Serve una rivoluzione copernicana per l’architettura delle nostre carceri di Cesare Burdese* L’Unità, 12 luglio 2025 Recentemente, ho visitato insieme a Nessuno tocchi Caino e alle Camere penali liguri le carceri di Genova-Pontedecimo, Sanremo e Genova-Marassi. Al di là di compiere un’opera di misericordia corporale laica, entro in carcere per constatare le condizioni delle strutture detentive e della vita al loro interno, da molti decenni oggetto del mio impegno di architetto. Quello che ogni volta mi appare è il risultato plastico di azioni che hanno nel tempo contribuito a configurare uno scenario materiale detentivo contraddittorio e negativo, fuori dal dettato costituzionale. Su tutto prevale la disumanità delle soluzioni architettoniche per rispondere al bisogno legittimo di contenere in sicurezza esseri umani che, privati della loro libertà, per un periodo di tempo limitato o per sempre, scontano una pena disumana. In nessun caso i valori fondanti dell’architettura appartengono ai nostri edifici carcerari, frutto di una progettistica insensibile ai temi della qualità e al benessere ambientale. A questo si assomma un degrado edilizio generalizzato per la cronica mancanza di manutenzione ordinaria e straordinaria. I nostri edifici carcerari rimandano a una concezione afflittiva della pena che umilia e penalizza quanti il carcere a vario titolo lo frequentano. Il tutto è condito da un tasso di sovraffollamento che limita il pieno esercizio delle attività trattamentali, già di per sé penalizzato dalla carenza di spazi. Il risultato finale sono condizioni di vita e di lavoro al limite dell’inciviltà e lontane dall’esecuzione penale della riforma e delle raccomandazioni di organismi internazionali o nazionali. Nelle tre carceri visitate, chi più chi meno, l’ambiente materiale è sconfortante: per i muri scrostati e malsani; per i letti ammassati nelle celle; per le finestre che oltre la fila di sbarre sono schermate da una fitta rete metallica e a volte (come a Pontedecimo) anche sigillate da pannelli di plexiglas che impediscono la vista; per gli spazi detentivi all’aperto carenti e per i cortili dell’aria completamente privi verde; per le docce che funzionano a intermittenza e per l’acqua potabile che scarseggia; per la mancanza negli ambienti di vita e di lavoro di luce naturale, di ventilazione e di accorgimenti per gestire il rumore. Ulteriori significative criticità si rilevano per la localizzazione degli Istituti di Sanremo e di Genova Pontedecimo. Il primo è collocato in una valle impervia, tra un cimitero e una discarica, distante parecchi chilometri dal centro abitato e malissimo servito dai mezzi pubblici. Il che costringe i parenti dei detenuti in visita, se privi di auto propria, all’uso del taxi con costi significativi. Il secondo si colloca in un’area marginale della città, con una strada di accesso fortemente in salita, che causa disagio e difficoltà ai visitatori, in particolare se anziani o disabili. Tali circostanze riducono il poco margine di relazione esistente con il contesto sociale di appartenenza, limitando, se non addirittura annullando, le opportunità per un percorso vero di risocializzazione delle persone detenute. Nel carcere ottocentesco di Genova Marassi, un istituto inserito in pieno contesto urbano, il problema endemico del sovraffollamento vanifica i pur buoni rapporti dell’Istituto con l’esterno testimoniati dalle molte attività trattamentali realizzate con la collaborazione della società civile, ma che potrebbero essere ancora maggiori se non esistesse una ridotta disponibilità di spazi. Nota dolente è l’impossibilità ovunque in Liguria, ancora per mancanza di spazio, di dare corso alla ormai famigerata sentenza della Corte Costituzionale in tema di affettività in carcere. Realisticamente, rimedi di natura architettonica non sono possibili visti i limiti culturali, amministrativi ed economici da sempre presenti. La connotazione architettonica del nostro carcere, da un lato, lo stato di conservazione, dall’altro, condanneranno a lungo