“Il diritto all’informazione vale anche dietro le sbarre” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2025 L’Ordine dei giornalisti difende i giornali scritti dai detenuti. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ha approvato un ordine del giorno firmato dai consiglieri Pallotta e De Robert per “tutelare i giornali dove collaborano i detenuti”. Un atto di richiamo all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, che chiedono il rispetto del diritto di libera informazione anche dietro le sbarre. In Italia le carceri restano luoghi isolati, dove la trasparenza fa fatica a farsi strada. Il tasso di sovraffollamento è giunto a sfiorare il il 135%, nelle carceri italiane, e mette a repentaglio perfino le vite degli oltre 62 mila reclusi. Numeri che spiegano perché un laboratorio di scrittura in carcere non sia mai solo un esercizio creativo, ma un presidio di democrazia e di umanità. Eppure, in più strutture sono stati imposti controlli preventivi sui testi o bloccati persino gli acquisti di libri: è successo con “Un’altra storia inizia qui” dell’ex ministra della giustizia Marta Cartabia. Nella Casa di reclusione di Roma Rebibbia, dove si pubblica il giornale “Non tutti sanno”, frutto del laboratorio condotto da un giornalista professionista, in un primo tempo la Direzione ha comunicato che la persona detenuta autore dell’articolo dovesse richiedere autorizzazione per poterlo firmare con nome e cognome, visto che la pubblicazione degli articoli era prevista con le iniziali del nome e cognome, nome di fantasia o di battesimo. Solo recentemente, il diritto alla firma con nome e cognome è stato finalmente riconosciuto. Nella Casa circondariale di Lodi, la Direzione dell’Istituto “chiede” una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di “Altre storie” e pubblicati dal quotidiano della città Il Cittadino e di entrare nel merito della scelta degli argomenti da trattare, vietando temi sensibili come, per esempio, quello dell’immigrazione. Nella Casa circondariale di Ivrea, il 15 giungo 2025, mesi di sospensione “tecnica” del giornale “La Fenice”, edito dall’Associazione Rosse Torri, sospensione imposta dalla Direzione, la stessa ne ha deciso la chiusura, ha annullato gli incontri, bloccato i computer e sospeso l’autorizzazione all’ingresso in carcere ai volontari che portavano avanti il laboratorio. Nella Casa circondariale a Trento, dopo dieci anni di presenza in carcere come volontario, non è stata rinnovata l’autorizzazione all’ingresso al Direttore del periodico “Non solo dentro”. Guarda caso, successivamente alla pubblicazione di articoli che evidenziavano una serie di criticità della realtà penitenziaria. Sono fatti che ledono i diritti fondamentali: l’articolo 21 stabilisce che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”, mentre l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario garantisce “il diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni” agli utenti del carcere. Il Consiglio nazionale dell’Ordine chiede al ministro della Giustizia e al capo del Dap di intervenire subito, perché il controllo preventivo non diventi prassi. L’ordine del giorno sottolinea anche il valore rieducativo di questi laboratori: non sono semplici corsi di scrittura, ma un percorso di responsabilizzazione e di reinserimento sociale. Il Consiglio si impegna a monitorare la situazione insieme al coordinamento dei giornali e delle realtà dell’informazione carceraria, per evitare che un diritto costituzionale si trasformi in un privilegio concesso a discrezione delle direzioni. La posta in gioco non riguarda solo i detenuti, ma l’intera comunità: concedere a chi vive dietro le sbarre di raccontare la propria storia significa rafforzare il sistema democratico, migliorare la trasparenza e contrastare la sfiducia verso le istituzioni. Se tenere un giornale in carcere diventa un pretesto per impedirne l’uscita, perde senso il concetto stesso di pena rieducativa. “Quando i detenuti denunciano il sovraffollamento, le celle fatiscenti o la mancanza di acqua calda, alcune Direzioni vedono un’immagine “negativa” da censurare. Ma quei problemi sono reali, e tacere non li risolve”, aveva denunciato Francesco Lo Piccolo, giornalista e direttore di Voci di dentro, trimestrale scritto da detenuti ed ex detenuti. Il prossimo passo sarà verificare che le parole dell’Ordine non restino appese a un comunicato, ma trovino applicazione concreta in tutte le carceri italiane. A Rebibbia il laboratorio “Spes contra spem” di Nessuno tocchi Caino di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2025 Detenuti e parlamentari uniti per la liberazione anticipata speciale. Nel carcere romano confronto tra detenuti e politici di ogni schieramento. Appello corale al Parlamento: “Serve un intervento urgente contro il sovraffollamento”. L’associazione Nessuno tocchi Caino ha da poco concluso il suo laboratorio “Spes contra spem” nel carcere romano di Rebibbia che ha visto la partecipazione, con i dirigenti della associazione Sergio D’Elia, Segretario, Rita Bernardini, Presidente ed Elisabetta Zamparutti, Tesoriere e propri militanti, di parlamentari di tutti gli schieramenti politici iscritti a Nessuno tocchi Caino. Da Marco Scurria (FdI), Simonetta Matone (Lega), Andrea Orsini (FI) , Walter Verini (PD), Valentina Grippo (Azione), Benedetto Della Vedova (+Europa) a Maria Elena Boschi e Roberto Giachetti (Italia Viva). Nella sala stracolma del G8 si è svolto un confronto tra detenuti e parlamentari sulla proposta di liberazione anticipata speciale elaborata da Nessuno tocchi Caino e depositata alla Camera da Roberto Giachetti (IV) sulla quale il Presidente del Senato Ignazio La Russa, come anche il vice presidente del CSM Fabio Pinelli, hanno manifestato il loro sostegno. In apertura Sergio d’Elia, ha apprezzato le parole recentemente espresse dalle massime cariche dello Stato, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato e il Vice Presidente del CSM Fabio Pinelli perché sia affrontato con urgenza il problema del sovraffollamento carcerario. Il laboratorio è stato dedicato a loro ed è stato salutato da un messaggio del Presidente del Senato Ignazio La Russa. Lo ha letto il Senatore Marco Scurria. Per Scurria, affrontare l’emergenza del sovraffollamento è “una battaglia di civiltà” che lo impegna come parlamentare prima ancora che come appartenete a un partito politico. Con questo stesso spirito è intervenuta Simonetta Matone che ritiene che il provvedimento per la liberazione anticipata speciale serva anche a evitare altre condanne da parte della CEDU sulle condizioni inumane e degradanti nelle carceri. Il Senatore Walter Verini, che ieri era in visita al carcere di Rieti dove ci sono stati disordini e dove ha constato un gravissimo sovraffollamento (500 detenuti su 250 posti con una forte carenza di personale) ha ringraziato Gianni Alemanno per condurre una battaglia autenticamente politica perché nell’interesse di tutti. Maria Elena Boschi ha sottolineato la necessità di fare uno scatto in avanti e di coinvolgere nella conoscenza delle condizioni detentive gli stessi magistrati. Benedetto Della Vedova ha ricordato l’aggravante che si abbatte sulla popolazione detenuta, stipata in celle sovraffollate, per la calura estiva che rende ancora più urgente intervenire ora. Per Andrea Orsini il carcere non può divenire un luogo di persecuzione e si sente impegnato per un lavoro serio come i detenuti meritano. Per Valentina Grippo l’ascolto delle voci dei detenuti è fonte di conoscenza. A questo proposito sono intervenuti Gianni Alemanno e Fabio Falbo, detenuti al G8, per dare una fotografia impietosa del carcere, con detenuti anche di 90 anni, di carenza di personale tale per cui ad esempio nel reparto G8 di 300 detenuti manca perfino il capo reparto e dove vengono miracolosamente e continuamente sventati tentativi di suicidio anche grazie al pronto soccorso dei detenuti. Roberto Giachetti ha detto “la legge che proponiamo interviene su un istituto che già esiste e può partire anche dal Senato e a nome anche di altri parlamentari. Non mi interessano le bandierine, ma il risultato”. Elisabetta Zamparutti ha sottolineato come rispetto ad un anno fa si sia estesa la consapevolezza della crisi umanitaria che si consuma in carcere ed elevata la coscienza come hanno manifestato dagli interventi sulla insostenibilità delle condizioni detentive delle massime cariche delle Stato. Condizioni che devono essere conosciute nella loro gravità dalla opinione pubblica ancora tenuta all’oscuro su questo. Ha concluso il laboratorio Rita Bernardini che, al suo 27 giorno di sciopero della fame (iniziato il 15 giugno) ha accolto il corale appello a sospenderlo, per il momento, facendo fiducia sui prossimi passi volti ad incardinare il provvedimento sulla liberazione anticipata speciale in Parlamento. La Presidente di Nessuno tocchi Caino ha chiesto anche di poter incontrare il Ministro della Giustizia Carlo Nordio “fossanche per sentirmi dire da lui che è in totale disaccordo con me”. Giachetti: “Nelle carceri la situazione è drammatica, anche l’ora d’aria non è più garantita” di Miriam Di Peri La Repubblica, 13 luglio 2025 Intervista al deputato di Italia Viva: “Dalla carenza di assistenti sociali a quella degli psicologi, è la paralisi del sistema che preoccupa”. Questo Governo mi accusa di volere lo svuota carceri, ma loro fanno di tutto per affollarle. La situazione è diventata insostenibile”. Roberto Giachetti ieri mattina è tornato dietro le sbarre di Rebibbia per assistere a un laboratorio dei detenuti. Era lì quando è stato letto il messaggio del presidente del Senato, Ignazio La Russa, nel quale conferma che il sistema detentivo vada rivisto. Adesso l’esponente di Italia Viva è fiducioso: “Potremmo tornare a confrontarci in Parlamento”. A partire dalla sua proposta di legge per la liberazione anticipata? “L’obiettivo è far sì che quella proposta sia presa in considerazione. Diciamo che questa apertura in cui il presidente del Senato ritiene che sia necessario un intervento sull’emergenza attuale è molto significativa. Poi bisognerà vedere a cosa questo porterà. Anche Meloni in passato ha sottolineato che il governo non avrebbe avanzato proposte, ma ha fatto anche intendere che davanti a un’iniziativa parlamentare lei non si sarebbe messa di traverso”. Insomma, l’apertura di La Russa vi fa ben sperare? “La sensazione che abbiamo è che sul piano parlamentare possa partire un treno che l’anno scorso non era riuscito a partire”. Avete trovato una situazione di stallo o ci sono dei peggioramenti dietro le sbarre? “Abbiamo avuto la conferma che è una situazione drammatica. Ci sono due numeri che fanno paura: il sovraffollamento carcerario e l’organico sottodimensionato della polizia penitenziaria. E poi al di là delle condizioni inumane e degradanti nelle quali vivono i detenuti è la paralisi del sistema a preoccupare, dalla carenza di assistenti sociali a quella degli psicologi. Si fa fatica a garantire addirittura l’ora d’aria, che dovrebbe essere un diritto per persone che magari stanno in cella 18 ore al giorno. E invece certe volte è compromessa dal fatto che essendoci pochi agenti di custodia, non riescono col sovraffollamento a garantirla a tutti. È una situazione che obiettivamente sta esplodendo. Basti provare a immaginare cosa significa restare dietro le sbarre con questo caldo”. Che ne pensa delle polemiche sulla separazione delle carriere? “Io sono d’accordo alla separazione, ma lo ero molto prima che il governo la proponesse. Non mi piace che loro continuino ad usarla come arma contundente contro la magistratura. La trovo una cosa assolutamente insopportabile, che peraltro inquina anche quello che è il valore di una riforma che io ritengo giusta”. Appello di La Russa ai partiti: “Sull’emergenza carceri serve un cambio di passo” di Conchita Sannino La Repubblica, 13 luglio 2025 Il presidente del Senato a Nessuno tocchi Caino: “Emarginazione e degrado vanificano l’obiettivo di riscatto e recupero sociale”. “Serve una svolta, ora”. E sono tre: solo sul carcere e sul dovere di agire per il sovraffollamento. Soltanto a contare negli ultimi due mesi le sue esortazioni pubbliche e meditate. Offerte erga omnes, ma dirette in realtà ai suoi. E, soprattutto, a via Arenula. Ignazio La Russa non ha intenzione di fermarsi e lancia un appello formale per un’iniziativa speciale a favore della “comunità delle persone detenute”. L’emergenza sovraffollamento, scrive, “genera malessere e amplifica la percezione del carcere come luogo di degrado ed emarginazione”. È un dramma “che richiede ormai un cambio di passo”. E “la tutela della dignità è un obbligo”, rimarca ieri la seconda carica dello Stato, nella lettera che ha voluto inviare a un incontro organizzato nella casa circondariale di Rebibbia, per Nessuno tocchi Caino guidata da Rita Bernardini e il laboratorio di un fronte ampio di parlamentari. Un’altra spinta. In linea con il monito del Capo dello Stato (“sovraffollamento insostenibile, i suicidi emergenza sociale”), citato a Rebibbia. In sintonia anche con le parole ferme di Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, nell’intervista di ieri a Repubblica: “Va superata la visione che abbiamo: carcero-centrica, quasi medievale”. Così La Russa non molla. Dopo aver esortato - era un convegno con monsignor Fisichella il 15 maggio - maggioranza e opposizione “a trovare una soluzione perché la sofferenza nelle celle non è né di destra, né di sinistra”; dopo aver bacchettato pubblicamente il ministro della Giustizia, giovedì scorso, nell’aula del Senato, sospirando a Nordio, “speriamo la strategia dia frutti a breve, perché nelle carceri l’estate incombe”, ecco il messaggio inviato ieri a Bernardini, che intanto decide di sospendere lo sciopero della fame. All’incontro in carcere c’è una folta pattuglia di deputati e senatori: oltre ai renziani Boschi e Giachetti, e al dem Verini, ecco il meloniano Scurria, la senatrice leghista Matone, e poi il forzista Orsini, Grippo di Azione, Della Vedova da +Europa. L’incubo di carceri inadeguate e stipate di persone, continua La Russa “vanifica l’obiettivo primario di trasformare l’espiazione della pena in un’occasione di riscatto, recupero e rinascita sociale”. Ecco