Sovraffollamento in cella, spiragli sulla pdl Giachetti. Ma il Guardasigilli frena di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 luglio 2025 Femminicidio, fine vita, carceri. Tre temi sui quali al Senato il lavorio si sta intensificando prima della pausa estiva prevista per i primi di agosto. In alcuni casi per il bisogno di incassare almeno una delle tante leggi-bandiera del centrodestra, in altri per necessità. Perché le emergenze vere - quella dei detenuti ammassati in celle destinate a riempirsi sempre più, o quella dei malati terminali - esistono ed esigono risposte. E a premere sull’acceleratore sono soprattutto le opposizioni. Con qualche apertura recente del centrodestra alle proposte per ridurre il sovraffollamento carcerario, come la “pdl Giachetti”, sia pur rimodulata. Tanto che ieri il ministro di Giustizia Carlo Nordio ha reso noto di aver accertato, tramite una task force istituita a Via Arenula, che “10.105 detenuti definitivi” per reati non ostativi, con pena residua sotto i 24 mesi” e che non hanno avuto “sanzioni disciplinari gravi negli ultimi 12 mesi”, sono “potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere” (non di liberazione anticipata). L’unico provvedimento che con sicurezza arriverà in porto, però, è il “Femminicidio” atteso domani in Aula al Senato. Il governo, che oggi porrà la fiducia sul dl Infrastrutture, non ha invece alcun bisogno di forzare la mano sul ddl che punisce con l’ergastolo l’omicidio di una donna in quanto tale, commesso per discriminazione o dominio, e che dopo la riscrittura del testo ha trovato il plauso bipartisan dei senatori. Divide invece fortemente il ddl sul Fine vita il cui testo base adottato dalla maggioranza (l’ultima parola ad un Comitato nazionale; per il suicidio assistito è vietato usare mezzi e personale del Ssn) appare a tutti gli altri come un chiaro tentativo di impedire l’applicazione della sentenza 242/2019 dalla Consulta. E così il provvedimento che avrebbe dovuto approdare in Aula domani, è finito in coda. Ieri, dopo alcune audizioni nelle commissioni Giustizia e Sanità programmate negli ultimi giorni, e mentre l’Associazione Coscioni depositava proprio al Senato “le 74.039 firme raccolte sulla proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare tutte le scelte di fine vita, inclusa l’eutanasia attiva”, l’opposizione è tornata ad incalzare la maggioranza affinché “ci sia un voto entro la pausa estiva”. Ma, come afferma il presidente dei senatori del Pd, Francesco Boccia, dopo una riunione con Avs, M5S e Iv, “è evidente che dentro la maggioranza ci sono tesi diverse e c’è il tentativo di rinviare ancora questa condizione di sofferenza che richiede una legge”. Per velocizzare l’iter i partiti di opposizione hanno chiesto “al presidente La Russa di svolgere una moral suasion” sui partiti del centrodestra. Anche se, precisa Boccia, “la proposta della maggioranza non è accettabile: senza il Ssn non c’è una legge su Fine vita perché significa privatizzare la sofferenza e far decidere a pochi sulla vita di tutti”. ANCHE sull’emergenza carceri, è corsa contro il tempo. Le celle arroventate dove sono stipati quasi 16 mila detenuti in più del dovuto (dati Antigone), richiedono un intervento immediato. Per non parlare dei suicidi: ieri a Frosinone, in ospedale, è morto un detenuto trentenne tossicodipendente, condannato per un cumulo di reati minori, che venerdì scorso aveva tentato di togliersi la vita in cella. E siccome non è morto in carcere, il suo caso non verrà conteggiato dal Dap tra i suicidi, ma tra le “morti per altre cause”. In tutto, tra gli uni e gli altri, secondo Ristretti orizzonti, sono 133 i reclusi morti nel 2025. Però “la politica comincia a muoversi”, come certifica da Rebibbia perfino il detenuto Gianni Alemanno che, nel suo diario dal carcere romano racconta anche di un altro tentato suicidio sventato. Scrive Alemanno: “All’inizio della legislatura il sovraffollamento carcerario era al 107,4%, adesso è arrivato al 133%, se continua con questo ritmo arriverà a fine legislatura al 155%, il record storico. E, visto che il ministro della Giustizia continua a snocciolare proposte del tutto irrealizzabili, se non si trova una convergenza sulla proposta Giachetti, tutto questo non è un’ipotesi, è una certezza”. Sembra però che l’ex sindaco di Roma (e già fautore delle politiche più repressive delle destre) sia riuscito a smuovere la sua parte politica, contando sull’aiuto di Ignazio La Russa e sperando che il sottosegretario alla Giustizia Delmastro non si metta troppo di traverso (la premier Meloni lascerebbe fare al Parlamento). In particolare, sabato scorso, durante un incontro promosso da Nessuno Tocchi Caino, si sarebbe costituita una sorta di maggioranza trasversale (escluso solo il M5S, ma anche sulla Lega nessuno ci metterebbe la mano sul fuoco) che cercherà di incardinare al Senato la pdl del deputato Roberto Giachetti (Iv) sulla liberazione anticipata speciale, che alla Camera non trova spazio. Dovrebbe subire pesanti modifiche e per il trasferimento occorre il placet di Giachetti. Il quale ha già detto che non si opporrebbe, purché qualcosa si faccia. E presto. “Sarebbe già un gran risultato se si riuscisse a incardinare al Senato una pdl prima della chiusura estiva”, commenta Giachetti. Ma Nordio ha già messo le mani avanti: al massimo si parla di “misure alternative”. La task force che se ne sta occupando, scrive. E “trarrà le sue conclusioni entro settembre 2025”. Carceri sovraffollate. Primo segnale di Nordio: “Pene alternative per 10mila detenuti” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 16 luglio 2025 Una task force del ministero della Giustizia valuterà entro settembre la fattibilità di interventi in favore dei reclusi con ancora due anni da scontare e che non abbiano avuto sanzioni disciplinari. In un’estate rovente, con il sovraffollamento carcerario ormai ben oltre la soglia di guardia, dal ministero di Giustizia si leva un primo segnale di fumo. Per ora si tratta di una ricognizione, nel senso che il dicastero fa sapere di aver accertato - dopo un “utile confronto” del Guardasigilli Carlo Nordio con la magistratura di sorveglianza - che “10.105 detenuti cosiddetti definitivi sono potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere”. Per questo, si legge in una nota, al ministero della Giustizia “è stata istruita una task force” che ha già attivato interlocuzioni con i giudici di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni. Una mossa per mettere a fuoco quella parte di popolazione carceraria che, senza dunque bisogno di nuove norme, sarebbe già in grado di scontare la pena residua con modalità alternative alla reclusione, come possono essere - in base alla legge - la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà o addirittura la liberazione anticipata. La “quarta gamba” del tavolo di interventi di Nordio - La mossa della ricognizione, viene spiegato da fonti ministeriali interpellate da Avvenire, punterebbe ad arricchire la strategia complessa di interventi pensati dal ministro per alleggerire le presenze strabordanti in quasi tutti i 189 istituti. Con quasi 63mila detenuti costretti in celle con 47mila posti effettivi, con un tasso di suicidi angosciante e dopo i ripetuti appelli levatisi da più parti - a partire dall’alto monito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella -, fra le mura di Palazzo Piacentini si è fatta strada la convinzione che si debba fare qualcosa in attesa che le altre strade da battere diventino concrete. “Una quarta gamba”, argomentano le fonti, da aggiungere alle tre del tavolo di interventi già ipotizzati dal ministro per sfoltire le carceri dal 15% di detenuti in attesa di giudizio; dal 25% (ma dati del 2024 ipotizzavano perfino il 40%) di persone con problemi di tossicodipendenza, da affidare a comunità terapeutiche; e dal 25% di stranieri, a cui far scontare la pena nelle rispettive patrie. Tutte soluzioni ancora solo sulla carta: nel primo caso, forse servirebbero aggiustamenti normativi; nel secondo, è in atto un’interlocuzione fra ministero e comunità per vagliarne la praticabilità; nel terzo, sarebbero indispensabili accordi bilaterali di cooperazione con diversi Stati (Romania, Albania, Tunisia, Nigeria e altri ancora) che però sono ancora in alto mare. Invece, la via dell’accelerata sulle pene alternative potrebbe costituire una prima concreta exit strategy per alleggerire l’attuale fardello, perché realizzabile a legislazione vigente. Il nodo politico da sciogliere: nessun “libera tutti” - Dopo le frizioni (soprattutto con la Lega, che non vuole sentire parlare di misure svuota carceri o libera tutti) di questa prima metà di legislatura, in via Arenula c’è consapevolezza di quanto sia delicato il tema per la “serena” tenuta dell’esecutivo. Per questo, spiegano fonti parlamentari, “intanto la priorità resta la riforma della separazione delle carriere” (in seconda lettura in Senato e col voto previsto per il 22 luglio), poi si valuterà sul piano politico pure questa via, sperando che risulti “digeribile” a tutte le forze di maggioranza. Nel frattempo, in via Arenula si starebbero piazzando tasselli utili a corroborare la strategia. Si valuterebbe, ad esempio, di aumentare gli organici dei magistrati di sorveglianza, che da anni lamentano di essere pochi a fronte di montagne di casi da vagliare. Inoltre, nel caso di detenuti da assegnare ai domiciliari, spesso manca una abitazione presso cui scontare la pena. D’intesa con gli enti locali, si studiano soluzioni: sempre ieri, ad esempio, Nordio ha stanziato due milioni di euro per la Regione Abruzzo, con l’obiettivo “di avviare percorsi di orientamento, formazione e housing sociale delle persone sottoposte a misura penale esterna o in uscita dagli istituti penitenziari” e di “attivare una rete per favorirne il reinserimento socio-lavorativo”. Il conteggio riguarda “chi ha pene residue sotto i due anni” - Ma, in concreto, quale sarebbe l’identikit dei diecimila censiti dal ministero? A che livello sarebbe stata fissata l’asticella? La nota puntualizza che si tratta dei “detenuti definitivi con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi - di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario - e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi”. La cifra sarebbe stata calcolata, come detto, dopo un confronto coi giudici di sorveglianza, in grado di valutare le singole situazioni e i relativi fascicoli personali. La task force, insediatasi ieri, “si riunirà con cadenza settimanale e trarrà le sue conclusioni entro settembre 2025”. Vedremo quali saranno. Via Arenula ci prova: 10mila detenuti potrebbero beneficiare di misure alternative di Valentina Stella Il Dubbio, 16 luglio 2025 Il ministero della Giustizia riunisce tribunali di sorveglianza e Dap per istituire una task force. Si aprono le porte del carcere, ma niente amnistia né indulto: “Serve valutazione caso per caso”. L’emergenza carceraria non può essere più ignorata dal governo. Per questo oggi c’è stata una riunione a Via Arenula in cui ministero della Giustizia, Dap e i ventisei presidenti dei tribunali di sorveglianza di tutta Italia si sono riuniti per fare il punto della situazione e valutare in un’ottica di collaborazione interistituzionale eventuali soluzioni per alleggerire la popolazione carceraria. Secondo una nota del dicastero, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha accertato che 10.105 detenuti cosiddetti definitivi (6079 italiani, 4026 stranieri) - con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi - sono potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere. Di conseguenza, al ministero della Giustizia è stata istituita una task force che ha già attivato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni. Il gruppo, insediato oggi, si riunirà con cadenza settimanale e trarrà le sue conclusioni entro settembre 2025. Quello che bisogna accertare, ad esempio, è se questi reclusi che potenzialmente potrebbero uscire dal carcere hanno presentato una domanda di “scarcerazione”, oppure se la stessa è ancora sulla scrivania dei magistrati di sorveglianza perché la pratica non è stata ancora esitata, o se hanno o meno un domicilio dove scontare la misura alternativa. Insomma occorre effettuare quella che potremmo definire una discovery della loro posizione e agire di conseguenza. Al momento il sovraffollamento carcerario è intorno al 130 per cento e secondo il dossier di Ristretti Orizzonti quest’anno i suicidi negli istituti di pena sono stati 41, ai quali si aggiungono 33 decessi da accertare. L’ultimo oggi in ordine di tempo a Frosinone, dove è morto il giovane tossicodipendente di 30 anni che venerdì scorso aveva tentato di togliersi la vita. Se questi poco più che diecimila reclusi uscissero dal carcere, il problema dell’overcrowding sarebbe risolto. Dunque qualcosa si muove, non si può più rimanere inermi davanti a quello che Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, continua a chiamare “stato di illegalità delle nostre carceri”. Tuttavia la posizione del guardasigilli Nordio è chiara: nessuna amnistia, nessun indulto, né tantomeno un via libera alla proposta di legge per la liberazione anticipata speciale proposta dal deputato di Italia viva, Roberto Giachetti. Il ministro lo ha ribadito durante il question time al Senato della scorsa settimana: “Nel luglio 2006, con il governo Prodi, la popolazione detentiva era pari a 60.710 detenuti, più o meno quella di adesso; con l’indulto del 2006 fu rimesso in libertà il 36 per cento dei detenuti. Ebbene, già nel febbraio 2008, quindi un anno e mezzo dopo, le presenze detentive erano aumentate nuovamente a 51.195 e, nel luglio 2009, a 63.400. Quindi erano più di quelle che c’erano al momento dell’indulto. Tra l’altro è stata registrata una recidiva pari al 48 per cento, secondo dati ufficiali. Una liberazione lineare, non effettuata attraverso una valutazione caso per caso delle singole posizioni, non significa nulla”. Ora bisogna porsi alcune domande. La prima: quando ci saranno i primi frutti di questa iniziativa? La scelta di far sedere tutti intorno ad un tavolo è sicuramente meritoria e probabilmente risponde anche ai recenti richiami del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella che aveva parlato di “grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento” e “drammatico” numero dei suicidi ormai divenuti una “vera e propria emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Sicuramente appena i detenuti sapranno di questo incontro psicologicamente avranno una iniezione di positività rispetto al loro futuro. Tuttavia bisogna fare presto. La seconda domanda è: questo importante passo avanti del ministero della Giustizia potrebbe frenare eventuali iniziative parlamentari volte a deflazionare la popolazione carceraria? Come anticipato in questi giorni, non si escludeva, sotto la guida del presidente del Senato Ignazio La Russa, la possibilità di lavorare ad un testo di natura politica trasversale che potesse accogliere con opportuni correttivi la proposta di Giachetti. Adesso cosa accadrà? La strada parlamentare si fermerà per non incrociarsi con quella governativa? Emergenza carcere: il Cnf lancia una rete nazionale di avvocati di Francesca Spasiano Il Dubbio, 16 luglio 2025 L’obiettivo è affrontare le criticità del sistema carcerario in maniera sistemica, per fermare suicidi e sovraffollamento. Greco: “Situazione insostenibile”. Costruire una rete nazionale di avvocati capace di affrontare in modo sistemico le criticità dell’esecuzione penale e del mondo penitenziario, con un faro puntato sull’emergenza suicidi e sovraffollamento. È l’obiettivo da cui parte il “cantiere” aperto dal Consiglio nazionale forense, dove ieri si è tenuto un primo incontro operativo promosso dalla sua Commissione per le persone private della libertà personale. Vi hanno preso parte i referenti per il carcere degli Ordini territoriali, chiamati a raccolta per rilanciare l’azione dell’avvocatura nel sistema penitenziario. Quella istituzionale, spiega il presidente del Cnf Francesco Greco, “deve dare risposte concrete per contribuire a risolvere un’emergenza insostenibile: dal sovraffollamento con oltre 10 mila detenuti in più rispetto alla capienza massima delle carceri italiane e un trend costante di suicidi inammissibile, già 38 dall’inizio dell’anno”. Con l’ultimo, tragico, caso registrato oggi a Frosinone, dove un detenuto di 30 anni è morto in ospedale dopo aver tentato di togliersi la vita venerdì scorso. “Tutti gli avvocati - sottolinea Greco - devono essere in prima linea per garantire tutela della salute, socialità, trattamento ed affettività in carcere. Umanizzare la pena, difendere le garanzie, ricostruire il senso della giustizia: è questa la strada obbligata per uno Stato di diritto”. Lo scopo dell’iniziativa è soprattutto culturale, nell’ottica di diffondere i principi posti a tutela dei diritti e riportare la pena nei binari della Costituzione, garantendone il fine rieducativo. Ma con l’intenzione di ottenere anche un risultato tangibile e duraturo nel tempo, rafforzando la presenza dell’avvocatura su tutto il territorio nazionale, come presidio giuridico e civile posto a tutela della dignità di chi è ristretto in carcere. All’interno delle istituzioni preposte, e in tutte le fasi: dai procedimenti davanti al Tribunale di Sorveglianza, istituendo Osservatori distrettuali per velocizzare l’esame delle istanze e rafforzare il diritto di difesa, fino ai tavoli regionali per la sanità penitenziaria. In questa direzione fa scuola l’esempio del Veneto e dell’Umbria, dove i rappresentanti dell’avvocatura già operano nei tavoli interistituzionali. Individuare e diffondere le buone prassi, d’altronde, è proprio l’obiettivo del fare rete, spiega Francesca Palma, coordinatrice della Commissione Cnf che si occupa del tema. “Lo Stato non può chiedere legalità se è il primo a violarla, come avviene oggi nelle carceri sovraffollate e inadeguate”, è la denuncia della consigliera Cnf. Per la quale non bisogna stancarsi di ribadire che “le pene, per Costituzione, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un primo effetto consiste proprio “nell’esportare la tutela dei diritti anche nel campo carcerario”, senza dimenticare i risultati positivi documentati dai dati: ovvero l’abbattimento della recidiva laddove sono applicate misure alternative. Sul fronte del sovraffollamento carcerario, Palma si dice favorevole ad eventuali misure e sconti di pena con valutazione premiale che possano contribuire tempestivamente ad alleggerire le celle sempre più zeppe. In un quadro di degrado che rischia di riportare l’Italia a quelle condizioni di detenzione già denunciate dalla Cedu con la sentenza Torreggiani del 2013. “A 50 anni dalla riforma penitenziaria, viviamo un’emergenza cronica, aggravata da sovraffollamento, mancanza di personale e un approccio repressivo al disagio sociale. L’80% dei detenuti proviene da situazioni di grave marginalità: servirebbero politiche sociali, non solo penali. Ma c’è anche un dato che dà speranza: il 98,92% di chi ha avuto accesso a misure alternative ha rispettato le regole. Non possiamo rassegnarci ad un futuro in cui, per usare le parole di Filippo Turati di cento anni fa, i luoghi di detenzione in Italia debbano essere definiti come cimiteri dei vivi”, spiega Leonardo Arnau, componente della Commissione Cnf. Intervenuto ai lavori di lunedì per tracciare un bilancio alla presenza dell’avvocatura riunita a Roma attraverso i referenti e i vertici dei Coa che hanno preso parte all’incontro. Al momento sono già cento gli Ordini che hanno nominato propri referenti per le carceri e 24 quelli dotati di una commissione dedicata. Il Cnf ora punta ad estendere questo modello e a renderlo stabile, con commissioni autonome ma coordinate, capaci di rispondere alle specificità locali sulla rotta tracciata dalle linee guida nazionali. La Commissione del Cnf ne ha individuate 15, che saranno presto diffuse a tutti gli Ordini forensi per armonizzare l’azione degli avvocati nei territori. Tra le priorità si segnala il monitoraggio costante delle condizioni detentive e sanitarie, con un’attenzione rivolta alle scoperture di organico e alle difficoltà logistiche nella realizzazione dei programmi rieducativi. E ancora: protocolli per la prevenzione dei suicidi, l’uniformità nei colloqui difensore-detenuto, il diritto all’affettività, l’inclusione sociale, e il rafforzamento delle misure alternative. Sul piano operativo, le proposte includono convenzioni con imprese per l’inserimento lavorativo, sportelli per i diritti (dall’anagrafe all’INPS), percorsi di reinserimento anche attraverso borse-lavoro. Tutti strumenti concreti per restituire dignità e garantire reali opportunità a chi è privato della propria libertà, affinché possa ritrovare uno spazio dentro la comunità. Sul carcere sto col mio avversario Alemanno di Walter Verini* Il Dubbio, 16 luglio 2025 La battaglia contro la condizione disumana in cui versano le carceri italiane, condizione nella quale si trovano oltre 62.000 persone detenute (su una capienza di circa 48.000 posti) nella quale lavorano migliaia di agenti di polizia penitenziaria, anch’esse in situazioni di grave disagio e stress, ha conosciuto una tappa civile e significativa. È accaduto sabato scorso nel carcere di Rebibbia, per merito di Nessuno tocchi Caino, l’Associazione guidata da Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti. Una decina di parlamentari, di quasi tutti i gruppi, sono entrati nel carcere, per partecipare - insieme a una ventina di detenuti ad una seduta del laboratorio che l’Associazione promuove e gestisce in alcune carceri italiane. Sono successe cose importanti, che hanno consentito tra l’altro a Rita Bernardini di sospendere lo sciopero della fame, in attesa di risposte (concrete e urgenti: umane) contro il sovraffollamento e la