l’esecuzione penale a essere di fatto incostituzionale e indegna. La questione architettonica non è risolvibile se non con l’avvento improbabile di una rivoluzione copernicana nella nostra progettistica carceraria; lo stato dei fabbricati potrebbe essere migliorato destinando maggiori risorse per la manutenzione e ristrutturazione. In questi torridi giorni estivi, si susseguono da più parti gli appelli alle più alte cariche dello Stato per la situazione delle carceri. Il Presidente della Repubblica e il Presidente del Senato hanno riconosciuto le drammatiche condizioni di detenzione. Il rischio dell’Italia di subire una ulteriore condanna da parte della Corte europea dei diritti umani è elevato. Per questo, Rita Bernardini ha ripreso lo sciopero della fame di dialogo rivolto innanzitutto al Parlamento perché prima di andare in ferie faccia il suo dovere: affrontare la questione del sovraffollamento carcerario che è la causa primaria delle condizioni inumane e degradanti di vita dei detenuti e di lavoro dei detenenti. *Architetto Carceri senza aria e politica senza umanità di Osservatorio Regionale Campano sulle condizioni delle persone private della libertà personale Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2025 L’Osservatorio Regionale campano sulle condizioni delle persone private della libertà personale chiede al Parlamento e al Governo di ascoltare e comprendere le parole del Presidente della Repubblica che ha definito il sistema carcerario “contrassegnato da una grave e ormai insostenibile condizione di sovraffollamento nonché’ dalle condizioni strutturali inadeguate di molti istituti”. Il sovraffollamento medio ha, infatti, raggiunto il 130%, ma in moltissimi Istituti penitenziari, tra cui il carcere di Poggioreale, in cui i detenuti sono 2.164, il sovraffollamento reale supera il 160% e le parole del Presidente Mattarella sono inequivocabili: occorre intervenire immediatamente su questa condizione insostenibile. Il Presidente inoltre afferma, nella sua funzione di garante della Costituzione, che lo spazio detentivo non può essere concepito unicamente come luogo di custodia ma deve includere ambienti destinati alla socialità, all’affettività e al trattamento. Oggi, purtroppo, il carcere è uno spazio dove non si respira nemmeno. In quest’ estate infernale in carcere si muore di caldo (si muore letteralmente), non si respira e non si dorme, le ore di passeggio sono effettuate in orari caldissimi ed è molto difficile svolgere le attività nei tenimenti agricoli e nelle serre penitenziarie per cui si trascorre molto tempo in cella dove si vive (sopravvive) in modo indegno. Nell’attuale “insostenibile” condizione di sovraffollamento, infatti, molte persone sono costrette a dormire sulla terza branda a pochi centimetri dal soffitto rovente, in uno spazio angusto dove sono ammassate cose e persone. In questa situazione, la detenzione diventa tortura. Le carceri, oggi, sono evidentemente fuori legge e sono pertanto indifferibili i provvedimenti idonei a sfollarle immediatamente, soprattutto prima dell’inizio delle ferie che, come ogni anno, aumentano il senso di abbandono e di isolamento dei detenuti. Questi ultimi avranno, finanche, meno personale a cui chiedere aiuto e prima che intervenga la Corte Europea dei diritti dell’Uomo questa vergogna italiana rischia di diventare inesorabilmente irrecuperabile. In tale situazione “insostenibile”, infatti, il silenzio e l’indifferenza della politica sono profondamente vergognosi. L’osservatorio chiede che vengano subito adottate misure idonee a ridurre la popolazione detentiva, un provvedimento che possa almeno determinare la scarcerazione di chi deve espiare una pena inferiore ai 12 mesi e non sia stato condannato per reati c.d. ostativi e che venga subito rimessa in discussione la proposta di legge del deputato Giacchetti sulla liberazione anticipata speciale, una misura simile a quella già adottata all’indomani della c.d. Sentenza Torregiani. Questo agognato intervento ripristinatorio della legalità consentirebbe