perché, “resto convinto che ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad affrontare questa grave e perdurante problematica, debba essere presa in considerazione senza cadere nel pregiudizio politico o ideologico”. Un invito formale “rivolto da presidente del Senato a far prevalere le ragioni della comprensione e della tutela dei diritti e della dignità di ogni essere umano”. È un messaggio che accendere speranze (tra chi è sceso giù dai padiglioni ad ascoltare) e apprezzamento bipartisan, tanto che i parlamentari ora pensano di “traghettare” la proposta Giachetti sulla liberazione speciale anticipata da Montecitorio a Palazzo Madama. Applausi, e la commozione dei detenuti, quando Verini indica Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma detenuto da quasi 200 giorni, e tra gli artefici per la mobilitazione dall’interno. “Quel signore è un po’ meno di sinistra di me - scherza il dem con l’ex camerata - è stato avversario. Ma lui da dentro sta facendo una battaglia giusta, forte. Per tutti i detenuti. Anche se non ne potrà usufruire. Ed è questa la politica, fuori o anche dentro: agire nell’interesse generale, non per te stesso”. Prima di un abbraccio tra i due, fuoriprogramma. L’estate dimenticata del carcere, tra il caldo torrido e la solitudine di Salvatore Cuffaro livesicilia.it, 13 luglio 2025 Torna il caldo torrido e il carcere si trasforma in un’agonia: i detenuti vivono in celle asfissianti, con temperature interne che raggiungono anche 40 gradi e gli strumenti per contrastarle restano un miraggio. Il tutto nell’indifferenza della società, un’indifferenza che ci sta rendendo complici. Quando un Paese accetta che in una cella pensata per una sola persona ne vivano tre, quando accetta che un detenuto si tolga la vita ogni cinque giorni, quando ignora il grido silenzioso che sale da quelle mura… quella società ha smarrito la propria umanità. Il carcere, lo dico da uomo che ha conosciuto l’odore della sconfitta e la dignità del dolore, non è il luogo della vendetta. È, o dovrebbe essere, un luogo di recupero, un laboratorio di coscienze, uno spazio in cui l’errore incontra l’occasione del riscatto. Se invece lo trasformiamo in un inferno dove si muore di abbandono, che idea di giustizia stiamo offrendo ai nostri figli? Spesso sento dire: “Chi ha sbagliato deve pagare”. Ed è vero. Ma la pena, per essere giusta, deve contenere in sé un seme di speranza. Non può ridursi a un parcheggio di carne umana, non può diventare una condanna all’asfissia, alla solitudine, alla malattia, alla follia. I dati che riguardano l’emergenza carceri sono impietosi, ma dietro quei numeri ci sono volti. E dietro quei volti, storie. Madri che non vedranno crescere i figli, giovani caduti troppo presto, uomini che forse avrebbero potuto cambiare. Sì, perché nessuno è mai solo ciò che ha fatto. Ci chiediamo spesso dove sia finita la civiltà. Io credo che la risposta sia dentro le nostre carceri. La misura dell’evoluzione morale di uno Stato si vede da come tratta i suoi detenuti, diceva Dostoevskij. E noi, oggi, possiamo davvero guardarci allo specchio? Serve una riforma, certo. Servono investimenti, nuove strutture, più educatori, psicologi, personale sanitario. Ma serve soprattutto una nuova cultura della pena. Una cultura che veda la persona prima del reato. Che riconosca la fragilità. Che creda nella possibilità di cambiare. Lì, in quella cella rovente sovraffollata, c’è un pezzo della nostra responsabilità collettiva. E se non ci decidiamo a guardarla in faccia, a portarla nel cuore e nell’agenda politica, continueremo a costruire carceri che non rieducano, ma producono solo dolore, morte e silenzio. Io credo, con tutta la forza dell’esperienza e della fede, che l’uomo non si esaurisce nei suoi errori. E che ogni pena che dimentica l’umanità è già una forma di ingiustizia. Carcere, quando il volontariato è una vocazione: incontro con i protagonisti di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 13 luglio 2025 Giorgio Flamini, regista dei “Senza Nome” al Festival dei Due Mondi: “dove inizia una scena può finire una condanna”. Persone rilevanti del Terzo settore, donne e uomini che hanno creato lavoro e formazione per i detenuti, promosso la cultura come esercizio di libertà, sfidato ostacoli burocratici, combattuto pregiudizi e stereotipi. Tra passato e presente, attraverso queste figure, è possibile riscrivere la storia del mondo penitenziario dalla Riforma Gozzini a oggi. Giorgio Flamini ogni anno, per quasi tutto l’anno, sta chiuso nel carcere di Spoleto. È impegnato, con la figlia Anna e la moglie Pina, nelle prove della compagnia di detenuti-attori SIneNOmine. Regista, nasce come architetto, poi diventa insegnante. Nelle sue metamorfosi, l’orizzonte spaziale costante è, da 28 anni, la casa di reclusione umbra. È il 2012 quando la compagnia che conduce debutta al prestigioso Festival dei Due Mondi di Spoleto; da allora, SIneNOmine è fissa nel cartellone, sezione prosa. Riavvolgiamo il nastro: quando e come ha iniziato la sua esperienza nel carcere di Spoleto? Frequento il penitenziario dallo scorso secolo (ride, n.d.r.). Nel 1997 inizio a tenere dei corsi di formazione professionale, di scenografia e di ceramica. Poi vinco il concorso da insegnante, in disegno e storia dell’arte, prima, in scenografia, poi. Per prima cosa, chiedo di essere spostato nella scuola carceraria. Nel 1999 parte il corso di scenografia teatrale all’interno della casa di reclusione. Come nasce la collaborazione col Festival dei Due Mondi? Nel 1982, la compagnia Teatro gruppo, che proveniva da Rebibbia, per la prima volta esce dal penitenziario e si esibisce al Festival di Spoleto, nella Rocca Albornoz, il vecchio carcere della città che oggi è il Museo nazionale del Ducato. In contemporanea, era in atto il trasferimento nel nuovo carcere, a Maiano. I detenuti, sotto la regia di Marco Gagliardo, portano in scena ‘Sorveglianza speciale’ di Jean Genet, un ex ‘galeotto’ francese. Siamo nel luglio del 1982 quando avviene questa cosa incredibile, cioè che un gruppo di detenuti va in scena in un carcere che sta per essere dismesso - dentro ci sono ancora un presidio di Polizia Penitenziaria e i semiliberi. Nel 2012, a trent’anni da quell’evento, ho proposto un lavoro simile per il Festival dei Due Mondi, ed é stato un grande successo. Lo abbiamo fatto nella palestra dell’istituto, con più rappresentazioni. Gruppi di pubblico di un centinaio di persone sono entrati per una settimana all’interno del carcere; ha funzionato veramente molto bene. Da allora, trascurando il periodo Covid, abbiamo sempre avuto uno spettacolo all’interno del Festival. Questo legame a doppio filo con un Festival non si trova in altre esperienze italiane di teatro in carcere... Sì, è un’assoluta novità. Tra l’altro con un palcoscenico tra i più importanti anche a livello internazionale, perché ha ormai una tradizione. Nasce nel ‘58, subito dopo la guerra fredda. È un evento che ha sperimentato di tutto, ma soprattutto ha portato per primo il teatro in carcere, con l’evento diretto da Marco Gagliardo nell’82. Pian piano siamo anche diventati credibili: nei primi anni eravamo presentati come “evento speciale”, poi siamo cresciuti. Ora siamo riconosciuti, con un posto nella sezione Prosa. Per l’ultima edizione, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma, al ministero della Cultura, la direttrice artistica del Festival, Monique Veaute, ha proprio detto: “questi sono dei professionisti”. Una curiosità: perché la compagnia si chiama SIneNOmine? In alta sicurezza dobbiamo chiedere l’autorizzazione al ministero della Giustizia e alla direzione del carcere per inserire i nomi degli attori nel cartellone. Per alcuni anni ho avuto la possibilità di metterli: inutile dire che, per un attore, è molto importante il diritto al nome. Quest’anno, per esempio, non è stato possibile. Nel chiedere le autorizzazioni non ci dilunghiamo a spiegare l’opportunità di inserire i nominativi: così ci viene detto “Sì”, “No”, e per assonanza con queste risposte sbrigative, abbiamo deciso di chiamarci “SIneNOmine”. Poi questi detenuti sono stati ‘pubblicizzati’, alcuni sono notissimi, ma sono considerati degli scarti quando entrano in carcere; finché non ne escono non se ne parla e quando vengono liberati se ne riparla, ma solo per sparlarne. Ecco perché la compagnia si chiama, provocatoriamente, “Senza nome”. Com’è andata quest’anno? Direi bene. Abbiamo fatto due spettacoli per il Festival dei Due Mondi, il 2 e il 3 luglio; 500 persone per sera, più il pubblico detenuto, quindi siamo arrivati a 1.300 persone. I performer che sono saliti sul palco sono stati una sessantina. Hanno lavorato per lo spettacolo 100 detenuti, e una trentina di agenti. Praticamente è tutto Maiano (il carcere n.d.r.) che diventa teatro; è stata un’operazione colossale. Ogni anno, insomma, lo sforzo è corale. Ci sono state delle difficoltà? Io lavoro anche con i detenuti della media sicurezza ma, per esempio, quest’anno non c’è stata l’unione dei circuiti. Quindi, visto che a Spoleto ci sono più detenuti in alta sicurezza, ho dovuto trascurare anche dei componenti storici della compagnia e concentrarmi completamente su questo circuito. Sul piano della fattibilità abbiamo avuto delle grandi difficoltà. Venti giorni fa ho avuto la risposta che potevo andare in scena, perché c’era un problema di organico di polizia penitenziaria. In questi giorni ho visto gli agenti fare doppi, tripli turni; gli sono molto riconoscente, sono veramente straordinari. Anche per loro è importante aprire il carcere e avere un rapporto col territorio, e c’è stata veramente una vicinanza notevole. Il tratto distintivo dei vostri spettacoli è la scena che cambia e si adatta... Sì, lo spettacolo viene fatto all’aperto, perché nella casa di reclusione non è stato previsto un teatro. Dovrebbe essere costruito, ogni tanto c’è un progetto su Maiano, ma ancora noi non abbiamo un teatro dentro il carcere. Proprio per consentire alla città di ‘entrare’ e vedere lo spettacolo, nel 2014 facemmo il grande progetto nel campo sportivo del penitenziario. Ci abbiamo costruito un palcoscenico, che muta in alcune circostanze per esigenze sceniche. Può stare sul lato corto, sul lato lungo, al centro col pubblico intorno, oppure come quest’anno, dove come scena c’è la stessa struttura carceraria, quindi il pubblico vede le celle. Lo spettacolo che avete messo in scena quest’anno è “Senza titolo-Manifesto per un carcere futurista”. Il testo è un articolato, una serie di ‘principi’, scritti dai detenuti, tra cui l’articolo 18 sul teatro in carcere, definito un ‘detonatore’. Può spiegare questa scelta artistica? Si parte, ovviamente, dalla poetica del futurismo e la si trasforma non in un grido di guerra, ma anzi di concertazione. Si dice, per esempio, che la giustizia forse può essere anche bella, e che il detenuto può cambiare attraverso la sua crescita interiore; o che anche il carcere potrebbe diventare luogo di bellezza. Questa è, più o meno, la sintesi di uno spettacolo estremamente complesso. Viene portato in scena l’articolo 18, che riguarda il teatro in carcere, ed è quello che, scritto su dei volantini, viene distribuito al pubblico: è molto coinvolgente. Quest’anno lo spettacolo, oltre che celebrare i 50 anni della legge di Ordinamento penitenziario, era dedicato a Sergio Lenci. L’architetto che il 2 maggio del 1980 subì un attentato terroristico, ‘colpevole’ di aver progettato un carcere rispettoso dei diritti umani. Sono venuti anche i figli, Roberto e Ruggero. Com’è nato il testo? Sono gli attori-detenuti a scriverlo; ma quest’anno è stato scritto, per una buona metà, da un detenuto ergastolano, che nel cartellone, proprio per la storia delle autorizzazioni sui nomi, ha voluto chiamarsi “Il Rinnegato” (ride, n.d.r.). Da 32 anni è in carcere, ha 4 master, di cui uno in drammaturgia. È una persona che si è davvero ricostruita, e ormai l’arte è diventata la sua vita. È proprio questa passione di alcuni detenuti che mi fa dire che il teatro non è solo intrattenimento: è fatica, è una messa a nudo, ma anche verità. Ci si espone, ma ci si espone al vero, e chi li guarda in qualche maniera stabilisce con loro un dialogo, perché anche le persone che entrano all’interno del carcere o che li vedono, poi hanno un loro cambiamento. Che differenza vede tra una compagnia “libera” e una compagnia “detenuta”? Secondo me è difficile avere fuori una dimensione artistica equiparabile a quella che c’è in un carcere. I detenuti avranno una dizione sballata, perché parlano il loro dialetto; bisogna aggiustare le doppie, la pronuncia. Ma quando lavori all’esterno, non puoi dire di avere una compagnia. Gli attori si incontrano per appuntamenti. Noi, invece, per un periodo molto lungo dell’anno, viviamo con i detenuti, e creiamo insieme ai detenuti. C’è un’espressione di verità del teatro che è molto importante: il processo di catarsi, che può avere anche un attore all’esterno, il pubblico all’esterno, rispetto a quello che può avvenire all’interno di un carcere, è davvero completamente diverso. Poi ci sono delle esperienze straordinarie: la compagnia della Fortezza di Punzo a Volterra, il Teatro libero di Rebibbia di Cavalli, la compagnia di Gorgona di Pedullà. Esperienze che, in alcune circostanze, superano i progetti di teatro ‘extra moenia’. Lo dico a ragion veduta, perché ne vedo davvero tanti, di spettacoli teatrali. E tra i detenuti in media sicurezza e in alta sicurezza? Visto che lei lavora con entrambi... La dimensione dell’alta sicurezza è, diciamo così, “intellettualmente” migliore; molto spesso i detenuti sono laureati, o comunque studiano e si laureano in carcere. Il problema della media sicurezza è la grande concentrazione straniera che, in alcune circostanze, soprattutto per problemi linguistici, diventa difficile da gestire. Poi in media si trovano molti più detenuti con delle fragilità psicologiche, con dipendenze. La dimensione dell’alta sicurezza, secondo me, va più verso la ricostruzione e il lavoro, soprattutto quando hai persone che hanno fatto tantissimi anni di carcere. Conosco un detenuto che ho trovato lì quando sono arrivato, nel ‘97. Praticamente ci siamo contati le rughe, i capelli bianchi, siamo invecchiati insieme. Che senso ha per lei