Sconti di pena: arriva il sì dell’Anm alla proposta di legge Giachetti di Valentina Stella Il Dubbio, 15 luglio 2025 Anche l’Associazione Nazionale Magistrati si schiera a favore della proposta di legge Giachetti sulla liberazione anticipata speciale: la sua approvazione sarebbe “un rilevante segnale di attenzione verso una popolazione detenuta che vive quotidiane condizioni di restrizione molto lontane dai valori di umanità e dignità richiesti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali”, si legge in un documento approvato all’unanimità sabato dal Comitato direttivo centrale ed elaborato dalla commissione “diritto penitenziario”, presieduta da Andrea Vacca. Pur rilevando dei profili tecnici critici come il fatto che la pdl prevede che “sulla concessione della liberazione anticipata provvede il direttore dell’istituto” e non la magistratura di sorveglianza, le toghe comunque hanno deciso di sposare lo “sconto di pena per buona condotta”. Contemporaneamente hanno denunciato, in un altro documento, proprio la carenza dei giudici della carcerazione: “La magistratura di sorveglianza ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena, garantendone la finalità rieducativa. La straordinaria importanza di questo compito appare tuttavia dimenticata se si guarda alle condizioni attuali in cui essa versa. Il numero dei magistrati di sorveglianza è di appena 250: ed appare chiaramente sottodimensionato già solo se comparato al numero dei detenuti in espiazione pena”. Tuttavia ci sono delle divisioni rispetto allo sciopero della fame a staffetta, promosso dall’avvocato Valentina Alberta e dal magistrato Stefano Celli, sempre a sostegno della pdl. Infatti se il segretario dell’Anm, Rocco Maruotti, espressione di AreaDg, si è detto favorevole e digiunerà il 17 luglio, Cesare Parodi, di Magistratura Indipendente, a nostra precisa domanda al punto stampa di sabato ha detto no: sebbene “Il problema della situazione carceraria è assolutamente prioritario”, tuttavia, “secondo me, sarebbe molto efficace lanciare in tempi rapidi una raccolta di firme dei magistrati, degli avvocati e dei cittadini, da porre sul tavolo del Governo in un tempo brevissimo. Mi domando se il Governo, a quel punto, potrebbe ignorare una sensibilizzazione di massa di questo tipo”. Non si comprende però chi dovrebbe farsi promotore di questa iniziativa, considerato altresì che il tempo stringe visto che il sovraffolla-mento non accenna a diminuire e siamo già a 37 suicidi in carcere. Ad aderire, invece, allo sciopero della fame anche l’avvocato Vittorio Minervini, consigliere del Cnf e vice presidente della Fai (Fondazione avvocatura italiana) che digiunerà domani. Insieme a lui pure Giovanni Zaccaro (Segretario di Area), Stefano Musolino (segretario di Md), Andrea Vacca, Paola Cervo (magistrato di sorveglianza) l’avvocato Elena Cimmino (vice presidente de “Il Carcere Possibile onlus”), Mauro Trogu, difensore di Beniamino Zuncheddu, e molti altri ancora. Invece per adesso ha sospeso lo sciopero della fame che proseguiva da 27 giorni la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, facendo fiducia sull’eventuale incardinamento del provvedimento del deputato di Italia Viva in Parlamento, soprattutto dopo le ennesime dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa che proprio sabato ha inviato un messaggio in occasione dell’iniziativa “Laboratorio Spes contra spem” che si è svolto nella casa circondariale di Rebibbia, a Roma: “Le sofferenze e le difficoltà legate al sovraffollamento degli istituti di pena rappresentano emergenze di fronte alle quali occorre un convinto cambio di passo” quindi “resto convinto che ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare questa grave e perdurante problematica, debba essere presa in considerazione senza cadere nel pregiudizio politico o ideologico”. Come vi avevamo anticipato lo scorso 8 luglio la partita per sfoltire la popolazione carceraria sarebbe tutta nelle mani della seconda carica dello Stato: se trova una maggioranza favorevole alla pdl Giachetti la premier Meloni non dovrebbe porre alcun veto. E da quanto dettoci da Rita Bernardini si starebbe lavorando ad un testo simile a quello Giachetti da presentare a Palazzo Madama a breve, dove appunto ci sarebbe la presidenza favorevole di La Russa. “Se così non fosse non escludo di riprendere immediatamente lo sciopero della fame” ci ha detto la radicale. Peccato però che qualche giorno fa il Ministro della Giustizia Carlo Nordio durante un question time al Senato sia arrivato a dire: “Se però dobbiamo liberare persone con la motivazione che in carcere non c’è più posto, mi concedete che, da un punto di vista logico, questa è un’istigazione a delinquere. Se infatti debbo liberarti perché in carcere non ci stai, significa che, se commetti un reato, non ti posso nemmeno incarcerare. Non è quindi una soluzione corretta”. Sono ormai lontani i tempi in cui l’editorialista Nordio diceva ai microfoni di Radio Radicale: “Sono invece favorevole all’amnistia se essa rappresenta, come dovrebbe rappresentare, l’epilogo o l’inizio di una profonda, radicale trasformazione del nostro sistema penale, un sistema che attualmente è fondato essenzialmente sulla carcerazione, cioè sulla limitazione della libertà personale dietro le sbarre, spesso una pena sproporzionata, spesso inumana sempre diseducativa, talvolta addirittura, come ha detto giustamente spessissimo Marco Pannella, criminogena”. Roberto Giachetti: “Grazie a La Russa i carcerati hanno una speranza” di Alfonso Raimo huffingtonpost.it, 15 luglio 2025 Intervista con l’ideatore della proposta cui ha aperto il presidente del Senato: uno sconto di pena aumentato e retroattivo per i detenuti che si sono comportati bene. “La mia proposta sarà modificata per venire incontro alle esigenze di tutti i partiti. L’importante è farla alla svelta”. Per ora il no solo da Lega e M5S. È possibile un’intesa tra tutte le forze politiche - con l’eccezione dei Cinque Stelle - per una misura di clemenza che consenta di alleggerire il sovraffollamento nelle carceri. “Ora si può fare. Basta solo un po’ di coraggio”, dice Roberto Giachetti, deputato di Italia viva e padre della proposta alla base del provvedimento. “Non ne faccio una questione personale. Ai partiti dico: togliete il mio nome, chiamatela come vi pare, pure legge Pippo, e modificatela. Ma l’importante è che si faccia, perché la vita nelle carceri italiane è al limite”. Roberto Giachetti, cominciamo dall’inizio: in cosa consiste la sua proposta? La parte su cui si sta ragionando prevede l’ampliamento della legge Gozzini attualmente in vigore, per un periodo di tempo limitato di due anni, ma con effetto retroattivo. Per questo si parla di liberazione anticipata “speciale”. Spiego: la legge in vigore prevede che se un detenuto ha avuto un comportamento virtuoso in carcere, ha diritto a uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi di detenzione. Io propongo che si portino a 75 giorni, ma che questo sconto di pena sia calcolato in modo retroattivo. Io propongo di dieci anni. Questo regime verrebbe applicato solo per due anni e solo per chi è detenuto in questo lasso di tempo. Questa è la mia proposta. Ma, ripeto, sarà corretta per consentire a tutte le forze politiche che vogliano farlo di aderire. L’importante è che si faccia. Avete una stima di quante persone detenute potrebbero lasciare il carcere? Dipende da come si disegna la norma all’esito della mediazione. Ma si tratta di diverse migliaia di detenuti. Il principio base è che è il potenziamento per due anni di una legge già in vigore. È essenziale che lo sconto di pena venga calcolato in modo retroattivo, perché altrimenti non ottieni l’effetto di alleggerire il sovraffollamento che già c’è. Se lo calcoli d’ora in avanti, risponderai a una necessità futura, ma non a una emergenza presente. Lei ha parlato di una mediazione tra i partiti. A che punto siete? Ci siamo trovati sabato ospiti di un laboratorio di Rebibbia organizzato da Nessuno tocchi Caino. Lì abbiamo valutato la disponibilità di un vasto arco parlamentare, con la sola eccezione del Movimento 5 stelle. L’interessamento e la moral suasion del presidente del Senato Ignazio La Russa costituiscono un fatto nuovo, perché assicurano il sostegno di Fratelli d’Italia o almeno di una sua consistente parte. Non a caso a quell’incontro c’erano Marco Scurria di FdI, ma anche Simonetta Matone della Lega, Andrea Orsini di Forza Italia, Walter Verini del Pd, Maria Elena Boschi ed io per Italia Viva, Valentina Grippo di Azione. Anche Avs, che non c’era, ha aderito con Devis Dori. Visto che La Russa assicura il suo sostegno, ed è il sostegno della seconda carica dello Stato ma anche di una influente personalità di Fratelli d’Italia, abbiamo pensato che si possa recuperare la mia proposta, modificandola per poi farla partire dal Senato con le firme di tutti i partiti. Si valuteranno modifiche, a cominciare dalle forze di maggioranza, che hanno il terrore di misure svuotacarceri, come l’amnistia e l’indulto. Quanto al nome, io ho proposto che si chiami legge Nessuno tocchi Caino. Togliere il mio nome farà piacere a molti, anche fuori dal centrodestra… Quali modifiche potrebbero esserci? A La Russa preme che non ci si fermi al requisito della buona condotta, condizione prevista dalla Legge Gozzini. Con ogni probabilità si richiederà nel testo che le persone non abbiano avuto il benché minimo atteggiamento non virtuoso o violento, anche laddove sia stato considerato compatibile dai magistrati con la buona condotta. Ci sarà una specifica che escluda qualsiasi tipo di aggressione nei confronti della polizia penitenziaria. Altre modifiche riguarderanno il tempo previsto per l’applicazione retroattiva. Io chiedevo 10 anni, ma probabilmente si arriverà a 5 anni, a cominciare dal 2020 in poi, nel calcolare lo sconto di pena. Anche i giorni di pena scontati cambieranno, la mia proposta prevedeva 75 giorni. Si potrebbe arrivare a 70 giorni ogni sei mesi. Su tutto questo influirà la mediazione. La sua proposta nel 2024 è stata rinviata e in qualche modo affossata al momento del voto. Cosa assicura che stavolta andrà diversamente? L’anno scorso la maggioranza ha motivato il rinvio in commissione con il fatto che era stato fatto un Decreto Carceri, che oltre a istituire un commissario e parlare di ricostruzione, sul piano materiale dell’emergenza non ha fatto nulla. Il modo in cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio intende affrontare l’emergenza carceri è del tutto velleitario. Ora però si sta creando una condizione nuova. Oltre ai richiami del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, c’è il sostegno di La Russa e del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. La speranza è che essendosi mosso il presidente del Senato, questo possa comportare che il governo non si opponga. Che rispetto all’anno scorso ci sia una situazione più leggera, perché Giorgia Meloni lascerà libere le forze politiche di aderire a un’iniziativa parlamentare e non vorrà intestarsi un’iniziativa di governo, magari con un decreto. Insomma c’è una speranza più concreta e il merito è indubbiamente del presidente La Russa. Le altre forze di maggioranza come la prenderanno? Basta un po’ di coraggio. Mi risulta, ad esempio, che nella Lega sia sia aperta una riflessione, com’è normale che sia. D’altro canto anche io ho firmato i loro referendum sulla giustizia. Forza Italia propone la riforma della custodia cautelare? Benissimo. Io sono d’accordo, ma quella vale per il futuro, cioè per chi entrerà in carcere, non per chi ci sta già. Ma in ogni caso mettiamoci pure quella. L’importante è che si vada verso un alleggerimento dell’affollamento in carcere. Se non si riesce ad approvare la liberazione anticipata speciale, che estate vivono le persone detenute? Facciamo tutti finta di non vederlo, ma ormai negli istituti di pena c’è una rivolta al giorno. Umanamente i detenuti non ce la fanno più. Ci sono carceri, in Lombardia e in Puglia ad esempio, in cui il tasso di sovraffollamento è del 220-230 per cento. Questo rende impraticabile qualsiasi funzione interna, dagli psicologi, all’agenzia penitenziaria, agli assistenti. Se poi ci si mette la carenza di agenti, hai situazioni in cui i detenuti per 18 ore restano in cella, senza potere uscire neppure per l’ora d’aria. In queste condizioni anche gli animali si imbestialiscono. E rispetto allo scorso anno, il governo ha approvato il reato di resistenza passiva, che può complicare ulteriormente il quadro. A Marassi è già stato applicato a quelli che sono saliti sui tetti per protestare quando un ragazzo è stato sottoposto per tre giorni a torture e violenze. È stato applicato a comportamenti non aggressivi nei confronti degli agenti. Per il solo fatto della protesta. Lo cito per dare l’idea di quanto possa diventare esasperante la detenzione in queste condizioni. Lasciate stare Alemanno, che sta mostrando l’orrore della galera di Vincenzo Scalia* L’Unità, 15 luglio 2025 In carcere, al momento di lottare per i diritti di chi sta dentro, le divisioni politiche saltano. Questa trasversalità va mantenuta anche fuori. Una volta, in Sicilia, le vecchie generazioni raccomandavano ai nipoti di non augurare mai a nessuno di finire in carcere, di ammalarsi e di diventare povero. Una raccomandazione che andrebbe rinnovata nel contesto attuale, in particolare verso chi si definisce di sinistra. E non si tratta di distinguere tra radicali e moderati, riformisti e rivoluzionari. La confusione tra la giustizia sociale, ovvero la possibilità per tutti di fruire dei diritti fondamentali, e il giustizialismo, ovvero la regolazione delle questioni sociali a mezzo della risorsa penale, caratterizza tutto lo spettro politico di sinistra. La vicenda dell’ex-sindaco di Roma Gianni Alemanno, tornato in carcere per scontare il residuo di pena in seguito a irregolarità commesse nel corso della messa in prova, esemplifica questa confusione. Da quando è rientrato in carcere, l’ex primo cittadino di Roma si adopera attivamente per segnalare le disfunzioni e la tragicità del sistema carcerario e della condizione detentiva. Eppure, da sinistra, molte voci si levano a ricordare la matrice politica di Alemanno, le sue posizioni all’insegna di legge e ordine quando era uno degli esponenti di punta del governo, il suo approccio alla sicurezza urbana ai tempi del suo incarico da sindaco di Roma. Concludendo che, in fondo, un po’ di carcere gli fa bene e che è troppo tardi per battersi per i diritti dei detenuti. Posizioni che si nutrono sia dell’antipatia nei confronti del personaggio, sia della necessità di ottenere, in un contesto caratterizzato da un’egemonia di destra, un surrogato di soddisfazioni. Ma che non possono che suscitare più di una perplessità. Alemanno, al di là della sua appartenenza politica, è un cittadino italiano e, in quanto tale, non solo ha diritto a battersi per i suoi diritti anche in quanto persona detenuta, ma ha bisogno di essere ascoltato, come gli altri 62.000 compagni di sventura. Soprattutto quando le condizioni delle carceri italiane suscitano la preoccupazione degli organismi internazionali e hanno sollecitato il Pontefice precedente e anche quello attuale a prendere posizione. Che a denunciare le condizioni detentive e l’ingiustizia del sistema penale sia uno di destra, tanto meglio: non fa che incrinare le certezze della sua parte e, si sarebbe detto una volta, stimolare le contraddizioni. In carcere, come ricordano ex militanti reclusi, al momento di lottare per i diritti le divisioni politiche saltavano. Sarebbe il caso di mantenere questa trasversalità. Prendersela con Alemanno non fa che alimentare il vecchio gioco della luna e del dito, in due direzioni. La prima è quella dei conflitti interni all’attuale coalizione. Alemanno è una figura che può risultare carismatica con un certo seguito e il suo stato detentivo sicuramente rappresenta un vantaggio per chi punta a consolidare gli equilibri interni a discapito di eventuali ribaltamenti. Soprattutto, prendersela con Alemanno non fa bene a chi porta avanti la battaglia contro il securitarismo dominante, culminato con la trasformazione del Ddl 1660 in decreto sicurezza. Affermare che la galera serva, anche solo per Alemanno, equivale ad affermare la centralità del sistema penale per regolare i conflitti sociali e politici. Soprattutto, legittima il securitarismo dominante, nella misura in cui la detenzione dell’ex-sindaco di Roma può essere ostentata dalla compagine governativa come la dimostrazione del fatto che la giustizia è davvero imparziale e che la strada di un maggiore punitivismo sia quella giusta. Siamo distanti anni luce da Alemanno. Ma facciamolo tornare in libertà, per dirglielo in un confronto. *Professore associato in Sociologia della devianza presso l’Università degli Studi di Firenze Morire di carcere di Stefano Anastasìa garantedetenutilazio.it, 15 luglio 2025 Non rieduca, non reintegra, lede la dignità umana. Il sistema penitenziario italiano tradisce ogni giorno la Costituzione. Anche oggi un uomo si è tolto la vita dietro le sbarre. È successo proprio oggi, mentre scrivo queste parole, ma potrebbe essere successo anche oggi, nel giorno in cui queste parole vengono lette da un loro occasionale lettore. Un giorno vale l’altro e ogni giorno è buono per morire, in carcere: questa, purtroppo, è una drammatica verità del nostro sistema giudiziario, e noi vi ci stiamo drammaticamente abituando. L’anno scorso abbiamo visto addirittura all’opera una cinica contesa contabile, tra chi da anni ha fatto dell’informazione sulle morti in carcere la motivazione del proprio impegno civile (il sito/rivista Ristretti Orizzonti, con il suo dossier “Morire di carcere”) e l’Amministrazione penitenziaria, che eccepisce come morti per “cause da accertare” tutte quelle che non siano avvenute col cappio al collo o come non avvenute in carcere quelle dei detenuti soccorsi e morti in ospedale: alla fine dell’anno, Ristretti Orizzonti contava 91 suicidi in carcere, quanti mai dal 2000 a oggi, l’Amministrazione penitenziaria “solo” 83, uno in meno del record precedente, gli 84 del 2022 post-Covid; come se uno in più o uno in meno, sette o otto in più facessero la differenza. Se ogni vita conta, ottantatré, ottantaquattro o novantuno suicidi in carcere sono sempre troppi, come troppi sono i suicidi di poliziotti e operatori penitenziari: sette lo scorso anno, tre dall’inizio di questo. La verità è che il carcere è un luogo di programmatica degradazione delle persone che vi sono costrette. Nonostante le migliori intenzioni e quel che dice la Costituzione, la pena detentiva è una pena degradante, che vuole far soffrire le persone che vi sono costrette attraverso un regime di privazioni che immediatamente si estendono dalla sola libertà di movimento, all’autonomia individuale, alle relazioni affettive, al benessere psico-fisico. E alla stessa degradazione sono costrette anche le persone in attesa di giudizio, anche se la Costituzione le considera ancora innocenti. Questo è quello che vuole la parte peggiore di noi, di noi che stiamo fuori, e che ci sentiamo tranquillizzati dal fatto che “i cattivi” siano là dentro, chiusi in gabbia, che un giudice abbia deciso o no della loro colpevolezza. Per questo non fa scandalo che in carceri destinate a ospitare poco meno di 47mila persone ce ne siano ben più di 62mila: perché non le vediamo e se stanno là dentro se lo saranno meritato. Per sfortuna sua e per fortuna dei suoi compagni di detenzione, l’ex-sindaco di Roma Gianni Alemanno è da sei mesi in carcere e ha cominciato a raccontare quel che vive e quel che vede a Rebibbia, pur nella migliore delle sezioni detentive delle carceri romane e laziali, e finalmente i suoi ex-camerati e compagni di partito hanno cominciato ad ascoltare, a vedere e, forse, a capire. A capire che così non si può andare avanti, che la dignità della persona non può essere compromessa, che l’esercizio del terribile potere punitivo ha un limite invalicabile nel non poter infliggere sofferenze ingiuste che fanno dello Stato un criminale come gli altri, come nel caso della pena di morte negli Stati Uniti, in Iran, in Cina e in tanti altri Paesi del mondo. Aperti gli occhi sul mondo del carcere, la destra al governo non potrà tornarsene agli slogan elettorali, di cui sono stati infarciti tanti provvedimenti legislativi di questi anni, dal decreto rave a quello