Troppi carcerati. A destra si muove l’idea della clemenza di Federica Olivo huffingtonpost.it, 14 luglio 2025 Dopo le parole di La Russa, FdI pensa a aumenti di sconto di pena per ridurre il sovraffollamento. Il silenzio di Meloni dà il via libera a un confronto parlamentare. Scurria, vicecapogruppo al Senato: “Cerchiamo una sintesi”. Forza Italia ci sta, la Lega no. La strada è impervia. Le parole sulle carceri del presidente del Senato Ignazio La Russa smuovono la maggioranza. Non tutta ma, a sorpresa, una parte ben consistente. E una nuova proposta di legge per affrontare il sovraffollamento potrebbe partire proprio da Palazzo Madama. Sotto la regia di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni si è sempre contraddistinto per la poca apertura a misure che potessero essere considerate alla stregua di “un regalo ai delinquenti”. Ed è anche per questo motivo se la proposta di legge che il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata speciale - uno sconto di pena di 75 giorni anziché di 45 ogni sei mesi per i detenuti che hanno una buona condotta - era stata insabbiata alla Camera più di un anno fa. Le parole della seconda carica dello Stato nonché fondatore di FdI hanno però iniziato a scuotere le coscienze dei patrioti. Sin dalla prima esternazione di La Russa a favore di provvedimenti che rendessero più dignitosa la permanenza in carcere, qualcuno dei meloniani aveva iniziato a drizzare le antenne. Se, però, fino a pochi giorni fa, si trattava di singole e timide voci, ora qualcosa è cambiato. Sabato il presidente del Senato, in un messaggio all’associazione Nessuno tocchi Caino, che stava svolgendo un’iniziativa con i parlamentari nel carcere romano di Rebibbia, è stato ancora più chiaro: “Resto convinto che ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare questa grave e perdurante problematica, debba essere presa in considerazione senza cadere nel pregiudizio politico o ideologico”, ha mandato a dire. Parole queste che, dato il peso di La Russa nelle istituzioni e nel partito, non potevano essere lasciate cadere. E allora nei prossimi giorni, forse già la prossima settimana, qualcosa al Senato potrebbe muoversi. Cosa? Ce lo spiega Marco Scurria, senatore e vice capogruppo di Fratelli d’Italia a Palazzo Madama: “Stiamo cercando di capire - dice - se si può fare una sintesi delle sensibilità differenti sul tema del carcere. L’obiettivo sarebbe arrivare a un testo condiviso che coniughi il nostro ‘no’ a ogni forma di indulto e amnistia alla necessità di affrontare il problema del sovraffollamento. Noi rivendichiamo l’aver introdotto nuovi reati, ma dobbiamo anche avere cura della gestione delle persone che entrano in carcere”. L’idea di partenza, per l’appunto, è la proposta di Giachetti: “Alla Camera si era fermata, è vero - ragiona Scurria - ma da noi le sensibilità oggi potrebbero essere diverse”. L’idea è di aggiungere al testo del parlamentare di Italia viva qualche correttivo. Alcune specifiche sulla buona condotta. Che, a ben vedere, non sarebbero neanche necessarie da un punto di vista tecnico. Lo sono, però, da un punto di vista comunicativo. Perché, ragiona ancora Scurria, “non possiamo farlo sembrare un indulto né una forma di scarcerazione senza criteri”. La sintesi, chiosa il vicepresidente dei senatori di FdI, “andrà trovata sedendosi intorno a un tavolo. Ed è importante che a procedere sia il Parlamento, non il governo, perché per arrivare a una proposta condivisa bisogna far confrontare diversi punti di vista”. Il tema è chi abbia voglia di sedersi a questo tavolo. Le sedie sono già tante. Perché le opposizioni, in linea di massima ci starebbero. Le uniche resistenze arrivano dal Movimento 5 stelle, che non avrebbe votato la legge Giachetti neanche alla Camera. E in maggioranza? Dentro Fratelli d’Italia, ci spiegano fonti ben informate, le sensibilità sono varie. Ma i possibilisti sono sempre di più. Al Senato sono tanti gli esponenti di FdI che sono disposti a ragionare sul punto. Dando seguito alla moral suasion di La Russa e facendosi forti anche del fatto che da Palazzo Chigi veti non ne sono arrivati. È ormai qualche settimana che la seconda carica dello Stato ha aperto un nuovo fronte nella sua parte politica. Una serie di interventi che seguono quelli, insistenti e ricorrenti, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È per lo meno improbabile che il presidente del Senato e la premier non si siano confrontati sul tema, anche alla luce del solidissimo rapporto tra i due che si è cementato negli anni. Il silenzio di Meloni viene così interpretato come un sostanziale via libera, per lo meno a che si apra un confronto in Parlamento. La fronda di chi non vorrebbe aprire spiragli sulla liberazione di detenuti (che comunque sono già a fine pena), ma vorrebbe insistere solo sul piano carceri - per costruire nuove patrie galere - tra i meloniani tuttavia esiste. Si colloca soprattutto sull’asse che va da Montecitorio al ministero della Giustizia, dove siede il sottosegretario Andrea Delmastro. Numericamente non è insignificante, ma è una fronda che i più ottimisti considerano scalfibile. Soprattutto dopo le parole così chiare di una figura dal peso di La Russa. Forza Italia, dal canto suo, al tavolo proposto sarebbe ben disposta a sedersi. Già l’anno scorso era arrivato, attraverso Pietro Pittalis, il sì dei forzisti alla proposta Giachetti, un attimo prima che fosse affossata dal resto della maggioranza. Nel partito fondato da Silvio Berlusconi la linea resta la stessa: “Sulle carceri qualcosa bisogna fare”. Secondo Tommaso Calderone, deputato di FI in commissione Giustizia, la liberazione anticipata speciale può essere una buona soluzione: “Chi sbaglia deve scontare la pena - dice ad HuffPost - ma non a 40 gradi in otto in una cella, Quella è tortura, è un patimento disumano”. Calderone che a titolo personale ritiene che un piccolo indulto non sarebbe sbagliato, ricorda che ci sarebbe anche un’altra strada per fare in modo che le carceri siano meno piene: rivedere la custodia cautelare. Ripensare, cioè, i criteri che portano in carcere anche persone che non hanno mai avuto una sentenza di condanna, ma che sono solo indagate. Sono circa 15mila. Una cifra quasi sovrapponibile a quella dei detenuti in sovrannumero nelle carceri. La capienza, secondo i dati del ministero della Giustizia, è di 51.300 posti, e i detenuti attualmente presenti 62.728: “Un quarto della popolazione detenuta è in custodia cautelare - chiosa Calderone - la metà di queste persone viene poi assolta. Se riformiamo la custodia cautelare abbiamo risolto il problema del sovraffollamento. Ho presentato circa un anno fa una proposta di legge che va in questo senso. Chiediamo, con tutto il partito, che sia calendarizzata”. Su questo dovrebbe esserci convergenza, perché è un’idea anche del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Il vero ostacolo al lodo-Scurria potrebbe essere la Lega. “Il patto che abbiamo stretto con gli italiani non prevede soluzioni clemenziali che potrebbero essere interpretate come provvedimenti ‘svuotacarceri’ a cui ci siamo sempre dichiarati contrari tra l’altro perchè andrebbero ad inficiare il concetto di rieducazione. Se prevalesse la percezione che la pena può essere blanda anche il percorso rieducativo potrebbe essere destinato al fallimento”, dice Jacopo Morrone, responsabile giustizia del Carroccio. “Oltretutto qualunque ipotesi di liberazione anticipata dei detenuti non servirebbe comunque a risolvere il sovraffollamento delle carceri che, al di là di strumentalizzazioni ideologiche, non può dirsi genericamente insostenibile. Siamo invece da sempre favorevoli all’incremento dell’edilizia carceraria che avrebbe effetti positivi sia sul benessere dei detenuti che sugli agenti della Polizia penitenziaria”. Arruolare il partito di Matteo Salvini in un percorso verso una legge che alleggerisca le carceri, insomma, sarà impresa molto dura. E il rischio è quello di aprire un’autostrada alla propaganda di dichiarazioni, post e meme della rodata macchina della “Bestia” salviniana, la famigerata macchina comunicativa di via Bellerio. Arrivare a un punto di caduta intorno al quale trovare l’assenso di tutte le forze di maggioranza sarà assai complicato. Ma, ribadiscono gli ottimisti di cui sopra, non impossibile. La Russa e il dovere. Perché con le carceri il buonismo non c’entra di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 14 luglio 2025 Il presidente del Senato rompe la smania di manette di destra e spiega che condizioni dignitose sono un diritto costituzionale dei detenuti, e un obbligo per la politica. Considerazioni sui limiti delle democrazie. All’incirca un mese fa, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, in un’intervista ad Alessandro De Angelis per La Stampa, ha suggerito più sconti di pena per affrontare il sovraffollamento delle carceri. Da allora, quando può, riassume la posizione istituzionale, che è propria del suo ruolo, e accantona quella di barricata, che è invece della sua indole. Ieri, con una lettera inviata a Rita Bernardini e agli altri di Nessuno tocchi Caino, nell’occasione di un incontro a Rebibbia, ha definito il carcere un “luogo di degrado e di emarginazione” e “la tutela della dignità (dei detenuti, ndr) un obbligo”. La presa di posizione di La Russa è importantissima non soltanto perché allenta la smania di manette dilagata a destra, ma perché lo fa affidandosi alla Costituzione. Ogni richiesta di intervento assonante con la clemenza, in realtà con la giustizia, viene infatti respinta con l’accusa di buonismo - uno dei tanti passe-partout buoni a liberarsi dell’incomodo di ragionare -, mentre La Russa ne fa giustamente una questione di obbligo, quello indicato con sferica precisione dal dettato costituzionale. Ovvero la detenzione deve essere dignitosa e tendere alla rieducazione del condannato. Deve: non è una facoltà dei buoni. Quella parola - obbligo - risuona particolarmente beffarda in una maggioranza di governo pomposamente legalitaria (dai 55 mila detenuti del 2022 si è passati a 62 mila di oggi), e che si sente in obbligo di infrangere le leggi della Repubblica pur di punire un po’ meglio e un po’ di più chi infrange le leggi della Repubblica. Sembra una filastrocca, è la nostra quotidianità. Al di là delle escursioni nel paradosso, le condizioni delle carceri italiani sono inaccettabili da decenni, e non solo per il sovraffollamento ma anche per la fatiscenza delle strutture, e interrogano la sinistra quando la destra, i governanti attuali quanto i precedenti, e con tutta evidenza una società intera incapace di comprendere che dalla qualità delle carceri - come è stato detto e ridetto - passa la qualità delle nazioni e in particolare delle democrazie. Passa il senso di libertà su cui abbiamo deciso di edificare le nostre comunità. Le quali sono nate in rigetto delle monarchie assolute, dominanti in Europa per secoli, e il cui potere era giustificato direttamente da Dio. Poi ai re abbiamo tagliato la testa - lo hanno fatto gli inglesi e i francesi - proprio per manifestare la loro essenza umana e non divina. Le democrazie nascono sull’assunto che il potere risiede non in un uomo che comanda ma in tutti gli uomini che decidono del loro destino per mezzo di governi eletti e parlamenti rappresentativi. E nessun potere assoluto può calare su un uomo: non è democratica la pena di morte, non è democratica la carcerazione irrimediabile (l’ergastolo), non sono democratiche le condizioni degradanti. Nessun uomo ha il potere di piegare un altro uomo oltre il necessario. Finché non lo capiremo, le nostre democrazie non potranno nemmeno essere delle ambizioni. Carceri, solo 250 magistrati sorveglianza per oltre 60mila detenuti di Luisa Cirillo lamagistratura.it, 14 luglio 2025 Anm: drammatica carenza organico, ok a proposta Giachetti ma servono correttivi. La necessità inderogabile dell’aumento degli organici dentro e fuori gli istituti, il bilancio negativo a un anno dal cosiddetto decreto Carcere sicuro, il drammatico sovraffollamento e le soluzioni che politica e Parlamento stanno discutendo. L’emergenza carceri è e resta all’ordine del giorno per la magistratura associata che nell’ultima riunione del Comitato direttivo centrale ha approvato tre documenti. Nel primo si mette in evidenza la drammatica carenza di organico rispetto agli uffici della magistratura di sorveglianza che - come si sottolinea nel documento - “ha il compito di vigilare sull’esecuzione della pena, garantendone la finalità rieducativa. La straordinaria importanza di questo compito appare tuttavia dimenticata se si guarda alle condizioni attuali in cui essa versa”. Uno sguardo ai numeri: i magistrati di sorveglianza sono appena 250, i detenuti oltre 62mila e di questi più di 46mila stanno espiando la pena. A questi ultimi vanno poi aggiunti coloro che espiano la pena mediante misure alternative e coloro che usufruiscono della sospensione. Se si considera anche il numero dell’esecuzione delle pene pecuniarie e di quelle sostitutive introdotte dalla riforma Cartabia la carenza dell’organico appare ancora più evidente, anche perché la magistratura di sorveglianza è rimasta fuori dalle misure di sostegno introdotte dal Pnrr. Con un risultato paradossale, messo a fuoco dal documento approvato dall’Anm: “mentre Tribunali e Corti di appello hanno visto aumentare la loro produttività, gli uffici di sorveglianza sono rimasti, ad organico pressoché invariato, ad eseguire un numero di sentenze sempre più elevato”. A questo quadro si aggiungono le carenze del personale amministrativo e le difficoltà nell’utilizzo dell’applicativo informatico. Di qui l’appello messo nero su bianco nel documento dell’Anm: “la situazione degli organici, resa esplicita dai numeri richiamati, è drammatica. Strutturale. È la stessa Costituzione nelle sue primarie fondamenta della dignità umana (da riconoscersi a chiunque) e della finalità di rieducazione della pena (da garantire a chi ha sbagliato e ha preso condanna definitiva) ad imporre un incremento degli organici dentro e fuori le carceri”. C’è poi il bilancio sul decreto Carcere sicuro, voluto dal governo che ha modificato la disciplina della liberazione anticipata. L’Anm sottolinea come a un anno dalla sua approvazione non ci sia traccia del regolamento che avrebbe dovuto darvi seguito e di nuovi percorsi in comunità, mentre la popolazione carceraria in un anno è aumentato di 1600 unità. “Mentre - si osserva nel documento - il ministro della Giustizia e il governo, indifferenti di fronte alla grave e sistematica violazione dei diritti umani che si sta consumando nelle nostre carceri, rispondono alla sofferenza ed al disagio delle persone detenute prevedendo per esse nuovi reati, nuove aggravanti e maggiori pene, piuttosto che con misure concrete volte a sfollare il carcere e assicurare un trattamento penitenziario conforme a Costituzione”. Sulla proposta Giachetti che secondo l’Anm “individua alcune soluzioni efficaci e praticabili in grado di dare immediato sollievo alla drammatica situazione in cui versano le nostre carceri” la stessa Associazione individua alcuni profili critici che “renderebbero indispensabili interventi correttivi”. Tra i punti da rivedere si segnala in particolare la possibilità che la proposta prevede di assegnare al direttore dell’istituto penitenziario la competenza ordinaria ad attribuire gli sconti di pena. Ma come si legge nel documento Anm “tutte le formule utilizzate nel testo proposto sottendono vagli e giudizi discrezionali in grado d’incidere direttamente sulla misura della pena e che perciò vertono sulla materia della libertà personale. Ed allora simili compiti non possono essere che attribuiti alla magistratura di sorveglianza, nel rispetto della riserva di giurisdizione”. Nelle ultime settimane per rilanciare la proposta Giachetti è partita una staffetta di sciopero della fame promossa dall’avvocata Valentina Alberta, ex presidente della Camera penale di Milano, e da Stefano Celli, vicesegretario dell’Anm. Hanno aderito tra gli altri l’ex presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. Il segretario generale dell’Associazione Rocco Maruotti parteciperà il 17 luglio, mentre il presidente Cesare Parodi fa un’altra proposta: “per me sarebbe efficace lanciare in tempi rapidi una raccolta di firme dei