drammatica, esplosiva situazione degli istituti di pena. Tutti i parlamentari presenti (di maggioranza e di opposizione) hanno mostrato ed espresso disponibilità in questa direzione, a partire dal testo che è già sul tavolo: quello di Roberto Giachetti, sulla liberazione anticipata speciale. Il testo sta alla Camera, speriamo riesca a camminare. Ma - ci siamo detti anche con Roberto - se al Senato, per diversi motivi, ci fosse la possibilità di procedere più speditamente, avanti, lo si faccia. Purché si faccia tutto il possibile, presto. Uno dei ‘ diversi motivi’, senza dubbio, potrebbe essere quello delle posizioni espresse dal Presidente La Russa, parole di apertura e disponibilità. Che sono venute dopo quelle, di grande responsabilità e autorevolezza, dello stesso Presidente della Repubblica. E insieme a quelle, ripetute, delle Camere Penali e in questi giorni della stessa ANM. Anche il Vicepresidente del CSM Pinelli ha voluto aggiungere la sua voce. Insomma, al quotidiano, disumano, esplosivo bollettino che viene dalle celle, si sono aggiunte con inconsueta sincronia voci importanti, di cui la mattinata di sabato al Laboratorio di Nessuno tocchi Caino é stata tappa rilevante. Certo, guai a dispensare illusioni. Questo lo abbiamo detto ai detenuti. Il dibattito politico, anche quando animato da buona volontà, può non giungere ad esiti positivi. E illudere chi si trova a vivere in una condizione bestiale, non può, non deve essere consentito. Può produrre conseguenze pericolose e comunque ingiuste. Le scene di sovraffollamento sono al di là del bene e del male. Come i suicidi. Da ultimo, le abbiamo viste venerdì scorso a Rieti, dove invece di 280 detenuti ce ne sono il doppio e invece di 190 agenti di polizia penitenziaria ce ne sono 119! Rieti, dove operano con grande dedizione la direttrice e la Comandante della Polizia Penitenziaria, insieme alle donne e agli uomini del Corpo, è una delle tante, troppe, situazioni di disagio, di vergogna. Una cosa, tutti, abbiamo assicurato a Rebibbia: ci proveremo. Tra i detenuti c’era una faccia nota. Quella di Gianni Alemanno. I suoi appelli e le sue iniziative hanno avuto lo spazio che meritavano. Due senatori PD Fina e Sensi - nei giorni scorsi avevano letto in aula i suoi scritti, le sue lettere- appello che hanno scosso la politica e le istituzioni. Nel nostro intervento a Rebibbia gli abbiamo riconosciuto un merito importante: questa battaglia, Alemanno, non la conduce per sé. Se passasse qualche provvedimento, non potrebbe quasi certamente usufruirne, per diversi motivi. Sta facendo una battaglia politica - per tutti - e davanti ai suoi compagni ristretti gliene abbiamo voluto dare atto. A lui, avversario politico, che davanti a queste parole si è voluto alzare, per un abbraccio che ricorderò. Ora dobbiamo procedere. Le nostre parole e quelle, certamente di maggior peso, del Presidente del Senato) possono, debbono diventare fatti. Vediamo quali potranno essere, nel solco della proposta Giachetti. Ma sarebbe troppo colpevole non fare quello che si può e si deve. Quei 40 gradi, lì dentro, in celle invivibili, troppo spesso senza acqua, non possono essere sopportate. Certo, una forma di liberazione anticipata risolverebbe solo in parte i problemi. Occorre anche mandare migliaia di malati, tossicodipendenti reclusi in comunità, a curarsi. E occorre dare vita, subito, immediatamente a corsi di formazione finalizzati al lavoro, nei settori agricoli, industriali, del turismo, dell’artigianato, dell’edilizia, nei quali c’è una domanda di manodopera formata e preparata. La pena, per chi sbaglia, deve essere certa. E magari alternativa. Il carcere è una extrema ratio. Ma anche la detenzione in carcere non deve essere vendetta, afflizione. Chi paga, con una pena, il suo debito con la società deve - umanità e Costituzione alla mano - essere recuperato e reinserito. Quasi sicuramente non tornerà a commettere reati. *Senatore Pd “Il sovraffollamento carcerario ormai è intollerabile. Il decreto Carcere Sicuro ha fallito” di Andrea Sparaciari La Notizia, 16 luglio 2025 Parla il vicesegretario dell’Anm Stefano Celli, che attacca il governo Meloni: “In carcere non sono garantiti i diritti umani dei detenuti”. Un documento pesantissimo contro le (non) politiche del governo Meloni su sovraffollamento carcerario. È quello sottoscritto all’unanimità il 12 luglio scorso dalla giunta dell’Anm. Abbiamo chiesto al magistrato Stefano Celli, vicesegretario generale Anm, di spiegarci perché questo atto tanto deflagrante. Celli, cosa dicono i documenti licenziati dall’ultimo Comitato direttivo dell’Anm? “L’Anm ha messo a fuoco i problemi principali, individuato le maggiori criticità, suggerito soluzioni. La vera emergenza è, oggi, il sovraffollamento intollerabile. Peggiora drammaticamente le condizioni di vita, impedisce il trattamento, cioè il sostegno all’opera di rieducazione, finalità principale della sanzione penale”. Esiste un problema di organici? “L’organico dei magistrati di sorveglianza è assolutamente insufficiente: sono appena 250 per oltre 60mila detenuti. Inoltre, gli addetti all’ufficio per il processo, risorse aggiuntive previste dal PNRR, sono stati indirizzati a tribunali e corti d’appello. Questi hanno smaltito arretrato e, di conseguenza, hanno aumentato il carico degli uffici di sorveglianza…”. Però l’esecutivo ha promesso di intervenire… “Ora il Governo afferma che destinerà gli addetti anche alla sorveglianza, ma si tratta di una misura inefficace e tardiva: quelli stabilizzati o comunque assunti saranno meno della metà di quelli previsti dal PNRR e gli uffici destinatari sono aumentati, sicché l’aiuto che la sorveglianza riceverà sarà assolutamente modesto”. Come Anm avete denunciato anche l’immobilità seguita al decreto Carcere sicuro, perché? “Aumentano i reati e si aggravano le pene esistenti. Un anno fa il decreto Carcere sicuro aveva previsto, fra l’altro, l’aumento del personale, la creazione entro sei mesi di un albo delle strutture destinate a ospitare condannati meritevoli di misure alternative ed è stata anche modificata la disciplina della liberazione anticipata. Dopo un anno non c’è traccia dell’albo, le carenze di organico sono state intaccate solo per il personale civile, la disciplina della liberazione anticipata ha reso complicata e incerta la decisione. La proposta dell’on. Giachetti che ampliava la liberazione anticipata è oggi l’unico strumento concreto per abbassare pressione e temperatura nelle carceri. Il Governo, però la respinge con tutte le sue forze, ritenendola diseducativa. Ma cosa c’è di educativo in uno Stato che non garantisce il rispetto dei diritti umani ai detenuti?” Lei ha sta partecipando a uno sciopero della fame a staffetta per chiedere soluzioni all’emergenza carcere. Perché? “A distanza di ormai due anni dai primi allarmi sul carcere e sulle condizioni dei detenuti, la politica non riusciva a muovere alcun passo concreto in avanti, abbiamo pensato di impegnare “il nostro corpo”. Tutti avevamo partecipato a convegni, rilasciato interviste, scritto pareri, fatto proposte. Qualche risposta, timida, qualche accenno, a volte anche dalla maggioranza, ma in concreto nessuna misura concreta, neppure l’inizio di una discussione. E allora abbiamo capito che dopo il cuore e la mente occorreva impegnare il corpo. Hanno aderito ad oggi più di 250 fra avvocati e magistrati, professori, studenti, comuni cittadini. Ora è la politica che deve fare la sua parte”. “Anche al 41 bis il detenuto può vedere la donna che gli vuole bene” di Michela Allegri Il Messaggero, 16 luglio 2025 I giudici: “Bilanciare le esigenze di affettività del detenuto e quelle di sicurezza”. Il caso di Davide Emmanuello, capoclan di Cosa nostra, dietro le sbarre dal 1993. Una corrispondenza durata 17 anni, migliaia di lettere che nel corso del tempo sono diventate sempre più affettuose, un rapporto che, parola dopo parola, si è trasformato in una vera e propria storia d’amore tra una donna e un boss di Cosa Nostra, detenuto in regime di 41 bis. Ora la Cassazione ha stabilito che i due si potranno incontrare: Davide Emmanuello, assistito dagli avvocati Valerio Vianello Accorretti e Lisa Vaira, ha vinto una delle sue battaglie contro il carcere duro, al quale è costretto dal 1993. L’ex capoclan di Gela, oggi sessantenne, si è visto riconoscere il diritto ad avere un colloquio di persona con Clare Holme, 55 anni, con la quale ha stabilito una relazione epistolare che si è trasformata in un rapporto sentimentale. I giudici hanno respinto il ricorso del ministero della Giustizia che, con il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e la casa circondariale di Sassari, si era opposto alla decisione del Tribunale di sorveglianza che aveva accolto l’istanza di Emmanuello, dopo che si era visto negare dal direttore del carcere l’incontro con la fidanzata. Per i giudici prevale “il diritto all’affettività” e, in questo caso, non ci sono rischi concomitanti. La sentenza della Cassazione parla della necessità di “operare il consueto giudizio di bilanciamento, in concreto, tra le esigenze di affettività del soggetto ristretto e quelle di sicurezza pubblica, le quali, laddove ritenute prevalenti, non consentono di soddisfare tale diritto”. E ancora: è già stato “dimostrato che esiste un legame epistolare e sentimentale che assolve ad una funzione meritevole di essere presa in considerazione, anche in vista della progressione trattamentale rispetto al detenuto, che è tale dal 1993”. Un dettaglio importante è l’”estraneità della donna a contesti di criminalità organizzata”. Nella relazione tra il detenuto e la Holme, inoltre, non sono state riscontrate criticità e le lettere che i due si sono scambiati per anni sono state giudicate innocue, tanto da non essere state trattenute. Il 31 gennaio scorso il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha accolto il reclamo presentato da Emmanuello contro l’ordinanza del magistrato di Sorveglianza di Sassari che, il 12 marzo 2024, aveva respinto l’impugnazione “contro il diniego della direzione della casa circondariale di Sassari all’istanza di autorizzazione ad effettuare un colloquio visivo con la signora Claire Holme, con la quale il detenuto intrattiene un rapporto epistolare dal 2008 e una relazione sentimentale”. Il tribunale di Sorveglianza ha ritenuto “privo di ragionevolezza il diniego della direzione”, tenendo conto della “riconducibilità al diritto all’affettività dei colloqui visivi con persona con la quale vi sia un legame affettivo” e anche della “condizione soggettiva del detenuto”. Per la Cassazione, a fronte “della possibilità di prevedere, in casi eccezionali, i colloqui con persone diverse dai familiari, il Tribunale si è fatto, correttamente, carico di valutare anche la sussistenza di eventuali esigenze di sicurezza che sono state ritenute non configurabili”, tenuto conto dell’estraneità della donna a contesti di criminalità organizzata e della mancanza di criticità della relazione tra detenuto e la Holme, “per come risultante dal parere della Dda”. In particolare, i giudici hanno considerato la figura della donna “e il suo attivismo per i detenuti”. Italo britannica, di Modena, la Holme è da sempre impegnata in progetti di reinserimento. “Con Davide ci scriviamo dal 2008 e solo qualche anno fa mi disse di usare strumenti per dimostrare la sua innocenza. È stata una grande emozione riuscire a vederlo per la prima volta lo scorso maggio, quando per due ore abbiamo potuto dirci quanto ci vogliamo bene. L’ho conosciuto perché facevo parte di varie associazioni per il reinserimento dei detenuti in carcere. Quando l’ho visto ho pensato alla speranza”, ha raccontato. Dieci anni prima il boss scriveva: “Non incontrare nessuno significa non parlare con nessuno. Non parlare con nessuno significa che nessuno riceve le mie parole. Non parlare per vent’anni con nessuno porta solo a uno stato d’isolamento che non può conciliarsi con la logica di un capo al comando”. Per Emmanuello non si tratta della prima battaglia contro il 41 bis. Più di dieci anni fa aveva polemizzato, facendo parlare di sé, quando gli era stata vietata la lettura del romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco, in dotazione alla biblioteca del carcere: era ritenuto pericoloso per via della copertina rigida. Nel 2015, invece, in una lettera aveva citato Aristotele, spiegando che “tra la verità e l’errore c’è uno spazio intermedio dominato dal verosimile, dall’incerto, dall’opinabile”. Alludeva alla sua innocenza. Sono passati dieci anni e resta al 41 bis per scontare le sue pesanti condanne: i giudici continuano a ritenerlo pericoloso. 41 bis. Zagaria, Bagarella e Lioce. Tra i 733 al “carcere duro” i registi di stragi e terrorismo di Valeria Di Corrado Il Messaggero, 16 luglio 2025 Solo il nome fa paura. Il 41-bis, detto anche “carcere duro” è un regime detentivo speciale applicato agli appartenenti ad organizzazioni criminali, terroristiche o eversive, “in presenza di gravi motivazioni di ordine e sicurezza pubblica”. Comporta una drastica riduzione dei contatti con il mondo esterno, rispetto al regime carcerario ordinario, per “spezzare il vincolo associativo”. Secondo l’ultimo report del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, aggiornato al 29 maggio 2025, ci sono 733 persone dislocate nelle 12 sezioni 41-bis presenti in Italia. Si è assistita a una lenta e progressiva crescita negli anni, considerato che nel 1993 erano 473. Questo perché il numero delle revoche del “carcere duro” è significativamente inferiore rispetto ai nuovi ingressi. Così come elevato è il numero di rinnovi automatici del provvedimento. Secondo il Garante nazionale, non sono poche le persone che si trovano al 41-bis da più di vent’anni. Altrettante quelle che scontano l’intera condanna al “carcere duro”, mentre gli ergastolani sottoposti al regime speciale sono meno del 30%. Il 10 aprile scorso, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante per aver prorogato il 41-bis a un novantenne, mafioso e a lungo latitante, affetto da una degenerazione cognitiva progressiva. Per quanto riguarda l’affiliazione dei detenuti al 41-bis, in base ai dati pubblicati dal Ministero della Giustizia e aggiornati all’11 dicembre 2023, 203 reclusi appartengono alla Camorra, 209 alla Ndrangheta, 205 a Cosa nostra, 25 alla mafia pugliese, 22 alla mafia siciliana, 19 alla Sacra corona unita, 5 alla Stidda, 4 alla mafia lucana, 3 ad altre mafie e 4 al terrorismo (interno e internazionale). Per mesi è stato sulle prime pagine dei giornali lo sciopero della fame di Alfredo Cospito - durato 182 giorni, dal 20 ottobre 2022 al 19 aprile 2023 - per protestare contro il regime detentivo. L’anarchico, condannato per l’attentato alla ex caserma allievi carabinieri di Fossano del 2006 a 23 anni, si trova nel carcere di Sassari al 41-bis. “Regime che prevede che per 21 ore al giorno sei recluso in una cella di tre metri per tre, con un cubicolo dove svolgere la socialità con un gruppo di tre persone scelte dall’amministrazione penitenziaria e che cambia continuamente - spiega il suo legale, l’avvocato Flavio Rossi Albertini - Cubicolo che si incendia d’estate, visto che la struttura è sotto il livello del mare, e da dove il cielo si vede a scacchi perché è sovrastato da una rete. Non può ricevere visite se non da parte della sorella che una volta al mese deve recarsi da Viterbo alla Sardegna”. Nello stesso carcere, recluso con lo stesso regime, c’è Leoluca Bagarella, il boss dei Corleonesi, cognato di Salvatore Riina, stragista, autore di svariati omicidi, donne e bambini compresi. Trascorre l’ora d’aria da solo (ne fa tre ore al giorno), in una stanza in cui ha a disposizione una cyclette, un vogatore e un tavolo. Al 41 bis anche l’ex esponente delle nuove Brigate rosse, Nadia Desdemona Lioce, che sta scontando tre ergastoli nel carcere dell’Aquila per aver partecipato agli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi, e per quello del poliziotto Emanuele Petri. Recentemente le è stato impedito di avere una corrispondenza con gli altri brigatisti. Mentre lo scorso marzo è stato respinto il ricorso del boss dei Casalesi Michele Zagaria contro la proroga del 41-bis. Secondo la Cassazione, “Capastorta” è ancora il “capo assoluto della cosca omonima, ancora operativa”. Carriere separate, il Senato dice sì a sorteggio e due Csm di Valentina Stella Il Dubbio, 16 luglio 2025 Il Senato avanza nella riforma della giustizia, mentre le opposizioni denunciano pericoli per l’autonomia della magistratura. Crescono in aula le tensioni politiche. Il Senato ha approvato ieri l’articolo 3 del ddl sulla separazione delle carriere, che prevede da un lato la creazione di due Consigli superiori della magistratura, uno per i magistrati inquirenti ed uno per quelli giudicanti, e dall’altro la modalità del sorteggio per i membri togati e laici. Oggi riprenderà l’esame del provvedimento, in particolare degli emendamenti all’articolo 4 che invece istituisce l’Alta corte con competenze disciplinari sui magistrati. Il voto finale dovrebbe essere martedì 22 luglio. Si tratterebbe del secondo dei quattro voti richiesti dal disegno di legge costituzionale. È quanto emerso dalla conferenza dei capigruppo che si è riunita sempre ieri a Palazzo Madama. In particolare, al termine della riunione il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, ha spiegato che lo slittamento del voto alla prossima settimana è frutto di un’intesa raggiunta tra i gruppi parlamentari, dopo la richiesta di alcuni. Il presidente La Russa ha accettato, pur essendo a buon punto l’esame del ddl. Perciò da oggi proseguirà la discussione, mentre tra meno di una settimana ci saranno le dichiarazioni di voto e il voto finale. “Per noi è una riforma che ha un appuntamento con la storia e non con la cronaca, quindi non saranno 4 giorni a modificare la sostanza della questione”, ha concluso Gasparri. Di parere opposto invece le minoranze parlamentari. Secondo la senatrice del Partito democratico Enza Rando, “la riforma proposta dal governo non è una vera riforma della giustizia: è una vendetta. Un attacco diretto all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, travestito da intervento tecnico”. Mentre per il capogruppo dell’Alleanza verdi e sinistra Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo Misto di palazzo Madama, “il disegno di legge costituzionale della destra sulla separazione delle carriere non è migliorabile e si inserisce perfettamente nella logica degli attacchi sistematici nei confronti dei magistrati. Separando le carriere, la forza del blocco unico dell’ordine giudiziario si indebolisce”. Non sono ovviamente mancate critiche da parte del senatore del M5S Roberto Cataldi: “Tutte le volte che si è parlato di separazione delle carriere è successo in concomitanza con qualche procedimento giudiziario. La questione è iniziata con Berlusconi sotto processo; è andata avanti con Salvini sotto processo; ora, questa è stata una vendetta ancora più sottile”. Non vi diamo conto delle posizioni della maggioranza in quanto, come accaduto già altre volte, nessuno dei senatori di Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia è intervenuto durante la seduta. Come vi abbiamo già raccontato, sono le opposizioni ad aver presentato oltre 1000 emendamenti e molto del tempo viene impiegato per l’illustrazione degli stessi. Insomma, nulla di nuovo sotto al cielo. Pd, M5S, Italia Viva e Avs, al termine della riunione dei capigruppo in Senato, hanno anche chiesto a gran voce che i ministri Carlo Nordio, Giancarlo Giorgetti e Alessandro Giuli vadano in Aula a riferire. Al ministro della Giustizia si è chiesto di rispondere sul caso Almasri, a quello dell’Economia di riferire in merito ai dazi americani che incombono, mentre al titolare del Mic si è chiesto di rendere conto di alcune vicende, non da ultime le nomine nell’ambito dei Musei. “Ovviamente non c’è nessuna risposta”, il commento del capogruppo Pd in Senato Francesco Boccia che ha ironizzato su guardasigilli che “verrà invece in aula per una pessima riforma costituzionale”. “Nordio, a prescindere dal percorso della separazione delle carriere, deve venire a chiarire quanto emerso, dobbiamo capire chi ha mentito al Parlamento. Il fatto che fugga, che trovi ogni scusa per non dare risposte al Parlamento lo riteniamo un fatto molto grave che va stigmatizzato, con determinazione”, ha aggiunto la capogruppo di Iv Raffaella Paita. In uno Stato liberale creare un “Super- pm” è un grave errore e non bilancia il processo di Marco Patarnello* Il Dubbio, 16 luglio 2025 Sta per chiudersi l’approvazione - in prima lettura- della riforma costituzionale. Si chiude senza dibattito parlamentare e con uno scontro culturale privo di qualsiasi effettivo confronto. Stiamo per cambiare profondamente la nostra raffinata Costituzione senza avere neppure chiaro quali siano gli obiettivi e se la riforma possa effettivamente perseguirli. Quali siano i costi. Quali i benefici. Certo, abbiamo sentito molti slogan: eliminare le correnti, separare le carriere, spoliticizzare la magistratura. Ma le riforme costituzionali non si fanno con gli slogan, si fanno con gli argomenti, con i confronti anche ruvidi, ma approfonditi. Tanto più che - se le cose andranno come sembra- l’ultima parola dovranno dirla i cittadini, con il referendum. Ma se continuiamo con questo chiasso indistinto, con questo scontro fazioso fatto solo di slogan, sulla base di cosa si esprimeranno i cittadini? Questa riforma si compone di tre fronti: Sorteggio, Super- pm e Alta Corte Disciplinare. Li trovo tutti terribilmente sbagliati e pericolosi, ma oggi vorrei occuparmi solo di quello che ai miei occhi è il peggiore, quello che segna un arretramento culturale senza ritorno. Mi riferisco alla creazione di questo Super- pm, interamente concentrato su se stesso, con una missione da puro accusatore, che si autopromuove e si autogiudica