sicurezza, non potrà tornare a dire “garantisti nel processo, giustizialisti nella pena” (versione Delmastro) o “buttare via la chiave” (versione Salvini) o rifiutarsi di andare a “visitare i carcerati” fin dentro le celle, senza limitarsi a una pacca sulle spalle ai selezionati partecipanti alle iniziative pubbliche organizzate in carcere. Né, di fronte alle sofferenze raccontate da Alemanno, potranno ancora limitarsi a ripetere la giaculatoria ministeriale, sulla costruzione di nuove carceri, sul rimpatrio dei detenuti stranieri, sui tossicodipendenti in comunità, tutte cose che se mai accadranno (e alcune, statene certi, non accadranno mai), non potranno che accadere tra molti, troppi anni, quando troppe carcerazioni, sofferenze e morti si saranno consumate in carcere. Alemanno pone un problema di oggi, che oggi va affrontato, riportando in equilibrio gli elementi del sistema penitenziario: gli spazi, il personale, le risorse e i detenuti. Se nel breve periodo non è possibile moltiplicare gli istituti penitenziari, aumentare le risorse per il sistema e assumere il personale di sicurezza, sanitario ed educativo necessario, non resta che ridurre il numero dei detenuti a quanti possano avere una sistemazione dignitosa in carcere e un’offerta rieducativa adeguata alla promessa costituzionale. Sedicimila detenuti in meno, tanti dovrebbero essere, naturalmente selezionati tra chi è stato condannato a pene minori o che ne abbia già scontata una parte significativa. Un indulto di due anni basterebbe: sedicimila sono i detenuti condannati a meno di due anni di carcere o a cui mancano da scontare meno di due anni di una pena più lunga. Naturalmente bisognerebbe offrire un sostegno al terzo settore e agli enti locali per l’accoglienza e il sostegno agli scarcerati, spesso privi di risorse proprie per il reinserimento sociale, ma si può fare. Maggioranza e opposizioni potrebbero condividere una decisione di emergenza come questa, per poi tornare a dividersi per il futuro, tra chi crede che la povertà e la marginalità sociale, che costituiscono la gran parte della detenzione, debbano ingigantire le carceri del futuro e chi pensa che debbano essere superate attraverso politiche di integrazione e solidarietà sociale. Destra e sinistra, al fondo, stanno in questa alternativa, ma l’una e l’altra non possono sottrarsi al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e alla finalità rieducativa della pena prescritte dalla Costituzione. Antonio non si è impiccato in cella: l’ha ucciso lo Stato di Filippo Blengino L’Unità, 15 luglio 2025 Insieme a una delegazione di Radicali Italiani, varco i cancelli di una delle tante - troppe - strutture penitenziarie italiane. In un reparto sovraffollato oltre ogni decenza, incontro Andrea, 50 anni, casertano, sguardo fisso e voce bassa. Mi racconta una storia che non dimenticherò mai. Mi parla di Antonio, 22 anni. Dividevano la cella fino a due giorni prima. Antonio era finito dentro per il furto di uno scooter. Nessuna arma, nessuna violenza, niente sangue. Ma cinque mesi di carcere. Cinque mesi in attesa di giudizio. Nessuna condanna, ma già punito. Soffriva di ansia e depressione, e negli ultimi giorni era diverso: più nervoso, più spento. Andrea mi dice: “Quella sera si è alzato piano. Ha strappato la coperta, l’ha legata in alto. Io mi sono svegliato, l’ho visto buttarsi. Gli ho afferrato le gambe, le tenevo su con tutte le forze. Gridavo, urlavo. Nessuno arrivava. Dopo qualche minuto, le mie braccia non ce l’hanno fatta. Quando hanno aperto la cella, era morto da dieci minuti.” Antonio non si è suicidato. Antonio è stato ucciso da un sistema che lo ha lasciato solo, senza ascolto, senza cure, senza spazio. Un sistema che chiamiamo giustizia, ma che somiglia sempre più a una discarica sociale. E non abbandona soltanto chi è detenuto. Abbandona anche chi dentro ci lavora: agenti di Polizia Penitenziaria, educatori, funzionari, mediatori culturali. Donne e uomini che ogni giorno fanno i conti con condizioni assurde, spesso rimettendoci in termini di salute, tempo e soldi per coprire le mancanze croniche dello Stato. Parliamo di strutture fatiscenti, dove d’estate si cuoce e d’inverno si gela. Spazi angusti, sporchi, privi di servizi igienici adeguati. Zero investimenti reali nel reinserimento, pochissime misure alternative alla detenzione. E il risultato è noto: il 68% di chi esce dal carcere torna a delinquere entro cinque anni. Nota a margine, ma fondamentale: tra chi ha accesso a percorsi di lavoro esterno o reinserimento, la recidiva crolla sotto il 10%. Ma si sa, investire in umanità non fa notizia. Noi Radicali lo diciamo da sempre, senza ipocrisie: questo sistema penitenziario non va riformato: va superato. Non previene, non rieduca, non reinserisce. E ora che arriva l’estate, con le temperature in salita e il sovraffollamento alle stelle, l’emergenza rischia di esplodere - di nuovo - nell’indifferenza generale. Per questo abbiamo lanciato un appello. Un appello senza colore politico. E infatti, in pochi giorni, abbiamo raccolto firme da parlamentari di ogni schieramento: da Sinistra Italiana a Forza Italia, passando per PD, Più Europa, Azione, Italia Viva. Chiediamo che, prima della pausa estiva, il Parlamento approvi una legge urgente per tamponare l’emergenza. Non stiamo chiedendo amnistie, indulti o depenalizzazioni - per quanto li riteniamo fondamentali - ma un intervento immediato per fermare questa strage silenziosa, che ogni giorno dentro le nostre carceri uccide, annienta, toglie dignità. La frase “Il grado di civiltà di una società si misura osservando la condizione delle sue carceri” - che attribuiamo a Dostoevskij, anche se lui probabilmente l’avrebbe detta meglio - resta maledettamente attuale. E se davvero è così, allora oggi l’Italia sta facendo di tutto per sembrare un Paese incivile. E ci sta riuscendo benissimo. Per questo, oggi più che mai, chiediamo con forza ai Parlamentari di firmare il nostro appello e di adoperarsi per arginare questa nuova strage di diritto. Prima che sia - di nuovo - troppo tardi. Dietro le sbarre senza voce: la censura che spegne la verità di Vito Daniele Cimiotta terzultimafermata.blog, 15 luglio 2025 Nel silenzio opprimente delle carceri, dove i corpi sono prigionieri ma anche le parole sembrano destinate a essere relegate nel buio, nascono giornali che sono autentici fari di verità e resilienza. I giornali scritti dai detenuti non sono semplici fogli di carta: sono ponti vitali tra due mondi, scrigni di dignità umana, luci che rischiarano l’ombra dell’indifferenza e dell’oblio in cui troppo spesso viene confinato il sistema penitenziario. Nel gennaio 2025, la chiusura improvvisa de La Fenice, testata del carcere di Ivrea, ha squarciato questo fragile equilibrio. Quel giornale aveva osato raccontare la realtà nuda e cruda: muffa nelle celle, acqua calda inesistente, sovraffollamento soffocante. Denunciare queste condizioni avrebbe dovuto essere un atto di civiltà e responsabilità; invece è stata la scintilla che ha acceso un oscurantismo istituzionale pronto a soffocare ogni voce scomoda con la scusa dell’”ordine e sicurezza”. In questa drammatica cornice, l’Ordine dei Giornalisti è intervenuto con vigore, lanciando un grido d’allarme contro questa spirale di censura che non è solo un vulnus al diritto dei detenuti di esprimersi, ma un’offesa al diritto di tutta la società di conoscere e sapere. In un paese che si fonda sul rispetto della libertà di stampa, impedire che chi è rinchiuso possa raccontare la propria verità significa tradire i valori stessi di democrazia e giustizia. Questi bavagli imposti alle testate detenute non sono meri atti amministrativi: sono catene invisibili che comprimono le menti e soffocano la dignità. La Costituzione italiana, con il suo articolo 21, tutela la libertà di manifestare il proprio pensiero senza distinzioni; questa tutela si estende anche oltre le mura delle prigioni, dove la voce dei reclusi ha un valore ancora più grande, perché è la testimonianza di un’umanità spesso negata e dimenticata. A ciò si aggiungono gli obblighi internazionali, che richiamano il diritto di espressione come diritto inviolabile, anche per chi è privato della libertà personale. Soffocare la parola dei detenuti significa spegnere non solo un diritto, ma un’intera luce che rischia di farci dimenticare che dietro ogni sbarra c’è una persona: con diritti, speranze, paure, dignità. Questa voce va ascoltata, difesa, valorizzata. La libertà di stampa, in carcere come altrove, non è un lusso: è un diritto inalienabile, una condizione imprescindibile per costruire una società giusta e consapevole. L’appello dell’Ordine dei Giornalisti non è dunque un semplice richiamo formale, ma un invito urgente a tutte le istituzioni affinché restituiscano dignità e voce a chi è destinato a vivere nell’ombra. In un sistema che si definisce civile, il silenzio imposto alle voci carcerarie non è mai un segno di sicurezza, ma di paura. Paura di ascoltare, paura di cambiare, paura di guardare in faccia le verità scomode che quei giornali osano raccontare. Difendere la libertà di stampa in carcere significa difendere la nostra stessa umanità. Spegnere quelle luci significa condannarci a un’oscurità collettiva, per questo, ogni parola censurata è una sconfitta per tutti noi. Non si può essere garantisti nel processo ma giustizialisti nelle pene di Francesco Petrelli* Il Foglio, 15 luglio 2025 Il grave silenzio sulla tragedia delle carceri. Un hardware liberale e garantista mal si concilia con un software giustizialista. Pesa nel bilancio il grave silenzio tuttora serbato sulla tragedia delle carceri e la mancata risposta alle aperture che sono pure state espresse di recente da rappresentanti autorevoli della stessa maggioranza. Si tratta, infatti, di una crisi sia umanitaria che sociale che non può essere ignorata, restando prigionieri di slogan elettorali e di parole d’ordine che presuppongono una visione puramente repressiva del carcere e della pena, populisticamente appagante ma contraria ad ogni effettiva utilità in termini di sicurezza. Se si vuole essere “garantisti nel processo” non si può al tempo stesso essere “giustizialisti nell’esecuzione delle pene”. Un moderno stato di diritto non può avere più facce, né differenti visioni dell’uomo e della sua dignità. L’obiettivo lungimirante di riformare l’ordinamento per ottenere, attraverso la separazione delle carriere, un giudice terzo, non può coniugarsi con l’applicazione di inutili leggi draconiane, con la creazione di nuove irragionevoli fattispecie di reato e con l’introduzione di pene sproporzionate. Il garantismo, giustamente perseguito da questo Governo nel processo, deve necessariamente accompagnarsi all’applicazione di una legge penale equilibrata, lontana dalle demagogiche e irrazionali invenzioni del “pacchetto sicurezza”. Le riforme del processo devono invece proseguire con convinzione, rispondendo anche alle sfide che l’irruzione tecnologica ci consegna (si pensi ad esempio all’uso investigativo dell’intelligenza artificiale e al sequestro dei server dei cripto-telefonini …). Si proceda, senza condizionamenti, alla riforma della disciplina del sequestro dei dispositivi informatici. Si lavori su di una riforma ampia e coerente delle intercettazioni (bene sulla ampliata tutela delle comunicazioni del difensore con il proprio assistito, frutto di una nostra antica rivendicazione) e su quella già iniziata della custodia cautelare. Si insista sull’espansione progressiva delle garanzie nell’ambito del processo di prevenzione. Si rafforzi la presunzione di innocenza: si è fatto bene sul divieto di pubblicazione delle ordinanze. Si proceda al più presto all’ulteriore e definitiva riduzione degli ostacoli posti alle impugnazioni. Ma nel chiudere questo sommario bilancio, una riflessione va fatta: un hardware liberale e garantista mal si concilia con un software giustizialista. Il primo garantisce un futuro equilibrato e rassicurante e una giustizia più matura per tutti i cittadini, il secondo inocula il virus dell’instabilità, della paura e dell’insicurezza che non serve certamente alla crescita del Paese. *Presidente delle Camere penali Le derive del dl Sicurezza: così il Governo ha creato il diritto penale “d’autore” di Vitalba Azzollini* Il Domani, 15 luglio 2025 Alcune disposizioni del decreto Sicurezza trovano il proprio presupposto nella “qualità” dell’autore della condotta considerata più che nella offensività della condotta stessa. L’intenzione è quella di colpire l’appartenenza a certi “tipi” di individui. Alcune norme del decreto Sicurezza, come ha rilevato il Massimario della Cassazione, si basano non tanto sull’offensività della condotta sanzionata, quanto sulle qualità del suo autore. Si creano così artificiosamente “nemici della società”. Nonostante su queste pagine avessimo rilevato varie criticità, oltre a dubbi di costituzionalità, nel decreto Sicurezza, convertito in legge lo scorso 9 giugno, la relazione elaborata dall’ufficio del Massimario della corte di Cassazione, e duramente contestata dal governo, ha tracciato un quadro più grave rispetto a quello già delineato. L’Ufficio - giova ribadirlo - ha raccolto pareri di autorevoli studiosi e soggetti qualificati, citati nelle 577 note delle 129 pagine di cui consta il documento. Il “diritto penale d’autore” - C’è un profilo particolarmente grave del decreto che la Cassazione ha evidenziato, e che è stato poco colto dai commentatori: alcune disposizioni trovano il proprio presupposto nella “qualità” dell’autore della condotta considerata più che nella offensività della condotta stessa. L’intenzione è quella di colpire l’appartenenza a certi “tipi” di individui, da stigmatizzare normativamente. In questo modo - si legge nel report del Massimario - si passa “da un diritto penale del fatto, inteso come fatto offensivo di un bene giuridico”, a “un diritto penale d’autore”, “che guarda non a ciò che l’uomo fa, bensì a quel che l’uomo è, dove per “uomo” deve intendersi una categoria di uomini, ritagliata secondo stereotipi più o meno plausibili”. Come scrive uno degli studiosi citati dal documento, il fine è quello di offrire una “politica di sicurezza a buon mercato”, che consegna al corpo sociale “non un semplice reo ma un nemico della società, su cui polarizzare un bisogno emotivo di pena”. I “nemici della società” - Proviamo a spiegare chi sono per il governo i “nemici della società”. Si pensi alla norma che stabilisce la facoltatività del rinvio dell’esecuzione della pena nei confronti della donna incinta o madre di prole di età inferiore a un anno. Il legislatore “punta l’indice (o meglio, punta l’arma della pena carceraria)” contro le “donne di etnia Rom”, “alle quali si imputa - in un coro assordante e ossessivo, largamente alimentato da pubblici proclami - di essere autrici di frequenti borseggi e di sottrarsi sistematicamente al carcere attraverso gravidanze e maternità”. Un altro esempio è la disposizione che sanziona chiunque, “all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta” anche mediante atti di resistenza passiva (come il rifiuto del vitto o dell’ora d’aria). La mera inazione è punita come fosse violenza o minaccia. È palese che si vuole di fatto colpire il “tipo di autore”: “il detenuto “rivoltoso”“, anche se la sua è una “rivolta” pacifica. In altre parole, è lo status di recluso a rappresentare per il governo “un pericolo sociale”. Ma c’è anche un altro aspetto: il problema del sovraffollamento e delle carenze igienico-sanitarie delle carceri, rispetto a cui i detenuti si ribellano, viene risolto attraverso la loro criminalizzazione. “Dalla pericolosità delle strutture carcerarie - scrive uno dei giuristi menzionati dal report - alla pericolosità dei carcerati, è un attimo”. La stessa disposizione sulla resistenza passiva si applica ai luoghi di permanenza dei migranti, anche qui prendendo di mira, “un “tipo” di autore: in questo caso il “migrante” (irregolare), nell’altra il detenuto”, con una equiparazione in via di fatto che non trova riscontro nel diritto. Ci sono poi norme che riguardano la figura del “terrorista”, punendo come tale chi detiene materiale informativo sulla preparazione di ordigni, anche se non ha commesso atti di terrorismo né è detto che lo faccia; o quella del “borseggiatore ferroviario”, per il quale le pene sono aumentate rispetto allo stesso illecito commesso in un luogo diverso dalle “immediate adiacenze delle stazioni” (espressione che peraltro manca di tassatività). Insomma, molte norme del decreto Sicurezza attestano che “appartenere a una determinata categoria significa di per sé subire un trattamento deteriore”. Ma “la responsabilità penale c.d. d’autore è inammissibile” - afferma la Corte costituzionale (n. 116/2024) - poiché ha come presupposto “una qualità della persona non connessa alla condotta”. Uno dei tanti profili di dubbia legittimità di cui governo e parlamento non hanno tenuto conto. *Giurista Quello stalking agli avvocati “colpevoli” di abbracciare i propri clienti detenuti al 41 bis di Valentina Stella Il Dubbio, 15 luglio 2025 Continuano le segnalazioni verso gli avvocati che “abbracciano” i loro assistiti al 41 bis. Dopo la vicenda del legale di Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini, segnalato dal carcere di Sassari per aver stretto la mano e dato due baci sulla guancia al suo assistito, ad essere redarguita per lo stesso motivo per la quinta volta è stata l’avvocato Maria Teresa Pintus. Ieri, infatti, ha ricevuto l’ennesima notifica da parte del suo Coa di appartenenza con la quale le viene appunto comunicato che il 5 giugno è giunto l’ennesimo esposto dalla casa circondariale di Bancali firmato dal direttore con il quale viene segnalata per comportamento professionale non corretto: “In data 09/ 05/ 2025, al termine del colloquio effettuato con il suo assistito AP, salutava quest’ultimo con una stretta di mano e due baci sulle guance”. Ora bisognerà capire se questo comportamento è deontologicamente scorretto. “Aridaje, ci risiamo” commenta al Dubbio la legale, che aggiunge: “Il solito copia e incolla della precedente segnalazione, è diverso solo il nome del mio assistito. Che dire? Persecuzione, accanimento, vessazioni al limite dello stalking: sicuramente vi sono tutti gli estremi e credo sia arrivato il momento di segnalare a mia volta alla procura competente questa situazione”. Flavio Rossi Albertini e Maria Teresa Pintus non sono gli unici a finire prima nel mirino del Gom (Gruppo operativo Mobile) e quindi poi dei direttori delle carceri: anche le avvocate Barbara Amicarella e Piera Farina sono state segnalate recentemente sempre dalla casa circondariale di Bancali e dal carcere milanese di Opera. Rispetto a queste ultime due vicende, si è anche espresso l’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali per cui siamo dinanzi ad una “reazionaria concezione ideologica del sistema carcerario, nonostante la chiara indicazione della Corte costituzionale con la decisione 18/ 2022. Un sistema che si basa su una “generale e insostenibile presunzione - già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 - di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. “Alla diffidenza verso il difensore però, allo sguardo velato dal sospetto, nel caso in questione - concludono i penalisti guidati da Francesco Petrelli - si aggiunge la volontà da sempre palesata di vedere le persone in 41 bis private dei più elementari diritti, strette in una morsa punitiva e di controllo totale sempre più sfaccettata e marcatamente irragionevole”. In cella per il furto di qualche spazzolino, il legale: “Nessuna funzione rieducativa” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 luglio 2025 Il giudice ha disposto la misura in carcere per l’uomo, senza fissa dimora, dopo che ha “saltato” la firma. “Ma sbattere un uomo in galera a luglio in una situazione di insostenibile sovraffollamento carcerario è una misura cautelare del tutto sproporzionata”. “Ma è giusto mandare nell’attuale inferno che stanno vivendo le nostre carceri un poveraccio che ha rubato due spazzolini e qualche bottiglia d’olio?”: a porsi la domanda è il penalista Vincenzo Comi che insieme alla collega Marina Colella assiste un cileno di 40 anni, G.G.. L’uomo era stato arrestato lo scorso 6 febbraio in flagranza di reato in quanto, insieme ad un’altra persona, in un supermercato di Ostia rubava due spazzolini elettrici del valore di 