il teatro in carcere? Le criticità dei penitenziari sono sotto gli occhi di tutti: il sovraffollamento, la sorveglianza ridotta, eccetera. Facilmente possono diventare delle polveriere. Avere programmi strutturati come il nostro, di teatro in carcere, in qualche maniera tutela anche chi lavora nell’istituto. Il rapporto stabile e continuativo col mondo esterno, con l’arte e con la cultura, con il teatro, ovviamente con la scuola, alleggerisce, ma soprattutto cambia le persone. È a quel punto che il carcere diventa comunità. Poi il teatro, la scuola, la cultura in generale, devono essere al centro dell’esecuzione penale, perché molto spesso quello che è stato il reato può essere in qualche maniera rivisto, rivalutato, ma anche condannato da sé stessi, quando si danno gli strumenti per capire quello che si è fatto. Ci sono tante possibilità di cambiamento per i detenuti, e la cultura cambia. Come diciamo a un certo punto del nostro spettacolo andato in scena quest’anno, “dove inizia una scena può finire una condanna”. Un suo desiderio…? Qualcosa che non ha ancora realizzato... Far conoscere l’odore del palcoscenico vero ai detenuti. Mi auguro che questo piano piano si riesca ad ottenere. Alcuni miei colleghi lo fanno già, ma mi rammarico che questo spettacolo l’abbiano visto solo le persone che sono riuscite a entrare e che non possa girare per l’Italia. Articolo 18 del Manifesto per un carcere futurista “Il teatro è un’esplosione! Il teatro in carcere non è intrattenimento, è detonatore. Fa saltare le sbarre simboliche, scardina i ruoli fissi, apre crepe nei muri del giudizio e del pregiudizio. È un atto di verità che smonta la finzione della pena come fine. Sul palco, il detenuto non finge, si espone. Il teatro non cura, ma rivela; non salva, ma trasforma. Ogni prova è un rischio, ogni replica un’esistenza che si mette in discussione. La scena diventa il solo luogo dove un uomo può essere interamente sé stesso o altri, senza paura, senza numero, senza etichetta, dove le sue emozioni tornano ad essere. Fare teatro in carcere è atto politico, gesto umano, urgenza civile. È un patto tra chi è dentro e chi è fuori, tra chi guarda e chi si fa vedere. È la prova vivente che la bellezza resiste anche dove tutto sembra spento. Per questo: non togliete il teatro alle carceri. Portiamolo ovunque. Facciamolo crescere, contaminate la giustizia con l’arte. Perché là dove nasce una scena, può finire una condanna”. Carceri, una sanità mirata per i detenuti stranieri di Teresa Olivieri Italia Oggi, 13 luglio 2025 Regioni in campo dopo che il Ministero ha promosso un bando per potenziare l’assistenza. Ecco i progetti portati avanti da Toscana e Lazio. Secondo il Ministero della Giustizia, al 30 aprile 2025, la popolazione carceraria italiana ammontava a 61.916 detenuti, con una capienza ufficiale di 51.178 posti, evidenziando un tasso di sovraffollamento superiore al 20%. Di questi, 19.740 erano detenuti stranieri, pari al 31,6% del totale. Le regioni con la maggiore presenza di detenuti stranieri sono la Lombardia (20,8%), il Lazio (12%), il Piemonte (9,8%) e la Toscana (7,9%). Inoltre dai dati dell’Osservatorio Nazionale sulla Sanità Penitenziaria, con la concentrazione di persone si favorisce il rischio di contagio da malattie infettive come tubercolosi, epatiti e altre patologie trasmissibili, complicando la situazione clinica dei detenuti, soprattutto stranieri, che si trovano spesso a dover affrontare anche disagi psicologici legati all’isolamento e alle difficoltà di comunicazione. Per questo il Ministero ha recentemente promosso un bando finalizzato a potenziare l’assistenza sanitaria e psicologica per i detenuti stranieri. La Regione Toscana ha colto l’opportunità, attivando un progetto sperimentale che durerà un anno, al termine del quale sarà effettuata una valutazione sull’efficacia degli interventi per pianificare eventuali estensioni e miglioramenti. Ed è finanziato con una somma complessiva di 80.000 euro, ripartita tra le tre Aziende USL toscane in base alla presenza e al numero di detenuti stranieri negli istituti della regione. Il progetto, denominato “Interventi di etnoclinica in carcere”, è stato elaborato in collaborazione con i Direttori delle Aree di sanità penitenziaria e le Aziende USL toscane, con il supporto del Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria. L’obiettivo è superare le barriere linguistiche e culturali che ostacolano la comunicazione tra operatori sanitari e detenuti stranieri, rendendo più efficace la diagnosi, la cura e la riabilitazione e prevede il coinvolgimento di figure professionali specializzate quali psicologi, etnopsicoterapeuti, antropologi e mediatori culturali. Il piano della Regione Lazio per i servizi sanitari penitenziari - Parallelamente, la Regione Lazio ha approvato un documento strategico per la riorganizzazione dei servizi sanitari penitenziari, con l’obiettivo di potenziare quelle singole ASL che operano in territori con istituti penitenziari. Il piano regionale definisce nuovi percorsi diagnostico-terapeutici e assistenziali dedicati alla popolazione detenuta, integrando i livelli essenziali di assistenza (LEA) con una programmazione strutturale e continuativa. (riproduzione riservata) L’Anm: “Inaccettabili gli attacchi del ministro Nordio” di Conchita Sannino La Repubblica, 13 luglio 2025 La riunione del comitato centrale della associazione nazionale magistrati “Preoccupa quanto emerge sul caso del libico. La scelta fu politica”. “Inaccettabile. Non possiamo consentire che si parli di una vendetta dei magistrati”. Sull’ultima, imbarazzante puntata del caso Almasri, così come sui mancati obiettivi Giustizia del Pnrr e sul disastro carceri, interviene l’Associazione nazionale magistrati. Che ieri torna a interrogare il governo, sui temi più spinosi, nelle relazioni del presidente Cesare Parodi, e del segretario Rocco Maruotti, durante il rituale comitato centrale. Respinte al mittente, cioè al ministro Nordio e ad apicali vertici di FdI, “illazioni e tentativi goffi” di addossare alle toghe la provenienza delle indiscrezioni su mail riservate e rapporti interni al ministero della Giustizia, che proverebbero le bugie offerte al Parlamento sul rilascio del torturatore libico Almasri. “Non solo falso, ma offensivo anche solo immaginare che si tratti di una supposta ritorsione dei giudici” contro “la riforma epocale” firmata Nordio-Meloni sulla separazione delle carriere. Almasri, ma non solo. Si lancia l’appello sui mancati obiettivi Giustizia del Pnrr, lo scoglio del cosiddetto Disposition time, cioè la durata del processo civile, ancora lontana dal traguardo stabilito dagli accordi Cartabia-Draghi con l’Ue. Mentre resta la mobilitazione sull’emergenza sovraffollamento nei penitenziari: per il quale lo stesso Parodi propone di aprire una straordinaria raccolta di firme. (Intanto, anche dalla giunta e dal comitato Anm, numerose toghe aderiscono allo sciopero della fame di un giorno, a staffetta, promosso da Nessuno tocchi Caino). È il segretario generale Maruotti a porre, in particolare, l’accento sulle dichiarazioni del ministro Nordio. “Assistiamo con preoccupazione a quanto sta emergendo sul caso Almasri”, dice, “il torturatore libico che il governo ha deciso di riportare in patria con un volo di Stato, salvo dare inizialmente la colpa della mancata esecuzione alla Corte d’Appello di Roma”. Il danno e ora la beffa, è la lettura dei magistrati che annuiscono, negli uffici Anm al quinto piano della Cassazione. “Ora abbiamo capito, ma non avevamo dubbi in proposito, che la responsabilità politica della decisione è tutta del governo. Ci auguriamo che non emergano responsabilità penali. Quello che invece non accetteremo è il tentativo, già goffamente operato dal ministro Nordio, di provare a sostenere che l’accertamento della verità su questa vicenda è un’operazione finalizzata a contrastare la riforma della magistratura. Si tratta di un’accusa tanto falsa quanto offensiva alla quale reagiamo con fermezza”. Si discute anche della corsa contro il tempo per gli obiettivi Pnrr sulla montagna di sentenze civili (oltre 200mila in più, rispetto all’ordinario) da smaltire secondo gli accordi con Bruxelles, entro giugno 2026. Ed è il presidente Parodi a tenere il punto: “Dal ministero hanno chiesto le nostre proposte, nello specifico sarà il Csm a decidere, sempre dei magistrati hanno bisogno e noi doverosamente non ci sottraiamo. Ma se non riescono per tardiva iniziativa, non dicano che è colpa dei giudici, sarebbe un falso clamoroso”. Nel malaugurato caso, l’Italia dovrà restituire una manciata di miliardi di euro all’Europa. “Il timore ce l’ho, ma spero che non accada - spiega a margine, Parodi - Se i magistrati avessero avuto a disposizione personale amministrativo, ufficio per il processo, una geografia giudiziaria più razionale e organici adeguati, questi obiettivi sarebbero stati raggiunti. Oggi prendiamo atto che non stati raggiunti per queste carenze”. Caso Almasri, lo scambio di mail al ministero dopo l’arresto: “Serve un atto urgente di Nordio” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 13 luglio 2025 Lo scambio di mail al ministero subito dopo l’arresto di Almasri: serve un atto urgente di Nordio. Nel primo pomeriggio di domenica 19 gennaio, quando scrisse al capo di Gabinetto Giusi Bartolozzi per comunicarle le proprie valutazioni sull’avvenuto fermo di Osama Najeem Almasri ricercato dalla Corte penale internazionale, l’allora capo del Dipartimento affari di giustizia Luigi Birritteri segnalò subito l’eventualità che il ministro Carlo Nordio avrebbe dovuto compiere un “atto urgente”. Senza il quale l’arresto del generale libico accusato di crimini di guerra e contro l’umanità sarebbe rimasto inefficace. Come poi è avvenuto. È un altro particolare che emerge dalle comunicazioni interne tra i funzionari del ministero della Giustizia in quella domenica, dopo il blitz della Digos nell’albergo torinese dove alloggiava Almasri. Finite al centro non solo dell’indagine del Tribunale dei ministri, per la quale ieri il vertice dell’Associazione magistrati ha respinto “il goffo tentativo di sostenere che sia un’operazione per contrastare la riforma costituzionale della magistratura”, ma pure della polemica politica che ha investito il ministro Nordio. La mail con cui Bartolozzi rivelò a Birritteri, alle 15.28, di essere già a conoscenza della vicenda, raccomandando massima riservatezza, dimostrerebbe che la principale collaboratrice di Nordio (e verosimilmente il Guardasigilli) avessero già ricevuto comunicazioni o sollecitazioni abbastanza precise su Almasri. Forse più della “comunicazione assolutamente informale, di poche righe e priva di dati identificativi” di cui il ministro riferì in Parlamento. Anche perché è più che probabile che a quell’ora ci si fosse attivati anche in altri palazzi del governo. La riprova che invece al Guardasigilli fossero giunte solo informazioni scarne e del tutto generiche sarebbe -- per i sostenitori della correttezza del ministro e del suo braccio destro - proprio nella mail precedente, inviata alle 14.35 a Bartolozzi da Birritteri, che scrisse: “Concordo su una prima valutazione (fatti salvi i necessari approfondimenti) inerente l’irritualità della procedura che sinora non vede coinvolto il ministero della Giustizia come autorità centrale competente. Domani faremo le nostre valutazioni, sulla base della documentazione che ci verrà eventualmente trasmessa”. Questa sarebbe la dimostrazione che a Nordio, la domenica pomeriggio, non era arrivato nulla che lo mettesse in condizione di decidere alcunché. Ma a parte che a quell’ora il magistrato di collegamento con l’Olanda aveva già trasmesso il mandato d’arresto della Corte dell’Aia attraverso il ministero degli Esteri sulla piattaforma dedicata (che però la capo di Gabinetto sostiene di aver aperto solo l’indomani), il problema resta quello che sarebbe dovuto accadere il giorno dopo. E che non è accaduto. Nel seguito della mail il capo del Dag precisò di rivolgersi (fra gli altri destinatari) a Bartolozzi “per doverosa informazione”, e perché gli eventuali “provvedimenti urgenti” da adottare “ci vedono privi di delega, come da me già evidenziato anche al capo di Gabinetto in precedenti comunicazioni. Potrebbe dunque emergere la necessità di atti urgenti a firma dell’On. Ministro”. Birritteri aveva compreso che si trattava di un caso delicato e aggiunse: “La questione manifesta una possibile valenza politica di non trascurabile entità, trattandosi di questione inerente lo scenario nord-africano ed anche sotto questo aspetto la si segnala al capo di Gabinetto. Sentiamoci ove dovessero emergere ulteriori elementi, ovvero una qualunque necessità urgente in modo da assicurare al ministro ogni doveroso supporto tecnico”. A questo articolato messaggio, Bartolozzi rispose con le poche righe ormai note: “Ero stata informata. Massimo riserbo e cautela anche nel passaggio delle info. Meglio chat su Signal. Niente per mail o protocollo”. Nessun riferimento agli “atti urgenti” evocati da Birritteri, cioè a un provvedimento del ministro ritenuto necessario a sanare la mancata “interlocuzione preventiva” tra la Procura generale di Roma e il ministero, e rendere valido l’ordine d’arresto. La questione si ripropose l’indomani, quando il ministro ricevette l’intero fascicolo dall’Aia e dal procuratore generale di Roma Giuseppe Amato, che aveva precisato in una nota: “Si è in attesa delle determinazioni della Signoria Vostra in ordine alle attività da porre in essere”. Birritteri fece preparare e inviò al capo di Gabinetto, per sottoporla al Guardasigilli, la bozza del provvedimento utile a tenere il libico in carcere e consegnarlo ai giudici dell’Aia, ma il ministro non la firmò. Né lunedì, né martedì 21 gennaio, quando la Corte d’appello - in mancanza di qualunque risposta di Nordio e su parere conforme del procuratore generale - liberò il ricercato. Il “caso Almasri”, per ciò che riguarda il ministero della Giustizia, è tutto qui. Colpire Nordio per affossare le carriere separate. Ecco la vera partita sull’affaire Almasri di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 13 luglio 2025 C’è un collegio straordinario composto da tre giudici “normali”. Ma a quanto pare qualcuno non