di anticipare la scarcerazione di chi ha partecipato all’opera di rieducazione negli ultimi 5 anni, attraverso uno sconto di pena più ampio di quello previsto dall’art. 54 dell’ordinamento penitenziario. L’auspicato provvedimento determinerebbe un sensibile sfollamento che traduce il dettato costituzionale secondo le coordinate del rispetto dell’umanità del detenuto custodito dallo Stato nell’espiazione della pena. La nostra richiesta nasce dall’osservazione costante e quotidiana delle carceri, unico percorso oltre ogni ragionevole dubbio che fotografa la realtà troppo spesso ignorata. La proposta è formulata nell’interesse non solo della popolazione detenuta, ma anche del Paese che, crediamo, voglia annoverarsi ancora tra i consessi civili che non praticano tortura e che misurano la potestà punitiva dello Stato non con il metro della sofferenza inflitta. Quella innocente evasione della parola che in carcere si vuole impedire per “motivi di sicurezza” di Fabio Falbo* L’Unità, 12 luglio 2025 In un silenzio totale e senza difesa alcuna, quello che accade nelle carceri e di rispecchio nella società libera, non ha niente di ordine o sicurezza. Stiamo assistendo a quella censura velata che ostacola la libertà d’espressione non solo delle persone detenute. La nonviolenza è condannata in nome di una legge fatta a proprio piacimento. Più che mai deve essere vero che il fine giustifichi i mezzi e che la violenza sia levatrice della storia. Una storia scritta dal più forte che non ha letto il saggio di Lev Nikolaevic Tolstoj “Il regno di Dio è in voi”, che espone la dottrina della “non-resistenza al male per mezzo del male”. In carcere può succedere che tu sia isolato per circa 5 mesi nel reparto “per motivi di sicurezza”, con ciò privando la persona del diritto allo studio anche universitario. Può accadere che tu sia scelto dal Cappellano di Rebibbia per consegnare il dono a Papa Francesco in occasione dell’apertura della Porta Santa ma tu venga bloccato da chi non ha il potere a farlo visto che la Casa del Signore non è un luogo carcerario, anche se la stessa è ubicata in carcere. Per “motivi di sicurezza” non si è tenuto conto del Papa, dei Cardinali, del Vescovo e dei Cappellani che non solo hanno il governo assoluto sulla propria casa ma hanno scelto una persona affidabile che non ha mai tradito la fiducia nei suoi 20 anni di detenzione e di osservazione accurata. È consuetudine che gli articoli giornalistici scritti da persone detenute che svolgono un’opera trattamentale e non d’intrattenimento, non possano essere firmati con nome e cognome. Si assiste increduli e impotenti all a soppressione della presentazione del libro dell’Emerito Presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato e dell’ex responsabile comunicazione della Corte costituzionale Donatella Stasio. Succede anche d’impedire a una persona detenuta da oltre 30 anni e attualmente nel carcere di Spoleto la pubblicazione del suo ultimo libro, il precedente era stato pubblicato con la Casa Editrice Castelvecchi. Nel rispetto della legge che deve fare il suo corso, si assiste increduli a come alcuni Cappellani, Suore, Psicologi o operatori in genere siano indagati. “Forse” perché hanno criticato il “sistema” e quindi il “codice del silenzio”? Il tempo sarà galantuomo per questi operatori che si crede non hanno mai tradito la fiducia nelle istituzioni. Quello che succede in carcere succede nella società libera, “per motivi di sicurezza” sono vanificati diritti fondamentali. Purtroppo il carcere è uno specchio, spesso si giudicano le persone carcerate e i loro familiari, ma tale giudizio si estende sulla società libera che consapevole o meno, del carcere, riflette pregi e difetti. Non si vuole capire che più le “voci di dentro” vengono silenziate e più si screditerà un qualunque Stato di diritto. Queste sono voci che evadono per incontrare chi non conosce questi luoghi che fanno parte di tutta la comunità. Anche perché la voce della persona detenuta non è un pericolo, è un diritto, è un bene, è un atto di