107,75 euro e otto bottiglie d’olio extravergine di oliva. Gli veniva applicata la misura cautelare dell’obbligo di firma presso la polizia giudiziaria. Il 5 maggio però il Tribunale di Roma aggravava la misura con l’obbligo di dimora nel Municipio X del Comune di Roma. Tuttavia, una relazione dei Carabinieri aveva rilevato che G.G. per otto volte è arrivato in ritardo per la firma e quindici volte non si è proprio presentato, “senza fornire alcuna giustificazione”. Allora il giudice, considerato questo quadro, e anche il fatto che il 18 giugno l’uomo è stato condannato ad un anno e quattro mesi in primo grado sempre per lo stesso furto di due spazzolini e otto bottiglie di olio di oliva, ha disposto l’aggravamento della misura con la custodia in carcere. “Risulta infatti che l’imputato non abbia una stabile dimora - si legge nel provvedimento del magistrato - e in ogni caso non potrebbe farsi affidamento sulla sua capacità di rispettare spontaneamente la prescrizione di non allontanarsi dal domicilio, visto il comportamento sino ad ora tenuto”. Commenta al Dubbio l’avvocato Comi: “Il giudice non aveva l’obbligo di aggravare la misura con il carcere. Poteva prevedere l’obbligo di firma più volte al giorno ad esempio. Ma sbattere un uomo in galera a luglio in una situazione di insostenibile sovraffollamento carcerario - denunciato pure dal Presidente della Repubblica Mattarella - è una misura cautelare del tutto sproporzionata, giustificata esclusivamente dall’assenza di un domicilio. Gli ultimi saranno sempre più ultimi e colpevoli non solo per i fatti commessi, ma anche per l’assenza nel nostro Stato di un sistema dell’esecuzione della pena in linea con i principi costituzionali. Oltre a non avere reale funzione rieducativa, l’applicazione della misura cautelare nei confronti di soggetti che hanno commesso reati minori non ottempera nemmeno alla funzione rieducativa della pena; al contrario contribuisce ad aggravare il già drammatico problema del sovraffollamento carcerario”. Conclude l’avvocato Colella: “Il carcere così non offre alcuna tutela né per il giovane imputato -privo di qualsiasi progetto rieducativo - né per la collettività, che non trae alcun beneficio da una pena detentiva priva di reale funzione rieducativa; il sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani rende impossibile garantire condizioni dignitose e percorsi di reinserimento efficaci soprattutto in situazioni come questa. Le misure alternative quali i lavori di pubblica utilità e l’affidamento ai servizi sociali dovrebbero essere attuate e sviluppate proprio nei confronti degli autori di reati minori”. Il legale ci spiega quali iniziative possono essere messe in atto per tentare di tirar fuori il suo assistito che da una settimana si trova nel carcere di Regina Coeli: “proveremo a trovare un domicilio al giovane per poi chiedere gli arresti domiciliari anche se tra qualche giorno inizierà il periodo feriale degli uffici giudiziari e sarà ancora più complicato ottenere la sostituzione della misura in assenza del giudice titolare”. Custodia cautelare legittima anche senza i verbali dei coindagati di Antonio Alizzi Il Dubbio, 15 luglio 2025 La Cassazione: quanto detto agli interrogatori preventivi è considerato solo se ci sono elementi favorevoli al ricorrente. La Corte di Cassazione ha confermato la custodia cautelare in carcere nei confronti di un uomo, rigettando il ricorso presentato dalla difesa contro l’ordinanza emessa dal Tribunale di Catania. L’indagato, accusato di estorsione aggravata e associazione di tipo mafioso nonché di traffico di stupefacenti, aveva contestato la mancata trasmissione al Riesame, da parte del pubblico ministero, degli interrogatori resi dagli altri coindagati nel procedimento, ritenendo che tali atti potessero contenere elementi favorevoli alla sua posizione. La Suprema Corte ha però ritenuto infondato il ricorso, chiarendo i confini dell’obbligo di trasmissione degli atti introdotto dalla riforma del 2024 in tema di misure cautelari. Con la legge n. 114 del 2024, infatti, è stato modificato l’articolo 309, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’obbligo di trasmissione non solo degli atti a fondamento della richiesta cautelare, ma anche di eventuali elementi sopravvenuti favorevoli all’indagato, incluse le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio preventivo. Si tratta di un’anticipazione del contraddittorio prima dell’applicazione della misura, che può essere esclusa solo in presenza di specifiche esigenze cautelari, come il pericolo di fuga, di inquinamento probatorio o di reiterazione di gravi reati. La riforma, inoltre, ha introdotto una nuova causa di nullità dell’ordinanza cautelare se il giudice omette di valutare espressamente quanto dichiarato dall’indagato in sede di interrogatorio preventivo. Nel caso dell’indagato, però, la questione posta non riguardava tanto le sue dichiarazioni, quanto quelle rese da altri coindagati. Secondo la difesa, il pubblico ministero avrebbe dovuto trasmettere al tribunale del Riesame tutti i verbali degli interrogatori, trattandosi di una contestazione per reato associativo. La Cassazione ha escluso tale bgo automatico. Richiamando il dato letterale della norma, ha precisato che la trasmissione è imposta “in ogni caso” solo per le dichiarazioni dell’indagato che propone il Riesame, non per quelle altrui. Gli atti resi da altri soggetti - come coindagati, collaboratori o testi - devono essere trasmessi solo se contengono elementi oggettivamente favorevoli, e non semplici dichiarazioni difensive o negazioni dell’accusa. Secondo la Cassazione, spetta alla difesa l’onere di indicare quali dati precisi, contenuti in quei verbali, siano rilevanti in favore dell’indagato e non siano stati valutati dal tribunale. Nel caso esaminato, invece, il ricorrente si era limitato a una doglianza generica, senza fornire elementi concreti e verificabili. La Cassazione ha ribadito che né la legge né la giurisprudenza impongono la trasmissione integrale di tutti gli interrogatori dei coindagati in assenza di contenuti esplicitamente favorevoli. Questa interpretazione si estende anche agli interrogatori “preventivi” introdotti dalla riforma del 2024, non potendosi distinguere, ai fini dell’obbligo di trasmissione, tra dichiarazioni rese prima o dopo l’applicazione della misura cautelare. La Corte ha infine richiamato il principio secondo cui la valutazione del tribunale deve concentrarsi su elementi concreti, sopravvenuti e oggettivamente idonei a incidere sull’esistenza dei presupposti cautelari. Le semplici contestazioni alle accuse non rientrano in tale ambito. Per queste ragioni, la Suprema Corte ha ritenuto corretta la decisione del tribunale del Riesame di Catania nel rigettare l’eccezione difensiva e ha respinto il ricorso, condannando l’indagato al pagamento delle spese processuali. 41-bis, sì all’incontro del boss con una donna se è nata una relazione di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2025 Anche se l’ordinamento penitenziario limita i colloqui visivi ai familiari, incontrare una donna rientra nel diritto all’affettività. Non può essere vietato, in nome del diritto all’affettività, il colloquio visivo del boss di mafia detenuto al 41-bis, con una donna con la quale, dopo uno scambio epistolare, durato circa 17 anni, si è instaurata una relazione sentimentale. E questo malgrado l’ordinamento penitenziario, per quanto riguarda il regime speciale differenziato, vieti espressamente (comma 2, articolo 41-bis) i colloqui del detenuto sottoposto al cosiddetto carcere duro, con persone diverse dai familiari, salvo casi eccezionale individuati di volta in volta dal direttore dell’istituto di pena. La Cassazione ha così respinto il ricorso del ministero della Giustizia contro l’ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza aveva accolto il reclamo presentato da un boss della mafia - ristretto al 41-bis da oltre 25 anni e in carcere dal 1993 - per cancellare il no del direttore a un colloquio in presenza con una donna amica di “penna” dal 2008: una relazione epistolare che si era trasformata in una liaison sentimentale. Il diritto all’affettività anche nel carcere duro - Per la Suprema corte, infatti, il colloquio richiesto dal detenuto, al pari degli incontri con i familiari, pur nella sua eccezionalità rientra nei diritti soggettivi del detenuto, nello specifico all’affettività. Per i giudici di legittimità, dunque, il diniego doveva essere motivato dopo aver bilanciato “le esigenze di affettività del soggetto ristretto e quelle di sicurezza pubblica, le quali, laddove ritenute prevalenti, non consentono di soddisfare tale diritto”. Nel caso esaminato, i giudici avevano verificato che la donna era lontana dagli ambienti della criminalità organizzata ed escluso che l’unico precedente a suo carico, così come il suo attivismo in favore dei detenuti - visto che teneva la corrispondenza anche con un altro boss recluso al 41-bis - fossero tali da rappresentare un pericolo per la sicurezza, come affermato anche dalla direzione distrettuale antimafia e come evidenziato anche dallo studio della corrispondenza tra i due, durata anni. Il precedente no alla lettura del romanzo: “Il nome della Rosa” - Ad avviso della Cassazione, il Tribunale di sorveglianza ha dunque correttamente motivato sul concreto pregiudizio subìto dal detenuto a causa del no del direttore all’incontro. Per il detenuto un deciso passo avanti, dopo essere salito agli onori della cronaca per un altro no dell’istituto di pena, nel quale era ristretto, alla lettura del romanzo di Umberto Eco Il nome della Rosa. Sulla scia del clamore della vicenda, la direzione del carcere aveva chiarito che il divieto era motivato non dalla pericolosità del libro per il suo contenuto, ma dalla rilegatura con copertina rigida. Liguria. Il sopravvitto è libertà, ma i prezzi interni salgono: solo chi ha soldi mangia bene di Erica Manna La Repubblica, 15 luglio 2025 La ditta che si è aggiudicata l’appalto in Liguria fornisce colazione, pranzo e cena per 3,93 euro. Così i detenuti, se hanno il permesso, preferiscono cucinare in cella. Fare colazione, pranzo e cena con 3,93 euro. Cosa si potrebbe mangiare, fuori? Eppure, è quello che accade dentro: perché è questo il valore della diaria giornaliera a persona proposto dalla ditta che si è aggiudicata il servizio per le carceri liguri, a Chiavari, Spezia, Imperia, Sanremo, Marassi e Pontedecimo. Un ribasso del 30,97 per cento, per un lotto stimato 9 milioni e 550 mila euro. Tre euro e 93, Iva esclusa. “Ma con una diaria inferiore ai 4 euro giornalieri - incalza il garante regionale dei detenuti, Doriano Saracino - i problemi legati alla qualità del vitto, se non addirittura alla quantità, sono difficilmente eliminabili”. Inizia da qui, da un piatto di minestrone che nei giorni di caldo torrido viene servito alle cinque del pomeriggio, dalla cena della domenica portata insieme al pranzo, la terza puntata dell’inchiesta di Repubblica sulle carceri liguri. E dai soldi, che i detenuti non possono materialmente tenere con sé: ma che sono necessari per acquistare il cosiddetto “sopravvitto”, che consente di comprare generi alimentari o di altro tipo compilando un modulo, il modello 72. E qui, i reclusi lamentano prezzi alti e disomogenei, la consegna di prodotti vicini alla scadenza o di prodotti congelati invece di quelli freschi. Minestre ad agosto - Porzioni scarse. Zuppe, minestroni bollenti in estate: anche in sezioni dove i detenuti non sono autorizzati a utilizzare il fornelletto. “Sono tante le lamentele - racconta Saracino - per quanto riguarda la preparazione del cibo, i sopralluoghi nei vari istituti non hanno evidenziato particolari criticità, anzi: ho osservato attenzione e cura da parte dei detenuti addetti alla cucina, pulizia e rispetto delle norme igieniche”. Il punto riguarda porzioni e menù. E dunque, ci si arrangia in altro modo. La cucina, naturalmente, dentro le celle non c’è. Eppure è qui che mangia la grande maggioranza dei detenuti: a colazione, a pranzo, a cena. Cucinano i pasti con un fornelletto da campeggio, sistemato di solito tra lavandino e gabinetto. “Una delle attività preferite all’interno delle celle è, per chi se lo può permettere, la cucina - ci racconta don Paolo Gatti, cappellano del carcere di Marassi da oltre vent’anni - è un modo per gustare un pizzico di libertà, affermare la propria identità, concedersi uno dei pochi piaceri consentiti. Dovendo garantire i pasti caldi, l’amministrazione penitenziaria ha previsto che ogni detenuto possa avere il necessario per scaldarsi il cibo: e per questo consente che il detenuto possa dotarsi a proprie spese di un fornelletto con bombolette di gas. Con queste minime risorse e le poche casseruole che si acquistano col sistema della “spesa”, alcuni mettono a frutto dei talenti culinari insospettabili. Ho ascoltato descrizioni di menù, specie in occasione delle feste di Natale e Pasqua, da fare invidia a ristoranti stellati. Ho assaggiato torte e pizze preparate in ingegnosi fornetti fatti con due piatti d’acciaio, uno sgabello e una coperta. Anni fa, quando il sovraffollamento era maggiore e le celle contenevano ancora 8 e non 6 detenuti, un detenuto preparava arancini di riso per tutti gli 80 compagni del piano”. Il lusso del sopravvitto - Cosa cucinano dipende da quello che riescono ad acquistare. Ma c’è un problema: prezzi impazziti. A Marassi, il garante Saracino ha stilato una tabella dei prodotti disponibili sul modello 72. Qualche esempio di rialzi più eclatanti: l’olio extravergine di marca, passato dai 5,15 euro del gennaio 2023 ai 7,70 del febbraio dell’anno scorso. Ancora: il pollo fresco, aumentato del 46,5 per cento, il cous cous del 96,9 per cento. “Segnano invece significative diminuzioni prodotti come le uova, il caffè a marchio economico, le pile, lo shampoo - spiega Saracino - una dinamica disomogenea”. “Una frase che spesso si sente ripetere all’interno è: la galera senza soldi è galera doppia - riflette don Gatti - l’istituzione ti fornisce vitto, branda, materasso, lenzuola. E ti presenterà alla fine il conto per il mantenimento. Per tutto il resto, devi pensarci tu. I volontari cercano di supplire fornendo vestiario e prodotti per l’igiene a chi non ha mezzi propri, uno sforzo enorme che non riesce mai a coprire tutto il fabbisogno. Se hai i soldi puoi comprarti cose necessarie e anche quel po’ di superfluo che ti allieta la vita, il gelato d’estate, la minerale gassata. Tabacco e sigarette, che rimangono la prima terapia antistress per tantissimi. I soldi consentono le telefonate all’avvocato o ai famigliari perché, per quanto tu abbia il diritto alla telefonata, te la devi pagare”. Ma di fatto come gestiscono il denaro i detenuti? “Non lo possono tenere con sé - spiega don Gatti - ancora nel 2006, all’inizio del mio ministero di cappellano, ho accompagnato in permesso premio dei detenuti che per la prima volta, al di fuori delle mura, vedevano gli euro. Il denaro proviene da depositi dei famigliari, da eventuali pensioni o dallo stipendio per chi svolge un lavoro. Le somme sono accreditate su un conto personale interno, gestito dall’amministrazione. Da qui vengono scalati gli acquisti e le ricariche della scheda telefonica. Chi può, perché finalmente dopo mesi di attesa è stato ammesso al lavoro interno, manda soldi alla famiglia. O paga la parcella dell’avvocato”. Veneto. 2 milioni dal Ministero di Giustizia per il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti di Adamo Chiesa lapiazzaweb.it, 15 luglio 2025 Grazie alla collaborazione con la Regione Veneto, il progetto promuove percorsi di orientamento, formazione e housing sociale per persone sottoposte a misure penali esterne o in uscita dal carcere. Un importante passo avanti nel reinserimento sociale e lavorativo delle persone coinvolte nel sistema penale arriva dal Ministero della Giustizia. Il Ministro Carlo Nordio ha infatti stanziato oltre due milioni di euro destinati al Veneto per l’attivazione di percorsi di orientamento, formazione e housing sociale rivolti a chi è sottoposto a misure penali esterne o in uscita dagli istituti penitenziari. L’iniziativa, frutto di una stretta collaborazione con il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, e con la supervisione di Gabriella De Stradis, Direttore generale per il coordinamento delle politiche di coesione del Ministero, punta a creare una rete territoriale che favorisca il reinserimento socio-lavorativo attraverso un sistema integrato di interventi. Parte dei fondi sarà utilizzata per ampliare e migliorare gli spazi dedicati alle attività di formazione e inclusione sociale, mentre un’altra parte sarà destinata alla residenzialità assistita e temporanea. Questi spazi accoglieranno temporaneamente i destinatari dei percorsi di reinserimento che non dispongono di soluzioni abitative, rendendo possibile l’accesso a misure alternative e sanzioni sostitutive che altrimenti non potrebbero essere fruite. Il progetto rientra nell’ambito del più ampio programma “Una Giustizia più Inclusiva: Inclusione socio-lavorativa delle persone sottoposte a misura penale anche attraverso la riqualificazione delle aree trattamentali”, finanziato dal Piano Nazionale “Inclusione e lotta alla povertà 2021-2027”, di cui il Ministero della Giustizia è Organismo Intermedio. Con questa iniziativa, il Ministero intende rafforzare l’efficacia delle misure penali esterne, migliorando le condizioni di vita dei soggetti coinvolti e promuovendo la loro reintegrazione nella società, nella prospettiva di una giustizia più umana e inclusiva. Frosinone. “Detenuto suicida schiacciato dalla solitudine, nessun contatto con l’esterno” di Natascia Grbic fanpage.it, 15 luglio 2025 Il garante Anastasia: “La solitudine uccide, in carcere più che fuori”. Un detenuto è morto dopo che venerdì scorso ha tentato il suicidio nel carcere di Frosinone. Subito soccorso e portato in ospedale, è stato immediatamente preso in carico dai medici che hanno provato di tutto per salvargli la vita. Purtroppo tutti i tentativi non sono andati a buon fine, il cuore del ragazzo non ha retto. Le lesioni riportate nel tentativo di togliersi la vita si sono verificate gravi e irreversibili. Oggi, purtroppo, il decesso. A dare notizia della morte del ragazzo è stato il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. “Non ce l’ha fatta il ragazzo che ha tentato il suicidio venerdì scorso nel carcere di Frosinone - le parole di Anastasia -. Era stato soccorso e portato in ospedale, ma non ce l’ha fatta. Aveva trent’anni, tossicodipendente, condannato in via definitiva per un cumulo di reati minori. Arrivato da Rebibbia a dicembre, non aveva alcun rapporto con l’esterno. La solitudine uccide, in carcere più che fuori, e il carcere non ce la fa a mettere le pezze a un mondo a rovescio, in cui la giustizia penale è soffocata dalla marginalità che merita altre risposte e altre politiche pubbliche”. Non è la prima volta che un detenuto si toglie la vita in carcere perché completamente solo. A febbraio un episodio simile, sempre nel carcere di Frosinone. Andrea, un uomo di 51 anni, si è tolto la vita un anno prima di finire di scontare la sua pena. Era completamente solo, non faceva colloqui da tempo e nessuno lo andava a trovare. Anche lui con problemi di tossicodipendenza, on ha più retto alla solitudine, e a febbraio ha deciso di togliersi la vita. Bergamo. Tragedia in carcere, la direttrice: “Fatto tutto il possibile per salvarlo” bergamotomorrow.it, 15 luglio 2025 Il gesto estremo di un detenuto pachistano riaccende l’allarme sulle condizioni nella casa circondariale di via Gleno. Sovraffollamento, carenze di personale e disagio psichico al centro della denuncia. Un detenuto pachistano di 32 anni ha perso la vita a seguito di un gesto estremo compiuto a metà giugno nel carcere di via Gleno, a Bergamo. L’uomo è deceduto dopo alcuni giorni di ricovero in ospedale, nonostante gli sforzi tempestivi per tentare di salvargli la vita. Un episodio che getta nuova luce sulle condizioni di disagio psichico e sociale che affliggono le carceri italiane, con la struttura bergamasca tra le più critiche a livello nazionale. “Siamo profondamente dispiaciuti”, ha dichiarato Antonina D’Onofrio, direttrice della casa circondariale. “Il detenuto era in cella con un compagno, proprio come misura preventiva contro atti autolesionistici. Sette minuti prima del gesto era