vuole che lavori in pace. “Crucifige Nordio!”, dicono. “Hic manebimus optime”, risponde lui. E sembra di essere nel corso di una messa cantata, piuttosto che a un corso di diritto giustinianeo. Invece siamo di nuovo nel pieno del “caso Almasri”, il generale libico arrestato e poi espulso nel gennaio scorso. È solo apparenza, in realtà. Ma c’è poco da scherzare, o da alludere. La realtà è che il boccone grosso della politica italiana, quello difficile da mandar giù, è un altro. Ed è la riforma del secolo, quella che dovrà ridare dignità e autonomia al giudice e portare al suo ruolo di semplice avvocato dell’accusa il pubblico ministero. La separazione delle carriere sta per varcare la seconda delle quattro porte necessarie a norma di Costituzione per arrivare all’approvazione definitiva. Poi saremo nel pieno della campagna elettorale referendaria. Nel frattempo, se non si può proprio azzoppare la riforma, si può tentare di liberarsi di colui nel cui nome la nuova legge passerà alla storia, il ministro Carlo Nordio. E tutto fa brodo, le truppe sono da tempo allineate. Si va dall’agguerrito sindacato delle toghe fino ai suoi scudieri nelle redazioni e anche ai vertici di partito, dal grillino Giuseppe Conte fino alla neo-grillina Elly Schlein. E’ un tribunale del popolo, ma senza popolo, come spesso lo è chi pretende di giudicare e reprimere nei regimi totalitari. Un sistema feroce, che non disdegna i colpi sotto la cintura. In questo momento sta tentando il tiro al bersaglio proprio mentre c’è una situazione delicata proprio sul “caso Almasri”. C’è un Tribunale dei Ministri al lavoro, a quanto pare composto da tre giudici di sesso femminile definite come “normali”, di quelle che non scrivono libri e non conducono talk, e neppure vengono premiate perché rispondono al telefono, a qualunque ora, quando chiama il cronista. Neanche particolarmente sindacalizzate, una meraviglia. Vogliamo lasciarle lavorare? Evidentemente no. Perché pare inevitabile che la storia si debba fare con la notizia che “spunta” e quel che “dalle carte emergerebbe”. Carte riservate, ovviamente, rese pubbliche in violazione del segreto investigativo. Reato su cui nessuna procura, nonostante le rassicurazioni, mai ha indagato. Il maledetto triangolo che spesso parte da un procuratore fellone (o da chi ne fa le veci nello stesso palazzo) per planare sulla carta o nell’aere, colpire il bersaglio e affidarlo alla voracità politica di chi ha il compito di chiederne le dimissioni. Il “caso Almasri” ha, rispetto ad altre vicende di ordinaria violazione del segreto investigativo, almeno due aggravanti. La prima è che va a cozzare con delicatissime questioni di sicurezza nazionale e oltre confine. Che, nell’attuale quadro geopolitico, dovrebbe indurre a non scherzare con il fuoco. La seconda è che il punto di partenza, dentro o fuori dalle carte del processo, è uscito dalla bocca di un ex presidente del consiglio, Matteo Renzi. Il quale si è assunto il ruolo delle peggiori tradizioni del finto giornalismo d’inchiesta e ha cominciato a lanciare sospetti, poi racchiusi in un’interrogazione parlamentare, sulla dinamica di quei due- tre giorni dello scorso gennaio. Quando il generale libico Osama Almasri, dopo aver tranquillamente passeggiato in diversi Paesi dell’Unione Europea, era stato arrestato in Italia per gravi reati contestati dalla Corte Penale Internazionale, poi scarcerato e infine espulso e rimandato in Libia. In quella parte del Paese dove le norme e le regole di convivenza civile hanno aspetti “particolari”, da trattare con attenzione e diplomazia. Il ministro guardasigilli ha già chiarito per due volte al Parlamento la regolarità del comportamento suo e del governo italiano. Sul Dubbio di ieri, Errico Novi ha citato la mail che smentisce le tesi complottistiche degli “scoop” di Corriere della sera e Repubblica, che hanno sviluppato, con abbondanza di notizie che “spuntano” da carte segrete, la tesi di Matteo Renzi. Tesi che hanno avuto come effetto inevitabile, nella solita triangolazione, la richiesta di dimissioni del ministro da parte dei partiti di opposizione. Ma questi partiti, ce lo chiediamo per l’ennesima volta, e parliamo di forze politiche che sono state al governo del Paese, sono ancora disponibili, pur di continuare a svolgere il ruolo di reggicoda del sindacato delle toghe, a mettere in discussione questioni che attengono alla sicurezza nazionale? È così urgente impallinare un ministro di un governo che gode tuttora di ampio consenso elettorale, solo perché è promotore di una riforma che non piace ai magistrati? Non diteci, cari Schlein o Conte o Renzi, che volete cacciare Carlo Nordio perché secondo voi avrebbe imbrogliato le carte su notizie ricevute di domenica piuttosto che di lunedi. Sapete benissimo, proprio perché avete avuto esperienze di governo, che la ragion di Stato, soprattutto quando si ha a che fare con governi poco affidabili ai confini del nostro Paese, a volte ha dei prezzi da pagare. Se insistente in modo così pervicace a indicare, sempre e comunque, proprio quel bersaglio, il ministro guardasigilli, questa è la dimostrazione del fatto che la posta in gioco è un’altra. E si chiama Separazione delle carriere. Volete uccidere Nordio per eliminare la riforma. Ma siete sicuri che sia un calcolo vincente? Lombardia. “Carceri da cambiare, ma non possiamo farlo da sole” di Viviana Daloisio Avvenire, 13 luglio 2025 Le emergenze dietro le sbarre, il ruolo delle donne: ad Avvenire il confronto con le direttrici degli istituti lombardi. Ritrovarsi tutte le mattine dall’altra parte del cancello, oltre la linea che separa il fuori dal dentro, nell’abisso del carcere. Col compito di dirigerlo, l’abisso. Nonostante tutto: l’emergenza, il sovraffollamento, il caldo, la percentuale sempre più alta di detenuti tossicodipendenti, la difficoltà nella gestione di quelli stranieri, l’inadeguatezza delle strutture, la mancanza di personale e di fondi, il dramma dei suicidi. Il compito che pare impossibile tocca a 254 direttori negli istituti penitenziari del nostro Paese (a fronte di un organico previsto di 350 unità, almeno stando ai numeri aggiornati al 31 dicembre 2024) tra cui 121, cioè quasi la metà, sono donne. Un dato per certi versi sorprendente, per un incarico che nell’immaginario collettivo ha o dovrebbe avere più a che fare con l’esercizio della forza e dell’autorità e che nella realtà dei fatti si misura con un mondo decisamente declinato al maschile: dei quasi 63mila reclusi al momento nelle carceri italiane, 60mila sono uomini. E per soli uomini è stata concepita la maggioranza dei nostri istituti di pena, dai servizi igienici fino agli spazi comuni e ai progetti di reinserimento lavorativo. Perché dunque così tante donne al comando? E come affrontano la sfida della direzione delle carceri in un tempo così complesso? Avvenire lo ha chiesto alle direttrici delle carceri lombarde (donne in tutte le strutture, fatta eccezione per Bollate, Como e Voghera) nel corso di un forum organizzato nella nostra sede di Milano nei giorni scorsi. Un’occasione “per guardarci allo specchio” secondo la provveditora regionale dell’amministrazione penitenziaria Maria Milano Franco d’Aragona, che al coordinamento del sistema lombardo è arrivata a sua volta dopo gli anni di direzione negli istituti liguri di Genova Pontedecimo, Chiavari, Genova Marassi: quasi trent’anni d’esperienza dietro le sbarre, tra le veterane uscite dal concorso bandito nel 1997 (l’ultimo prima di quello arrivato soltanto nel 2020, da cui sono uscite 16 nuove leve), negli occhi ancora la passione per un lavoro scelto perché “avevo il desiderio di sapere cosa c’era dall’altra parte dell’esercizio della legge. Ricordo ancora quando dissi a mia madre di aver ottenuto il ruolo: “Compri il pane ai carcerati?” mi chiese, immaginandomi come una specie di crocerossina. Eppure facciamo tutto, noi, tranne che assistenzialismo”. A cominciare dalla rocambolesca sfida di quel che in gergo tecnico si chiama “diritto applicato” e che nella realtà di tutti i giorni si trasforma nel tentativo creativo (e complicatissimo) di trovare soluzioni immediate a problemi molto concreti con quello che si ha a disposizione: “Ciò che ci tiene attaccate al telefono 24 ore su 24 - spiega Metella Romana Pasquini Peruzzi, direttrice a Mantova - e che in qualche modo rende questo lavoro il più difficile ma anche il più bello del mondo: doverci dare da fare continuamente, dover adattare, interpretare e per così dire “digerire” la norma giuridica caso per caso, giorno per giorno”. Lo sa bene Francesca Paola Lucrezi, direttrice a Brescia, dove è presente anche una piccola sezione femminile e dove dal 2004 si portano avanti attività miste: “Siamo partiti dalla scuola, via via abbiamo costruito e sperimentato altri progetti, intrecciando rapporti con le associazioni e il mondo del Terzo settore”. Serviva lo sguardo di una donna, per provare a superare l’isolamento delle detenute donne, che in carcere vivono una sofferenza doppia: “Le loro sono quasi sempre storie di violenze e di traumi subiti, oltre che di reati commessi. Distacco dagli affetti e interruzione delle relazioni di cura completano il quadro: le donne, essendo spesso il fulcro del nucleo familiare in particolare come madri, soffrono enormemente per il distacco dai propri figli, e poi dai mariti, dai genitori. Molto spesso la loro famiglia si disgrega o non c’è più nessuno a far loro visita, gettandole in uno stato di profonda solitudine”. Alla gestione di questi percorsi di detenzione, insomma, serve un’attenzione tutta particolare. E le direttrici donne quell’attenzione in carcere l’hanno portata su tutta la linea negli ultimi anni “con la loro empatia, scompaginando i giochi e aprendo anche il sistema penitenziario verso l’esterno” aggiunge la direttrice del carcere di Monza Cosima Buccoliero, alle spalle l’esperienza consolidata nella struttura modello di Bollate: “Ho sempre avvertito la rigidità e l’aridità, per così dire, del diritto e delle leggi. Quando sono entrata la prima volta in carcere, a Cagliari, ne ho toccato con mano il sangue e la carne. Le donne direttrici non sono tante solo perché vincono più facilmente i concorsi (ride, ndr), ma perché portano naturalmente con sé ascolto, comprensione e quel “si può fare” che a Bollate, per esempio, ha preso forma più che altrove. Io me lo porto dietro in ogni carcere, me lo ripeto continuamente con convinzione: si può fare”. Le ferite da curare fuori Il mantra serve a sconfiggere la solitudine di un lavoro oggettivamente difficilissimo, “fatto di amarezza, delusione, a volte impotenza” ammettono senza mezze misure la direttrice di Busto Arsizio Maria Pitaniello e quella di Varese Carla Santandrea: “In carcere tutti, detenuti e personale, guardano a noi e se noi ci fermiamo tutto si ferma”. La mente vola alle tensioni nelle sezioni, agli “episodi critici” (incendi, aggressioni, principi di rivolte), ai suicidi che “non dipendono solo dal sovraffollamento ma dalla fragilità degli ultimi fra gli ultimi con cui siamo chiamate a confrontarci ogni giorno e che arrivano in cella”. Tragedie, queste ultime, su cui spesso si fatica a intervenire anche quando si avviano percorsi di accompagnamento mirati “e che ci portiamo a casa, che viviamo come fallimenti personali”. Se è vero che in carcere, d’altronde, “si osservano i problemi che diventeranno emergenza anche nel mondo di fuori nel giro di 5 anni” spiega la direttrice uscente di San Vittore, Elisabetta Palù, “vero è anche che da fuori bisognerebbe iniziare a curare le ferite del carcere”, con politiche sociosanitarie più attente al disagio psichico o alla tossicodipendenza soprattutto dei giovani e dei giovanissimi, con progetti educativi, con un occhio di riguardo alle prime e seconde generazioni di stranieri, che costituiscono larga parte della popolazione reclusa e su cui è difficile intervenire proprio per la mancanza di percorsi di integrazione precedenti alla scelta o spesso alla necessità di delinquere: “Il direttore e il personale penitenziario non possono lavorare da soli. Io in carcere sono entrata quando avevo 26 anni - continua Palù -. Da allora ho visto cambiare profondamente questo mondo: penso ai detenuti in primo luogo, ai problemi di droga e alle diagnosi psichiatriche che portano con sé nel 75% dei casi. Penso ai giovani adulti stranieri che non riusciamo quasi mai a ingaggiare in percorsi trattamentali, disinteressati, spesso senza progetti sul loro futuro tranne quello di evadere. Penso agli agenti, che necessitano di altrettanto supporto, di formazione”. Un mondo sotto pressione anche quello della polizia penitenziaria, con le giovani leve alle prese con una realtà a volte più pesante di quella che immaginavano, a volte completamente diversa dalle loro aspettative. Manca una visione Uomini o donne al comando poco importa, da questo punto di vista, e poco importano viste da dentro anche le misure una tantum di indulto o amnistia su cui la politica è tornata in queste settimane a interrogarsi e scontrarsi: si avverte con forza piuttosto la necessità di un ripensamento del carcere, di investimenti sulle strutture in cui interi reparti sono chiusi da anni in attesa di ristrutturazione (è il caso di San Vittore proprio, o di Opera). E poi ci vuole attenzione da parte della società civile e delle associazioni: “Servirebbe una buona volta - continua Santandrea - che il carcere fosse considerato come una risorsa e non solo come un problema da risolvere, che sui territori si attivassero nuove relazioni. Chi dirige un carcere non è un carceriere, né un burocrate, il nostro lavoro non può essere ridotto a questo. Serve una nuova visione del carcere”. La solitudine, sembra una beffa, è ciò che accomuna amministrazione penitenziaria e popolazione detenuta. Il mondo del carcere è tutto, in blocco, invisibile e dolente. Si cerca una luce, una speranza. La direttrice del carcere di Bergamo, Antonina D’Onofrio, dopo tanti anni lo avverte fisicamente tutte le volte che le porte del suo istituto si aprono e si chiudono alle sue spalle: “Io sento l’odore del carcere, che è odore di sofferenza, ma è anche odore di umanità. Ed è su questo odore, dell’essere e del dover restare umani, che mi concentro ogni giorno per trovare il bandolo di una