attraverso un Csm tutto suo, una sua deontologia, una sua etica, una sua valutazione di professionalità. E che, pur in questa posizione, esercita l’azione disciplinare verso i giudici. Questo è il dato saliente di questa parte della riforma, non la separazione delle carriere, che da tempo è già legge e sulla quale non voglio spendere una parola. I pubblici ministeri nel nostro paese sono meno di un quarto dell’intera magistratura, all’incirca duemila. Tacerò dei costi spropositati che la creazione di un altro Csm - per sole duemila unità- inesorabilmente produrrà: se fosse una riforma necessaria o almeno utile i costi sarebbero benedetti; ad avercene di soldi per la giustizia! Oggi la carriera di questi duemila pubblici ministeri la amministra un Csm di giudici: su 20 magistrati che compongono il Csm solo 5 sono pm. Con questa riforma, invece, i pubblici ministeri amministreranno da soli la loro carriera. Come può questo cambiamento non determinare una maggiore autoreferenzialità, una maggiore cultura dell’accusa, un’esaltazione della logica di parte e del risultato, in danno della cultura del rispetto delle regole e dei diritti? Capirei il senso di questa riforma se l’obiettivo da raggiungere fosse quello di rafforzare il dinamismo investigativo, se chi la propone ci dicesse che il problema della giustizia italiana è quello di avere dei pubblici ministeri troppo “timidi”, poco incisivi, incapaci di perseguire il crimine: vogliamo pm più “agguerriti” di quelli attuali. È questo che i proponenti pensano? Non mi pare l’obiettivo verbalizzato da chi propone o sostiene questa riforma. Tutt’altro. Chi la propone sembra ritenere che oggi il processo penale sia interamente sbilanciato sul pm. Dunque la riforma dovrebbe essere la soluzione a questo sbilanciamento. Ma non è così. Da un lato questa soluzione esalta alcuni aspetti molto delicati del ruolo e della collocazione del pm, ma dall’altro non tocca nessuno dei punti che determinano il sovradimensionamento del pm, tutti interamente legati al rapporto indagini preliminari/ processo penale. Evidentemente non è questa la sede per affrontare ragionamenti intorno al processo o discutere di diritto, ma se vogliamo affrontare il toro per le corna e vogliamo farlo con lealtà, in buona fede e senza danneggiare i cittadini, questi sono i temi da affrontare, non questa riforma costituzionale. Conosco le obiezioni a queste osservazioni. Quelle in buona fede e quelle meno. Si ritiene accettabile perdere qualcosa in punto di affidabilità del pm, sperando di recuperarla nella maggiore affidabilità del giudice. Il giudice oggi è già affidabile nella sua capacità di smentire il pm e se avessimo la serenità di ragionarne intorno ai dati potremmo agevolmente concordare che non è questo il problema. Non è l’assenza di terzietà del giudice il problema della giustizia italiana, ma questa è solo la mia opinione. Non so se un pm più aggressivo, invadente e concentrato sul ruolo di accusatore possa far piacere a qualcuno. Ma a chi in buona fede crede che i cittadini possano trarre beneficio da questo cambiamento ricordo che il pm è il primo magistrato con cui il cittadino inquisito si trova ad avere a che fare e - a meno di provvedimenti cautelari- per lungo tempo resterà anche l’unico magistrato con cui il cittadino indagato avrà a che fare. Mentre se non si sciolgono i nodi processuali cui alludevo, l’ingombro del pm che si afferma di voler contrastare resterà intero ed anzi esaltato da questa riforma: pronto per passare alla tappa successiva! Posso capire che una politica di corto respiro pensi di guadagnarci, ma l’Avvocatura è davvero tutta quanta convinta di condividere questo interesse? *Magistrato Guardate i fascicoli impilati nelle procure: la digitalizzazione si è impallata di Milena Gabanelli Corriere della Sera, 16 luglio 2025 Basta entrare in un ufficio di una qualunque procura italiana per avere un’idea delle dimensioni, in termini di quantità di carte, di ogni singolo procedimento. Centinaia di faldoni con dentro migliaia di atti stipati negli armadi a muro, appoggiati sui tavoli, sugli scaffali, per terra. Fascicoli che vanno e vengono da un ufficio all’altro, dall’aula di un tribunale all’altra. Per eliminare questa montagna di carte si comincia a informatizzare nel 2019. L’appalto è affidato dal ministero della Giustizia alla Sirfin Pa, una piccola Srl del gruppo Accenture, per una durata di 60 mesi più 12. Si tratta di un contratto quadro da 100 milioni, ma per sapere quanto di questa cifra è specificatamente dedicata alla digitalizzazione del processo penale occorrerebbe guardare dentro ogni singolo applicativo. Impossibile: l’appalto è secretato. Dal 2021 la riforma della giustizia è diventata una componente cruciale per ottenere i fondi del Pnrr. In quel momento Marta Cartabia è ministro della Giustizia. Accanto agli interventi normativi e strutturali per rendere il processo più efficiente e rapido, c’è la transizione digitale, ovvero la gestione elettronica obbligatoria di tutti i documenti e la digitalizzazione dei procedimenti penali di primo grado. Sappiamo dunque che la digitalizzazione è una milestone da raggiungere come obiettivo. Cosa bisogna digitalizzare - Torniamo agli informatici della Sirfin Pa. Cosa devono fare? Seguire le direttive del neoistituito Dipartimento per l’innovazione tecnologica della giustizia e, cioè, costruire un sistema che deve digitalizzare le procedure, tutti i documenti, immagazzinarli e includere tutti i tipi di reato (minacce, diffamazione, omicidio, corruzione) fino all’Antimafia. La decisione è stata quella di partire dall’inizio, cioè dall’indagine. In pratica vuol dire che la denuncia di un avvocato, la segnalazione della polizia giudiziaria, l’apertura di un fascicolo, le deleghe dei Pm, tutti gli atti di indagine, quelli depositati dagli avvocati e i provvedimenti devono essere trasferiti su un modello telematico con firma digitale e poi confluire in un fascicolo elettronico su un sistema chiuso. Un sistema che deve consentire al magistrato di decidere chi può accedere a quel fascicolo (altri magistrati, avvocati, Gip), e quando. Saltate tutte le tappe - Gli informatici devono sapere come funziona il processo per trasferirlo telematicamente e, quindi, affiancarsi agli amministrativi, alla polizia giudiziaria, al pubblico ministero, al giudice per le indagini preliminari. E poi insegnare a tutti loro come fare ad usarlo questo sistema. Infine far partire una sperimentazione per testare il programma, identificando un paio di procure e un reato pilota. Il Consiglio Superiore della Magistratura in tutte le sue delibere (ben 5), oltre alla disponibilità ad affiancare il personale tecnico, ha suggerito di non iniziare dalla parte più complessa, cioè dalle indagini, perché avrebbe rallentato tutta l’attività. Nulla di tutto questo è stato fatto. L’indicazione del gabinetto del ministro Nordio è stata quella di “velocizzare”: a gennaio 2024 il nuovo sistema è approdato in 87 procure e tutti devono usarlo. Il sistema si è impallato - Si comincia con le richieste di archiviazione a carico di ignoti, perché se il sistema si impalla è meno rischioso. E si è impallato. Non si è considerato il fatto che ogni dipartimento ha il suo procuratore aggiunto che deve vistare le richieste del suo gruppo di lavoro, mentre il nuovo sistema metteva tutte le richieste insieme. Le conseguenze sono disastrose: chi di dovere non vede le sue di richieste, o vede quelle che devono essere vistate da altri. Oppure le vede, le vista, ma il suo cancelliere no. Tuttavia si va avanti e, da aprile 2025, diventa obbligatorio depositare tutti gli atti per via telematica. Però nella legge Cartabia che impone di utilizzare APP (si chiama così il nuovo programma), c’è una norma che consente ai pubblici ministeri di non farlo se si manifesta un malfunzionamento. Ed è quello che è successo in tutte le procure e tribunali. E allora come si procede? Si fa tutto doppio - Si torna all’analogico, ma si raddoppia il lavoro: quando arriva un atto cartaceo va travasato in digitale, e se non c’è perfetta corrispondenza si ricomincia da capo. A fine aprile, dentro al ministero, il Dipartimento per l’innovazione Tecnologica si riorganizza con l’istituzione della Direzione generale per i servizi applicativi. Nel frattempo alle procure ogni giorno arriva dal ministero una pec che dice “il programma è in aggiornamento…oggi abbiamo modificato questo… domani quest’altro”, e allora si passa da un programma a un altro, bisogna cambiare i codici e ci sono decine di programmi che non si parlano tra loro. Inoltre: in base a quello che il programma fa o non fa, bisogna organizzare gli uffici, ma nessuno da un cronoprogramma. Il risultato è la paralisi. (…) i rallentamenti inevitabili si sommano a quelli prodotti dagli errori di impostazione dettati dalla fretta e dall’imperizia, nonostante i ripetuti suggerimenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Il prezzo finale - Va detto che ogni rinnovamento tecnologico comporta un inevitabile rallentamento delle attività, ma è un “costo” che viene assorbito dal fatto che poi tutto sarà più veloce ed efficiente. In questo caso però i rallentamenti inevitabili si sommano a quelli prodotti dagli errori di impostazione dettati dalla fretta e dall’imperizia, nonostante i ripetuti suggerimenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Ed è ancor più grave perché ingrippa una macchina giudiziaria già lenta di suo. È il caso di ricordare che dal fattore tempo dipende la vita delle persone, tutta racchiusa in ognuno di quei faldoni. Più passa il tempo e più si alza per il delinquente la possibilità di finire prescritto, per la vittima di non avere giustizia e per l’innocente di restare a lungo a bagnomaria. Siccome il governo ha dichiarato che tutta l’attenzione è sulla riforma della giustizia, allora forza, ci metta le risorse che servono per fare funzionare questa APP. Violenza sulle donne, dal Governo solo reati e riforme a costo zero di Marika Ikonomu Il Domani, 16 luglio 2025 In Commissione è stato bocciato l’emendamento sulla prevenzione primaria. Il primo Piano antiviolenza dell’esecutivo Meloni non ha coinvolto i Cav e “non è omogeneo né strutturale”. Un accordo tra maggioranza e opposizioni sul reato di femminicidio è stato trovato in commissione al Senato. Il testo dovrebbe arrivare in aula domani, ma sulla nuova fattispecie le posizioni di chi lavora nel contrasto alla violenza di genere sono diverse. C’è chi considera importante l’introduzione di un reato specifico che spieghi la matrice del delitto - la cultura sessista all’origine - che lo definisca, ne stabilisca l’esistenza per poi porre in atto misure di prevenzione. Secondo altre, invece, è l’ennesimo strumento repressivo del governo Meloni, senza che sia accompagnato da misure preventive. E, dunque, privo di una reale capacità di deterrenza di un fenomeno socio-culturale complesso. “Il potenziamento delle norme punitive non ha portato alla riduzione dei femminicidi, bisogna intervenire sulle cause strutturali della violenza”, spiega Rossella Silvestre, esperta di politiche di genere di ActionAid. L’emendamento delle opposizioni che mirava a inserire nel disegno di legge un’azione preventiva è stato respinto, confermando “che non si comprende la necessità di intervenire su prevenzione primaria”, dice Silvestre. ActionAid ha contribuito alla sua stesura. Per prevenzione primaria si intende l’educazione sessuo-affettiva ma non solo. L’unico obiettivo esistente è destinato ai giovani, continua Silvestre, ma le statistiche raccontano che la maggior parte degli autori di violenza ha tra i 30 e i 50 anni. Un intervento solo sulle giovani generazioni porta sì a un cambiamento, tra 20 anni. “E ora? - chiede - Occorre un’azione in tutti i contesti che attraversiamo”. L’emendamento prevedeva un altro passaggio per favorire la prevenzione primaria: un vincolo di finanziamento del 40 per cento, con un aumento delle risorse del piano antiviolenza di 15 milioni di euro. “Un obiettivo di progressivo avvicinamento a buone pratiche come quelle di Spagna e Australia, dove il vincolo è oltre il 50 per cento”, spiega. A costo zero - C’è però un punto di convergenza tra chi è a favore e chi è contrario al nuovo ddl. Cioè la necessità di intervenire sulle altre “P” previste dalla Convenzione di Istanbul, protezione e prevenzione, e non solo sulla “P” di punizione. Ma il ddl è l’ennesimo provvedimento a costo zero. Sugli altri pilastri della Convenzione, dovrebbe intervenire il “Piano strategico nazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”. L’ultimo piano, relativo al triennio 2021-2023, è stato varato dal dipartimento per le Pari opportunità (Dpo) guidato da Elena Bonetti durante il governo gialloverde. Da allora è in proroga e si attende il primo piano nazionale del governo Meloni. Esiste una bozza ma non è chiaro quando verrà pubblicato. “Un segnale della mancata interlocuzione”, spiega Francesca Maur, consigliera di Donne in rete contro la violenza (DiRe). Maur racconta come, per l’ennesima volta, non ci sia stato un coinvolgimento dei Centri antiviolenza (Cav). La stessa Convenzione di Istanbul chiede “un’efficace cooperazione” con le associazioni attive nella lotta alla violenza contro le donne. Il piano nazionale - Questo però non è accaduto e la rete DiRe ha lanciato una mobilitazione “per costruire un argine collettivo alle preoccupanti derive di questo governo”. Il 17 aprile il Dpo ha presentato il quadro operativo 2025-2026 alle organizzazioni “senza, di fatto, coinvolgere i Cav nella sua progettazione”. Il dipartimento, continua Maur, ha chiesto di “inviare suggerimenti scritti, senza la cornice generale su cui riflettere”. Il quadro, spiega, “non ha nulla di operativo”. Il 4 luglio le organizzazioni hanno poi ricevuto la bozza del piano antiviolenza, con l’invito a fornire pareri entro il 9 luglio. Di mezzo c’era anche un weekend. “Se il governo dice di impegnarsi a riconoscere il lavoro dei Cav, deve funzionare in modo diverso”, dice la consigliera. La bozza del piano restituisce invece “un approccio puntiforme, non organico e non strutturale”. Ed elimina l’obbligo di riferire al parlamento con una relazione annuale con cui si restituiva l’andamento del fenomeno. Una scelta politica o una mancanza di fondi? Di certo, per studiare un fenomeno così radicato è necessario investire risorse strutturali e omogenee, sulla prevenzione primaria, secondaria e sulla protezione. Basta guardare i finanziamenti ai centri antiviolenza: ciò che è diventato strutturale è il ritardo nell’allocazione delle risorse. “I fondi sono discontinui” e c’è una disparità tra regioni molto virtuose e altri territori in cui mancano Cav. A questo si aggiunge quello che per Maur è un problema molto grave: “A questi bandi hanno iniziato a presentarsi una serie di realtà senza esperienza nel contrasto alla violenza”. Il rischio è che l’esperienza dei centri antiviolenza venga dispersa e, conclude la consigliera, “politicamente ci sembra un tentativo di neutralizzare l’approccio femminista dei Cav e della Convenzione di Istanbul”. Maria Carla Gatto: “Il ragazzo della strage di Paderno può essere ancora recuperato” di Elvira Serra Corriere della Sera, 16 luglio 2025 La magistrata è andata in pensione il 10 luglio: “A Milano 13 mila bimbi da affidare. Il figlio della coppia dell’acido? Giusto non darlo ai nonni”. La presidente del Tribunale per i minorenni di Milano, Maria Carla Gatto, il 10 luglio ha compiuto 70 anni (auguri!). Non è stato solo un compleanno importante, ma l’ultimo giorno di lavoro. Adesso è in pensione. Che effetto le fa? “Sono incredula. Dopo 45 anni di lavoro effettivo mi sembra un po’ strano”. Siciliana di Patti, nel Messinese, Milano era nel suo destino... “In effetti sono nata a Milano e ci ho vissuto fino ai 3 anni. Poi con la mia famiglia siamo rientrati tutti in Sicilia. A 25 anni sono ritornata con mio marito, e a Milano ho svolto anche l’uditorato, il primo passo della carriera in magistratura”. Ha sempre sognato di fare il magistrato? “No. Ero indecisa tra Architettura e Psichiatria, ma ho potuto sviluppare questi interessi anche con il mio lavoro”. Psichiatria lo capisco: si è confrontata ogni giorno con specialisti della materia. Ma architettura? “Quando sono diventata presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia stavamo in una struttura semi abbandonata all’interno di un condominio, poco rispettosa della funzione che svolgevamo e inadeguata alle persone che accoglievamo. Dopo numerose insistenze con la politica locale, sono riuscita ad assicurare al Tribunale una sede dignitosa in centro. Ma sul piano architettonico sono intervenuta pure a Milano”. Come è possibile? Quando è stata nominata presidente, nel 2017, la sede era già nel bellissimo palazzo di Piero Portaluppi... “Vero. Ma da 7 anni c’erano impalcature per proteggere i passanti dall’eventuale caduta dei marmi di Calacatta. E invece siamo riusciti a rifare la bella facciata del palazzo”. Ha due figli. Come è riuscita a conciliare maternità e lavoro? “Clara oggi ha 43 anni, Michele 41. E sono nonna di due bellissime bambine di 9 e 12 anni. Non è stato facile, senza la rete familiare che mi avrebbe supportata in Sicilia. Però è venuta in mio soccorso la cerchia amicale, che ha sostituito nella quotidianità quella parentale. Ricordo le volte che aspettavo l’arrivo della baby sitter sulla porta, già con la borsa da lavoro in mano”. Non esistevano ancora permessi e maternità facoltativa... “Diritti sacrosanti, ai tempi era un’impresa conciliare tutto. Negli ultimi anni mi sono impegnata molto per ringiovanire la squadra del Tribunale. Le giovani mamme, sotto la guida dei colleghi più anziani, sono una risorsa importante: il confronto con loro è fondamentale, non basta solo l’esperienza”. È stata presidente di due Tribunali per i minorenni per 16 anni. Se i suoi figli fossero stati piccoli avrebbe accettato l’incarico? “No. Ho fatto il giudice civile nel Tribunale ordinario e in Corte d’Appello. Poi per molti anni mi sono contestualmente occupata di formazione, a Milano e a Roma, quando i ragazzi erano già autonomi”. Una donna per ottenere ruoli di comando deve lavorare il doppio rispetto a un uomo? “Il doppio forse no, però ci vuole un notevole impegno: i riconoscimenti sono più difficili da ottenere, basta guardare le statistiche sugli incarichi direttivi. Ma sono contraria alle quote di genere: credo che impegno costante e professionalità facciano conseguire i risultati ai quali si aspira”. Si è occupata di moltissimi casi. E non è mai intervenuta. Fece eccezione per Martina Levato e Alexander Boettcher, la “coppia dell’acido”, con una lettera al Corriere... “Eravamo sottoposti a una grande pressione mediatica. Difesi la scelta di non affidare il loro figlio ai nonni: le decisioni del Tribunale per i minorenni e della Corte d’appello, assunte da cinque magistrati e quattro esperti, erano state concordi nel concludere che il bambino versava in una situazione di abbandono morale e materiale irreversibile: nessuno dei familiari era in grado di rappresentare una figura valida di riferimento”. Il caso più difficile? “Tutti quelli nei quali i bambini erano vittime di gravissimi maltrattamenti psichici e fisici da parte dei genitori. E poi sono drammatici i casi dei figli che assistono all’omicidio della madre da parte del padre: è un trauma difficilmente elaborabile”. È riuscita a incidere? “Ho sensibilizzato i colleghi a conferire l’incarico ai curatori speciali dei minori perché si attivino a ottenere almeno i fondi messi a disposizione dalla Regione Lombardia e dal ministero dell’Interno per dare supporto nell’immediato. Fino alla sottoscrizione in Prefettura del Protocollo per i figli delle vittime di femminicidio, pure io ignoravo l’esistenza di queste somme, spesso inutilizzate”. Riccardo Chiarioni, il 17enne di Paderno Dugnano che ha ucciso il padre, la madre e il fratellino con 108 coltellate, è stato condannato a 20 anni. Ha appena preso la maturità scientifica. Si può recuperare un ragazzo dopo un delitto così efferato? “Sì, i ragazzi possono essere recuperati tutti, non si valuta la possibilità di recupero dall’efferatezza del reato. Il vero problema è se questi ragazzi siano disponibili a seguire percorsi di recupero. In genere l’istituto della messa alla prova è vincente”. Riceve notizie dai minori che ha dato in adozione? “Qualcuno mi manda foto della prima comunione o di altri momenti importanti. La soddisfazione più grande arriva dai minori maltrattati che riescono a inserirsi in una realtà familiare amorevole”. Le è spiaciuto chiudere mediatamente la sua professione con il caso di Luca, il bambino di 4 anni tolto alla famiglia affidataria con la quale viveva dal primo mese e dato in adozione a una nuova famiglia? “Chiudo la carriera con gli 80 abbinamenti di bambini per i quali ogni anno, grazie anche al supporto di una équipe di sette giudici onorari, il Tribunale per i minorenni di Milano individua la famiglia più adeguata a rispondere alle specifiche esigenze di crescita di ciascuno. Compresi i bambini con bisogni speciali: con gli appelli sul nostro sito Internet, anche a loro viene assicurato l’amore di una famiglia”. Non è durato troppo l’affidamento di Luca alla famiglia affidataria? “La durata del procedimento dipende dalle problematiche attinenti al nucleo familiare di origine, vale per tutti: bisogna prima accertare per legge la irreversibilità della situazione di abbandono”. La Riforma Cartabia ha appesantito le procedure anche per voi? “Sì. I nostri procedimenti sono tutti indifferibili e urgenti, mentre adesso c’è un appesantimento burocratico. A Milano i procedimenti arretrati, cioè i bambini in attesa di un intervento di tutela, sono più di 13 mila, mille in più rispetto al passato”. Eppure lei ha fatto parte della Commissione Cartabia. Non è riuscita a intervenire per migliorarla? “La