stato visto da un agente di sezione. È stato fatto tutto il possibile per salvargli la vita”. Il caso è riportato nella relazione del Garante nazionale dei detenuti, che evidenzia una situazione complessa all’interno della struttura di via Gleno. Da inizio anno, sono stati registrati quattro tentativi di suicidio, 15 casi di autolesionismo e 55 manifestazioni di protesta individuale, tra cui scioperi della fame e della sete. Dati che raccontano di un malessere diffuso, alimentato da condizioni strutturali e organizzative sempre più precarie. Al 7 luglio, i detenuti presenti erano 587 a fronte di 319 posti regolamentari, con un tasso di sovraffollamento pari al 184%, tra i più alti del Paese. Una situazione critica e stabile nel tempo, che rende estremamente difficile individuare e intercettare i segnali di disagio psichico e comportamentale, soprattutto nelle fasi iniziali. I cappellani della struttura parlano apertamente di un’emergenza strutturale. Le loro parole sono un grido d’allarme rivolto alle istituzioni: “Il sovraffollamento, la mancanza cronica di personale e le condizioni operative rendono complicato intervenire in tempo o offrire un ascolto adeguato. Serve un cambio di passo, con interventi urgenti e strutturali che mettano al centro la dignità della persona e la salute mentale”. L’episodio di via Gleno non è purtroppo isolato, ma si inserisce in un quadro nazionale in cui il carcere è spesso l’ultima tappa di un percorso di marginalità e fragilità psicosociale, su cui gli strumenti di prevenzione e supporto risultano oggi insufficienti. Ferrara. Carcere, dopo il caso trans scatta ispezione ministeriale di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 15 luglio 2025 Gli ispettori mandati da Roma dopo la denuncia dello stupro in una cella. Sinappe, nuovo grido di allarme: “Lavoriamo nel terrore, prima o poi il morto”. La denuncia del presunto stupro ai danni di una detenuta trans in una cella dell’Arginone - “mi hanno attirata con l’inganno e mi hanno violentata in tre” - un’inchiesta in Procura, due interrogazioni al ministro Nordio, l’arrivo della senatrice Cucchi per un’ispezione a sorpresa e ora l’arrivo degli ispettori mandati da Roma. Tutto racchiuso in un fazzoletto di giorni. Giorni caldissimi - e non solo per le temperature - all’interno dell’Arginone, ‘travolto’ dal caso trans, portato alla luce dal Carlino, che ha aperto una ridda di polemiche, rimettendo in bella vista ferite (meglio, squarci) ormai al limite della cancrena. “Appena è uscita la notizia del presunto stupro - chiosa l’ispettore Roberto Tronca, segretario provinciale del Sinappe - si è mosso il mondo, mentre noi da mesi, anzi da anni, denunciamo una situazione al limite del sostenibile e tutti se ne fregano”. L’ultimo atto è arrivato da Roma, dal ministero, con l’invio degli ispettori. Il provveditore del Triveneto con alcuni uomini hanno visitato l’intero istituto, fatto il punto con la direttrice Maria Martone, parlato con il personale, riportandosi indietro, appuntati in un taccuino, criticità e cose buone. Nulla, al momento, però si conosce sulla valutazione e sul rapporto presentato al Dap. E proprio dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il 4 luglio è arrivata la firma per il trasferimento della detenuta trans, ora a Belluno dove esiste un’apposita sezione dedicata ai transgender. Sono solo sei le carceri in Italia che ne dispongono, tra cui l’istituto della città veneta. La detenuta, 45 anni italiana, era arrivata a fine marzo a Ferrara, trasferita a sua volta da Reggio Emilia per “motivi di sicurezza”. Litigi, incompatibilità, caos. Ma all’Arginone, carcere solo maschile, nella quarta sezione fin dai primi giorni aveva iniziato a subire minacce e palpeggiamenti nei corridoi, chiedendo così alla direttrice e ai garanti comunale e regionale, Manuela Macario e Roberto Cavalieri, di essere trasferita nuovamente in un carcere per detenuti transgender. “Aveva paura - ha spiegato Macario - di essere violentata”. Il 24 giugno, poi, la telefonata a Cavalieri, dal quale era partita formalmente la denuncia per lo stupro. “Questo episodio - spiega ora Tronca - è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ogni giorno può succedere una rivolta e solo con i nostri numeri - 70/80 agenti contro 390 detenuti - che facciamo?”. Ieri, nel turno 16-24, in servizio c’erano 12 poliziotti. “Se i detenuti vogliono prendersi il carcere, lo fanno in 5 minuti. Noi - chiude - lavoriamo nel terrore, iniziamo il servizio pregando di finirlo in fretta. Ci sono colleghi che vogliono licenziarsi, gente giovane e capace. Ma, avanti così, prima o poi ci scapperà il morto”. Intanto ieri è arrivato il primo dei 10 agenti promessi da Roma. Ma c’è un altro problema sollevato dal Sinappe: la mancanza di un comandante della Penitenziaria, con il titolare in missione per un anno. “Ogni due o tre giorni ne arriva uno mandato o da Bologna o da Castelfranco Emilia. E resta un giorno. E a fare cosa? Siamo un corpo senza testa abbandonati dall’amministrazione centrale”. Torino. Arresto illegale, condannati due poliziotti del reparto prevenzione crimine di Andrea Bucci La Stampa, 15 luglio 2025 In manette era finito un ragazzo che aveva filmato un controllo: era rimasto una notte in commissariato senza accuse concrete. Riconosciuta una provvisionale di 5.000 euro. Due poliziotti del reparto prevenzione crimine sono stati condannati, ieri mattina, 14 luglio 2025, per aver illegalmente detenuto una notte in commissariato un ragazzo fermato durante un controllo in un esercizio commerciale La giudice ha anche riconosciuto alla parte civile, il ragazzo trattenuto in Commissariato, il pagamento in solido di una provvisionale di 5 mila euro. La vicenda risale al 25 febbraio 2023. Un giovane di 21 anni era stato ammanettato e caricato su una pattuglia perché filmava un controllo della polizia. Il giovane ha trascorso una notte sotto i neon bianchi della sala d’attesa di un commissariato di polizia, senza sapere il perché. Il 21enne era stato in un primo momento denunciato a piede libero per resistenza a pubblico ufficiale (procedimento archiviato). Durante la requisitoria, il pm Paolo Toso aveva parlato di “strane coincidenze” susseguitesi nel corso dell’intera vicenda. Secondo il magistrato la vicenda andava inquadrata diversamente: “Parliamo di un ragazzino che era insieme a degli amici e che alla vista di un’auto della polizia ha fatto lo sbruffoncello per poi andare al bar. E di tre pattuglie che arrivano subito dopo e procedono con quello che dicono essere un controllo di routine sugli avventori. Questi ragazzi, però, non sono bulli di quartiere”. Il giovane fu ammanettato e trattenuto a terra. “Il semplice fatto che una volta al commissariato, decisero di non arrestarlo senza nemmeno interpellare il magistrato di turno, e di rilasciarlo dopo averlo trattenuto al solo scopo di identificarlo, dimostra che le cose non andarono come hanno cercato di far credere”. Il verbale che i poliziotti prepararono non fu di “accompagnamento”, ma di “aggiustamento” dei fatti. Udine. Libri, gruppi di lettura e giochi con i figli: la cultura varca i cancelli del carcere friulioggi.it, 15 luglio 2025 Nuovo protocollo a favore dei detenuti del carcere di Udine. Firmato un nuovo protocollo d’intesa che rafforza il ponte tra il carcere e la città di Udine, portando dentro le mura cultura, lettura, socialità e occasioni di riscatto. Il Comune di Udine, la Casa Circondariale, l’Associazione Icaro Volontariato Giustizia Odv, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e il Cpia (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) hanno siglato un accordo che rinnova e potenzia un’esperienza già avviata, mettendo al centro l’accesso alla cultura come strumento di crescita personale e collettiva per le persone detenute. L’accordo, firmato nei giorni scorsi alla presenza dell’assessore alla Cultura Federico Pirone, della direttrice del carcere Tiziana Paolini, del garante Andrea Sandra e dei rappresentanti dell’Associazione Icaro, mira a contrastare l’isolamento, rafforzare la relazione con l’esterno e offrire alle persone recluse occasioni concrete per costruire un nuovo percorso di vita. Tra i punti cardine del protocollo: il potenziamento della biblioteca interna della casa circondariale grazie alla collaborazione con la Biblioteca Civica Joppi, con l’arrivo di nuovi libri - anche in lingua straniera - riviste, materiali multimediali, e l’attivazione di servizi di prestito bibliotecario e interbibliotecario. A queste iniziative si affiancheranno gruppi di lettura, cineforum e, potenzialmente, incontri con autori e autrici. Particolare attenzione sarà dedicata ai detenuti stranieri, con materiali specifici per l’apprendimento della lingua italiana. Non solo libri: il progetto include anche laboratori creativi, percorsi legati alla narrazione, alla scrittura, all’educazione all’immagine, e momenti di confronto pensati per stimolare il pensiero critico e rafforzare la consapevolezza di sé e degli altri. Una dimensione educativa che va oltre la formazione scolastica, abbracciando anche il gioco come strumento culturale. In questo senso, sarà coinvolta anche la Ludoteca comunale, che parteciperà attivamente alle attività grazie al progetto “Una domenica in famiglia”. L’iniziativa prevede momenti ludico-educativi dedicati ai detenuti e ai loro figli, con l’obiettivo di ricreare spazi di relazione familiare in un contesto sereno e accogliente, nonostante la detenzione. “Questa firma avviene in prossimità della conclusione dell’intervento di ristrutturazione del carcere, che porterà benefici non solo alle persone detenute e a chi qui lavora, ma a tutta la nostra comunità - ha affermato l’assessore Federico Pirone -. Portare libri, lettura e cultura all’interno del carcere significa attuare i valori della Costituzione italiana e investire su un futuro diverso per le persone. La biblioteca è uno spazio di ascolto, relazione e consapevolezza, capace di restituire dignità e possibilità di riscatto”. Pirone ha infine sottolineato l’importanza del lavoro condiviso: “Crediamo fortemente nell’alleanza tra istituzioni, mondo della formazione, volontariato e terzo settore per rigenerare spazi, relazioni e percorsi di vita. È così che si costruisce una comunità più giusta e più umana”. Udine. In carcere libri in lingua e incontri con autori, ma ci sono ancora troppi detenuti di Riccardo Lazzari udinetoday.it, 15 luglio 2025 Entro fine anno le “love room” per le visite intime. Il nuovo progetto culturale instrada gruppi di lettura e cineforum, aggiunge testi di grammatica italiana, ma per l’ex garante dei detenuti “Tutto questo può funzionare se non c’è il sovraffollamento”. Nuovi libri, riviste e multimedia, anche in lingua straniera, nella biblioteca del carcere; prestiti interbibliotecari, gruppi di lettura, cineforum. E poi testi per imparare l’italiano, laboratori creativi, percorsi ludico-educativi, di scrittura e di educazione all’immagine, oltre a - potenzialmente - incontri con gli autori. Sono le novità culturali nel carcere di Udine, messe per iscritto in un accordo firmato nei giorni scorsi tra la casa circondariale, il Comune, il garante dei detenuti e l’associazione Icaro volontariato giustizia, che arrivano anche nel tentativo di sanare un contesto notoriamente complesso: nella prigione udinese sono state almeno quattro le risse scoppiate negli ultimi mesi - tra queste, alcune hanno coinvolto detenuti tossicodipendenti o con problemi mentali. Nella struttura, inoltre, sono reclusi 167 detenuti a fronte di 90 posti disponibili, mentre l’organico, che dovrebbe contare 108 persone, è sceso a 82, stando alle ultime cifre disponibili. Gioco con i figli di domenica e “love room” entro fine anno - Nel progetto sarà coinvolta anche la ludoteca comunale: l’obiettivo è di promuovere la cultura del gioco come strumento educativo. Di domenica, i detenuti potranno incontrare e giocare con i figli in un contesto più sereno e accogliente delle celle, continuando un progetto attivo già da qualche mese. Entro fine anno, come annunciato a maggio dall’ex garante dei detenuti Franco Corleone, saranno rese disponibili le love room, per permettere a chi è recluso incontri intimi con i partner, e uno spazio per il teatro. “Tutto questo può funzionare se non c’è il sovraffollamento - aveva dichiarato Corleone -. In tutti i luoghi c’è una capienza massima, come nei teatri e nei cinema. È solo il carcere che - sembra, nda - non avere limiti e fa da deposito di corpi”. Roma. Teatro-carcere, a Rebibbia la “Rivoluzione alla Sudamericana” di Viola Mancuso gnewsonline.it, 15 luglio 2025 Venerdì pomeriggio, il teatro del carcere di Rebibbia ha ospitato un evento d’eccezione: lo spettacolo “La Rivoluzione alla Sudamericana”, messo in scena dai detenuti della compagnia Teatro libero di Rebibbia, con la partecipazione dell’attore Alessandro Marverti. Curato dalla regista Laura Andreini, lo spettacolo è stato presentato in occasione del modulo “Cultura e carcere” a cura di Fabio Cavalli, nell’ambito della 12esima edizione del master di 2° livello in “Diritto penitenziario e Costituzione” diretto da Marco Ruotolo, professore ordinario di diritto costituzionale dell’Università degli studi di Roma Tre, e dalla direttrice vicaria Silvia Talini, ricercatrice di diritto costituzionale presso il medesimo ateneo. A partire dalla mattina, i corsisti del master sono stati accolti presso la sala conferenze del carcere per un incontro sul valore delle arti in ambito trattamentale e sulle funzioni del carcere dal punto di vista dell’etica e della filosofia. Fabio Cavalli ha discusso con loro, partendo dal lontano 2002, quando entrò per la prima volta come volontario a Rebibbia, per organizzare il teatro dell’Alta Sicurezza. Ha poi curato l’adattamento del film “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino del 2012. Negli anni successivi la compagnia ha coinvolto circa 1850 detenuti, proiettando spettacoli in diversi teatri, attraverso le postazioni streaming organizzate negli istituti. Nel 2019 ha curato il documentario Rai dedicato al viaggio dei sette giudici della Corte costituzionale all’interno delle carceri e nel 2020 ha raccontato in “Rebibbia lockdown”, attraverso il cartone animato, la pandemia vissuta dai ristretti. La sua carriera è dunque indissolubilmente legata al carcere. Nel pomeriggio, presso il grande auditorium di Rebibbia, è stato presentato lo spettacolo “La Rivoluzione alla Sudamericana”, ispirato all’opera di Augusto Boal. Il drammaturgo brasiliano è anche fondatore del ‘teatro dell’oppresso’, un metodo che ha mostrato come il palcoscenico possa liberare dalle maschere sociali e da una forma di autocensura che limita l’espressione di sé. Doverosi i ringraziamenti al personale dell’amministrazione penitenziaria, polizia e area educativa, che con impegno e pazienza garantiscono le giornate di apertura verso la società esterna. La vicedirettrice Alessandra Bormioli ha portato i saluti della direttrice Iannantuono e ha ringraziato Laura Andreini, alla guida della compagnia, che porta in questi luoghi un tocco di vivacità e di gentilezza. La regista ha spiegato che “per intraprendere nuove strade è necessario rielaborare il passato, rileggerlo alla luce degli errori compiuti e dei fallimenti sofferti e che il protagonista, Josè, rappresenta tutti noi, poiché il teatro racconta storie e crea le condizioni per stare tutti uniti”. Presenti in platea il presidente della Commissione cultura della Camera dei deputati Federico Mollicone, Raffaele Bruno, primo firmatario del ddl “Un teatro in ogni carcere”, la garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Valentina Calderone, il senatore Filippo Sensi, l’assessore alla cultura del IV municipio Maurizio Rossi e tanti altri esponenti del mondo politico capitolino. Una dimostrazione del fatto che, nonostante le diverse ideologie, la politica può unirsi nella condivisione di un evento commovente che migliora le condizioni di vita detentive e che attraverso la cultura sprigiona energie positive. Mollicone ha portato i saluti del Parlamento, annunciando che per la prima volta il teatro in carcere è stato finanziato dal Fondo nazionale dello spettacolo, mettendolo alla pari con il teatro esterno. Il folto pubblico comprendeva anche i familiari dei detenuti e diverse persone della società civile, incuriositi dalle attività de ‘La Ribalta - Centro Studi Enrico Maria Salerno’, che svolge attività di promozione culturale, con particolare attenzione al reinserimento lavorativo di ex detenuti nel sistema teatrale italiano. Sono, infatti, diversi i progetti portati avanti, nel tempo, da La Ribalta: nell’ambito del Rebibbia Festival lo scorso anno è stato messo in scena “L’incredibile caso delle fate di Cottingley”, mentre il 20 maggio hanno debuttato le detenute transgender nello spettacolo “Le città visibili invisibili”. Negli ultimi mesi gli attori del teatro libero hanno avuto l’opportunità di esibirsi in luoghi suggestivi come la Corte di cassazione e l’Area Sacra di Largo Argentina, a dimostrazione del fatto che il teatro può diventare uno strumento potente nel processo di autodeterminazione e può fungere da ponte con il mondo esterno. La compagnia comprende due gruppi di detenuti “comuni”, un gruppo composto dai detenuti del reparto “protetti” e un progetto dedicato al reparto “Alta sicurezza”. La “rivoluzione alla sudamericana” è il frutto di un lavoro complesso dei detenuti del reparto di media sicurezza G8, che hanno avviato un trattamento intensificato. Molti di loro lavorano all’esterno. Attraverso i corpi, i movimenti e il ritmo, si racconta la storia di José, un operaio in cerca di un aumento salariale e di un riscatto. La sua condizione di povertà e di solitudine, che riflette quella dell’uomo contemporaneo, lo porta a preferire il carcere piuttosto che la libertà. E nonostante un tentativo di lotta organizzata e un nuovo cammino da intraprendere, alla fine il protagonista, dopo la sua morte, viene dimenticato. Cogliendone gli aspetti comici e tragici, la figura di José si moltiplica in diversi attori, dialetti e identità, sottolineando come il teatro in carcere mostri proprio l’umanità, nella sua variegata realtà. La giornata si è conclusa con i ringraziamenti del detenuto-protagonista dell’opera, per la possibilità di esibirsi davanti alle proprie famiglie. Infine il parlamentare Raffaele Bruno, che è anche un regista, ha sottolineato che “Se il teatro si può ancora salvare è perché esiste un teatro così”. Lo spettacolo è a cura di: Laura Andreini - Adattamento e Regia; Giuditta Cambieri - Regista Assistente; Francesca Di Giuseppe - Collaborazione alla Drammaturgia; Paola Pischedda - Costumi; Carlo De Nino - Scene; Marco Catalucci - Luci; Francesca Sernicola - Segreteria; Alessandro De Nino - Organizzazione e Grafica; Mario D’Angelo - Fotografia; Fabio Cavalli - Direzione Organizzativa; Produzione - La Ribalta - Centro Studi “Enrico Maria Salerno”. Barletta (Bat). Sovraffollamento nelle carceri e suicidi, un convegno dell’Adgi barlettalive.it, 15 luglio 2025 “In ultimo, signori, io vi domando che per davvero l’articolo che riguarda il trattamento umano da fare ai condannati sia tale; e sia tale in maniera efficiente, non in maniera soltanto empirica ed astratta; perché noi conosciamo che non si può raggiungere una rieducazione del reo, se non lo si mette in una condizione in cui egli non senta ogni giorno la desolazione e l’asprezza di un sistema carcerario che in Italia deve essere modificato alle fondamenta.” Sembrano scritte oggi queste parole, invece risalgono al 28 marzo del 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente per l’art. 27 della Costituzione, pronunciate dall’On. Giuseppe Fusco del Partito liberale. La situazione delle carceri in Italia oggi è drammatica. I suicidi dall’inizio dell’anno nelle carceri sono stati 39. Abbiamo un sovraffollamento insostenibile, i penitenziari stanno diventando palestre criminali. Di questa situazione l’Adgi sez. di Trani, l’Associazione Avvocati di Bisceglie, la Camera penale di Trani parleranno nel convegno del 16 luglio, presso la Lega Navale di Barletta alle ore 18.30. Dopo i saluti del presidente della Lega navale dott. Giuseppe Gammarota, l’Avv. Adriana Moschetti, presidente Avvocati di Bisceglie introdurrà l’argomento. Relatori avv. Noemi Cionfoli Osservatorio Regionale Antigone, dott. Piero Rossi, Garante dei diritti