matassa così arrovellata. Il senso dell’amministrazione penitenziaria è il bene comune, il recupero delle persone. Il carcere è il luogo in cui traghettare le persone, attraverso percorsi di rieducazione, al recupero delle proprie vite nel rispetto della legge e dei valori comuni. E le persone sono il cuore, sono ciò che ci viene consegnato”. Lo sguardo sulle persone d’altra parte “è lo stile femminile di approccio alla realtà e poter dare un volto ai profili cartacei è quello che desideravo fare dopo 24 anni trascorsi in una cancelleria di un tribunale di sorveglianza. Il mio lavoro in carcere è questo: sguardo, ascolto, empatia” precisa Gisella Russo, vicedirettrice a San Vittore. Per Anna Laura Confuorto, direttrice a Lodi al momento in maternità (e che al forum di Avvenire ha partecipato col suo neonato in braccio) le persone sono una missione da quando, giovanissima, ha messo il suo primo piede a Poggioreale: “Lì io mi sono sentita a casa, forse perché col racconto del carcere sono cresciuta fin da piccola, con le storie di mio zio che era a sua volta direttore del manicomio di Aversa”. Per Confuorto un carcere non si dirige in ufficio, ma in sezione, tra i detenuti, guardandoli in faccia e costruendo relazioni: “È il motivo per cui quando sono rimasta incinta ho deciso di continuare a fare il mio lavoro fino all’ultimo. Se il carcere è casa, mi sono detta, anche mio figlio deve entrarci. E la maternità - spiega con gli occhi che le brillano - ha arricchito la mia esperienza professionale, avvicinandomi ancora di più ai detenuti e facendomi vedere la loro condizione da un altro punto di vista: sono stata in attesa, come loro, per un tempo che mi è sembrato infinito. Ho cullato la vita che avevo in grembo come in carcere, un luogo nascosto dove si gettano semi, sperando che un giorno portino frutto”. Non che sia tutto così semplice, per una donna e una mamma direttrice di carcere, anzi. Reperibilità h24, per 365 giorni all’anno, spostamenti noti al personale dell’istituto, scorte: “La conciliazione è un nodo da sciogliere ogni giorno, proprio come ogni giorno dobbiamo sciogliere le problematiche delle strutture in cui lavoriamo prendendo decisioni che non troviamo scritte nella norma” spiega Stefania D’Agostino, direttrice a Opera, madre di due figli, affiancata dalla sua vice Antonella Murolo. La condivisione del lavoro con altre donne, vicedirettrici e comandanti di polizia (anche in questo ruolo la presenza femminile è cresciuta moltissimo nel corso degli ultimi anni), è un aiuto: “A Brescia funziona come un vero e proprio sodalizio - spiega la vicedirettrice Concetta Carotenuto - permettendoci di condividere decisioni, linee strategiche e anche la passione per quello che facciamo”. Lo stesso a Bollate, “dove la collaborazione si estende anche alle agenti. Nel loro caso, per esempio, è spesso difficile separare l’aspetto emotivo da quello professionale: lavorare insieme ci aiuta tutte” conferma la vicedirettrice Francesca D’Aquino. Questo quando il vice c’è: secondo i calcoli dell’Osservatorio Antigone la fortuna tocca a poco più del 20% degli istituti nel nostro Paese (mentre al 20% dei direttori tocca l’incarico di gestire più di un istituto). Ma in Lombardia, che conta da sola su una popolazione carceraria di quasi 9mila persone, la logica del gruppo e della condivisione è ciò che anima anche l’amministrazione penitenziaria a livello regionale, con la provveditora Milano che riunisce le direttrici periodicamente, tutte insieme, per mettere al centro progetti condivisi e confrontarsi anche sulle criticità delle singole strutture: “L’esperienza vissuta da ognuna di noi diventa così una risorsa per tutte”. E i maschi? Gli agenti, i detenuti? Anche in questo il mondo del carcere è cambiato. “La presenza di direttrici non è affatto una novità, né qualcosa di strano o straordinario all’interno degli istituti” racconta la giovane direttrice di Cremona, Giulia Antonicelli, in servizio da un anno dopo la formazione ad Opera. “La verità è che il carcere è un mondo sconosciuto all’esterno ed è fuori che c’è ancora un pregiudizio rispetto al fatto che questo ruolo possa essere svolto da donne e da donne giovani. Io fatico a spiegare quello che faccio ai miei coetanei, spesso mi sento porre domande come “davvero tu puoi avere contatti con i detenuti?”. La vecchia guardia del concorso del ‘97 d’altronde, che in molti casi ha scelto la professione per caso (“anche se Dio solo sa quante volte l’ho scelta col cuore dopo” ammette ancora la direttrice di Brescia, Lucrezi), ha battuto la strada e sono lontanissimi i tempi in cui il maschilismo imperava negli uffici penitenziari, “con gli agenti che scortavano le direttrici nelle sezioni o facevano battute sull’abbigliamento” ricorda Rosalia Marino, direttrice a Vigevano (“gli agenti, non i detenuti. Il maschilismo tra i detenuti non c’è stato mai” aggiunge Palù). “Sono situazioni con cui la nostra generazione non s’è misurata” conferma la collega di Sondrio, Ylenia Santantonio, anche lei alla prima esperienza in un carcere. Come le altre in ruolo da poco, di età compresa tra i 30 e i 40 anni, (c’è anche la vicedirettrice di Monza Roberta Galati) ha alle spalle un percorso di scelta più consapevole del ruolo di direttrice e considera il lavoro in carcere come un traguardo: “Al concorso sono arrivata dopo un’esperienza nel sociale e coi minori. Volevo cambiare le cose e prendere in prima persona le decisioni per poterlo fare - racconta. Noi entriamo in quel pezzo di società che nessuno vuol vedere e con cui nessuno vuole avere a che fare, ma che della società fa parte e della società parla o dovrebbe parlare a tutti”. “Il direttore dal mio punto di vista non ha sesso” sostiene invece ancora Pitaniello, sottolineando che la competenza e il modo di essere sono più importanti del genere. “Maschilismo non so - conferma Santandrea - ma una cosa è certa: il carcere è un’istituzione storicamente maschile, concepita per gli uomini. Questo rende molto difficile per le detenute donne trovare il proprio spazio e adattarsi a un ambiente che non è pensato per le loro esigenze specifiche, anche in aspetti banali come l’assenza di specchi a figura intera per la cura personale”. Esiste poi un “pregiudizio atavico” nella società, sostiene Antonicelli, “che non perdona alla donna il reato commesso, portando a una minore indulgenza rispetto all’uomo”. Come se fossero più colpevoli, le donne. Dirigere educando Non solo direttrici. Al cuore del provveditorato dell’amministrazione penitenziaria per la Lombardia, nell’Ufficio detenuti e trattamento, c’è dalla fine degli anni Ottanta anche Francesca Valenzi, educatrice di lungo corso (ora si chiamano “funzionari giuridico pedagogici”) che poi ha passato il concorso da dirigente. Parla al femminile anche questo ambito, quello degli educatori nelle carceri, che dovrebbero essere molti di più e molto più formati: “Io ho scelto di lavorare dietro le sbarre, da giovanissima, lasciando il mio lavoro nelle comunità di tossicodipendenti. Mi chiedevano, i colleghi, “e come pensi di rieducarli i carcerati?”. Io sorridevo. Nel tempo ho imparato che vanno capiti, che serve il tempo e l’attenzione per individuare il movente del loro possibile cambiamento”. Essere donna fa la differenza, nonostante le difficoltà coi detenuti stranieri che provengono da culture in cui il genere femminile non vive in condizione di emancipazione: “Ma la sensibilità femminile aiuta soprattutto di fronte a queste diversità: chi delinque e arriva da un altro Paese ha nella maggior parte dei casi una storia di fallimento migratorio alle spalle che va ascoltata, ricostruita, superata”. Alla rieducazione servono percorsi individualizzati e risorse, che mancano come l’aria nelle celle del nostro Paese. Umbria. “Anche in sei dentro celle singole, senza alternative: così aumentano i recidivi” di Emanuele Lombardini ternitomorrow.it, 13 luglio 2025 Nostra intervista all’avvocato Giuseppe Caforio, Garante per i detenuti dell’Umbria: “Aumentano anche i suicidi dei poliziotti penitenziari, perché la situazione è ormai ingestibile. Non è inasprendo le pene che si migliora, ma offrendo occasioni per ripartire quando si è fuori”. “La situazione si è ingessata, non solo in Umbria, ma particolarmente nella regione la situazione è difficile”. A parlare ai microfoni di Tomorrow in questa videointervista è l’avvocato Giuseppe Caforio, garante per i detenuti dell’Umbria. Che descrive un quadro allucinante, che riguarda principalmente le carceri di Terni e Spoleto, ma dalla quale non è esente Capanne: “Manca l’acqua ai piani superiori quindi non si possono fare le docce, sono ammassati come i maiali nelle stalle: in quattro o sei persone dentro a celle pensate per ospitarne una sola. Così diventa impossibile la gestione anche per i poliziotti”. E ancora: “La gravità con cui si esegue la pena non migliora le persone, è vero invece il contrario: lo dicono le statistiche carcerarie. Dove c’è barbarie, dove ci sono condizioni animalesche, il tasso di recidività aumenta. Mentre invece diminuisce dove ci sono percorsi di reinserimento”. In Umbria è altissimo il tasso di detenuti psichiatrici, spediti dalla Toscana, ma senza le Rems (residenze per l’esecuzioni delle misure di sicurezza): “Per ognuno di questi detenuti ci vogliono cinque persone per seguirlo: diventa impossibile”. E sottolinea come insieme a quelli dei detenuti si registrano suicidi anche nella polizia penitenziaria: “Serve una soluzione subito, o si rischia una carneficina”, dice. E conclude: “Non c’è modo di attuare il fine riabilitativo previsto dalla costituzione, perché non vengono fornite le opportunità: i detenuti contano i giorni che si avvicinano all’uscita, ma quando escono li assale l’ansia: perché non sanno cosa fare e dove andare: così ricadranno di nuovo”. Bergamo. “Carcere, un malessere che cresce nel silenzio. Ora servono risposte” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 13 luglio 2025 Gesto estremo di un detenuto. Altri quattro tentativi da inizio anno. I cappellani: “Fragilità in aumento, ma a livello nazionale poca attenzione”. Dentro il carcere, superati i pesanti portoni dei corridoi, il trambusto e il silenzio s’alternano scandendo il tempo della pena. Accanto al vociare di reclusi e operatori e alle tensioni che periodicamente infiammano la convivenza penitenziaria, si scorge però anche un’assenza di rumore che inquieta. Succede quando la solitudine e la disperazione vincono sulla vita, portando a scegliere per se stessi la condanna più forte. A metà giugno, nella casa circondariale di Bergamo un detenuto ha compiuto un gesto estremo nella propria cella, spegnendosi poi in ospedale dopo alcuni giorni di Terapia intensiva. Aveva 32 anni, era pachistano; la sua vita difficile e da senza fissa dimora, stando a quanto riportato nei documenti, lo aveva portato in carcere per un furto, con una pena definitiva che avrebbe finito d’espiare ad aprile del 2026. C’è una tragica contabilità umana impressa nell’ultima relazione periodica del Garante nazionale dei detenuti, redatta sulla base dei dati ufficiali del ministero della Giustizia e da cui è emersa anche la vicenda bergamasca. Dal 1° gennaio al 7 luglio, nelle carceri italiane si sono tolti la vita 37 detenuti; sono storie trasversali socialmente - uomini e donne, italiani e stranieri, condannati definitivi o in attesa di giudizio, ergastolani o a pochi mesi dalla scarcerazione - e che descrivono nella maniera più plastica uno sprofondo esistenziale diffuso. Perché, si legge sempre in quel dossier, questa sembra solo la punta dell’iceberg di una criticità che potrebbe avere contorni addirittura più estesi: a Bergamo, ad esempio, sempre da inizio anno sono stati censiti 4 tentati suicidi e 15 casi di autolesionismo, insieme a 55 “manifestazioni di protesta individuale” come gli scioperi della fame o della sete. “Il suicidio di una persona sottoposta a privazione della libertà personale - è la premessa incisa nel report, prima della fredda analisi dei numeri - è per definizione l’evento critico che esercita il maggiore impatto emotivo, che coinvolge maggiormente gli operatori chiamati ad intervenire, sotto il profilo operativo, ma anche sotto il profilo umano ed etico”. La Lombardia, con 7 suicidi in sei mesi, è la regione più toccata dal fenomeno nella prima parte del 2025. Venezia. Impiegati al Cup e all’Avis: la “rinascita” dei detenuti di Vera Mantengoli Corriere del Veneto, 13 luglio 2025 Il direttore del carcere, Enrico Farina: “Bisogna dimostrare di essere responsabili e seri. La buona riuscita di una persona è garanzia per gli altri”. Lavorano in una stanza dove ci sono solo scrivanie, computer, telefoni e una finestra con le sbarre, ma lo fanno con un sorriso perché è l’occasione per dimostrare che una rinascita è possibile. Sono i nove detenuti del carcere maschile che rispondono alle 5.500 telefonate al mese e alle circa 300 al giorno degli utenti che chiamano il Cup dell’azienda sanitaria Serenissima, guidati da un referente esterno che li ha formati e rimane con loro durante l’orario lavorativo. L’accordo tra Usl 3 e Santa Maria Maggiore si sta rivelando un’esperienza molto positiva per entrambi. “Per noi relazionarci con il mondo fuori è motivo di entusiasmo. Quando poi, soprattutto con gli utenti anziani, riusciamo a rispondere alle loro richieste d’aiuto, diventa gioia vera - racconta un operatore ristretto - Questo lavoro ci ricollega alla società e la gratificazione che abbiamo dagli utenti stessi ci esorta non solo a fare sempre meglio il nostro lavoro, ma anche a vivere meglio il carcere. Quando finiamo il turno abbiamo il senso di aver fatto bene il nostro lavoro e l’entusiasmo di essere impegnati in qualcosa di utile anche il giorno dopo”. L’istituto penitenziario di recente ha inaugurato una seconda stanza per permettere ai detenuti di lavorare per l’Usl 3. Tra questi c’è anche una persona che “è stata promossa per la sua bravura” e ora ogni giorno lavora all’Ospedale all’Angelo di Mestre. Da quando poco più di un anno fa è arrivato il nuovo direttore Enrico Farina, a Santa Maria Maggiore i detenuti sanno che le possibilità non mancano. In un contesto di sovraffollamento - ci sono 270 detenuti per una capienza di un centinaio di posti in