legge delega era già stata fatta. Le peculiarità del giudizio minorile non sono state tenute in sufficiente considerazione”. L’evasione al Beccaria l’ha molto coinvolta, anche se la gestione del carcere minorile dipende dal Ministero della Giustizia... “Mi sono molto spesa, con don Gino Rigoldi. Siamo intervenuti per trovare una soluzione per il completamento dei lavori che si protraevano da 15 anni. La criticità maggiore del Beccaria credo sia l’assenza di un direttore stabile”. Ha visto la serie tv Mare fuori? “Sì. La prima stagione era fatta molto bene. Ma temo sia stata un’occasione mancata per sensibilizzare sulla situazione dei ragazzi”. E ha visto Adolescence? “Sì. Racconta bene lo smarrimento dei genitori: i ragazzi, per loro, sono degli sconosciuti. Abbiamo avuto modo di verificarlo tante volte in udienza di convalida. Oggi la violenza giovanile deriva dall’isolamento dei ragazzi e dall’influenza nefasta dei social, che fa confondere vita virtuale con vita reale”. Cos’altro è cambiato? “La violenza filo parentale è cresciuta: maltrattamenti dei figli nei confronti dei genitori. Per non parlare degli insegnanti. Ma basta leggere i testi delle canzoni che molti giovani scrivono e ascoltano”. È vero che ha fatto mettere un cartello davanti all’Aula di udienza chiedendo di vestirsi in modo adeguato? “Sì, ormai in Tribunale vedevamo troppi adolescenti che si presentavano con calzoncini corti, canotte, ciabatte. Ma il rispetto per gli altri e per sé passa per il rispetto dell’istituzione, dell’autorità, del mondo degli adulti. Ed è anche una questione di forma”. Caso Elmasry. Nordio all’angolo, ma la destra è pronta a fermare il processo di Andrea Carugati Il Manifesto, 16 luglio 2025 In arrivo il verdetto del tribunale dei ministri. Meloni e alleati vogliono negare l’autorizzazione a procedere. E hanno i numeri per farlo. Le opposizioni chiedono che il ministro torni in Parlamento: “Ha mentito, non può restare”. Dal governo un altro no: “C’è il segreto istruttorio”. “Non è né utile né opportuno che il governo riferisca su cose che peraltro non conosce, riferirà alla conclusione dell’indagine, quando ci saranno degli elementi utili per il confronto parlamentare, prima non avrebbe senso”. Luca Ciriani, ministro per i rapporti con il Parlamento, replica con un secco no all’ennesima richiesta delle opposizioni, formulata ieri durante la capigruppo del Senato, di poter risentire il ministro della Giustizia nelle aule parlamentari sul caso Elmasry. Al governo non bastano le notizie uscite sullo scambio di mail tra dirigenti del ministero di via Arenula, che dimostrano come la capo di gabinetto di Nordio, Giusi Bartolozzi, sapesse già da domenica 19 gennaio che l’uomo arrestato a Torino era ricercato dalla Corte dell’Aja. Lo stesso Nordio replica in forma scritta all’interrogazione di Italia Viva, che chiedeva di sapere “perché il ministro ha mentito in aula lo scorso 5 febbraio 2025” e “se e quando il capo di gabinetto, dottoressa Bartolozzi, ha parlato della questione col sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano”. “Trattasi di circostanze coperte da segreto istruttorio”, la replica del Guardasigilli, che si presta alle ironie di Renzi: “Una barzelletta che non fa ridere. Che Nordio abbia mentito ormai è un segreto di Pulcinella, non un segreto di Stato”. Il ministro della Giustizia attende a giorni (forse già oggi) la decisione del tribunale dei ministri che ha indagato su di lui e altri tre membri del governo, Meloni, Piantedosi e Mantovano, sul caso del torturatore libico rispedito a casa con un volo di Stato. La sua posizione, con l’ipotesi di omissione di atti d’ufficio (gli altri tre sono indagati solo per favoreggiamento e peculato), è la più delicata: fu lui a non dare corso, tra il 19 e il 20 gennaio, alla richiesta di arresto della Corte penale internazionale per il generale libico. Difficile che l’ex magistrato vada a processo: se non ci sarà una richiesta di archiviazione, sarà il Parlamento a dover dare l’autorizzazione a procedere, o negarla nel caso in cui la Camera ritenga che l’inquisito “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante”. E la maggioranza di centrodestra ha già fatto sapere che sarà questa la prossima eventuale trincea per la difesa di Nordio. Con tempi lunghi. Se la procura di Roma, una volta ricevuti gli atti dal tribunale dei ministri, inoltrerà la richiesta di autorizzazione alla Camera, la giunta per le autorizzazioni avrà 60 giorni di tempo per votare un parere. Per poi passare all’aula. Ma è chiaro che una decisione del genere esporrebbe Nordio a due mesi di tritacarne politico e mediatico, mentre la riforma della giustizia (con la separazione delle carriere) è in attesa del via libera del Senato che arriverà il 22 luglio (ma servono altre due pronunce delle Camere prima del via libera definitivo). L’intreccio tra le due partite, riforma e caso Elmasry, è dunque inevitabile. “Chi scrive una riforma costituzionale deve essere credibile e autorevole. Invece Nordio ha mentito al Parlamento”, attacca la vicepresidente del gruppo M5S Alessandra Maiorino. Così anche il capogruppo Pd in commissione giustizia Federico Gianassi: “Le deboli argomentazioni difensive del ministro sono risultate contraddittorie e prive di credibilità. Le ipotesi sono due, entrambe inaccettabili: o non governa il ministero, oppure era al corrente e ha mentito al Parlamento. In entrambi i casi, la sua permanenza al vertice del dicastero della Giustizia è ormai insostenibile”. “Nordio la sua verità la sa. Perché non viene a dirci quello che sa? Non c’è nessun motivo per aspettare gli atti del tribunale”, insiste Stefano Patuanelli dei 5s. “Il Parlamento merita trasparenza immediata”. Peppe De Cristofaro di Avs allarga le accuse: “Il Parlamento viene tenuto volutamente all’oscuro. È come se ci fosse solo il governo: il premierato c’è già”. C’è poi la grana Pnrr: l’Italia rischia di dover restituire diversi miliardi per il mancato raggiungimento, entro giugno 2026, di uno dei quattro obiettivi sulla giustizia, la riduzione del 40% della durata media dei processi civili. Al momento è stato raggiunto solo il 20% di quanto richiesto dalla Ue, come denunciato nei giorni scorsi dall’Ann. E oggi il plenum del Csm discute una delibera proprio su questo tema. Non certo tenera verso il governo. La camorra, Saviano, l’antimafia che non si vede. Parla Capacchione di Francesco Palmieri Il Foglio, 16 luglio 2025 Rosaria Capacchione appartiene a quella scuola di cronisti che lasciava l’”io narrante” nella penna perché conta la notizia, non chi tiene il taccuino. Preferisce l’ombra ai riflettori anche quando la notizia è lei, parte offesa nel processo contro il boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e il suo avvocato, Michele Santonastaso, ai quali la Corte d’appello di Roma ha confermato le condanne rispettivamente a un anno e sei mesi e un anno e due mesi per minacce aggravate dal metodo mafioso. Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Roberto Saviano, parte offesa anche lui, scoppiato in lacrime alla lettura della sentenza dopo un estenuante percorso giudiziario di diciassette anni. Capacchione ricorda a ciglio asciutto che quando venne letto quel documento minatorio in aula al processo Spartacus, il 13 marzo 2008, capì subito cosa fosse: “Un messaggio di condanna a morte, perché il linguaggio della mafia lo conosco bene”. Si occupava di camorra dal 1986 consumando le suole, spulciando gli atti giudiziari, ritagliando, coltivando le fonti e consegnando il proprio nome solo alla firma sotto gli articoli. Una settimana dopo quel 13 marzo Capacchione fu messa sotto scorta: gli altri bersagli del documento di Santonastaso, come Cantone e Saviano, la protezione l’avevano già. “Io ero la preda facile”. Se fosse stato un film, il processo Spartacus, diremmo che ne ritoccò la sceneggiatura. Saviano ne parlò, lei aveva trovato notizie: “Nel 2004 avevo scritto della compravendita di un terreno fra un presidente di sezione della Corte d’assise d’appello e la madre di un capo storico dei Casalesi, Vincenzo Zagaria, e che quel giudice non si era astenuto da processi in cui questi era imputato. Seguirono indagini, una ispezione ministeriale e tempo dopo una interrogazione parlamentare di cui il mio giornale, Il Mattino, diede notizia”. Era il 2006, alla vigilia della trasmissione degli atti di Spartacus dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere alla Corte d’assise d’Appello di Napoli. Il clamore suscitato determinò l’assegnazione a un’altra sezione. “Non sappiamo diversamente come sarebbe andata, ma il messaggio di Santonastaso mi attribuiva una responsabilità”. Che i giornalisti non dovevano occuparsi di camorra? “Che raccontare gli omicidi va bene, ma non frugare nel suo potere. E questo lo può fare solo un cronista che è lì da una vita, con l’archivio e la memoria storica”. Non era la prima volta: nel 1991, un’inchiesta di Capacchione portò alla riconfisca degli asset patrimoniali di Francesco Schiavone, il famoso “Sandokan”. Una sola di quelle aziende valeva 10 miliardi di lire dell’epoca: “Non la presero bene. Quando il boss Dario De Simone si pentì, raccontò di un piano per sequestrarmi e uccidermi. Avevano anche la mia fotografia”. Come se la cavò? “Grazie ai rapporti personali. Mi telefonava il capo della squadra mobile: ‘Rosaria, oggi che fai? Vai in tribunale? Aspetta che si trovano sotto casa tua i miei uomini e magari ti accompagnano”. Paura? “La paura si prova una volta sola nella vita. Successe una sera che gettavo l’immondizia: si fermò una macchina e ne scese un tizio con la pistola nella cintura. Risalii di corsa a casa e chiamai i carabinieri che vennero a passare la notte da me”. Un avvertimento o peggio. “Ma non era per me. Poi seppi che nel palazzo accanto era nascosto il latitante di un certo clan. Da allora non ho avuto più paura”. Capacchione è sotto scorta da quel marzo 2008. Saviano dice che questo a lui ha “tritato la vita”. E lei? “Per carità: a me non ha triturato niente”. Forse è cifra caratteriale, forse la dimestichezza con la cronaca sul campo. Però Rosaria è netta: “Non usiamo termini come ‘cattività’. La scorta è una limitazione, non una prigione. Se torno a casa e mi telefona un’amica per una pizza, sono io che non mi sento di richiamare gli agenti per accompagnarmi”. Chi ha messo tanti bastoni tra le ruote ai camorristi avrà diritto di sentirsi un po’ eroe: “Sono una giornalista, non un’eroina, anzi questa parola mi fa un po’ schifo. Non ho mai rincorso il successo, non sono invidiosa di chi ce l’ha e non ho bisogni particolarmente costosi. Una volta mi piacevano le borse, ora penso che ne possiedo fin troppe. Saviano è figlio di un’epoca che non è la mia, io sto sui social più per osservare che per manifestarmi, anche se probabilmente se lui non avesse scritto mi avrebbero già uccisa”. Capacchione ha fatto politica da senatrice del Pd, membro della commissione parlamentare antimafia, poi ha mollato: “Fu una scelta di servizio, sono rimasta una giornalista”. C’è nella lotta alla mafia un approccio di destra e di sinistra? “Negli anni ho ricevuto supporto bipartisan, anzi talvolta ho avuto più sostegno da chi non la pensava come me. Sono stata sempre fuori dai circoletti, sin da quando andavo a scuola”. Con la mafia e la camorra, lo stato ha vinto? “La maggioranza degli italiani s’impressiona del sangue: se non scorre non presta attenzione. Sono almeno dieci anni che abbiamo una percezione di vittoria, ma mi faccio una domanda: il boom di attività commerciali e turistiche nei centri storici delle città scaturisce tutto dai risparmi dei nonni? Non parliamo solo del sud, ma per esempio di Milano”. Non sa come si potrebbe titolare questa conversazione: “Ho sempre preferito scrivere che fare titoli. Una cosa però terrei ad aggiungere: sai quante telefonate ho ricevuto dopo la sentenza?”. Si suppone parecchie. “Nessuna. Parlo di telefonate istituzionali. Dagli amici invece tante, perché una cosa mi ha insegnato la vita: alla fine contano le persone”. Il verbale “ritrovato” non certifica l’interesse di Borsellino per la pista nera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2025 L’entusiasmo di Report e M5S è infondato. Lo Cicero, testimone inaffidabile e mai coinvolto operativamente nelle stragi, non menzionò Delle Chiaie. “Report aveva ragione sulla pista nera!”, proclama trionfalmente Sigfrido Ranucci sulla sua pagina Facebook, allegando un articolo de Il Fatto Quotidiano che annuncia la nuova udienza fissata dalla gip nissena Graziella Luparello, la quale ha disposto lo stop all’archiviazione della pista nera relativa alla strage di Via D’Amelio. Peccato che i titoli di molti giornali lascino intendere al lettore l’esistenza di un verbale in cui Paolo Borsellino si sarebbe interessato al coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie, detto “er caccola” - politico di estrema destra e fondatore di Avanguardia Nazionale - nella strage di Capaci. Completamente falso. In sintesi, la gip ha accolto l’istanza dell’avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, che il 25 giugno scorso ha depositato nuovi documenti relativi a Paolo Borsellino. Tra questi spicca un verbale - riemerso grazie all’atto del gip Santi Bologna (quello che aveva archiviato la pista nera sulla strage di Capaci) - relativo a una riunione di coordinamento tra la procura di Caltanissetta, diretta da Celesti, e quella di Palermo sulla strage di Capaci. Sappiamo che Borsellino stava indagando - e ben oltre in modo informale - a 360 gradi sul tragico attentato in cui perse l’amico Giovanni Falcone. In quella riunione emerge che si era interessato alle dichiarazioni di Alberto Lo Cicero: del suo proposito di collaborare e del fatto di essere stato “agganciato” dalla polizia giudiziaria, in particolare dai carabinieri. Ma la pista nera? Non c’entra nulla. L’interesse di Borsellino per il procedimento su Lo Cicero non dimostra affatto che stesse coltivando un’indagine sulla destra eversiva legata a Stefano Delle Chiaie. Per quale motivo? Perché Lo Cicero, prima del famoso colloquio irrituale del 2007 con il magistrato Donadio, all’epoca alla Procura nazionale, non aveva mai fatto cenno a un presunto coinvolgimento di Delle Chiaie davanti alle autorità giudiziaria di Caltanissetta o di Palermo. Non basta: lo stesso ex brigadiere Walter Giustini (oggi sotto processo per depistaggio della pista nera) ha escluso di aver mai parlato a Borsellino di Delle Chiaie. Dunque risulta incomprensibile il trionfalismo di Report. Eppure sorprende anche l’entusiasmo del Movimento 5Stelle, che sostiene addirittura che Borsellino fosse in attesa della delega sulle indagini di Palermo per poter sentire Lo Cicero, tanto da sollecitare insistentemente i colleghi di Caltanissetta. Insomma, non troppo tra le righe, la tesi è questa: la strage di Via D’Amelio sarebbe stata organizzata proprio per impedire a Borsellino di occuparsi di Lo Cicero. A tutto c’è un limite. Era più serio il teorema della trattativa Stato- Mafia: almeno c’era una motivazione credibile, seppur priva di fondamento. Ma chi era Lo Cicero? Un soggetto che, pur di ottenere lo status di pentito, ha mentito spudoratamente sulla sua affiliazione a Cosa Nostra (e non solo). Ha conosciuto alcuni fatti solo per via accidentale, essendo stato vicino al boss mafioso Mariano Tullio Troia, detto “O Mussolini”, capomandamento di San Lorenzo. Ormai è noto che Totò Riina non solo sceglieva persone fidate di Cosa Nostra per partecipare all’esecuzione delle stragi, ma soprattutto compartimentava: ognuno aveva un compito specifico, in modo che, se uno di loro si pentiva, sarebbe stato impossibile risalire a tutti i componenti e a ogni fase preparatoria della strage. Lo Cicero non avrebbe mai avuto titolo alcuno per partecipare. Pensiamo alla fase preparatoria: addirittura Report riportò acriticamente la dichiarazione dell’ex compagna di Lo Cicero, la quale affermò che quest’ultimo si sarebbe messo d’accordo con Stefano Delle Chiaie per procurare l’esplosivo. Praticamente rasenta il fallimento logico, a meno che non si ammetta che Riina non compartimentasse nulla e facesse partecipare qualsiasi “pinco pallino” alla strage. Ma soprattutto è un’offesa a Borsellino, che indagava sulla strage di Capaci e aveva appreso (interessa a qualcuno dell’autorità giudiziaria approfondire?) che l’esplosivo proveniva dall’ex- Jugoslavia, come confidato al prete Cesare Rattoballi. Sappiamo con certezza che a procurarlo furono i catanesi. Una ricostruzione interessante e documentata sul punto si trova nell’ultimo libro di Vincenzo Ceruso, “Paolo Borsellino - La toga, la fede, il coraggio”, edito da San Paolo. Ma ad oggi, cosa che desta perplessità, si perde tempo e risorse su Delle Chiaie (d’altronde il procuratore nisseno Salvatore De Luca ha affermato che la pista nera è ancora aperta), mentre non si ricostruisce il percorso di reperimento dell’esplosivo né si tengono in considerazione - vagliandole con le dovute scrupolosità - le dichiarazioni di Maurizio Avola (a differenza di Lo Cicero, organico a Cosa Nostra), utili per ricostruire scientificamente tutta la vicenda. Ma a chi interessa? È provato che Paolo Borsellino stesse indagando principalmente sulla questione degli appalti. Diverse testimonianze e indizi confermano che, dai delitti eccellenti alla strage di Capaci, il fil rouge fosse la gestione mafiosa degli appalti pubblici in concorso con importanti colossi imprenditoriali e politici al servizio di Cosa Nostra. Allo stesso modo, stava indagando sull’esecuzione della strage e sull’esplosivo utilizzato. Si parla esclusivamente della scomparsa dell’agenda rossa (e in una sola direzione), che rischia di diventare un alibi per non parlare e valorizzare i suoi appunti di lavoro. Che Borsellino, negli ultimi giorni di vita, stesse da solo ricostruendo il dossier mafia- appalti lo confermano i verbali desecretati dalla Commissione Antimafia. Qualcuno, in Procura, remava contro. Ancora oggi nessuno reclama di rendere pubblici almeno i manoscritti rinvenuti nel suo ufficio. Borsellino, tra le tante carte, aveva: appunto dattiloscritto, in fotocopia, di 4 pagine, con foglietto adesivo recante la scritta a “Scarpinato (Contorno)”; missiva numero 340822/ 40554 del 29.05.1992 del ministero della Giustizia, diretta al Dr. Borsellino, con allegato tabulato; copertina colore verde contenente diversi suoi manoscritti e dattiloscritti, comprese diverse note; fascicoli riservati, note dell’alto commissario, deleghe e varie intercettazioni della procura di Palermo. L’invito, su queste stesse pagine, era stato rivolto al Partito Democratico, ma può essere utile anche all’avvocato Repici stesso: magari troverà la prova inaspettata dell’interessamento di Borsellino a Delle Chiaie. Della verità non ci si deve mai spaventare, neppure al rischio di mettere tutto in discussione. Il Dubbio, eventualmente, sarà il primo ad ammettere di aver sbagliato. Si perde tempo dietro tesi del tutto inconsistenti. Il rischio è che lo faccia anche la Procura di Caltanissetta attuale. Le indagini sull’allora procuratore Giovanni Tinebra, presunto massone deviato (solo voci e aderenza a un Rotary club), e sul super poliziotto Arnaldo La Barbera si possono sovrapporre alla memoria del M5S inviata alla presidente Chiara Colosimo della Commissione Antimafia e redatta dal senatore Roberto Scarpinato. In realtà, però, si sovrappongono anche alle commissioni precedenti, come quelle presiedute da Rosy Bindi e da Nicola Morra, visto che nell’indagine nissena compaiono soggetti e consulenti già coinvolti nei lavori di allora. Poco importa che, per la caccia ai massoni promossa dalla Commissione Bindi, l’Italia sia stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’osmosi tra procure e Commissioni Antimafia è un problema antico. Il giurista Giovanni Fiandaca, intervistato qualche tempo fa su IlFoglio, ha individuato il nodo, ma ha sbagliato bersaglio. Per ora. Anche perché il rischio che l’attuale Commissione non mantenga l’autonomia dalla Procura è sempre all’orizzonte. L’occasione persa di Violante di Marco Boato L’Unità, 16 luglio 2025 Nel dichiararsi convinto della colpevolezza di Adriano Sofri, l’allora presidente dell’Antimafia ha avuto enorme influenza. A prescindere dalle sue convinzioni, un po’ di trasparenza sarebbe stata doverosa. La vicenda legata al “caso Sofri” si è conclusa giudiziariamente ormai un quarto di secolo fa, ma a quanto pare è politicamente ancora dolorosamente aperta, come ha dimostrato quanto è comparso su Repubblica la settimana scorsa in due occasioni. La prima con una lettera di Adriano Sofri alla rubrica di Francesco Merlo martedì 8 luglio, e la seconda con una singolare risposta di Luciano Violante, tramite una intervista con Annalisa Cuzzocrea sullo stesso quotidiano di giovedì 10 luglio. Sofri aveva scritto a Merlo: “Quando fui coimputato dell’omicidio di Luigi Calabresi, e si sollevarono dubbi sull’imputazione e sulla conduzione dell’indagine, Violante si dichiarò convinto della mia colpevolezza perché c’era a provarla ‘una fonte non ostensibilè. Interrogato su quale fosse questa ‘fontè, disse di non saperlo. Ora, siccome si fa tardi, chiederei a Violante di dire, se non chi fosse la ‘fontè, almeno chi lo avesse detto a lui, così autorevolmente da persuaderlo della mia colpa.” Interpellato in proposito dalla giornalista, Luciano Violante ha risposto in questi termini: “Un amico, un sodale di Sofri, nel 1993 mi chiese di sottoscrivere un appello per la sua innocenza. Dissi di no perché ero convinto della sua responsabilità e perché avevo una fonte, che non potevo rivelare, che aveva consolidato quella mia convinzione”. La giornalista gli ha replicato: “Perché non dire di chi si trattava? Per valutare il peso di quella fonte?”. Violante a sua volta ha risposto: “Era una notizia a carico e non entra nel processo. Se una persona mi vincola alla riservatezza, io rispetto quell’impegno”. Ancora la giornalista chiede: “E perché non dirlo oggi?”