libertà. Basti pensare che nel carcere tutto è limitato: lo spazio, il tempo, i gesti. Ma con tutto ciò, c’è qualcosa che può ancora attraversare le barriere fisiche e simboliche: la voce, che non teme abusi che non hanno niente di diritto o di sicurezza. Proprio perché è una voce che racconta, che riflette, che sogna e che è innocente. È la voce che non evade per fuggire, ma evade per farsi ascoltare. Le nostre parole che nascono da un luogo chiuso e arrivano fuori, sono una forma di resistenza al male per mezzo del bene, una prova di umanità, una richiesta di giustizia. Non zittitele, non temetele, viceversa, ascoltatele. Perché una società che sa ascoltare chi è recluso è una società che non ha paura della verità. La parola è l’unica evasione che non va fermata, va accolta, amplificata e protetta. Si ricorda che l’unica restrizione legittima è la privazione della libertà, ogni altro diritto negato, conculcato con il pretesto “sicurezza”, è un’offesa alla dignità della persona detenuta. Non è consentito, né al legislatore né all’amministrazione, di togliere insieme alla libertà la dignità e la speranza. In questi 20 anni di carcere ho capito che più mi censurano e più volo in alto dove tira più vento, lo stesso vento che non spira in un carcere dove sono ammassate persone come fossero cose. *Detenuto nel carcere di Roma Rebibbia Pinelli (Csm): “Serve coraggio per evitare che il carcere resti una scuola del crimine” Il Dubbio, 12 luglio 2025 Il vicepresidente del Csm lancia un appello per una riforma strutturale del sistema penitenziario: “Il diritto penale è una extrema ratio”. Il carcere, se lasciato a sé stesso, rischia di diventare “un’avanzata scuola del crimine, anziché luogo di rieducazione”. A lanciare l’allarme è Fabio Pinelli, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, che in un’intervista a Repubblica sollecita una riflessione urgente e strutturata sul sistema penitenziario italiano. “Dobbiamo raccogliere una grande sfida - afferma Pinelli - aprendo con lucidità, cautela ma anche coraggio una riflessione per evitare che il carcere perda la sua funzione costituzionale”. L’intervento arriva in un momento di crescente attenzione sulla crisi delle carceri italiane, segnate da sovraffollamento cronico e da una persistente difficoltà nel garantire percorsi concreti di reinserimento. “La situazione è drammatica e inaccettabile”, continua Pinelli. “Viviamo ancora in una visione carcero-centrica, che verrebbe da definire medievale. Si pensa che la sola detenzione sia sufficiente alla rieducazione, ma i dati dimostrano il contrario”. I numeri citati dal vicepresidente del Csm parlano chiaro: il 69% di chi sconta interamente la pena in carcere torna a delinquere, mentre solo il 5% ricade nel crimine dopo un percorso lavorativo esterno e il 17% tra coloro che hanno beneficiato di misure alternative. Di fronte a questi dati, Pinelli sostiene l’utilità dell’istituto della liberazione anticipata come strumento già esistente per alleggerire la pressione nelle carceri: “Comprendo le riserve su amnistia e indulto, ma la liberazione anticipata tutela la dignità dei detenuti. Va utilizzata senza ideologie”. La riflessione si allarga poi al ruolo del diritto penale, che - secondo Pinelli - andrebbe ridimensionato: “Abbiamo assistito a una moltiplicazione impressionante dei reati. Il diritto penale deve essere una extrema ratio, non un contenitore caotico e sovraccarico”. Infine, un passaggio sulla separazione delle carriere: “Ci sono profili problematici, su cui sarà necessario tornare a riflettere”, sottolinea, lasciando intendere che anche su questo versante la riforma della giustizia dovrà affrontare nodi delicati e tutt’altro che risolti. “Detenuti privati della libertà, ma anche della dignità” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 12 luglio 2025 L’avvocato Irma Conti, componente del collegio che vigila sui diritti delle persone recluse, segnala situazioni critiche in molte carceri e auspica pene alternative per almeno 19mila reclusi. “Il presidente