri due detenuti del carcere di Ascoli Piceno del reparto ‘Articolazione tutela salute mentale’ (Atsm) hanno dato fuoco a un materasso e poi si sono barricati in cella. Sono stati messi in salvo ma otto agenti di polizia penitenziaria sono rimasti intossicati e sono dovuti ricorrere alle cure del pronto soccorso. Al momento, inoltre, il sovraffollamento carcerario è intorno al 130 per cento e secondo il dossier di Ristretti Orizzonti quest’anno i suicidi negli istituti di pena sono stati 41, ai quali si aggiungono 33 decessi da accertare. A lamentarsi dell’overcrowding ci ha pensato ieri anche l’ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, Giovanni Castellucci, rinchiuso a Rebibbia dopo una condanna a sei anni di reclusione per la morte di 40 persone su un pullman caduto da un viadotto autostradale nell’Avellinese. In particolare si è lamentato del fatto che in una cella da quattro ci siano sei persone. Ma non è solo questo il problema, se pensiamo che nella maggior parte delle carceri mancano ventilatori. Per questo l’ordine degli avvocati di Roma ha deciso di stanziare qualche giorno fa dei fondi per oltre 100 ventilatori destinati alle persone detenute a Rebibbia (reparti maschile e femminile) e Regina Coeli. Carcere, ecco il Nordio che ci piace... ma non c’è più tempo di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 17 luglio 2025 Il ministro che annuncia pene alternative per diecimila detenuti è il Nordio che ci piace. Perché vuol dire che non solo il guardasigilli è consapevole di quei 63.000 detenuti stipati come galline d’allevamento laddove, sia pure strettini, ne dovrebbero stare non più di 47.000, ma anche che è pronto a rimboccarsi le maniche. Il suo sguardo si è soffermato prima di tutto sui detenuti condannati in via definitiva. Non per una svolta radicale come sarebbe quella di incoraggiare il Parlamento all’approvazione della proposta di legge Giachetti-Bernardini sulla liberazione anticipata e l’aumento di detrazione dei giorni. Ma per sollecitare l’applicazione delle norme che consentirebbero la “concessione” di detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e semilibertà. In qualche caso addirittura la liberazione anticipata. Se a questi numeri (persone) si aggiungessero quelli già all’attenzione del ministero, cioè il 15% di chi attende il processo, oltre al 25% di tossicodipendenti da trasferire in luoghi più adatti alla cura e ad altrettanti stranieri da rinviare (difficile) ai lunghi d’origine, la rivoluzione sarebbe fatta. Non sarà così. Ma potremmo accontentarci, se non ci preoccupasse il fatto che anche il Nordio che ci piace sembra invitare alla pigrizia dei suoi operatori e dei giudici di sorveglianza. I quali, per fare questa ricognizione e poi decidere di mandare fuori dalle carceri questi 10.000, si incontreranno solo una volta la settimana per due mesi. Perché non vedersi invece tutti i giorni e risolvere in una settimana? Quarantun suicidi dall’inizio dell’anno e la prospettiva del solito agosto torrido in cui inesorabilmente ne conteremo altri, non le fanno fischiare le orecchie, caro ministro? La promessa di Nordio: “Faremo la riforma e svuoteremo le carceri” di Daniele Masseglia La Nazione, 17 luglio 2025 Il ministro della giustizia al “Caffè” della Versiliana ha illustrato le sue priorità. E sul caso Garlasco: “Dopo tutti questi anni forse si dovrebbe dire basta”. Portare a termine la riforma per la separazione delle carriere, svuotare le carceri, snellire i processi aumentando l’organico dei magistrati. L’agendina del ministro della giustizia Carlo Nordio darà priorità a questi temi, come il Guardiasigilli ha annunciato ieri al “Caffè” della Versiliana, intervistato dal giornalista Stefano Zurlo. Innanzitutto la riforma: arriverà in Senato il 22 luglio, poi ci sarà una doppia lettura tra settembre e novembre e infine, forse, un referendum. “Personalmente spero si faccia - dice Nordio - perché è bene che su una materia così delicata e complessa si pronunci il popolo italiano. Potrebbe arrivare la prossima primavera. Nessun ‘sacrilegio’ verso la Costituzione: i pm resteranno liberi e indipendenti. Pochi credevano che avremmo fatto questa riforma, ma la faremo”. E per snellire i processi Nordio ricorda di aver indetto cinque concorsi in due anni: “In questo modo, per la prima volta, colmeremo l’organico dei magistrati: ne abbiamo 10.500, ma in servizio meno di 9mila. Il problema è che alcuni processi si ‘clonano’ e continuano per l’eternità”. A proposito di durata dei processi, il ministro ha biasimato quella del caso Garlasco: “La vicenda, in ogni modo, finirà male perché c’è un condannato che si è fatto già 10 anni di carcere ma ora emerge che forse lui non è il colpevole. E poi dopo 18 anni fare un esame del Dna la vedo dura da dimostrare. La lentezza dei processi a volte dipende anche dal fatto che non ci si vuole arrendere all’evidenza. Stasi è stato assolto in primo e secondo grado e poi condannato: già questa era una distonia”. Infine le ricette contro il sovraffollamento delle carceri: “Abbiamo una capienza di 50mila persone, ma in realtà ce ne sono 60mila di cui 20mila stranieri. Ci sono 10mila persone che potrebbero godere della detenzione alternativa, tra cui i domiciliari, perché si stanno comportando bene: togliendone 5mila saremmo a buon punto. Poi ce ne sono 15mila in custodia cautelare, ma in genere la metà viene assolta: basterebbe interrogarli, forse 5-6mila sarebbero rimandati a casa. Inoltre su 25mila tossicodipendenti la metà potrebbe finire in comunità. E su 20mila stranieri la metà potrebbe espiare la colpa nel paese d’origine. Facendo due conti otterremmo un gran risultato. L’alternativa è costruire nuove carceri, ma la burocrazia ti fa passare la voglia, ci vorrebbero troppi anni”. Carceri, svolta possibile sulla liberazione anticipata: l’ipotesi di legge unitaria prende forma agenparl.eu, 17 luglio 2025 Una misura concreta per affrontare l’emergenza carceraria attraverso la leva della liberazione anticipata, ampliando in via temporanea e retroattiva le maglie della legge Gozzini. È questa la proposta al centro dell’intervista rilasciata all’Huffington Post dal deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, promotore dell’ipotesi di una “liberazione anticipata speciale” che, nei prossimi giorni, potrebbe essere trasformata in una legge condivisa da un ampio arco parlamentare. La proposta, che fino a pochi mesi fa sembrava accantonata, ha ricevuto nuova linfa grazie all’apertura del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Una svolta che - osserva Giachetti - “assicura il sostegno non solo della seconda carica dello Stato, ma anche di una parte significativa di Fratelli d’Italia”. Un intervento a tempo per svuotare carceri al collasso - La misura prevede un rafforzamento temporaneo della normativa esistente: attualmente la legge Gozzini concede 45 giorni di sconto ogni sei mesi di detenzione per buona condotta. L’idea di Giachetti è di portare lo sconto a 75 giorni, con efficacia retroattiva per chi è stato detenuto negli ultimi dieci anni, anche se nel percorso di mediazione si valuta di restringere la retroattività a cinque anni e di ridurre lo sconto a 70 giorni. La proposta avrebbe durata biennale e sarebbe riservata ai detenuti in carcere durante tale periodo. Un elemento centrale, spiega l’ex vicepresidente della Camera, è l’efficacia immediata della norma. “Se lo sconto viene calcolato solo a partire da oggi, non si incide sull’emergenza. Serve retroattività per liberare subito migliaia di posti e ridurre il sovraffollamento”, ha dichiarato. Dal laboratorio di Rebibbia ai tavoli parlamentari - L’ipotesi ha preso forma in un recente incontro organizzato da Nessuno tocchi Caino nel carcere di Rebibbia. Da lì è emersa una convergenza politica trasversale: presenti esponenti di Fratelli d’Italia come Marco Scurria, della Lega con Simonetta Matone, di Forza Italia con Andrea Orsini, del Partito Democratico con Walter Verini, insieme a Maria Elena Boschi e Giachetti per Italia Viva, e Valentina Grippo per Azione. Anche l’Alleanza Verdi e Sinistra ha aderito per voce del deputato Devis Dori. Il solo dissenso ufficiale, per ora, arriva da Movimento 5 Stelle e Lega, anche se all’interno del Carroccio - secondo Giachetti - si sarebbe aperta una riflessione più pragmatica. Più garanzie, ma serve agire presto - Per facilitare l’approvazione, sono allo studio modifiche ulteriori. In particolare, La Russa avrebbe chiesto che non basti la buona condotta, ma sia necessario che il detenuto non abbia avuto alcun comportamento violento, neppure quelli giudicati compatibili dai magistrati. Saranno dunque esclusi i condannati per aggressioni, in particolare verso la polizia penitenziaria. Quanto al nome della legge, Giachetti è disposto a fare un passo indietro: “Chiamatela come volete, anche legge Pippo, o meglio ancora legge Nessuno tocchi Caino. Togliere il mio nome farà contenti in tanti, anche fuori dal centrodestra”. Una riforma urgente, tra speranze e tensioni - Giachetti sottolinea che questa volta lo scenario politico sembra più favorevole. Dopo l’affossamento della proposta nel 2024 - motivato dal varo del “decreto carceri” poi rivelatosi inefficace sul piano strutturale - oggi ci sono condizioni nuove: l’interesse esplicito del presidente del Senato, la sensibilità del vicepresidente del CSM Fabio Pinelli, e i reiterati appelli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La speranza è che Giorgia Meloni non ostacoli un’iniziativa parlamentare autonoma, evitando di intestare la questione al governo con un decreto. Un’estate esplosiva dietro le sbarre - Il tempo stringe. “Nei penitenziari italiani c’è una rivolta al giorno”, avverte Giachetti. In alcune strutture, come in Lombardia e Puglia, il tasso di sovraffollamento ha raggiunto il 230%. La carenza di personale, unita alla mancanza di spazi e servizi, fa sì che molti detenuti rimangano 18 ore al giorno in cella, senza nemmeno l’ora d’aria. “Anche gli animali in quelle condizioni si imbestialiscono”, afferma. E denuncia i primi effetti della nuova norma sul reato di resistenza passiva: a Marassi, è già stata applicata contro detenuti saliti sui tetti in segno di protesta non violenta dopo episodi di violenze subite. Serve coraggio e responsabilità, conclude Giachetti. Il carcere e la gerarchia dei diritti di Concita De Gregorio La Repubblica, 17 luglio 2025 Due notizie dal carcere, ieri, che danno da pensare. La prima. Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade, si è collegato in video col tribunale di Genova nel quale è in corso il processo Morandi - il crollo del ponte - per cui è imputato insieme ad altre cinquantasei persone. Si è collegato dal carcere di Rebibbia, dove è stato trasferito ad aprile. Castellucci è detenuto da quando la Cassazione ha reso definitiva la sua condanna a sei anni di reclusione per la morte di quaranta persone che viaggiavano su un pullman caduto da un viadotto autostradale nell’Avellinese, il 28 luglio del 2013. Le motivazioni della sentenza sono state rese note nelle scorse ore, ma Castellucci non può leggerle né commentarle coi suoi avvocati: non può dunque esercitare il suo diritto alla difesa. Non è l’unico dirigente ad essere in carcere per quella tragedia e tutti si trovano nella medesima condizione. In una lettera consegnata e letta dai suoi avvocati dice che nonostante molte richieste “permane l’impossibilità di trasmettermi verbali e atti”. Questo anche per le condizioni materiali in cui si trova: “la ristrettezza degli spazi di cella (sei persone in una cella da quattro), l’enormità della documentazione”. Aggiunge di poter “comunicare coi suoi legali solo per mail e di avere a disposizione dieci minuti cumulativi a settimana per telefonare”. Migliaia sono i detenuti nelle medesime condizioni, sovente anzi assai peggiori. Vale per tutti: il diritto alla difesa deve essere sempre garantito, ma non lo è. A proposito di diritti, le cose vanno meglio nel carcere di Sassari dove David Emanuello, boss di Cosa Nostra in detenuto al 41 bis, ha ottenuto di incontrare la donna con cui intrattiene un rapporto epistolare e una relazione sentimentale in base appunto al “diritto all’affettività”. Sono vicende tanto diverse da non avere niente in comune se non la condizione di chi è in carcere. E, vien da dire, la gerarchia dei diritti. Alcuni, difatti, contengono anche gli altri. In carcere si muore, dietro le sbarre aumentano le vite spezzate di Alessio Di Florio pressenza.com, 17 luglio 2025 A Vasto un quarantenne si è tolto la vita nella Casa Lavoro dieci giorni fa. “Anche oggi un uomo si è tolto la vita dietro le sbarre. È successo proprio oggi, mentre scrivo queste parole, ma potrebbe essere successo anche oggi, nel giorno in cui queste parole vengono lette da un loro occasionale lettore. Un giorno vale l’altro e ogni giorno è buono per morire, in carcere: questa, purtroppo, è una drammatica verità del nostro sistema giudiziario, e noi vi ci stiamo drammaticamente abituando”. È la denuncia pubblicata da Stefano Anastasia, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Lazio e rilanciata due giorni fa dal sito web istituzionale del Garante. L’articolo originale è stato pubblicato da Diurna il 7 luglio dopo che un trentenne, con problemi di tossicodipendenza, solo, senza relazioni, condannato per reati minori, si era tolto la vita. Il giorno prima un uomo si era tolto la vita all’interno della Casa Lavoro di Vasto, in provincia di Chieti. Due vite spezzate dietro le sbarre, due persone che non hanno retto più. A Vasto il quarantenne di origine nordafricana era stato trasferito da pochi giorni nell’Articolazione per la Tutela della Salute Mentale. “Sale così a 37 (più uno ammesso al lavoro all’esterno e un altro in una REMS) la tragica conta dei detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere 3 operatori - ha sottolineato Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria, la notizia del suicidio nella Casa Lavoro di Vasto - Una strage infinita, sulla quale incide anche il caldo record di questi giorni, ma che è solo il detonatore di numerosissimi altri problemi atavici”. “Alla casa di lavoro abruzzese sono associati 103, fra detenuti e internati, certamente si connota per le voragini negli organici del Corpo di polizia penitenziaria, laddove su un fabbisogno di almeno 143 agenti ne risultano assegnati solo 69, dunque meno della metà - sottolinea De Fazio - Anche per questo, pare che l’articolazione per la tutela della salute mentale dov’era allocato il detenuto suicida molto spesso resti non presidiata. A questo si aggiungono altre difficoltà di natura organizzativa che investono pure l’area giuridico-pedagogica (i cc.dd. educatori) dei cui funzionari, fra l’altro, pare non sia garantita la costante presenza in tutti giorni della settimana”. “Qui ci sono cittadini come voi, lo sapete?” in occasione della presentazione del libro “Fuoriclasse - vent’anni di scuola di giornalismo Lelio Basso” (al cui interno tra le inchieste del libro c’è un reportage di Alessandro Leone sulle Case Lavoro) raccontò Giuseppina Rossi, funzionaria giuridico pedagogica della Casa Lavoro, di aver chiesto ad una scolaresca in visita ricevendo come reazione stupore da parte dei ragazzi. Dietro le sbarre, dietro le alte mura degli istituti penitenziari ci sono persone, vite. È banale, scontato, dovrebbe essere ovvio. Eppure così non è. Non è colpa di quei ragazzi perché questo dato, ovvio e scontato, viene cancellato quotidianamente dalla società intera. A partire da coloro che hanno responsabilità di governo