. Ulteriore risposta: “La serietà non va in prescrizione. Quella dichiarazione non fu fatta in sede giudiziale o in un evento pubblico”. Ancora la giornalista: “Lei era il presidente della commissione Antimafia, quella sua convinzione si diffuse e poteva avere un’influenza importante su un processo in corso”. Definitiva replica di Violante: “Ripeto, era una notizia contro la persona poi condannata. La sentenza si basa su fatti, non su opinioni”. Essendo passato qualche giorno e non essendone tutti i lettori de l’Unità necessariamente a conoscenza, ho ritenuto doveroso riportare questo scambio indiretto tra Sofri e Violante nel dettaglio. E riprendo qui ora anche un successivo commento del difensore di allora di Sofri, l’avvocato Alessandro Gamberini: “È singolare che Violante non colga l’enormità di quello che dice. Era ovviamente del tutto legittimo che non firmasse un documento sulla innocenza di Adriano Sofri sulla base di un suo convincimento derivante da informazioni assunte. Ma era fuor di luogo giustificare pubblicamente questo suo rifiuto perché una prova della responsabilità gli era stata offerta da persona che non intendeva nominare. Con ciò usando una clava nei confronti di una persona in condizione di minorata difesa, vista la veste istituzionale che rivestiva all’epoca come presidente della Commissione parlamentare antimafia, che conferiva alle sue parole una credibilità esponenziale”. E poi Gamberini ha ancora aggiunto: “A distanza di trent’anni non rivela la fonte perché assume di essere legato a un vincolo di riservatezza, che non intende tradire, quello stesso vincolo che avrebbe dovuto impedirgli di chiamarla in causa in veste anonima. Quanto ai ‘fatti’ che hanno giustificato la condanna, forse varrebbe ricordare che non erano così chiari, se è vero che sono occorsi undici gradi di giudizio per giungere a una condanna definitiva, dopo assoluzioni, sentenze suicide, giurie presiedute da presidenti che avevano anticipatamente espresso la loro volontà di condanna, motivazioni messe in crisi da una revisione ammessa e poi ingiustificatamente negata”. Per lealtà intellettuale, devo ricordare che personalmente sono sempre stato convinto dell’innocenza di Adriano Sofri, che ho ribadito in tutte le occasioni. Nel corso dell’istruttoria, mi ero anche presentato per una deposizione spontanea di fronte al giudice istruttore (tale era allora) Antonio Lombardi e successivamente sono stato sentito come testimone nel processo di primo grado, nell’aula della Corte d’assise di Milano. Infatti, in una prima fase, anch’io (che all’epoca ero senatore) ero stato indiziato nell’istruttoria del processo Calabresi, e, dopo aver presentato una denuncia per calunnia, ero stato prosciolto già alla fine dell’istruttoria, come del resto anche Mauro Rostagno, che però nel frattempo era stato assassinato a Trapani dalla mafia il 26 settembre 1988. Nell’aula della Corte d’assise avevo testimoniato anche che, molti anni prima delle “rivelazioni” di Marino, un magistrato aveva cercato (inutilmente, per mia fortuna) di far dire ad un detenuto, “dissociato” per altra causa, che potevo essere io stesso il mandante dell’omicidio Calabresi. Dal che si desumeva che la volontà di perseguire qualche esponente di Lotta continua degli anni 70 veniva da molto lontano, appunto ben prima delle “rivelazioni” di Marino. Di molte incongruenze della versione di Marino ha già scritto su l’Unità Guido Viale l’11 luglio scorso, e su tutto questo non intendo ritornare. In linea di principio, si ritiene che una condanna dovrebbe essere comminata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Nel “caso Sofri” con tutta evidenza questo non è avvenuto: prima due condanne, poi annullate dalla Corte di cassazione addirittura “a sezioni unite”, poi un secondo processo di appello con una assoluzione (resa vana dalle motivazioni “suicide” scritte nella sentenza dal giudice dissenziente), poi anche l’assoluzione con la sentenza “suicida” annullata dalla Cassazione, quindi un terzo giudizio di appello, con una condanna comminata da un presidente che si era dichiarato colpevolista prima ancora del processo, poi una conferma definitiva della Cassazione, e da ultimo un giudizio di revisione (a Venezia) che non ha modificato la condanna (ma con una sentenza che, incredibilmente, auspicava la grazia per i condannati…). Davvero una condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”? Tuttavia, purtroppo, la condanna definitiva c’è stata, sia pure molto e da molte parti discussa e criticata, ma ormai da lungo tempo irrevocabile. Quindi non di questo oggi si tratta, ma del fatto che a suo tempo, per dichiararsi colpevolista ben prima della condanna, Luciano Violante aveva invocato la validità accusatoria di una “fonte non ostensibile”, che infatti non è mai stata esibita e non è quindi entrata nel processo, ma che ha avuto una influenza indiretta e grave nel confermare l’iniziale ipotesi accusatoria (basata in realtà non sui fatti, ma sulle “rivelazioni” di Marino, accettate anche quando contradditorie e non confermate nella realtà). Dispiace dirlo, soprattutto sulle pagine di questo giornale di antica tradizione, ma che in rapporto a questa vicenda ci fosse stata anche l’influenza, o l’interferenza persino anticipata, di qualche esponente del Pci di allora (compreso il difensore comunista di Marino, ma non solo), è… “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Anche il mio caso personale lo conferma. Nel 1983, finita la mia prima legislatura da “indipendente” nei radicali di allora, il segretario regionale del Pci della Lombardia mi propose la candidatura come “indipendente” nel collegio di Milano per la Camera dei deputati, e, nel farlo, mi citò alcuni autorevoli esponenti nazionali del Pci che avevano espresso anticipato consenso a tale proposta nei miei confronti. Tuttavia, pochi giorni dopo, con grande imbarazzo, tale proposta di candidatura venne ritrattata. Non avevo da parte mia chiesto nulla al riguardo, e quindi incassai la ritrattazione senza recriminazioni (neppure successive). Ma, passato qualche giorno ancora, un esponente dell’allora Direzione nazionale del Pci, col quale avevo ottimi rapporti di confidenza, mi rivelò riservatamente che in Direzione nazionale Ugo Pecchioli si era opposto alla mia candidatura, minacciando in caso contrario le sue dimissioni, perché io nel prossimo futuro avrei potuto essere indagato per terrorismo (ed eravamo nel 1983…). Durante la Bicamerale D’Alema, nel 1998, in una intervista a Repubblica io rivelai questo singolare episodio, e nessuno replicò, salvo che il segretario regionale del Pci nella Lombardia del 1983 confermò la candidatura prima proposta e poi ritirata, senza tuttavia rivelarne le motivazioni. Personalmente non avevo mai avuto occasione di parlare esplicitamente con Luciano Violante del “caso Sofri”. Entrambi avevamo fatto parte dal 1979 al 1983, dall’opposizione, della Commissione giustizia della Camera, e avevamo anche partecipato a qualche dibattito sugli “anni di piombo” che erano drammaticamente in corso. Molto dopo, nel 1996 Violante era stato eletto presidente della Camera dei deputati, all’epoca dell’Ulivo di Prodi, e, fino al 2001, io avevo fatto parte per i Verdi del suo Ufficio di presidenza, con una collaborazione positiva. Nel 2006-2008 ho inoltre fatto parte della Commissione affari costituzionali della Camera, da lui con efficacia presieduta. E ricordo tutto questo perché non ho alcun motivo personale di risentimento nei suoi confronti, avendo sempre collaborato con reciproco rispetto. Tuttavia, la vicenda della “fonte non ostensibile” per motivare la colpevolezza di Adriano Sofri mi ha sempre lasciato perplesso e allibito, anche se tutto questo risale a davvero moltissimi anni fa. Ma Sofri, con la lettera a Merlo, gli aveva ora offerto una occasione davvero ideale (“siccome si fa tardi”, per ragioni anagrafiche di entrambi) per un chiarimento “postumo”, che comunque non avrebbe potuto avere più alcun riflesso su una vicenda giudiziaria chiusa definitivamente da moltissimo tempo. Questa occasione Luciano Violante non l’ha saputa o voluta cogliere, e questo sinceramente mi dispiace, perché farlo con lealtà e trasparenza gli avrebbe fatto onore, a prescindere dalle sue opinioni “colpevoliste” (opposte alle mie) di allora e di oggi. Una vicenda giudiziariamente chiusa, ma politicamente (e moralmente, in quanto ad etica pubblica) ancora aperta, dunque. Lombardia. Sempre più detenuti universitari, ma troppi ostacoli di Federica Pacella Il Giorno, 16 luglio 2025 Sempre più detenuti (e detenute) universitarie, con percorsi anche molto positivi, nonostante i grossi ostacoli che l’amministrazione penitenziaria, a livello centrale, non ha ancora rimosso. Il nuovo rapporto Cnupp, presentato nell’assemblea annuale della Conferenza Nazionale di delegati e delegate di rettori e rettrici per i poli universitari penitenziari conferma il consolidamento e l’ampliamento delle iniziative dedicate alla diffusione dell’istruzione universitaria negli istituti penitenziari d’Italia. In Lombardia, per l’anno accademico 2024-2025, gli iscritti sono 232 (163 alla statale di Milano, 100 in Bicocca, 14 a Bergamo, 2 a Brescia). “Negli anni - spiega Luisa Ravagnani, delegata Cnupp per l’Università degli studi di Brescia - si è vista un’attenzione sempre crescente, più delle università verso il carcere che del carcere verso l’università”. Gli atenei hanno, infatti, aperto le porte, aderendo alla rete nazionale, permettendo ai detenuti e alle detenute di iscriversi ai corsi di laurea. Non ci sono facilitazioni: sono studenti come gli altri, che devono affrontare gli stessi esami e che, per iscriversi, necessitano dai titoli richiesti a tutti. “Giustamente non ci sono facilitazioni nei programmi - spiega Ravagnani - ma, allo stesso modo, le persone in stato di detenzione non dovrebbero avere ostacoli che gli altri studenti fuori dal carcere non hanno. Invece, l’amministrazione penitenziaria, a livello centrale, fatica a entrare nell’ottica che, per studiare adeguatamente, dovrebbero esser lasciati tranquilli. Banalmente, dovrebbe esser garantito il collegamento internet in modo continuativo, fondamentale per studiare e seguire le lezioni. Oppure dovrebbe ricordare che i tirocini sono importanti e che bisogna trovare il modo per farglieli svolgere”. “Studiare cinque anni anziché far nulla non è cosa da poco - ricorda Ravagnani -. Ma bisogna offrire strumenti adeguati, altrimenti diventa scoraggiante”. Frosinone. Chi era Sergio, il 30enne che si è suicidato in carcere schiacciato dalla solitudine di Alessia Rabbai fanpage.it, 16 luglio 2025 Fanpage.it racconta chi era Sergio, il detenuto 30enne che ha tentato il suicidio nel carcere di Frosinone ed è morto ieri in ospedale. Il garante dei detenuti del Lazio Anastasìa: “Solo e senza colloqui con l’esterno, c’era la speranza per lui di un’alternativa detentiva”. Si chiamava Sergio e aveva trent’anni il detenuto che ha tentato il suicidio venerdì scorso nel carcere di Frosinone. Era italiano di origine bielorussa, cresciuto in Calabria con la famiglia adottiva, con la quale però per motivi non noti, aveva chiuso ogni rapporto. Si trovava nel carcere di Frosinone da dicembre del 2024, prima era detenuto a Rebibbia, dopo l’arresto a Roma, condannato in via definitiva per un cumulo di reati minori. Era tossicodipendente e aveva commesso dei furti, probabilmente legati alla sua condizione di tossicodipendenza o alla necessità di vivere di espedienti. La sua era una delle tipiche storie di sopravvivenza. Prima di lui a febbraio scorso sempre nel carcere di Frosinone Andrea, completamente solo, si è ucciso a cinquantuno anni, prima di finire di scontare la sua pena. Sergio è morto da solo, nessuno lo andava a trovare, non faceva colloqui con l’esterno. Il carcere in casi come questo amplifica la solitudine di chi è già solo fuori. La direzione della casa circondariale si stava impegnando per verificare se il trentenne potesse essere trasferito in una comunità, per rendergli possibile una detenzione alternativa, vista la sua condizione di solitudine estrema. Ma non è facile che ciò avvenga quando si hanno sei anni da scontare, che se la legge lo consente. Venerdì scorso Sergio ha tentato il suicidio, ieri è morto. Quando il personale di turno del carcere lo ha trovato le sue condizioni di salute erano disperate: soccorso e trasportato in ospedale con l’ambulanza, è deceduto. Il cuore non ha retto, le lesioni riportate nel tentativo di togliersi la vita sono risultate gravi e irreversibili. “Le condizioni di sovraffollamento delle carceri rischiano di rendere invisibili persone sole come Sergio - spiega a Fanpage.it il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa - nel caos e nelle necessità della vita quotidiana in carcere si presta solitamente più attenzione ai detenuti maggiormente richiedenti. Sergio non era una persona che chiedeva, anzi viveva in disparte e in silenzio. Il servizio delle dipendenze lo seguiva, c’era la speranza per lui di costruire un’alternativa detentiva al carcere, ma non c’è stato tempo”. Milano. Fotografia dell’abuso e dell’uso improprio di farmaci nelle carceri di Silvia Pogliaghi trendsanita.it, 16 luglio 2025 Tra cure reali e uso improprio, cresce l’allarme salute mentale e la necessità di una presa in carico efficace. A Trend Sanità Maria Paola Canevini, Direttrice del Dipartimento di Salute Mentale che include gli Istituti di San Vittore, Bollate, Opera e Beccaria. Ogni anno in Italia transitano negli istituti penitenziari circa 100mila persone. Di queste, tra il 35 e il 50% presenta un uso problematico di sostanze, mentre oltre un terzo (34,1%) è detenuto per reati legati alla droga. Solo nel 2023, gli ingressi in carcere di persone con dipendenze sono stati 15.492, pari al 38,1% del totale. A fine 2023, i detenuti con dipendenza da sostanze erano 17.405, ovvero il 29% della popolazione carceraria complessiva. Il recente Rapporto Antigone 2025 fotografa una situazione sanitaria allarmante: tra i 95 istituti ispezionati, il 44,25% dei detenuti fa uso di sedativi o ipnotici, mentre il 20,4% assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Numeri che raccontano un uso intensivo di psicofarmaci e pongono interrogativi urgenti sulla gestione della salute mentale dietro le sbarre. Ne parliamo con Maria Paola Canevini, docente di Neuropsichiatria infantile e direttrice del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, che include anche la sanità penitenziaria per gli Istituti di San Vittore, Bollate, Opera e Beccaria. In questa intervista per TrendSanità affronta il tema, sempre più urgente, dell’abuso e del misuso di farmaci negli istituti di pena. Professoressa Canevini, partiamo dalle definizioni: cosa si intende per uso, abuso e misuso di farmaci in ambito penitenziario? “Nel contesto carcerario, il “confine” tra l’uso terapeutico, l’abuso e il misuso è particolarmente sfumato. L’abuso riguarda l’assunzione eccessiva o non motivata clinicamente di un farmaco, spesso per scopi psicoattivi. Il misuso invece, comprende tutti gli usi inappropriati, ovvero farmaci prescritti senza adeguata indicazione, richieste manipolative, o assunzione alterata rispetto alla prescrizione. È, purtroppo, un fenomeno che si accompagna sempre più frequentemente a forme di disagio psichico e sociale molto complesse”. Quanto è diffuso il problema della salute mentale in carcere, in modo particolare nel milanese? “Nei nostri Istituti milanesi, come, per esempio nella Casa Circondariale di San Vittore, si stima che oltre il 50% - dati aggiornati - dei detenuti presenti forme di disagio psichico, spesso associate a disturbi psichiatrici veri e propri. A titolo esemplificativo della portata del problema: una recente delibera regionale ha previsto l’istituzione, all’interno dell’Istituto Penitenziario di San Vittore, di un Reparto di Assistenza Psichiatrica Intensificata con una capienza di 24 posti letto. Applicando i criteri di gravità stabiliti dalla medesima delibera, nel primo trimestre del 2024 avremmo avuto bisogno di 126 posti letto. Si tratta, in molti casi, di persone con storie traumatiche, migranti, precoce politossicodipendenza e disagio sociale. E in più abbiamo il sovraffollamento: a San Vittore 748 posti per 1.115 detenuti, a Bollate 1.267 posti per 1.389 detenuti, a Opera 918 posti per 1.370 detenuti, e al Beccaria la carenza di spazi riabilitativi aggravano ulteriormente la situazione”. Quali sono i farmaci più richiesti o soggetti ad abuso? “Negli ultimi anni abbiamo osservato un aumento significativo della richiesta e dell’abuso di farmaci nati per l’epilessia, ma oggi usati anche per l’ansia o il dolore. Sono molecole legali, ma vengono spesso usate impropriamente, anche perché possono dare effetti psicoattivi. Lo stesso vale per alcuni oppiacei da prescrizione. Il problema è che molti detenuti arrivano già con terapie complesse, plurifarmacologiche e spesso poco giustificate”. I detenuti arrivano già con queste prescrizioni? “Talvolta sono il frutto di precedenti esperienze detentive o di prescrizioni territoriali, non sempre aggiornate o corrette. Quando entrano in carcere, richiedono la continuità delle terapie. Alcuni lo fanno perché ne hanno davvero bisogno, altri invece in modo strumentale e con secondi fini. Nella Casa Circondariale di San Vittore, per esempio, dove il turnover è altissimo, capita che l’abuso di psicofarmaci inizi per strada attraverso il mercato nero e poi sia rivendicato in carcere anche con modalità minacciose autolesionistiche: “O mi dai il farmaco, o mi faccio del male…”. Queste situazioni vengono poi gestite con un lavoro integrato fra psichiatri, psicologi, educatori e personale infermieristico. Quando possibile, cerchiamo di scalare l’uso di farmaci ad alto rischio, sostituendoli con molecole meno problematiche o alternative, non farmacologiche. Ma serve anche un lavoro di rete per garantire continuità assistenziale dopo la dimissione, cosa tutt’altro che semplice”. Esistono linee guida specifiche per la prescrizione psichiatrica in carcere? “Sono le stesse Linee guida cliniche del territorio. Tuttavia, in Lombardia, abbiamo sviluppato un prontuario farmaceutico penitenziario, condiviso con la Regione. Questo strumento permette di regolare la prescrivibilità di alcuni farmaci, rendendoli accessibili solo con una motivazione clinica precisa. Questo è un primo passo per limitare l’abuso strutturale e uniformare il territorio evitando che i pazienti, passando da un Istituto all’altro, tornino ad abusare di particolari psicofarmaci”. Nei penitenziari c’è anche “un mercato interno” dei farmaci? “Questo è un tema molto delicato. Alcuni psicofarmaci non vengono assunti, ma accantonati e poi scambiati, anche in modo organizzato. Questo avviene soprattutto se la somministrazione non è vigilata, come avviene nei reparti ospedalieri psichiatrici. Nelle carceri, gli infermieri non possono, ovviamente, sempre garantire l’assunzione osservata. Usiamo le formulazioni in gocce quando possibile, ma l’accantonamento e lo scambio restano un rischio reale”. Cosa accade dopo la scarcerazione? I detenuti con problemi psichiatrici vengono seguiti? “Quando una persona esce dal carcere, purtroppo non sempre è seguita. Il passaggio ai servizi territoriali può essere molto difficile, specie se la persona non ha una residenza stabile. Senza codice fiscale o un CPS (Centro Psico Sociale) di riferimento, rischia di essere abbandonata. Paradossalmente, alcune persone ricevono più cure in carcere che fuori. Il problema si accentua per i pazienti psichiatrici migranti”. Alcuni farmaci sono cruciali: come distinguere uso legittimo e abuso? “Pensiamo agli oppiacei per il dolore: sono indispensabili in alcuni casi, ma anche ad altissimo rischio di abuso. Lo stesso vale per i farmaci per l’insonnia. In carcere la qualità del sonno è spesso scarsa e le condizioni ambientali sono sfavorevoli, quindi le richieste sono numerose. Tuttavia, non sempre è semplice distinguere tra una reale necessità clinica e un uso strumentale. Farmaci per l’insonnia come la melatonina, che sono più sicuri, vengono purtroppo percepiti dai detenuti come inefficaci”. Oltre ai farmaci, esistono altri mezzi di “autoalterazione”? “Un fenomeno emergente è l’inalazione di gas butano, ottenuto dalle bombolette da campeggio usate per cucinare. In alcune carceri si sta cercando di rendere le celle “gas free”, introducendo piastre a induzione. Ma anche qui ci sono limiti tecnici, come l’insufficienza della rete elettrica. Inalare gas è estremamente pericoloso e rappresenta un’ulteriore via per stordirsi, evadere mentalmente dalla detenzione”. Come si può migliorare la situazione? “Serve una presa in carico multidisciplinare, con protocolli chiari e coordinamento tra istituzioni. Ma soprattutto serve una politica che garantisca il diritto alla cura dentro e fuori dal carcere, con percorsi di uscita assistiti. È anche una questione di sicurezza pubblica: una persona seguita, stabile, curata è meno pericolosa per sé e per gli altri. Ridurre l’abuso di farmaci in carcere significa investire in salute, dignità e reinserimento sociale”. Firenze. “I detenuti psichiatrici di Sollicciano sono abbandonati” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 luglio 2025 La denuncia di Antigone: “Infermieri barricati, educatori scomparsi. È una pentola a pressione”. “I detenuti del reparto di salute mentale del carcere di Sollicciano sono totalmente abbandonati a loro stessi”. È quanto denuncia l’associazione Antigone alla luce delle numerose testimonianze raccolte dal personale medico all’interno dell’Atsm, il reparto di Articolazione Trattamento Salute Mentale, dove finiscono pazienti-detenuti con criticità psichiatriche molto gravi. L’area del carcere è destinata ad accogliere nove