delle persone sottoposte a misura limitative della libertà Regione Puglia, Avv. Angelo Scuderi , Consigliere Giunta CP Trani, componente Osservatorio Carcere UCPI, dott. Federico Pilaggetti, Segretario Nazionale Sappe. Il dibattito sarà moderato dall’Avv. Anna Chiumeo presidente Adgi sez. di Trani. Milano. Carcere e musica inclusiva: concerto in convento con la “Passione” di San Vittore di Giorgio Mandelli Corriere della Sera, 15 luglio 2025 Un’orchestra e tre cori, compreso quello degli Amici della Nave di San Vittore composto da ex ospiti del carcere milanese, volontari e volontarie: una esperienza di musica per l’inclusione e il racconto del concerto, scritto in prima persona da uno dei protagonisti. Ore 5 del mattino, sabato 12 luglio: sveglia, si parte. Per dove? Maciano, in provincia di Rimini. Paese di poche anime in cima alla Valle del Marecchia. Chi l’avrebbe mai detto che l’entroterra riminese potesse affascinarmi così tanto. Quiete, aria pulita, gente a modo. Uomini e donne in stretto legame con le loro origini, che hanno scelto orgogliosamente di vivere nella comunità di cui fanno parte. Io vivo a Milano. Che differenza rispetto allo stress, alle corse, alla fretta, all’inquinamento, diciamo pure al ritmo violento, delle grandi metropoli. Adesso invece noi siamo venuti in questo piccolo Paradiso per fare un concerto. Noi vuol dire la compagnia di persone che formano il nostro coro. Il Coro Amici della Nave di San Vittore. Formato da persone con un passato di detenzione, pazienti Serd di Asst Santi Paolo Carlo, volontari e volontarie dell’associazione Amici della Nave. L’obiettivo della nostra compagnia, in ogni esibizione, è sensibilizzare le persone sul tema del carcere. Non facendo tanti discorsi ma attraverso la musica e il canto, magari insieme con un’orchestra, spesso anche con altri gruppi corali. Questa volta con noi c’erano il Coro Voci Liriche di Misano Adriatico, il Coro Carla Amori di Rimini, l’Orchestra Antiqua Estensis di Ferrara, e poi solisti bravissimi: compreso padre Raffaele Talmelli, del convento di Santa Maria dell’Olivo di fronte a cui si è svolto il concerto. Il programma parlava della Passione, in pratica il racconto del processo a Gesù mescolato alle musiche più diverse, da Bach ai Metallica, e a testi scritti da persone che hanno vissuto o tuttora vivono l’esperienza del carcere. Ma così come la Passione finisce con la resurrezione anche per noi il finale del racconto vuole essere il reinserimento sociale una volta usciti. Da persone che per vari motivi avevano perso il senso della vita e della legalità, persone di cui io facevo parte, a persone nuove. Con la speranza di rinascere come persone migliori. Assieme a me e ai volontari dell’associazione questa volta ci sono anche i miei compagni Beniamino, Khaled, Abdo. Con noi era partito anche il nostro amico Luca e in questo momento il mio pensiero va soprattutto a lui: durante il viaggio purtroppo ha ricevuto la notizia del ricovero della mamma per una crisi molto grave, una volontaria lo ha accompagnato in una stazione a metà strada e lui, dopo avere informato le autorità sul cambio di programma dovuto a una emergenza, è dovuto tornare indietro. Purtroppo la mamma non ce l’ha fatta. Sei nel nostro cuore Luca, te lo dico anche qui. Il coro è condivisione. Il coro è scoprire nuove amicizie e gioirne. Descrivere ogni emozione vissuta cantando, anche questa volta, è per me impossibile. Cantare canzoni che hanno testi pieni di speranza e di libertà può far solo bene. Anche e forse soprattutto a noi uomini che per un certo tempo della nostra vita ci siamo trovati sulla strada del male. La musica ci incoraggia a capire che la vita si può vedere con altri occhi e che le esperienze negative possono essere convertite. Che tutti possiamo diventare uomini migliori. Ciò che sarebbe impossibile è fare tutto questo da soli. Niente di quello abbiamo fatto, questa volta nella bellissima valle di Maciano così come altre volte in altri luoghi, sarebbe successo senza l’impegno di educatori, volontari, persone delle istituzioni che hanno creduto in noi, oltre a tutte le persone del coro e dell’associazione, dal presidente in giù. Spero in futuro di poter riprovare altre esperienze simili. Cantare fa bene all’anima. Emozionarsi, a volte, migliora la qualità della vita. Il maestro Goffredo Fofi, una vita dedicata alla nonviolenza e alla disobbedienza civile di Pasquale Pugliese* Il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2025 Dolci, Capitini, Langer: sono alcuni dei punti di riferimento umani e culturali che Goffredo Fofi avrà sempre presenti nell’indicare l’urgenza della via nonviolenta alla rivoluzione.La formazione del giovane Goffredo Fofi, maestro, si è svolta sul campo della nonviolenza, partecipando all’esperienza di Danilo Dolci in Sicilia - dove si trasferisce diciannovenne da Gubbio, nel 1956 - con l’insegnamento e la cura ai bambini delle baracche del Cortile Cascino di Palermo, uno dei luoghi più poveri dell’Italia del tempo, e attraverso la lotta alla miseria e ai poteri che la imponevano, con gli strumenti della disobbedienza civile a Trappeto e Partinico: dai digiuni collettivi allo “sciopero al rovescio”, che portò al primo processo contro Danilo Dolci e i suoi collaboratori. Grazie a Dolci, Fofi conosce il conterraneo Aldo Capitini, il filosofo di Perugia teorico della nonviolenza e fondatore della Movimento Nonviolento - che a Dolci, chiamato il Gandhi italiano, ed alla sua “rivoluzione nonviolenta” siciliana dedicherà due libri - con il quale instaura un profondo rapporto, da maestro e allievo, che lo aiuterà a maturare una solida formazione al pensiero nonviolento. Fofi sarà tra gli organizzatori, con Capitini, della Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli da Perugia ad Assisi il 24 settembre del 1961. Molti decenni dopo, ne ripubblicherà nel 2019 Le tecniche della nonviolenza per le edizioni dell’asino e ne introdurrà la nuova edizione dell’editore Manni nel 2024. Immerso, successivamente, nel lavoro socio-culturale tra Torino, Parigi, Milano, Napoli e Roma, Fofi incontrerà - grazie alla comune gravitazione nell’area di Lotta continua - un altro riferimento nonviolento, ma di una generazione successiva a Capitini e Dolci, che considera un “maestro” seppur più giovane di lui di una decina d’anni: Alex Langer, con cui lo scambio e la collaborazione non si interromperà più fino alla scelta definitiva del secondo. Langer sarà l’unico “politico” di cui Fofi apprezzerà la capacità di stare sia nelle istituzioni che nei movimenti eco-pacifisti, portando le istanze dei secondi nelle prime senza cambiare pelle. Non è un caso che l’ultimo libro di Fofi, Ciò che era giusto, pubblicato poche settimane fa, è dedicato proprio all’eredità ed alla memoria di Alex Langer, nel trentennale della dipartita. Sono alcuni dei punti di riferimento umani e culturali che Goffredo Fofi avrà sempre presenti nell’indicare la necessità, e sempre più l’urgenza, della via nonviolenta alla rivoluzione: la capitiniana non accettazione dell’esistente, ossia che il pesce grande mangi il pesce piccolo in una realtà sempre più strutturalmente violenta; la necessità di non fare il male, ovvero la gandhiana ahi?s?, il non nuocere che sarà la cifra anche della scelta vegetariana, come lo fu per Capitini e Gandhi; il non mentire: dire sempre la verità, a costo di risultare irritanti, in un contesto sempre più pervaso dalla propaganda continua da un lato e dalla piaggeria nei confronti del potere dall’altro; il non collaborare al male, cioè la via della disobbedienza civile; l’impegno attivo per quello che Capitini chiamava “il potere di tutti”, il potere dal basso, fuori dalle consorterie politiche, accademiche, culturali. Come vissero sia Fofi che Capitini, ma mai isolati. La radicale scelta della nonviolenza, che lo ha accompagnato nelle molteplici vite che Fofi ha attraversato, non fu ideologica ma capitinianamente “persuasa”. Di una persuasione capace di ascoltare, senza sottrarsi, anche il punto di vista critico del filosofo Günther Anders - del quale pubblica per le edizioni Linea d’ombra gli scritti Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki e Discorso sulle tre guerre mondiali - il quale, nel serrato mettere in guardia contro l’incombere del pericolo atomico sull’umanità, nell’ultima fase della vita considera la risposta nonviolenta non più sufficiente a scongiurare il pericolo, fino ad ipotizzare la possibilità della violenza mirata. Fofi prende sul serio la grave riflessione di Anders e nel 2015 pubblica il libretto Elogio della disobbedienza civile (nottetempo), nel quale afferma che la nonviolenza non può essere solo scelta intima individuale o, al contrario, fatta di “feste periodiche di massa dei fine settimana” come il generico pacifismo, ma deve ritornare ad essere essenzialmente disobbedienza civile. Solo così può rispondere efficacemente alle emergenze crescenti del presente. “Dunque, la disobbedienza civile” - scrive Fofi nell’Elogio - “Qui e dovunque. Del singolo, dei gruppi, delle collettività. Quella civile e non quella incivile proposta dai disobbedienti per sport o per irrequietezze non portate a ragione, non quella incivilissima degli ambiziosi di conquista, non quella degli esasperati egoismi. Quella che sa distinguere, che sa convincere, che sa assumere la responsabilità, e dunque le conseguenze, dei suoi gesti e difenderne la necessità, diffondendone i fini e i modi. Quella responsabile nei confronti del prossimo e della natura, e dei nuovi arrivati e dei nuovi nati. Forse, anzi certamente, si continuerà a perdere, ma vivere alla giornata dei capricci di un sistema dominato dall’avidità, dalla menzogna, dalla violenza, dell’indifferenza al futuro e alle conseguenze delle proprie azioni predatorie, non è vivere ma vegetare. (…). Bisogna smettere di obbedire, prima che sia troppo tardi”. Fofi non ubbidì mai: disobbedente civile prima e culturale dopo, persuaso sempre della forza della nonviolenza. Per “resistere, studiare, fare rete, rompere i coglioni”, come amava specificare. *Filosofo, autore su pace e nonviolenza Migranti. Cpr di Ponte Galeria, inferno di degrado e di diritti calpestati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 luglio 2025 Le parole del rapporto parlano chiaro: ‘condizioni detentive degradanti’, ‘violazioni della dignità personale’, ‘assenza di protocolli anti- suicidari’. È il quadro drammatico che emerge dopo la visita ispettiva condotta al Centro di Permanenza per i Rimpatri (CPR) di Roma- Ponte Galeria dall’onorevole Rachele Scarpa (PD) e dall’avvocato Martina Ciardullo, collaboratrice del Progetto InLimine dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. Al momento della visita effettuata a fine maggio, il centro ospitava 35 persone - 30 uomini e 5 donne - di diverse nazionalità, principalmente tunisina, marocchina, gambiana e nigeriana. La struttura è gestita dalla cooperativa sociale Ekene Onlus dal 17 febbraio 2025, ma già le prime impressioni della delegazione sono state agghiaccianti. ‘Otto persone per stanza, materassi macchiati di sangue e muffa, cimici da letto che tormentano i trattenuti’, descrive il rapporto. Le condizioni igieniche sono al limite del sopportabile: pulizie superficiali ogni tre giorni, bagni senza luce, acqua bollente che fuoriesce dalle docce creando pozzanghere maleodoranti sul pavimento di cemento. Il dato più scioccante emerge dal registro degli eventi critici: in soli tre mesi, dal 20 febbraio al 27 maggio 2025, sono stati registrati 66 episodi gravi, di cui 44 atti autolesivi. Venti tentativi di impiccagione, cinque lesioni da taglio autoinflitte, quattro casi di ingerimento di corpi estranei come batterie e chiavi, un tentativo di darsi fuoco. ‘ Per essere ascoltati, anche solo per chiedere uno shampoo o una visita medica, siamo costretti a compiere atti autolesivi’, hanno raccontato i trattenuti alla delegazione. Un cittadino straniero identificato come H.M. ha tentato di impiccarsi tre volte in quattro giorni consecutivi, dal 17 al 20 maggio. Assistenza sanitaria fantasma La situazione sanitaria rappresenta forse l’aspetto più drammatico di tutto il rapporto. Il medico è presente solo cinque ore al giorno, con un’unica infermiera per 24 ore a sorvegliare 35 persone in condizioni psicofisiche estremamente precarie. Non esistono luoghi per l’osservazione sanitaria dei trattenuti e, soprattutto, non ci sono protocolli per la prevenzione del rischio suicidario. Le visite psichiatriche, fondamentali in un contesto dove la disperazione spinge all’autolesionismo, sono state ridotte da sei a due a settimana. Il motivo? Con il cambio di gestione, non si svolgono più all’interno del CPR ma i trattenuti devono essere accompagnati dalla scorta alla sede dell’ASL Roma 3 in via Colautti. ‘Le disponibilità della scorta sono limitate’, spiega il rapporto, ‘e questo rende difficoltosa l’organizzazione delle visite’. Il personale sanitario ha confermato alla delegazione che questa situazione ha reso ‘ oltremodo difficoltosa e dispendiosa’ l’organizzazione delle visite, con tempi di attesa ‘ assolutamente incompatibili con la necessità di tutelare le persone che presentino vulnerabilità psichiatriche’. Ancora più grave: in sette casi documentati, nonostante tentativi di suicidio, non si è provveduto al rinvio al pronto soccorso. La decisione è lasciata alla discrezione del personale sanitario di turno, senza protocolli obbligatori. Il 16 marzo, dopo l’ingerimento di un corpo estraneo, nessun rinvio al pronto soccorso ‘ per rifiuto del trattenuto’. Il 29 aprile, dopo un tentativo di impiccagione, ‘ l’episodio è stato gestito dalla psicologa del centro’. Il 5 maggio, altro tentativo di impiccagione, ‘ il trattenuto è stato tranquillizzato dagli operatori’. Una sequenza che si ripete il 14 e il 18 maggio. Le carenze vanno oltre l’emergenza psichiatrica. Il personale sanitario ha denunciato l’assenza di un elettrocardiogramma nell’ambulatorio e la mancanza di corsi di formazione specifici per la medicina detentiva. Non viene più tenuto un registro degli invii al pronto soccorso e l’organizzazione delle visite esterne è gestita dall’ente gestore, non dal personale medico, creando ‘ difficoltà di comunicazione e coordinamento’. I trattenuti denunciano un’altra anomalia: vengono sottoposti a ‘ particolare insistenza’ per l’assunzione di una ‘ terapia’ non meglio specificata, apparentemente somministrata per facilitare il sonno. Nel frattempo, le loro richieste di visite psichiatriche, anche dopo atti autolesivi, rimangono inevase. ‘ Un trattenuto ha comunicato un forte stato di preoccupazione per le condizioni di salute mentale di un altro cittadino che compie atti autolesivi quotidianamente, sbatte la testa contro il muro e mangia la spazzatura’, riporta il documento. ‘Nonostante abbia tentato di attenzionare tale situazione, il soggetto non è stato sottoposto ad accertamenti’. Manca completamente un periodo di osservazione sanitaria dopo gli atti autolesivi. Il caso di H. M. è emblematico: tre tentativi di impiccagione in quattro giorni senza alcuna misura preventiva. I trattenuti che hanno compiuto gesti anticonservativi ‘ hanno riferito di non essere stati sottoposti ad alcuna nuova visita a seguito di tali gesti’. Il registro degli eventi critici, compilato a mano su un quaderno senza versione digitale, spesso non riporta nemmeno le generalità delle persone coinvolte, identificate solo con un numero. Un sistema che rende ‘ complesso risalire all’identità’ dei soggetti a rischio e impedisce qualsiasi forma di monitoraggio serio. Diritti calpestati - L’assistenza legale è praticamente inesistente. I trattenuti non ricevono informazioni sui loro diritti e quando chiedono un avvocato vengono loro proposti solo pochi nominativi, non l’intera lista dell’Ordine degli Avvocati di Roma. ‘ La maggioranza dei cittadini stranieri ignora la propria condizione giuridica’, denuncia il rapporto. Anche il diritto alla comunicazione è violato. I telefoni personali vengono sequestrati e sostituiti con cellulari del centro senza internet. Le videochiamate con i familiari si svolgono solo a tarda notte, alla presenza di un operatore, per pochi minuti. Le condizioni alimentari completano questo quadro desolante. I pasti vengono distribuiti attraverso le grate e consumati nelle celle perché la mensa è inutilizzabile ‘ per carenza di personale delle forze dell’ordine’. La qualità è pessima, le porzioni insufficienti, il latte della colazione diluito con acqua. I beni di prima necessità - shampoo, bagnoschiuma, dentifricio, carta igienica - non vengono distribuiti dopo il kit di ingresso. ‘Siamo costretti a lavarci solo con l’acqua’, hanno riferito i trattenuti. ‘Si delineano gravi violazioni non solo delle disposizioni previste dal Capitolato di Appalto ma anche della dignità personale, del diritto alla salute, del diritto alla difesa e della libertà di comunicazione’, conclude il rapporto. La delegazione chiede giustamente un intervento immediato della Prefettura di Roma e dell’ASL Roma 3. Ma le misure richieste - ‘ripristino delle condizioni minime previste dal capitolato e adozione di protocolli specifici per la tutela della salute mentale’ - rischiano di essere insufficienti se non si affronta la questione di fondo. Si tratta di ripensare completamente il senso e le modalità del trattenimento amministrativo. Un luogo dove la metà degli eventi registrati sono tentativi di suicidio non può essere riformato: deve essere ripensato dalle fondamenta. Il CPR di Ponte Galeria ci mette di fronte a una verità scomoda: nel cuore dell’Europa, a pochi chilometri dal Vaticano e dal Parlamento italiano, esiste un luogo dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata per indifferenza sistemica. Il rapporto della delegazione non è solo un atto d’accusa contro una gestione fallimentare: è uno specchio che riflette i limiti della nostra capacità di riconoscere l’umanità dell’altro, soprattutto quando quest’altro è straniero, vulnerabile, invisibile. Migranti. Centri di Permanenza per il Rimpatrio: una visita a Gradisca d’Isonzo, e una proposta di Enrico Conte ilpensieromediterraneo.it, 15 luglio 2025 Non è la prima volta che il Pensiero Mediterraneo si occupa di strutture carcerarie delle quali, in questi giorni, è giunto a occuparsene anche il Presidente della Repubblica Mattarella e il Presidente del Senato La Russa, che hanno denunciato una situazione insostenibile: sovraffollamento, 39 suicidi nei primi sei mesi del 2025, condizioni invivibili delle celle, organico sotto dimensionato, sia con riguardo al personale della penitenziaria che con riguardo a psicologi, educatori e assistenti sociali. Una condizione di degrado strutturale che contrasta con i valori della dignità umana, che vengono sistematicamente calpestati, e che si pone in stridente frizione con un principio costituzionale, la funzione rieducativa della pena (art 27 Cost). Oggi, però, ci occuperemo dei CPR, una cosa diversa dalle carceri ancorchè, come vedremo, le persone che vengono trattenute lo sono con privazione della libertà. Entriamo nel CPR di Gradisca d’Isonzo (GO) in compagnia del Garante dei diritti della Regione FVG, Enrico Sbriglia, del Garante dei detenuti dei Comuni di Trieste e di Udine, Elisabetta Burla e Andrea Sandra. Nelle mie orecchie mi tornano le parole di Charles Dickens, nel suo “Una storia tra due città”: “Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione”. Queste strutture, nate nel 1998 come Centri di permanenza temporanea e assistenza, sono poi diventate 11, distribuite sul territorio nazionale. I CPR sono centri di “detenzione amministrativa” degli stranieri irregolari perché privi del permesso di soggiorno, nei quali il trattenimento (in condizione di privazione della libertà) è consentito solo alla condizione che sia funzionale all’esecuzione del rimpatrio. La visita è stata effettuata per le sollecitazioni intervenute dopo un episodio diventato virale sui social, si vede un detenuto sanguinante circondato da agenti in tenuta antisommossa. Durante il tragitto di ritorno a Trieste ripensiamo alla chiacchierata fatta con alcune persone presenti nel Centro, che ci hanno raccontato cosa è successo ed esposto il proprio punto di vista. Quanto succede sempre più spesso e cioè che gli ospiti del Centro, i quali dispongono liberamente di smartphone, consapevoli della dirompente forza di un’immagine o ancor più di un video, costruiscono