magistrati, degli avvocati e dei cittadini da porre sul tavolo del governo in tempi brevissimi”. Solo pochi giorni fa, il 30 giugno, sulla difficile situazione in cui versano gli istituti penitenziari del Paese è tornato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella con un appello a fermare quella che è “una vera e propria emergenza sociale”. Niente libri in cella per Alfredo Cospito: ma il carcere non serviva a rieducare i detenuti? di Leonardo Caffo mowmag.com, 14 luglio 2025 È il 41-bis o Arancia Meccanica? Ad Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto a regime di 41-bis, sono stati negati i libri che aveva legittimamente richiesto. Ma il carcere serve per rieducare. Come si può, dunque, vietare a un uomo di leggere in cella? Sembra Arancia Meccanica ma è la realtà. E se anche questo diritto viene meno, allora lo Stato ha fallito del tutto. Le notizie che giungono dal sistema carcerario italiano, specie quando toccano le corde sensibili dei diritti fondamentali, faticano a non farci un certo ribrezzo: è davvero questo il paese di Cesare Beccaria? L’ultimo episodio che ha coinvolto Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto sotto il regime del 41-bis, è di quelli che sembrano provenire direttamente dalla cura Ludovico, o almeno, che ci interrogano profondamente sulla direzione che sta prendendo il nostro Stato. Negare a un uomo, per quanto controverso possa essere il suo profilo e le sue azioni passate, i libri che aveva regolarmente richiesto, non è solo una punizione; è un’aberrazione, un’ulteriore conferma di come la logica retributiva abbia ormai soppiantato ogni principio di civiltà giuridica e umana. Non è un caso isolato, certo, ma in questo specifico frangente la gravità è amplificata dal contesto. Il 41-bis, nato per contrastare la criminalità organizzata e impedire i contatti tra detenuti e il mondo esterno, si trasforma qui in uno strumento di annientamento della persona, persino nella sua dimensione più intima e intellettuale. Si nega la possibilità di leggere, di studiare, di accedere a quel patrimonio di idee che, per quanto scomode o critiche possano essere, costituiscono il nutrimento irrinunciabile per la mente umana. Si riduce l’individuo a un corpo da controllare, un’anima da spegnere, dimenticando che anche in un regime di alta sicurezza, il principio di rieducazione dovrebbe rimanere il faro. Eppure, la Costituzione italiana parla chiaro. L’articolo 27 recita che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Cosa c’è di rieducativo nel negare l’accesso alla cultura? Nulla. C’è solo l’intento di fiaccare, di umiliare, di ridurre al silenzio. È un segnale pericolosissimo, che va ben oltre il singolo caso Cospito. È il sintomo di una patologia più ampia che affligge il nostro sistema carcerario, da troppo tempo ignorato o affrontato solo con palliativi. Le parole del Presidente Mattarella sull’urgenza di intervenire sulla situazione carceraria, i continui suicidi dietro le sbarre, le condizioni pietose di sovraffollamento, la lentezza esasperante nell’approvazione di indulti o di regimi alternativi alla detenzione: tutto questo dipinge un quadro desolante. Non possiamo più permetterci di rimanere indifferenti. La società civile ha il dovere di interrogarsi, di alzare la voce, di chiedere un cambio di passo. Negare i libri a un detenuto non è solo una crudeltà fine a se stessa; è un atto che mina le fondamenta di una società che si professa democratica e rispettosa dei diritti umani. Significa abdicare all’idea stessa di recupero, di reinserimento, persino in casi limite. Significa accettare che la pena sia solo vendetta, e non anche strumento per la costruzione di un futuro, per quanto difficile e controverso. Non è questione di simpatia o meno per la figura di Alfredo Cospito. È una questione di principio, di dignità umana. Se lo Stato, nel suo intento punitivo, arriva a calpestare la libertà di leggere, la libertà di pensare, allora è lo Stato stesso che fallisce nel suo compito più alto: quello di essere garante dei diritti, anche e soprattutto in contesti di privazione della libertà. È tempo che i cittadini si mobilitino. È tempo di esigere che il carcere torni a essere un luogo di pena, sì, ma anche di possibilità, di riscatto, di umana considerazione. Perché se neghiamo anche i libri, abbiamo davvero negato tutto. Obiettivi Pnrr a rischio. Al Ministero della Giustizia serve l’aiuto degli odiati magistrati di Giulia Merlo Il Domani, 14 luglio 2025 La riduzione del disposition time civile è lontana dai risultati richiesti. Segnali distensivi tra il Csm e Via Arenula per evitare la revoca dei fondi Ue. Non c’è solo il caso Almasri ad allarmare il ministro della Giustizia Carlo Nordio e tutti i suoi diretti collaboratori, a partire dalla capo di Gabinetto Giusi Bartolozzi. Nonostante i molti proclami, la giustizia civile annaspa e gli obiettivi da raggiungere per confermare le rate del Pnrr sono ancora lontanissimi: quasi irraggiungibili, col rischio “concreto”, viene spiegato da una fonte ministeriale, che l’intero Piano nazionale di ripresa e resilienza possa saltare. Tanto che l’ultima spiaggia per il ministero rischia di essere quella di accettare l’aiuto proprio a quella magistratura che, con la riforma della giustizia, è stata fino ad oggi invece la principale avversaria. Il contratto con l’Unione europea, infatti, prevede che tutti gli obiettivi Pnrr (e l’ammodernamento della giustizia è uno dei tre pilastri) debbano essere raggiunti entro giugno 2026, altrimenti i denari - la cifra monstre di 222 miliardi - vanno restituiti. Se gli obiettivi relativi al settore penale all’arretrato civile potranno essere raggiunti, è difficile che ciò avvenga anche per il terzo obiettivo, ovvero la riduzione del disposition time civile (il dato che misura il tempo medio prevedibile di definizione dei procedimenti). Dal monitoraggio statistico degli indicatori Pnrr del ministero della Giustizia 2024, infatti, emerge che il disposition time civile è in calo del 20,1 per cento, ma in rallentamento rispetto agli anni precedenti e tra un anno e mezzo è necessario arrivare al 40 per cento. In sordina, il ministero ha tentato la mossa del cavallo per tentare di migliorare il dato: il trucco era quello di togliere i processi dai tribunali con l’aumento delle competenze sia per valore (fino a 50 mila euro per i sinistri stradali) che per materia (tutto il contenzioso in materia condominiale) ai giudici di pace, i cui risultati non fanno statistica per gli obiettivi del Pnrr. Questa riforma avrebbe fatto sparire dalle tabelle da consegnare in Ue una buona mole di contenzioso e potenzialmente aiutato a raggiungere il risultato del disposition time. Tuttavia il ministero è stato obbligato a posticipare la sua entrata in vigore prevista per il 31 ottobre 2025, al 30 giugno 2026 (ovvero la data entro cui i risultati del Pnrr dovranno essere raggiunti). Gli uffici dei giudici di pace sono a corto di personale e di mezzi, oltre che indietro a livello tecnologico, e una riforma del genere sarebbe stata una bomba per il sistema giustizia, come hanno fatto notare sia l’avvocatura che la magistratura. Saltata questa ipotesi, al ministero sono settimane di riunioni molto tese per trovare una nuova soluzione in extremis, che però all’orizzonte non si vede. L’ipotesi ora al vaglio è quella di “ampliare ad altre materie la mediazione obbligatoria”, viene spiegato da una fonte ministeriale: in questo modo, infatti, ci sarebbe un blocco di ingressi di nuovi procedimenti che, prima di venire iscritti a ruolo (e quindi conteggiati) dovrebbero prima passare per il tentativo di mediazione. Un palliativo e poco più, però. L’aiuto del Csm - Per prospettare soluzioni per scongiurare il peggio, invece, si sta muovendo proprio l’organo che la riforma Nordio vuole rivoluzionare. Il Csm, infatti, si è mosso con una approfondita proposta di delibera, che verrà votata dal plenum il 16 luglio e contiene sia interventi strutturali - che riguardano soprattutto il settore immigrazione e quello tributario - che misure emergenziali. In particolare una, da concentrare nelle sedi con il disposition time peggiore: richiamare temporaneamente in servizio i magistrati andati in pensione e far lavorare lì da remoto i giudici che sono in servizio in uffici senza criticità, cui aggiungere i magistrati degli uffici del Massimario della Cassazione e gli onorari già impegnati come giudici di pace e tirocinanti. Per un totale di un esercito temporaneo di 1500 toghe da armare per raggiungere i target europei e non perdere i fondi. La delibera, una volta approvata, verrà presentata al ministero. Una mano tesa dalle toghe al governo proprio nel momento dello scontro più aspro, con il Senato pronto ad approvare la riforma della separazione delle carriere. Un incontro con via Arenula è già stato fissato per il 21 di luglio, per discutere e trovare soluzioni rapide e utili a scongiurare il peggio. Starà poi al ministero della Giustizia l’ultima parola: politicamente non sarà agevole accettare il salvagente proposto dalla categoria contro la quale il centrodestra più si sta mobilitando. Un contrappasso evidente, dopo le molte critiche riversate sia sull’organo di governo autonomo della magistratura che della categoria. Tuttavia, segnali distensivi arrivano proprio dalle toghe: il fallimento pressoché certo del terzo obiettivo del Pnrr è un rischio che il paese non può correre e, per scongiurarlo, bisogna sotterrare l’ascia di guerra. Nordio blindato anche dal “Birritteri 2”: ecco cosa dice la mail della discordia di Errico Novi Il Dubbio, 14 luglio 2025 Ieri “Corriere” e “Repubblica” hanno pubblicato altri stralci della mail, riportata venerdì sul “Dubbio”, che era stata trasmessa dall’allora dirigente di via Arenula al capo di Gabinetto di Nordio, Bartolozzi: ma sono passaggi che scagionano il guardasigilli esattamente come le frasi iniziali. E a proposito di Signal: lo usa gran parte dei magistrati italiani, inclusi coloro che dalla toga sono passati al Parlamento. Continua inesorabile lo screening mediatico dell’indagine su Carlo Nordio. E si arricchisce, se così si può dire, di ulteriori bizzarrie. È stato reso noto ieri, dal Corriere della Sera e da Repubblica, un ulteriore stralcio della mail-clou attorno a cui ruotano le accuse rivolte al guardasigilli, sul caso Almasri, da alcuni giornali e dalle opposizioni: si tratta della mail inviata alle 14.35 da un dirigente di via Arenula, l’allora capo dipartimento degli Affari di giustizia Luigi Birritteri, a un’altra magistrata in servizio al ministero, Maria Emanuela Guerra, responsabile della direzione Affari esteri e, per conoscenza, anche a Giusi Bartolozzi, capo di Gabinetto del guardasigilli. È un documento (che ha per oggetto “Arresto cittadino libico in Torino su mandato della CPI”) del quale il Dubbio ha anticipato il contenuto venerdì scorso. In particolare Corriere e Repubblica riportano la seconda parte della mail, in cui Birritteri specifica: “Insieme a Margherita (la citata Guerra, ndr) legge in copia il capo di gabinetto sia per doverosa informazione sia perché eventuali necessità di adozione di provvedimenti urgenti nella specifica materia ci vedono privi di delega come già da me evidenziato anche al capo Gab in precedenti comunicazioni inerenti i mandati di arresto spiccati dalla Cpi a carico di alcune autorità della Federazione Russa”. Qui Birritteri è molto chiaro nel definire “eventuali” i provvedimenti che il ministro potrebbe dover adottare. Quindi certifica, esattamente come nella prima parte della mail, che sul guardasigilli non incombe, al momento né l’onere né la possibilità giuridica di autorizzare alcuna consegna di Almasri alla Corte dell’Aia. E anzi, prima dell’autorizzazione alla consegna firmata da Nordio, servirebbe l’accertamento dell’identità del militare libico: lo prevede la legge che coordina lo statuto istitutivo della Cpi con il diritto italiano, la 237 del 2012. Ma non risulta che quell’identificazione sia mai stata compiuta. Non c’era insomma per Nordio alcuna necessità di “innescare” i propri uffici affinché preparassero l’atto, anche considerato che per decidere sulla “consegna”, e non sull’arresto già avvenuto (come insiste nel ricordare, da settimane, il Giornale) il ministro della Giustizia avrebbe avuto qualcosa come 20 giorni a disposizione (lo dice sempre la legge 237 del 2012, all’articolo 13). Lo stralcio della mail di Birritteri riportato ieri da Corriere e Repubblica non smentisce affatto, in ogni caso, la prima parte della mail, in cui il capo del “Dag” riconosce “l’irritualità della procedura che sinora non vede coinvolto il ministero della giustizia come autorità centrale competente”. Ancora: la seconda parte della mail in cui Birritteri evoca “eventuali necessità di adozione di provvedimenti urgenti” (da parte del guardasigilli) è del tutto coerente con l’altra frase chiave contenuta nella prima parte della mail: “Domani faremo le nostre valutazioni sulla base della documentazione che ci verrà eventualmente trasmessa”. Il che, come già scritto su queste pagine, certifica in modo granitico come Nordio non avrebbe potuto produrre alcun atto sulla base della semplice informativa sommaria pervenuta, nella mattinata di domenica 19 gennaio, dal magistrato italiano distaccato all’Aia, Alessandro Sutera Sardo. Esattamente quanto il guardasigilli ha dichiarato alla Camera il 5 febbraio. Quella frase di Birritteri è decisiva: “Domani faremo le nostre valutazioni sulla base della documentazione che ci verrà eventualmente trasmessa”. Ieri però Repubblica ha accorciato l’inciso al punto da modificarne il significato: ha tralasciato le parole “che ci verrà eventualmente”. La versione citata da Repubblica suona dunque così: “Domani faremo le nostre valutazioni sulla base della documentazione trasmessa”. Ne deriva un equivoco in base al quale il lettore potrebbe ritenere che “la documentazione” sia stata già “trasmessa”. Non è così, evidentemente. Quando parla di documentazione ancora non pervenuta, Birritteri si riferisce al mandato d’arresto vero e proprio, definito sulla base delle accuse mosse ad Almasri dalla Corte penale internazionale. Si tratta dell’unico documento che può mettere Nordio nelle condizioni giuridiche di autorizzare la consegna del libico ai giudici dell’Aia. Ed è, ancora una volta, esattamente quanto Nordio ha detto a Montecitorio. Corriere e Repubblica citano un ulteriore stralcio della mail inviata da Birritteri a Guerra e, per conoscenza, a Bartolozzi: “Potrebbe, dunque, emergere la necessità di atti urgenti a firma dell’On, Ministro”. Certo: potrebbe. Condizionale scelto non a caso. La necessità di atti urgenti a firma Nordio potrà emergere, intende Birritteri, solo qualora il giorno dopo, lunedì 20 gennaio, fosse arrivato il carteggio completo. C’è semplicemente di prevedere passaggi formali veloci, ma sempre e solo per il giorno successivo. Birritteri d’altronde è responsabile di un dipartimento che comprende anche la direzione guidata da Guerra, e si preoccupa, dunque, di fare in modo che, al momento necessario, la propria collega sia nelle migliori condizioni per predisporre l’atto da sottoporre alla firma di Nordio. Ma l’eventualità potrà presentarsi sempre e solo il giorno dopo. Signal non è una sim da narcos colombiani: la usano molti magistrati - Ultimo dettaglio: Signal. Nella mail di replica, alle 15.28, la Capo di Gabinetto Bartolozzi scrive testualmente a Birriteri: “Ero stata informata”, come Nordio, d’altronde, che ha letto a sua volta l’informativa, sommaria e insufficiente, arrivata dall’Aia, “massimo riserbo e cautela anche nel passaggio delle info. Meglio chat su Signal. Niente per mail o protocollo”, accessibile persino al personale di segreteria, tanto per capirci, “ma solo per posta riservata anche interna”. Si tratta di scelte in cui il governo chiamerà in causa la sicurezza nazionale. Come confermato dal Tribunale dei ministri, nel fascicolo dell’indagine prossima a chiudersi ci sono anche documenti dell’Aise, cioè dei Servizi, classificati e coperti da segreto. Se Bartolozzi non avesse esortato al riserbo, sarebbe stato grave. Eppure, chi ha trasferito le notizie ai giornali evidentemente ha rappresentato l’invito a comunicare “via Signal” come il passaggio dalle mail @giustizia.it a una sorta di sim da narcotrafficanti