persone, ma al momento (date anche le condizioni di degrado) ne ospita soltanto sei. Ebbene, dopo i recenti fatti di violenza ai danni principalmente della struttura, sia gli educatori che il personale medico sono di fatto scomparsi. Nello specifico, come hanno spiegato da Antigone, i due educatori che operavano nell’area hanno smesso di venire in servizio all’indomani di un incendio provocato da un paziente-detenuto che si è sviluppato venerdì. Inoltre, il personale medico (infermieri e Oss) resta “barricato” all’interno dell’infermeria proprio a causa dell’insicurezza che si respira nel reparto. L’unica cosa che viene garantita resta la terapia psicofarmacologica per ciascun detenuto. Fatto sta, hanno ripetuto dall’associazione, che “i pazienti sono abbandonati, non svolgono le attività ricreative che dovrebbero essere previste, e le loro condizioni peggiorano giorno dopo giorno”. Gli unici ad occuparsi dei reclusi restano pertanto gli agenti penitenziari, che però non vanno oltre al servizio di sicurezza e non hanno le competenze necessarie per svolgere le attività rieducative e di reinserimento sociale. “Il reparto Atsm è una pentola a pressione che rischia di scoppiare” ha sottolineato Enrico Vincenzini dell’associazione Antigone. Una situazione che permane in questo stato da diverso tempo. Da almeno un paio di mesi, infermieri e Oss non escono dalla loro stanza, mentre da almeno un paio di settimane sono spariti anche gli educatori. In tutto questo, la situazione si rende ancor più complicata a causa dello stato di degrado in cui versa questa area del penitenziario fiorentino, con acqua che gocciola dai soffitti, caldo estremo, muri e oggetti spaccati. Complessivamente a Sollicciano sono circa 140 i detenuti in carico al servizio di salute mentale. “Esiste un rapporto difficile tra la salute mentale e il carcere - ha concluso Vincenzini - dove sono tanti i detenuti-pazienti che necessiterebbero di percorsi di cura alternativi a quello del carcere, spesso non adatti e controproducenti, visto anche lo stato di degrado strutturale del penitenziario di Sollicciano”. Trento. Sovraffollamento in carcere, il Garante dei detenuti: “Venite e vedete” rainews.it, 16 luglio 2025 Il 30 luglio giornata di mobilitazione, accogliendo l’appello del Presidente Mattarella. A Trento presenti 381 detenuti a fronte di una capienza prevista di 240. Il Garante dei diritti dei detenuti della Provincia di Trento Giovanni Maria Pavarin aderisce alla proposta della Conferenza Nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà che ha indetto per il 30 luglio prossimo una giornata di mobilitazione per far fronte al problema del sovraffollamento nelle carceri. Il carcere di Trento a Spini di Gardolo era stato realizzato nel 2010 prevedendo una capienza di 240 detenuti. Al 30 giugno 2025 erano 381. Uno dei problemi che più affliggono i detenuti (e il personale) è il caldo soffocante all’interno della struttura. La manifestazione è stata indetta “per sensibilizzare l’opinione pubblica e sollecitare la politica” a un mese esatto dall’appello del presidente della Repubblica che il 30 giugno scorso, rivolgendosi al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ha sottolineato la necessità del rispetto dei diritti nelle carceri. “Venite e vedete, venite e ascoltate!” è l’appello che Pavarin fa proprio: i parlamentari e i consiglieri provinciali di Trento, fa sapere, sono invitati a fare ingresso presso l’istituto di Spini di Gardolo, unitamente al Garante, per il giorno 30 luglio. L’obiettivo è sensibilizzare deputati e senatori per far approvare la norma proposta da Roberto Giachetti (deputato di Italia Viva) che aumenta le giornate premio per buona condotta, portandole da 45 a 75 ogni sei mesi. Proposta che aveva avuto il sostegno del presidente del Senato La Russa (FdI), colpito dalla accorata testimonianza dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno (già Alleanza Nazionale) in carcere dal 31 dicembre scorso e che ha denunciato più volte il profondo disagio vissuto a Rebibbia. Intanto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha accertato che 10.105 detenuti cosiddetti definitivi - con pena residua sotto i 24 mesi, per reati diversi da quelli ostativi di cui all’articolo 4 bis della Legge di ordinamento penitenziario e che negli ultimi 12 mesi non hanno riportato sanzioni disciplinari gravi - sono potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere. Di conseguenza, al ministero della Giustizia è stata istruita una task force che ha già attivato interlocuzioni con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari per favorire la definizione delle posizioni. Il gruppo, insediato oggi, si riunirà con cadenza settimanale e trarrà le sue conclusioni entro settembre 2025. Como. Bassone sovraffollato e disumano: arriva l’esposto di Codacons quicomo.it, 16 luglio 2025 Il carcere Bassone di Como si conferma tra i più sovraffollati d’Italia: 424 detenuti stipati in una struttura concepita per ospitarne al massimo 226, con un tasso di affollamento pari al 190%. Una condizione resa ancora più drammatica dalla carenza di personale: solo 4 educatori in servizio, ovvero un educatore ogni 100 reclusi, senza contare la grave carenza di personale medico e agenti di polizia penitenziaria, già sotto organico. Numerosi i detenuti stranieri e definitivi, in una casa circondariale che di fatto funziona come una casa di reclusione, senza però garantirne le strutture e i programmi rieducativi previsti. La situazione sanitaria e psicologica dei detenuti appare critica: nell’ultimo anno si sono registrati 3 suicidi e circa 30 tentativi sventati. Numeri definiti “molto alti” dalla stessa comandante della struttura e dalla responsabile di Antigone Lombardia, Valeria Verdolini, che invoca un intervento urgente delle istituzioni affinché il carcere torni ad essere un luogo di rieducazione, come previsto dalla Costituzione. L’avvocato. Marco Maria Donzelli commenta: “le condizioni del carcere di Como violano i più elementari diritti umani e costituiscono una grave emergenza sociale. La detenzione non può tradursi in una tortura moderna: sovraffollamento, carenza di personale e assistenza sanitaria minima sono inaccettabili in uno Stato di diritto. Ciò che emerge dal Bassone impone risposte immediate dalle autorità competenti”. Alla luce di ciò il Codacons fa esposto alla Procura della Repubblica di Como, chiedendo di accertare eventuali responsabilità amministrative e istituzionali nella gestione della struttura e di verificare possibili violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti, con riferimento alle condizioni di vita all’interno della casa circondariale. Roma. Rebibbia, il “Diario” di Gianni Alemanno e l’appello alla politica di Laura Martellini Corriere della Sera, 16 luglio 2025 “Due detenuti tentano il suicidio in pochi giorni, misure subito contro il sovraffollamento”. A essere salvato stavolta nel braccio G8 un detenuto malato di cancro e rimasto senza cure: “All’inizio della legislatura il tasso di occupazione era al 107,4%, ora al 133%, se continua così arriverà a fine legislatura al 155%”. Gianni Alemanno torna a parlare in un post pubblicato per suo conto delle condizioni carcerarie, facendosi portavoce di criticità in questi giorni all’attenzione della politica. Condannato nel 2022 per finanziamento illecito e traffico di influenze illecite nell’inchiesta “Mondo di mezzo”, Alemanno, oggi 66enne, è stato sindaco di Roma dal 2008 al 2013 e ancor prima ministro dell’Agricoltura durante un governo Berlusconi. Dopo la condanna aveva ottenuto di iniziare un percorso presso i servizi sociali, ma a gennaio scorso il permesso gli è stato revocato per violazione degli obblighi di sorveglianza. “Il tempo stringe” - Da Rebibbia, scrive ora un altro capitolo del suo “Diario di cella”, esattamente il numero 14, dove racconta di un altro suicidio sventato, “mentre la politica comincia a muoversi, ma il tempo stringe”. “Rebibbia, 13 luglio 2025 - 194° giorno di carcere” è l’incipit. Segue la cronaca: “È accaduto un’altra volta. Otto giorni dopo il tentato suicidio di Kafi, un’altra persona detenuta è stata salvata in extremis dalla morte volontaria nel braccio G8. Martedì 8 luglio, ore 9.30. Secondo piano del braccio G8, Fabio rientrato nella sua cella da quattro persone (dove però sono alloggiati in sei) nota che il suo compagno di cella Flavio è chiuso da tempo in bagno. In queste celle il bagno è un budello di 90 centimetri per tre metri, in cui ci sono il water, il lavandino (ma si cucina anche), e dove si accede attraverso una sottile porta di legno che collega con la cella”. “Nessuna assistenza particolare per Fabio, malato di cancro” - Prosegue: “Fabio attende ancora qualche minuto, chiama ma nessuno risponde. Allora un oscuro presentimento lo spinge a sfondare la porta e irrompere nel bagno, dove trova Flavio privo di sensi, appeso alle sbarre della finestra con un cappio fatto con un lenzuolo. Alle grida di aiuto di Fabio, accorrono dalla cella di fronte Peppe e Nicolò - gli stessi che avevano salvato Kafi - sollevano il corpo, lottano con lo spazio ristretto e, alla fine, con Alessandro riescono a tagliare il cappio stretto al collo. Arrivano il medico del braccio e l’infermiere d’origine indiana John, stendono il corpo esanime per terra e praticano a turno per diversi minuti il massaggio cardiaco, fino a quando Flavio, sempre incosciente, ricomincia a respirare. Poi, con la solita barella a braccio, lo portano in infermeria e lo lì assistono, fino a quando non arriva l’autoambulanza che porta Flavio in un ospedale esterno al carcere, dove sarà ricoverato in terapia intensiva perché lo strangolamento gli ha procurato anche un infarto. Chi è Flavio? È una persona di 35 anni, malata di cancro al terzo stadio, con diverse metastasi, che non riceve nessuna terapia da tre mesi e mezzo. A questa tragedia si era aggiunto il dolore per un problema familiare. Ha tutto il corpo coperto di tatuaggi, compresi la faccia e il cranio ormai calvo per la malattia. Ma, nonostante tutto questo, era recluso in un normale reparto carcerario, senza nessuna particolare assistenza”. “Scriveremo di nuovo a Mattarella” - Quasi un eroe sghembo in quel contesto “Peppe, l’”ussaro” austro-calabrese protagonista di tutti e due i salvataggi, che qualche giorno fa, con i suoi occhi azzurri un poco velati, mi ha detto: “Ma ti pare che nessuno ci dice niente, a noi che abbiamo salvato i compagni da due tentati suicidi? Non dico ringraziarci, ma almeno dirci che si sono accorti che per due volte noi persone detenute, abbiamo salvato non solo vite umane, ma anche la faccia al carcere?”. Il racconto si conclude con un appello: “Io e Fabio Falbo, lo scrivano del braccio G8, scriveremo di nuovo al presidente della Repubblica per informarlo di questo secondo tentato suicidio e dell’impegno silenzioso di questi “criminali” che suppliscono alle troppe disfunzioni di un carcere sovraffollato. Sempre nella speranza non di una risposta, ma di nuovi interventi istituzionali. All’inizio della legislatura il sovraffollamento era al 107,4%, adesso è arrivato al 133%, se continua con questo ritmo arriverà a fine legislatura al 155%, record storico. Visto che il ministro della Giustizia continua a snocciolare proposte del tutto irrealizzabili, se non si trova una convergenza sulla proposta Giachetti, tutto questo non è un’ipotesi, è una certezza”. Roma. A Rebibbia una seduta del consiglio comunale per dare un segnale di Andrea Arzilli Corriere della Sera, 16 luglio 2025 Il 23 settembre si terrà un appuntamento straordinario all’interno del carcere. Il Consiglio comunale si sposta a Rebibbia: il 23 settembre una seduta straordinaria all’interno del carcere per sensibilizzare sulle condizioni in cui versano i detenuti negli istituti di pena romani, seguendo la traccia di papa Francesco che nel penitenziario di Rebibbia ha aperto la seconda Porta Santa del Giubileo, il 26 dicembre dell’anno scorso. A dare l’annuncio della “seduta straordinaria dell’Assemblea capitolina nel carcere” è stata ieri la Garante per i diritti dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, illustrando ai consiglieri una sintesi della sua relazione 2025 che sarà presentata integralmente il 28 luglio nella sala Laudato Sii del Campidoglio. Quest’anno già due suicidi, quattro nel 2024 - Già però i numeri snocciolati da Calderone sono quelli di un allarme che parte dal sovraffollamento (con tassi che sfiorano il 150%), passa dalla violenza e dalle condizioni di marginalità che si vivono all’interno delle celle, arriva ai problemi psicologici e psichiatrici fino all’evento estremo, il suicidio, che nelle Carceri si verifica con cadenza inquietante: 2 già quest’anno, 4 lo scorso. “Presso gli Istituti di Roma, nel 2024 è stato registrato un totale di 1.824 eventi critici, che comprendono atti di autolesionismo, tentativi di suicidi, aggressioni nei confronti di operatori o tra persone detenute - spiega Calderone - Nel 2024 si sono tolte la vita 4 persone, 3 a Regina Coeli e una a Rebibbia Nuovo Complesso. In questi primi mesi del 2025 ci sono già stati due suicidi, a Rebibbia Reclusione e uno a Regina Coeli”. Una delle radici potrebbe essere il sovraffollamento delle carceri romane: con molti detenuti a contatto tra di loro, magari con questioni preesistenti alla carcerazione che finiscono per rendere ancora più tesa e ingestibile la situazione nelle celle, e una difficoltà per il personale della polizia penitenziaria ad intervenire per tempo, prima di gesti estremi. “La capienza regolamentare dell’istituto di Regina Coeli è di 628 posti. Al 31 dicembre 2024 i posti effettivamente disponibili erano 566 e i posti occupati erano 1051. Al 30 giugno i posti occupati risultavano essere 1.092”, dice ancora Calderone nel fornire il primo esempio eloquente di sovrannumero. Il secondo riguarda l’altro carcere per maggiorenni, cioè la Casa Circondariale Rebibbia Nuovo Complesso, che ha “capienza regolamentare di 1.170 posti, ma i posti realmente disponibili sono 1.057 e quelli realmente occupati al 30 giugno risultano essere 1.571”. Quasi 500 detenuti in più rispetto alla capienza, insomma. Stessa cosa nel reparto femminile di Rebibbia: “La capienza regolamentare è di 272 posti, ma quelli realmente disponibili sono 265 - ha concluso Calderone. Al 30 giugno i posti occupati risultavano essere 369”. Troppi detenuti anche nelle strutture per minori. A Casal del Marmo, “per la prima volta si registra sovraffollamento: al 31 dicembre 2024 le presenze registrate erano 63”, racconta ancora la Garante che, nelle prossime settimane, si recherà insieme all’omologo del Lazio, Stefano Anastasia, a visitare il carcere albanese di Gjadër, una delle strutture messe su dal governo dopo un accordo con l’Albania finalizzato alla gestione dei flussi migratori, sulla quale hanno competenza diretta che se in territorio straniero. “Condizioni nelle carceri restino al centro del dibattito” - Quello delle carceri “è un tema che ci sta profondamente a cuore e sul quale manteniamo alta l’attenzione - così alla Dire Svetlana Celli, presidente dell’Assemblea capitolina - La condizione delle persone detenute e di chi lavora negli istituti penitenziari deve restare al centro del dibattito pubblico e politico, come ci ha recentemente ricordato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Proprio per questo, il prossimo 23 settembre terremo una seduta straordinaria all’interno del carcere di Rebibbia: sarà un momento importante per riaffermare il nostro impegno istituzionale in difesa dei diritti umani, della dignità e del principio del reinserimento sociale”. Saluzzo (Cn). Il Dams laurea i primi studenti nel carcere cuneodice.it, 16 luglio 2025 La struttura, destinata ai detenuti in regime di alta sicurezza, ospita attualmente 50 studenti iscritti all’Università di Torino. Il 17 luglio 2025, alle ore 10, presso il Teatro della Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, si terranno le cerimonie di discussione e conferimento di quattro lauree triennali di altrettanti studenti detenuti. I tre studenti che si laureeranno nel Corso di Studi in Dams saranno i primi studenti dell’Università di Torino, privati della libertà, a conseguire una laurea in questo corso. L’evento rappresenta un’importante testimonianza dell’impegno dell’Università di Torino nel promuovere l’accesso alla formazione universitaria in ogni contesto e oltre qualsiasi muro. Il Polo Universitario Penitenziario dell’Università di Torino è una realtà operativa da molti anni nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Dal 2019, sono state attivate le iscrizioni anche presso la Casa di Reclusione di Saluzzo, completamente destinata a detenuti in regime di Alta Sicurezza; nel 2022 è stata istituita, nello stesso Istituto, una sezione “Polo Universitario” esclusivamente dedicata agli studenti iscritti all’Ateneo. Attualmente sono iscritti all’Università di Torino 152 studenti privati della libertà personale. La Casa di Reclusione di Saluzzo ospita 50 studenti, 23 dei quali si trovano nella sezione “Polo Universitario” dell’Istituto. I Dipartimenti coinvolti sono: Culture, politiche e società; Lingue e Letterature Straniere e Culture Moderne; Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari; Giurisprudenza; Psicologia; Studi storici; Studi Umanistici; Struttura Universitaria di Igiene e Scienze Motorie; Scuola Universitaria Interdipartimentale in Scienze Strategiche; per un totale di 14 corsi di laurea triennali e 7 corsi di laurea magistrali o a ciclo unico. Presso la Casa di Reclusione di Saluzzo, nello specifico, sono iscritti: 16 studenti al CdL in DAMS; 12 studenti al CdL in Scienze e tecniche delle attività motorie e sportive; 13 studenti al CdL in Diritto per le imprese e le istituzioni; 4 studenti al CdL in Scienze Politiche e sociali; 1 studente al CdL in Storia; 1 studente al CdL in Innovazione sociale, comunicazione, nuove tecnologie; 1 studente al CdL in Comunicazione Interculturale; 2 studenti, laureati in triennale lo scorso Anno Accademico, alla magistrale di Comunicazione Pubblica e Politica. Lecce. Il 17 luglio due eventi della giornata dedicata al mondo penitenziario provincia.le.it, 16 luglio 2025 Un incontro di approfondimento e confronto a Lecce, con esperti impegnati ogni giorno sul campo e uno spettacolo teatrale tematico a Tiggiano, a cura di Stabile Assai, la più antica compagnia di teatro penitenziario in Italia. Sono i due eventi della giornata dedicata al mondo penitenziario, promossa dalla Commissione Pari opportunità provinciale, in collaborazione con la Provincia di Lecce e il Comitato provinciale di Lecce Aics (Associazione Italiana Cultura e Sport), in programma giovedì prossimo 17 luglio. “Due occasioni importanti che offriranno l’opportunità per informare e riflettere sulle condizioni di vita dei detenuti e sulle sfide che il sistema carcerario affronta, con l’obiettivo di creare un dialogo aperto e costruttivo sul tema, sensibilizzando le nostre comunità e promuovendo un approccio più umano e consapevole al sistema carcerario e ai suoi protagonisti”, spiega Anna Toma, presidente della Cpo della Provincia di Lecce che, per il secondo anno consecutivo, dedica un focus alla tematica. Il primo appuntamento è il convegno dal titolo “A 50 anni dall’approvazione della legge sull’ordinamento penitenziario. Il carcere oggi tra stigma, ritardi normativi e prospettive riparative”, che si terrà a partire dalle ore 9.30 nell’Auditorium del Museo Castromediano, in viale Gallipoli, a Lecce. L’iniziativa vuole offrire un’analisi sulla complessità della realtà penitenziaria e sulle difficoltà generate dall’etichettamento sociale, produttore di resistenze collettive nei confronti del reinserimento dei detenuti. “A pochi giorni dall’anniversario dei 50 anni dall’approvazione della legge sull’ordinamento penitenziario in Italia, la n. 354 del 26 luglio 1975, è necessario evidenziare come, nonostante la legge mirasse a un trattamento più umano e rieducativo, il sistema carcerario italiano presenta diverse criticità e fallimenti. La realtà delle carceri italiane è caratterizzata da sovraffollamento, carenze strutturali, carenza di personale, difficoltà di reinserimento sociale dei detenuti e delle detenute e, spesso, violazioni dei diritti umani”, evidenzia Anna Toma, presidente della Cpo provinciale. In apertura, sono previsti gli indirizzi di saluto di Stefano Minerva, presidente della Provincia di Lecce, Anna Toma, presidente Cpo della Provincia di Lecce, Vito Pagano, presidente AICS Provincia di Lecce, Paola Pagano, consigliera dell’Ordine Psicologhe e Psicologi Regione Puglia, Antonio Tommaso De Mauro, presidente COA Lecce, Maria Luisa Serrano, presidente del Cpo Ordine Avvocati di Lecce, Alfonso Parente Stefanizzi della Commissione Diritto Sport COA Lecce. I lavori saranno introdotti e moderati da Maria Mancarella, sociologa e garante delle persone private della libertà personale Comune di Lecce, che darà la parola ad alcune professionalità quotidianamente impegnate sui temi dibattuti: Giulio Bray, avvocato penalista del Foro di Lecce, Maria Pia Scarciglia, presidente Associazione Antigone Puglia, Antonio Turco, coordinatore nazionale della Consulta “Persone private della libertà” del Forum del Terzo Settore, Alessandra Moscatello, psichiatra e già direttrice sanitaria del Carcere Borgo San Nicola di Lecce. Il convegno ha ricevuto il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, del CPO dell’Ordine Avvocati di Lecce, della Fondazione Vittorio Aymone, del Forum Nazionale Terzo Settore, dell’Associazione Antigone Puglia e dell’Ordine delle Psicologhe e degli Psicologi di Puglia. L’evento, inoltre, è accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Lecce. “Il convegno, dedicato al cinquantesimo anniversario della riforma penitenziaria e alla attualità della condizione detentiva, sempre più esplosiva e che