della Repubblica ha pienamente ragione quando afferma che la situazione nelle carceri è insostenibile. E non da oggi: è una condizione strutturalmente critica, in cui alla privazione della libertà personale si somma quella della dignità umana. Non è questione di gestione amministrativa, ma di tenuta dei diritti fondamentali”. Dal gennaio 2024, Irma Conti è una dei tre componenti del collegio del Garante nazionale per i detenuti (gli altri sono Riccardo Turrini, presidente, e Mario Serio). Avvocato penalista dal piglio energico, da quando è in carica ha “percorso 85mila chilometri ed effettuato 85 visite in penitenziari, le prime 58 insieme al compianto Maurizio D’Ettore, che ci ha lasciati l’anno scorso”, ricorda mentre analizza i problemi dell’umanità sofferente che vive dietro le sbarre. Un universo su cui grava ora pure una soffocante calura. A parte ventilatori e frigoriferi, l’associazione Antigone denuncia carenza d’acqua e servizi igienici. Cosa si sta facendo in questi casi? Sono situazioni che vanno affrontate una per una appena si presentano. Un anno fa, quando il capo dello Stato menzionò la vicenda di un detenuto di Brescia, andai subito a Canton Mombello: c’era una tubatura di bocce di plastica. Quel caso fu risolto. Occorre dinamismo: non possiamo stare immobili, appena s’intravede un problema, bisogna affrontarlo in collaborazione con la direzione del carcere, col ministero di Giustizia e le altre strutture interessate. Capisco. Ma non la inquieta il fatto che la somma delle singole situazioni dia un contesto generale di 62mila detenuti a fronte di 47mila posti reali? Il nostro approccio parte dalla conoscenza dettagliata di dati e urgenze. Per troppo tempo, nelle carceri si è tentato di nascondere problemi sociali, psichiatrici o di marginalità. In quali istituti ha riscontrato maggiori criticità? Sollicciano a Firenze, Poggioreale a Napoli e Marassi a Genova, Agrigento, il romano Regina Coeli o Foggia, teatro di recenti proteste. E ancora Torino e San Vittore a Milano, dove si registra un numero di detenuti con disagio psichico non tutti assistiti per carenze di personale. Già perché oltre agli agenti, mancano psicologi ed educatori. Eppure il disagio in prigione continua a mietere vittime... Da gennaio a oggi, 37 suicidi. Nello stesso periodo del 2024, 50 (83 a fine anno, ndr), nel 2023 e nel 2022 34, nel 2021 27. Un trend costante, secondo il nostro osservatorio, fra gesti estremi e atti di autolesionismo, ma finora gli esperti non hanno ravvisato un nesso diretto fra sovraffollamento e suicidi. Un’altra emergenza riguarda le cure sanitarie: trovammo una detenuta che attendeva da tre anni una visita ginecologica, ci attivammo e la fece. Da quel caso siamo partiti per elaborare un programma di medicina penitenziaria che già sta trovando prime applicazioni a Biella, Ancona e Taranto. A 12 anni dalla sentenza Torreggiani, si torna a celle da 4 posti con 8 occupanti. Cosa pensa della proposta di legge Giachetti sulla liberazione speciale anticipata? Sono soluzioni su cui deve ragionare la politica, non tocca a me commentare. In attesa che il piano del commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria dia frutti, si potrebbe spingere sulle misure alternative alla detenzione come i domiciliari, qualora ricorrano i presupposti, per chi ha pene da scontare sotto i 4 anni. Quanti reclusi potrebbero fruirne? Va calcolato. Quelli con pene residue sotto i tre anni sono 19mila. Il nodo è che i tempi per il vaglio delle domande superano l’anno, perché sono molte e i magistrati di sorveglianza pochi. Per sveltirli, stiamo elaborando un programma, con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, che proporremo al ministero della Giustizia. E i reclusi con dipendenza da droghe? Anche quelli sono migliaia... Già, oltre 8.100. Se fossero affidati in custodia alle comunità di recupero, già il tasso di sovraffollamento calerebbe di molto. E l’altra scommessa è il lavoro, decisivo per il reinserimento nella società e l’abbattimento della recidiva. A