ad arte situazioni poi sapientemente divulgate con canali preferenziali e meccanismi oliati da parte di gruppi di opinione che sfruttano la disinformazione quale elemento di propaganda politica. Si noti ad esempio la presenza nel web di video costanti del Centro ma l’assenza di video del “fatto”, sempre un prima o un dopo…. Mai un durante… Possibile con decine di telefoni sempre attivi? Le forze di polizia quotidianamente occupate nella vigilanza a volta hanno l’ingrato compito di intervenire, magari per sedare una rissa, altre volte per mettere in sicurezza un ospite che compie atti autolesivi, altre volte semplicemente per evitare deliberate azioni di danneggiamento grave alle strutture. Il tema dell’immigrazione è molto complesso, ma proviamo a distinguere tre principali status, quello dei “richiedenti asilo” provenienti da paesi non sicuri e che mettono in discussione diritti e sopravvivenza, gli “immigrati economici”, che arrivano in Italia attraverso i flussi autorizzati e che vengono regolarizzati per motivi di lavoro, e quelli che sono trattenuti nei CPR, Centri per il rimpatrio, strutture di detenzione amministrativa deputate a trattenere gli stranieri irregolari, destinatari di un provvedimento di allontanamento dall’Italia e in attesa della sua esecuzione. Il trattenimento amministrativo non viene applicato a tutti gli immigrati irregolari. La norma infatti impone una disamina che riguarda la pericolosità sociale ed il pericolo di fuga proposta dal Questore e successivamente confermata da un Giudice di Pace o, nel caso di richiedenti protezione internazionale, da un Giudice della Corte d’Appello. Non siamo mai, salvo casi eccezionali, di fronte al buon padre di famiglia… ma a situazioni variegate e con sfaccettature complesse. Spesso i trattenuti nei CPR sono persone con una lunga serie di reati alle spalle, con procedimenti penali pendenti, con situazioni complesse, assenza di legami stabili, per un 50% con problemi di tossicodipendenza da sostanze psicotrope le più disparate, dagli psicofarmaci alle droghe classiche Ad oggi se ne contano 11 su tutto il territorio nazionale, al quale vanno aggiunti due in condizione di extraterritorialità in Albania, sui quali si registra la recente posizione-parere di dubbia compatibilità con ordinamento internazionale e costituzionale dell’ufficio del massimario della Corte di Cassazione. Nei CPR non conta quante strutture ma quanti posti realmente sono utilizzabili. Pensiamo ad esempio al centro di Gradisca, nasce per 150 posti, ma tra una ristrutturazione, un incendio, una vandalizzazione la media è di 70/80 posti… e così è per tutti i centri. La reale capienza a livello Italia è pertanto il 50% di quanto realmente programmato. Ad oggi su tutto il territorio nazionale, sono detenute circa cinquecento persone, con un periodo di detenzione che non può durare più di 180 gg: cosa fanno queste persone in questo periodo in attesa del rimpatrio? Il capitolato sulla base del quale vengono gestiti i Centri, oltre che assicurare il diritto alla tutela legale e all’ assistenza sanitaria, prevede anche assistenza psicologica e supporto di assistenti sociali? Il periodo di trattenimento può durare per legge sino a 18 mesi. I giudici non convalidano di solito più di 180 gg. Gli ospiti durante il trattenimento hanno accesso ai servizi di counseling psicosociale, di informazione legale e la possibilità di interloquire con rappresentanti di associazioni terze. Accedono a servizi di base quale una palestra, un campo sportivo e si creano momenti di socialità in ambiti come la barberia, alla quale hanno accesso anche 2 volte la settimana non potendo detenere strumenti da taglio all’interno dei settori abitativi. L’accesso alle attività religiose è libero, così come i colloqui con i professionisti. All’interno delle zone abitative possono detenere il proprio smartphone con collegamento ad internet, vengono fornite carte da gioco, palloni, giochi da tavolo e libri da una biblioteca interna, carta penne, colori Ci chiediamo come venga impiegato il tempo dai “trattenuti”, peraltro in strutture che sembrano gabbie? La gestione del tempo è molto legata alle caratteristiche proprie di ogni individuo. Ad esempio l’attività fisica è libera e sempre permessa (tranne dalle 0:00 alle 7:00) ma da quanti ospiti viene svolta? pochi, molto pochi. Alcune attività espressive di gruppo non hanno trovato accoglimento, come la partita di calcio settimanalmente organizzata non rileva grande partecipazione. Molte persone trattenute non hanno livelli di scolarità elevata e al di fuori della struttura vivevano di espedienti o provengono dal carcere… tutto ciò condiziona significativamente le possibilità di azione. Dove vanno i “detenuti” quando finisce il periodo di permanenza senza che sia stato ancora organizzato il rimpatrio? Tornano alle loro attività quotidiane più o meno lecite spesso senza avere nemmeno un tetto dove stare. La sensazione che si ha dopo la visita, e anche dopo aver scambiato parole con alcuni dei “trattenuti” che chiedono di fare qualcosa, è che i CPR siano gestiti come strutture che ospitano “vuoti a perdere”, persone sulle cui prospettive di reintegrazione sociale è del tutto inutile investire, anche se, oltre la metà di coloro che vi fanno ingresso, non possono essere rimpatriate. Il tema è che chi non può essere rimpatriato non dovrebbe stare in un CPR, ma d’altronde per arrivare a questa conclusione serve un periodo di attività da parte degli uffici competenti della Questura… e chi cessa il trattenimento non è “regolare” ma esce con l’ordine di allontanarsi autonomamente entro 7 gg. Nel frattempo il costo medio per la gestione di ogni struttura è di un milione e 650 mila annui, un posto vale 25 mila euro annuo, costi ai quali aggiungere quelli altrettanto significativi per le manutenzioni straordinarie: frequenti i danneggiamenti e gli incendi peraltro stimolati dal prolungamento del trattenimento di una condizione di detenzione che non ha sbocchi di speranza, per la scarsa probabilità di eseguire il rimpatrio. Queste valutazioni hanno un valore squisitamente politico, ci dicono le persone in servizio. L’esperienza goriziana insegna che tra coloro che vengono convalidati oltre il 60% viene rimpatriato entro i primi 30 giorni. In quadro normativo che tende a includere nei Centri per il rimpatrio richiedenti Asilo assoggettati alle procedure di frontiera, cosa si può fare per migliorare le condizioni di detenzione amministrativa? L’unica possibilità di miglioramento delle condizioni è legata all’allargamento della base sociale dei trattenuti come succede in altri contesti europei. Ricordiamo che solo in Italia il trattenimento degli irregolari è limitato ai casi di pericolo di fuga e pericolosità sociale! Gli ospiti stessi in Italia non hanno interesse per un miglioramento delle condizioni ma creano tutte le condizioni per un peggioramento a partire dalla struttura al fine di ottenere in modo indiretto la cessazione delle misure. Uno slogan di detrattori dei CPR è… “I CPR si chiudono con il fuoco” ed effettivamente la distruzione dei locali peggiora le condizioni ma a lungo andare determina una riduzione dei posti e la possibilità di uscire…Quindi migliorare le condizioni “cui prodest”? Un esempio rende l’idea di quanto sopra… nel 2020 sono state installate le TV in ogni stanza. Dopo 6 giorni erano già state distrutte dagli ospiti con le scuse più banali… non si sente bene… troppo piccola, non si vede il canale tal dei tali… ma per oltre 6 mesi una delle recriminazioni portate avanti ai Giudici in occasione della convalida era “non abbiamo nemmeno la TV…”. Mi tornano in mente le parole del romanzo di Dickens, “Una storia tra due città”, scritto in pieno ottocento, ma dove, rispetto a quello che abbiamo visto, si registra perlomeno una certa alternanza tra la disperazione e la speranza, una tensione tra opposti che sembra invece mancare in certe situazioni del nostro presente, fatto di distopie e dove prevale la misura securitaria e garantista che, da sola, non riesce ad uscire da un pericoloso e inutile avvitamento. Invece questa alternanza esiste, sicuramente non nell’allegorico modo con cui Dickens scrive il suo romanzo, ma esiste. Gli ospiti del CPR rappresentano la minoranza di una minoranza alla quale vengono imposte regole forti, ma anche questo è un tema politico. Durante il nostro viaggio di ritorno dopo la visita al CPR di Gradisca d’Isonzo apprendiamo dalla radio che la Corte Costituzionale (sent. 96/2025) ha rilevato un difetto nella legge sui trattenimenti, nelle norme che non rispettano il principio della libertà personale, violando la dignità della persona trattenuta. A porre la questione era stato il Giudice di pace di Roma, chiamato a convalidare provvedimenti di trattenimento. I dubbi di legittimità si concentravano sulle norme che non definiscono con chiarezza le modalità del trattenimento, né l’autorità competente al controllo di legalità, con ciò violando il principio della riserva assoluta di legge, prevista dall’art 13 della Cost. che richiede certezza del diritto e tutela della dignità della persona, in un ambito dove si intrecciano sicurezza pubblica, immigrazione e diritti umani, un vulnus che richiede una correzione legislativa. A Enrico Sbriglia, nella veste di Garante dei diritti della Regione FVG, chiedo cosa si può fare nel merito: Non sono meravigliato dalla pronuncia della Corte Costituzionale ma, per onestà intellettuale, devo con forza sottolineare come il tema, quello dell’intrattenimento di persone nei luoghi ove si imponga una detenzione amministrativa, venga esibito nell’agone della politica, ad “intermittenza”, emergendo prepotentemente in alcune stagioni, per poi essere inabissato in altre, insomma, una sorta di coniglio che viene estratto dal cilindro di un prestigiatore malvagio, a seconda dell’interesse di chi voglia esibirlo. Com’è noto, la normativa “madre” sul contrasto all’immigrazione irregolare risale, nelle sue fondamenta al 1998, con la c.d. “Legge Turco-Napolitano”; ebbene, mi chiedo: d’allora, quanti Presidenti del Consiglio abbiamo avuto? quanti Capi di Stato? quanti Ministri della Giustizia, quanti dell’Interno e quanti degli affari esteri? quante legislature con i relativi parlamentari di tutti gli schieramenti? Cosa è cambiato d’allora ad oggi sul piano interpretativo del diritto oppure sulla evidente dolorosità delle misure adottate? I CPR sono dei luoghi orrendi, una grande gabbia che ne contiene delle più piccole; sono un agglomerato di cemento, di vetri blindati, di sbarre, di telecamere, di serpentine aguzze e taglienti, un’apoteosi di offendicula. Assomigliano ad enormi stie dove non collochiamo polli e/o galline ovaiole, ma esseri umani, ancorché tanti di loro abbiano spesso commesso reati pure gravi ma per i quali hanno, di regola, espiato le relative condanne e quindi, in punto di diritto, pagato il loro debito… L’unico “verde” che si scorge tra quelle sbarre, in quegli ambienti dove le tracce degli incendi appiccati continuano a troneggiare, nonostante le rapide imbiancature degli addetti alla manutenzione, non è quello della speranza, oppure di qualche timido alberello o siepe di erbe infestanti, perché di vegetazione, anche quella “spontanea”, quella delle erbacce che talvolta vediamo perfino crescere sul manto di bitume delle autostrade, lì non c’è, non ce la fa…; non c’è nulla… Il CPR di Gradisca d’Isonzo è una grande fornace d’estate, un frigo d’inverno; in queste giornate è un’isola di calore che maltratta anche gli stessi operatori dell’ente gestore, che si prodigano come possono, e che è indifferente ai visitatori, istituzionali o meno che siano. L’unico verde che si vede è il colore della rabbia e del rancore che si raccoglie tra gli ospiti e che può esplodere da un momento all’altro, una rabbia che può trasformarsi in violenza oppure in autolesionismi: ma è così non da oggi, bensì da anni, tanti. Queste strutture, sparse un po’ in tutta Italia, stanno a ricordarci che non siamo in grado di trovare risposte adeguate, che agiamo di fronte ai problemi per istinto e per paura, non certo per trovare una soluzione agli stessi, al massimo un rimando. Non sono luoghi ove gli ospiti forzati possano costruire prospettive, programmi di vita, pianificazione del vivere, ancorché il vivere stesso non tolleri condizionamenti e odi ogni tentativo di prevedere il domani, ma fuori da lì, però, almeno ci si può provare, si può cercare di giocare un ruolo, di non rinunciare ad essere protagonisti delle proprie vite…là, invece, no, hai perso tutto. Poco consola, in verità, che luoghi simili, gabbie all’ennesima potenza, che di architettura nulla hanno e per le quali, in fondo, non occorrono particolari competenze costruttive, siano pure presenti in tante altre nazioni europee, perfino quelle di “blasonata democrazia”: in Francia, Inghilterra, Germania e finanche nella “perfettina” Svizzera, solo per citarne alcune. Il fatto che siano in tanti a farlo non significa che ciò sia utile e, soprattutto, giusto. Ma alla fine si tratta di un tema che i governi vogliono evitare di trattare e, soprattutto, di affrontare, necessariamente colloquiando con le stesse opposizioni, perché i problemi grandi, grandi quanto il mondo, andrebbero comunque affrontati insieme: qui non può esserci il governo buono oppure quello cattivo, la pietas del gesto oppure la crudezza della forza a prescindere… né è possibile sottrarsi alle responsabilità morali rinviando il tutto all’interno di contesti decisionali semmai sovranazionali…la prima partita deve essere giocata in casa… Si potrebbe ipotizzare uno status anagrafico diverso di semi regolarità per chi non abbia commesso reati? Qualcuno potrà affermare che ciò che penso da qualche tempo sia scandaloso, ma per non essere scandalosi, stiamo trascinando da decenni, senza riuscire a dare una risposta coerente, il problema che stiamo trattando. Possibile che non si comprenda che le cose non possono rimanere così e che occorra, seppure per gradi di difficoltà, trovare delle risposte che abbiano un minimo di ragionevolezza e che siano rispettose della nostra sensibilità giuridica, Noi che ci vantiamo di essere la patria del diritto? E’ ragionevole, semmai dopo che un immigrato clandestino sia stato detenuto in un CPR per mesi e mesi, senza che il paese al quale affermava di appartenere ne riconoscesse la nazionalità, venga “sic et simpliciter” rimesso in libertà, consegnandogli un foglio che contiene un ordine di espulsione (verso il quale potrà tra l’altro, in punto di diritto, ricorrere) da onorare in pochi giorni, pur sapendo noi che lui non ha un domicilio, non ha una identità fiscale, non ha una tessera sanitaria, non ha alcun documento d’identità da esibire che ci dica chi sia, come si chiama fatti salvi i diversi alias, quanti anni abbia, etc. etc., ma che ha certamente dentro una rabbia enorme, esplosiva, semmai aumentata per l’uso e l’abuso di psicofarmaci e di quanto di sintetico o di naturale la perversa abilità umana sappia inventare per sballare e per evadere dalla realtà che lo circonda, oppure per affrontarla a muso duro, e per vomitarci sopra tutto il suo rancore? E’ questo il bene della sicurezza che offriamo agli ignari cittadini? Davvero poi ci meravigliamo se le stazioni ferroviarie, le nostre periferie, le piazze ed i crocicchi diventano talvolta trappole per i passanti? Se improvvisamente un folle straniero, dall’aspetto trascurato, emaciato, cominci ad agitare un paletto di ferro strappato dal marciapiede e si scaraventi sulle auto, sui passanti, su chiunque lo incroci, sbiascicando parole incomprensibili dove qualcuno, puntualmente, andrà a scomodare le divinità, perché affermerà di avere compreso “Allah Akbar”? Ma davvero siamo così ipocriti da liquidare il tutto in questo modo? ma davvero quello che di tremendo potrebbe accadere si potrà, poi, affermare che era del tutto inaspettato? Quanti di questi episodi o di simili le cronache ci raccontano da qualche tempo? Ecco, allora c’è il bisogno di trovare dei rimedi, e se lo facessimo pure velocemente sarebbe già tardi. Muoviamoci per gradi di difficoltà e cerchiamo, almeno, di scomporre le problematiche stratificate, per provare a risolverle un pezzetto per volta. Quello che propongo è una sorta di stadio intermedio tra l’immigrato irregolare antisociale e quello regolare: il soltanto-irregolare, la cui responsabilità predominante è quella di essere entrato nel nostro paese in modo illecito, semmai utilizzando documenti contraffatti, oppure attraverso i canali di traffico clandestino di immigrati, ma che una volta entrato in Italia non abbia commesso altre condotte illecite, o se anche le abbia commesse, si tratti, ictus oculi, di reati davvero di modesta portata: i piccoli furti fatti per fame, la sottrazione di qualche indumento nei supermarket o sulle bancarelle dei mercati, l’aver dormito negli androni semmai delle banche nelle notti di gelo, altra cosa, insomma, rispetto alle rapine, agli stupri, ai furti sistematici negli appartamenti o all’occupazione di case, allo spaccio di sostanze stupefacenti, alla violenza di gruppo, ai danneggiamenti di beni pubblici, etc. Ebbene, agli “irregular only” potrebbe essere consentito, sub condicione, di permanere nel nostro Paese purché non compiano dei reati per i quali sia prevista la pena della reclusione e se trovino sistemazione in strutture comunitarie, laiche e/o religiose non interessa; si potrebbe prevedere che accettino di indossare il braccialetto elettronico o altra diavoleria tecnologica che consenta subito il loro rintraccio; potrebbero avere una tessera sanitaria “minimal”, che contempli esclusivamente la possibilità di ricevere delle cure sanitarie di base e, in particolare, di effettuare vaccinazioni obbligatorie come previsto per i nostri cittadini, ma anche avere una identità fiscale e anagrafica che possa consentire loro di trovare dei lavori regolari; solo allorquando trovassero un lavoro regolare, soprattutto se a tempo indeterminato, potrebbero “evolvere” ad uno status anagrafico migliore, per ottenere, trascorso un ulteriore periodo di tempo senza che abbiano violato leggi o altro, una semi-regolarità la quale potrà, dopo qualche anno ancora, trasformarsi in regolarità, corrispondente a quella degli altri stranieri che siano giunti in Italia rispettando tutte le regole contemplate. Costoso? non credo, se solo si avesse il coraggio di calcolare quanto costi oggi il disinteressarsi di loro una volta abbandonati i CPR, pur sapendo che molti di essi potrebbero trasformarsi in ordigni esplosivi, perché senza alcuna speranza, e perciò capaci di fare danni incalcolabili. Solo la possibilità di una speranza, di poter godere di un minimo miglioramento può consentire che la persona non sia travolta dalla disperazione: chi non ha nulla da perdere è una minaccia per chi abbia anche poco, ma davvero è così difficile da comprenderlo? Quelli invece che violassero i patti si trasformerebbero in full-irregular e tale condizione si tradurrebbe in reato, attraverso un rito processuale per direttissima, con relativa pena se ritenuti colpevoli, che eviterebbe l’abbandonarli per strada. Questo non significa che si aprirebbero le frontiere, che faremo festeggiamenti sui confini invitando gli stranieri irregolari a violarli, ma semplicemente che cercheremo di saper distinguere, pure perché non farlo sarebbe ancora di più pericoloso e distruttivo. Dare delle identità a chi oggi è invisibile renderebbe la vita delle nostre città e delle comunità che le vivano più sicure; oggi non siamo assolutamente in grado di farlo: basta uscire, soprattutto di notte, per rendercene conto…oggi sono le periferie, le zone scure delle nostre città, le piazze e i parchi abbandonati, a dircelo, ma domani, quando per il numero elevato di senza-nome le minacce toccheranno anche i quartieri bene, le città d’arte e di vacanza, i villaggi turistici, le cose e i luoghi che riteniamo più sicuri illudendoci, allora sarà troppo tardi… Nella visita effettuata al CPR dove conto di tornare periodicamente, abbiamo visto delle “bombe umane” , delle persone esagitate perché gli Stati ai quali affermavano di appartenere non le volevano, non le riconoscevano neanche come loro “sudditi”; e quando mai sarebbero stati perciò rimpatriati? alla scadenza massima della loro permanenza al centro, sarebbero stati rimessi fuori e lì si sarebbe incontrati semmai sotto le scuole dei nostri ragazzi, a