sempre meno tutela la dignità umana dei detenuti, vuole essere una specifica testimonianza della importanza del lavoro di rete tra gli Enti locali, quali Commissione pari opportunità della provincia di Lecce, Provincia di Lecce e Comune di Tiggiano, privato sociale, (il Forum del terzo settore e l’AICS nazionale e provinciale di Lecce) e il mondo delle Istituzioni (Ufficio del garante dei detenuti e delle persone private della libertà personale del Comune di Lecce), per affrontare il problema principale dei detenuti: il poter contare su una accoglienza solidale da parte della società nel momento della loro dimissione dl carcere”, afferma Antonio Turco, responsabile delle attività culturali presso la Casa di reclusione di Rebibbia, nonché consigliere nazionale del Forum Nazionale Terzo Settore. Il secondo appuntamento della giornata si terrà sempre giovedì 17 luglio, alle 21, nel Comune di Tiggiano. Nella storica piazza De Francesco, andrà in scena lo spettacolo teatrale “Je te cerco scusa”, a cura della Compagnia di Teatro Penitenziario “Stabile Assai” di Roma, scritto e diretto da Antonio Turco. La Compagnia “Stabile Assai” è la più antica compagnia di teatro penitenziario in Italia, fondata dall’educatore Antonio Turco, all’interno della Carcere di Rebibbia. Ancora oggi, a distanza di 40 anni il gruppo è diretto dal suo fondatore ed è composta soprattutto da ex detenuti, da personaggi del teatro e dell’ambito musicale romano. Oltre ad essere il più antico gruppo di teatro penitenziario italiano, viene considerato come principale espressione del teatro dell’auto narrazione, con il diretto contributo dei detenuti alla stesura del testo. Bambini in carcere: l’arte ci interroga, ma la politica guarda altrove di Paolo Siani scienzainrete.it, 16 luglio 2025 Il cortile d’onore di Montecitorio ospita da qualche settimana una scultura che rappresenta un bimbo in posizione fetale, a rappresentare la fragilità e l’abbandono, ma anche la promessa nel futuro se sapremo proteggere i bambini e le bambine. Non è quello che sta succedendo oggi, certamente nel mondo, e in Italia quando il decreto sicurezza porta in carcere le donne incinte o le madri con i figli. L’arte ha il potere di richiamare emozioni, è spesso collegata alla realtà ed è un potente mezzo di scoperta, di conoscenza e talvolta di denuncia. Nel cortile d’onore di palazzo Montecitorio da alcuni giorni è stata installata stabilmente l’opera dell’artista italiano Jago. La scultura, che si intitola Look Down, rappresenta un bambino rannicchiato su se stesso, in posizione fetale. Come scrive l’autore stesso: “Nasce da uno sguardo rivolto verso il basso, non per vergogna, ma per consapevolezza. È un invito a dirigere l’attenzione su ciò che troppo spesso ignoriamo: la povertà, l’abbandono, la fragilità che abita le nostre città e il nostro tempo. In questa opera si vuole raffigurare l’innocenza ferita di milioni di bambini, ma anche la promessa di un futuro che dipende da come sapremo proteggerli oggi”. Quindi, un’opera simbolo di povertà, discriminazione, indifferenza. La stessa indifferenza della politica che con il decreto sicurezza, approvato dal Parlamento poche settimane fa, mette in carcere bambini innocenti con le madri detenute. Su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui. Detenute come Claudia, 24 anni, all’ottavo mese di gravidanza, rinchiusa nel carcere di Lauro per madri con figli, come ci informa il garante delle persone private della libertà per la regione Campania Samuele Ciambriello. E Claudia è in carcere per un furto! Indifferenza o ipocrisia? - “L’arte, nelle sue forme più diverse, non solo riflette la società, ma la interpella, la stimola, la accompagna nei suoi passaggi storici più complessi”, ha commentato il presidente della Camera dei deputati, Lorenzo Fontana, durante la cerimonia d’inaugurazione dell’opera di Jago. Allora, ci sembra giusto interpellarci e interpellare la politica: è giusto che un bambino viva, ancor prima di nascere, la brutalità del carcere? È giusto che una donna viva in totale solitudine la felicità e le paure dell’attesa di una nuova vita? Non poteva avere gli arresti domiciliari? O stare in case famiglie per detenute madri? Può mai una donna in gravidanza che non ha commesso reati di particolare gravità affrontare una vita in carcere? Nel suo ultimo rapporto, dal titolo significativo di “Senza respiro”, l’associazione Antigone dà conto di eventi dolorosi accaduti proprio nel corso della gestazione a donne recluse. Per esempio, a Rebibbia, a causa di quello che è stato poi definito un parto precipitoso, una donna ha visto come unica figura “professionale” ad assisterla esclusivamente la sua compagna di cella. Ancora: a San Vittore una donna ha perso il proprio bimbo dopo aver accusato sintomi che forse avrebbero meritato una consulenza specialistica per essere decodificati adeguatamente. Che fine fa il supremo interesse del minore? - Il nostro Servizio Sanitario Nazionale, con il suo approccio universalistico, garantisce e tutela la salute fisica e mentale della madre e del feto o del neonato durante la gravidanza e il parto. A ogni donna in gravidanza devono essere garantiti gli interventi appropriati di un percorso assistenziale prenatale di base che possa assicurare una gravidanza normale e intercettare ogni minima alterazione in tempo per offrire la migliore assistenza alla mamma e al bambino o la bambina. Tutto ciò non è detto che lo si possa garantire a una donna gravida rinchiusa in un carcere. Senza fare sconti di pena a nessuno, si rispetti il supremo interesse del minore, così come prevede l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che l’Italia ha firmato. Nel lontano luglio 1929, Carmela, una giovane donna incinta, all’ottavo mese di gravidanza (proprio come Claudia) commette un ulteriore furto, viene arrestata e condannata, ma la sua condizione di mamma in attesa obbliga il giudice a non mandarla in carcere ma a farle scontare la pena agli arresti domiciliari. Nel lontano 1929, infatti, il legislatore penale aveva rivolto attenzione al rapporto tra la madre detenuta e la prole, attraverso il possibile differimento dell’esecuzione della pena per la donna incinta e la madre di prole in tenera età. A luglio 2025 Claudia commette lo stesso reato, ma il giudice non ha più l’obbligo del differimento della pena e Claudia con la sua creatura in utero viene rinchiusa in carcere. Oggi, con il decreto sicurezza: il reato è sempre lo stesso, la gravidanza è sempre la stessa, è il legislatore che è cambiato e purtroppo non in meglio. E allora accanto all’opera di Jago a Montecitorio occorre mettere le sbarre. Slitta il ddl sul fine vita, scontro tra giuristi di Michele Bocci La Repubblica, 16 luglio 2025 Amato: “Non sia possibile solo nelle cliniche private”. I costituzionalisti criticano l’esclusione del Ssn. Domani gli emendamenti. Sono tanti i punti oggetto di scontro, o comunque da chiarire, sulla proposta di legge sul fine vita della destra. Ieri la commissione Affari costituzionali del Senato ha ascoltato quattro esperti di diritto costituzionale, indicati da maggioranza e opposizione, e i temi caldi sono rimasti sul tavolo. Primo tra tutti, il ruolo del sistema sanitario nel suicidio assistito, che al momento non è previsto nella bozza di ddl. Un altro aspetto affrontato riguarda il ruolo la commissione unica nazionale che dovrebbe valutare tutte le istanze dei pazienti. Ci vorranno giorni di lavoro delle commissioni Giustizia e Affari sociali per esaminare gli emendamenti. Solo il Pd, domani, giorno fissato per la presentazione, dovrebbe proporne una quarantina, ai quali si aggiungeranno quelli delle altre forze politiche. Praticamente impossibile che la legge arrivi in aula prima di settembre. “Abbiamo chiesto che ci sia un voto entro la pausa”, ha detto ieri il capogruppo dei dem, Francesco Boccia. Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, aggiunge: “Non so se ce la faremo in tempo per la pausa estiva”. Giuliano Amato, ex premier e presidente emerito della Corte Costituzionale, è uno dei due esperti indicati dall’opposizione che hanno parlato ieri in commissione. Ha spiegato che ci sono persone che a causa della loro malattia non sono in grado di usare la mano o nemmeno la lingua per il suicidio assistito. “Ci sono macchine azionate con un comando vocale, dell’occhio o soffiando in una cannuccia. Non possiamo pensare che le abbiano le cliniche private”. Per Amato, che faceva parte della Consulta all’epoca della sentenza sul fine vita, il Comitato unico nazionale che valuta le istanze dei malati va bene. “Ma è utile un rapporto umano con queste persone, non solo del medico. Io avevo proposto che ci fossero anche comitati, al massimo regionali, che possono parlare con i malati”. Per Vladimiro Zagrebelsky, ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, anche lui chiamato dall’opposizione, con l’esclusione del Servizio sanitario si rischia una discriminazione per censo tra chi potrebbe permettersi il trattamento di fine vita e chi no. Per Lorenza Violini, docente di diritto a Milano convocata dalla maggioranza, “il testo dice espressamente che l’intervento del medico sarà di natura volontaria quindi implicitamente si esclude che comporti una retribuzione”. Non c’è un diritto alla prestazione per i malati. Per Mario Esposito, docente dell’Università del Salento, con la legge c’è il rischio che arretri il principio di tutela della vita. Ieri l’associazione Coscioni ha depositato al Senato 74 mila firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare le scelte di fine vita, compresa l’eutanasia attiva. Migranti. Cpr di Ponte Galeria, crollano i rimpatri di Giansandro Merli Il Manifesto, 16 luglio 2025 Detenzione amministrativa In un anno le deportazioni dei migranti dalla struttura alle porte della capitale sono passate dal 23% al 15%. I garanti dei detenuti di Roma e Lazio annunciano un’ispezione nei centri di Gjader. Sei delle sette persone finite lo scorso anno nel Centro di permanenza per i rimpatri (Cpr) di Ponte Galeria sono state private della libertà senza alcun motivo. Perché, dicono i dati anticipati ieri dalla garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone, il numero dei rimpatri effettuati su quello complessivo dei trattenuti è sceso sotto il 15%. In forte calo rispetto all’anno precedente, quando la percentuale si era assestata sul 23%. In cifre sono passati da 268 a 168. Non è un dettaglio perché l’unica giustificazione legale della detenzione amministrativa, ovvero quella che riguarda chi non ha commesso reati ma è solo in situazione di irregolarità con i documenti, sarebbe di preparare il rientro coatto nel paese di provenienza. “Si rivela un sistema che non risponde allo scopo per cui è stato istituito”, afferma Calderone. Dato di fatto che richiama le parole pronunciate solo lo scorso fine settimana dalla prima presidente della Cassazione Margherita Cassano sulle persone migranti nei Cpr: “Se le teniamo semplicemente contenute, lontane da casa, senza un lavoro, senza nessuna prospettiva per il loro futuro, non facciamo altro che creare le condizioni affinché diventino domani manovalanza del crimine”. Parole criticate dalla destra, che sui migranti si gioca una partita di propaganda fuori dagli elementi di realtà. In totale nel corso del 2024 dietro le sbarre della struttura detentiva alle porte della capitale, l’unica con una sezione femminile, sono transitati 1.045 uomini e 88 donne. Nel 2023 erano stati rispettivamente 1.100 e 45. Le migranti finite in detenzione amministrativa sono dunque raddoppiate. Le principali nazionalità dei reclusi sono state Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria. Paesi verso cui l’Italia effettua i rimpatri. Significa che, nonostante gli annunci dell’esecutivo sull’utilità dei Cpr e la quotidiana telecronaca delle deportazioni sui social del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il sistema non funziona nemmeno per il suo obiettivo dichiarato. E questo malgrado il governo Meloni abbia triplicato il periodo massimo di detenzione: da sei a diciotto mesi. A giudicare da Ponte Galeria, e come ampiamente previsto da chi conosce la materia, l’unico effetto è stato l’aumento delle sofferenze dei migranti. I dati completi saranno presentati al Campidoglio il 28 luglio. Ieri la garante ha portato davanti all’assemblea capitolina una sintesi (con dentro i numeri 2024 sugli istituti penitenziari di Roma: 1.824 eventi critici, quattro suicidi e tassi variabili di sovraffollamento). Nell’occasione Calderone ha annunciato per le prossime settimane una missione in Albania insieme al Garante per i diritti dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia. A Gjader, nell’ambito del protocollo Roma-Tirana, sono stati realizzati un centro di trattenimento per migranti (880 posti), un Cpr (144 posti) e un carcere (24 posti). Al momento le uniche presenze si registrano nel Cpr, ma non è chiaro il numero esatto. Sarà la prima missione di un’autorità di garanzia, dal momento che quella nazionale ha più volte rinviato l’ispezione e a quasi un anno dall’apertura delle prime strutture detentive extraterritoriali non l’ha ancora realizzata. Droghe. Strategia europea e rischio autoritario di Susanna Ronconi Il Manifesto, 16 luglio 2025 Molto è cambiato nello scenario europeo da quando, nel 2021, è stata varata la Strategia europea sulle droghe 2021-2025: diversi gli equilibri nel Parlamento europeo, con una crescita delle forze di destra, diversa la politica della Commissione, con un approccio sempre più law and order su fenomeni sociali epocali, aumentato il numero dei governi degli Stati membri orientati all’autoritarismo e al panpenalismo. L’emanazione della prossima Strategia sulle droghe 2026-2030 pertanto allarma le reti della società civile europea, che hanno cominciato a muoversi perché non vi siano passi indietro in una politica comunitaria che, sebbene non sufficientemente coraggiosa e adeguata, pure negli anni scorsi ha mantenuto l’Europa a livello globale in una posizione di ricerca di un miglior bilanciamento tra politiche della salute e dell’ordine, aperta alle alternative alla penalizzazione delle condotte minori, sostenitrice dei diritti umani e a favore della Riduzione del danno (RdD). Su quest’ultimo punto, soprattutto, la Strategia che è in scadenza aveva registrato un passo importante, fortemente voluto dalle associazioni, sollevando la RdD dalla tradizionale ancillarità alla ‘riduzione della domanda’ e facendone un asse strategico a sé. Non è stato facile nemmeno allora: la prima bozza redatta dalla Commissione era pesantemente orientata alla riduzione dell’offerta e al penale, e solo una decisa azione di advocacy e l’intervento della presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione Europea aveva consentito di modificarla. Il prossimo semestre e i primi mesi del 2026 dunque si prospettano un tempo di necessaria mobilitazione. Il 26 giugno, nell’ambito della giornata Support don’t punish - come il movimento di riforma ha ribattezzato la Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droghe dell’ONU - la nuova European Drug Policy Alliance, che unisce le più importanti reti europee e organizzazioni nazionali, di cui Forum Droghe è parte, ha lanciato la sua EU Drug Policy Campaign 2025, primo passo un Manifesto - La riduzione del danno funziona! Appello per una politica europea sulle droghe basata sulla salute. Appello lanciato in prima battuta ai parlamentari europei democratici, affinché si attivino per esercitare controllo e orientamento sulla nuova Strategia. A questo scopo sarà importante anche l’azione a livello nazionale: per informare e orientare i nostri parlamentari europei e sostenere la nascita di un intergruppo a Strasburgo in grado di svolgere una battaglia politica che ha a che fare non solo con un quarto della popolazione dell’Unione che incontra le sostanze illegali, ma con la giustizia sociale, la difesa dei diritti e della democrazia stessa dall’invasione del panpenalismo autoritario. Più arduo per noi incidere sul governo nazionale, il cui posizionamento è sempre più ideologico, autoritario, autoreferenziale: dal reato di rave all’aumento delle pene per le condotte minori, dal codice della strada al decreto sicurezza, la strada è segnata, fino a quella che sarà la sua autocelebrazione, la VII Conferenza nazionale governativa di novembre. Fino ad oggi, a Vienna, in sede CND - Commission on Narcotic Drugs, il governo italiano ha mantenuto l’allineamento formale alle posizioni UE. Ma certo in sede europea non esiterà a sposare le posizioni più retrive sulla nuova Strategia: ne è plateale anticipazione il recente abbandono del Gruppo Pompidou, organismo del Consiglio d’Europa sulle droghe, che l’Italia ha concorso a fondare nel 1971 e che presiedeva al momento delle dimissioni. La ragione: disaccordo con gli orientamenti del Gruppo. Sarà che il suo programma è fondato sui “Diritti umani, cuore delle politiche su droghe e dipendenze” e che negli ultimi anni ha riconosciuto l’efficacia della Riduzione del danno: davvero troppo per il sottosegretario Mantovano. Solo il 16% degli italiani pronto a fare la guerra di Paolo Baroni La Stampa, 16 luglio 2025 L’indagine Censis: forte pacifismo e tanti pronti a disertare. Il 26% punterebbe sui mercenari stranieri al fronte. Russia e Paesi islamici considerati la prima minaccia. Il centro studi: “Prevalgono cinismo e spinta alla neutralità”. Nel momento in cui la conflittualità globale si intensifica, con la deflagrazione di scontri militari dispiegati su più fronti, la società italiana si scopre impreparata. “Una impreparazione culturale e psicologica, prim’ancora che nella dimensione specificamente bellica: in pratica non si riesce a concepire la guerra come un fatto possibile e attuale, ritenendo ancora di poterla aggirare con astuzie politico-diplomatiche” rivela una nuova indagine del Censis su “Gli italiani in guerra” che La Stampa è in grado di anticipare. Non solo il livello di allerta resta molto basso, e la probabilità che si concretizzi una minaccia diretta al nostro Paese si ferma a quota 31 in una scala che va da zero a 100, ma gli italiani non sono per nulla pronti a combattere. Anzi. Percepiscono tante minacce, mettendo ai primi posti Russia, Paesi islamici, Usa, Israele e Cina, ma nell’ipotesi che l’allargamento del conflitto finisca per coinvolgere l’Italia la maggioranza dei cittadini si chiama fuori. Secondo un sondaggio inserito nella ricerca del Censis, effettuato su un campione di 1.007 individui rappresentativi della popolazione italiana maggiorenne, nella fascia tra 18 e 45 anni - in pratica i soggetti potenzialmente più coinvolti in una eventuale chiamata alle armi -, solo uno su sei (ovvero il 16% del totale) sarebbe pronto a combattere, il 39% proclamandosi pacifista protesterebbe di fronte al richiamo delle forze armate, il 19% invece diserterebbe o fuggirebbe per non prendere parte alle ostilità, evitare il fronte e non assistere al bagno di sangue. E poi c’è un altro 26% che si rifiuterebbe di andare in guerra, proponendo “con cinica freddezza” come soluzione più comoda e preferibile quella di arruolare soldati di professione, di pagare mercenari stranieri a cui far fare il lavoro sporco al posto nostro. Di certo, però, la situazione attuale impone di correre ai ripari, di prepararsi per tempo. Ma tra potenziare il nostro apparato di sicurezza e non farlo il Paese si divide: c’è infatti un 22% del campione che sostiene che non dobbiamo né rafforzarci né costituire un sistema di difesa europea e un altro 26% che invece sostiene che dobbiamo riarmarci “per essere temibili”. Non solo: bisognerebbe investire sulla nostra difesa anche riducendo la spesa pubblica o sacrificando la spesa sociale, come i fondi per le scuole, gli ospedali e le pensioni. “Tra questi due poli si collocano tutti gli altri” segnala il Censis. Con una quota dell’11% della popolazione che arriva addirittura a sostenere che sarebbe ora che anche l’Italia si dotasse della bomba atomica. Due italiani su tre sono convinti che il nostro non sia un popolo di guerrieri e che combattendo da soli verranno travolti dal nemico. E visto che per il 63% i dazi americani “sono già un atto di guerra”, negli italiani adesso vacilla la convinzione che siano gli americani a proteggerci. “Forse questa è la crepa più profonda che si è aperta nell’opinione pubblica”, sottolinea lo studio. Al netto dei contrari a qualsiasi meccanismo di riarmo, quasi la metà degli italiani è comunque convinto che occorrerebbe rafforzare la Nato, mentre una quota pari al 58% è favorevole a sviluppare un sistema di difesa europeo. “A proposito di alleanze - reali, vagheggiate o solamente scritte nel libro dei sogni - va però sottolineato che il cinico pragmatismo di un popolo non battagliero, poco disposto a impegnarsi in prima persona, ci fa dire, con poche esitazioni, che la via maestra da seguire è la neutralità diplomatica, al riparo dal fuoco incrociato” rileva ancora il Censis. E questo vale per la guerra scoppiata al confine orientale dell’Europa, tra la Russia e l’Ucraina, e vale per la crisi mediorientale. Le opinioni prevalenti non cambiano, con rare eccezioni: è meglio che l’Italia ne resti fuori. Neutrali (al 59%) anche di fronte ad una possibile invasione della Groenlandia da parte degli Usa, mentre il 38% sostiene che dovremmo entrare nell’alleanza internazionale chiamata a difenderla e col restante 4% che starebbe invece con l’America. Per affrontare i pericoli di un eventuale conflitto le strategie personali sono invece volte alla protezione della propria incolumità con accortezza e prudenza: l’81% si preoccuperebbe di cercare informazioni su un rifugio sicuro per ripararsi in caso di bombardamenti, il 78% provvederebbe a stoccare provviste alimentari a lunga conservazione, il 66% (con un picco del 77% tra i giovani sotto i 35 anni) si procurerebbe un