e istituzionali per poi scendere lungo l’intera scala sociale. Il suicidio nella Casa Lavoro di Vasto non è il primo in Abruzzo. Quarantenne, l’uomo di origine nordafricana che si è tolto la vita era affetto da problemi di natura psichiatrica. Poco più di un anno fa nel carcere Castrogno di Teramo si suicidò, nel giorno del suo compleanno, Patrick Guarneri. Era entrato in quel carcere solo sei ore prima, era un ragazzo autistico le cui condizioni era incompatibili - hanno denunciato alcune associazioni l’anno scorso - con quell’istituto penitenziario. Carcere, un’emergenza sociale alla quale nessuno dà risposte di Massimo Lensi thedotcultura.it, 17 luglio 2025 In questi giorni infuocati di luglio, è difficile non pensare ai luoghi di detenzione. I liberi - non tutti, ma molti - arrancano sotto un caldo che fiacca e ammala. Figuriamoci chi è recluso. Per le donne e gli uomini in carcere, il caldo non è solo insopportabile: è insostenibile. E chi non lo sa, può almeno immaginarlo. Le loro condizioni sono più precarie di altre, aggravate dalla detenzione stessa e da un sentimento sempre più acuto di abbandono istituzionale. Corpi accatastati nel “carcer”, il recinto. Cambiasse pure la latitudine, saremmo comunque al punto di partenza: il problema non è il termometro, è la carcerazione. È la scomparsa della dignità. Siamo assuefatti anche alla tragedia quotidiana: il degrado carcerario non fa più notizia, come non la fanno le guerre o i morti del cambiamento climatico. In questi giorni si discute - poco, con tono ipocrita - di un intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante un incontro con il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e una rappresentanza della Polizia penitenziaria. Il Presidente ha dichiarato: “È particolarmente importante che il sistema carcerario disponga delle risorse necessarie, umane e finanziarie, per assicurare a ogni detenuto un trattamento e un regime di custodia fondati su regole e valutazioni attuali per ciascuno, con lo sguardo rivolto al futuro”. E ha aggiunto: “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale, sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Se qualcuno volesse illudersi che, nella classe politica e di governo, esista un briciolo di volontà nel dare seguito alle parole del Presidente, si procuri un condizionatore: evidentemente è stato colpito da un colpo di calore. Come può un governo che introduce una valanga di nuovi reati (molti inutili), tra cui la “resistenza passiva” in carcere, preoccuparsi di svuotare, anche solo parzialmente, le sue prigioni? In Italia, il reato si crea per punire. E la punizione si chiama “prisonizzazione”: un lento processo di annientamento dell’identità, dell’autonomia, della dignità del condannato, qualunque sia la sua colpa. Da anni si parla di comunità chiuse per tossicodipendenti, di dimore sociali per reati minori. Ma da quando il carcere è diventato la sanzione penale universale, è anche diventato lo strumento simbolico del buon ordine sociale. Un simbolo negativo, come se nel campo della giustizia penale un simbolo positivo non potesse esistere o agire sull’immaginario collettivo. Non è più la gravità del reato a determinare la pena, ma la demolizione della persona che l’ha commesso. Le prigioni italiane versano da decenni in uno stato di cronico degrado. È un problema strutturale, normativo, ma soprattutto politico. Il sovraffollamento, le condizioni igienico-sanitarie disastrose e una pressoché nulla capacità rieducativa non sono più l’eccezione, ma la regola. Questa deriva non solo calpesta la dignità dei detenuti, ma svuota di significato l’articolo 27 della Costituzione, che assegna alla pena una funzione rieducativa. Al 31 maggio 2025, secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), i detenuti erano circa 61.000 a fronte di una capienza regolamentare di 51.000 posti: un tasso medio di affollamento del 119%, con picchi del 150-160% in alcune strutture. Le regioni più colpite sono Lombardia, Campania e Lazio. Ma il sovraffollamento non è solo un dato statistico: è una cella troppo piccola per troppe persone, è un letto in meno, è l’accesso a turni ai servizi igienici, è il sonno sul pavimento. È promiscuità forzata, che genera malattie e moltiplica tensioni e violenze. Molti istituti penitenziari sono strutture fatiscenti, costruite a fine Ottocento o inizio Novecento, inadatte alla vita di oggi. La manutenzione è assente, gli impianti idrici e fognari obsoleti, le celle piene di umidità e muffa. In alcune strutture si registrano perfino infestazioni di ratti e insetti. Il personale medico e infermieristico è drammaticamente insufficiente. Le visite specialistiche si attendono per mesi, e la gestione delle patologie croniche o psichiatriche è pressoché impossibile. I disturbi mentali si acuiscono o nascono in carcere, alimentati dall’isolamento e dalla mancanza di speranza. Nel solo 2024, i suicidi in carcere hanno superato quota 60: un numero agghiacciante, specchio di una disperazione senza scampo. L’articolo 27 della Costituzione parla chiaro: le pene non devono essere contrarie al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione. Ma nella realtà italiana, la rieducazione è poco più di un’utopia. Le attività lavorative e formative coinvolgono una minoranza di detenuti, spesso impiegati in mansioni di scarsa qualificazione. I corsi professionali, le attività culturali, i percorsi di studio sono insufficienti o del tutto assenti. Il carcere diventa un limbo, una lunga attesa priva di stimoli. Il risultato? Un altissimo rischio di recidiva. Il carcere, così com’è, non rieduca: produce criminalità. Il degrado delle carceri italiane è figlio di decenni di incuria e miopia politica. Politiche emergenziali: indulti e misure “svuota-carceri” sono serviti a tamponare le crisi, mai a risolverle. Mancanza di investimenti: nuove strutture, riqualificazioni, assunzioni: tutto sempre troppo poco. La Polizia Penitenziaria è sotto organico e spesso sottoposta a formazione inadeguata. Cultura punitiva e populismo giudiziario: prevale una retorica forcaiola, che ostacola ogni apertura verso misure alternative. Riforme a metà: tanti disegni di legge, pochi approvati, ancor meno attuati. La macchina burocratica rallenta tutto. Giustizia riparativa e pene alternative: se ne parla, ma si fa pochissimo. Eppure l’adozione di percorsi di mediazione penale e di misure alternative, come l’affidamento in prova o la detenzione domiciliare, ridurrebbe la popolazione carceraria senza compromettere la sicurezza. Il ruolo della società civile - In questo scenario, le associazioni e gli osservatori indipendenti - come Antigone o, come fino a qualche mese fa, il Garante nazionale delle persone private della libertà - sono tra le poche voci che continuano a denunciare il disastro. I loro rapporti sono precisi, documentati, ricchi di proposte. Ma restano troppo spesso inascoltati. Conclusione - Il degrado carcerario italiano non è solo una questione di numeri. È un fallimento etico, giuridico, costituzionale. Affrontarlo richiede coraggio politico, investimenti mirati, riforme radicali. Serve un piano per riqualificare le strutture, rafforzare gli organici, incentivare pene alternative. Serve soprattutto cambiare paradigma: non più carcere come vendetta, ma come presidio di legalità, giustizia, umanità. Il rispetto dei diritti in carcere non è un premio: è la misura minima di civiltà. Oggi, tutto questo sembra ancora una lontana utopia. Fgp: “Scorrimento integrale graduatoria fondamentale per condizioni di detenzione più umane” dal Direttivo del Comitato degli idonei Funzionari Giuridico-Pedagogici Ristretti Orizzonti, 17 luglio 2025 La questione intricata dello scorrimento integrale della graduatoria dei Funzionari Giuridico-Pedagogici, relativa al concorso per esami a 104 posti (elevati a 236), III Area funzionale, fascia retributiva F1-DAP. La graduatoria, approvata il 18 ottobre 2022, dovrebbe scadere l’8 maggio 2026. Riteniamo che lo scorrimento integrale della graduatoria sia fondamentale per garantire condizioni di detenzione più umane e rispettose dei diritti dei detenuti, come previsto dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (Cedu). La Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato a più riprese l’Italia per le condizioni carcerarie inadeguate e il sovraffollamento carcerario, auspicandoci che non vi siano sentenze di condanna ulteriori e future nei confronti dello Stato italiano per le attuali condizioni carcerarie. Sentenze come Sulejmanovic c. Italia (2003), Torregiani e altri c. Italia (2013), A.Z. c. Italia (2024) e Cramesteter c. Italia (2024) hanno evidenziato la necessità di garantire condizioni di detenzione più umane e rispettose dei diritti dei detenuti. Il sistema carcerario italiano resta tra i peggiori in Europa in termini di sovraffollamento, suicidi fra i detenuti, carcerazione preventiva e carenza di personale. La carenza di Funzionari Giuridico-Pedagogici, nelle carceri italiane, può avere impatti estremamente negativi sulla riabilitazione e sulla reintegrazione sociale dei detenuti. Ad oggi sembrerebbe che la proporzione sia 1 educatore ogni 65 detenuti. Gli educatori svolgono un ruolo fondamentale nell’offrire supporto e guida ai detenuti, aiutandoli a sviluppare competenze ed a migliorare la loro situazione personale. Chiediamo, pertanto, a chi di competenza, che vengano adottate misure concrete per lo scorrimento integrale della graduatoria, al fine di garantire un adeguato numero di Funzionari Giuridico-Pedagogici nelle carceri e supportare la riabilitazione e la reintegrazione sociale dei detenuti. Sono state presentate, inoltre, una serie di atti di sindacato ispettivo, nonché interrogazioni parlamentari con risposta scritta, da parte di diverse forze di opposizione che hanno accolto il nostro grido d’aiuto: Verdi e Sinistra Italiana, M5S, PD e Forza Italia a cui va il nostro più sentito ringraziamo per aver preso a cuore non solo la graduatoria, ma anche la situazione che vige attualmente all’interno delle carceri. Lo stesso Capo dello Stato, Sergio Mattarella, nell’incontro tenutosi presso il Quirinale con il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Stefano Carmine De Michele ed una delegazione della Polizia Penitenziaria, in data 30/06/2025, ha ribadito che serve un piano urgente di manutenzione e ristrutturazione degli istituti, il rafforzamento dell’organico, più educatori, accesso agevolato alle cure, soprattutto per chi ha problemi psichici, e nuove professionalità. Anche il Parlamento Europeo presto verrà a conoscenza della nostra graduatoria poiché abbiamo agito mediante una petizione europea. Il Comitato è convinto, in conclusione, che l’utilizzo pieno e tempestivo della graduatoria vigente rappresenti una soluzione efficace e realistica per affrontare l’attuale emergenza carceraria e restituire dignità e funzionalità all’intero sistema penitenziario, rendendo giustizia non solo all’art. 27 della Costituzione italiana, che sancisce l’obbligo della rieducazione del condannato, ma anche e soprattutto evitare una futura recidiva dei detenuti. Senato, Nordio incassa la riforma della giustizia di Luciana Cimino Il Manifesto, 17 luglio 2025 Separazione delle carriere Il 22 luglio il voto definitivo. Nell’attesa del voto finale, che sarà martedì 22 luglio, la riforma della Giustizia voluta dalla destra ha fatto un altro passo avanti ieri al Senato. Il testo tornerà alla Camera per il terzo passaggio parlamentare, come previsto per le riforme costituzionali. Nelle ultime 48 ore sono stati approvati tutti gli otto articoli che compongono il testo del guardasigilli Carlo Nordio. L’accelerazione è stata dovuta al “canguro”, che consente di raggruppare gli emendamenti e di fatto ha permesso di cassare in blocco le oltre 1.300 modifiche richieste dal centro sinistra. Il ministro della Giustizia può tirare un sospiro di sollievo: l’accidentato percorso parlamentare della riforma si è quasi concluso, si può aprire la campagna referendaria per il sì. Anche con il supporto delle Camere penali che giusto ieri hanno lanciato il loro comitato in difesa della riforma. Mentre contrari rimangono Anm e opposizioni. E si può ben capire: tra gli articoli approvati ieri c’è anche quello che prevede lo sdoppiamento del Consiglio superiore di magistratura, distinguendo tra carriera dei giudici e quella di pm (modificando quindi l’articolo 104 della Costituzione). Via libera da Palazzo Madama anche all’istituzione dell’Alta corte, altro perno del ddl Nordio, che toglie al Csm il potere disciplinare sulle toghe, nonostante le critiche degli uffici studi di Camera e Senato sulla insindacabilità delle decisioni, cosa che viola il principio generale della ricorribilità di ogni sentenza. L’Alta corte sarà composta da quindici giudici: tre nominati dal presidente della Repubblica tra professori universitari e avvocati con almeno venti anni di esercizio; tre estratti a sorte da un elenco di soggetti con requisiti; sei magistrati giudicanti e tre requirenti, estratti a sorte. Forza Italia, che ha messo l’opa sulla riforma che avrebbe desiderato Silvio Berlusconi, parla di “svolta epocale”. Mentre l’opposizione continua a lanciare l’allarme sul declassamento del parlamento. Per il Partito democratico quanto successo in aula in questi mesi “non è mai avvenuto nella storia della Repubblica”. E cioè, come ha dichiarato in aula il senatore dem Alfredo Bazoli, che “una riforma costituzionale venga approvata senza l’approvazione di alcun emendamento”. Un precedente preoccupante per le opposizioni, come evidenziato anche da Azione e Italia Viva, che sono sempre stati favorevoli alla separazione delle carriere, come ribadito ieri da Matteo Renzi, che giudica però questa riforma “un pastrocchio”. Carriere separate, martedì il voto e poi il referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 17 luglio 2025 Grazie al ricorso al cosiddetto “canguro”, il meccanismo parlamentare che consente di accorpare più proposte di modifica in un solo voto, ieri l’aula del Senato, alla presenza del vice ministro alla giustizia Francesco Paolo Sisto, ha concluso l’esame degli emendamenti al disegno di legge sulla separazione delle carriere. Tutti respinti, come previsto da tempo, considerato che Governo e maggioranza hanno blindato il testo. Approvati dunque gli altri cinque articoli rimanenti, compreso quindi quello che istituisce l’Alta Corte disciplinare per i soli magistrati ordinari. Martedì 22 luglio sono invece in calendario le dichiarazioni di voto e il voto finale sulla riforma. La modifica dell’ordinamento giudiziario passerà poi alla seconda fase di deliberazione con un ulteriore passaggio prima alla Camera, dove è stata già approvata lo scorso 16 gennaio, e poi al Senato, senza però alcuna possibilità di presentare seppur solo formalmente delle modifiche. Non sono, infatti, ammessi emendamenti, questioni pregiudiziali e sospensive, né richieste di stralcio, né ordini del giorno. “Ritengo - ha sottolineato ad Affaritaliani.it il presidente della Commissione affari costituzionali di Palazzo Madama, il meloniano Alberto Balboni- che per ottobre, novembre di quest’anno avremo il via libera definitivo del Parlamento alla riforma con la quarta lettura a Palazzo Madama”. Pertanto prima che si inizi a discutere di legge Bilancio per non rischiare di far impantanare la norma e approvarla ad inizio 2026. Quanto ai tempi per il referendum confermativo, inevitabili visto che non ci sono i due terzi in Parlamento, secondo Balboni si terrà a occhio e croce “nella tarda primavera