colombiani. Niente narcos: su Signal ci sono anche molti magistrati, anche tra diversi tra i capi delle Procure più importanti. Ci sono persino magistrati che, anche di recente, si sono congedati dalla toga e sono finiti in Parlamento. Basta chiedere, o verificare di persona. Serracchiani: “Nordio lasci, sarebbe un gesto di dignità” di Conchita Sannino La Repubblica, 14 luglio 2025 Intervista alla responsabile giustizia del Pd: “Il ministro usa l’arroganza per uscire dagli imbarazzi. Ormai a via Arenula dettano legge altri. “Dopo gli ultimi imbarazzanti dettagli, la copertura di Palazzo Chigi è ormai così evidente da spingere Meloni a un ingiustificabile silenzio”. Per Debora Serracchiani, responsabile giustizia del Pd, ecco ciò che raccontano le nuove indiscrezioni sul caso Almasri. Il ministro sapeva? O ha coperto una linea decisa altrove? “L’una o l’altra opzione non cambia la gravità di quanto emerge. Non si violano obblighi internazionali, non si usa l’aereo di Stato per riportare un criminale a casa in Libia, senza che Palazzo Chigi lo autorizzi. E dimettersi, per Nordio, sarebbe atto di dignità”. Ma Nordio in Senato ha già risposto “balle”... “Il ministro utilizza l’arroganza , oltre che molte citazioni, ogni volta che deve uscire dagli imbarazzi per la gestione di un ministero in cui non conta più nulla. Sono altri che dettano legge a via Arenula”. Lo scambio di mail rivela il peso assunto dal capo di gabinetto, Bartolozzi? “Leggo retroscena preoccupanti, ma ascolto anche voci a disagio per il ruolo centrale di Bartolozzi, in un ministero allo sbando. Ma se lo staff non informa il ministro, o peggio, decide al suo posto, il problema è anche più serio di una capo di gabinetto che non sta al suo posto”. La premier non reagirà? “È la stessa premier che difende a spada tratta indagati e imputati del suo governo...” Sindrome Santanché? “Sindrome Delmastro, o Santanché, o Nordio. È la premier che blinda un sottosegretario condannato per rivelazione di segreto d’ufficio che ha messo in pericolo prevenzione e repressione della criminalità; che non si preoccupa della violazione degli impegni internazionali assunti dal Paese; che attacca frontalmente la magistratura se non applica le leggi come lei gradisce. E che non fa nulla di fronte a una ministra rinviata a giudizio. E potremmo continuare”. La separazione delle carriere, a giorni, avrà il sì del Senato: come pensate di coinvolgere i cittadini nella consapevolezza dei rischi? “Spiegando che la destra parte da qui per smantellare una Costituzione che non ha scritto e che non ha mai sentito propria. Una riforma pericolosa nel metodo, perché il Parlamento non ha potuto modificare alcunché in prima lettura; e nel merito, perché separa le magistrature, con l’obiettivo di indebolire i magistrati” Sulle carceri, la destra è divisa. Nordio chiude, ma La Russa e Pinelli, vicepresidente del Csm, spingono per un’azione immediata... “Un ministro che afferma che la liberazione anticipata è un’istigazione a delinquere non sa di cosa parla. D’altra parte, dopo decine di nuovi reati, inasprimenti di pena e nessuna misura a tutela della dignità delle persone, è chiaro a tutti che il ministro che parlava di depenalizzazione e garanzie è ormai l’alfiere di una nuova stagione. Quella del sadismo penale”. Non opera retroattivamente il differimento facoltativo della pena per le donne incinte e madri di figli minori di 1 anno di Claudia Pecorella valerioonida.org, 14 luglio 2025 Previsto nel c.d. Decreto Sicurezza (d.l. 11 aprile 2025, n. 48). Con un provvedimento del 3 giugno 2025, il Magistrato di Sorveglianza di Bologna ha concesso la proroga del differimento obbligatorio della pena a una donna divenuta madre durante il tempo in cui già godeva del rinvio della esecuzione della pena in quanto donna incinta (art. 146 c.p.). A questa conclusione il Magistrato è pervenuto prescindendo dalla modifica che il c.d. Decreto Sicurezza ha apportato alla disciplina di questi casi, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale che, con la sentenza 32/2020, ha dichiarato illegittima, per contrasto con l’art. 25 comma 23 Cost., l’applicazione retroattiva di disposizioni che hanno “un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale” in senso peggiorativo rispetto al quadro normativo vigente al momento del reato. Il d.l. 48/2025, nell’abrogare la parte dell’art. 146 c.p. relativa alle donne incinte e madri di figli minori di 1 anno e nel sottoporre anche questi casi alla disciplina del differimento meramente facoltativo della pena previsto fino ai 3 anni di età dei figli dall’art. 147 c.p., ha infatti modificato “sensibilmente la disciplina in ordine al rapporto tra maternità ed esecuzione penale in termini certamente peggiorativi”. Scambi di cibo tra detenuti al 41 bis, bisogna fare richiesta il giorno prima di Silvana Cortignani tusciaweb.eu, 14 luglio 2025 Scambi di cibo tra detenuti in regime di carcere duro, a Mammagialla bisogna fare richiesta il giorno prima. È stato bocciato dalla cassazione il ricorso del boss catanese 49enne Ciccio Napoli del clan Santapaola, al secolo Francesco Tancredi Maria, detenuto dal 2023 al 41 bis al Nicandro Izzo di Viterbo. Per la cronaca, è lo stesso cui di recente la suprema corte ha consentito di suonare in cella la pianola. La suprema corte ha confermato l’ordinanza con cui, lo scorso 13 marzo, il tribunale di sorveglianza di Roma ha accolto il reclamo proposto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) avverso il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza di Viterbo in data 25 maggio 2023, con il quale - a seguito del reclamo del detenuto - era stato annullato l’ordine di servizio emesso dalla direzione della casa circondariale di Viterbo il 25 febbraio 2021, nella parte in cui esso subordinava l’autorizzazione immediata allo scambio di generi alimentari (tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità) alla ricorrenza del requisito della eccezionalità. Il tribunale di sorveglianza, cui gli ermellini hanno dato ragione, ha ritenuto in sostanza che la limitazione temporale (consistente nella necessità per il detenuto di presentare domanda per lo scambio entro il giorno precedente) imposta con l’ordine di servizio non fosse arbitraria e neppure pregiudizievole, poiché essa non nega e non rende concretamente inattuabile l’esercizio del diritto in questione, limitandosi solo a regolarlo mediante la previsione della presentazione di apposita domanda - da parte del detenuto - il giorno prima, mediante l’annotazione in un apposito registro di chi siano i soggetti che chiedono di scambiare o di ricevere i beni. “Resta consentito all’amministrazione penitenziaria - si legge nelle motivazioni della sentenza - di disciplinare le modalità di effettuazione degli scambi in esame, nonché di predeterminare le condizioni per introdurre eventuali limitazioni, che devono comunque risultare giustificate da precise esigenze, da motivare espressamente e che devono ritenersi sindacabili, in relazione al caso concreto, dal magistrato di sorveglianza”. “Orbene - concludono i giudici supremi - l’ordinanza impugnata risulta rispettosa di quanto statuito dalla corte costituzionale poiché, con motivazione adeguata ed esente da vizi di carattere logico, ha ritenuto legittima la regolamentazione degli scambi (che vengono, comunque, garantiti al detenuto), mediante la domanda da presentare il giorno precedente, al fine di consentire all’amministrazione di effettuare i necessari controlli (legati alle esigenze di sicurezza), ma senza in alcun modo precludere (o rendere particolarmente difficile) lo scambio dei generi alimentari di modico valore tra gli appartenenti allo stesso gruppo di socialità”. “In tal modo - viene sottolineato - è infatti possibile accertare se lo scambio riguardi effettivamente beni consentiti senza intaccare il diritto del detenuto, tenuto anche conto della possibilità (prevista dall’ordine di servizio oggetto del reclamo) di presentare, comunque, anche richieste occasionali ed eccezionali”. L’amministrazione penitenziaria, quindi, nel rispetto di quanto statuito dalla corte costituzionale con la sentenza n. 97/2020, può regolamentare per ragioni di sicurezza l’esercizio del diritto del detenuto, ristretto in regime ex art. 41-bis Ord. pen., allo scambio di generi alimentari di modico valore con altri detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, purché ciò avvenga in modo ragionevole e senza rendere particolarmente difficile detto esercizio determinandone, di fatto, la soppressione. Brescia. Presidio a Canton Mombello: “Questo carcere va chiuso” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 14 luglio 2025 Maratona oratoria pubblica davanti alla Casa circondariale: “Uno Stato che non rieduca i detenuti è uno Stato debole”. Canton Mombello non si può recuperare, va chiuso. Ed il carcere non può essere una “discarica sociale” nella quale abbandonare le persone, ma le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato” così come prescritto dalla Costituzione. Sono due dei concetti attorno al quale è ruotata la “maratona oratoria pubblica” allestita sabato di fronte ad una delle carceri più sovraffollate d’Italia, il Nerio Fischione di Brescia, che per tutti qui rimane “Canton Mombello”. Un presidio che ha visto la presenza di alcune decine di persone che hanno offerto per oltre un’ora interventi, testimonianze e riflessioni sul dramma quotidiano fatto di suicidi, condizioni invivibili e impossibilità di attivare percorsi alternativi. “Ci si dimentica sempre che i detenuti di oggi torneranno ad essere cittadini domani. È ovvio che se non si trova il modo di reinserirli la possibilità che compiano nuovamente reati è concreta” ha introdotto Federico Goffi, vice segretario di Azione Under 30 Brescia, sottolineando come “uno stato che non parla di rieducazione è uno stato debole. Disinteressarsi, voltare la faccia dall’altra parte, è sbagliato. Serve dignità, non vendetta. Bisogna ripartire da lavoro, istruzione e cura”. Per farlo rilancia la proposta fatta due anni fa dal suo partito al Governo: costruire “case di reinserimento sociale” per accompagnare i detenuti nell’ ultimo anno che li separa dal “fine pena”: attualmente oltre un terzo dei detenuti non può usufruire di pene alternative perché non hanno opportunità: “Sono 23mila quelli che potrebbero accedere ad altre misure, ma non hanno casa, famiglia, soldi per poterlo fare” denuncia Federica Meda, attivista dei radicali, definendo la dotazione alle carceri italiane di 1000 congelatori a pozzetto “imbarazzante” visto che “equivale ad un congelatore ogni 61 detenuti e mezzo”. Non si sa al momento se siano arrivati nei due istituti di pena bresciani ed anche al presidio nessuno è informato, nemmeno il parlamentare Fabrizio Benzoni (Azione) che prende parola ricordando come per cambiare rotta serva “un cambio culturale. Per ogni fatto oggi si crea un reato: in tre anni questo governo ha aumentato le pene di oltre 140 anni. Bisogna invece mettere in campo misure alternative, magari partendo proprio da quel 15% che si trova detenuto in custodia cautelare, senza condanna definitiva”. Presente anche la consigliera regionale lombarda Miriam Cominelli (Pd) che ha ribadito come “i detenuti sono un pezzo della nostra società e non possiamo e dobbiamo voltarci dall’altra parte. Questo governo è alla continua ricerca di un nemico, che siano detenuti piuttosto che immigrati. Il vero problema di questo Paese riguarda gli ultimi, per i quali mancano le risorse. Canton Mombello va chiuso, non sistemato. Non è più un luogo adatto, serve altro”. Invece è ancora aperto, seppur vecchio, sovraffollato e invivibile. Monza. Il carcere è oltre il limite fpcgil.lombardia.it, 14 luglio 2025 Silvia Papini (Fp Cgil): “730 detenuti per 411 posti. Crescono i numeri, cresce la sofferenza. È una questione di diritti, non solo di organici. “Circa 730 persone detenute a fronte di una capienza di 411 posti. A giugno si è toccata quota 750. Al carcere di Monza il sovraffollamento è del 77,6%, significa che ci sono quasi 8 persone ogni 4 posti disponibili. Una situazione dura da sostenere”. A denunciarlo è Silvia Papini, segretaria della Fp Cgil Monza Brianza. Il dato locale si inserisce nel quadro nazionale già segnalato dalla Cgil di Corso Italia, con la segretaria Daniela Barbaresi che parla di “un sovraffollamento medio del 135%” e di “una popolazione di 62.728 detenuti da record storico”. Gli spazi sono ridotti e strapieni, il caldo è insopportabile, il drammatico aumento dei suicidi - 39 tra le persone ristrette e 2 tra gli agenti penitenziari dall’inizio dell’anno - rende le condizioni negli istituti penitenziari estremamente pesanti, anche per la salute, fisica e mentale. Dentro e fuori le sbarre. “A Monza - racconta Papini - la stessa direttrice ha manifestato in Consiglio comunale le difficoltà del carcere con il crescere del numero di detenuti. Il personale è sotto pressione. Circa 500 persone ristrette hanno problemi di tossicodipendenza, su 733. Le persone straniere sono 347. A tutto questo si sommano episodi tensivi sempre più frequenti: 359 interventi disciplinari in sei mesi, 10 aggressioni, 29 oltraggi e violenze verbali, 71 colluttazioni, un incendio”, segnala la sindacalista. Il problema strutturale è l’assenza di un meccanismo che adegui l’organico all’aumento delle presenze. “Sulla carta ci sono 296 unità, ma in servizio effettivo sono 278. Turni, sicurezza, relazioni, tutto è sotto stress. L’organico comprende funzionari pedagogici, personale contabile, personale sanitario e Polizia Penitenziaria, per citarne alcune: tutte figure essenziali per garantire i diritti. Ma oggi - denuncia Papini - non si riesce a garantirli”. Il personale pedagogico deve seguire decine di persone detenute e, al tempo stesso, elaborare i progetti, occuparsi delle relazioni per i tribunali. “Così non ci sono le condizioni per seguire adeguatamente tutti i detenuti e si è costretti ad agire, anche rispetto all’intervento riabilitativo, in costante emergenza. Un’emergenza - rimarca Papini - di cui hanno piena consapevolezza personale e detenuti. Il rischio burnout, per chi lavora, è concreto e il rischio di peggioramento della salute mentale di chi è detenuto idem”. Il sistema carcerario è ormai un luogo perduto? “Non può né deve esserlo, anche se la deriva è sempre più preoccupante. Le lavoratrici e i lavoratori sono consapevoli di non poter fare di più, ma sanno anche di avere in mano la vita delle persone, in questo luogo di sofferenza e al collasso. A Monza gli interpelli restano spesso senza candidati. La sua reputazione di struttura sovraffollata e la posizione periferica ne scoraggiano l’arrivo. Ma anche chi vince gli interpelli per spostarsi in altre sedi viene bloccato dalla direzione, che non può permettersi un’ulteriore riduzione di personale. Va rafforzata la battaglia di civiltà a salvaguardia della dignità umana e dei diritti delle persone che vivono e lavorano nelle carceri - evidenzia Papini -. Va recuperata e resa concretamente esigibile la funzione sociale del carcere, nella missione assegnatagli dalla nostra Costituzione - evidenzia Papini -. E, allo stesso tempo, anche come luogo di lavoro, il carcere deve rivendicare e ottenere la sua dignità. Cosa altro deve succedere perché le istituzioni decidano di farsi carico del problema?”