spacciare droga, oppure impegnati in attività comunque illecite, d’altronde non esistono, non hanno identità anagrafica e fiscale, agli occhi delle nostre istituzioni sono di fatto invisibili… Ho detto le cose in modo approssimativo, ma sono cose che richiederebbero subito un certosino lavoro tra esperti …mi sa, però, che ai tempi dell’Antica Roma si fosse più moderni, o meglio più scaltri; basterebbe pensare a quanti status l’impero contemplava, ma li controllava tutti…c’erano gli schiavi (come oggi, nelle nostre campagne, lì dove imprese disoneste sfruttano il lavoro nero) che non avevano capacità giuridica, c’erano però anche “i liberi”, nati liberi o liberati dalla “schiavitù”, “i peregrini”, che erano gli stranieri del tempo, e poi i cittadini romani…tante arcate e un solo impero. Filippo Grandi: “Migranti, la situazione è critica. Il piano Mattei diventi europeo” di Paolo Valentino Corriere della Sera, 15 luglio 2025 La guida dell’Unhcr: i controlli attuali non bastano, serve un vero sistema di salvataggio continentale. “Sono stato a Lampedusa e sono rimasto bene impressionato dall’ottima gestione dell’hotspot, che ora è stato affidato dal governo alla Croce Rossa. E l’ho detto al ministro Piantedosi, auspicando che sia d’esempio per altri centri in Italia. Durante la visita ho anche ricordato che il meccanismo dei salvataggi in mare in parte funziona, ma pure che il numero dei morti resta drammatico: 500 nel 2025 su questa rotta, il che può essere ovviato solo da un vero sistema europeo di salvataggio, più robusto e coordinato”. Filippo Grandi è l’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati. A Roma per la Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, ha incontrato anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Cosa la preoccupa di più? “L’Europa giustamente investe a monte, sui controlli, ma questo da solo non stabilizzerà i flussi. Occorre invece affrontare i problemi a valle: accoglienza e integrazione. Bisogna anche investire nelle opportunità per queste persone, lungo le rotte. Tanti non andrebbero oltre, se nel cammino trovassero queste opportunità. Che poi è la vera intuizione del Piano Mattei proposto dal governo Meloni. Ma deve diventare un piano europeo, l’Italia da sola non può fare la differenza”. I numeri degli arrivi sulla rotta Mediterranea hanno ripreso a crescere... “Sì, ma per il momento siamo ancora a livelli non allarmanti. Il punto è che la situazione in Nord Africa è critica. La Libia è di nuovo più instabile, l’equilibrio fra le varie tribù e fazioni è fragile. Aumenta l’apprensione nostra e degli altri osservatori presenti. C’è un indurimento verso rifugiati e migranti, è più difficile avere accesso o toglierli dai centri di detenzione. L’esperienza ci dice che in momenti come questo il potere è più disgregato e le difficoltà crescono”. Ci sono altre situazioni difficili in Nord Africa? “Sicuramente la Tunisia, con cui pure in passato abbiamo collaborato bene anche quando è stata investita da flussi gravi. L’indurimento è ancora più forte che in Libia. Hanno paura di diventare un Paese di afflusso e quindi hanno stretto le viti. Non ci lasciano più registrare i richiedenti asilo. Abbiamo accesso irregolare alle persone bisognose di attenzione. Ci sono stati anche respingimenti verso Libia e Algeria. Difficile avallare la nozione della Tunisia come “Paese terzo sicuro”. La catastrofe umanitaria nel Sudan continua? “In Sudan c’è una guerra che non abbiamo saputo fermare e milioni di rifugiati in fuga. A Lampedusa ho incontrato alcuni ragazzi sudanesi, in particolare uno che mi ha raccontato la sua storia: studente a Karthoum, guerra, fuga verso Ovest in Ciad, dove l’assistenza sanitaria per un milione di profughi dal Sudan è decimata dai tagli agli aiuti umanitari da parte di Usa e altri Paesi europei. In questi casi, arriva subito il trafficante che offre loro di andare in Libia dove ci sono oggi 300 mila sudanesi”. Che messaggio viene dal punto di vista dei profughi dalla Conferenza sull’Ucraina? “Positivo. Ma il discorso sull’Ucraina è diventato così politico e militare che rischiamo di mettere in ombra la dimensione umana. I miei colleghi passano la maggior parte del tempo nei bunker e con loro gli ucraini, almeno quelli che dispongono di un rifugio. La nostra attività ha subìto meno impatto che altrove, perché i fondi europei restano sostanziali. Uno dei meriti della Conferenza è stato che si è discusso del ritorno dei rifugiati, o almeno di una parte di essi. Si è riconosciuto che senza ritorno la ricostruzione sarà difficile. L’Ucraina ha bisogno che i suoi 3,5 milioni di rifugiati interni e 4 milioni all’estero ritornino, ma occorre che la guerra finisca. Poi bisognerà organizzare bene il ritorno per assicurare un futuro al Paese. La protezione temporanea accordata in Europa difficilmente verrà prolungata oltre il 2027, quindi occorrerà saper gestire la transizione verso una situazione ibrida tra ritorni e diaspora, capace di sostenere anche la ricostruzione. Il governo di Kiev ha approvato una legge che consente la doppia nazionalità, mi sembra lungimirante”. 123 milioni di rifugiati nel mondo, il sistema scoppia. Bisognerebbe cambiarlo, come sostiene l’”Economist”? “Le fondamenta restano buone: ci sono persone che continuano a fuggire dalla guerra o dalle persecuzioni. I principi del 1951 sono validi ancora oggi. È il “come si fa” che dev’essere continuamente aggiornato. Su questo abbiamo lavorato molto. Poi c’è la questione fondamentale: chi si muove non sono più i dissidenti che nel 1951 fuggivano da Stalin. Oggi le persone si muovono a ondate e per una quantità di ragioni”. Ma è possibile mantenere la distinzione tra rifugiati e migranti economici? “È possibile farlo con i giusti sistemi. È vero che i migranti economici spesso abusano del sistema d’asilo. Ma se si vuole alleggerire la pressione su quest’ultimo, occorre lavorare su quello migratorio. Il decreto Flussi è una cosa positiva: stabilisce una quota migratoria annuale che consente alle persone di muoversi non attraverso i canali dell’asilo, ma quelli regolari. Certo, siamo ancora a cifre insufficienti. Questo aiuta a separare le due cose. Emma Bonino lo diceva sempre: il problema non sono i rifugiati, sono i migranti: da come gestiremo la migrazione economica dipende la possibilità di salvare il sistema del diritto d’asilo che è ancora necessario. Tutto questo implica però una direzione, che non è quella di ridurre gli aiuti internazionali, semmai di renderli più strategici. I tagli indiscriminati di questa fase non aiutano”. Disobbedienza civile contro il riarmo di Alex Zanotelli Il Manifesto, 15 luglio 2025 Un demone si aggira per l’Europa e per il mondo: il demone del riarmo. Per volontà della Commissione europea (senza passare per l’Europarlamento), la Ue ha deciso di investire 800 miliardi di euro in armi. Non solo, al vertice Nato dell’Aja a fine giugno, il segretario generale Rutte ha chiesto ai 27 paesi membri di passare dal 2% del pil al 5% per la difesa, entro il 2035. La Spagna di Sanchez ha subito annunciato che non poteva accettare quell’imposizione, mentre l’Italia di Meloni ha subito chinato il capo, come china il capo alle decisioni di Trump di inviare milioni in armi all’Ucraina che “pagheranno loro” (vale a dire noi) e il guadagno sarà un maxi dividendo in primis per l’America e poi per l’Europa. Intanto sborseremo col 5% del Pil ben 113 miliardi di euro all’anno in difesa. Siamo alla follia! Ha vinto il demone della guerra. Non solo, i ministri dell’economia Ue che compongono il Consiglio dei governatori della Banca europea, hanno deciso di stanziare per le armi una somma record, fino a 100 miliardi di euro per il 2025. A peggiorare il quadro, il Segretario della Nato Rutte ha anche chiesto di rafforzare del 400% la difesa aerea e missilistica contro la Russia, perché secondo lui ci sarà un attacco di Putin contro la Ue entro 5 anni. Infatti una Germania sempre più bellicosa sta gia arruolando 60.000 nuovi soldati e costruendo l’Eurodrome (pesa tonnellate), prodotto da Airbus. Per questi progetti la Germania ha già investito 7 miliardi di euro. Gli Usa stanno già costruendo il loro Goldendome, che prevede uno scudo missilistico orbitale. Il costo previsto si aggira attorno ai 175 miliardi di dollari. Questo potrebbe portare Cina e Russia a costruire arsenali ancora più sofisticati. È l’escalation mondiale al riarmo. Secondo i dati ufficiali del Consiglio Europeo, dal 2014 al 2024, le spese militari e quelle specifiche in armamenti nei paesi Ue sono aumentate rispettivamente dal 121% al 325%. È sempre più evidente che il complesso militar-industriale Ue sta determinando l’agenda ed i contenuti della politica estera dell’Unione europea. Ma quello che impressiona di più sono gli enormi investimenti nel nucleare. È la bomba atomica la più grave minaccia che pesa sulle nostre teste e sullo stesso pianeta Terra. Si tratta di circa 100.000 nuove bombe atomiche teleguidate presenti in 5 paesi della Nato: Belgio, Olanda, Germania, Italia e Turchia. Con grande coraggio negli anni 80 il noto arcivescovo di Seattle, R. Hunthousen, affermava: “Penso che l’insegnamento di Gesù ci chieda di rendere a Cesare, munito di armi nucleari, quello che si merita: il rifiuto delle imposte e di cominciare a dare solo a Dio quella fiducia completa che adesso riponiamo, tramite i dollari delle nostre imposte, in una forma demoniaca di potere. Alcuni chiamerebbero questa ‘disobbedienza civile’, io preferisco chiamarla ‘obbedienza a Dio’”. È quanto sosteneva anche un altro profeta di pace, il gesuita D. Berrigan, che ha animato il grande movimento Usa contro la guerra in Vietnam: “Gridiamo pace, urliamo pace, ma non c’è pace: Non c’è pace perché non ci sono costruttori di pace, perché fare pace costa altrettanto come fare guerra - almeno è altrettanto esigente, altrettanto dirompente ed altrettanto capace di produrre disonore, prigione e morte”. Berrigan si è fatto almeno 4 anni nelle prigioni americane. Anche il vescovo emerito di Caserta, R. Nogaro, che tanto si è impegnato per la pace, ha recentemente scritto un appello in cui afferma che “oggi è improrogabile manifestare per la pace a ogni costo, fino alla pratica inevitabile della disobbedienza civile”. Non lasciamo nel dimenticatoio le parole di papa Leone che denuncia il riarmo come “propaganda di guerra” e che ricorda come le popolazioni “non sanno” quanto quest’immenso investimento potrebbe essere utile ai servizi sociali. Il mio è un appello a tutto il vasto movimento italiano per la pace, perché possa ritrovarsi in assemblea e decidere insieme quale via e quali mezzi non violenti scegliere per ottenere pace in un momento così grave della storia umana. Non bastano più gli appelli e le manifestazioni, dobbiamo rispolverare tutte le obiezioni di coscienza per mettere in crisi questo sistema di morte che ci sta portando alla rovina. Tutti i costruttori di pace di ascoltino questi profeti di pace, in un momento così grave della storia umana. La palla è nelle nostre mani. In Italia custodite 35 bombe atomiche Usa, 80 volte più potenti di Hiroshima: ecco dove sono di Flavia Amabile La Stampa, 15 luglio 2025 Sono le testate B61-12 che fanno parte di un programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare Usa. Europa Verde: “Abitanti a rischio”. L’Italia ha un arsenale nucleare nascosto. Poco importa che non sia italiano, si trova comunque all’interno dei confini e rende il nostro il Paese dell’Ue con il maggior numero di ordigni nucleari Usa e l’unico a disporre di due basi operative nell’ambito della condivisione nucleare della alleanza. Un primato segreto, che nessuno conferma in modo ufficiale, ma che è certo. Secondo il rapporto Nuclear Weapons Ban Monitor 2024, presentato a marzo alla Conferenza degli Stati Parti del Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari, a New York, le testate si trovano nelle basi di Ghedi e Aviano. Ghedi si trova in Lombardia, a 25 chilometri da Brescia. Si estende per oltre 10 chilometri quadrati, è la sede del 6° Stormo, un reparto che ha il compito di intercettare e distruggere i caccia bombardieri nemici in territorio nazionale, e ospita 30 nuovi caccia F-35 in grado di trasportare armi nucleari. Non si tratta di una base Nato, ma tramite l’accordo sulla condivisione nucleare è usato anche come deposito di un arsenale di bombe atomiche americane, sotto il controllo all’esercito italiano. Anche Aviano è un aeroporto militare italiano, si trova in Friuli Venezia Giulia, circa 15 chilometri a nord di Pordenone. Dal 1955 è in vigore un accordo tra Stati Uniti e Italia per l’utilizzo congiunto della base, che è anche della Nato. Secondo quanto è riportato nel rapporto, ad Aviano sarebbero stoccate tra le 20 e le 30 testate e a Ghedi tra le 10 e le 15. Notizia mai confermata, ma mai nemmeno smentita. L’arrivo delle nuove testate era stato annunciato da tempo, come emerge dal rapporto. “Sono le testate B61-12 che fanno parte di un programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare Usa. - spiega Antonio Mazzeo, giornalista, esperto di questioni militari - Si tratta di testate nucleari che possono essere portate sui cacciabombardieri. Sono state rese regolabili, quindi possono avere una potenza distruttiva diversa in base all’uso e che può arrivare fino a una potenza quattro volte superiore a quella di Hiroshima. E possono colpire in netta profondità, sono state pensate per puntare contro depositi come quello di Fordow in Iran e, in generale, per un uso durante una guerra nucleare limitata senza che scoppi un conflitto totale”, prosegue Mazzeo. Le nuove testate nucleari sostituiscono le precedenti B61, che erano bombe a caduta libera, trasformandole in bombe intelligenti. Potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo ed essere più precise delle precedenti grazie ad un sistema di guida progettato da Boeing. Hanno una potenza regolabile che va dai 0,3 ai 50 chilotoni ma quando penetrano nel terreno ed esplodono arrivano a una potenza distruttiva di 1.250 chilotoni, circa 83 volte la bomba di Hiroshima. Le testate sono a Ghedi e Aviano “ma nessuno può escludere che anche altre basi presenti in Italia possano essere utilizzate come strutture di transito per testate nucleari”, conclude Mazzeo. “La situazione è di grande allarme”, avverte Devis Dori, deputato di Europa Verde che a giugno ha presentato un’interrogazione per denunciare i pericoli e le violazioni legate alla presenza di armi nucleari in Italia. Il 2 ottobre 2023, infatti, su iniziativa di molte realtà pacifiste e antimilitariste locali, è stata depositata alla procura della Repubblica del tribunale di Roma una denuncia per la violazione di norme internazionali e nazionali, come il Trattato di non proliferazione nucleare. Nell’interrogazione Devis Dori chiede “se il governo intenda avviare il processo di adesione dell’Italia al Trattato di proibizione delle armi nucleari (Tpnw), e comunque adottare le iniziative di competenza più adatte al fine della rimozione delle bombe termonucleari presenti nelle basi di Ghedi e Aviano”. L’onorevole Dori mette soprattutto in guardia dai rischi “sulla sicurezza della popolazione che vive intorno alle basi, soprattutto in caso di esplosioni accidentali, attacchi terroristici o bombardamenti” anche perché l’area di Ghedi è classificata “come zona sismica 2, dove possono verificarsi forti terremoti” e svela alcune misure preventive adottate dalla Regione Lombardia proprio per i rischi presenti sul suo territorio: la creazione di “30 microdepositi per lo stoccaggio di compresse di ioduro di potassio, utili per proteggere la tiroide dall’assorbimento di iodio radioattivo, ma inefficaci in caso di reazione nucleare incontrollata” e “un corso di formazione per operatori pubblici sulle procedure per le emergenze radiologiche e nucleari”. L’interrogazione finora non ha ricevuto alcuna risposta. Libia. “No all’estradizione”: così Tripoli salva Almasri ed evita figuracce a Meloni di Youssef Hassan Holgado e enrica riera Il Domani, 15 luglio 2025 Osama Njeem Almasri è stato scarcerato dalle autorità italiane nonostante il mandato di arresto della Corte penale internazionale. In un post su Facebook, poi cancellato, l’annuncio del ministero della Giustizia. “Non verrà consegnato alcun cittadino libico alla Corte penale dell’Aia”. In Libia gli eventi politici si susseguono a grande velocità. Gli scenari cambiano a seconda di alleanze, accordi e scontri tra milizie. E così se fino a qualche settimana fa il governo italiano rischiava di rimediare una figuraccia per il pasticcio causato con il caso Almasri, nel caso in cui fosse estradato dalla Libia, ora viene salvato dal governo alleato di Tripoli. A metà maggio, infatti, il governo di unità nazionale del premier Abdel Hamid Dbeibeh sembrava disposto a cooperare con la Corte penale internazionale, mettendo in imbarazzo l’esecutivo meloniano che lo aveva liberato e rimpatriato con tanto di volo di stato, dopo il suo arresto a Torino. All’epoca il procuratore capo della Corte dell’Aia aveva chiesto ufficialmente l’arresto dell’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli, accusato di crimini contro l’umanità, e di autorizzare la sua estradizione verso l’Olanda. Oggi, dopo giorni di tensione e cenni di guerra civile intorno alla capitale tra forze filo governative e milizie rivali, tra cui anche la Rada (di cui Almasri è uno dei vertici), lo scenario è cambiato. Se nei giorni scorsi Dbeibeh aveva fatto terra bruciata intorno all’ex generale che controlla l’aeroporto di Mitiga e aveva chiesto a 250 membri di gruppi nemici di consegnarsi alle autorità, domenica ha cambiato linea. Il ministero della Giustizia libico ha annunciato che non estraderà l’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli. Nella nota, il ministero ha specificato che non consegnerà alcun cittadino libico e ha sottolineato che il sistema giudiziario nazionale è l’unica autorità competente a gestire tali casi. L’annuncio è arrivato tramite la pagina Facebook del ministero, ma il post è stato poi rimosso. Nella sua dichiarazione, il dicastero ha anche rimarcato che “la Libia non è parte dello Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale e non è obbligata a consegnare i propri cittadini a tale corte”. Un clamoroso dietrofront dopo che il 15 maggio scorso il governo aveva affermato che “la Libia accetta la giurisdizione della corte sui presunti crimini commessi sul territorio libico”. L’esecutivo - Il governo italiano, messo sotto accusa dalla Cpi, aveva giustificato la mancata estradizione del torturatore con un mandato di arresto libico pervenuto il 12 novembre scorso. Da qui, quindi, il rimpatrio. Ma il mandato secondo il procuratore dell’Aia, Karim Khan, non è stato allegato. Ora il ministero libico ha detto che la Cpi non ha fornito “prove dei fatti” di cui Almasri è accusato, e di conseguenza sono state revocate le restrizioni procedurali nei suoi confronti. Dietro il rifiuto del ministero della Giustizia ci sono una serie di elementi che giocano in favore di Palazzo Chigi. Nel caso in cui dovesse essere consegnato Almasri, anche altri imputati dovrebbero essere estradati verso la Corte dell’Aia, creando un precedente pericoloso. Molti di loro, infatti, sono ai vertici delle milizie che si spartiscono equilibri e poterti intorno a Tripoli, consegnarli significa mettere in difficoltà Dbeibeh nella gestione dei rapporti interni. Ma ci sono altre due ipotesi dietro l’apparente dietrofront libico. Trattenere il generale affinché possa essere processato in Libia significa avere una pedina di scambio e di ricatto da utilizzare all’occorrenza nei confronti della temuta milizia Rada. Il gruppo si è rafforzato dopo che tra le sue fila sono confluiti parte degli uomini dello Stability support apparatus. L’altra ipotesi è quella che porta a un tentativo di distendere i rapporti con le milizie dopo le tensioni degli ultimi giorni. La decisione del ministero della Giustizia tripolino è stata presa. Ma la sua pubblicazione, poi cancellata, è diventata un mistero. Il ritiro del comunicato viene interpretato come un segnale di forte tensione interna all’interno del governo di unità nazionale. C’è chi sarebbe propenso a cooperare con la Corte penale internazionale per evitare ulteriori attriti con i governi europei. Il dietrofront su Almasri è arrivato nel giorno in cui Hanna Tetteh, a capo della Missione di sostegno delle