del prossimo anno”. Probabilmente a maggio. Sulla possibile vittoria Balboni ha proseguito: “Questo lo decideranno gli italiani. Noi siamo convinti di fare la cosa giusta. Dobbiamo completare le riforme in tema di giustizia iniziate con il nuovo codice di procedura penale nel 1988, poi con la riforma del 1999 dell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo e ora serve completare questo lungo iter con la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, come dicono tutti i giuristi di vero stampo liberale”, ha concluso il senatore. Per il suo collega di Fi, Pierantonio Zanettin, “la separazione delle carriere fa parte del dna di Forza Italia. La sua approvazione sarà un risultato storico, epocale per certi versi”. Sulle tempistiche si è espresso ieri anche il Ministro Nordio, intervistato da Stefano Zurlo al Caffè della Versiliana di Marina di Pietrasanta: secondo il Guardasigilli le norme di attuazione della riforma della separazione delle carriere “saranno fatte in questa legislatura. Sono già allo studio” ha detto e “auspichiamo sia avviato un confronto”, probabilmente a palazzo Chigi visto che fonti di via Arenula solo qualche giorno fa avevamo smentito che si stesse lavorando a questo. Ma questi regolamenti saranno fatti in tempo affinché i due nuovi eventuali Csm vengano composti con il metodo del sorteggio? Tornando al dibattito parlamentare di ieri gli esponenti della minoranza parlamentare, intervenuti nell’Aula di Palazzo Madama, senza alcun contraddittorio con quelli della maggioranza di Fd’I, Lega e Forza Italia rimasti in silenzio, hanno più volte rimarcato l’amarezza per l’iter di una legge che, a loro avviso, avrebbe richiesto più tempo e riflessione, oltre che modifiche. “Sta per avvenire qualcosa che non è mai avvenuto nella storia della Repubblica, ovvero che una riforma costituzionale verrà approvata senza l’approvazione di alcun emendamento al ddl. Il parlamento non avrà messo becco in una riforma costituzionale fatta dal governo. È un precedente clamoroso, di cui dovreste vergognarvi perché autorizzerà in futuro qualunque maggioranza a fare la stessa cosa. State facendo macello della Costituzione italiana” ha detto, infatti, il vicepresidente dei senatori Pd Alfredo Bazoli. Pure per il senatore di Azione, Marco Lombardo, “per la prima volta un ddl costituzionale, arrivato in Aula senza relatore, viene approvato senza alcun emendamento. Un precedente pericoloso di modifica della Costituzione a colpi di maggioranza”. Carlo Calenda invece voterà a favore del provvedimento. Ancora non si sa cosa farà Italia Viva, se voterà a favore o si asterrà. Matteo Renzi a tal proposito ha detto: “Io sono a favore della separazione delle carriere ma con il governo Meloni- Nordio la riforma che sta venendo fuori è un pastrocchio. Martedì - ha annunciato - intervengo in Aula al Senato per spiegare le nostre posizioni. Se dovessi con una battuta spiegarmi - ha concluso Renzi - direi che se deve esserci una separazione delle carriere iniziamo a separare la carriera di Nordio da quella della Bartolozzi e di Mantovano, perché lì sono tutti e tre magistrati”. Mano tesa del Csm a Nordio. Si corra per salvare i fondi di Claudio Castelli Il Domani, 17 luglio 2025 Le proposte per ridurre il disposition time civile, se accolte, dovranno essere realizzabili e realizzate in tempi rapidissimi in modo da essere operative a settembre - ottobre, dato che la scadenza del Pnrr è ormai vicinissima. La delibera del Csm approvata ieri su “Interventi strutturali ed attività di supporto agli uffici giudiziari per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr” è un esempio di collaborazione istituzionale e di responsabilità. Il Csm in tutto il periodo è stato scarsamente coinvolto dalle scelte del Ministero sul Pnrr (a partire dagli obiettivi mai concordati) ed avrebbe ben potuto ignorare la richiesta, anche se tardiva, di collaborare con idee e proposte da parte del Ministero, ed invece ha dato una bella prova di sinergia istituzionale fornendo un vero e proprio pacchetto di proposte concrete finalizzate a raggiungere obiettivi cruciali per la giustizia italiana. D’altro canto è positivo che, dopo un lungo periodo di inerzia, in cui gli Uffici giudiziari sono stati lasciati soli, il Ministero, sinora concentrato quasi esclusivamente sulla riforma costituzionale di separazione delle carriere e di Csmdivisi e sorteggiati, abbia ritenuto di coinvolgere il Csm per addivenire ad iniziative condivise. Del resto i dati relativi al 2024, pur evidenziando il pressochè sicuro raggiungimento di due fondamentali obiettivi, quali la riduzione della durata dei processi penali e la drastica riduzione del 90 cento dell’arretrato civile, segnalavano come irraggiungibile l’obiettivo della riduzione del 40 per cento del DT civile. Dopo poco più di 4 anni abbiamo raggiunto una diminuzione dei tempi del 20,1 cento, poco più della metà dell’obiettivo fissato per il 20 giugno 2026. Per arrivare al 40 cento occorre allora operare su diversi canali per diminuire le sopravvenienze ed aumentare le definizioni, in modo di ridurre le pendenze. Due obiettivi non da poco. Nell’ultimo anno per la prima volta dopo quindici anni il numero di iscrizioni di nuove cause civili è aumentato, sia pure concentrandosi solo in alcune materie - i diritti della cittadinanza (+ 89 cento), la protezione internazionale (+ 65,7 cento), il lavoro (+ 14,6 cento) e accertamenti tecnici preventivi previdenziali (+ 9 cento). Un aumento in queste quattro materie di ben 94.474 cause in un anno ovvero il 6,1 cento di tutte le cause iscritte! Mentre in Cassazione il forte aumento del 35 % è essenzialmente dovuto alla materia tributaria. Le definizioni invece dopo il forte calo del 2020 (causa COVID) e il forte rimbalzo del 2021 sono sostanzialmente stabili. Per arrivare a diminuire il DT del 40 cento avremmo bisogno di un calo delle pendenze o di un aumento delle definizioni di circa 200.000 procedimenti. Questo è il quadro da cui parte il CSM per poi indicare una serie di interventi di natura strutturale ed altri di carattere provvisoria o emergenziale. Tra i primi la rinegoziazione del DT civile con la Commissione UE, la stabilizzazione definitiva di almeno 6000 addetti all’Ufficio per il Processo UPP ed interventi deflattivi per diverse tipologie di procedimenti in cui è parte una pubblica amministrazione. Ovvero l’estinzione dei giudizi tributari (quasi la metà del carico civile della Cassazione) aventi ad oggetto i debiti compresi nella dichiarazione di definizione agevolata, il riscontro in sede amministrativa alle domande di riconoscimento della cittadinanza provenienti da discendenti di emigrati italiani (il 5,5 cento delle nuove iscrizioni nel 2024), la rivalutazione in sede amministrativa dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale o speciale sopravvenuti in epoca successiva al provvedimento di diniego impugnato in giudizio (il 6,8 cento). Gli interventi di natura provvisoria e emergenziale sono diversi e variegati e vanno dall’applicazione del regime di sede disagiata per le Corti di Appello in difficoltà, alla copertura immediata dei posti direttivi e semidirettivi delle sedi critiche, all’utilizzo di magistrati in quiescenza già assegnati al settore civile, all’applicazione dei magistrati del massimario alle sezioni civili della Cassazione, alla proroga dei giudici ausiliari delle Corti di appello sino al 30 giugno 2026. Vi è poi un’apertura verso la proposta ministeriale di applicare da remoto 500 magistrati che operano in uffici non critici per procedimenti giunti a decisione senza istruzione orale. Un quadro complessivo che, se realizzato, porterebbe a ridurre le pendenze ben oltre le 200.000 ipotizzate (solo il rinvio in sede amministrativa delle domande sulla cittadinanza e di parte di quelle di protezione internazionale vale l’eliminazione di oltre 100.000 pendenze). Proposte in larga parte condivisibili, che potevano essere più ardite. In primis sulla stabilizzazione di tutti i precari della giustizia ed in particolare degli addetti all’Ufficio per il processo, stante la fortissima scopertura degli organici del personale giudiziario, con modalità rapide e semplificate (avendo comunque già superato un concorso). E quindi di rivedere l’ampia materia delle ATP previdenziali e assistenziali che, anche se non rientrano nelle materie coperte dal PNRR, ormai coprono il 22,3 cento delle iscrizioni civili e si prestano a speculazioni e sfruttamenti indebiti. L’intervento dovrà essere concentrato sugli uffici critici ovvero 4 Corti di Appello (ove si concentrano il 65 cento delle pendenze) e i 15 - 20 Tribunali (circa il 50 cento delle pendenze). Preoccupa comunque l’apertura all’ipotesi avanzata dal Ministero di prevedere 500 applicazioni da remoto di magistrati al civile che, rimanendo incardinati nelle loro sedi dovrebbero per sei mesi (prorogabili una volta), tenere udienza e scrivere i provvedimenti (almeno 30) di altre sedi in difficoltà dietro pagamento di un incentivo pecuniario e di anzianità. Ipotesi preoccupante sia quanto all’individuazione delle cause da affidare a questi magistrati, sia quanto alla gestibilità di queste cause oltre al carico ordinario (che rimarrebbe), sia quanto all’introduzione di una sorta di cottimo. Un passaggio che suona come emergenziale, ma che è facile prevedere che costituirà precedente e altererà nel futuro il nostro processo civile distruggendo una serie di principi fondamentali: dal giudice naturale alla competenza territoriale, dall’udienza in presenza al produttivismo senza limiti. L’incremento massimo previsto di 22.500 definizioni ottenute in tal modo nel migliore dei casi non vale lo stravolgimento del processo civile. Proposte che comunque, se accolte, dovranno essere realizzabili e realizzate in tempi rapidissimi in modo da essere operative a settembre - ottobre, dato che la scadenza del Pnrr è ormai vicinissima. Il Gip Filice: “Sì al reato di femminicidio, ma il diritto penale non può modificare la cultura” di Marika Ikonomu Il Domani, 17 luglio 2025 Il giudice di Milano: “Importanti strumenti che vincano la neutralità ed esplicitino il movente di genere. È necessaria una formazione su diverse discipline e risorse”. Chiamare un fenomeno con il proprio nome aiuta a prendere consapevolezza della sua esistenza. Per questo il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano, Fabrizio Filice, esperto nel contrasto alla violenza di genere e coautore del libro “Manuale di diritto penale antidiscriminatorio”, è favorevole all’introduzione di un reato specifico di femminicidio. “Nominare, tradotto in termini giuridici, significa fornire agli interpreti uno strumento penalistico avanzato che consente di intervenire su un fenomeno attualmente non regolato”, spiega. Le misure introdotte finora sono neutre, ma “è importante prevedere strumenti specifici che vincano la neutralità” ed esplicitino il movente di genere. Come nella nuova fattispecie prevista nel disegno di legge atteso oggi, giovedì 17 luglio, in aula al Senato. Come valuta la definizione approvata dalla commissione? La prima versione di questa normativa, a mio parere, non andava molto oltre il simbolico ed era fuorviante. Introduceva una nuova fattispecie ma ruotava attorno al sesso biologico della vittima. La violenza di genere non è una violenza biologica. Ma ha una causa sociale e deriva da una struttura che traduce un dato biologico in una diversità strutturale, ponendo le donne in condizione di subalternità. La versione che andrà in aula invece, seppur frutto di un’intesa bipartisan, è un passo nella giusta direzione. Sono state esplicitate le dinamiche di genere: controllo e possessività, non accettazione del rifiuto. Una norma più attuabile perché più tipica. Qual è la diversità strutturale? La struttura di base è atavica e si fonda su tre pilastri: il binarismo di genere - criterio sociale di distinzioni di ruoli e diritti in base al sesso biologico - la subalternità di uno dei generi e l’eteronormatività. Cioè prevedere come normale l’orientamento eterosessuale. Questa struttura comporta una serie di reazioni sociali a chi si discosta. Non è facile regolare politicamente tutti questi aspetti. Lo stato nel combattere questa fenomenologia combatte un po’ sé stesso, essendo basato su una diversità strutturale. Risolvere al proprio interno questa contraddizione non è facile e ci vuole una volontà politica che non tutte le forze hanno. Quelle conservatrici sono meno propense. Il legislatore interviene perlopiù con misure repressive. Il processo penale può essere veicolo per un cambiamento culturale? Il processo penale non può e non deve essere utilizzato come strumento univoco per far fronte a un fenomeno con una marcata radice culturale. È pericoloso delegare al diritto penale il compito di promuovere mutamenti culturali con una minaccia di pena. Come accade per la violenza della criminalità organizzata - un paragone ardito, ma utile - la legislazione speciale ha aiutato a capire le cause e il contesto. Non significa affidare al diritto penale il compito di modificare la struttura culturale o di promuovere la cultura della legalità. Questa nuova fattispecie prevede la pena dell’ergastolo... Su questo devo fare due considerazioni. Un conto è fare un discorso ampio sull’adeguatezza della pena e sull’ergastolo. Io sono convinto che sia necessario ripensare la pena detentiva come opzione preferenziale del diritto penale. Abbiamo conoscenze filosofico-giuridiche per poter mettere in campo un ragionamento serio e riconoscere che l’opzione carcerocentrica non è sostenibile, sia per le modalità detentive attuali - non in linea con l’aspirazione costituzionale - sia per l’incapacità di abbattere la recidiva. Quello che non trovo corretto è invece mettere in discussione l’ergastolo solo quando si parla di femminicidi. Se non si è disposti a rivedere le condizioni del nostro sistema penale, non vedo perché lo si debba fare quando si tratta questa forma di omicidio. Il ddl prevede anche il rafforzamento degli obblighi formativi, ma a costo zero. La formazione degli operatori della giustizia è adeguata? Per promuovere piani formativi seri bisogna investire risorse. In una formazione che sia multidisciplinare, che esuli dalla dimensione giuridica: servono altre expertise, dalla psicologia alla filosofia, alla criminologia di genere. Ad oggi, i corsi sono aumentati ma sono un’assoluta minoranza e rimangono incentrati sulla dimensione giuridica. Il legislatore italiano, anche sul piano repressivo, continua a mostrare chiusura ai saperi diversi. Serve un grosso investimento nella formazione per evitare, come è accaduto in diverse sentenze, che si riproduca un modo di ragionare stereotipato. Ma è impossibile con una clausola di invarianza finanziaria. Senza strumenti culturali si ricorre alla propria struttura mentale nutrita dei pregiudizi. Sofri, Violante, il giustizialismo. Il manifesto garantista di Ezio Mauro di Giuliano Ferrara Il Foglio, 17 luglio 2025 Il diritto dell’accusato a un processo equo, fondato su materiali ostensibili, e il rigore richiesto agli inquirenti. Sul caso Sofri, l’ex direttore si esalta e ricorda cosa si rischia con una verità privata custodita nell’ombra del giustizialismo. Violante deve dire quello che sa del caso Calabresi, Sofri ha fatto il suo quando gli ha chiesto di esporre in pubblico una presunta “prova” a suo carico circondata dal segreto personale e da una nozione di “lealtà” molto vicina alla cultura dell’omertà. Non si può che essere felici del manifesto di Ezio Mauro per una giustizia che non si