meno - avere la speranza di potersi rimettere in gioco, magari fuori, in regime di semilibertà, aiuta. “Stiamo dialogando con tutte le realtà del territorio affinché, non appena ci siano le condizioni giuridiche che lo permettano, i detenuti possano trovare un’occupazione grazie alle possibilità della Legge Smuraglia che prevede molti sgravi fiscali per le ditte - spiega Farina - Ovviamente, come ripetiamo a chi è in carcere, bisogna anche dimostrare di volerlo fare e di essere responsabili e seri perché la buona riuscita di una persona è anche garanzia per gli altri e viceversa”. Gli operatori del Cup hanno dai 25 ai 45 anni e sono italiani, alcuni anche con una laurea, ma non sono i soli che si stanno mettendo in gioco. Dopo gli accordi con gli albergatori, la Procuratoria, imprese edili come la Setten, da poco è stato raggiunto anche un nuovo accordo con l’Avis che ha accettato di accogliere persone messe in prova per lavori socialmente utili, destinandole all’ufficio di chiamata dei donatori e all’accoglienza nei centri trasfusionali. In questo caso saranno 15 le persone coinvolte. “In questo modo il volontariato sostiene il reinserimento”, dice il presidente provinciale di Avis Venezia Fabio Reggio. Venezia. L’ex bandito che porta turisti nei luoghi della sua vita criminale di Pierfrancesco Carcassi Corriere del Veneto, 13 luglio 2025 Gianpaolo Manca porta i turisti sui luoghi del suo romanzo criminale: “Non è Gomorra, tra queste calli la mia vita è andata in rovina”. Il carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia dove Manca ha trascorso larga parte della sua vita. Molti detenuti lo riconoscono, lui saluta: “Non dimentico questo posto” Chi è Reclutato da Silvano “Kociss” Maistrello, si rese protagonista di furti, rapine, traffico di droga e del triplice omicidio dei fratelli Rizzi e di Padovan (10 marzo 1990) Condannato all’ergastolo, ha scontato 36 anni, di cui 12 in isolamento. Venezia, un sabato rovente di ordinario turismo (senza obbligo di ticket). Nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo c’è un gruppetto di persone davanti al polittico con il San Sebastiano di Giovanni Bellini. Sembra un giro turistico qualunque finché il racconto della guida passa alla prima persona: “Per rubare il dipinto nel 1971 mi nascosi in una cassapanca della chiesa il giorno prima, una suora per poco non mi scoprì. “Adottai” (rubai, ndr) la tela per 300 milioni di lire, su commissione di un magnate inglese. Valore, dicevano, 5 miliardi. Alla fine decidemmo di ricattare la Soprintendenza: mi presero mentre brindavamo con del Dom Perignon ghiacciato”. La voce nella navata è di Giampaolo Manca, camicia bianca, cappello e foulard: ex membro della mala del Brenta, aveva 17 anni quando fece il colpo che gli valse il soprannome di “Doge”. “Perché in questa chiesa sono sepolti i dogi”, spiega. Le mani che gesticolano e indicano il santo trafitto non sono le stesse di allora. Oggi di anni ne ha 70: dopo averne passati quasi 37 in carcere, 12 in isolamento, per gli omicidi di Massimo e Maurizio Rizzi, uccisi a colpi di pistola nel 1990 insieme a Franco Padovan sull’argine del fiume Brenta, ha saldato il conto con la giustizia. È libero, scrive libri, incontra i ragazzi nelle scuole e organizza tour nei luoghi della “sua” Venezia criminale. “È qui che è iniziato tutto e la mia vita si è rovinata. Sono stato un big del male, ora provo ad essere un big del bene o almeno di fare arrivare il mio messaggio ai giovani: non fate come me”, spiega. Ad ascoltarlo ci sono una ventina di partecipanti, anche da fuori regione: grandi e piccoli, coppie, famiglie con ragazzi; diversi sono tra i 40mila che lo seguono su Tiktok, dove racconta i suoi ricordi in brevi video, con decine di migliaia di visualizzazioni. Partecipare costa 20 euro. “La metà dell’incasso viene devoluta all’associazione Alphabeta che aiuta bambini e ragazzi con autismo”, chiarisce Manca. Ritrovo alla stazione dei treni a Venezia. Il gangster redento accoglie i partecipanti, stringe mani, si presta ai selfie. Poi si parte. Prima tappa, il carcere di Santa Maria Maggiore: sotto i grandi finestroni con le sbarre che spuntano dietro il muro di cinta, due ragazzi detenuti salutano con la mano. Manca ricambia: “Non posso dimenticare i miei anni qui dentro, mi sento ancora uno di loro”. E indica le celle: “Da lì vedevo mio figlio giocare nel giardino dell’asilo, da là ho saputo che sarei diventato padre”. Alla vicina chiesa dei Carmini racconta del battesimo negato al figlio appena nato. “Sa, i suoi trascorsi...”, gli disse il prete. L’ex Doge andò dal patriarca di Venezia: “Chiamò il sacerdote per intercedere. E sapete chi era, il patriarca? Albino Luciani (il futuro papa Giovanni Paolo I, ndr)”. Accanto alla chiesa c’era una scuola orafa: un’altra storia. “Portammo via l’oro, 14 chili. Il preside il giorno dopo era sicuro fossimo stati io e mio fratello, ma nessuno ci aveva visti”. Giampaolo Manca racconta i dettagli di reati, furti, rapine e inseguimenti con i carabinieri, gli occhi vispi di chi rievoca “bravate” di gioventù. Ma appena i ricordi vanno in prospettiva, la mente va agli anni perduti in cella, gli stessi occhi si velano di tristezza o di commozione che Manca scaccia con un “vabbè...”. Stop a Punta della Dogana per ricordare il tentato furto “d’esordio” a 13 anni, quello del motoscafo del miliardario Aristotele Onassis, che ospitò Jackie Kennedy, Maria Callas, Marilyn Monroe, e la furia del padre quando scoprì che si era impossessato di un vaporetto: “Era violento, quante me ne diede...”; all’interno della chiesa di San Sebastiano, nel sestiere di Dorsoduro, si ferma vicino a una finestra: “La scaldammo per romperla ed entrare e trafugammo i dipinti del Veronese”. Segno della croce verso il crocifisso - “Lui mi ha perdonato” - e via verso la tappa seguente. L’ex Doge chiosa spesso: “Sia chiaro che sono qui per raccontare quello che è stato, non per enfatizzarlo o dire che è stato bello”. “Felice Maniero? Ho capito chi era” - Con la Mala del Brenta contrasti vecchi decenni. A chi gli fa una domanda su Felice Maniero che fece il suo nome agli inquirenti, risponde: “Eravamo in affari, poi ho capito che persona era”. L’ex Doge nel tour sorvola sui delitti: “Mi hanno contattato tanti giornalisti chiedendomi del sangue, della violenza. Io non ci ho voluto parlare... non sono bei ricordi. Non voglio fare “Gomorra” e insegnare ai ragazzini a diventare camorristi”. L’unica morte di cui racconta è quella del bandito Silvano Maistrello, chiamato Kociss. “È stato ucciso dalla polizia su quel ponte”, accusa indicandolo in una delle tappe, “eravamo come fratelli”. Camminando, c’è spazio per le chiacchiere: la vita quotidiana in carcere - “a Venezia le celle si allagavano ed entravano le pantegane”. Ai saluti dei conoscenti o dei negozianti, Manca risponde girandosi verso il gruppo di turisti: “Sono miei amici”. E scherza: “Per chi sono venuti oggi? Per il Doge!”. “Il male affascina” - Qualche passante gli stringe la mano, “Sei un grande”. Qualcun altro lo fissa con aria interrogativa. Sui social più di qualcuno gli contesta l’opportunità di tenere simili tour. Lui risponde nei commenti di aver pagato per le sue azioni: “Racconto la mia vita e basta. Ma voglio dare un messaggio positivo”. Perché fare il tour allora? “Il male affascina”, sospira, “in troppi mi chiedono della mia storia e ho deciso di raccontarla così”. L’ultima tappa è al San Sebastiano di Bellini: “Forse la mia vita sarebbe stata diversa se non avessi fatto il colpo... Vabbè”, riflette, e si volta verso la tela: “Quando sono tornato qui per la prima volta, ho chiesto perdono. Ma comunque San Sebastiano mi ha guardato un po’ storto”. Manda un bacio al santo trafitto. Tre ore e mezza di tour, incasso di oltre 400 euro. Alla fine si fa una foto di gruppo, l’ex Doge dà appuntamento in autunno: “Stiamo girando un film memoria sulla mia vita, uscirà nei cinema”. Firma qualche copia dei suoi libri, registra video dediche per parenti e amici dei partecipanti. A un ragazzino che si avvicina con i genitori, raccomanda: “Ascolta sempre mamma e papà, quello che dicono è per il tuo bene” Firenze. Una giornata con Fatima: “Dodici ore con i detenuti in permesso premio” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 luglio 2025 La presidente di “Pantagruel” si prende cura dei detenuti di Sollicciano che dopo anni ottengono di poter uscire dal carcere per poche ore ma non hanno parenti e amici a Firenze. Li porta in Duomo, a fare piccoli acquisti, evitando che vaghino senza meta. Questa intervista l’ha rimandata svariate volte perché lei è così, non ci tiene a mettersi in mostra. Il campione di ciclismo Gino Bartali diceva che “il bene si fa e non si dice”. Ecco, per Fatima Benhijji vale lo stesso motto. Però è doveroso raccontarlo, il suo volontariato estremo, affinché si sappia, nero su bianco, quante sono le vite che salva quasi ogni giorno. Fatima, origini marocchine, è la salvezza per molti detenuti del carcere di Sollicciano, uno dei penitenziari più problematici d’Italia. Non soltanto entra in carcere ogni settimana per parlare coi reclusi, dare loro una speranza per continuare a vivere, scongiurare gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi (già due detenuti si sono tolti la vita nel penitenziario fiorentino nel 2025). Il suo volontariato estremo è un altro, e consiste nel fare compagnia ai reclusi che, per la prima volta dopo molti anni, escono per un permesso premio. Non è un’uscita normale, perché questi detenuti rivedono la libertà dopo mesi e mesi in cella. E soprattutto, perché il permesso premio dura dodici ore. E lei, Fatima, per dodici ore resta insieme a ciascuno di loro, rinunciando al lavoro come cameriera al ristorante, rinunciando alla famiglia, rinunciando ai figli. Dodici ore sono tantissime, a volte non passano mai. Dalle 8 la mattina fino alle 20 la sera, più volte nello stesso mese. L’associazione Pantagruel - “È vero, sono tantissime ore - dice Fatima - ma l’emozione che provo mentre tengo compagnia ai ragazzi che escono di galera sono uniche”. Questi ragazzi, in molti casi maghrebini, non hanno nessuno fuori che li aspetta. I loro familiari e i loro amici sono in patria, e se non trovassero la compagnia di Fatima, vagherebbero da soli in città, con l’alto rischio di ricadere in atti delinquenziali. E invece, grazie a Fatima che li prende per mano, che li ascolta e li protegge, riassaporano la libertà e la vita fuori dalle sbarre. “Un’emozione unica per me” dice lei, diventata da pochi mesi presidente dell’associazione Pantagruel. La libertà ritrovata - La giornata inizia al cancello di Sollicciano, dove i reclusi escono in autonomia e mettono piede, per la prima volta dopo anni, all’esterno. Poi vanno al Centro Samaritano della Caritas, dove avvengono colloqui di lavoro per organizzare la vita quando usciranno dal carcere. “È un aspetto fondamentale - racconta Fatima - perché il rischio recidiva è molto alto per questi ragazzi. Mi raccontano quasi tutti che in carcere non c’è lavoro e non ci sono corsi di formazione professionali, e quindi escono con l’anima persa, non sanno cosa fare, non sanno dove andare”. Dopo il Centro Samaritano, direzione centro storico di Firenze. “Molti di loro non hanno mai visto la città, li porto al Duomo, su Ponte Vecchio, in piazza Signoria, loro si emozionano”. Poi gli acquisti di vestiti in qualche negozio: “A volte possiedono soltanto un paio di pantaloni, una felpa e un paio di scarpe. Entrare in un negozio e comprare qualcosa è un’emozione indescrivibile che aumenta la loro dignità come esseri umani”. Succedono cose inaspettate, quando i detenuti escono di galera dopo anni: “Un ragazzo una volta è entrato in un bar per un caffè e ha iniziato a tremare di gioia” racconta Fatima. Oppure sedersi al ristorante: “Ritrovano il piacere di mangiare, la speranza nella vita”. O magari una visita al Piazzale Michelangelo, collina che domina la città: “Un ragazzo ha iniziato a correre avanti e indietro urlando e respirando una libertà ritrovata. Quando escono si rendono conto che non c’è niente di più prezioso della libertà”. Quando sono fuori, possono telefonare a casa per un tempo illimitato. “Presto loro il mio cellulare per chiamare i propri genitori, quando li vedono sullo schermo a volte si mettono a piangere”. E Fatima è sempre lì, sempre al loro fianco, per tentare di farli rinascere: “È vero che perdo una giornata di lavoro e di famiglia, ma io con loro sto benissimo, hanno una felicità negli occhi difficile da descrivere, alla fine della giornata sono stanca ma anch’io sono altrettanto felice”“. Firenze. Casa Ginestra, per l’accoglienza di detenute a fine pena di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 luglio 2025 Nasce a Firenze “Casa Ginestra”, una struttura che accoglierà donne detenute a fine pena o in misura alternativa alla detenzione. Si chiama “Casa Ginestra”: è pronta ad accogliere donne detenute a fine pena o in misura alternativa alla detenzione. La struttura, gestita da Fondazione Solidarietà Caritas in convenzione con il Comune di Firenze, rappresenta una risposta importante per la situazione di detenute sole, incinte o che vivono situazioni di particolare fragilità. “Una struttura di accoglienza molto attesa che viene incontro a un’esigenza particolarmente sentita, dare casa a donne incinte, sole, fragili - spiega l’assessore al Welfare Nicola Paulesu - Crediamo molto nel ruolo fondamentale dei percorsi di reinserimento e di assistenza socio-sanitaria per coloro a cui sono state concesse misure alternative al carcere o in uscita dalla detenzione, è fondamentale potenziare questo aspetto. Nello stesso tempo dobbiamo garantire una soluzione idonea quando siamo di fronte a situazioni di vulnerabilità. Casa Ginestra risponde a questi obiettivi. Stiamo lavorando molto con Fondazione Solidarietà Caritas, da sempre impegnata su questi temi, e con tutte le realtà che operano fuori e dentro il carcere, per costruire sempre di più nuovi progetti e opportunità”. Casa Ginestra si trova nel quartiere delle Cure e mette a disposizione quattro posti. Prevista la presenza di un educatore, di un coordinatore e dello psicologo, oltre a quella dei volontari. Partendo dall’accoglienza, dalla vicinanza e dall’ascolto, molti