. Roma. Rivolta a Rebibbia, condannati 23 detenuti di Lorenzo Nicolini romatoday.it, 14 luglio 2025 Più di un secolo di carcere per 24 rivoltosi, quelli che a marzo del 2020 misero a ferro e fuoco il penitenziario di Rebibbia. La protesta era contro le misure restrittive per contenere il Covid, che vietavano le visite dei familiari. Quel lunedì 9 marzo fu una lunga giornata. Prima la rivolta dei detenuti all’interno del penitenziario con materassi e cassonetti date alle fiamme. Poi le proteste dei famigliari all’esterno con attimi di tensione tra loro e la polizia chiamata a presidiare l’ingresso di Rebibbia. Reparti devastati nel carcere, la biblioteca incendiata, l’infermeria saccheggiata. Durante gli scontri fu ferito anche un ispettore. Il motivo? Il Coronavirus, la mancate visite dei familiari e il timore che all’interno delle celle non erano state mantenute le accortezze del caso. Venerdì il tribunale di Roma ha condannato 23 persone nel processo che vedeva ben 46 imputati. Le condanne più alte sono arrivate per Marco Gallorini e Mattia Schiavi, considerati i promotori della rivolta secondo la ricostruzione della Procura. Schiavi è accusato di rapina aggravata a un agente penitenziario per aver rubato le chiavi delle celle che avrebbe poi aperto, ma anche per devastazione e saccheggio resistenza e lesioni. È difeso dall’avvocato Gian Maria Nicotera. Sono stati inflitti 5 anni e 6 mesi a Leandro Bennato, boss considerato vicino a Giuseppe Molisso e al clan Senese, nonché rivale di Fabrizio Piscielli detto ‘Diabolik’. La sommossa era partita dal settore G11, dove il ‘Biondo’ Bennato era detenuto dopo l’arresto nella maxi-operazione sul narcotraffico “Grande raccordo criminale”. ‘Biondo’ avrebbe inneggiato alla libertà - recita il capo di imputazione - e minacciato di morte gli agenti della penitenziaria. Lo scorso maggio la Corte d’Appello di Roma lo aveva condannato a 19 anni e 4 mesi per sequestro di persona a scopo di estorsione e detenzione ai fini di spaccio di 107 chili di cocaina. Il boss, per recuperare quella droga avrebbe ordinato le torture di Gualtiero Giombini, poi morto, e Cristian Isopo. Padova. Un soffio di sollievo dietro le sbarre: da Caritas 30 ventilatori per i detenuti indigenti di Alessia Scarpa lapiazzaweb.it, 14 luglio 2025 Un piccolo gesto, ma dal grande significato. Nei giorni scorsi Caritas Padova ha donato 30 ventilatori alla Casa circondariale di Padova, destinati alle persone detenute indigenti. Ogni ventilatore - uno per cella - sarà utilizzato negli spazi di pernottamento, contribuendo a migliorare le condizioni di vita quotidiana delle persone private della libertà, molte delle quali non hanno risorse economiche sufficienti per acquistare da sé questo tipo di ausilio, che rientra nelle spese personali. “Un segno concreto di attenzione e rispetto” - “Ringrazio Caritas Padova per questo gesto generoso, condiviso con il nostro cappellano don Mariano Dal Ponte - ha dichiarato Anastasio Morante, direttore della struttura -. È un segnale di attenzione che assume ancora più valore in un periodo come l’estate, in cui la convivenza forzata in ambienti ristretti diventa ancora più difficile da sostenere”. Umanità e dignità: valori che non si arrestano - La donazione rientra in un percorso più ampio di vicinanza e solidarietà verso le persone detenute, come ha sottolineato Lorenzo Rampon, responsabile di Caritas Padova: “Chi è in carcere, pur privato della libertà, resta parte della nostra comunità. Trattarli con umanità e rispetto è un dovere civile e cristiano. Il ventilatore, oggetto semplice ma essenziale, diventa un simbolo di vicinanza concreta e della volontà di non lasciare indietro nessuno”. Rampon ha inoltre evidenziato l’importanza di coltivare un legame tra carcere, territorio e comunità cristiana, anche in vista del futuro reinserimento delle persone detenute. “Non si tratta solo di un dono materiale, ma di un ponte tra il dentro e il fuori, tra l’esclusione e l’accoglienza, tra la sofferenza e la speranza”. Monza. Un ventilatore in ogni cella: raccolta fondi per il carcere primamonza.it, 14 luglio 2025 La mobilitazione promossa da Geniattori con Piffer sta avendo successo, ma non basta. L’appello: “Continuate a donare”. Un ventilatore in ogni cella per aiutare i detenuti a sopportare il caldo estremo dell’estate: è questo l’obiettivo della raccolta fondi promossa dall’associazione Geniattori Aps per il Sanquirico di Monza. Le estati, infatti, stanno diventando sempre più torride e all’interno delle carceri la situazione si fa particolarmente critica. Il caldo intenso, in ambienti spesso sovraffollati e poco ventilati come sono quelli del penitenziario Sanquirico di Monza, rende le già dure condizioni di detenzione ancora più insopportabili e disumane. “Non è una semplice questione di comfort, ma un atto dovuto di rispetto verso la dignità e la salute delle persone detenute - spiegano i promotori dell’iniziativa - Crediamo fermamente che la pena debba avere una funzione rieducativa, ma essere sempre dignitosa e umanamente sopportabile. Nessuno dovrebbe essere costretto a subire il caldo estremo, che può portare a gravi problemi di salute e aumentare tensioni già presenti”. La raccolta fondi, avviata tramite la piattaforma GoFundMe, ha già superato ogni aspettativa, raccogliendo oltre duemila euro (più di quanto era previsto), dimostrando una grande sensibilità da parte dei cittadini monzesi e non solo. Raccolta fondi su Gofundme - L’obiettivo è quello di raccogliere ulteriori fondi entro il 18 luglio per poter procedere rapidamente all’acquisto e alla consegna dei ventilatori alla Casa Circondariale di Sanquirico. Il consigliere comunale Paolo Piffer che ha sposato subito l’iniziativa assieme a Mauro Sironi di Geniattori invitano anche i cittadini di altre città a replicare questa iniziativa, organizzando raccolte fondi simili per sostenere gli istituti penitenziari più vicini alle loro realtà locali. Per chi desidera contribuire alla raccolta fondi, è possibile effettuare una donazione. “È un gesto semplice, ma dal grandissimo impatto, capace di fare una reale differenza nella vita quotidiana di queste persone”, concludono gli organizzatori, ringraziando tutti per la generosità e la sensibilità dimostrata. Non è la prima volta - Un impegno, quello per portare i ventilatori nelle celle sovraffollate del Sanquirico che negli anni scorsi aveva già visto in prima fila anche Antonetta Carrabs che con la sua Zeroconfini onlus da sempre si impegna per il benessere e la rieducazione dei carcerati: “I Volontari di Zeroconfini onlus, Ad alta voce e Carcere aperto, assieme al cappellano del carcere, in due anni hanno consegnato a Sanquirico 150 ventilatori. Ma non bastano mai. E se “la concorrenza fa bene al mercato” in certi casi meglio “l’unità che fa la forza”“, ha ribadito Carrabs davanti alla nuova iniziativa dell’estate 2025 promossa dei Geniattori, una realtà che il 20 maggio è stata premiata a Roma per l’emozionante spettacolo realizzato coi detenuti ottenendo la vittoria al Premio Maurizio Costanzo - Teatro in Carcere con lo spettacolo “Senza Parole”. Aosta. Mancanza cronica di personale? McDonald’s si affida ai detenuti di Erika David gazzettamatin.com, 14 luglio 2025 Da alcuni giorni due detenuti lavorano al fast food McDonald’s di corso Ivrea ad Aosta. Affettano pomodori, lavano e tagliano l’insalata, arrostiscono fette di bacon per i panini, poi – terminato il turno – tornano nel carcere di Brissogne. Nei prossimi giorni, altri detenuti potrebbero unirsi al team. Si tratta della prima realtà valdostana ad aprire le porte a detenuti ed ex detenuti nell’ambito di progetti di reinserimento lavorativo e sociale, grazie alla collaborazione tra la Casa circondariale valdostana, l’Associazione Seconda Chance e Finoallafine Srl. “Seconda Chance è l’unica associazione che opera su tutto il territorio nazionale con accordi riconosciuti dalle istituzioni carcerarie” – spiega Matteo Zordan, referente per Valle d’Aosta, Piemonte e Liguria –. “L’obiettivo è trovare aziende disposte ad assumere detenuti ed ex detenuti, offrendo benefici sia sociali che fiscali”. Il progetto ha trovato accoglienza grazie alla disponibilità di Marco Bragonzi, licenziatario dei McDonald’s di Pavone Canavese e Aosta, che ha assunto tre persone a Ivrea e quattro ad Aosta. “Per la Valle d’Aosta è una prima volta – continua Zordan – ma siamo in contatto con altre realtà per futuri inserimenti. In un contesto di carenza di organico, può essere una soluzione efficace”. Anche Ambra Torello, direttrice del fast food di Aosta, conferma: “Da tempo cerchiamo personale e non riusciamo a trovarlo. Ora lavorano con noi due detenuti con cui ci troviamo molto bene. Il ristorante ha 60 dipendenti, ma ne servirebbero altri 28 per lavorare a pieno regime. Ne basterebbero anche 15/20 solo per i turni notturni nel weekend”. Dopo colloqui con 12 detenuti, Bragonzi ha ipotizzato di assumerli tutti. La direttrice del carcere di Brissogne, Velia Nobile Mattei, sottolinea il valore sociale dell’iniziativa: “È una risposta concreta alla sfida che affrontiamo da anni. Il lavoro riduce la frustrazione, restituisce motivazione e alleggerisce il carico per chi opera ogni giorno negli istituti. È un investimento in dignità e sicurezza”. Zordan conclude con una riflessione importante: “Escludendo l’ergastolo, prima o poi un detenuto rientra in società. Se ha uno stipendio e un lavoro, è più facile che si allontani dalla delinquenza. In carcere non ci sono solo criminali: ci sono anche professionisti che hanno sbagliato o subito errori giudiziari. La rieducazione è possibile solo grazie alla collaborazione tra istituzioni e associazioni”. Palermo. “Galeotta” fu la pasta nata tra le mura del carcere Ucciardone di Gilda Sciortino vita.it, 14 luglio 2025 Quindici detenuti nella Casa circondariale “Ucciardone” di Palermo diventano mastrai pastai. “Galeotta” la pasta artigianale, che da settembre comincerà a fare capolino sul mercato, diventa un ponte tra gli spazi della vita esterna e quelli della vita in carcere. A renderlo possibile è il progetto “Past-Art “, promosso dalla cooperativa Asterisco e sostenuto da Fondazione con il Sud, Fondo di beneficenza Intesa Sanpaolo ed EnelCuore Onlus. Già la confezione, colorata, narrata, con immagini che rimandano alla bellezza della terra siciliana, ti invita a non perdere tempo e comprarla, desiderosi di gustarla prima possibile. Quando, poi, si capisce la filosofia che la anima, ci si è già innamorati di Galeotta, la pasta prodotta nella Casa di reclusione “Ucciardone - Calogero Di Bona” di Palermo grazie a Past-Art, iniziativa di inclusione sociale per il reinserimento lavorativo delle persone recluse, in modo specifico 15 detenuti selezionati dal team dell’area educativa-trattamentale della struttura detentiva. Un progetto, promosso dalla cooperativa Asterisco con il sostegno economico di Fondazione Con il Sud, Fondo di beneficenza Intesa Sanpaolo ed EnelCuore Onlus, con la collaborazione di Cesam, pastificio Bia, Reattiva, Coreras e Ri-genera. La convenzione stipulata con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la direzione dell’Ucciardone ha consentito alla cooperativa di avere affidato in comodato d’uso gratuito il pastificio esistente all’interno del carcere, con tutti gli impianti in esso contenuti. Le attività sono, così, partite proprio dal ripristino del laboratorio, in disuso da tempo, con l’inserimento di nuove attrezzature e tra queste, per esempio, nuove trafile per poter produrre 7 formati di pasta diversi. Un punto di orgoglio anche per il direttore dell’Ucciardone, Fabio Prestipino, per il quale “progetti del genere sono un’occasione e, proprio per questo, meritano di espandersi all’esterno”. Non un caso la scelta del nome, frutto di una ricerca esplorativa su decine di proposte provenienti da un panel di consumatori. Così Galeotta non è oggi solo un brand che decora una scatola di pasta, ma una parola dalle numerose evocazioni. Una delle prime, la frase finale, firmata da uno dei detenuti che lavorano nel pastificio, nel retro di ogni confezione in cartone. Un nome, quello dato alla pasta dell’Ucciardone, dietro al quale il mondo dentro e quello fuori dal carcere si incontrano e interagiscono. Galeotto come intermediario d’amore. Qualcosa che mette in moto sentimenti, relazioni, connessioni: la pasta diventa un gesto d’affetto, un dono che avvicina. Galeotta intermedia tra il dentro e fuori, tra gli spazi della vita esterna e quelli della vita in carcere. Diventa un ponte, legato ai sentimenti e alle cose buone. Galeotto come chi sa prendersi in giro con leggerezza. Galeotto non è semplicemente un sinonimo di carcerato, è la sua espressione nell’accezione più leggera, quasi fumettistica, ironica, ma soprattutto autoironica. Un modo diverso di raccontare la storia, anzi, di ricominciare a raccontarla. Un nuovo punto di vista, meno definitivo e più possibilista. “Un tratto grafico che non è solo estetico, ma simbolico”, spiega il team che ha lavorato al concept visivo di “Galeotta”, “che rappresenta la trasformazione del detenuto da semplice operatore a creatore consapevole, trovando nella manualità una via di riscatto e riconquista del proprio valore come persona. Il logo richiama, inoltre, le lettere d’amore galeotto, quei messaggi appassionati scritti con speranza e desiderio di connessione. Questo immaginario si collega all’idea che ogni confezione di pasta porti con sé una storia di passione e umanità. La spiga sulla “T” diventa un elemento identitario chiave: simbolo del grano siciliano e della terra generosa che nutre il prodotto. Spiega il prodotto, rafforza il legame con l’artigianalità e le radici territoriali, conferendo al logo un’impronta distintiva”. Quindici, dicevamo, i detenuti il cui percorso di formazione, in parte già svolto, comprende 80 ore di addestramento pratico on-the-job (impasto e formatura della pasta, processo di produzione, essiccazione e confezionamento), 40 ore in aula in tema di sicurezza sul lavoro, 30 sul marketing, ancora 36 ore sull’utilizzo dei macchinari per l’essiccazione, altre 36 sul confezionamento e 20 ore sulle caratteristiche specifiche dei grani. Percorso di formazione professionalizzante, che oggi consente loro di gestire le varie fasi, dalla realizzazione alla distribuzione di un prodotto ottenuto da farine di grani 100% siciliani certificati e pronto, adesso, per arrivare sulle tavole di case e ristoranti. Per cinque di loro selezionati nel percorso formativo, sul piatto anche un contratto di lavoro part-time. Un intervento che vuole andare oltre le più belle intenzioni, attraverso un racconto che guarda al futuro, ma consentendo di sentire la bontà del percorso. Ecco, dunque, il cooking show, che ha seguito la presentazione del progetto, con lo chef Salvo Terruso “Il Pastaio matto” che, per le sue ricette, ha utilizzato la pasta fresca preparata in mattinata dai detenuti. Assaggi che sono andati anche oltre il bis, tanto la squisitezza dei piatti, arricchiti da prodotti siciliani d’eccellenza, tenerumi, pomodorini, formaggi a chilometro zero, capaci di rendere un assaggio una vera esperienza di sensi. Proposta sia la versione classica che le varianti integrale e aromatizzata di Galeotta, farine da grani siciliani 100% certificati, anche se l’obiettivo è di ottenere la stessa certificazione per l’intera filiera del prodotto proposte con i classici tenerumi, ma anche con prodotti tipici siciliani. “Questo progetto è la sintesi di tutto quello che abbiamo fatto in tanti anni”, spiega Maria Cristina Arena, presidente della cooperativa Asterisco, ente di formazione che nasce nel 2002 occupandosi anche progetti di inclusione sociale, “dove la formazione, le politiche attive hanno un ruolo, riuscendo a farci andare oltre quello che abbiamo sempre realizzato. Proprio per creare impresa sociale attraverso una visione proiettata al futuro. Per noi è motivo di grande soddisfazione essere qui perché vuol dire che i progetti, se si vuole, hanno veramente un senso e riescono ad andare oltre il loro naturale tempo di durata. Questo è un progetto dietro al quale c’è la voglia di raccontare che una seconda chance è possibile, infatti a settembre i detenuti verranno assunti dalla cooperativa, cominciando un percorso nuovo anche per la loro vita. Questo vuol dire che i tre anni di realizzazione progettuale saranno solo un trampolino di lancio. Sia il lavoro con i detenuti sia tutto quello che stiamo portando avanti all’esterno per poter collocare sul mercato e posizionare sul mercato il marchio Galeotta, saranno la risposta”. “I detenuti hanno iniziato a produrre la pasta”, aggiunge Arena, “e sono addestrati per lavorare anche in autonomia. Questo, però, avverrà con il tempo. Organizzeremo le giornate di produzione, cercando di creare una rete di consumatori palermitani per la consegna della pasta fresca. Coloro che potranno uscire dal carcere saranno dotati di mezzi e potranno consegnare al domicilio la pasta fresca. Noi, sulla solidarietà dei palermitani, ci contiamo molto. A breve organizzeremo le box natalizie, scatole con un mix di confezioni di “Galeotta”. Partiremo con la semola bianca, ma ci sarà pure quella integrale. Proporremo anche le paste aromatizzate, per esempio quella all’origano, la pasta ai capperi o anche quella con la buccia