basi sull’omissione di verità o, meglio ancora, come lui scrive, su “una riserva privata di verità custodita nell’ombra”. Mauro è il papa di Repubblica, l’ha diretta per vent’anni, ne ha definito e costruito pezzo a pezzo la cultura giuridica, ha dato impulso e coordinato le sue inchieste e le sue campagne, inoltrandosi in quella Repubblica penale che è risultata una copia conforme della giurisdizione giornalistica. Con Francesco Merlo approda ora Mauro all’idea di una lunga stagione italiana “del sapere e non dire, del rivelare nascondendo”, con quella che è definita perfettamente come “una sproporzione” che “diventa ancora più forte proprio quando esce dal travagliato iter giudiziario e prende la forma di un rendiconto davanti alla pubblica opinione”. Non ci sarebbe alcunché da aggiungere, se non che il cuore di questa posizione è nel fondo il garantismo giuridico, cioè il diritto dell’accusato a un processo equo, fondato su materiali tutti ostensibili, e il rigore davanti alla legge richiesto agli inquirenti, ai testimoni e agli autori del rendiconto permanente “davanti alla pubblica opinione”. Di questa materia sono fatte le polemiche ultratrentennali sulla giustizia in Italia, con incroci che riguardano la gestione del segreto investigativo, il leak alla stampa e il coordinamento dei mass media in campagne giustizialiste, la detenzione a scopo di verbalizzazione e molto altro. Al di là di ogni dissenso, e ce n’è in abbondanza, sul carattere assunto in questi decenni dalla giustizia penale, sul rapporto tra questa e la politica e i diritti individuali, sul rapporto tra questa e la storia repubblicana, e sulla funzione dei media nella relazione speciale che ha cambiato il volto del paese e ha distrutto il suo sistema politico, emerge dal manifesto garantista dell’ex direttore di Repubblica che il vero e drammatico problema della giustizia italiana è in quel particolare tradimento del patto di fiducia, di eguaglianza di fronte alla legge e di tutela della verità come cosa pubblica consistente nell’onnipotenza, dentro il processo e a lato del processo, nel rendiconto mediatico, dell’accusa penale. La famosa questione dell’agenda rossa di Borsellino, agitata come bandiera di verità sulla base di convinzioni private non ostensibili, è stata all’origine di processi che volevano riscrivere la storia del rapporto tra stato e mafia nel senso di una collusione criminale. Solo un sistema borbonico può sostenere undici processi, comprese due assoluzioni e motivazioni suicide, per definire un verdetto su una cause célèbre, un delitto politico, che da cinquantatré anni il paese si porta dietro come un mistero avvolto in un enigma. Nella giurisdizione anglosassone non sarebbe mai potuto accadere. Quando nel primo processo contro Sofri e gli altri accusati dell’omicidio Calabresi si scoprì a sorpresa in aula che non era stato il teste d’accusa a chiamare i carabinieri, ma invece erano stati i carabinieri ad andare da lui, qualunque giudice americano avrebbe interrotto e sospeso il dibattimento per un vizio di forma e di sostanza nelle garanzie di accertamento della verità processuale. E dopo un annullamento e una assoluzione, la regola di Common Law del double jeopardy o in latinorum del ne bis in idem avrebbe comportato l’interruzione di una saga giudiziaria di stampo poliziesco. La “prova non ostensibile”, proclamata da un uomo delle istituzioni e tutelata nell’ombra come riserva privata di verità (Mauro), si capisce solo in questa dimensione, non avrebbe retto la verifica di correttezza e di serietà per un solo istante se non in un regime giurisdizionale profondamente inquinato dal rigetto del garantismo e dalla logica dell’insinuazione e dell’accusa non dimostrabile in una forma accettabile per accusa e difesa. Sperabile che il manifesto di Mauro possa servire a riesaminare sine ira ac studio, come si dice, l’opposizione militante alla divisione delle carriere tra magistrati dell’accusa e giudici, per arrivare a un sistema di giustizia in cui non si debba aspettare decenni per appurare che la non ostensibilità di una prova addotta in funzione di accusa è un residuo borbonico, “una riserva privata di verità custodita nell’ombra”. Umbria. L’inferno delle carceri dove la civiltà tocca il fondo: la relazione del Garante dei detenuti terninrete.it, 17 luglio 2025 La Terza commissione dell’Assemblea legislativa dell’Umbria, presieduta da Luca Simonetti, ha ascoltato l’illustrazione della ‘Relazione del garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale”, sull’attività svolta nel 2024 e sui risultati ottenuti’. Nel suo intervento l’avvocato Giuseppe Caforio ha detto che l’annunciata nascita del provveditorato in Umbria ha creato una situazione singolare. Negli ultimi mesi dalla Toscana il trasferimento di detenuti ha avuto un’impennata: Terni, che dovrebbe avere una capienza di 420 detenuti, ha superato i 600 con un incremento del 30%. Il problema più grande nelle carceri è legato ai detenuti psichiatrici: sempre a Terni su 600 detenuti ce ne sono almeno 150. E per un detenuto psichiatrico serve impiegare molto più personale: il dato della carenza di organico e del sovraffollamento diventa macroscopico quando c’è carenza di istituti psichiatrici. “Dietro alle rivolte piccole e grandi - ha sottolineato il garante - di norma ci sono detenuti arrivati dalla Toscana che spesso hanno problemi della personalità. Occorre intervenire soprattutto nell’area socio sanitaria: la presenza di psichiatri e psicologi è carente. Un detenuto psichiatrico in questa situazione viene visto 3-4 volte l’anno da uno specialista: una situazione in cui non si può impostare alcuna terapia. Molti detenuti hanno una certificazione medica di incompatibilità con il sistema carcerario - ha spiegato ancora Caforio - ma non ci sono strutture e quindi vengono ‘buttati’ in carcere. Con situazioni gravi come l’isolamento nel carcere di Capanne, che a volte viene usato come manicomio carcerario. I direttori sono disarmati perché queste persone dovrebbero stare in un ospedale psichiatrico o in una Rems, che però non ci sono. C’è una situazione drammatica dove la civiltà tocca il fondo”. Nell’istituto di Terni i detenuti presenti sono 597, 79 unità in più rispetto al 2023. Il numero delle presenze ha ampiamente superato la capienza regolamentare (422). Il personale di polizia penitenziaria previsto dalla pianta organica è di 243 ma il numero effettivo risulta di sole 215 unità. Nel 2024 le istanze più frequenti dei detenuti in Umbria sono quelle di trasferimento in istituti di pena fuori regione per avvicinamento, colloqui con i familiari, per motivi di salute, di studio o di lavoro. La tutela del diritto alla salute rappresenta la preoccupazione principale delle persone detenute: difficoltà nella prestazione delle visite specialistiche e nella diagnostica quando essa debba avvalersi di medici e strumentazioni esterne agli istituti penitenziari, con ritardi nell’effettuazione degli interventi sanitari. Tali difficoltà derivano dall’insufficienza di prestazioni specialistiche in carcere, dall’ordinario accesso alle liste d’attesa dei servizi sanitari regionali e talvolta dalle difficoltà nella traduzione a opera del personale penitenziario. Altro aspetto rilevante sotto il profilo sanitario riguarda le difficoltà di accesso ai medicinali prescritti a seguito di visite specialistiche e che spesso i detenuti non sono in grado di acquistare in autonomia per mancanza di mezzi. Sicilia. Nelle carceri il progetto di sensibilizzazione sanitaria dell’Arnas “Garibaldi” cataniatoday.it, 17 luglio 2025 Utilizzato come strumento narrativo per affrontare con delicatezza ma anche efficacia temi complessi come HIV, epatiti, sifilide, papilloma virus e altre malattie trasmissibili, il cortometraggio ha rappresentato il cuore pulsante dell’iniziativa.Dopo aver coinvolto numerose scuole in tutta Italia, approda anche nelle carceri siciliane il progetto di sensibilizzazione “Educare alla salute: Incontri sulla prevenzione delle malattie infettive”, ideato da AJS Connection srl con il contributo incondizionato di Gilead Sciences. Nato come iniziativa educativa per gli studenti, il progetto si è progressivamente ampliato grazie al forte impatto del cortometraggio “Io e Freddie: una specie di magia”, tratto dai romanzi “Una specie di magia” e “Chi vuol vivere per sempre” di Francesco Santocono, dirigente per la comunicazione dell’Arnas Garibaldi di Catania. Utilizzato come strumento narrativo per affrontare con delicatezza ma anche efficacia temi complessi come HIV, epatiti, sifilide, papilloma virus e altre malattie trasmissibili, il cortometraggio ha rappresentato il cuore pulsante dell’iniziativa, rendendola accessibile, coinvolgente e particolarmente adatta anche ai contesti penitenziari. Grazie al patrocinio non oneroso del Dasoe, dipartimento per le attività sanitarie e osservatorio epidemiologico dell’assessorato della salute della Regione Siciliana, di Federsanità Anci Sicilia e dell’Arnas Garibaldi di Catania, il progetto ha trovato un’ulteriore espansione nelle case circondariali di Augusta, Enna, Ragusa e Catania, dove ha riscosso grande partecipazione da parte dei detenuti e del personale penitenziario. In ogni tappa, la proiezione di “Io e Freddie” ha dato il via a momenti di dialogo attivo, confronto umano e approfondimento scientifico, grazie al contributo di relatori esperti: infettivologi, comunicatori e sociologi tra cui il Prof. Bruno Cacopardo, il Dr. Fabrizio Pulvirenti, il Dr. Luigi Guarneri, la Prof.ssa Manuela Ceccarelli, la Dr.ssa Antonella Di Rosolini, il Dr. Salvo Cacciola e la Dr.ssa Amanda Succi. Durante gli incontri si è affrontata l’importanza della prevenzione, la conoscenza dei meccanismi di contagio e la necessità di abbattere il pregiudizio e la disinformazione. Un elemento chiave emerso da ogni tappa è la mancanza di consapevolezza sanitaria in ambito penitenziario: secondo dati recenti, una parte significativa della popolazione detenuta soffre di malattie infettive, con prevalenze che possono essere fino a dieci volte superiori rispetto alla popolazione generale, e uno su tre ignora di esserne affetto. Le tappe nelle carceri siciliane sono state rese possibili grazie alla sensibilità e alla collaborazione delle direzioni penitenziarie e degli educatori: · Angela Lantieri e Francesca Fioria (Casa di Reclusione di Augusta) · Ignazio Santoro e la Dr.ssa D’Amore (Casa Circondariale di Enna) · Santo Mortillaro e la Dr.ssa Noto (Casa Circondariale di Ragusa) · Nunziella Di Fazio, Direttrice della Casa Circondariale di Catania “Piazza Lanza”, e la Dirigente Simona Carla Verborosso, Comandante della struttura In ogni istituto, il dibattito è stato ricco e partecipato, con numerose domande da parte dei detenuti e risposte puntuali da parte degli esperti, che hanno saputo coniugare rigore scientifico e chiarezza divulgativa. Il progetto “Educare alla salute” si conferma così un modello replicabile di educazione alla prevenzione sanitaria, che mette al centro la persona, il diritto alla salute e il potere della conoscenza. Le prossime tappe continueranno a toccare scuole e istituti penitenziari della Sicilia, con l’obiettivo di costruire una cultura della prevenzione più diffusa, consapevole e inclusiva. Palermo. Carcere Pagliarelli senza acqua calda e medici. Il Ministro ammette: qualcosa non va di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2025 Insufficienze strutturali, disservizi sanitari, e un’impostazione del rapporto con le famiglie che non fa passi avanti: ecco cosa non funziona nell’istituto di Palermo. La casa circondariale di Palermo “Pagliarelli” era finita sotto i riflettori per una protesta dei detenuti che, battendo le stoviglie sulle sbarre e imboccandosi in uno sciopero della fame, hanno denunciato un inasprimento delle condizioni di detenzione. A sollevare il caso in Parlamento è stato l’onorevole Roberto Giachetti di Italia Viva, con un’interrogazione indirizzata al ministro della Giustizia. La risposta del guardasigilli Nordio, oltre a motivare certe scelte come misure di sicurezza, contiene ammissioni non banali: insufficienze strutturali, disservizi sanitari, acqua calda mancante durante l’inverno e un’impostazione del rapporto con le famiglie che stenta a fare un passo avanti. Come detto, la vicenda nasce da una protesta dei detenuti della Casa circondariale di Palermo-Pagliarelli, scoppiata in seguito a una circolare del provveditore regionale che ha inasprito drasticamente le condizioni di detenzione. I detenuti hanno battuto le stoviglie sulle sbarre mattina e sera per oltre una settimana, arrivando persino a iniziare uno sciopero della fame. Un segnale di disperazione che ha fatto emergere problematiche strutturali profonde. La circolare in questione - la numero 1 del 2024 - ha introdotto severe restrizioni sui pacchi alimentari che le famiglie possono portare ai propri congiunti detenuti. Tra i divieti più contestati: salumi, farine, lieviti, crostacei e persino dentifrici. Una misura che ha colpito duramente una popolazione carceraria già provata da condizioni di vita precarie. Le ammissioni del Ministro - Nella sua risposta, il ministro della giustizia compie alcune ammissioni significative, seppur con giustificazioni tecniche. La prima riguarda la necessità stessa della circolare: l’Amministrazione penitenziaria riconosce implicitamente che la situazione negli istituti siciliani era fuori controllo, tanto da richiedere una “costante analisi degli eventi critici occorsi nei vari istituti della Regione”. Particolarmente rivelatore è il passaggio in cui il ministro ammette che la circolare si è resa necessaria per “salvaguardare le necessarie condizioni di ordine e sicurezza nella gestione della vita detentiva”. Questa formulazione lascia intendere che tali condizioni erano precedentemente compromesse, confermando indirettamente le criticità denunciate da Giachetti. Sul tema dell’acqua calda, il ministro non può negare l’evidenza e ammette esplicitamente che “tale problematica si riscontra all’interno dei Reparti Mari, Venti e Pianeti”. Una confessione che conferma le denunce sui disagi igienico-sanitari subiti dai detenuti. La giustificazione fornita - che l’acqua calda è presente nei reparti Laghi e Monti - suona più come una parziale attenuante che come una soluzione al problema. La spiegazione tecnica fornita dal ministro rivela inoltre un altro aspetto critico: l’istituto, progettato negli anni ‘90 per 600 detenuti, ha subito un ampliamento nel 2014 che ha portato la capienza a 904 posti. Questa espansione, evidentemente, non è stata accompagnata da un adeguamento proporzionale degli impianti, generando i problemi attuali. Sui ritardi delle visite sanitarie, la linea ufficiale designa al Servizio sanitario regionale ogni responsabilità. Il ministero sottolinea che medici di reparto e guardia operano 24 ore su 24, con un triage gestito dagli infermieri, e che le prestazioni esterne avvengono secondo i tempi del Cup di Asp6 di Palermo, identici a quelli dei cittadini liberi. Tuttavia, l’ammissione che “si è in attesa che l’A.S.P. di Palermo, come richiesto più volte, preveda una prenotazione dedicata agli istituti penitenziari” conferma indirettamente che i detenuti subiscono una evidente carenza di assistenza. La questione dei pacchi alimentari tocca un nervo scoperto del sistema. Il ministro cerca di giustificare le restrizioni con motivazioni di sicurezza, ma le sue stesse parole rivelano la durezza della misura. Quando afferma che “resta sempre possibile l’ingresso di generi alimentari da parte dei