Nazioni unite in Libia (Unsmil), ha avuto un incontro con il premier tripolino con l’obiettivo di evitare un’escalation militare nei pressi della capitale. Durante l’incontro Tetteh ha espresso soddisfazione per il rilascio di diverse persone detenute arbitrariamente negli ultimi giorni dalle autorità libiche. Nel frattempo sul caso Almasri è attesa la decisione del tribunale dei ministri, che ha in mano il fascicolo in cui sono indagati la premier Giorgia Meloni, il sottosegretario Mantovano e i ministri Nordio e Piantedosi. La loro avvocata, Giulia Bongiorno, ha ottenuto l’autorizzazione a visionare gli atti. Al contrario, al momento in cui si scrive, non lo è stato ancora il legale, Francesco Romeo, di una delle vittime del torturatore. Cosa accadrà? Si attendono risposte non solo da un punto di vista giudiziario, ma anche politico. Stati Uniti. Contro i migranti la strategia della paura di Silvia Giagnoni Il Manifesto, 15 luglio 2025 In Florida già 750 persone sarebbero detenute a Alligator Alcatraz. Cibo “pieno di larve”, non si può fare la doccia. Sequestrata la Bibbia a un prigioniero: “Non c’è diritto alla religione qui”. Sulla Tamiami Trail, la US41 che collega Tampa a Miami e che attraversa le Florida Everglades, campeggiano da qualche giorno ufficialissimi cartelli stradali verdi con su scritto Alligator Alcatraz come del resto all’entrata dell’omonimo centro di detenzione, dove hanno preso il posto (e soprattutto i riflettori) della vecchia insegna scolorita del Dade-Collier Training and Transition Airport. Davanti al cartello, si alternano coloro che protestano a quelli che sorridono grande mentre si fanno selfie. D’altra parte, sul sito del Partito repubblicano della Florida, già prima dell’inaugurazione alla presenza di Trump, erano in vendita t-shirt, cappellini e vario merchandising Alligator Alcatraz e lo stesso dipartmento della Homeland Security (Dhs) aveva postato foto generate con l’Ai di alligatori con i cappellini dell’Immigration \u0026 Customs Enforcement (Ice). L’obiettivo è spaventare. A due settimane dalla sua inaugurazione, il centro di detenzione “temporaneo” ospiterebbe, secondo una lista ottenuta dal Miami Herald, circa 750 immigrati, di cui solo un terzo con precedenti penali. Ospiterebbe, perché i nomi dei detenuti non sono ancora pubblici sul sito governativo ufficiale. Dall’Everglades Detention Center, come viene chiamato da chi critica struttura e denominazione, riportano condizioni “da animali”. I detenuti non possono farsi una doccia (perché di fatto l’acqua arriva con i camion), il cibo, servito una volta al giorno, è “pieno di larve”.Non hanno accesso alle medicine, né vengono fatti uscire, le zanzare sono “grandi come elefanti”. Ad un detenuto è stata sequestrata la Bibbia. “Non c’è diritto alla religione qui”, gli è stato detto. Sebbene sia Trump che Kristi Noem (Dhs) abbiano dichiarato che ai detenuti sarà assicurato un regolare processo, a diversi avvocati è stato impedito di parlare con i propri clienti. Dopo la visita inaugurale del presidente, una delegazione di legislatori democratici si è vista rifiutare accesso alla struttura, reputata “non sicura” (forse perché già allagata, come testimonia un video). Per loro, l’amministrazione DeSantis, negando che le condizioni siano quelle denunciate, ha organizzato il 12 luglio un tour della struttura, con divieto però di filmare e fare foto (la stampa non era ammessa). Restano poi ignoti i tempi di permanenza previsti per chi è detenuto. Trump ha infatti evitato la domanda a riguardo (una delle poche serie) rivoltagli durante la conferenza stampa. “Cercherò di passare più tempo possibile nella mia amata Florida”, ha risposto - tra l’altro, gli è appena stata dedicata una via a Palm Beach. La Florida di DeSantis sta cercando di fare del suo meglio per raggiungere gli obiettivi di deportazione di massa posti dal vicecapo di gabinetto, Stephen Miller, factotum delle politiche trumpiane sull’immigrazione. In tutte le 67 contee (solo Key West si è opposta di recente) sono attivi i 287(g) Program che consentono alle forze dell’ordine di agire come Ice. A Camp Landing, nei pressi di Jacksonville, centro di addestramento della Florida National Guard, DeSantis ha annunciato la costruzione di un’altra struttura che dovrebbe ospitare 2.000 detenuti. Al secondo posto dopo il Texas per numero di arresti (+219% rispetto a fine giugno 2024), il Sunshine State ha esordito in pompa magna ad aprile con la Operation Tidal Wave (nome preso a prestito da un grosso attacco di bombardieri Usa in Romania durante la Seconda guerra mondiale), arrestando in una settimana ben 1.110 immigrati. Ma con un’economia che si fonda su turismo e agricoltura, che a sua volta si basano sul lavoro dei migranti, cosa accadrà? Il Presidente rassicura agricoltori e albergatori che non perderanno forza lavoro, mentre Brooke Rollins (segretaria dell’Agricoltura) ribadisce che non ci sarà alcuna amnistia, che sono pronti a passare all’automazione con macchine operate al 100% da lavoratori statunitensi, non esimendosi da aggiungere che non sarà un problema trovarli “con 34 milioni di adulti abili che ricevono Medicaid”. In linea, insomma, con le battute macabre sul dare la gente in pasto agli alligatori, cifra caratterizzante l’Everglades Detention Center, che (si scopre) fanno parte dell’immaginario razzista dell’America: durante Jim Crow, i bambini afroamericani venivano raffigurati come esche per gli alligatori, che erano detti prediligere “la Negro meat”. Fino al 19 giugno, quando il procuratore generale della Florida James Uthmeier ha annunciato la costruzione di Alligator Alcatraz, la conservazione delle Everglades era un tema bipartisan. Lo stato e il governo federale hanno speso negli ultimi anni miliardi di dollari per il ripristino delle falde acquifere attraverso il Comprehensive Everglades Restoration Plan (Cerp). “Sarà pronto tra 30-60 giorni”, dice nel video Uthmeier, ma la struttura viene eretta in soli otto giorni dalla Slsco Ltd, un’impresa edile texana che ha costruito anche parti del muro di confine durante la prima amministrazione Trump, a quanto riporta Engineering News Record. Appoggiandosi alla legislazione di emergenza del gennaio 2023 per la cosiddetta “border crisis”, lo stato della Florida ha quindi confiscato il terreno al Miami-Dade County, contrario al progetto - e per questo, la Florida Immigrant Coalition (Flic) e altre 130 organizzazioni hanno chiesto alla sindaca del Miami-Dade County di far causa allo stato. Il terreno, scrivono nella lettera, ha un valore stimato di 195 milioni di dollari. La trovata macabra di Alligator Alcatraz è una strizzata d’occhio al Presidente e alla base Maga, ma anche un diversivo. Sì, perché Uthemeier, soltanto poche ore prima dell’annuncio, è stato dichiarato da un giudice federale “colpevole di oltraggio civile alla corte” per aver violato un’ordinanza che blocca la disposizione della legge statale che criminalizza l’ingresso in Florida di immigrati non autorizzati. A seguito della causa intentata da Friends of the Everglades e Center for Biological Diversity, il giudice federale potrebbe firmare a giorni un ordine restrittivo per la chiusura della struttura. Intanto, il governo federale sembra prendere (almeno legalmente) le distanze, dichiarando attraverso i propri avvocati di non aver “attuato, autorizzato, diretto o finanziato il centro di detenzione temporaneo della Florida”. Il carcere Alligator Alcatraz aiuta a capire gli Stati Uniti di Alessio Marchionna Internazionale, 15 luglio 2025 Il 1° luglio, pochi giorni prima che il maltempo e le alluvioni colpissero la zona centrale del Texas, causando più di cento morti, qualche centinaia di chilometri più a est una piccola tempesta è arrivata sulla Florida. Per la precisione sulle Everglades, la regione paludosa nella punta meridionale dello stato. È lì che le autorità statali hanno costruito in gran segreto e in tempi record (appena otto giorni) la prigione ribattezzata orgogliosamente Alligator Alcatraz, il nuovo fiore all’occhiello della campagna di espulsioni di migranti dell’amministrazione Trump. Quel giorno, nelle stesse ore in cui il presidente ha visitato ufficialmente il sito (ironizzando sul fatto che gli immigrati che cercheranno di evadere dovranno imparare a correre a zig zag per scappare dagli alligatori), è bastata un po’ di pioggia perché si allagassero alcuni ambienti della struttura. Il direttore della protezione civile dello stato, Kevin Guthrie, ha detto che la prigione, che entro luglio dovrebbe ospitare fino a cinquemila persone, “è progettata per resistere a venti di 110 miglia all’ora (180 chilometri orari)”. Poi ha aggiunto che il dipartimento ha un piano di evacuazione in caso di tempesta grave, ma non ha fornito dettagli. In realtà ci sono pochi dubbi sul fatto che una struttura del genere, realizzata con grandi tendoni sopra celle erette con recinzioni metalliche, docce e servizi igienici portatili, sia molto vulnerabile agli uragani che regolarmente si abbattono sulla regione in estate (senza contare il gran caldo e l’umidità che renderanno la prigione invivibile per i detenuti). Alligator Alcatraz è una sorta di concentrato di tutti i negazionismi di quest’amministrazione: della crisi climatica, dei diritti civili, del buonsenso. E mostra cosa sia concretamente il piano di espulsioni del presidente. Visitando la struttura, Trump ha affermato che presto ospiterà “alcuni dei migranti più minacciosi, alcune delle persone più feroci del pianeta”. I dati mostrano invece che nelle strutture dell’Immigration and customs enforcement (Ice, l’agenzia responsabile del controllo delle frontiere) è in netto aumento la quota di persone senza precedenti penali. Spiega Npr: “Almeno 56mila immigrati sono detenuti nei centri dell’Ice. Secondo il Deportation data project, un gruppo che raccoglie dati sull’immigrazione, circa la metà di quelle persone non ha precedenti penali”. Come avevo scritto qualche settimana fa, è la conseguenza inevitabile degli obiettivi fissati da Trump e dal suo consigliere Stephen Miller, che chiedono tremila arresti al giorno e un milione in un anno, cosa che ha fatto crescere le retate “a strascico”. Un modo per inquadrare la questione è che Trump e i repubblicani a livello statale stanno costruendo nuove prigioni per metterci dentro persone che sarebbero utili alla società e al mercato del lavoro, spendendo miliardi di soldi pubblici per combattere un’emergenza che non esiste. Il paradosso è che tutto questo succede proprio mentre la popolazione carceraria statunitense si riduce drasticamente. Dopo aver raggiunto un picco di poco più di 1,6 milioni di persone nel 2009, la popolazione carceraria è scesa a 1,2 milioni alla fine del 2023 (l’anno più recente per cui sono disponibili dati) e ci si aspetta continui a diminuire nei prossimi dieci anni. È un cambiamento enorme per un paese che da molti anni ha tassi di incarcerazione spropositati rispetto a tutti gli altri paesi sviluppati, al punto che oggi tendiamo ad associare automaticamente gli Stati Uniti all’incarcerazione di massa. Per capire i motivi del cambiamento bisogna andare indietro di qualche decennio. Per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale il tasso di incarcerazione degli statunitensi è rimasto sotto i 120 detenuti ogni centomila abitanti (più o meno in linea con quello di altri paesi ricchi). Ma a partire dalla fine degli anni sessanta gli Stati Uniti furono investiti da una lunga ondata di criminalità, causata soprattutto dall’aumento dei reati tra adolescenti e giovani adulti. Il governo, gli stati e le città risposero con leggi molto severe, facendo esplodere la popolazione carceraria. Nel 1985 il tasso di incarcerazione era quasi raddoppiato rispetto alla tendenza storica (200 detenuti su centomila abitanti). Nel decennio successivo il numero di persone in carcere aumentò in media dell’8 per cento all’anno, superando il milione nel 1994 e continuando a crescere fino al 2009. Quelle leggi non solo mandavano tante persone in carcere (spesso per reati non violenti) ma creavano anche un circolo vizioso che si è autoalimentato per decenni: siccome la maggior parte delle persone che uscivano di prigione tendevano a tornarci più volte, il sistema era continuamente rifornito di nuovi detenuti, anche molti anni dopo che l’ondata di criminalità era finita. Questo spiega perché il picco di incarcerazioni è arrivato nel 2009, diciotto anni dopo il picco del tasso di criminalità del 1991. Sull’Atlantic Keith Humphreys ha scritto che “il sistema carcerario statunitense è come un autotreno molto pesante: ci vuole tanto tempo per fermarlo anche dopo aver azionato i freni”. Durante la seconda metà dello scorso decennio gli effetti di quel lontano giro di vite si sono esauriti, e la popolazione carceraria ha cominciato a riflettere la situazione reale della società, in cui la criminalità continuava a diminuire. C’è stata una piccola, nuova inversione di tendenza durante e subito dopo la pandemia di covid, quando i reati nelle città sono aumentati per poi tornare a calare nel giro di poco, segno che la diminuzione era frutto di una dinamica consolidata. A beneficiarne sono stati soprattutto i giovani. Se nel 2007 il tasso di incarcerazione dei maschi di 18 e 19 anni era più di cinque volte superiore a quello dei maschi di più di 64 anni, oggi i ragazzi in quella fascia di età, in cui generalmente si tende a commettere più crimini, sono incarcerati a un tasso pari alla metà di quello degli adulti. Particolarmente evidente, e per molti inaspettata, è stata la trasformazione del sistema penale minorile. Dopo che inchieste giornalistiche e documentari hanno svelato abusi nei centri minorili e studi scientifici hanno dimostrato che anche brevi periodi in prigione peggiorano le prospettive di vita e aumentano il rischio di abbandono scolastico e recidiva, molte giurisdizioni hanno scelto programmi che puntavano alla prevenzione e al reinserimento invece che alla sola punizione. Dal 2000 al 2020 il numero di giovani incarcerati è crollato del 77 per cento. Alcuni stati hanno chiuso decine di istituti minorili e investito sulla collaborazione tra procure, forze di polizia e associazioni comunitarie nate per fare formazione e fornire supporto psicologico. Studi economici e sociologici hanno confermato che questi interventi non solo aiutano i giovani ma riducono anche i tassi di criminalità. Il caso di New York è emblematico: dopo la chiusura di 26 strutture minorili, la criminalità giovanile è calata dell’86 per cento. Non è difficile immaginare che grande differenza faccia per una società non avere milioni di giovani dietro le sbarre, ma i vantaggi di una popolazione carceraria più ridotta, spiega Humphreys, non si limitano alle persone che rischiano di finire in carcere e alle loro famiglie. “Le prigioni sottraggono risorse ad altre priorità politiche per le quali molti elettori vorrebbero che il governo spendesse di più. In tutti i cinquanta stati, il costo di un anno di detenzione supera di gran lunga il costo di un anno di scuola”. Cosa ancora più importante, i politici e l’opinione pubblica potrebbero essere costretti a mettere in discussione una serie di scelte fatte negli anni del giro di vite, per esempio abbandonando i piani per costruire nuove carceri. Non è un processo facile: si scontra con il potere dei sindacati che rappresentano chi lavora nelle prigioni statali e federali, con l’influenza delle aziende che controllano o gestiscono le strutture private e anche con l’opposizione di molte comunità, che negli anni hanno costruito le loro economie intorno al settore carcerario. Poi c’è appunto il nuovo approccio securitario di Trump e dei repubblicani a livello statale, che però difficilmente potrà invertire una tendenza che sembra consolidata. Colombia. Caso Paciolla: per il tribunale il caso è chiuso, ma le contraddizioni restano aperte di Francesca De Benedetti ed Enrica Riera Il Domani, 15 luglio 2025 Il 30 giugno è stata disposta l’archiviazione, eppure le stesse carte del tribunale di Roma mostrano che l’ipotesi del suicidio non torna. Oggi il corteo a Napoli. Mario Paciolla è stato ucciso due volte. La prima è il 15 luglio 2020, quando il cadavere del 33enne napoletano che operava nella missione di pace Onu in Colombia è stato ritrovato nel suo appartamento a San Vicente del Caguan, con l’apparenza di un corpo impiccato, tagli, sangue. La seconda è il 30 giugno 2025, quando con l’archiviazione dell’indagine per suicidio anche la possibilità di una verità giudiziaria è stata seppellita. Eppure già nelle carte del tribunale di Roma - quelle riguardanti il rigetto della prima richiesta di archiviazione dell’inchiesta per omicidio - emergono contraddizioni, incongruenze, lacune. Per dirne una: le analisi tossicologiche danno conto “di una positività alla lidocaina”. Si parla di concentrazione modesta, ma l’autopsia italiana avviene in condizioni difficili: il corpo arriva dalla Colombia già compromesso. “L’assunzione doveva risalire a circa una o due ore prima della morte”, scrivono da Roma. Il tribunale riconosce che le indagini non sciolgono “modo e ragione per le quali il Paciolla aveva assunto tale sostanza: non vi erano farmaci con quel principio attivo in casa, nessuna farmacia di San Vicente gliene aveva venduti, né medici prescritto”. Oltre alla lidocaina, il grande buco nero di questo caso è la candeggina, ovvero il repulisti operato sulla scena della morte. In riferimento a quel che è avvenuto in Colombia, i consulenti tecnici del pm confermano che “in fase di sopralluogo giudiziario, prima di inquinare irreversibilmente la scena, il medico legale e gli agenti di polizia scientifica avrebbero dovuto procedere a una descrizione e ricostruzione molto più accurata di luoghi e oggetti”. Una frase mette in allerta: “I rilievi sono stati effettuati dopo che l’appartamento era stato accuratamente pulito”. Le carte puntualizzano che dalle 14 del 17 luglio una addetta alle pulizie degli uffici dell’Onu di San Vicente, una guardia di sicurezza in servizio all’Onu e una terza donna “procedono con le pulizie secondo le indicazioni di Thompson”. Christian Thompson è la persona di cui Mario non si fidava e che temeva; è anche uno degli ultimi contatti telefonici di Paciolla prima di morire, lo contatta sostenendo di dover portarlo a Florencia per la partenza verso l’Italia. Qualche mese dopo la morte del 33enne, Thompson - a dispetto del suo modus operandi che sfida ogni regola del buon senso oltre che della procedura - è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu a Bogotà. “L’accesso da parte di Thompson era stato possibile grazie alla copia delle chiavi posseduta dal proprietario; la porta poteva essere aperta con le chiavi dall’esterno anche se nella toppa interna erano inserite le chiavi di Paciolla”. Come osservato dai pm, “accessi e accertamenti non sono stati caratterizzati da rigore, e colpisce che l’immobile, invece che sequestrato, sia stato messo a disposizione di proprietario e funzionari Onu, che sia stato pulito già il pomeriggio del 17 e che gli accertamenti tecnici tesi all’esaltazione e repertamento di tracce biologiche siano stati eseguiti solo la sera del 18 luglio, dopo che erano state effettuate le pulizie e che due funzionari della sicurezza Onu avevano comunicato che alcuni oggetti - compreso il mouse - che presentavano tracce di sangue erano stati salvati con acqua e sapone”. Oggetti rilevanti per la ricostruzione dei fatti sono scomparsi: dalle carte, il 18 luglio alle 14:30 (mezz’ora dopo l’inizio delle pulizie) un agente telefona a Thompson dicendo di aver bisogno di recuperare materassino e recipienti metallici (secondo le ricostruzioni utilizzati per la morte), “finiti in discarica”. In serata il magistrato ne dispone il recupero, la polizia giudiziaria va alla discarica “ma non riesce a individuarli e recuperarli”. Nell’ambito dell’inchiesta aperta dalla procura di Roma per omicidio contro ignoti, i pm hanno avanzato ben due richieste di archiviazione del caso, alle quali la famiglia si è opposta. Il 30 giugno la seconda delle richieste è stata accolta dai giudici: ritengono che non ci siano elementi tali da mettere in discussione quanto stabilito dalle autorità colombiane, cioè che Paciolla si sia suicidato. A cinque anni dalla morte, oggi a Napoli alle 18 da piazza Municipio parte un corteo per chiedere verità, giustizia e gridare che “noi non archiviamo”.