di limone. Tutte una vera bontà”. “Che il lavoro sia uno strumento imprescindibile per il reinserimento sociale dei detenuti ce lo dicono i dati”, sottolinea il presidente della Fondazione Con il Sud, Stefano Consiglio “ma anche le esperienze già realizzate o avviate. Come Fondazione Con il Sud, abbiamo avuto il privilegio di accompagnare 20 iniziative tramite il bando dedicato “Evado a lavorare”. Continueremo a supportare ancora progetti per il reinserimento dei detenuti tramite i nostri bandi e tramite le alleanze come questa che ha reso possibile il progetto Past-Art. Ridurre il tasso di recidiva deve essere un impegno condiviso perché riguarda il futuro di ogni singolo detenuto ma anche di tutto il Paese”. “L’inclusione lavorativa dei detenuti rappresenta una delle principali sfide per il loro reinserimento sociale” afferma Andrea Valcalda, consigliere delegato di Enel Cuore Onlus, “perchè contribuisce a ridurre il rischio di recidiva e favorisce una nuova prospettiva di vita. È, quindi, naturale per Enel Cuore essere al fianco del progetto Past-Art, dedicato a percorsi di formazione e inserimento lavorativo per i detenuti del carcere dell’Ucciardone a Palermo. Un progetto ambizioso e concreto nel quale crediamo perchè siamo convinti che nessuno debba essere lasciato indietro”. A settembre i detenuti formati all’interno del progetto saranno impegnati nella fase di produzione finalizzata alla commercializzazione con un volume stimato di circa 600 chilogrammi di pasta secca a settimana, più 80 chili quella fresca. La distribuzione avverrà nel canale Horeca (hotel, ristoranti e catering), nei punti vendita dell’economia carceraria e solidale, nel retail di qualità (per esempio negozi piccoli o di target alto che scelgono accuratamente i prodotti da vendere), e inoltre online attraverso un sito di e-commerce che sarà appositamente sviluppato per la gestione di ordini e consegne. Il Leoncavallo, la Torre e le fanzine: gli anni antagonisti dei centri sociali di Emanuela Del Frate Il Domani, 14 luglio 2025 “Il cerchio e la saetta” (Fandango Libri) ripercorre gli anni in cui sono nati a Roma, una storia longeva, nata dall’esigenza di raccontarsi, perché “la memoria è un ingranaggio collettivo”. Alcuni sono ancora vivi, altri hanno permesso la nascita di comitati di quartiere come quelli che si sono ritrovati con scope e palette a ripulire villa De Santis dopo l’esplosione del distributore gpl. Mentre a Milano il Leoncavallo è sotto sfratto. “La domanda è: come sarebbe Milano senza Leoncavallo? Se riuscissero a mandarci fuori, cosa costruirebbero a via Watteau: un ambulatorio popolare? Un asilo nido? No, ci sarebbe un complesso residenziale da decine di migliaia di euro al metro quadro. Perché Milano continua a buttare fuori le persone più fragili in nome della speculazione edilizia”. Enrico ha 23 anni e ci tiene a ricordare il valore sociale di uno spazio che permette a tutti “di esistere senza necessariamente consumare”. Dal 1994, anno in cui il Leoncavallo - 50 anni di storia antagonista - si è trasferito nel quartiere Greco, la zona ha cambiato faccia. “Oggi via Watteau vale miliardi e l’amministrazione stende un tappeto rosso ai Cabassi, proprietari dell’immobile, che a Milano hanno già guadagnato cifre stratosferiche. In città i centri sociali hanno perso la battaglia sulle aree dismesse: sono tutte messe a profitto dagli immobiliaristi”, dicono Laura e Marco di La Terra Trema, progetto che si svolge da 20 anni al Leoncavallo. Lo sfratto è atteso per domani e, anche se sperano in un ulteriore rinvio, gli attivisti invitano tutti a un presidio resistente. Non solo lo sfratto: sulla presidente delle Mamme del Leoncavallo pendono i 3 milioni di euro con cui il ministero dell’Interno intende rifarsi per il risarcimento alla società proprietaria dell’immobile a cui è stato condannato. La storia del Leo è strettamente connessa a quella dei movimenti che hanno attraversato gli anni 80 e 90, quella di “una generazione non piu? disposta ad accettare una citta? disegnata dalle grandi societa? immobiliari a misura dei propri profitti”. Qui Roma - Come scrivevano gli occupanti nel 1989 nel volantino che indiceva un corteo nazionale dopo il primo, violento, sgombero. E che ritroviamo tra le pagine de Il cerchio e la saetta (Fandango), libro che ripercorre gli anni fondativi dei centri sociali romani. Storie simili, ma nello stesso tempo diverse, perché ognuna si è nutrita della specificità del quartiere in cui è nata e a cui è stata sempre strettamente connessa. Una storia longeva che ci porta dall’85 fino a oggi, perché alcuni sono ancora vivi, altri hanno permesso la nascita di comitati di quartiere come quelli che si sono ritrovati con scope e palette a ripulire villa De Santis dopo l’esplosione del distributore gpl. L’autore è Fabrizio C., senza cognome, perché nei centri sociali il cognome non si usa: ci si conosce come Gianni del Forte Prenestino, Maria della Torre, Cristina di Pirateria e così via. La sua non è, quindi, una scelta di anonimato, quanto di appartenenza. Una storia raccontata perché, come ha sempre detto Supporto Legale, il collettivo che ha lavorato sui processi legati al g8 di Genova e di cui fa parte Fabrizio, “la memoria è un ingranaggio collettivo”. Come scriveva un non ancora famoso Zerocalcare nel 2002. Eppure, i centri sociali hanno sempre fatto molta fatica a raccontarsi, ad autorappresentarsi. La narrazione corale - “Una contraddizione evidente - scrive Fabrizio -Il. Così Il cerchio e la saetta, va a riprendere quelle storie, perché non si sciolgano come lacrime nella pioggia, perché meritano di essere preservate, come quelle della resistenza. Per farlo Fabrizio ha usato il racconto orale, inserendosi in una tradizione che è quella di Sandro Portelli, ma anche di Nanni Balestrini e Primo Moroni, poi raccolta da Marco Philopat per il suo Costretti a sanguinare, sulla storia punk del Virus di Milano. “Fabrizio ha scelto di lasciare tic linguistici e imperfezioni. Tanto che conoscendo i personaggi, mi sembra di sentirli parlare”, dice Zerocalcare durante la presentazione de Il cerchio e la saetta. La data è quella dell’11 luglio, esattamente 30 anni dopo lo sgombero del centro sociale romano La Torre, avvenuto proprio dove è stata ospitata la presentazione, ovvero Villa Farinacci. Un incontro che si è trasformato in narrazione corale dove si sono susseguite tante delle voci presenti nel libro. “C’è guerriglia in cima a via Rousseau e arrivano da tutta Roma”, cantano gli Assalti Frontali in Devo avere una casa per andare in giro per il mondo, in cui raccontano anche di quello sgombero che trasformò, nel 1995, La Torre nel “Leoncavallo romano”. “Il primo sgombero di un centro sociale completamente filmato da un collettivo video: la Fluid Video Crew”, scrive Fabrizio. Subito montato venne proiettato la sera stessa: prologo di quello che fu il “mediattivismo” e che portò a esperienze come Indymedia e le street tv. L’eroina - Ma cosa ha spinto quei giovanissimi attivisti romani a rischiare di essere arrestati per proteggere uno spazio occupato? Partendo da questa domanda Il cerchio e la saetta ripercorre un decennio che inizia nel 1985, con un nuovo movimento studentesco. “Venivamo dagli anni ‘70 e i primi anni 80 furono gli anni della grande repressione. Fare qualsiasi tipo di attivita? politica era estremamente difficile, se non impossibile”, racconta Gianni del Forte nel libro. L’idea di occupare arriva dalle esperienze del nord Europa. La necessità, come raccontato, da più protagonisti, era quella di “ricomporre, rimettere insieme tante soggettività”. Roma era in una continua espansione edilizia a cui, però, non corrispondeva quella dei servizi. Una generazione di proletari si ritrovò a reclamare spazi e lo fece occupando luoghi abbandonati, togliendoli dal degrado e prendendosene cura, facendoli rivivere in un fiorire di attività rivolte, sin da subito, ai quartieri. E aprendo la sua personale battaglia contro l’eroina. “Non volevamo fare la rivoluzione, volevamo stare solo un po’ meglio”, scrive Philopat ne La banda Bellini. “Non si produceva solo cultura ma si sperimentava un modo nuovo di fare politica. Una politica che nasceva da un’esigenza aggregativa, che non rinnegava le categorie e i valori del passato ma li reinterpretava adeguandoli a esigenze e bisogni nuovi. Parlavamo di conflitto sociale inteso anche come strumento per affermare nuovi diritti. È in quel contesto che nacque l’idea di “bene comune”, dice l’avvocato Fabio Grimaldi. Un ruolo determinante l’ha giocato subito la musica; ogni centro sociale aveva una sala prove e un palco aperto. La musica e la festa si mischiano alla politica, diventando esse stesse atto politico. Il punk, con la sua cultura del Do it Yourself diede la stura per l’autoproduzione che toccò punte altissime. Poi arrivò il movimento universitario della Pantera che: “Ruppe con l’individualismo e l’indifferenza tipici del decennio precedente, creando una nuova socialita? basata sulla condivisione e sull’autogestione. La musica, i graffiti e le posse irrompono nella scena. Il 3 febbraio 1990 un gruppo di giovani si prende il palco della manifestazione nazionale studentesca conclusasi a piazza del Popolo”. Arrivò Onda Rossa Posse e il suo Batti il tuo tempo, fu il primo disco rap cantato in italiano. Le posse saranno capaci “di bucare il mainstream pur non volendo starci dentro in nessun modo. Cosi? come accadra? piu? avanti con la cultura rave”. E non furono solo “un fenomeno musicale, ma il manifesto di una generazione in cerca di nuovi strumenti”. Quella raccontata da Fabrizio C. è, così, anche la storia di un movimento fatto di continue sperimentazioni nel campo della comunicazione, da Radio Onda Rossa a Indymedia, dalle fanzine alla “rivoluzione del fax” della Pantera. Ma è anche la storia del rapporto, sempre conflittuale, di quel movimento con le istituzioni e il centrosinistra. Pur dividendosi tra astenuti ed elettori di Rutelli, nelle elezioni amministrative del ‘93 furono determinanti con la loro campagna per non votare Fini. La foto della stazione di Bologna e la scritta: “Come ripuliscono le stazioni i fascisti non le pulisce nessuno”, è il manifesto impresso nella memoria. Ci sono poi le varie delibere per l’assegnazione degli spazi. L’obiettivo dei cs era quello di garantire continuità ai progetti sociali e allontanare lo spettro degli sgomberi. spazi a semplice valore sociale o economico, perpetuando un errore che da quarant’anni confonde la funzione militante e conflittuale con quella assistenziale. Quando e? invece fondamentale riconoscere e valorizzare la funzione politica autonoma degli spazi sociali”, scrive Fabrizio nel libro. “Sono passati 30 anni dalla promessa di Rutelli: “non faremo come al Leoncavallo” ma a Roma i centri sociali che hanno fatto richiesta di assegnazione stanno ancora aspettando”. Il gioco d’azzardo contagia un italiano su due, adolescenti a rischio di Giulio Sensi Corriere della Sera, 14 luglio 2025 Un giro da oltre 157 miliardi di euro che coinvolge più di 20 milioni di italiani maggiorenni. Ma per molti, anche giovani, è una dipendenza. L’importanza di prevenzione e contrasto: il progetto Caritas “Vince chi smette”. La febbre del gioco d’azzardo contagia sempre più persone in Italia. I dati parlano chiaro: è in crescita il numero di chi punta i soldi sulle vincite attraverso vari canali - 20,7 milioni di residenti in Italia, quasi la metà dei maggiorenni - e lievitano anno dopo anno le cifre spese, arrivate a 157 miliardi di euro nel 2024 dagli 80 miliardi del 2020. Ma anche i giovanissimi ne sono dediti. Il 37% dei ragazzi e delle ragazze fra i 14 e i 19 anni nel 2023 ha fatto giochi di azzardo o di fortuna e due su tre, il 64%, prediligono l’online. Statistiche che si riferiscono solo ai giochi “pubblici”, cioè, regolamentati e autorizzati dallo Stato, e non alla galassia sommersa di quelli illegali. I dati contenuti nelle indagini realizzate da Nomisma non denunciano del tutto la gravità della situazione, ma destano comunque preoccupazione fra gli osservatori e fra chi lavora contro le dipendenze. Come Maurizio Fiasco, sociologo, presidente di Alea, l’associazione per lo studio del gioco d’azzardo e i comportamenti a rischio. Che ricorda come dalla fine degli Anni ‘90 sia cambiato l’atteggiamento da parte dello Stato: prima conteneva il fenomeno, considerato rischioso, e le autorizzazioni, oggi lo considera un settore economico come gli altri. “Sembra - commenta Fiasco - che non ci sia mai un punto d’arrivo. Eravamo allarmati quando si superavano i 50 miliardi di flusso di giocate, oggi siamo oltre i 150. Per le persone dobbiamo considerare che non esiste solo la variabile monetaria, ma anche il tempo di vita sociale. La frequenza di gioco è sempre più alta e questo documenta quanto si stia estendendo la dipendenza”. Non finisce qui. “Il 20% dei clienti - prosegue Fiasco - concentra più o meno l’80% della domanda. Significa che uno su cinque compra ripetutamente e la gran parte di quello che spende finisce nelle casse dello Stato o dei concessionari. Nel 20% più assiduo ci sono anche i patologici e se esistesse davvero il gioco responsabile l’industria dell’azzardo fallirebbe”. Un italiano su due non ha alcun contatto con il gioco e questo dimostra anche come non sia aumentata la popolazione che lo pratica, ma l’intensità di chi vi è dedito. “L’opzione - aggiunge ancora Fiasco - non è vincere o perdere, ma esaurire i soldi utilizzati con diversi turni di gioco. Si alternano le fasi di gratificazione, riducendo la quota di denaro da perdere ed entrando in un cerchio infernale che aumenta la dipendenza prolungata nel tempo”. Secondo gli analisti il gioco definibile responsabile riguarda più o meno l’80% di chi lo fa, ma questi spendono una piccola quota sul totale del denaro puntato. Agli sportelli della Caritas sta aumentando il flusso di persone che chiedono aiuto, perché non hanno di che vivere a causa della dipendenza da gioco. Per contrastare, e prevenire, questo fenomeno la Caritas ha lanciato il progetto “Vince chi smette”. “Ci siamo resi conto sempre di più - spiega Caterina Boca di Caritas - che le persone si rivolgono ai servizi quando sono molto indebitate per l’azzardo, senza arrivare per forza ad una dimensione patologica. Molti sono a rischio, ma non ne sono consapevoli e non lo avvertono come un problema. La situazione è tale per cui spesso il denaro che chiedono e ottengono lo spendono ancora nei gratta e vinci nell’azzardo”. Con la campagna e con altre azioni la Caritas e le associazioni chiedono alla politica un impegno anche legislativo per creare argini alla dipendenza e lavorano nelle comunità per far crescere la consapevolezza. Anche fra i giovani “che - spiega ancora Boca - utilizzano i loro device per scommettere: e il fenomeno digitale è meno mappabile, più nascosto e rilevante”. Punta dell’iceberg Le conseguenze peggiori della dipendenza sono sotto gli occhi delle comunità terapeutiche che registrano un aumento constante delle persone curate. Nei 600 servizi che fanno parte della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (Fict) nel 2024 sono stati presi in carico 551 giocatori di azzardo patologico, con un aumento del 60% rispetto al 2020. Quelli che arrivano ad essere curati, e che accettano di farlo, sono solo una piccola punta dell’iceberg di chi vive una dipendenza patologica. “Il problema principale - secondo il presidente della Fict, Luciano Squillaci - è che le persone che hanno una dipendenza non hanno una minima consapevolezza di averla ma arrivano alla Caritas o alle fondazioni antiusura pensando di avere solo un problema economico. E consideriamo che anche la criminalità organizzata ingrassa con l’azzardo”. Più si è tempestivi e più il percorso riabilitativo funziona e ottiene risultati migliori di quando si interviene in situazioni ormai compromesse. “La cosa da fare è avere il coraggio di rivolgersi ai servizi specialistici - conclude Squillaci - e non illudersi di poter risolvere tutto con il fai da te”. Migranti. La prefettura di Torino nega i dati sul Cpr e discute l’attività giornalistica indipendente di Luca Rondi altreconomia.it, 14 luglio 2025 Il prefetto della città, Donato Cafagna, ha firmato in prima persona il diniego all’accesso civico con cui si chiedeva di poter ottenere copia aggiornata