i servizi che saranno messi a disposizione delle ospiti, a partire dal supporto nel prendere contatti con i servizi territoriali per favorire una presa in carico a 360 gradi, fino alla possibilità di inserimento in attività di volontariato e la ricerca di opportunità di tirocinio o lavorative fino alla ricerca di un alloggio. “La percentuale di recidiva, è dimostrato da studi certificati, è pari al 2% tra i detenuti che intraprendono percorsi alternativi, contro il 70% di chi sconta la pena fino all’ultimo giorno in carcere - spiega Marco Seracini, presidente di Fondazione Solidarietà Caritas Firenze -. Per questo dobbiamo investire su strutture come Casa Ginestra, che garantiscono percorsi personalizzati alle detenute in un momento delicato come quello della scarcerazione o del fine pena: un alloggio temporaneo e un supporto specializzato possono aiutare a riadattarsi alla vita fuori dall’istituto carcerario e favorire il reinserimento sociale e l’autonomia”. Aosta. Il Viceministro Sisto: “Per le carceri lo sforzo è massimo” aostanews24.it, 13 luglio 2025 Il Viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto ha effettuato venerdì 11 luglio una visita istituzionale in Valle d’Aosta, facendo tappa presso il carcere di Brissogne e al Palazzo di Giustizia di Aosta. Un’occasione per fare il punto sul sistema penitenziario e giudiziario regionale, riconoscendo gli sforzi compiuti ma anche le criticità ancora da affrontare. “Il Governo ha investito in modo massiccio, a livello nazionale, sul sistema penitenziario: basti pensare che per la Polizia penitenziaria è stato approvato il piano assunzionale più importante degli ultimi vent’anni”, ha dichiarato Sisto. Durante il sopralluogo a Brissogne, il Viceministro ha evidenziato anche l’impegno del personale penitenziario nel gestire le difficoltà quotidiane all’interno dell’istituto, come i casi di depressione e disagio psicologico tra i detenuti. Ha poi espresso apprezzamento per il servizio sanitario interno alla struttura: “ho incontrato un medico ormai in pensione, che continua a prestare servizio con grande generosità. Posso dire di aver trovato una sanità carceraria attenta e capace di rispondere ai bisogni della popolazione detenuta”. Tuttavia, Sisto non ha nascosto le problematiche ancora aperte: “si può e si deve fare di più. È indispensabile introdurre le docce all’interno dei bagni separati delle celle e garantire l’acqua calda, che oggi purtroppo manca. Lo sforzo è massimo, ma serve completare il percorso”. Nel corso della giornata, Sisto ha anche affrontato la questione della carenza di personale amministrativo presso il Tribunale e la Procura di Aosta. A tal proposito, il Viceministro ha annunciato la convocazione di un incontro operativo entro fine luglio, che coinvolgerà Ministero, vertici giudiziari locali e l’Ufficio del personale. Brescia. Maratona “Dentro il carcere”: la campagna per un servizio pubblico di psicologia quibrescia.it, 13 luglio 2025 Il coordinamento della campagna presenta la proposta di legge per migliorare il servizio psicologico in carcere, con l’obiettivo di tutelare il benessere mentale degli internati e degli operatori. Sabato 12 luglio, nel Parco di Canton Mombello a Brescia, si è svolta la maratona oratoria “Dentro il carcere. Voci che nessuno vuole ascoltare”. Durante l’evento, Francesco Maesano, coordinatore della campagna per un Servizio Pubblico di Psicologia, ha presentato una proposta di legge che punta a migliorare il supporto psicologico nelle carceri italiane. “Essere in prigione non deve significare anche soffrire psicologicamente,” ha detto Maesano. “La nostra proposta chiede di rafforzare i servizi di psicologia nelle carceri, ma anche in scuole, ospedali e luoghi di lavoro. Il benessere psicologico deve essere un diritto per tutti,” ha aggiunto. La campagna ha avviato una raccolta firme con l’obiettivo di raccogliere 50.000 adesioni per portare la proposta in Parlamento. L’iniziativa si basa su studi recenti che dimostrano come un supporto psicologico adeguato possa ridurre l’uso di servizi sanitari come il pronto soccorso, con risparmi significativi per il sistema sanitario. “Il benessere psicologico non è un lusso, ma un diritto fondamentale,” ha concluso Maesano, invitando tutti a sostenere la proposta. Messina. Laboratorio teatrale e scrittura creativa per i minorenni di Ilaria Caione gnewsonline.it, 13 luglio 2025 Si avvia alla conclusione il secondo ciclo di InScenando, il laboratorio teatrale e di scrittura creativa promosso da DAF Project in collaborazione con l’Ufficio di servizio sociale per i minorenni di Messina. Un progetto educativo che, dal 2024 ad oggi, ha coinvolto 30 ragazzi in carico alla giustizia minorile, toccando diverse realtà della provincia ionica e di quella tirrenica. DAF Project è una Associazione culturale attiva in Sicilia dal 2002, che unisce creazione artistica ad educazione ed impegno sociale, promuovendo l’arte come strumento di trasformazione. I percorsi multidisciplinari, nello specifico il teatro e la scrittura, proposti dall’Associazione hanno offerto ad i giovani coinvolti strumenti efficaci per riscoprire sé stessi e le proprie storie. Una modalità nuova per imparare ad ascoltarsi, a raccontarsi ed a riflettere sulle scelte operate, rielaborando il proprio vissuto con uno sguardo nuovo. Il laboratorio si è ispirato al celebre viaggio di “Alice nel Paese delle Meraviglie”, proponendo un cammino fatto di regole, ostacoli e possibilità, per riuscire a dare un nome a ciò che spesso resta confuso o non detto. Il percorso si apre ora al territorio con tre restituzioni pubbliche previste nel mese di luglio, veri e propri momenti di incontro e di condivisione. Gli allievi-attori presenteranno il frutto del lavoro svolto durante l’anno: 14 luglio ore 10:00 - Nuovo Teatro Val d’Agrò, Santa Teresa di Riva; 17 luglio ore 16:00 - Centro Giovanile Comunale Cairoli, Barcellona Pozzo di Gotto; 18 luglio ore 16:00 - Spazio Sarj, Messina. I ragazzi guidati da Antonio Previti, regista impegnato nel teatro dal 2015, da Angelo Campolo, regista, autore, formatore, attore e direttore didattico di DAF Project, e da Paola Toscano, Iolanda Scuderi, Danila Caristi e Maria Baronello, funzionarie di servizio sociale, che a vario titolo hanno contribuito alla fruttuosa realizzazione della progettualità artistica, hanno potuto vivere una significativa occasione di promozione della cultura della legalità e le tre date pubbliche consentiranno loro di vivere una concreta sperimentazione di cittadinanza attiva. La voce liberata delle donne carcerate di Antonio Audino Domenica - Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2025 Un progetto, un laboratorio, uno spettacolo, e in tutte queste cose un’attenzione verso un mondo nascosto di sofferenza, verso persone e luoghi estremamente distanti dalla nostra vita ordinaria, con al centro dolorose realtà che per noi, gente comune, sono inimmaginabili. Quante linee si intrecciano mirabilmente in “Vorrei una voce”, di Tindaro Granata. Per questo il lavoro si guadagna meritatamente il premio Hystrio Twister 2025, legato all’omonima rivista dedicata alle arti della scena, che gli verrà consegnato il 21 settembre prossimo al Teatro Elfo Puccini di Milano. Attore, drammaturgo, regista dalle tante esperienze Granata ha deciso di dar vita qualche anno fa a un’iniziativa realizzata insieme alle detenute di massima sicurezza della casa circondariale di Messina, trovandosi così, tra le mura del penitenziario siciliano, a lavorare con donne, le vite delle quali sono segnate da trascorsi di violenza, vissute nei territori dell’illegalità, governate dalle rigide regole della criminalità organizzata. Da quel progetto nascerà una rappresentazione realizzata nel carcere, ma Tindaro ha voglia di raccontare a un pubblico più vasto quanto è accaduto dietro le sbarre, e decide di farlo da solo. Ci svela quindi il gioco nel quale ha cercato di coinvolgere le detenute, chiedendo loro di interpretare, soltanto in playback, alcune canzoni di Mina, idea apparentemente semplice, ma in quel contesto, totalmente deflagrante. Ed è lui stesso a riportarci le voci di quelle donne, interpretandone i toni dialettali, certe durezze espressive, le risate acute o soffocate, per dirci soprattutto del loro rifiuto a farsi trasportare da qualcosa che ha i contorni della pura bellezza, della loro incapacità di lasciarsi andare, anche semplicemente mimandola, a un’espressione estranea al loro cupo orizzonte quotidiano, fosse pure soltanto una canzone. Eppure, qualche segno comincia a incrinare quel muro di diffidenza, e pian piano emergono le tracce di sentimenti profondi, affiorano dolori e passioni, con l’espediente di alzare la musica durante le prove per dar modo alle partecipanti di rivelare qualcosa di più, senza farsi comprendere dalle guardie carcerarie. Con straordinaria acutezza e intensità, l’autore e interprete rende a pieno quei profili con curiosità sincera, con tenerezza e ironia, facendo emergere in maniera sempre più nitida un interrogativo sulla femminilità, e tirando fuori, quindi, i suoi ricordi di vita, mentre indossa scintillanti vestiti di lamé, mettendoci a parte delle sue scoperte erotiche e sentimentali, rivelate in quella situazione per creare un comune terreno esistenziale. Tra le asprezze dell’esperienza umana e la voglia di sognare, anche soltanto per qualche istante. La nostra ansia che spinge i ragazzi ad astenersi di Antonio Polito Corriere della Sera, 13 luglio 2025 I giovani di oggi si sentono traditi. Ingannati. Come se fossero la prima generazione nella storia dell’umanità cui sia stato sottratto, anzi rubato, il futuro. Sempre più spesso i nostri ragazzi si ribellano astenendosi. Invece di fare qualcosa, non la fanno. Per esempio: scena muta all’orale della maturità, in segno di protesta contro “i meccanismi di valutazione scolastici” (così “competitivi” da garantire loro comunque la promozione con i crediti accumulati nel triennio, e da mantenere le percentuali di bocciature intorno a un simbolico 0,2%). Oppure astenendosi da lavori che non soddisfino le loro più che giuste aspirazioni, di salario e di tempo libero. O ancora astenendosi dal voto, ché tanto gli appare inutile (e talvolta effettivamente lo è). È un singolare fenomeno, da non confondere con ciò che è accaduto in altre epoche. I giovani si sono sempre ribellati ai padri. Ma oggi più che una lotta, sembra una separazione. Anzi, una secessione. Nel ‘68 gridavano “siamo realisti, chiediamo l’impossibile”; ora sembrano dire “siamo utopisti, lasciateci in pace”. Perché? Ci dobbiamo preoccupare? Vogliamo provare a capire, prima di condannare? È probabile, infatti, che le cause di questo comportamento siano da ricercare nella società degli adulti, di noi padri e madri. Almeno tre di queste, sicuramente. 1) La questione antropologica. Il cambiamento d’epoca si sta manifestando come un imponente processo di “disincarnazione”, ha scritto Luca Diotallevi sul Messaggero. Ed è così. I nostri corpi, un tempo gomito a gomito nei luoghi di studio e di lavoro, sono sempre più isolati: quando studiamo, facciamo shopping, coltiviamo relazioni e amicizie, sperimentiamo la sessualità da casa, da remoto, on line. Il lockdown per la pandemia ne è stata l’apoteosi. Potrebbe persino darsi - aggiunge l’autore - che l’ossessione dei nostri giovani per i tatuaggi sia una forma di resistenza in nome del corpo, una “riscoperta” della pelle. La “disincarnazione”, nella parte del mondo in cui perfino Dio ha scelto di incarnarsi, è un potente fattore di shock e disorientamento. 2) La questione culturale. Siamo noi, la società degli adulti, ad aver creato un clima di paura del futuro, di ansia costante e permanente. Da quando mi ricordi, ho sentito annunciare con ottimi argomenti la fine del cibo, la fine del petrolio, la fine del lavoro, la fine delle pensioni, la fine dei ghiacciai, la fine della Terra. E magari qualcuna di queste profezie ci azzeccherà pure. Come meravigliarsi allora se tanti giovani, angosciati da una visione catastrofica dell’avvenire, non più un sole ma una nube tossica, inclinino a un nichilismo esistenziale, che li spinge per l’appunto ad astenersi, a non fare piuttosto che a fare? 3) La questione politica. La “società dei diritti” è una macchina inesauribile: ne produce sempre di nuovi, insieme al risentimento per l’ingiustizia del loro mancato riconoscimento. Il diritto al lavoro, allo studio, alla salute, non bastano più. Serve il diritto a morire, il diritto alla genitorialità, il diritto a scegliersi il sesso o il genere. L’articolo 2 della Costituzione “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”. Ma “non tutte le aspirazioni e i desideri dell’individuo devono necessariamente tradursi in diritti soggettivi. E, in ogni caso, non tutti i diritti soggettivi devono necessariamente assumere il rango di diritti fondamentali” (Augusto Barbera). Così la Repubblica sembra non mantenere la sua promessa. E si contesta la società liberale perché, pur assicurando la liceità di tanti comportamenti (quasi tutti), non li sancisce come nuovi diritti di libertà. La Costituzione è interpretata come una “Carta dei diritti” e non dei “valori”, che comprendono anche i relativi doveri. Per queste (e altre) ragioni, i giovani di oggi si sentono traditi. Ingannati. Come se fossero la prima generazione nella storia dell’umanità cui sia stato sottratto, anzi rubato, il futuro. Non hanno sempre torto. Ma, soprattutto, non la pensano tutti così. Ogni volta che leggiamo un’analisi preoccupata sulle giovani generazioni (a partire da questa) dovremmo sempre ricordare che parlano della punta dell’iceberg; di quello che si vede, che emerge alla superficie della cronaca. E che invece, nelle profondità della nostra società, c’è un esercito di ragazzi che si costruisce con fatica, anche maggiore di un tempo, la propria vita. E risponde perfino alle domande dell’esaminatore della maturità. Probabilmente la nostra vera colpa è di non capire abbastanza loro. La scuola preferisce gli studenti impreparati a quelli indisciplinati di Maria Tornielli Il Domani, 13 luglio 2025 La risposta del ministro Giuseppe Valditara di fronte ai ragazzi che “boicottano” l’esame di maturità mostra che a dare fastidio è solo l’idea