rispettivi familiari”, la formulazione condizionale (“ogni qualvolta si tratti di alimenti che possano essere opportunamente controllati”) svela l’estensione delle limitazioni imposte. La risposta ministeriale è attraversata da contraddizioni evidenti. Da un lato si parla di “garantire il diritto dei detenuti ad un’alimentazione sana”, dall’altro si vietano alimenti di base come farine e lieviti. Da si richiama il principio della sicurezza, dall’altro si ammette che problemi strutturali come l’acqua calda non sono risolti in gran parte dell’istituto. Particolarmente significativa è l’ammissione che il 40% dei detenuti proviene da fuori Palermo, una percentuale che rende i pacchi familiari ancora più preziosi per mantenere i legami affettivi. La circolare colpisce quindi una popolazione già vulnerabile per la lontananza dai propri cari. Un aspetto particolarmente grave emerso dall’interrogazione riguarda l’iniziale mancanza di accesso del Garante regionale Santi Consolo al testo della circolare. Il ministro ammette che solo il 4 febbraio 2025, quindi il giorno in cui protestò il garante regionale, il Provveditorato ha inoltrato la circolare all’Ufficio di Consolo. Il ministro ricorda che l’ordinamento penitenziario e le norme europee impongono condizioni di vita il più possibile vicine alla società libera, cure sanitarie adeguate e rapporti familiari protetti. Ma, nei fatti, mancano investimenti concreti e tempi certi. Ammettere che parte del carcere resta “di ghiaccio” (termine usato da Giachetti relativo alle carenze durante il periodo invernale), che i tempi delle visite sono quelli del Cup e che non esiste ancora un provvedimento nazionale per evitare difformità di trattamento è concedere che il sistema penitenziario nostrano viaggia a mezzo servizio. La risposta del ministro all’interrogazione di Giachetti, pur tentando di giustificare le politiche adottate, finisce per confermare molte delle criticità denunciate. Le ammissioni contenute nel documento rivelano un sistema penitenziario in difficoltà, dove misure emergenziali e restrittive vengono adottate per far fronte a problemi strutturali irrisolti. L’interrogazione di Giachetti ha fatto emergere non solo la tensione dei detenuti, ma la distanza fra regole scritte e realtà pratica. Le misure di sicurezza sono necessarie, ma non possono mai cancellare i diritti fondamentali: un pasto dignitoso, condizioni igieniche accettabili, accesso alle cure, relazioni familiari. Le ammissioni del ministero mostrano un quadro frammentato, con promesse di lavori e circolari già approvate ma non ancora attuate. Ora serve un cronoprogramma preciso, risorse e responsabilità chiare: come è ben noto la protesta in Pagliarelli non è un’eccezione isolata visto notizie di tensioni attuali, ma è il termometro del disagio che serpeggia in molte carceri del Bel Paese. Venezia. Detenuto picchiato in carcere, a processo 4 agenti penitenziari di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 17 luglio 2025 Dopo il presunto pestaggio era stato trasferito non carcere di Verona, dove si è impiccato. L’accusa di lesioni e falso. La difesa: ci voleva colpire con un estintore. Quello che è successo in quella stanza lo sanno solo loro, perché di telecamere non ce n’erano e la vittima non può più raccontarlo, dato che alcuni mesi dopo si è suicidato in carcere a Verona. Quel che è certo è che un giovane detenuto 23enne ne era uscito con una milza spappolata, che 48 ore dopo gli sarebbe stata asportata per via chirurgica in ospedale. Secondo il pm Andrea Petroni, la causa della lesione sarebbero state le botte che quattro guardie carcerarie, allora in servizio a Santa Maria Maggiore a Venezia, gli avrebbero dato in quel 19 febbraio di un anno fa, dopo che questi aveva colpito uno di loro con un pugno in faccia. Ieri i quattro agenti sono finiti di fronte al gup Benedetta Vitolo, con l’accusa di lesioni e falso, reato quest’ultimo contestato anche a un medico: l’udienza è stata però rinviata al prossimo 26 settembre. La prima parte della vicenda è assodata, perché è ripresa dalle telecamere. Si vede il giovane che viene fatto uscire dalla sua cella e però invece di seguire le guardie carcerarie corre nella direzione opposta, finché arriva davanti alla porta di uno degli uffici degli agenti. Lì viene fermato da un poliziotto che era dentro, poi arrivano anche gli altri e dai gesti si capisce che gli chiedono che cosa aveva intenzione di fare. Lui li affronta a muso duro, poi parte il pugno. A quel punto gli agenti lo spingono dentro la stanza e lì, per l’accusa, l’avrebbero picchiato per una ventina di minuti. Il giorno dopo, com’era già previsto, il giovane era stato trasferito nel carcere di Montorio Veronese, ma quando era arrivato il medico si era subito preoccupato a vedere tutte quelle ecchimosi. L’aveva dunque inviato in ospedale e lì era stata riscontrata la lesione alla milza che poi avrebbe portato all’intervento di asportazione. Il giovane poi era tornato in cella dopo pochi giorni, ma a dicembre si era impiccato. Diversa la versione degli agenti, difesi dagli avvocati Mauro Serpico, Francesco Paolo De Simone Policarpo e Martina Pinciroli. Intanto perché loro nelle relazioni di servizio - da qui l’accusa di falso in atto pubblico - avevano scritto di aver dovuto reagire al tentativo della vittima, una volta entrato nella stanza, di prendere l’estintore per usarlo come arma contro di loro. Una versione a cui il pm non ha creduto da un lato perché appunto sono stati gli agenti a spingerlo all’interno, dall’altro perché l’estintore era dalla parte opposta rispetto alla porta. Viene poi contestato il nesso causale tra le botte e la lesione della milza, tanto che l’avvocato Serpico ha chiesto una perizia medico legale sotto forma di incidente probatorio per verificarlo. E il giudice su questo si è riservata rinviando l’udienza a fine settembre. Quanto al medico, difeso dall’avvocato Marco Vianello, gli viene contestato di aver firmato il nulla osta per il trasferimento a Verona. Il dottore l’aveva visto nell’immediatezza del “pestaggio” e aveva riscontrato le botte, dicendo di avvisarlo se fossero peggiorate; il giorno dopo, però, senza rivederlo, aveva dato l’ok. Nel frattempo ieri sono state ammesse come parti civili la mamma della vittima e anche l’associazione Antigone, che ha nello statuto proprio la tutela delle condizioni dei detenuti. Modena. Violenze al Sant’Anna dopo la rivolta, la Procura chiede una nuova archiviazione modenatoday.it, 17 luglio 2025 Altri lunghi mesi di indagine, ma la posizione degli inquirenti non è cambiata. Non vi sarebbe alcun elemento per chiedere un processo a carico di quasi 90 agenti della Polizia Penitenziaria indagati per presunte violenze ai danni dei detenuti nelle fasi più calde della rivolta avvenuta presso il carcere di Sant’Anna l’8 marzo 2020. Lo stabilisce il corposo documento stilato dalla Procura dopo che la scorsa estate il Gip del Tribunale di Modena rigettò la richiesta d’archiviazione sul filone d’indagine che riguardava appunto la condotta degli agenti intervenuti per sedare la rivolta, iscritti nel registro degli indagati con l’ipotesi di tortura e lesioni, come conseguenza delle querele depositate da alcuni detenuti che li avevano accusati di violenze gratuite. Il lavoro del procuratore Luca Masini e delle magistrate Lucia De Santis e Francesca Graziano ha portato alle stesse conclusioni dell’anno scorso. Per la Procura di Modena nessun reato è stato commesso dal personale della polizia penitenziaria durante la rivolta dell’8 marzo nel carcere di Sant’Anna, all’inizio della pandemia, a seguito della quale morirono nove detenuti. Il procuratore Luca Masini e le pm Lucia De Santis e Francesca Graziano, a quasi un anno di distanza dall’ordinanza con cui la Gip Carolina Clò rigettava una prima richiesta e assegnava sei mesi di tempo per svolgere nuove indagini, sugli esposti dei detenuti che avevano denunciato pestaggi, sono giunti alle medesime conclusioni e hanno nuovamente chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto per tortura e lesioni a carico di una novantina di agenti. Al termine di un provvedimento di quasi 400 pagine, dove per gran parte sono richiamati gli accertamenti che avevano portato alla prima richiesta di archiviazione, con un giudizio, sostanzialmente, di Per gli inquirenti le versioni fornite dai detenuti sarebbero inattendibili e discordanti e l’analisi sistematica degli elementi acquisiti non consentirebbe di ravvisare reati, non essendo possibile accertare il nesso causale tra le lesioni dei detenuti e specifiche condotte illecite del personale della Penitenziaria. In sostanza, nelle concitate fasi di contrasto della rivolta - nella quale persero la vita 9 carcerati - non sarebbe possibile individuare azioni degli agenti volutamente finalizzate a infliggere acute sofferenze, traumi o trattamenti inumani o degradanti. La parola passa di nuovo al Gip, che potrebbe quindi metter la parola fine anche su questo aspetto dei drammatici accadimenti del 2020, come già avvenuto per il filone di indagine sulle morti dei detenuti. In attesa del pronunciamento della Corte Europea, chiesto dai legali dei detenuti stessi. Modena. “Carcere, nessuna tortura”. Chiesta l’archiviazione per 87 poliziotti indagati di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 17 luglio 2025 Secondo la procura emerse contraddizioni nelle denunce dei detenuti. L’associazione Antigone ora valuta se presentare nuovamente opposizione. “Gli elementi raccolti e rappresentati non consentono in alcun modo di ritenere fondati gli esposti/denunce formalizzati dai detenuti. La complessa ed articolata attività di indagine ha evidenziato una totale inattendibilità dei racconti forniti da ciascuno dei soggetti coinvolti”. È con queste motivazioni che la procura ha chiesto per la seconda volta l’archiviazione del fascicolo che vede ben 87 poliziotti penitenziari indagati per tortura e lesioni. Parliamo del maxi procedimento relativo ai presunti reati commessi dagli operatori durante la rivolta dell’8 marzo 2020 nel carcere di Sant’Anna, all’inizio della pandemia, a seguito della quale morirono nove detenuti. Il procuratore Luca Masini e le pm Lucia De Santis e Francesca Graziano, a quasi un anno di distanza dall’ordinanza con cui la Gip Carolina Clò rigettava una prima richiesta di archiviazione e assegnava sei mesi di tempo per svolgere nuove indagini, sugli esposti dei detenuti che avevano denunciato pestaggi, sono giunti alle medesime conclusioni. Nessun reato fu commesso dagli agenti, secondo la procura che ribadisce l’inattendibilità dei racconti dei cinque detenuti che presentarono denuncia. Nel medesimo fascicolo è confluita anche un’altra denuncia, quella presentata a gennaio scorso da un marocchino di 37 anni, all’epoca in carcere per questioni di spaccio e oggi uomo libero. “Mi hanno ammanettato e buttato a terra. Poi mi hanno picchiato con calci e pugni. Qualcuno mi ha colpito alla testa e ho perso conoscenza” aveva denunciato l’uomo depositando un nuovo esposto in Procura. Nulla di tutto ciò, secondo i pm titolari del fascicolo, sarebbe però avvenuto: i detenuti avrebbero fornito versioni completamente discordanti circa i luoghi in cui sarebbero stati percossi, in ordine alle modalità con cui sarebbero stati percossi e ai soggetti da cui sarebbero stati percossi. La procura sottolinea le ‘stridenti contraddizioni’ che sarebbero emerse dai racconti dei cinque detenuti firmatari del primo esposto e che, dopo la rivolta, erano stati trasferiti nel carcere di Ascoli Piceno. Nella richiesta di archiviazione si rappresenta inoltre come in numerosi casi, i sanitari del carcere di destinazione che hanno visitato i detenuti trasferiti da Modena non abbiano riscontrato lesività. L’avvocato Simona Filippi, dell’associazione Antigone a fronte della richiesta di archivizione afferma: “Valuteremo quanto fatto dalla procura in base alle richieste e disposizioni del Gip, a seguito della proroga alle indagini. Se vi saranno i presupposti, Antigone presenterà opposizione”. I legali dei numerosi agenti, avvocati Cosimo Zaccaria e Alessia Massari dichiarano: “La richiesta di archiviazione è per noi un’ottima notizia: siamo fiduciosi sull’esito finale. Sono svariati gli anni in cui i nostri assisititi sono sottoposti a procedimento, pur avendo chiarito la loro posizione. Ben si può comprendere il loro stato d’animo, avendo sempre agito con correttezza”. Turi (Ba). Agente del carcere si suicidò, nuovo no all’archiviazione: “Era vessato dai colleghi” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 17 luglio 2025 La terza inchiesta parte dalla pistola di ordinanza consegnata all’uomo nonostante fosse in aspettativa dal lavoro. La dichiarazione di un ex detenuto: “Lo chiamavano gobbetta, lo prendevano in giro dicendo che era ancora vergine”. Perché il 10 febbraio 2021 qualcuno consegnò al 56enne agente penitenziario Umberto Pelillo la pistola di ordinanza nonostante fosse in aspettativa dal lavoro? Riparte da questo interrogativo la terza indagine sul decesso del poliziotto del carcere di Turi, che quattro anni e mezzo fa si suicidò in auto a Bitritto. Il giudice Francesco Rinaldi ha respinto la seconda richiesta di archiviazione, avanzata dalla pm Silvia Curione, e disposto ulteriori indagini da compiere entro sei mesi, accogliendo l’opposizione della famiglia Pelillo, rappresentata dall’avvocato Antonio Portincasa. Che l’agente sia stato vittima di condotte vessatorie - come ha ripetutamente denunciato la madre, Rosanna Pesce - ormai sembra più che un’ipotesi. Lo ha detto chiaramente un ex detenuto, che ha fatto il nome di un ispettore come presunto responsabile e riconosciuto in foto altri agenti, che avrebbero schernito o offeso Pelillo. “I colleghi lo prendevano in giro continuamente, lo sfottevano perché viveva ancora con i suoi genitori, lo chiamavano gobbetta, gli davano dei giornaletti porno - ha messo a verbale l’uomo, che nel penitenziario di Turi è stato detenuto a lungo - Umberto spesso si confidava con noi detenuti, lo vedevamo sempre triste. Quando abbiamo saputo del suicidio abbiamo pensato che fosse arrivato al limite e che il gesto fosse collegato a quello che subiva in carcere”. Che la vita per lui fosse pesante, non era un segreto per chi gli viveva accanto. I genitori innanzitutto, ma anche l’avvocato Antonio La Scala, che lo aveva assistito in alcune vicende giudiziarie e che nell’inchiesta è stato sentito come testimone, dopo aver raccolto molti sfoghi del cliente. Al legale, l’uomo manifestava disagio per gli insulti e le offese ricevuti, raccontava che lo chiamavano “gay e malato”, che gli dicevano che “non stava bene di testa”, e che era ossessionato dalla possibilità di perdere il lavoro e di essere pedinato. Pelillo, del resto, le sue sofferenze le aveva messe nero su bianco anche in diverse lettere: “Mi dicevano tu cosa capisci di donne. L’ispettore diceva davanti a tutti che sono ancora illibato... Quattro colleghi mi si sono avvicinati con un giornale porno, dicendo fatti una cultura!”