del registro degli eventi critici nel “Brunelleschi”. Nel giro di un mese un atto prima “ostensibile” è diventato pericoloso da diffondere per ordine pubblico e sicurezza. Tra le motivazioni anche un mai visto giudizio sulla completezza e oggettività del lavoro di Altreconomia. Cala il buio sul Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Torino. La prefettura ha negato ad Altreconomia l’accesso al “registro degli eventi critici” del mese di maggio del “Brunelleschi”, il documento in cui l’ente gestore annota proteste, tentativi di suicidio, atti di autolesionismo che avvengono nella struttura. Ma più che il diniego in sé fanno riflettere le motivazioni con cui il prefetto Donato Cafagna giustifica l’impossibilità di visionare il documento. “Un brutto caso di trasparenza negata”, commenta Sergio Foà, professore di Diritto amministrativo all’Università di Torino. Ricapitoliamo i fatti. Il 29 aprile 2025 Altreconomia ha chiesto alla prefettura di Torino di poter visionare il “registro degli eventi critici”. Il 27 maggio l’ufficio piemontese del Viminale ha risposto positivamente e il viceprefetto Gianfranco Parente ha inviato il documento compilato dall’ente gestore Sanitalia di cui abbiamo scritto in un articolo che restituiva la sofferenza e la tensione vissuta all’interno della struttura nel primo mese d’apertura, con 22 eventi critici in appena 29 giorni. Il registro arriva fino, appunto, al 29 aprile, il giorno prima di una serie di proteste che nel mese di maggio hanno danneggiato la struttura. Anche per questo motivo -oltre che per aver deciso di chiedere il registro di ogni mese per poter fotografare giorno per giorno la quotidianità vissuta all’interno del “Brunelleschi” - abbiamo inviato a fine maggio una nuova richiesta, identica alla prima, per poter accedere al documento aggiornato. Il 25 giugno però, a sorpresa, l’esito è stato negativo. Nel giro di trenta giorni la prefettura di Torino ha così cambiato idea sulla possibilità di inviare il registro. Come detto, questa volta, la risposta non è più a firma del viceprefetto ma di Donato Cafagna. Il prefetto nel lungo preambolo della risposta inviata ad Altreconomia cita la direttiva del ministero dell’Interno del 19 maggio 2022 che regola il funzionamento dei Cpr, elencando chi secondo la legge può o meno accedere al registro degli eventi critici: parlamentari, consiglieri regionali, Garante dei diritti dei detenuti. “Un’ampia platea di soggetti istituzionalmente in facoltà di monitorare gli eventi critici all’interno del Cpr -si legge- e di dar loro pubblicità (ad esempio, si rileva come il Garante pubblichi sovente i dati relativi ai registri critici nei propri report)”. Una volta ricordato che per legge l’accesso al documento non è previsto, ma neanche escluso, ai giornalisti -ogni prefettura in questo momento si comporta diversamente a riguardo- il prefetto però si spinge oltre. Perché in qualche modo il cambio di interpretazione della legge del suo ufficio va spiegato. E le motivazioni arrivano poco dopo. “In data 27 maggio il sito ‘altreconomia.it’ -scrive- pubblicava un articolo redatto dalla SV […]. Nell’articolo in questione i dati acquisiti tramite l’accesso risultano riportati in maniera incompleta e parziale”. Il primo “perché” sembra quindi un articolo non gradito che riportava in realtà fedelmente il contenuto del registro (l’unico errore, semmai, è stato un tentativo di suicidio sfuggito al conteggio) ma dal giudizio soggettivo sul contenuto di quanto pubblicato si passa poi al secondo motivo del diniego. La prefettura, ricorda il suo capo, è tenuta “ad operare una valutazione comparativa, secondo il principio di proporzionalità fra il beneficio che potrebbe arrecare la disclosure richiesta e il sacrificio causato agli interessi pubblici e privati contrapposti che vengono in gioco”. Sono citati diversi appigli normativi, tra cui i confini dettati dalla legge sull’accesso civico che vieta l’ostensione di documenti qualora questo rechi “pregiudizio alla tutela di interessi pubblici inerente alla sicurezza pubblica e l’ordine pubblico”. Dettagliati i limiti, quindi, si passa al presente interesse pubblico da tutelare. “Dall’apertura del Centro hanno avuto luogo ripetute manifestazioni all’esterno della struttura -si legge- organizzate da soggetti ostili al Cpr che hanno determinato tensioni ed eventi rilevanti sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica con ricadute nelle aree urbane adiacenti”. Oltre a questo, il prefetto sottolinea che all’interno della struttura “si sono registrati da parte dei trattenuti atti di danneggiamenti della struttura con l’appiccamento di incendi e la vandalizzazione di alcune aree divenute inagibili, per le quali si rendono necessari ingenti lavori di ripristino”. Ed è per questo che “fermo restando la possibilità da parte dei soggetti indicati dalla direttiva ministeriale di accedere a ogni informazione utile nella loro funzione di controllo” sussistono “ragioni prevalenti di ordine e sicurezza pubblica per denegare la richiesta di accesso”. “Questa risposta contiene inesattezze e confonde istituti differenti - spiega Sergio Foà, professore di Diritto amministrativo all’Università di Torino. Ci sono innanzitutto due considerazioni generali: l’accesso alla stessa tipologia di documenti è stato garantito una prima volta e negato la seconda, non potendosi comprendere perché le eccezioni alla trasparenza sarebbero divenute applicabili per la seconda richiesta; il diniego è poi giustificato con il fatto che il registro degli eventi critici può essere visionato da soggetti istituzionali e quindi non è necessario condividerlo tramite l’accesso civico. L’affermazione non è corretta, perché confonde la trasparenza, intesa come conoscenza garantita alla collettività, con l’accesso libero riconosciuto ad alcuni soggetti istituzionali, come il Garante”. Ma per il docente dell’Università di Torino sono opinabili le due giustificazioni utilizzate per il cambio di rotta che ha indotto la prefettura a decidere di non condividere più il documento. “Il richiamo al fatto che vi sia stato un presunto utilizzo ‘incompleto e parziale’ è molto grave -spiega- non rileva infatti l’utilizzo successivo che viene fatto dei dati resi pubblici per valutare la legittimazione a ottenerli: è come se tra le righe si dicesse ‘mi sono sbagliato, non dovevo fidarmi’ ma soprattutto adombra una sorta di controllo ex post sull’utilizzo dei dati diffusi e, nel caso di specie, sull’attività giornalistica”. Infine sarebbe problematico il richiamo alle eccezioni dell’accesso civico. “Si parla di interesse emulativo, principio di proporzionalità rispetto al sacrificio causato agli interessi contrapposti -riprende il docente-. Prima si cita ‘l’abuso del diritto’ ma non lo si circostanzia e poi si passa a invocare ragioni di ordine e sicurezza pubblica. Non si riesce a comprendere perché la conoscenza dei documenti richiesti sia collegata agli incendi, ai danneggiamenti e alla vandalizzazione dei Centri. Un’affermazione apodittica e insostenibile anche solo per l’impossibilità di stabilire un nesso causale tra conoscenza e danno alla sicurezza. Insomma, nella risposta di diniego emerge un tentativo di utilizzare tutti gli argomenti astrattamente invocabili per negare l’accesso, ma senza coerenza e senza dimostrare la fondatezza delle eccezioni opposte”. Migranti. “Chiudere i Cpr e abolire la detenzione amministrativa” brindisireport.it, 14 luglio 2025 Si costituisce il gruppo No Cpr Brindisi, 37 associazioni scrivono una lettera ai comuni della provincia di Brindisi. Tutti i Comuni della Provincia di Brindisi hanno ricevuto una lettera sottoscritta da 37 associazioni per la chiusura dei Cpr e l’abolizione della detenzione amministrativa per le persone migranti. Dopo la morte di Abel Okubor nel Cpr di Restinco si è costituito il Gruppo No Cpr Brindisi per continuare l’impegno che da anni le associazioni e i movimenti del territorio hanno assunto per la chiusura del Cpr di Restinco e di tutti i Cpr. La richiesta, destinata ai consiglieri e ai sindaci, nonché al presidente e i consiglieri provinciali, è di adottare un atto deliberativo di ferma contrarietà ai Cpr in quanto realtà patogene per le persone migranti, di cui violano i diritti fondamentali e mettono a rischio la salute e la vita. Dopo la recente sentenza della Corte Costituzionale che riconosce nella detenzione amministrativa una violazione dell’art.13 della Costituzione che sancisce l’inviolabilità della libertà personale, dopo l’appello della Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm)) accolto dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici (FNOMCeO) e del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, riguardante i Centri di Permanenza per i Rimpatri (Cpr) e il ruolo dei medici e degli psicologi in tali strutture, è alle rappresentanze della società civile nei Consigli Comunali che le realtà associative e i movimenti si rivolgono, sollecitandoli a utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per esprimere una posizione chiara e pubblica. A pochi chilometri dalla città di Brindisi, in località Restinco, il Centro di Permanenza per il Rimpatrio esiste da più di venti anni. Più volte, nel corso degli anni, movimenti e associazioni hanno ribadito la loro posizione contraria a tali centri, chiedendone la chiusura e sollevando questioni legate alla dubbia legittimità costituzionale e denunciando violazione dei diritti dei trattenuti e casi di abusi e violenza. A pochi mesi dalla morte di Abel Okubor, l’ennesima, chiediamo ai sindaci delle città della Provincia di Brindisi, al Presidente della Provincia di Brindisi, ai consiglieri comunali e provinciali di esprimere la propria posizione sulla chiusura di questi - come affermato dal garante regionale dei diritti dei detenuti dopo le visite ispettive del 2023 - luoghi di per sé patogeni, dove la sofferenza e la disperazione di chi è detenuto al loro interno è una condizione comune che trova espressione nel corpo. Il rischio altissimo è di considerare sofferente solo chi fa emergere il suo disagio attraverso eclatanti atti dimostrativi, eterolesivi e autolesionistici peraltro lasciati senza continuità assistenziale né rivalutazione dell’idoneità alla vita detentiva”. Proprio sul Cpr di Restinco, a seguito delle visite delle rappresentanze parlamentari, le espressioni per descrivere quanto visto sono le seguenti: “Il registro degli episodi critici sembra un bollettino di guerra (I.Salis europarlamentare 2025), “la contenzione tramite psicofarmaci e la negligenza sanitaria sono questioni all’ordine del giorno, luoghi patogeni dove non è improprio parlare di deriva manicomiale (R. Scarpa, deputata parlamentare 2025)”. In data 27 giugno 2025 la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri accoglie pubblicamente l’appello della Società Italiana di Medici delle Migrazioni in cui si legge “La detenzione amministrativa presenta criticità in materia di rispetto della dignità delle persone e dei loro diritti, incluso quello alla salute. La stessa Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ne ha denunciato gli effetti in quanto pratica patogena sia per la salute fisica, sia per quella mentale. Numerose evidenze descrivono i Cpr come contesti di degrado igienico-sanitario, sofferenza fisica e mentale e abbandono sociale, con ripetuti atti di violenza auto - ed etero- inflitta sui corpi delle persone recluse. Le stesse evidenze, a distanza di 25 anni dalla loro istituzione, confermano che questi luoghi, ovunque e a prescindere dai differenti gestori, sono sistematicamente e profondamente patogeni e mettono a rischio la salute e la vita delle persone che vi vengono detenute” I Cpr sono luoghi da chiudere, strutture in cui la dignità umana è brutalmente calpestata, spazi di produzione della sofferenza, una vergogna legalizzata, per cui l’Italia è stata più volte denunciata dalle organizzazioni di tutela dei diritti umani, compresa la Cedu. Con il presente documento tutte le associazioni e i movimenti firmatari chiedono alle amministrazioni della Provincia di Brindisi e alla Provincia stessa l’adozione di un atto deliberativo entro 30 giorni dalla ricezione della presente. L’atto dovrà esprimere ferma contrarietà ai Cpr in quanto realtà patogene per le persone migranti, di cui violano i diritti fondamentali e mettono a rischio la salute e la vita. Con la presente si chiede altresì l’invio al Governo e al Parlamento della richiesta di abolizione della detenzione amministrativa e la trasmissione alla Prefettura di Brindisi, al Ministro dell’Interno, ai Presidenti del Senato e della Camera, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri al Presidente della Regione Puglia; ai gruppi consiliari della Regione Puglia. Adesioni - Mesagne Bene Comune Odv, La Collettiva Tfq Brindisi, Digiuno di Giustizia in solidarietà coi Migranti - Bari, Tutori Msna Puglia Odv, Associazione Migrantes Brindisi OdV, Cnca Puglia, Arci Brindisi, Arci Puglia, Anpi Brindisi, Voci della Terra Odv, Officine M.A.I. +,, Cir-Consiglio Italiano dei Rifugiati, Comunità Africana di Brindisi e Provincia APS, Ass. Mali Yiriwa Tòn Puglia, Nigeria Union of Brindisi and Province, Ghana National Association in Brindisi, Compagni di Strada, Medicina Democratica, Cild-Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili, Associazione Progetto Diritti, LasciateCIEntrare, Free Home University (Salento), Comitato Io Accolgo Puglia, Peacelink nodo di Lecce, Missionari Comboniani di Cavallino, LE, Diritti a Sud, SeminAzioni APS, Associazione il Giunco Ets, Aps Street View, Fridays For Future Lecce, Scuola di Dialogo Mesagne, LeA Liberamente e Apertamente, Arci Cassandra, Associazione Dottorandi/e Italia (Adi) Lecce, APE06-AlterProjectEmpowerment, Associazione “La Solidarietà” comunità islamica Brindisi. L’Europa avvelena i suoi pozzi. Così la pace sarà solo un armistizio di Massimo Cacciari La Stampa, 14 luglio 2025 Siamo ormai indifferenti a ogni ingiustizia, pronti a digerire ogni fake news di Musk e compagnia. L’Europa sta avvelenando i suoi pozzi. Come è possibile non vederlo oltre gli orrori della cronaca quotidiana? Le guerre si stanno conducendo in modo tale da rendere impossibile ogni pace che sia qualcosa di più di un armistizio, della continuazione della guerra in forme nascoste. Le guerre si stanno conducendo e vengono così narrate perché l’odio continui oltre ogni trattato. Se conduco la guerra contro il Nemico assoluto, questi resterà per forza tale anche se sarò costretto dalle circostanze a firmare con lui un patto o a fingere di stringergli la mano. È totalmente crollato quel principio che predicavano sia Giovanni Gentile che Benedetto Croce davanti alla prima Grande Guerra: se la guerra viene condotta contro il Male, se l’avversario ne è l’incarnazione da annientare e basta, essa diverrà per forza la guerra dei “bestioni”, espressione di perfetta barbarie. “Ogni vita recisa sul campo di battaglia è un anello infranto nell’aurea catena dello spirito” scriveva Gentile. I realisti da paese degli Stenterelli credono che “spirito” sia termine astratto - in realtà indica la concretissima fatica di costruire relazioni, di riconoscere le ragioni dell’altro, di esplorare ogni via per giungere almeno a fra-intendersi. Lo spirito non è un ingenuo irenista, ma di fronte a qualsiasi conflitto si chiede: è davvero necessaria la guerra per risolverlo? È davvero necessario recidere anche una sola vita per giungere a porvi termine? La politica che non sia responsabile, e cioè che non risponda con coscienza, avvertendone il tremendo peso, a questa domanda, è una politica irresponsabile per definizione. Iustum bellum quibus necessarium - così Livio. Sì, questo è linguaggio romano, gentile Presidente(ssa). E lasci perdere, per carità, “si vis pacem para bellum”, i romani, ahi noi, amavano fare le guerre e chiamavano pace la loro vittoria. In che altro modo giustificare la guerra se non perché non possiamo che ritenerla necessaria? Questa sola è la guerra che è vera, ultima ratio della politica. Altrimenti essa non è che il fallimento dell’azione politica, la sua dichiarazione di impotenza e di irrazionalità. Non vi è La Guerra, ma tante diverse forme di guerra, tra eserciti regolari oppure, come sempre più avviene, condotta attraverso azioni terroristiche, ma è guerra anche