che i maturandi possano scegliere liberamente di protestare, sfruttando la struttura stessa dell’esame. Cosa dà veramente fastidio della scelta di tre studenti di non sostenere l’orale di maturità perché erano già matematicamente promossi? Magari l’argomentazione contro il loro gesto è che il colloquio è fondamentale per valutare pienamente la preparazione dei ragazzi. Che è un momento formativo imprescindibile, un’esperienza per qualche motivo insostituibile. Se è così, però, non si spiega allora perché il sistema stesso dell’esame permetta di arrivare alla sufficienza (sui cento punti del voto massimo della maturità 40 sono assegnati con il sistema dei crediti che valuta l’esperienza degli anni passati, 20 per la prima prova e altri 20 per la seconda) anche senza sostenerlo. Se è una prova così irrinunciabile, come sono tante prove orali in altri contesti, perché è così semplice rinunciarvi? Il cuore della questione - E infatti, a dare fastidio è altro. La reazione del ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, è stata rivelatoria. Giovedì 10 luglio, riferendosi ai primi due casi avvenuti in licei veneti, ha detto: “Fra le riforme che stiamo per varare c’è anche una riforma della maturità. Comportamenti di questo tipo non saranno più possibili. Se un ragazzo non si presenta all’orale o volontariamente decide di non rispondere alle domande dei docenti, non perché non è preparato, quello può capitare, ma perché vuole “non collaborare” o vuole “boicottare” l’esame, dovrà ripetere l’anno”. Al netto quindi delle lamentele sugli studenti scansafatiche e inadatti alla vita e tutte le altre riflessioni delicatissime che abbiamo letto in questi giorni sui social dal lato degli ultras del “quando ero giovane io” - che si scontra con la tifoseria di segno opposto - il problema non pare essere la preparazione. È proprio l’idea che qualcuno o qualcuna possa approfittare del sistema per boicottarlo. Scegliendo, liberamente e con le proprie opinabilissime ragioni, di accontentarsi di un voto più basso perché a quel metro di valutazione non dà poi così tanto valore. Senza dibattito - È questo alla fine a risultare intollerabile: che qualcuno o qualcuna non solo non creda al dogma di fede dell’importanza di questo rito, che lo boicotti e che dica qualcosa contro il sistema che lo produce. Non si dibatte dell’esame. Non ci si chiede perché non sia considerato così importante. Se la sua struttura sia ancora sensata. Se il problema fosse davvero di “merito”, parola che piace parecchio al governo, ci si farebbe qualche domanda sul meccanismo con cui si svolge l’orale. Ci si farebbe qualche domanda sul fatto stesso di avere un esame orale, il cui esito è influenzato da una serie di variabili molto meno controllabili rispetto ai test scritti. E ci si chiederebbe se davvero la maturità abbia un peso misurabile sul futuro degli studenti. Può benissimo essere che la risposta a tutti questi dubbi sia che la maturità va benissimo già così com’è, che il sistema dei voti che le ragazze e i ragazzi contestano è un’approssimazione necessaria e funzionale. Magari l’orale è davvero fondamentale e magari dovrebbe valere più di 20 punti. Magari le questioni poste da chi ha boicottato l’esame sono stupide e immature: qual è quindi la difficoltà nel rispondere? E, soprattutto, se si dà per scontato che possa succedere che qualcuno sia “impreparato” e faccia scena muta all’orale, come sembrava dire Valditara, perché dovrebbe essere meno grave della scelta di studenti adulti di fare scena muta per qualsiasi altro motivo? Per lo stesso motivo per cui in questi anni si è martellato sul voto in condotta, si è fatta una bandiera della lotta alle occupazioni, si è annunciato un nuovo codice etico per gli insegnanti. Perché la parola d’ordine è la disciplina. Perché, tirando le somme, la scuola del “merito” alla fine preferisce gli studenti “impreparati” agli studenti “indisciplinati”. Sbarchi di migranti dalla Libia: +87% nel 2025. I dati di Frontex e il “calo” che non è mai esistito di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2025 Il 91% di tutti gli sbarcati nel 2025 è partito dalla Libia, mentre nei primi sei mesi del 2024 erano il 56%. Nello stesso periodo, la Tunisia è scesa dal 39% del 2024 al 6% di quest’anno. I dati di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, evidenziano una diminuzione complessiva del 20 per cento degli attraversamenti irregolari delle frontiere esterne dell’Ue nella prima metà del 2025. Ma nonostante il calo, scrive l’Agenzia, “la rotta del Mediterraneo centrale ha registrato oltre 29.300 attraversamenti irregolari, il 12% in più rispetto allo stesso periodo del 2024”. E in particolare, “la Libia continua a essere il principale Paese di partenza per questi viaggi pericolosi, con circa 20.800 migranti arrivati in Italia, con un aumento dell’80% rispetto all’anno scorso”. In generale, il cruscotto giornaliero del Viminale dice che dal primo gennaio sono sbarcate sulle nostre coste 31.948 persone. Nello stesso periodo del 2024 erano state 28.376 e nel 2023, anno record per gli arrivi dalla Tunisia, 72.036. Tra le principali nazionalità per numero di sbarchi ci sono Bangladesh (33%), Eritrea (15%), Egitto (12%). Quanto agli arrivi dalla Libia, nei primi 6 mesi del 2025 sono aumentati dell’87 per cento rispetto allo stesso periodo del 2024. A spiegare il dato è il fatto che il 91% di tutti gli sbarcati nel 2025 è partito dalla Libia (27.200 persone), mentre nei primi sei mesi del 2024 erano il 56% (14.500 persone). Nello stesso periodo, la Tunisia è scesa dal 39% del 2024 al 6% di quest’anno. Qualcosa è cambiato? Dopo gli scontri di maggio e il successivo cessate il fuoco, a Tripoli la missione Onu (Unsmil) segnala nuovi movimenti di milizie e rinforzi militari. E se il governo di Abdelhamid Dbeibah è più debole, a Est il generale Khalifa Haftar, spalleggiato da Russia ed Egitto, mostra i muscoli, anche con la delegazione di ministri e diplomatici europei, compreso il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi, cacciati martedì da Bengasi perché “persone non gradite”. Rispetto alla possibilità di una ‘ritorsione migratoria’, “non ho nessun motivo per crederlo, anzi”, assicura Pianteodsi, che a metà giugno ha ospitato a Roma il figlio di Haftar. Preoccupano di più l’atteggiamento di Mosca - “da tenere sotto controllo” -, e le difficoltà di Tripoli, che resta il principale snodo per i viaggi via mare. ?Frontex segnala invece il nuovo “corridoio Libia-Creta”, che a luglio ha registrato un boom di sbarchi in pochi giorni. Tanto che mercoledì il governo di Kyriakos Mitsotakis ha annunciato un provvedimento per sospendere le richieste di asilo di tutte le persone salpate dal Nord Africa, che poi significa Libia. Tornando ai dati dell’Italia, l’aumento recente va confrontato con il trend registrato negli ultimi anni. Sempre in base ai dati del Viminale, l’analista Matteo Villa, direttore DataLab dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), fa notare che “gli sbarchi sono identici da cinque anni a questa parte”. E che, al netto della parentesi tunisina che ha spinto gli arrivi soprattutto nel 2023, il calo degli sbarchi “non è mai davvero esistito”. Dalla Libia sono arrivate 53 mila persone nel 2022, 52 mila l’anno successivo, 41 mila nel 2024 e per il 2025, in base ai dati degli ultimi 12 mesi, possiamo aspettarci 55 mila arrivi. Il rischio di giocare d’azzardo col mondo di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 13 luglio 2025 Inutile elencare le decisioni strane o aggressive prese dall’amministrazione Trump in sei mesi. Non è solo la sostanza, ma anche la forma, a sconcertare La lettera con cui Donald Trump comunica all’Unione europea l’imposizione di dazi al 30%, a partire dal 1° agosto, sembra opera di un ragazzino delle scuole medie, non molto versato per la scrittura. Leggetela, vale la pena. Concetti ripetuti, vocabolario ridotto, blandizie e velate minacce. Se aggiungiamo che il mittente è appena comparso sull’account X della Casa Bianca vestito da Superman (“Simbolo di supremazia!”) occorre decidere: dobbiamo ridere o preoccuparci? Temo dobbiamo preoccuparci. Quando ho detto a “Otto e mezzo” (La7) che Donald Trump avrebbe bisogno di un buon psicoterapeuta, sono stato insultato sui social. Vorrei che i miei critici mi spiegassero dove sbaglio. Quello del Presidente americano vi sembra un atteggiamento normale? E non, invece, il comportamento erratico di un anziano collerico, narcisista e impulsivo? Non è mancanza di rispetto: è sincera preoccupazione per la strada imboccata da un Paese amico. Inutile elencare le decisioni strane o aggressive prese dall’amministrazione Trump in sei mesi. Non è solo la sostanza, ma anche la forma, a sconcertare. I rapporti delle nazioni - anche nei periodi più complicati - richiedono ritualità e prevedibilità. Altrimenti il sistema internazionale non regge, e le conseguenze rischiano di essere devastanti. È possibile - addirittura probabile - che sui dazi alla Ue Donald Trump cambi idea. Chiedere molto in modo aggressivo, poi ridurre le pretese, è la sua tattica negoziale. Ma il problema rimane. Trump finge di non capire che il disavanzo commerciale è frutto di una scelta: gli USA importano le merci che non possono o non vogliono produrre. Anche perché producono altro, assai prezioso: in campo aerospaziale, militare, biomedico, farmaceutico. Per non parlare dei servizi digitali delle Big Tech, che Trump - chissà perché - pretende siano esentasse in tutto il mondo. Ma qui siamo entrati nella sostanza della questione. Il problema però, come dicevamo, riguarda anche la forma. In questa e altre vicende, Donald Trump sembra godere nel provocare e sorprendere la controparte. Ma così si comportano i giocatori d’azzardo, non i presidenti. D’accordo che il mondo è diventato un casino, ma a tutto c’è un limite. Francesca Albanese: “Continuerò a fare ciò che devo. Non mi hanno mai contestato i fatti” di Gennaro Tortorellli L’Espresso, 13 luglio 2025 “Sto davvero mettendo in gioco tutto quello che ho. Se ci riesco io, allora tutti possiamo resistere a questa pressione. E insieme possiamo davvero uscire da questo genocidio con la speranza di un mondo migliore”. Intervenuta a una conferenza stampa a Lubiana, la Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi Occupati, Francesca Albanese, ha reagito alle sanzioni individuali impostele dall’amministrazione Trump. Tali misure - che includono il divieto di ingresso negli Usa e il congelamento dei beni - solitamente sono riservate a leader di Paesi considerati ostili, non a funzionari delle Nazioni Unite o giudici internazionali. “È un record”, ha commentato ironica, “sono la prima persona dell’Onu a cui è successo. Per cosa? Per aver denunciato un genocidio? Per aver documentato un sistema? Mi sanzionano, ma non mi hanno mai contestato i fatti”. “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio” - La relatrice ha da poco pubblicato un rapporto dettagliato sul ruolo delle imprese private nel sostenere l’occupazione illegale, l’apartheid e il genocidio nei territori palestinesi occupati da parte di Israele. Il documento denuncia come numerose aziende internazionali - attive in settori chiave come armamenti, tecnologia, costruzioni, finanza e accademia - abbiano tratto profitto diretto da questo sistema di dominio coloniale, contribuendo a violazioni dei diritti umani e crimini internazionali. Nel messaggio finale, Albanese scrive che “il genocidio a Gaza non può essere fermato senza smantellare l’economia globale che lo sostiene. Le aziende e i loro dirigenti devono essere chiamati a rispondere. La giustizia non può essere selettiva”. La pubblicazione del rapporto, secondo la relatrice speciale Onu, è alla radice delle sanzioni: “Ho dato a queste aziende l’opportunità di correggermi. Invece, si sono lamentate con l’amministrazione statunitense. Questo la dice lunga su chi sono”. Durante la conferenza, Albanese ha inoltre ribadito che il suo lavoro nella difesa dei diritti del popolo palestinese è sempre stato volontario e non retribuito. Le reazioni internazionali - L’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, Volker Türk, si è espresso con fermezza contro le sanzioni, chiedendone il ritiro immediato: “Esorto gli Stati Uniti a revocare rapidamente le sanzioni. Gli attacchi contro titolari di mandati Onu e contro istituzioni chiave come la Corte Penale Internazionale devono cessare”. Anche il presidente del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu, l’ambasciatore svizzero Jürg Lauber, ha espresso “rammarico” per la decisione statunitense e ha invitato tutti gli Stati membri “a collaborare pienamente con i relatori speciali e ad astenersi da qualsiasi forma di intimidazione”. Dura anche la reazione di Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International: “Queste sanzioni sono un attacco vergognoso e trasparente ai principi fondamentali della giustizia internazionale. Francesca Albanese svolge un ruolo essenziale nel denunciare il genocidio in corso nella Striscia di Gaza e nel rivelare i profitti che alcune aziende traggono dall’occupazione israeliana”. Amnesty ha invitato tutti gli Stati a fare pressione diplomatica sugli Stati Uniti affinché le misure messe in campo contro la relatrice vengano annullate. Gli appelli della politica italiana - “Trovo vergognoso che il governo italiano non abbia detto una parola in difesa di una cittadina italiana che svolge un incarico così delicato presso l’Onu”, ha denunciato la segretaria del Partito democratico Elly Schlein. Il trattamento riservato ad Albanese è, per la leader del Pd, “l’ennesimo attacco al multilateralismo da parte di Trump”. I dem hanno anche presentato un’interrogazione parlamentare con firme, tra gli altri, di Peppe Provenzano, Laura Boldrini e Debora Serracchiani, per chiedere al governo “quali iniziative intenda intraprendere per difendere l’indipendenza delle Nazioni Unite e i diritti di una cittadina italiana”. I capigruppo delle Commissioni Difesa di Camera e Senato del M5s hanno parlato di “un atto gravissimo. È inaccettabile che chi denuncia crimini contro l’umanità venga colpito, mentre i responsabili restano impuniti. Meloni deve reagire con fermezza, almeno per dignità nazionale”.