. Situazioni che avrebbero provocato nel 56enne una profonda sofferenza e che, secondo il giudice, devono essere ulteriormente indagate perché potrebbero integrare “il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale”. E se pure rispetto a tali presunte condotte vessatorie, finora non sono stati trovati elementi tali da poter ascrivere responsabilità a qualcuno, il gip è dell’idea che si debba approfondire ulteriormente. Tra le altre cose dovranno essere acquisite le dichiarazioni di altri detenuti nonché le interviste rilasciate dai familiari e da ulteriori persone coinvolte e veicolate tramite i social. Dovranno essere ascoltati dieci agenti di polizia penitenziaria, compreso uno che avrebbe in qualche modo ammesso di essere stato anche lui vittima del clima eccessivamente pesante che si respirava nel carcere di Turi. Turi (Ba). Le lunghe indagini sul suicidio di un poliziotto in carcere ilpost.it, 17 luglio 2025 Ci sono testimonianze di pesanti maltrattamenti nei suoi confronti, e per questo sono state respinte due richieste di archiviazione. Nel 2021 un agente di polizia di 56 anni che lavorava al carcere di Turi, vicino a Bari, si sparò. Si chiamava Umberto Paolillo. Prima di morire aveva scritto in alcune lettere che veniva vessato e maltrattato da anni dai suoi colleghi della polizia penitenziaria in carcere. Le indagini sul suo suicidio non si sono ancora chiuse: il giudice per le indagini preliminari di Bari ha respinto per due volte la richiesta di archiviazione del pubblico ministero, l’ultima volta ieri, chiedendo ulteriori indagini e approfondimento sul caso. Paolillo era descritto come mite, schivo, piuttosto timido, non era sposato e viveva coi genitori. Si uccise nella sua automobile con la pistola d’ordinanza. L’avvocato della famiglia, Antonio Portincasa, disse che aveva in tasca un foglio in cui raccontava dei maltrattamenti e del clima violento, discriminatorio e sessista in cui lavorava. Scrisse anche che i colleghi lo bullizzavano con commenti sarcastici sulla sua presunta verginità, che lo chiamavano “gay” con l’intento di offenderlo, e che in generale lo prendevano costantemente in giro per il suo aspetto e le sue abitudini. Secondo quanto ha raccontato Repubblica, l’ispettore capo lo avrebbe ripetutamente schernito davanti a tutti in quanto “illibato” e alcuni colleghi lo avrebbero invitato a “farsi una cultura” proponendogli giornali pornografici. Secondo un ex detenuto con cui Paolillo si confidava, i colleghi lo chiamavano inoltre “gobbetta” per via del suo aspetto, dovuto a un problema alla spina dorsale di cui soffriva. La sua avvocata, Laura Lieggi, ha spiegato che per via dei problemi di salute Paolillo si era dovuto mettere varie volte in malattia, e che le sue assenze erano finite al centro di dicerie, tra i colleghi, sul fatto che avesse problemi psichici. Nel frattempo Paolillo aveva iniziato ad avere anche problemi sul lavoro per cui aveva ricevuto alcune sanzioni disciplinari. “Quando abbiamo saputo del suicidio abbiamo pensato che fosse arrivato al limite e che il gesto fosse collegato a quello che subiva in carcere”, ha detto l’ex detenuto. Paolillo si era ripetutamente lamentato dell’ambiente lavorativo, non solo nei fogli - che raccolse in una cartella - ma anche parlando con un ex detenuto, con il suo avvocato, con alcuni familiari e con il proprio medico. Secondo il gip il suicidio di Paolillo merita ulteriori indagini e approfondimenti perché ci sono ragionevoli elementi per ritenere che sia avvenuto anche a causa delle condotte vessatorie dei colleghi poliziotti. Al momento sul caso di Paolillo non ci sono indagati: dopo il suo suicidio fu avviata un’indagine in cui tra gli altri fu ascoltato l’ex detenuto, che fece il nome di un ispettore capo della polizia penitenziaria e di otto altri agenti ritenuti responsabili delle vessazioni subite da Paolillo. Nessuna di queste persone è ancora mai stata iscritta al registro degli indagati. Nel 2024 lo stesso giudice per le indagini preliminari respinse per la prima volta la richiesta di archiviazione delle indagini sul caso, ritenendo che Paolillo potesse essere stato indotto al suicidio proprio dalle vessazioni dei colleghi. Martedì lo stesso gip ha respinto la seconda richiesta di archiviazione con le stesse ragioni, e ha ordinato l’avvio di nuove indagini sul caso entro sei mesi. Secondo il gip potrebbe essere formulata un’accusa per maltrattamenti, e per individuare i responsabili andranno ascoltati altri testimoni. I suicidi degli agenti di polizia penitenziaria sono molti e frequenti, e sono un altro dei problemi delle carceri in Italia, che sono luoghi sovraffollati, con condizioni problematiche sia per i detenuti che per chi ci lavora. Non sono disponibili dati ufficiali e pubblici riguardo al numero di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria: le notizie dei singoli casi vengono diffuse dai sindacati di categoria, dai giornali locali e nazionali. Esistono anche database indipendenti che tengono conto dei vari casi, che però non sempre sono aggiornati e in alcuni casi sono discordanti tra loro. Caserta. “Fermare la strage di vite e di diritti nelle carceri” casertanews.it, 17 luglio 2025 Una strage ‘silenziosa’ che va fermata. Ad alzare la voce in questo periodo in cui molti si godono le vacanze, o stanno per andarci, è don Salvatore Saggiomo, Garante provinciale dei diritti dei detenuti: “In qualità di Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della provincia di Caserta, mi unisco con determinazione all’appello lanciato dalla Conferenza nazionale dei Garanti territoriali per dire con forza: ‘non possiamo più attendere. Bisogna agire, e farlo subito’. Le parole pronunciate dal presidente della Repubblica il 30 giugno scorso davanti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non sono un semplice richiamo bensì un grido di allarme, un monito che la politica tutta, a ogni livello, ha il dovere morale e costituzionale di raccogliere”. Don Salvatore sottolinea: “Le carceri italiane sono oggi luoghi dove troppo spesso si spengono non solo le speranze, ma anche le vite. Sovraffollamento, abbandono, suicidi, violazioni sistematiche dei diritti fondamentali. Siamo di fronte a una vera emergenza sociale e umanitaria. Ogni giorno di silenzio istituzionale è un giorno in cui la nostra democrazia si allontana dai suoi principi fondanti. Come ha giustamente ricordato il Capo dello Stato, le carceri non devono essere una fabbrica di criminalità, ma luoghi di recupero, riscatto e reintegrazione sociale. Ogni detenuto recuperato è una vittoria per la sicurezza collettiva. Ogni detenuto abbandonato è una sconfitta per lo Stato. I numeri parlano chiaro, gli istituti penitenziari minorili hanno visto, nel solo biennio successivo al cosiddetto Decreto Caivano, un drammatico aumento dei detenuti, passando da 385 a 586 presenze. Anche questo dato, che riguarda i nostri ragazzi e le nostre ragazze, non può lasciarci indifferenti”. Da qui la decisione di una presa di posizione forte: “Per questo, il prossimo 30 luglio, a un mese esatto dall’intervento del presidente della Repubblica, aderisco con convinzione alla manifestazione nazionale promossa dalla Conferenza dei Garanti. Invitiamo tutti i parlamentari, eurodeputati, consiglieri regionali e rappresentanti delle istituzioni a entrare con noi nelle carceri. Venite a vedere, venite ad ascoltare. Il Paese ha bisogno di un provvedimento urgente, serio e strutturale, che affronti il sovraffollamento con misure degne di uno Stato di diritto. Misure come l’estensione della liberazione anticipata sociale, già avanzata dall’onorevole Giacchetti, possono offrire un sollievo concreto e immediato, ma serve coraggio politico, volontà trasversale e senso di responsabilità”. E aggiunge: “Nel 2003 e nel 2010, in momenti altrettanto critici, si è scelto di intervenire con leggi straordinarie. Ora, di fronte a decine di suicidi, a condizioni di vita disumane e a un sistema al collasso, non possiamo rimanere spettatori. Non subito ma ora. Lo chiedono i detenuti. Lo chiedono gli operatori penitenziari. Lo chiedono le famiglie. Lo chiedono tutte le coscienze oneste di questo Paese”. Trento. Il Garante dei diritti dei detenuti aderisce alla mobilitazione contro il sovraffollamento vitatrentina.it, 17 luglio 2025 Il Garante dei diritti dei detenuti della Provincia di Trento Giovanni Maria Pavarin ha aderito alla proposta della Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, che ha indetto per mercoledì 30 luglio una giornata di mobilitazione volta a far approvare provvedimenti che riducano il sovraffollamento nelle carceri italiane. Quel giorno, deputati, senatori, europarlamentari e consiglieri regionali sono invitati ad entrare insieme ai garanti negli istituti penitenziari per adulti e per minori. La manifestazione è stata indetta “per sensibilizzare l’opinione pubblica e sollecitare la politica”, ad un mese esatto dall’appello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che il 30 giugno scorso, rivolgendosi al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ha sottolineato la necessità del rispetto dei diritti dei detenuti, aggiungendo che le carceri “non devono essere una fabbrica di criminalità”. Il titolo dell’appello diffuso dalla Conferenza nazionale dei Garanti è “Non c’è più tempo! Bisogna fermare la strage di vite e di diritti nelle carceri italiane”. Nel documento, viene sottolineato che “un criminale recuperato nella società è una garanzia di sicurezza per tutti e, soprattutto, un obiettivo costituzionale”, e che, riprendendo ancora le parole del capo dello Stato, “il sovraffollamento e i suicidi sono ‘un’emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente’”. Nel suo discorso, Mattarella aveva aggiunto che “le carceri sono sovraffollate anche per l’insufficiente ricorso all’applicazione di pene alternative e per l’eccessivo utilizzo della carcerazione preventiva”. Un ragionamento - sottolineano i garanti - che riguarda ormai anche gli Istituti penali minorili (Ipm), in cui si registrano dati allarmanti: dal maggio 2023 al giugno 2025, dopo il cosiddetto decreto Caivano, i detenuti sono raddoppiati da 385 a 586. I garanti chiedono di pensare a provvedimenti deflattivi a lungo termine, ma anche ad azioni più rapide. “La proposta Giacchetti inerente alla liberazione anticipata sociale appare, per molti versi, in linea con le attuali emergenze seppur di contenuto deflattivo”, sottolineano. “Tuttavia, una riduzione semestrale di 75 giorni, in luogo dei 60 contemplati nella proposta, da concedere in tempistiche prioritarie, già sortirebbe l’effetto di ridurre sensibilmente le criticità in argomento”. Fermo. Termoidraulica e pizzeria, due corsi di formazione per i detenuti di Angelica Malvatani Il Resto del Carlino, 17 luglio 2025 Si sono chiusi nel carcere di Fermo i due corsi con la consegna degli attestati: il primo condotto con l’Artigianelli, l’altro con la scuola di Umberto Bachetti. Tra le mura di un carcere quello che fa la differenza è la speranza, la prospettiva di qualcosa di diverso. Per questo la consegna degli attestati di partecipazione ai detenuti che hanno seguito due corsi di formazione del tutto significativi diventa un’occasione di festa e di sorrisi. La direttrice del carcere di Fermo Serena Stoico, spiega che si sta celebrando un traguardo, insieme con il Garante per la persona Giancarlo Giulianelli: “Siamo riusciti tutti insieme, con la preziosa collaborazione dell’area trattamentale e della Polizia Penitenziaria e il supporto fondamentale del Garante, due corsi di formazione molto significativi per i detenuti. Il primo è un corso per operatore di termoidraulica, con il centro di formazione Artigianelli, finanziato proprio dall’ufficio del Garante, per 80 ore di formazione e 12 ore di sicurezza sul lavoro. è una figura professionale molto richiesta e dunque siamo qui per dire che ci sono, qui dentro e appena usciranno, persone che hanno le giuste competenze. Il secondo corso è più tradizionale, è realizzato con la scuola di pizza di Umberto Bachetti che da anni si spende con generosità per questo carcere. Insieme a Andrea Francavilla che è stato un insegnante molto efficace e empatico abbiamo formato come aiuto pizzaioli una decina di detenuti. Una persona che è uscita ha poi lavorato proprio in una pizzeria, tutti i partecipanti hanno dimostrato di volersi mettere in gioco, di credere in una seconda occasione, di sapersi impegnare con costanze e rispettando orari e regole”. Un pezzo di carta, quello consegnato ai detenuti che hanno seguito i due corsi che ha valore, un risultato di cui essere orgogliosi e che vale come l’inizio di una nuova storia, il garante Giulianelli sottolinea: “Abbiamo il dovere di rendere possibile una speranza, una alternativa. C’è la volontà di andare avanti con gli Artigianelliper dare sempre più opportunità di formazione professionale a persone che hanno avuto un percorso sbagliato ma possono riprendere in mano la loro vita. In questo carcere, sottolinea Giulianelli, con la direttrice Stoico c’è stato un deciso cambio di passo, un clima diverso anche una struttura che ha forti limiti strutturali, sempre nel rispetto della dignità delle persone”. A curare il corso di termo idraulica un insegnante esperto e generoso come Alessandro Evandri che ha portato in carcere il materiale necessario e ha seguito una decina di detenuti per 80 ore, di cui 40 pratiche, a mettere in piedi un impianto, collegare tubi, sistemare scarichi e così via. È uno dei corsi che si tengono al centro di formazione professionale, per la prima volta tenuto dietro le sbarre: “Ho avuto veramente l’impressione che ci fosse interesse e un grande bisogno di occupare il tempo in maniera importante, per costruire qualcosa che poi in definitiva è un futuro diverso”, sottolinea Evandri. Grande anche il supporto della psicologa dell’istituto Azzurra Galli, e di tutti gli uomini e le donne della polizia penitenziaria: “Corsi che ripeteremo, assicura la direttrice, per la pizza si è fatto avanti un privato che ci finanzia, per gli artigianelli contiamo ancora sul Garante”. Loro, i detenuti, hanno indossato le magliette della scuola di pizza, i cappellini, il sorriso di chi si sente, per una volta, dalla parte giusta della storia. Sicurezza e aborto: che passi indietro di Fabrizia Giuliani La Stampa, 17 luglio 2025 Pesano, i diritti, quale che sia la partita politica. Pesano nella valutazione dell’esercizio del governo, valutazione che appartiene a chi fa politica, a chi parla scrive e commenta dentro e fuori i nostri confini. Ma il giudizio appartiene soprattutto alla comunità dei governati, a chi tutti i giorni si misura con diritti che mancano o che ci sono solo nella forma, ma nella sostanza non si riescono a esercitare. Diritto è una parola che ha un significato molto ampio oggi, una parola ombrello; sembra precisa quando la usiamo ma può tradire. I diritti sono invece una grammatica complessa e quando li evochiamo, per poterli difendere, dobbiamo saper distinguere. Senza distinzione non c’è critica e nemmeno libertà. Ma veniamo ai mille giorni: Caivano e il Decreto Sicurezza sono stati passaggi chiave di contrazione dei diritti, fondati sulla repressione e la restrizione delle libertà. Passi indietro gravi non solo per la criminalizzazione della protesta ma per la legittimazione dell’uso della forza. Vorrei solo sottolineare un aspetto, centrale politicamente: i giovani, le giovani non si educano colpendoli, né pensando il carcere come una vera soluzione. Aumentare le pene ai cattivi ragazzi, pensando allo stato delle nostre prigioni, magari moltiplicandole, non li renderà migliori né garantirà la nostra sicurezza, anzi. Non si nasce cattivi, lo si diventa, in certi posti e in certi momenti. Trasformare quegli spazi è ciò che la politica dovrebbe fare, se vuole davvero sradicare la violenza e non costruire soluzioni illusorie, a volte contrarie a principi di umanità, come nel caso dei figli delle detenute madri, costretti in carcere. Un’infanzia con le sbarre cosa lascia, oltre la rabbia e la sofferenza? La pena è destinata solo a produrre