quella che stressa l’avversario per mezzo della competizione economica e tecnologica, e sempre tutte si accompagnano a fattori mitico-ideologici. Quale è, tuttavia, la sola che il vero politico potrebbe definire necessaria? Quando lo scontro è tra movimenti di tettonica energia che vogliono sommergere l’altro, inglobarlo in sé. Questo avvenne con le guerre napoleoniche. Questo si è ripetuto con la seconda Grande Guerra. Forse anche la prima va sotto questo segno: l’imperialismo tedesco mirava a costruire una grande Mitteleuropa fagocitando in sé il decrepito impero asburgico e ciò imponeva un aut-aut ineludibile con l’impero oceanico anglo-sassone. Non fu questa in alcun modo, invece, la situazione della “guerra fredda”, che mise termine all’altro millennio. La competizione fu forte e a tutto campo, ma avvenne sempre nel riconoscimento, volenti-nolenti, delle ragioni dell’altro, ed era competizione del tutto asimmetrica, poiché nessuna persona dotata di intelletto poteva non vedere la strapotenza economica, strategica, tecnologica dell’uno dei Titani sull’altro, almeno a partire dagli anni 60. Kissinger, l’europeo Kissinger, educò i dottor Stranamore, numerosissimi a casa sua, a questa lapalissiana verità: l’Urss la si vince con una competizione a tutto campo e non sventolando paranoiche paure sul Nemico come Male assoluto. È necessaria la guerra con la Russia, neppure lontanissima parente dell’Urss? O non sarebbe stato piuttosto necessario richiedere contestualmente, al momento stesso dell’invasione, l’immediato ritiro, da un lato, e la ripresa dei negoziati al più alto livello attorno agli stracciati (da chi?) accordi di Minsk, dall’altro? Come è possibile continuare per anni una narrazione totalmente fasulla sulla possibilità di una vittoria militare, sul campo, dell’Ucraina contro la Russia? Una simile vittoria implica l’impegno militare esplicito e in prima persona dell’Occidente. E cioè degli Stati Uniti. Ovvero, la dichiarazione di una Grande Guerra Necessaria. E ora si dà l’increscioso caso che il soggetto principale, l’America (l’Occidente è americano da quasi un secolo) dichiari esplicitamente che tale Guerra non è oggi per lei affatto necessaria, anzi affermi, quasi senza mezzi termini, che essa è il frutto dell’insipienza strategico-politica della precedente Amministrazione. Necessaria oggi per gli Stati Uniti appare l’egemonia militare israeliana in Medio Oriente, la eliminazione anche della più remota possibilità di uno Stato palestinese, e, con l’implicita accondiscendenza moscovita, l’interruzione sine die del programma nucleare iraniano, in attesa di far tornare in quel Paese la famosa democrazia degli Scià, e vendicare così il clamoroso smacco subito negli anni ‘70 (era appena caduta Saigon!). Ma tutto ciò è certamente conseguibile senza Grande Guerra. Certo, si tratta di una strategia irta di difficoltà, contro la quale però non si erge alcun Nemico in grado sulla carta di rovesciarla. Quale peso abbiano per essa diritto internazionale e diritti umani lo ha espresso con lucido, commendevole cinismo il segretario di Stato Rubio minacciando la dr.ssa Albanese, rappresentante dell’Onu e cittadina italiana, non suddita trumpiana. Parole alle quali le nostre autorità politiche hanno risposto col più coraggioso ed eloquente dei silenzi. È evidente che i diritti umani vengono difesi e chi li offende subisce sanzioni quando si tratta della Russia, mentre non esistono per donne e bambini di nazioni senza esercito e senza alcuna possibilità di “fare la guerra se vuoi la pace”. Ecco che significa avvelenare i pozzi. I comportamenti dell’Occidente stanno avvelenando i pozzi del nostro spirito, rendendoci indifferenti con incredibile rapidità a ogni ingiustizia, a ogni sopruso, e pronti a digerire ogni fake news che ci venga propinata dai Musk e compagnia. Ma così si avvelena anche il pozzo della necessaria alleanza europea con gli Stati Uniti. La “guerra” dei dazi sta lì a dimostrarlo. Essa è segno e conseguenza del crollo di ogni ordine fondato sul diritto, di ogni Nomos della Terra. Arma, distruggi, ricostruisci: come lavora l’immobiliare della guerra di Elena Granata Avvenire, 14 luglio 2025 Trump rilanciato l’idea di trasformare Gaza in una Riviera del Medio Oriente. Il ministro israeliano Israel Katz vuole una “città umanitaria” sulle macerie di Rafah. Come si guadagna sull’urbanistica. Da urbanista sono abituata a riconoscere nelle immagini satellitari la forma degli edifici, la trama delle strade, la densità dell’urbanizzato. Ma a Gaza è la devastazione a prevalere, un vuoto che non richiama più nulla di ciò che, fino a pochi mesi fa, era un tessuto urbano vivo. Qualcuno parla di urbicidio o di ecocidio, perché anche la natura è stata annientata, ma forse queste parole non dicono abbastanza. La scrittrice palestinese Zena Agha parla di “disinvenzione”: la volontà sistematica di cancellare l’esistenza stessa di un luogo dalla memoria collettiva. Come se quel luogo non fosse mai esistito. Nei ricordi dei nostri vecchi restano ancora vive le immagini di Milano bombardata nel 1943, così come quelle di Roma o Dresda. A Milano morirono sotto le bombe circa mille persone. A Roma, tremila. Oggi, a Gaza, i numeri sono di tutt’altra scala e la distruzione è totale. Una vera e propria tabula rasa. E la tabula rasa è la condizione ideale di un certo immaginario immobiliare, lo stesso che anima il presidente Trump, che aspira ad operare in contesti svuotati di ogni memoria, su cui impiantare un nuovo potere economico e una nuova estetica del lusso. La spirale del ciclo bellico-immobiliare ha purtroppo una sua coerenza - arma, distrugge, ricostruisce, guadagna - e gli interessi di chi distrugge convergono con quelli di chi ricostruisce. La guerra è seguita dalla ricostruzione, presentata come atto di speranza, di pace, di solidarietà internazionale. Ma dietro la retorica della rinascita si celano logiche di profitto che più cinico non si può. Così le guerre moderne, ce lo spiega da anni inascoltato l’economista della pace Raul Caruso, generano un continuum di guadagni, con la produzione e la vendita di armi, la ricostruzione affidata ad agenzie statali o imprese private, il controllo politico ed economico delle aree devastate. In questo quadro si muoverebbero anche le 60 aziende denunciate da Francesca Albanese, relatrice Onu per Gaza (Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio). Il 4 febbraio scorso Trump ha rilanciato l’idea di trasformare Gaza in una Riviera del Medio Oriente, reinsediando altrove i palestinesi, e molti l’hanno liquidata come una boutade. Eppure, oggi quel progetto appare meno occasionale di quello che si poteva credere: il clima di Gaza è simile a quello della Florida, e l’inviato di Trump in Medio Oriente, Steve Witkoff, è un imprenditore immobiliare di lungo corso. Peace to Prosperity, il piano commissionato da Trump nel 2020, già parlava di Gaza come di un’area dal “potenziale straordinario”: un processo di pacificazione con le fattezze di un’operazione immobiliare. Da anni l’architetto israeliano Eyal Weizman denuncia l’uso dell’urbanistica come arma di guerra: che separa ciò che sta sopra da ciò che sta sotto, chi può volare da chi è confinato al suolo, chi controlla le risorse naturali da chi ne è privato. Che progetta un futuro fatto di resort di lusso e campi di concentramento, separati da muri. Di cosa parla infatti il ministro israeliano Israel Katz quando annuncia la costruzione di una “città umanitaria” sulle macerie di Rafah, destinata a ospitare l’intera popolazione superstite di Gaza? Viene alla mente una città-prigione o forse, come ha osservato recentemente Raniero La Valle, una tonnara, un luogo dove i tonni vengono spinti e ammassati prima della mattanza. E l’aggettivo umanitaria suona davvero sinistro. In altri luoghi e con altre forme il paradigma immobiliare ispira altre ricostruzioni. In Ucraina, le Conferenze internazionali propongono partenariati pubblico-privati, grandi fondi, riforme di mercato. La ricostruzione diventa vetrina, assume il linguaggio dell’immobiliarista, come se quelle terre non fossero ancora intrise di morte e sofferenza. Restiamo allibiti dinanzi alla retorica di siti come AdvantageUkraine.com dove è lo stesso Zelensky a vendere la ricostruzione come “la più grande opportunità per l’Europa dalla Seconda guerra mondiale”. Restituiamo alla parola ricostruzione il suo senso più profondo, il suo intrinseco e umano pudore: è un processo di pacificazione, di giustizia, di ascolto delle comunità, di restituzione e riparazione. Non può bastare ricostruire i monumenti, regalarsi a imprese estere, ingaggiare le università. Restituire vita a una comunità richiede di dare voce a chi ha vissuto e sofferto, sostenere piani che nascano dalle vittime. Per questo servirebbe un ministero della Pace credibile. La pace e la ricostruzione possono essere affidate a chi ha armato la guerra? Stati Uniti. Una giudice federale ha limitato gli arresti indiscriminati dell’ICE a Los Angeles di Lucrezia Agliani ultimavoce.it, 14 luglio 2025 Negli Stati Uniti, la questione dell’immigrazione e delle pratiche di gestione dell’Amministrazione Trump è tornata al centro dello scontro politico e giudiziario, questa volta con una sentenza. Una giudice federale ha emesso un provvedimento temporaneo che limita l’azione dell’ICE a Los Angeles. L’agenzia per il controllo dell’immigrazione si vede infatti privata della propria discrezionalità, in particolare nella contea di Los Angeles e in altre aree della California, con l’obiettivo di fermare tutti gli arresti e le violenze perpetrate dal reparto istituzionale. L’ordinanza si propone di fermare arresti considerati discriminatori e condotti senza mandato, evidenziando presunte violazioni dei diritti costituzionali degli individui fermati. Il caso, nato da una causa collettiva presentata da cittadini e migranti detenuti, ha generato un acceso confronto tra attivisti, giuristi e rappresentanti del governo. Mentre le comunità latinoamericane si mobilitano per chiedere giustizia, l’amministrazione Trump difende le proprie pratiche sostenendo di operare nel rispetto della legge. L’ordinanza rappresenta dunque un momento chiave in una battaglia legale che potrebbe ridefinire i limiti e le responsabilità delle autorità federali in materia di immigrazione. Al centro della decisione c’è la Giudice Maame E. Frimpong che, attraverso un ordine separato, ha anche decretato il divieto della limitazione dell’accesso degli avvocati in una struttura di detenzione per le persone immigrate a Los Angeles. Questa decisione è arrivata in seguito alle proteste delle famiglie e dei legali delle persone immigrate, che denunciano detenzioni basate sulla discriminazione razziale e negazione di diritti fondamentali in stato di detenzione, quale l’assistenza di un avvocato o di una qualsiasi consulenza legale. I poteri, finora indiscriminati e altamente violenti, dell’ICE a Los Angeles sono stati per ora limitati: includendo un’area che va oltre la città di Los Angeles, l’agenzia per l’immigrazione non potrà più effettuare le operazioni di arresto. L’ordine stabilisce anche che l’ICE non potrà più effettuare fermi sulla base dell’aspetto fisico, della lingua parlata o della professione di una persona. Una misura d’urgenza, nata come risposta legale a una pratica ritenuta da molti attivisti e giuristi come incostituzionale. La decisione di Maame E. Frimpong arriva mentre prosegue l’esame di una causa intentata da un gruppo di immigrati e cittadini statunitensi che denunciano gravi abusi durante le retate dell’ICE a Los Angeles. L’ordine restrittivo temporaneo, presentato durante un’udienza presso la Corte Distrettuale, vieta anche agli agenti federali di impedire l’accesso degli avvocati ai detenuti in centri di detenzione come quello di Los Angeles. Le accuse sollevate comprendono violazioni del Quarto e del Quinto emendamento della Costituzione, che tutelano rispettivamente contro perquisizioni e sequestri irragionevoli e garantiscono il giusto processo. Nella tarda serata di venerdì, è arrivata la risposta della Casa Bianca, che ha rivendicato l’autorità decisionale in seno al Presidente: “Nessun giudice federale ha l’autorità di dettare la politica di immigrazione, tale autorità è con il Congresso e il presidente”, ha affermato la portavoce Abigail Jackson. “Ci aspettiamo che questo grossolano overstep dell’autorità giudiziaria sia corretto in appello”. Secondo Jackson, le operazioni dell’ICE richiedono competenze specifiche che vanno ben oltre la giurisdizione di un tribunale. Ha inoltre preannunciato un probabile ricorso in appello per ribaltare quella che è stata definita “una grave invasione del potere esecutivo”. Le tensioni tra le comunità ispaniche e le autorità federali si sono intensificate con l’aumento delle operazioni dell’ICE, spesso condotte in luoghi pubblici come Home Depot, autolavaggi e persino nei pressi dei tribunali. Le retate avvengono sovente senza mandato giudiziario, grazie a una normativa che consente all’ICE di operare con autorizzazioni interne, bypassando i requisiti imposti alle forze di polizia ordinarie. Secondo l’ACLU, gli agenti si sono basati su “quote arbitrarie di arresto” e su “stereotipi etnici” per individuare i sospetti. Tra i firmatari della causa vi sono tre immigrati detenuti e due cittadini statunitensi. Uno di loro, Brian Gavidia, ha dichiarato di essere stato aggredito fisicamente dagli agenti nonostante avesse mostrato un documento d’identità valido. L’ACLU denuncia anche episodi in cui tutti i lavoratori di un autolavaggio, tranne due bianchi, sono stati fermati e trattenuti. I racconti contenuti nella causa parlano di retate indiscriminate condotte da agenti in borghese e non identificabili, con arresti motivati unicamente dalla presunta origine ispanica dei fermati. In risposta alle accuse, il Dipartimento della Sicurezza Nazionale ha negato ogni addebito. Tricia McLaughlin, portavoce del dipartimento, ha definito “disgustose e categoricamente false” le affermazioni secondo cui l’ICE avrebbe preso di mira le persone in base al colore della pelle. L’avvocato federale Sean Skedzielewski ha invece sostenuto che gli arresti sono basati su “una visione d’insieme” che comprende sorveglianza e informazioni raccolte sul campo, non sulla razza. Secondo il governo, esistono linee guida precise per garantire la conformità con il Quarto Emendamento. Il clima di paura generato dalle operazioni dell’ICE a Los Angeles ha spinto migliaia di persone a scendere in piazza nelle ultime settimane. Manifestazioni e rivolte si sono tenute in tutta la California meridionale, soprattutto a Los Angeles, dove si è denunciata la militarizzazione del territorio e il ricorso alla Guardia Nazionale. Nella contea di Ventura, durante un blitz in una fattoria di cannabis, gli scontri tra agenti federali e manifestanti hanno provocato tensioni e feriti. Gli attivisti accusano l’amministrazione Trump di aver condotto una vera e propria campagna di intimidazione razziale. Nonostante le difese sempre più aggressive della Presidenza, nell’ordinanza, la giudice Maame E. Frimpong ha parlato chiaramente di una “montagna di prove” che dimostrerebbe come l’ICE a Los Angeles abbia violato i diritti costituzionali dei fermati. Le testimonianze raccolte e le dinamiche degli arresti descrivono un quadro sistematico di violazioni, in cui la razza e l’origine etnica diventano elementi determinanti per giustificare i fermi. Il provvedimento resta una misura temporanea in attesa della decisione definitiva, ma segna un punto di svolta nella battaglia legale contro le politiche migratorie dell’amministrazione Trump. Il caso californiano dei poteri dell’ICE a Los Angeles non è solo una disputa legale locale, ma rappresenta un esempio emblematico delle tensioni che attraversano oggi gli Stati Uniti sul tema dell’immigrazione. Le accuse di razzismo sistemico e le violazioni dei diritti civili, e riconosciute dalla giudice Maame E. Frimpong tramite strumenti giuridici, pongono interrogativi profondi sulla legittimità dei metodi usati per far rispettare le leggi migratorie. La battaglia nei tribunali continua, ma il messaggio lanciato da Los Angeles è chiaro: le comunità più vulnerabili non resteranno in silenzio di fronte all’abuso di potere. Gaza è una nuova Srebrenica moltiplicata per dieci: un massacro sotto gli occhi dell’Onu di Giampiero Gramaglia* Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2025 “Trent’anni dopo, sta accadendo ancora”, osserva Amnesty International. Intaccate da Srebrenica e dagli scandali, la reputazione dei Caschi Blu e la fiducia nell’Onu sono logorate. 