kit di sopravvivenza per resistere il più a lungo possibile, il 59% si trasferirebbe in una località lontana dalle zone di guerra (la percentuale sale al 68% tra i giovani). C’è poi un 27% (39% tra i giovani) che pensa di procacciarsi un’arma e imparare a usarla per difendersi. “Si fa sentire l’eredità culturale di un Paese che nel tempo ha conosciuto invasioni, carestie e terremoti, e che sa distillare l’incertezza nell’arte di arrangiarsi - sintetizza così la ricerca del Censis -. È un’Italia che non vuole combattere, non sogna imprese eroiche e non ambisce a medaglie, ma nella cattiva sorte si prepara a resistere alla tempesta con astuzia e una buona scorta di viveri”. Insomma, “non è il calco dello stereotipo impersonato dalla coppia formata da Sordi e Gassman nel capolavoro di Monicelli La grande guerra - rileva infine il Censis -, ma certamente non è nemmeno il ritratto di un popolo pronto a marciare euforicamente sotto le bandiere e nel fragore delle armi, disposto a sacrificarsi con gli scudi alzati e gli slanci eroici sul campo di battaglia in nome di un astratto principio (che sia il diritto internazionale, la democrazia o la supremazia occidentale, poco importa)”. Per rifondare l’ordine mondiale servono leader credibili di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 16 luglio 2025 Il capo della Casa Bianca ha già perso molta credibilità, e i sondaggi Usa lo rilevano e rivelano senza eccezione alcuna. Un presidente non credibile con comportamenti erratici non ha nessuna possibilità di costruire un nuovo ordine globale. E l’Ue, per favore, batta un colpo. Troppi si sono già dimenticati, oppure, forse non hanno mai realizzato, che l’ordine mondiale del dopoguerra, che non fu mai del tutto “liberale”, è stato il prodotto di due fattori. Da un lato, il ruolo, questo sì effettivamente liberale, svolto dagli Stati Uniti da Bretton Woods in poi nelle grandi organizzazioni internazionali, in particolare quella per il commercio e nella Banca mondiale e nel Fondo monetario internazionale. Dall’altro, quel tanto di ordine internazionale che ha caratterizzato il dopoguerra fino al 1989 dipese - lo scrivo con l’enfasi degli studiosi che lo battezzarono, descrivendolo e monitorandolo - dall’equilibrio del terrore (nucleare) fra Usa e Urss. Il meritato disfacimento dell’Unione sovietica ha creato una situazione nella quale gli Stati Uniti si sono ritrovati superpotenza solitaria, ma, in parte restia in parte incapace, di costruire un nuovo ordine internazionale. La guerra del Golfo nel 1991 comunicò comunque che la creazione di una ampia coalizione con obiettivi condivisi è una soluzione possibile, forse la soluzione anche auspicabile. Nel frattempo, però, alcuni Stati, cresciuti grazie all’ordine che era esistito, hanno cercato di imporsi sulla scena internazionale con l’obiettivo, talvolta meritorio, di raddrizzare qualche squilibrio. Impropriamente, li chiamo un po’ tutti Brics, consapevole, ovviamente, che Russia e Cina giocano anche un’altra partita e su tavoli diversi. L’operazione militare speciale di Putin - vale a dire la brutale aggressione all’Ucraina - non è stata lanciata perché la Nato abbaiava (però, senza mordere) ai confini della Russia, ma perché il capo del Cremlino sta tentando di arrestare il declino, in buona parte già avvenuto e irreversibile, del suo paese. La ricca Ucraina rimane una preda ambita, anche se sarà quasi impossibile rilanciare il prestigio della Russia il cui potere militare sembra attualmente dipendere dalle armi, e persino dai soldati, provenienti dalla Corea del Nord. In altri tempi, il presidente degli Usa avrebbe probabilmente cercato di contrapporre all’aggressore una coalizione, includendovi, per esempio, l’Unione europea, non, come ha fatto Trump, prima con una specie di ammuina a Putin, poi facendo la faccia feroce e lanciando ultimatum: cessate il fuoco entro 50 giorni. La assoluta necessità di una coalizione capace di imporre la fine del conflitto Hamas-Israele è lampante. Anche in questo drammatico contesto le dichiarazioni di Trump sembrano non sortire alcun effetto con Netanyahu, che continua arrogante e imperterrito a perseguire obiettivi che sono anche suoi personali. Nessuno degli studiosi delle relazioni internazionali ha mai scritto che potenza e prestigio dipendono esclusivamente dalle condizioni economiche di un paese. Tutti o quasi gli studiosi di economia sostengono che il libero commercio è fattore di crescita, nazionale e internazionale. Qualcuno aggiunge che il commercio riduce le tensioni e agevola comportamenti di collaborazione, pacifici. Dazi e protezionismo non fanno diventare grande proprio nessuno. Le guerre commerciali finiscono sempre male, più o meno. Sicuramente le guerre commerciali non servono a ristrutturare le modalità di commercio mondiale che, sostiene Trump, risultano in svantaggi consistenti e persistenti per le imprese e gli operatori economici Usa. Dei consumatori il presidente non sembra curarsi. Anche in questo caso le sue dichiarazioni sono roboanti, talvolta offensive, e gli ultimatum quasi perentori. Il capo della Casa Bianca ha già perso molta credibilità, e i sondaggi Usa lo rilevano e rivelano senza eccezione alcuna. Un presidente non credibile con comportamenti erratici e non prevedibili non ha nessuna possibilità di (contribuire a) costruire un nuovo ordine internazionale. Anzi, la continuazione del disordine è assicurata dalla crescita, anche, come ambizioni, della Cina della cui visione di ordine internazionale è legittimo essere preventivamente preoccupati. Please, Unione europea, batti un colpo, anche due. *Accademico dei Lincei Ucraina, Palestina e la vittoria dei “cattivi” di Massimo Nava Corriere della Sera, 16 luglio 2025 Dopo tanti accorati richiami al diritto internazionale e condanne di massacri di civili, che in fin dei conti la vittoria resta nel campo dei “cattivi”, Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu. Più volte, i leader europei hanno annunciato l’ingresso dell’Ucraina nella Nato, salvo lasciare nel limbo percorsi e date possibili. Dall’inizio della guerra, hanno manifestato a Kiev una solidarietà a tutto campo, che comprendeva aiuti economici, accoglienza profughi e soprattutto armi, tuttavia manifestata a intermittenza e con il contagocce. L’impegno per la ricostruzione è importante, ma non sufficiente: un pacchetto di dieci miliardi, quando le stime dei danni di guerra ammontano a oltre cinquecento miliardi. E dall’inizio della guerra, la narrazione ufficiale prevedeva il crollo della Russia a colpi di sanzioni, l’isolamento internazionale di Mosca e - secondo i bene “informati” - malattie irreversibili e pazzia di Vladimir Putin. Infine, si sono fatti calcoli approssimativi sull’impegno americano: che è stato notevole sotto la presidenza Biden, così da illudere gli ucraini della possibile vittoria, ed è evaporato sotto la presidenza Trump, con l’aggiunta di una sostanziale presa in giro del povero presidente ucraino Zelensky, con il quale si sono presi impegni confermati e disattesi a distanza di ore, come appunto l’invio di sistemi antimissile Patriot che la Casa Bianca non ha ancora deciso se tenere o meno nei propri magazzini. Una beffa che gli ucraini hanno giustamente definito “disumana”. Tre anni di guerra, centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi e immense distruzioni hanno portato a questo quadro disperato. E mentre si rinnovano promesse verbali a Kiev (si è anche parlato di ingresso rapido nell’ Unione Europea) la Russia intensifica a dismisura i bombardamenti per trattare da posizione di forza e rendere irreversibili le conquiste territoriali. L’Ucraina è anche vittima collaterale della crisi in Medio Oriente, che ha totalmente deviato l’attenzione internazionale e ha evidenziato quali siano oggi le priorità della Casa Bianca: sostegno incondizionato a Israele, rapporto privilegiato con i Sauditi, affari immobiliari con gli arabi moderati, isolamento e possibile cambio di regime in Iran, espulsione dei palestinesi da Gaza. In altre parole, per l’amministrazione Trump, decisa peraltro a riaprire un dialogo con Mosca, il conflitto in Ucraina è poco più di una scocciatura, da mettere - ad uso interno - sul conto dei fallimenti dell’amministrazione Biden. Purtroppo, si sta materializzando nel modo peggiore il minaccioso monito di Putin, che all’inizio del conflitto propose a Zelensky di trattare subito, perché “dopo sarà peggio”. Anziché concedere l’autonomia del Donbass, secondo lo schema degli accordi di Minsk 2014, l’Ucraina dovrà rassegnarsi a una sostanziale amputazione. Ed è triste constatare, dopo tanti accorati richiami al diritto internazionale e condanne di massacri di civili, che in fin dei conti la vittoria resta nel campo dei “cattivi”, Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu. Entrambi ricercati dalla Corte penale internazionale dell’Aja, entrambi oggetto di proteste e giudizi morali, entrambi abilissimi nel costruire l’alibi perfetto (il terrorismo di Hamas, l’espansione della Nato ad Est) per perseguire analoghi obiettivi di espansione territoriale, facendo terra bruciata in Ucraina e a Gaza. Entrambi, infine, inarrestabili, grazie al sostanziale semaforo verde del presidente Donald Trump, il quale ha continuato a sostenere militarmente Israele, ha ridotto l’aiuto all’Ucraina e nemmeno alza la voce con Putin. La vittoria dei “cattivi” è anche la sconfitta del diritto internazionale e umanitario, di quei valori che la sola Europa pretende ancora di difendere senza tuttavia essere capace di mettere in campo un’azione politica forte, autonoma e coerente. Prona al disegno americano della futura Nato, imbelle nella battaglia sui dazi, l’Europa è stata soltanto capace di combattere la Russia a colpi di sanzioni, facendo del male anche a se stessa. Nemmeno la solidarietà per ucraini e palestinesi ha lo stesso suono, su uno spartito condizionato da reazioni culturali e storiche e dal vecchio vizio dei due pesi e delle due misure. Come se i bambini ucraini e i bambini palestinesi non facessero parte della stessa razza umana. Mali. Torture, decapitazioni e stragi di touareg e peul: il report consegnato alla Corte dell’Aia di Giusy Baioni Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2025 Un documento di 87 pagine consegnato alla Corte Penale Internazionale rivela torture e massacri contro le popolazioni nomadi. In Mali è in corso una pulizia etnica: così documenta un dossier, che Ilfattoquotidiano.it ha potuto visionare in esclusiva, depositato alla Corte Penale Internazionale dove è già aperto un procedimento sul paese saheliano. Dopo la denuncia della rivista Jeune Afrique delle atrocità commesse dagli uomini di Wagner in Mali, emerge un dossier prodotto da una ricercatrice italiana che chiede l’anonimato per non mettere in pericolo le fonti. Insieme a loro, infatti, ha prodotto 87 pagine sulle gravi violazioni dei diritti umani depositate alla CPI il 5 aprile scorso: la dottoressa ha raccolto e strutturato testimonianze, documenti video e audio e rilievi forniti da esperti locali, confrontandoli con documenti d’archivio, testi storici, scientifici e studi militari. Ciò che ne emerge è la documentazione di una pulizia etnica in corso ai danni delle popolazioni nomadi, principalmente di etnia tuareg e (in misura minore) peul. Un dramma quasi sconosciuto, poiché accade in pieno deserto, lontano dagli sguardi. Solo alcuni gruppi Facebook legati alle milizie russe che contribuiscono a questa carneficina documentano l’accaduto: Ilfattoquotidiano.it ha deciso di non diffondere immagini e video perché troppo cruente. “Sono giunta a Timbuctu oltre vent’anni fa - racconta la ricercatrice a Ilfattoquotidiano.it - per un progetto di conservazione dei manoscritti saharo-saheliani, dal 2003 al 2008. Un periodo di pace e grandi aspettative rapidamente disattese. Dopo la crisi libica, la situazione securitaria si è rapidamente deteriorata fino agli scontri del 2012-14, che hanno portato all’intervento di truppe internazionali. Nel 2019 sono diventata consulente scientifica per ong e associazioni civili indipendenti che collaboravano con la missione Onu in Mali (Minusma) per il peacekeeping. Il regime militare di Assimi Goita, insediatosi nel 2020, ha imposto due anni dopo la partenza delle coalizioni internazionali, seguita da quella della Minusma nel 2023. È allora che sono iniziati i terribili fatti oggetto del mio lavoro di documentazione, aggravatisi soprattutto dopo la presa di Kidal. Dal 2021 dirigevo un gruppo di lavoro formato da personale locale di differenti professioni (sanitari, etno-linguisti, intellettuali, cooperanti, responsabili della sicurezza) che elaborava strategie di coesione sociale. Nel 2023, nonostante l’interruzione dei programmi Onu, alcuni membri del gruppo hanno continuato spontaneamente l’attività, rilevando violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Il gruppo di studio si è trasformato progressivamente in gruppo di monitoraggio, di cui ho centralizzato e strutturato i dati per circa due anni”. ?Da quel momento, alla ricercatrice si è aperto un mondo che non conosceva in maniera così approfondita, pur avendo vissuto a lungo nel Paese: “Pur sapendo delle discriminazioni delle popolazioni nomadi del nord, fino al 2023 io stessa ignoravo la vastità e la ciclicità del dramma dei tuareg del Mali - spiega - Nell’agosto di quell’anno amici della regione di Timbuctu e Kidal mi hanno chiamata dicendomi che stavano scappando in Mauritania. In 48 ore interi clan di pastori nomadi, allevatori, artigiani pacifici sono fuggiti, prevedendo il disastro in arrivo. Qualche settimana dopo sono iniziati i pogrom. Uccisioni di civili, massacri di campi nomadi e villaggi semi-sedentari, torture, arresti arbitrari seguiti da esecuzioni sommarie”. Ma non solo: “Una delle tecniche di riduzione etnica è la distruzione delle risorse. Uccidono gli animali, avvelenano i pozzi che nel deserto equivale a sterminare o costringere alla fuga decine di migliaia di persone. Una tecnica documentata già dagli Anni 60”. Parliamo dell’uccisione di decine di migliaia di capi di bestiame, fra ovini, caprini (dei tuareg) e bovini (dei peul). Ne esiste un censimento parziale, allegato al rapporto. “Anche il calo della prolificità è un indicatore di pulizia etnica. Qui, mentre le altre etnie aumentano, i tuareg sono sempre meno, ormai sotto gli 1,2 milioni. Ciò che accade ora è solo l’ultima ondata di un programma di riduzione etnica iniziato già con il primo presidente del Mali, Modibo Keita, e ripreso ciclicamente negli anni da altri governi. Quelle che da allora vengono presentate come ‘ribellioni’ tuareg non sono altro che la reazione ai tentativi di riduzione etnica, a loro volta seguite da sanguinose repressioni”. Le violenze in atto sono attestate anche dagli indicatori demografici: la popolazione della regione di Kidal dal 2013 al 2023 è sempre cresciuta in maniera abbastanza costante. Poi, all’improvviso, è passata da 98.433 residenti nel gennaio 2023 a 26.633 nel gennaio 2024. “Non tutti morti, ovviamente - spiega la fonte - Quelli che mancano all’appello sono tutti scappati nei Paesi vicini. Nel campo profughi di M’Bera, poco oltre il confine mauritano, secondo i dati ufficiali i rifugiati erano 102.353 al 31 marzo 2024 (112.827 con le persone accampate nei dintorni). Il 77% di loro viene dalla regione di Timbuctu. Ma se nel distretto di Timbuctu ci sono un 45% di songhoy (l’etnia sedentaria che per secoli ha convissuto pacificamente coi tuareg) e un 25% di tuareg, nel campo di M’Bera i tuareg sono il 55%, seguiti da ‘arabi’ (popolazioni di origine nordafricana) col 29%, peul col 12% e solo un 4% di altre appartenenze. La componente etnologica del campo non è conforme a quella del nord del Mali. Secondo il governo scappano per l’insicurezza, ma in realtà i profughi sono peul e tuareg. Se ci fosse un pericolo generalizzato, scapperebbero tutti, anche i songhoy”. LA PRESA DI KIDAL - La città di Kidal, nel nord del Mali, era all’85% tuareg. Il gruppo indipendentista tuareg CSP (Cadre Stratégique Permanent) nel 2015 aveva firmato con il governo centrale l’Accordo di Algeri che riconosceva l’autonomia alla popolazione locale. Nel 2023, a partire da agosto, la situazione si è fatta sempre più tesa. La giunta militare di Assimi Goita aveva chiesto la chiusura della missione Onu, accusata di complicità con gli indipendentisti, e il 30 giugno 2023 il Consiglio di Sicurezza Onu aveva votato per il suo ritiro progressivo nei sei mesi seguenti: “È stato allora che sui social sono iniziati a circolare post di incitamento all’odio. Non appena la Minusma ha lasciato Kidal, il 31 ottobre 2023, il governo maliano ha rotto unilateralmente l’accordo di Algeri e, sostenuto dai combattenti della Wagner, ha puntato alla ripresa della città. Nessuna ribellione era in atto”. La narrazione governativa dice che Kidal è caduta in 7 giorni. “In realtà il governo centrale ha rotto gli accordi senza preavviso e il CSP è stato preso alla sprovvista. Dopo 7 giorni di bombardamenti ininterrotti sui civili, le truppe del CSP hanno lasciato la città senza subire alcuna perdita. Le Forze Armate del Mali dichiararono di aver distrutto con il primo bombardamento con droni cinque pickup di terroristi. I target erano invece un complesso scolastico e il Consiglio regionale in riunione”. Nel dossier sono allegate le foto dei corpi delle vittime, fra cui diversi ragazzini e bambini. “Appena entrati in città hanno ucciso il maestro e il governatore, originario di Bamako, probabilmente per non lasciare testimoni. La scuola e il Comune erano vicini alla base Oni di cui i militari e i Wagner volevano il possesso, non solo per il valore strategico ma perché le ex-basi Minusma sono utilizzate come campi di detenzione arbitraria e tortura”. Prosegue la fonte: “Nonostante la ‘liberazione completa’ di Kidal, le violenze sono proseguite per undici settimane, bombardando con droni e provocando solo vittime civili nell’unica città a predominanza tuareg. Per tre mesi e mezzo esercito e Wagner hanno infierito su popolazioni inermi, invocando anche il metissage forcé, ovvero l’invito a violentare le donne tuareg per avere bambini ‘misti’: la ‘soluzione al problema identitario tuareg’ già invocata dal primo presidente Madibo Keita”. I JIHADISTI - Tutto questo, ufficialmente, in nome della lotta al terrorismo. I gruppi armati terroristi in Mali sono due: JNIM (Jama’at Nusrat al Islam wa al Muslimeen) e EIGS (État islamique au Grand Sahara) e ognuno di essi non supera i 6mila membri. Le Forze Armate invece contano 35mila effettivi. Spiega la ricercatrice: “Secondo le informazioni locali, ci sono qualche decina di tuareg in EIGS e solo qualche centinaio di combattenti tuareg si trovano ancora in JNIM, gruppo jihadista ora a dominanza peul, ma nel quale ormai si trovano anche bambara (l’etnia maggioritaria del sud del Mali) e persino stranieri, come sudanesi, houssa dal Niger, siriani, algerini, saharawi, libici e pure alcuni europei di al-Qaida. Per un decennio si è parlato di jihadisti peul e tuareg che massacrano la popolazione locale, senza precisare che il 75% della popolazione locale è tuareg e peul. I nomadi della regione non si riconoscono nelle azioni dei jihadisti, anzi se ne sentono vittime e li accusano di aver screditato la loro causa e di aver distrutto gli equilibri già fragili della regione”. I MERCENARI RUSSI - Preannunciati a fine 2021, i primi istruttori russi sono giunti in Mali nel 2022. “Dal loro arrivo hanno impresso una svolta brutale alle azioni delle Forze Armate. La Minusma, che segnalava gli abusi crescenti, è stata accusata di prendere le parti del CSP. Dopo la partenza della missione Onu da Kidal, nessun osservatore internazionale ha più documentato le violenze”. È noto che, a partire dall’estate 2022, tra le fila dei Wagner siano a più riprese stati reclutati detenuti nelle carceri russe, inviati in prima linea in Ucraina in cambio dell’amnistia. Dopo la morte del loro capo Yevgeny Prigozhin, i mercenari si sono uniti al battaglione ceceno Akhmat, come aveva dichiarato nel novembre 2023 lo stesso comandante del battaglione, Apti Alaudinov. “Prima della marcia su Mosca - prosegue la ricercatrice - i Wagner avevano ottenuto di prendere degli uomini dalle prigioni e farli andare sul fronte ucraino. Molti di questi prigionieri russi e soprattutto ceceni sono poi finiti in Africa. La pratica delle teste impalate - di cui si è parlato a proposito dei gruppi Telegram - è un modus operandi della mafia cecena, un loro metodo di intimidazione riconosciuto. I Wagner giravano con delle teste mozzate appese ai pickup per terrorizzare la popolazione”. Nel fare tabula rasa in alcuni territori c’è un interesse anche molto pratico per la Russia: “Kidal è un’importante regione aurifera, i Wagner sono presenti da tempo nei siti estrattivi e usano i proventi per finanziare la guerra in Ucraina, schiavizzando i songhoy nelle miniere d’oro. Lo dimostrano foto dei siti estrattivi che sono state allegate al rapporto inviato all’Aia”. Il 6 giugno scorso, la Wagner ha ufficialmente concluso il suo lavoro in Mali. Al suo posto subentra Africa Corps, che dipende direttamente dal Ministero della Difesa di Mosca. “Ma è un cambio di facciata - spiega la ricercatrice - In realtà l’85% degli uomini restano in Mali e cambiano solo nome, entrando in Africa Corps. Già mi arrivano segnalazioni di nuovi massacri con le stesse modalità”. A confermare questa alternanza fittizia è anche una recente pubblicazione dell’International Crisis Group che parla di “70-80% di personale Africa Corps che sono ex combattenti Wagner”. Approfondendo quest’ultima affermazione, ilfattoquotidiano.it ha scoperto l’esistenza di due pagine Facebook che fanno riferimento ai soldati russi in Africa e che postano copiosamente foto e video di atrocità commesse in Mali, ma anche in Burkina Faso e altri Paesi in cui sono presenti i Wagner.