altra pena o la catena si può spezzare? Se guardiamo alle politiche migratorie, ai rimpatri, ai centri in Albania, sembra che debba restare ben salda. Che sia necessaria a mantenere l’idea dell’assedio, del nemico, dello straniero pericoloso da cui è necessario difendersi con ogni mezzo, costi quel che costi, anche un pezzo di umanità. Perché sappiamo bene che il nostro mercato del lavoro si regge sui migranti e girare la testa davanti ragazzi e adulti che parlano un italiano migliore del nostro ma a cui neghiamo ogni percorso verso la cittadinanza è moralmente un’ipocrisia imperdonabile, politicamente un atto autolesionista. La strada giusta in materia di garanzia dell’esercizio del diritto è invece quella seguita per il contrasto alla violenza sulle donne. Contrariamente a quanto accade nell’Argentina di Milei, la premier ha scelto di riconoscere il femminicidio sul piano giuridico e varare misure di formazione per i giudici e protezione per le vittime. Ma soprattutto ha scelto di condividere il percorso con l’opposizione; levare il barrage dalle scuole, aprire a percorsi che educhino alla differenza, alle diversità, facendo cadere il fantasma del gender, completerebbe il quadro: non è detto che non ci si possa arrivare. Diritto oppure scelta? Il fine vita alla prova dei giuristi. Con l’altolà di Giuliano Amato di Francesca Spasiano Il Dubbio, 17 luglio 2025 Dalla sentenza 242 della Corte costituzione sul suicidio assistito scaturisce un diritto a morire? Oppure si tratta soltanto di una scelta possibile, realizzabile e depenalizzata ad alcune condizioni? Il cuore del dibattito sul fine vita sta tutto qui, e su questo la maggioranza non dubita: un diritto al suicidio un c’è. Ma c’è la necessità di legiferare, restando nel perimetro segnato dalla Consulta. Dunque, ora il più è capire se il testo presentato dalla maggioranza rientri in quel campo tracciato dai giudici, e fino a che punto sia possibile forzarlo. Per chiarirlo i senatori hanno deciso di ascoltare il parere di quattro giuristi, auditi lunedì scorso in Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama: Mario Esposito, Lorenza Violini, Giuliano Amato e Vladimiro Zagrebelsky. Le posizioni emerse sono diverse e articolate. Ma i quattro giuristi concordano almeno su un punto: il legislatore non ha e non può avere un mero ruolo di “esecutore” delle sentenze della Consulta, né c’è alcun obbligo di “fotocopiare” la storica decisione sul caso Cappato/ Dj Fabo del 2019. Ma è ragionevole che il Parlamento sia prudente, se non vuole dare vita a un testo che abbia già un posto prenotato davanti alla Corte. Questo rischio, tutto sommato, sembra sventato. Almeno secondo il relatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che ha lavorato al testo base adottato dalle Commissioni Giustizia e Affari sociali del Senato insieme a Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. “Ognuno ha dato suggerimenti di miglioramento, però l’impianto ha retto. E di questo non posso che compiacermi”, ha spiegato il senatore azzurro. Che non chiude a nessuna ipotesi di modifica o mediazione, prima di avere sottomano gli emendamenti che presenteranno i partiti. Il termine scade questa mattina, e bisogna aspettarsene almeno una quarantina soltanto dal Pd. Il cui capogruppo in Commissione Giustizia al Senato, Alfredo Bazoli, parla invece di un “incompleto”, con parecchi nodi da sciogliere. Che sono gli stessi emersi nel corso delle audizioni. Si è partiti dalle riflessioni di Esposito, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università del Salento, che per la verità non vede la necessità di fare una legge: una norma segnerebbe inevitabilmente “un arretramento della tutela della vita e della sua indisponibilità”. Di parere opposto è Violini, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Milano, per la quale una legge nazionale è invece necessaria: il Parlamento ha il compito di stabilire un punto di equilibro tra la tutela della vita e la libera autodeterminazione dell’individuo. Niente di più complicato, per la politica che mira all’intesa partendo da un’enorme distanza. Soprattutto su un punto: l’esclusione del Servizio sanitario nazionale dai percorsi di fine vita. Zagrebelsky, già giudice della Cedu, la mette così: escludere il Ssn significa escludere la natura medica del suicidio assistito. E infatti di medico, dice, “non c’è più nulla”. Anche se il Ssn non è tenuto a garantire la prestazione gratuitamente, il rischio è che l’aiuto alla morte volontaria diventi qualcosa d’altro, perdendo di vista un principio fondamentale: il criterio dell’autodeterminazione come scriminante. D’altronde il testo si muove in questa direzione: escludendo la punibilità a determinate condizioni, senza affermare un diritto, sottolinea Zanettin. Il quale chiarisce che il pubblico è escluso in termini di personale, prestazioni e strumentazioni, ma non di accertamento. Questioni “pratiche”, che però hanno un grande risvolto etico. Su cui è difficile trovare la quadra, se non - forse - presentando l’orecchio alle osservazioni di Giuliano Amato. Quando il presidente emerito della Consulta si è seduto in commissione è stato un po’ come dialogare direttamente con la sentenza 242, a cui ha contribuito durante il suo mandato da giudice costituzionale. “Ci sono dei casi in cui la pietas diventa la ragione di fondo della decisione che si adotta, e su questo terreno era ed è fondamentale che credenti e non credenti trovino un punto di incontro: accettando le ragioni della pietas gli uni, non pretendendo la disciplina di un diritto gli altri”, spiega Amato. La stessa chiave è stata adottata nel 2019 dalla Corte, che presto si pronuncerà anche sull’eutanasia. Un dettaglio che di certo non sfugge al Parlamento, né ad Amato, il quale solleva un punto fondamentale: presto le innovazioni tecnologiche permetteranno di affidare l’atto finale a una macchina, azionabile anche con la parola. Con il risultato di equiparare il suicidio assistito all’eutanasia. E queste macchine, è l’altolà di Amato, non potranno essere a disposizione delle cliniche private. Per questo, ragiona il presidente emerito, è difficile escludere il ruolo della sanità pubblica. Che potrà essere rivisto almeno per ciò che riguarda la strumentazione. Un’altra ipotesi, appena sussurrata, mirerebbe a individuare un capitolo di bilancio a parte, in modo che le spese relative al suicidio assistito non incidano sul fondo dedicato alla sanità. Ma c’è sempre da discutere sul ruolo del medico, per il quale il Pd chiederà di prevedere l’obiezione di coscienza. Oggi si comincerà a discuterne, per approdare in Aula, molto probabilmente, a settembre. Dal momento che l’ipotesi 23 luglio sembra sfumare. Intanto i Pro vita si danno da fare, occupando gli scranni del Parlamento con decine di figure nere incappucciate con una falce in mano: “Siete stati eletti per aiutarci a vivere recita lo slogan sui cartelli - non per farci morire”. Fine vita, Greco (Cnf): “Il Ssn è presidio per rispettare l’equità” di Angelo Picariello Avvenire, 17 luglio 2025 “Sul fine vita una legge serve, per evitare che siano la magistratura e le Regioni a occuparsene caso per caso”. Francesco Greco, presidente del Consiglio Nazionale Forense, interviene sulla proposta di legge in discussione al Senato e boccia anche l’idea di tener fuori il servizio sanitario nazionale. Questo orientamento emerge anche da una recente indagine condotta da Ipsos fra 5.500 avvocati italiani tra i 25 e i 44 anni, molti dei quali vorrebbero, in realtà, un’applicazione della norma che vada anche oltre i paletti indicati dalla Consulta. Al di là del merito, dall’indagine emerge con chiarezza la richiesta degli avvocati di un intervento di legge che uniformi l’applicabilità della scriminante individuata dalla Corte costituzionale... Sì, il 77% degli avvocati intervistati chiede una legge nazionale che colmi l’attuale vuoto normativo e garantisca pari diritti e tutele a tutti i cittadini. Demandare alle Regioni una materia tanto delicata rischia infatti di generare profonde diseguaglianze territoriali. In assenza di un intervento legislativo, è la Corte costituzionale a continuare a riempire questo vuoto. In questa ottica un comitato di valutazione nazionale unico è la soluzione giusta? C’è chi paventa un rischio intasamento e difficoltà operative... Può essere una soluzione utile per garantire uniformità su tutto il territorio. Tuttavia, è necessario coniugare le garanzie con l’efficienza. Un’ipotesi percorribile potrebbe essere l’istituzione di sotto-comitati regionali o interregionali, con compiti esclusivamente istruttori, che assicurino prossimità e evitino rallentamenti. Si discute molto dell’esclusione del Servizio sanitario nazionale nel testo attuale. La ritiene una soluzione praticabile e compatibile a livello costituzionale? L’esclusione del Ssn potrebbe presentare profili di contrasto con i principi di uguaglianza. Ma il tema più urgente è quello dell’equità: lasciare tutto al settore privato rischia di generare sperequazioni tra cittadini sulla base del reddito, con la possibile proliferazione di strutture orientate al profitto. Penso che la sanità pubblica debba restare il presidio fondamentale per garantire a tutti il diritto di scegliere. Le cure palliative da rendere disponibili per tutti come possono diventare un vincolo giuridico e non solo una dichiarazione d’intenti? Le cure palliative sono già un diritto esigibile per ogni persona. L’articolo 32 della Costituzione tutela la salute come diritto fondamentale. Tuttavia, la scelta sul fine vita deve restare un atto di libertà personale, non un percorso condizionato da vincoli. Gli studenti “ribelli”, il ministro Valditara e la maturità della scuola che deve ancora venire di Irene Manzi Il Domani, 17 luglio 2025 Se la scuola genera ansia invece che apprendimento, la responsabilità è anche della politica, prigioniera del merito come ideologia. Il legislatore dovrebbe fare un passo indietro e lasciar lavorare la pedagogia, dando però gli strumenti economici, gli investimenti necessari, offrendo dignità al lavoro del docente in termini di retribuzione, di formazione, di qualità del lavoro. In questi giorni le scelte compiute da alcune ragazze e ragazzi durante l’esame di maturità hanno avuto una grande attenzione mediatica e aperto un dibattito che, purtroppo, ha in larga parte assunto la forma ormai consolidata della presa di posizione da una parte o dall’altra, con l’approccio da tifoserie che sembra così tanto caratterizzare il nostro tempo. Sono stati tanti i giudizi espressi sulla loro azione, alcuni anche interessanti, eccezion fatta purtroppo (e lo dico con sincero rammarico) per quelli del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, che ha risposto agli interrogativi non banali che quelle scelte ponevano con la consueta e ormai rodata strategia sanzionatoria. Il modo meno utile per rispondere al tema di fondo che quelle scelte ponevano: la valutazione e il ruolo che essa riveste a scuola, il modo in cui cambiare l’esame di stato, ormai per molti componenti della comunità scolastica superato nell’attuale configurazione. Mi sono presa qualche giorno per far depositare gli spunti emersi dal dibattito che si è aperto perché, più del clamore del momento, mi sembra interessante ragionare su cosa, in prospettiva, possiamo trarre da queste vicende. Penso, infatti, che ci sia stata offerta una opportunità per riflettere sul tema della valutazione, un tema così importante sul piano pedagogico e su quello formativo. Una opportunità per la politica che invece che reagire con l’annuncio di sanzioni e punizioni dovrebbe avere la capacità suprema di ascoltare, accogliere e fare sintesi. In questi mesi mi sono trovata a tornare sulle provocazioni importanti e positive che tante volte ci ha lanciato papa Francesco, nello stile e nel merito. Ho riletto una sua riflessione sulla tomba di Don Milani a Barbiana. Una visita più che storica se pensiamo a come mai Don Milani si fosse trovato proprio lì. Ecco, rispetto a quanto ci diceva la “Lettera a una professoressa”, quanto possiamo ancora trovare nella scuola oggi e quanto in modo diverso ci dicono anche gli episodi di queste settimane? Al netto di tante ottime eccezioni il modello logocentrico, prestazionalista, l’ansia valutativa, il giudizio come una spada di Damocle sono ancora spesso lo spettro che si aggira per le nostre aule, soprattutto via via che si sale di grado. Sono convinta che tanti bravi educatori potrebbero ben tirare le somme di un percorso di crescita di una ragazza e di un ragazzo indicando punti di forza e di maggiore debolezza su cui lavorare senza bisogno di tanti meccanismi burocratici. Servirebbe lavorare maggiormente sul senso della contemporaneità. Soprattutto serve la relazione, che sappia trasmettere qualche cosa di importante a questa generazione di studenti in cui il sentimento più diffuso è l’ansia, per i quali la scuola della performance non fa altro che ingigantire questa ansia, rischiando di contribuire a farli sprofondare in baratri psicologici dai quali poi è molto difficile uscire. Lavorare sulla parola “fallimento” - Serve una scuola che insegni loro a stare nel mondo. Ad affrontare l’incertezza. L’ignoto. Ad affrontare le prove che ci sono e ci saranno senza impazzire di ansia. Insegnare ad avere pazienza. A lavorare duro per ottenere un risultato agognato, senza arrendersi al primo errore o tentativo fallito. Dobbiamo insegnare loro che il giudizio del professore su un compito in classe è diverso dai commenti del social network: serve a migliorarsi, a comprendere dove si è sbagliato. Serve lavorare sulla parola fallimento ed eliminarla dal vocabolario degli adolescenti. Se, in generale, non va bene per nessuno perché ogni vita è un percorso e non c’è una partita da vincere in ballo, a maggior ragione non può essere un fallito un adolescente che la vita non l’ha ancora vissuta. E posso dire che su questi temi la pedagogia scrive e sperimenta da decenni e che l’autonomia scolastica che, quest’anno festeggia venticinque anni, offre grandi strumenti per lavorarci. Ma soprattutto posso dire - da legislatrice in carica - che il legislatore dovrebbe fare un passo indietro e piuttosto che introdurre nuove norme, inserire ore o materie, inventare Maturità sempre nuove, dovrebbe ridurre il suo carico normativo e lasciar lavorare la pedagogia dando però gli strumenti economici, gli investimenti necessari, offrendo dignità al lavoro del docente in termini di retribuzione, di formazione, di qualità del lavoro. Fare politica scolastica e non dichiarazioni e codicilli. Sarebbe bello aprire una riflessione profonda su come si valuta e su quali strumenti abbiamo per lavorare sulle diversità e su approcci capaci di tenerne conto. Su come cambiare la didattica. Perché non abbiamo più bisogno di sistemi omologanti ed espulsivi e lo confermano i dati preoccupanti sull’emergenza educativa e anche gli ultimi dati Invalsi relativi alla dispersione implicita. E sarebbe importante che il dibattito sulla scuola non si accendesse e chiudesse come una meteora solo nei giorni della maturità e dell’inizio dell’anno scolastico. Perché se per crescere il futuro serve un intero villaggio e se il futuro di un paese si trova lì - nelle aule delle nostre scuole - dovremmo occuparcene con molta più costanza e in modo non occasionale. È quel che stiamo tentando di fare dall’inizio del 2025 con i nostri Appunti Democratici e con un lavoro diffuso. Oggi il nostro appello va a quei ragazzi e a quelle ragazze e a quanto hanno sentito il bisogno di dire la loro. Ci