1945-2025, 80 anni di Nazioni Unite: la carta, firmata a San Francisco il 24 giugno, entrò in vigore il 24 ottobre, dopo la ratifica da parte dei Paesi membri - allora, 51; oggi, 193. 1995-2025, 30 anni dalla strage di Srebrenica: l’11 luglio, ricorre la Giornata internazionale istituita solo l’anno scorso dall’Onu, momento di riflessione e commemorazione del genocidio svoltosi nella località bosniaca: oltre 8000 uomini e ragazzi musulmani bosniaci vi furono trucidati. Una pagina, forse la più cruenta, della guerra in Bosnia-Erzegovina. L’eccidio, compiuto da unità dell’Esercito della Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladic, con l’appoggio di gruppi para-militari, è una macchia sulla fedina dell’Onu: l’area di Srebrenica, infatti, era stata dichiarata dalle Nazioni Unite zona protetta e vi stazionava un contingente olandese di caschi blu dell’UnProfor, acromico di Un Protection Force. L’UnProfor era stata istituita dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 1992 per “creare le condizioni di pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione complessiva della crisi jugoslava”, scoppiata dopo la dissoluzione della Repubblica federale di Jugoslavia e l’esplosione dei conflitti fra le diverse repubbliche e le diverse etnie. Frenato da consegne inadeguate, il contingente olandese non intervenne. Il genocidio (perché tale venne sancito da una sentenza del 2007 della Corte di Giustizia internazionale) si consumò quindi sotto gli occhi dell’Onu e, perciò, del Mondo. “Trent’anni dopo, ricordare quella strage non è solo un atto di memoria ma è un imperativo, perché oggi, sotto i nostri occhi, sta accadendo ancora”, osservava giorni fa Amnesty International, nell’imminenza dell’anniversario e col pensiero rivolto alla Striscia di Gaza. “Ricordare Srebrenica oggi - scriveva l’organizzazione umanitaria - significa riconoscere i segnali che troppo spesso ignoriamo e non accettare che l’impunità si ripeta - Mladic ed il leader politico dei serbo-bosniaci Radovan Karadzic furono successivamente arrestati e condannati, nda -. A Gaza stiamo assistendo alla distruzione sistematica d’una intera popolazione. Persone uccise dalle bombe, affamate, private di ogni possibilità di salvezza. Intere famiglie cancellate”. Ma se gli occhi della comunità internazionale sono puntati su Gaza, per documentare i crimini, chiedere con forza che si ponga fine al massacro in corso e pretendere giustizia, la risposta finora venuta dalle istituzioni internazionali e, in particolare, delle Nazioni Unite è debole e inadeguata. Gaza è una nuova Srebrenica moltiplicata per dieci e protratta nel tempo, senza che l’Onu sia stata neppure in grado di dire la sua, tanto meno di inviare una forza d’interposizione. Sull’ultimo numero de l’antifascista, bimestrale de l’Anppia (Assoviazione nazionale perseguitati politici italiani anti-fascisti), Massimiliano Sfregola, in un servizio dedicato ai Caschi Blu dell’Onu, ricorda che 11 missioni sono tuttora attive - l’ultima è stata inviata ad Haiti nel 2024 - e che circa 60 sono state messe in piedi dal 1948 a oggi. “Ma più che per crearne di nuove, oggi si discute se e quando fare cessare quelle esistenti. Alcune, come quelle istituite per monitorare il cessate-il-fuoco sulle Alture del Golan e in Kashmir, sono lì da tanto tempo che fanno parte del panorama. A Cipro, la missione UnFiCyp, istituita nel 1964, è la più longeva in assoluto, lungo la Green Line che separa greco-ciprioti e turco-ciprioti”. La loro utilità è ridotta, anche quando non sono simboliche, ma sostanziali. Gli effettivi dell’Unifil, dislocati lungo la Blue Line, la linea di interposizione tra Libano e Israele, sono oltre 10 mila (e c’è una forte presenza italiana); ma l’estate scorsa quei militari hanno fatto da spettatori, e da bersagli, quando Israele ha invaso il Sud del Libano. Trent’anni passati senza insegnarci nulla. Intaccate da Srebrenica, ma anche dagli scandali, la reputazione dei Caschi Blu e la fiducia nell’Onu si sono nel tempo logorate e intaccate. In autunno, quando al Palazzo di Vetro si celebrerà l’80° anniversario, ci sarà poco da festeggiare, in un Mondo che, tra rinascite dei nazionalismi e ripudi del multilateralismo, sembra avere abbandonato la strada della cooperazione internazionale e della responsabilità comune. *Giornalista, docente di giornalismo alla Sapienza Arabia Saudita. Anche quest’anno sarà record di condanne a morte di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2025 Il numero di 345 esecuzioni nel 2024 è il più alto mai registrato da Amnesty International in 30 anni. Un dato in netto contrasto con le dichiarazioni del principe Mohamed bin Salman. In un recente rapporto, Amnesty International ha denunciato l’allarmante aumento delle condanne a morte eseguite in Arabia Saudita, soprattutto per reati di droga e in particolare nei confronti di cittadini stranieri. Tra gennaio 2014 e giugno 2025, secondo fonti di stampa ufficiali, sono state messe a morte 1816 persone, quasi una su tre per reati di droga che secondo le norme e gli standard internazionali non possono essere puniti con la pena capitale. Delle 597 esecuzioni per reati di droga del decennio, quasi tre quarti hanno riguardato cittadini stranieri. Nel 2024 le esecuzioni in Arabia Saudita sono state complessivamente 345; nei primi sei mesi del 2025 sono state 180. Solo nel mese di giugno, sono state messe a morte 46 persone, 37 delle quali per reati di droga. Il numero di 345 esecuzioni nel 2024 è il più alto mai registrato da Amnesty International da oltre 30 anni. Circa il 35 per cento, 122, hanno riguardato reati di droga e questo è il dato più alto mai verificato dal 1990, quando l’organizzazione per i diritti umani ha iniziato a tenere i conti delle esecuzioni in Arabia Saudita. Nel 2024 l’Arabia Saudita è stato uno dei quattro Stati al mondo in cui sono state eseguite condanne a morte per reati di droga. Lo spaventoso aumento delle esecuzioni negli ultimi anni è dovuto all’annullamento dalla moratoria sull’uso della pena di morte per reati di droga, durato dal gennaio 2021 al novembre 2022. Da allora, l’Arabia Saudita ha eseguito 262 condanne a morte per reati di droga, quasi la metà del totale registrato negli ultimi dieci anni. In netto contrasto con precedenti dichiarazioni del principe della Corona Mohamed bin Salman, secondo il quale il regno stava limitando l’uso della pena di morte per i reati ta’zir (per i quali non è obbligatoria ma a discrezione del giudice), il rapporto di Amnesty International dimostra che i giudici ricorrono al proprio potere discrezionale per imporre, anziché evitare, le condanne a morte anche per reati diversi dall’omicidio volontario. Nel 2024 sono state eseguite 122 condanne a morte per reati ta’zir, nei primi sei mesi del 2025 sono state già 118. Le nazionalità più colpite dall’ondata di esecuzioni di cittadini stranieri nell’ultimo decennio sono state la pachistana (155 esecuzioni), la siriana (66), la giordana (50), la yemenita (39), l’egiziana (33), la nigeriana (32), la somala (22) e l’etiope (13). Decine di altri cittadini stranieri sono in imminente pericolo di esecuzione. I cittadini stranieri non sono sottoposti a processi equi, in uno stato che non è il loro e il cui sistema giudiziario è inerentemente opaco. “Non sappiamo se [gli imputati] siano in possesso degli atti giudiziari. Noi non possiamo ottenerli perché non c’è nessuno all’interno dell’Arabia Saudita cui rivolgerci, ad esempio un rappresentante legale. C’è poi la barriera linguistica. Mio fratello è stato arrestato una settimana dopo che, dall’Etiopia, era giunto in Yemen e da qui aveva attraversato il confine saudita. Non sapeva nulla di cosa avrebbe potuto succedergli”, ha dichiarato un parente di un condannato a morte. Amnesty International, insieme alla European Saudi Organization for human rights e al Justice Project Pakistan ha documentato i casi di 25 cittadini stranieri provenienti da Egitto, Giordania, Pakistan e Somalia condannati a morte per reati di droga e in attesa di esecuzione o già impiccati. Parlando approfonditamente con 13 familiari dei 25 condannati a morte, esponenti delle comunità di appartenenza e autorità consolari, nonché esaminando gli atti processuali, Amnesty International è giunta alla conclusione che lo scarso livello d’istruzione e le condizioni socio-economiche svantaggiate delle persone in questione hanno aumentato il rischio di essere sfruttate nel percorso migratorio e reso più difficile accedere a forme di rappresentanza legale in Arabia Saudita. Questa, infatti, è del tutto mancata. L’assistenza consolare è stata inadeguata e i servizi d’interpretariato sono risultati inefficaci. Almeno in quattro dei 25 casi, gli imputati sono stati sottoposti a maltrattamenti e torture durante la detenzione preventiva per estorcere loro “confessioni”. Ad esempio, durante il processo Hussein Abou al-Kheir, 57 anni, padre di otto figli, ha più volte ritrattato quanto confessato, denunciando di essere stato picchiato così duramente da non riuscire a tenere in mano una penna. Ciò nonostante, il giudice ha usato la sua “confessione” come prova per condannarlo a morte. L’esecuzione è avvenuta nel marzo 2023. Le conseguenze psicologiche per le persone in attesa dell’esecuzione e per le loro famiglie sono immense. In molti casi non è noto a che punto sia il ricorso contro la condanna a morte o quando sarò programmata l’esecuzione. Talora, l’avviso viene dato solo un giorno prima. Vi sono stati casi in cui le famiglie hanno appreso la notizia dell’esecuzione dei propri cari attraverso altri detenuti o articoli di giornale. Le autorità saudite trattengono le salme delle persone messe a morte, negando alle loro famiglie il diritto a commemorarle e a seppellirle secondo i propri riti religiosi: per le Nazioni Unite, è una forma di maltrattamento. “Una volta tornati in Giordania, eravamo seduti in attesa, in silenzio, in salotto. Quando è arrivata la notizia [dell’esecuzione] abbiamo iniziato a urlare come pazzi. Eravamo devastati, specialmente perché non avevamo un corpo da commemorare, non abbiamo potuto fare alcuna cerimonia funebre”, ha ricordato Zainab Abou al-Kheir, la sorella di Hussein. Oltre che per i reati di droga, Amnesty International segnala un altrettanto allarmante aumento dell’uso della pena di morte per reati di “terrorismo” nei confronti della minoranza sciita: pur costituendo solo il 10-12 per cento della popolazione totale, tra gennaio 2024 e giugno 2025 sono stati messi a morte per reati di “terrorismo” 120 condannati su 286, il 42 per cento. Si tratta di una repressione politica contro un gruppo discriminato da tempo, i cui dissidenti pacifici vengono spesso processati per “terrorismo”. Nonostante alcune recenti riforme destinate ufficialmente a limitare l’uso della pena di morte nei confronti di persone minorenni al momento del reato, sette prigionieri - alcuni dei quali avevano 12 anni all’epoca del loro presunto reato - sono in pericolo di esecuzione; quattro di loro sono stati recentemente sottoposti a un nuovo processo, terminato a sua volta con una condanna a morte. L’imposizione della pena capitale nei confronti di persone minorenni al momento del reato è assolutamente vietata dal diritto internazionale, compresa la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia, vincolante per l’Arabia Saudita. *Portavoce di Amnesty International Italia Dal Paese delle carceri vuote al sovraffollamento: la Svezia punta a inviare i detenuti in Estonia di Chiara Sgreccia La Repubblica, 14 luglio 2025 Un approccio che preoccupa le organizzazioni per i diritti dei detenuti. Dovuto non solo all’ondata di criminalità ma anche alla trasformazione del sistema penitenziario a causa delle politiche punitive dell’estrema destra. Dal modello scandinavo, basato sulla riabilitazione, a uno punitivo, che punta a recludere i detenuti. Così la Svezia negli ultimi dieci anni è passato dall’essere il Paese delle carceri vuote, in cui gli istituti penitenziari chiudevano perché non c’erano abbastanza persone da mettere in cella, a quello del sovraffollamento delle prigioni. Che, per uscire da “una situazione di crisi” a causa delle galere troppo piene, come l’ha definita il capo del personale penitenziario, Joakim Righammar, si organizza per trasferire i suoi detenuti all’estero, in modo da liberare posti nelle carceri nazionali. Come spiega il Guardian, infatti, la scorsa settimana il Dipartimento di Giustizia svedese ha fatto sapere di aver incaricato il Kriminalvården, cioè l’agenzia governativa per il servizio penitenziario e di libertà vigilata svedese, di avviare i preparativi per attuare il programma estone. Per costruire la basi, quindi, per mettere in pratica l’accordo firmato lo scorso giugno tra Stoccolma e Tallin secondo cui l’Estonia affitterà alla Svezia 400 celle per ospitare fino a un massimo di 600 detenuti nel carcere di Tartu, nella parte sud-orientale del Paese. Con un costo, per ogni persona reclusa, di 8.500 euro al mese, escluse le spese di trasporto da e per la Svezia. Mentre in Svezia, il costo è di circa 11.500 euro al mese per detenuto. Sulla base dell’accordo, che secondo il ministro della Giustizia entrerà in vigore dalla primavera del 2026, anche se deve ancora essere approvato dai Parlamenti di entrambi i Paesi, tutto il carcere di Tartu sarà a disposizione della Svezia. Al suo interno si applicherà la legge estone, molto simile a quella svedese per quel che riguarda le pene detentive, nella maggior parte dei casi. E il personale penitenziario svedese sarà sul posto per addestrare le guardie estoni. “L’accordo alleggerirà significativamente il carico sul sistema carcerario svedese”, aveva dichiarato il Ministro della Giustizia Gunnar Strömmer subito dopo la firma del patto Tallin-Stoccolma. Non tutti, però, sono soddisfatti dell’accordo per l’esternalizzazione dei detenuti. Non soltanto perché la proposta di inviare i condannati a 400 chilometri di distanza dal Paese in cui hanno gli affetti e la rete familiare, ha implicazioni che preoccupano le associazioni che si occupano di tutela dei diritti dei detenuti. Ma anche perché il sovraffollamento delle carceri, e quindi la necessità di affittare celle in altri Stati, è la conseguenza di un cambiamento strutturale del sistema carcerario svedese che sta abbandonando la sua propensione alla riabilitazione, al reinserimento del detenuto all’interno della società, che per decenni ha fatto della Svezia un modello da imitare, in favore di approccio punitivo, che punta a isolare, allontanare e rinchiudere chi commette reati. “È terrificante che questo stia succedendo senza un ampio dibattito al riguardo: stiamo assistendo a un’incarcerazione di massa, come abbiamo visto negli Stati Uniti, e sappiamo che non funziona. Sappiamo che succederà il contrario, la situazione peggiorerà”, ha detto al Guardian Emelí Lönnqvist, ricercatrice all’università di Stoccolma, che si occupa di politiche criminali e dell’analisi degli istituti penitenziari nei Paesi nordici. Sottolineando come “un approccio razionale e umano alle politiche criminali in Svezia è semplicemente scomparso”. Lönnqvist evidenzia anche che se queste sono davvero le politiche carcerarie che il governo svedese intende perseguire, 600 posti in più rappresentano poco più di una goccia nel mare. Secondo un recente rapporto del Kriminalvården, infatti, il numero di detenuti nel Paese è destinato a salire dagli attuali 7.800 a 41.000 entro il 2034. Il cambio di passo netto nel sistema penale è dovuto sia all’ondata di criminalità che sta segnando il Paese negli ultimi anni, che ha fatto della Svezia, ad esempio, lo Stato con più casi di violenza armata mortale pro capite dell’Unione europea. Soprattutto a causa della violenza delle gang, spesso commessa da minori di 18 anni. Ma è anche conseguenza delle politiche punitive promosse dai partiti di destra, tra cui gli estremisti Democratici Svedesi che dopo l’ottimo risultato raggiunto alle elezioni del 2022 influenzano le decisioni del governo di Stoccolma.