interessa. Ci interessa il vostro punto di vista e il vostro contributo. Mettiamoci al lavoro insieme per renderlo concreto all’interno della scuola italiana. Migranti. Assolto dopo 21 mesi di carcere e sbattuto subito nel Cpr di Angela Nocioni L’Unità, 17 luglio 2025 Non gli hanno fatto vedere l’avvocato che l’aspettava fuori dal carcere. Rinchiuso subito in Cpr. Se ne riparla a settembre causa trasloco del Giudice di pace. Gaefar Mohamad, egiziano, dell’Italia ha visto solo il carcere dove è stato ingiustamente recluso per 21 mesi. Ma non era uno scafista, si erano sbagliati anche questa volta. Succede davvero troppo spesso. Quando il il Tribunale di Locri lo riconosce innocente e lo scarcera, non passa da libero nemmeno un minuto, gli viene impedito di vedere il suo difensore e viene sbattuto nel Cpr di Caltanissetta. Ricorre contro l’espulsione, gli rispondono che deve aspettare l’8 settembre per trasloco dell’ufficio del giudice di pace. Sono passati un anno, 9 mesi e 8 giorni dal suo arrivo in Italia e lui, assolto e scarcerato, non ha mai passato un’ora da libero. No, non era uno scafista. Si erano sbagliati anche questa volta. Succede un po’ troppo spesso. Dopo 21 mesi di ingiusta detenzione preventiva nel carcere di Locri, Gaefar Mohamad Elfran, 56 anni, egiziano, il 9 luglio è assolto in primo grado. Il tribunale ne ordina l’immediata scarcerazione, l’avvocato lo aspetta invano fuori dal carcere. Non glielo fanno vedere, gli agenti negano sue notizie al difensore, lui viene preso e sbattuto nel Centro per il rimpatrio di Caltanissetta con un decreto di espulsione e un decreto di trattenimento emessi il giorno dopo dalla Prefettura di Reggio Calabria. Gaefar Mohamad Elfran ha un passaporto valido. Per decisione prefettizia è destinato al rimpatrio forzato e intanto lo rinchiudono al Cpr. Il trattenimento (cioè la detenzione) è convalidato dal giudice di pace di Caltanissetta in una udienza nella quale viene nominato un avvocato d’ufficio ignaro di esser stato assegnato a una persona assolta in primo grado e appena uscita dal carcere. Nessuno informa il difensore di fiducia che lo aveva seguito al processo e che per rintracciarlo nel frattempo scrive all’Ufficio immigrazione di Locri. Gli rispondono: scriva all’Ufficio immigrazione di Reggio Calabria. Il trattenimento, al solito, viene subito convalidato dal giudice di pace. Gaefar Mohamad Elfran è ora al Cpr di Caltanissetta, si chiede perché non gli è stato dato il foglio di via, semmai, dopo l’assoluzione. Non si fa una ragione dell’essere passato dal carcere di Locri al Cpr di Caltanissetta. Impugna il decreto di espulsione. In merito deve decidere l’ufficio del giudice di pace di Reggio Calabria. Il 15 luglio la giudice di pace Renata Maria Laura Scidone risponde all’impugnazione che “letto il ricorso e esaminata la documentazione allegata, visto il provvedimento del 17 giugno di sospensione delle udienze civili del Presidente del Tribunale di Reggio Calabria, Mariagrazia Arena, per trasloco del giudice di pace fissa udienza il giorno 8 settembre”. Quindi c’è un essere umano che appena toccate le coste italiane, l’8 ottobre del 2023, viene fermato a Roccella Ionica con l’accusa rivelatasi infondata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dell’Italia vede solo il carcere dove è ingiustamente recluso per 21 mesi. Quando il il Tribunale di Locri lo riconosce innocente e lo scarcera, non passa da libero nemmeno un minuto, gli viene impedito di vedere il suo difensore, viene trasportato nel Cpr e quando osa ricorrere contro l’espulsione gli rispondono che deve aspettare almeno due mesi nelle gabbie ad arrostire al sole di Caltanissetta. Causa trasloco. Sono passati un anno, nove mesi e otto giorni dal suo arrivo in Italia e lui, riconosciuto innocente da un tribunale italiano, non ha mai passato un’ora da libero. Francesca Albanese: il diritto che si batte contro il potere imperiale di Giovanna Cavallo* L’Unità, 17 luglio 2025 Contrapporre i diritti umani alla legge del più forte: il mandato di Francesca in Palestina è di estrema importanza. Ma come Falk, suo precursore, è finita nel mirino. Dal momento che è impossibile smentire le sue denunce, la denigrano come persona. Il primo mandato speciale delle Nazioni Unite fu istituito contro l’apartheid in Sudafrica. Oggi, il mandato sulla Palestina si inserisce in quella stessa traiettoria: affronta una realtà di occupazione militare protratta e violazioni su vasta scala. Viviamo un ritorno alle logiche imperiali: forza geopolitica, alleanze militari e interessi economici prevalgono sulle norme del diritto internazionale. Le istituzioni multilaterali vengono svuotate di potere o piegate ai più forti. I Relatori Speciali diventano bersagli: ostacolati, screditati, ignorati. Attaccare Albanese non significa solo contestare le sue parole, ma delegittimare l’intera architettura della responsabilità internazionale. Si sostituisce il confronto giuridico con lo scontro ideologico. Difendere il ruolo di Francesca Albanese oggi significa difendere la possibilità che il diritto internazionale abbia ancora voce in un mondo dove prevale la legge del più forte. Proteggere i relatori speciali, le Nazioni Unite e Francesca Albanese, significa difendere i principi di legalità, giustizia e umanità a livello globale. Il diritto internazionale contro la forza: perché difendere il mandato di Francesca Albanese Gli attacchi rivolti a Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, pongono interrogativi cruciali sul sistema internazionale di tutela dei diritti umani e sul ruolo delle istituzioni multilaterali che promuovono funzioni come la sua dentro la cornice delle Nazioni Unite. Come nasce il mandato speciale Onu sulla Palestina. L’incarico relativo ai Territori palestinesi fu istituito nel 1993 dalla Commissione per i Diritti Umani (poi divenuta Consiglio), con lo scopo di monitorare, riferire e analizzare la situazione nei Territori palestinesi occupati da Israele - Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e la Striscia di Gaza - a partire dal 1967. Il mandato si distingue per la sua focalizzazione sulla condotta della potenza occupante, secondo quanto previsto dal diritto internazionale umanitario e dalle Convenzioni di Ginevra, e si concentra sulle responsabilità dello Stato occupante, secondo le norme sullo jus in bello e sullo jus ad bellum. Questo mandato rientra nelle Procedure Speciali delle Nazioni Unite, strumenti fondamentali per la tutela dei diritti umani. Gli esperti indipendenti che ne fanno parte conducono visite nei Paesi, indagano su casi o violazioni sistemiche, inviano comunicazioni ufficiali agli Stati, svolgono studi tematici, consultazioni con esperti e promuovono standard internazionali. Svolgono anche attività di advocacy, sensibilizzazione pubblica e cooperazione tecnica, e riferiscono ogni anno al Consiglio dei Diritti Umani e all’Assemblea Generale Onu. In contesti di crisi, rappresentano spesso l’unico meccanismo di allerta disponibile a livello internazionale. In quanto Relatrice Speciale, Francesca Albanese non rappresenta l’Onu in senso diplomatico, né agisce per conto di uno Stato: è un’esperta indipendente nominata dal Consiglio per i Diritti Umani. Il suo lavoro si basa su fonti documentate, missioni sul campo (quando consentite), interviste con testimoni, analisi giuridica e confronto con standard internazionali. Ha descritto l’occupazione israeliana come una forma di apartheid e ha documentato sistematicamente episodi di violenza, espropriazione, detenzione arbitraria e repressione della società civile palestinese. Le sue conclusioni si inseriscono nella continuità di rapporti Onu e organizzazioni internazionali per i diritti umani. Proprio questa coerenza rende grave il tentativo di delegittimare il suo operato: colpire la persona della relatrice, anziché confrontarsi con i contenuti del suo mandato, significa colpire il principio stesso di accountability internazionale, rendendo più fragile un sistema già in crisi, in cui il diritto è spesso subordinato alla logica della forza. Una genesi simbolica. Il primo mandato speciale contro l’apartheid in Sudafrica. Il primo mandato speciale delle Nazioni Unite fu istituito contro l’apartheid in Sudafrica: una forma istituzionalizzata di discriminazione razziale che molte potenze occidentali avevano ignorato per motivi economici e geopolitici. Quel mandato rappresentò un atto pionieristico, in cui il diritto internazionale tentava di affermarsi contro la realpolitik. Oggi, il mandato sulla Palestina si inserisce in quella stessa traiettoria: affronta una realtà di occupazione militare protratta e violazioni su vasta scala, come documentato da numerosi rapporti e risoluzioni. Fu una decisione senza precedenti: per la prima volta, un organismo internazionale istituiva un meccanismo permanente per monitorare e denunciare violazioni sistemiche, riferite a un singolo Stato. In un contesto in cui molte potenze si erano rifiutate di condannare l’apartheid sudafricano, il mandato rappresentò un gesto rivoluzionario: il diritto internazionale si poneva al di sopra degli interessi politici, assumendosi il compito di denunciare l’ingiustizia strutturale anche a costo di entrare in conflitto con il potere. Negli anni, questa pressione contribuì all’isolamento politico del regime sudafricano e alla legittimazione della sua opposizione. Diritto internazionale nell’epoca “neo imperiale”. Oggi, però, il contesto globale è peggiorato. Viviamo un ritorno alle logiche imperiali: forza geopolitica, alleanze militari e interessi economici prevalgono sulle norme del diritto internazionale. Le istituzioni multilaterali vengono svuotate di potere o piegate ai più forti. I Relatori Speciali diventano bersagli: ostacolati, screditati, ignorati. Attaccare Albanese non significa solo contestare le sue parole, ma delegittimare l’intera architettura della responsabilità internazionale. Si sostituisce il confronto giuridico con lo scontro ideologico, minando uno degli ultimi strumenti per denunciare le ingiustizie sistemiche dove gli Stati sono inerti o complici. La storia recente è ricca di casi simili. Agnes Callamard, oggi segretaria generale di Amnesty International, fu attaccata per le sue indagini sull’assassinio di Jamal Khashoggi. Nils Melzer, relatore sulla tortura, fu criticato per le denunce sul trattamento di Julian Assange. Philip Alston fu accusato di parzialità per i suoi rapporti sulla povertà estrema negli Stati Uniti. In tutti questi casi, il prezzo dell’indipendenza è stato alto, ma necessario. Richard Falk, giurista e professore emerito a Princeton, fu Relatore Speciale Onu dal 2008 al 2014. Denunciò il blocco di Gaza (2008), l’Operazione Piombo Fuso (2009), le pratiche di apartheid (2010) e la pulizia etnica a Gerusalemme Est (2011). Nel 2012 chiese un’indagine della Corte Internazionale sul trattamento dei prigionieri palestinesi e accusò multinazionali di complicità nell’espansione delle colonie. Le sue denunce furono attaccate, ma mai smentite nel merito. Il suo lavoro ha posto le basi per l’attuale mandato di Albanese. Difendere il ruolo di Francesca Albanese oggi significa difendere la possibilità che il diritto internazionale abbia ancora voce in un mondo dove prevale la legge del più forte. Quando gli Stati falliscono, i Rapporteur indipendenti restano spesso l’unico meccanismo per chiamare le cose con il loro nome. Proteggere i relatori speciali, le Nazioni Unite e Francesca Albanese, significa difendere i principi di legalità, giustizia e umanità a livello globale. *Forum per cambiare l’ordine delle cose Alberto Trentini detenuto in Venezuela da 8 mesi, la madre: “Meloni, un silenzio assordante” di Anna Maselli Corriere del Veneto, 17 luglio 2025 Il cooperante veneziano arrestato il 15 novembre 2024 senza un’accusa formale. Don Ciotti: “Troppe ambiguità in questi mesi”. Alberto Trentini detenuto in Venezuela da 8 mesi, la madre: “Meloni, un silenzio assordante. Il governo deve attivarsi subito”. “Oggi sono otto mesi esatti che mio figlio Alberto è in prigione ma tutto tace e tace anche la nostra presidente del Consiglio”. Armanda Colusso, madre di Alberto Trentini, il cooperante detenuto in Venezuela dal 15 novembre 2024 senza un’accusa formale, non ce la fa più. E martedì mattina, davanti al tribunale di Roma dove si è tenuta una nuova udienza sull’omicidio di Giulio Regeni (le due famiglie sono assistite dalla stessa avvocata, Alessandra Ballerini), ha richiamato le istituzioni alle proprie responsabilità, in particolare la premier Giorgia Meloni che ha telefonato alla famiglia qualche mese fa ma non ha mai pronunciato pubblicamente il nome di Trentini. Il compagno di prigionia - La vicenda è delicata, la trattativa molto complessa ma dire a favore di telecamere “Liberate Alberto Trentini” sarebbe un gesto importante, simbolico, capace (chissà) di sbloccare il pantano della diplomazia: “Il nostro governo - ha detto la madre - deve attivarsi come ha fatto quello svizzero con il compagno di prigionia di mio figlio e che è stato liberato da poco”. Il cittadino elvetico ha riferito delle torture e delle violazioni all’interno del carcere El Rodeo I, dove si trova da 240 giorni Trentini. “Ero spesso legato a una sedia, con la testa coperta da un cappuccio - ha raccontato -. Sono stato anche obbligato a rilasciare un’intervista in cui dicevo ciò che loro volevano, altrimenti non sarei uscito”. E poi ancora le scarse condizioni igieniche, l’impossibilità di fare una telefonata, l’essere diventato sostanzialmente un fantasma. “Non possiamo più aspettare - l’appello della mamma di Trentini, le nostre istituzioni dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale e si adoperino con urgenza per riportare a casa nostro figlio come è stato fatto in altri casi: ogni giorno di inerzia in più corrisponde a indicibili sofferenze per Alberto e per noi”. Alla sua sinistra, dietro lo striscione verde che da mesi chiede la liberazione del cooperante, c’era la mamma di Giulio, Paola Deffendi, che in più occasioni ha espresso vicinanza ai Trentini; a destra l’avvocata genovese Ballerini. Don Ciotti: “Troppi silenzi e ambiguità” - Di fronte al tribunale, martedì, anche il fondatore di Libera don Luigi Ciotti. “Per Giulio non siamo arrivati a tempo - ha sottolineato con tristezza - e nemmeno per Mario Paciolla (l’attivista assassinato in Colombia nel 2020, ndr). Per Alberto siamo in tempo per chiedere rispetto per la sua vita, la libertà e la verità”. Il cooperante veneziano era atterrato a Caracas da poche settimane per conto della ong Humanity & Inclusion, per portare aiuti ai più fragili, a persone con disabilità. Da novembre i genitori hanno potuto sentire la sua voce solo una volta. “Troppi silenzi hanno accompagnato questi mesi e troppe ambiguità - ha continuato don Ciotti -. C’è un presidente (Nicolás Maduro, ndr), un tiranno che si professa cattolico: si ponga una mano sulla coscienza”. La solidarietà del sindaco di Venezia - Venezia attende di poterlo riabbracciare. “Continuiamo a seguire il caso con attenzione - il commento del sindaco Luigi Brugnaro - e a avere piena fiducia nelle istituzioni che stanno lavorando per riportare a casa il nostro concittadino”. Massima solidarietà anche dal senatore Andrea Martella, segretario regionale del Pd: “Le parole di Armanda Trentini sono un grido di dolore che non può restare inascoltato. Ho già presentato un’interrogazione parlamentare e tornerò a sollecitare un impegno concreto da parte del governo”. Proseguono la petizione e il digiuno a staffetta per la sua liberazione.