Rebibbia, il 24 dicembre, un detenuto mi ha detto: è la prima volta che esco e sono sicuro di non rientrare, perché farò il fornaio. Era uno dei 12 assunti da un forno dopo aver appreso il mestiere in carcere. Ci sono persone che non hanno colto l’opportunità di lavorare, hanno rotto il patto sociale. Quello strappo, vogliamo ricucirlo insieme a loro? Questa è la sfida per cambiare il carcere. Ma per portarla avanti, bisogna avere coraggio, equilibrio e passione. Ostellari: “Col Decreto Sicurezza formiamo i detenuti, quando escono non tornano a delinquere” di Christian Campigli Il Tempo, 12 luglio 2025 Il sottosegretario alla Giustizia: “I detenuti dei circuiti di Alta e Media Sicurezza non potranno più circolare liberamente, così diminuiscono aggressioni e soprusi”. “La pena serve se rieduca. Tenere in cella per anni una persona che poi esce e torna a delinquere non ha senso”. Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, spiega così la necessità di ritornare un settore, quello carcerario, troppo spesso dimenticato. I detenuti nei circuiti di Alta e Media Sicurezza resteranno in cella e non saranno più liberi di gironzolare in sezione. Quanto è stato difficile imporre questa novità? “Molto. Ma non abbiamo fatto passi indietro. Per rispetto di chi lavora in carcere, della polizia penitenziaria e pure dei detenuti più deboli. Non c’è crudeltà in questo provvedimento, ma solo l’impegno a portare ordine e legalità. Con le celle aperte circolavano più droga e cellulari e si verificavano aggressioni e soprusi. Ora questi fenomeni sono in diminuzione. Mentre cresce la partecipazione ai percorsi rieducativi, sui quali continueremo ad investire, a fianco del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del direttore Ernesto Napolillo”. Sono state approvate delle norme per favorire il reinserimento dei detenuti attraverso il lavoro. Ce le può spiegare, nel dettaglio? “Nel decreto sicurezza abbiamo inserito delle norme che modificano la legge Smuraglia sul lavoro nei penitenziari, allo scopo di favorire le assunzioni dei condannati e alleggerire il carico burocratico sulle imprese. Niente buonismo, contano i numeri: il 98% di chi impara un mestiere, quando esce non delinque più. Questo andrebbe spiegato ai fan degli svuota-carceri. Segnalo inoltre che questa norma si aggiunge a una serie di iniziative e protocolli che, sin dal nostro insediamento, hanno già dato frutto: dal 2022 al 2024 le imprese che impiegano detenuti in carcere sono cresciute del 40%. Aggiungo un’ultima considerazione: molti ristretti, anche nel circuito minorile, presentano problemi di dipendenza che li rendono incompatibili con percorsi di recupero ordinari. Prima devono essere curati. Non a caso stiamo pensando di potenziare misure alternative che ne consentano la disintossicazione”. Sollicciano, il carcere di Firenze, vive una situazione difficile, tra problemi strutturali e sanitari. Come pensate di muovervi per risolvere i disagi dei detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria? “Quello di Firenze è uno degli istituti più problematici del Paese, soprattutto dal punto di vista strutturale. Strano che la sinistra se ne accorga solo ora, dopo che per anni le criticità sono state ignorate. Noi ci siamo rimboccati le maniche: il governo ha nominato un commissario straordinario all’edilizia penitenziaria che, entro il 2026, è chiamato a riqualificare le carceri e recuperare nuovi spazi. Non solo. In due anni e mezzo abbiamo assunto o bandito concorsi per assumere fino a 10.000 agenti, sostanzialmente coperto le piante organiche dei funzionari pedagogici e valorizzato gli psicologi”. Ilaria Cucchi ha scritto un post di commento al trasferimento della detenuta trans vittima di una violenza sessuale, nel carcere di Ferrara. Secondo la senatrice Cucchi lo Stato l’ha esposta all’insicurezza. Ha ragione? “Per rispetto di chi è tenuto ad accertare i fatti e pure della vittima non parlo di casi singoli. Alla senatrice Cucchi, tuttavia, ricordo che l’amministrazione penitenziaria dà il massimo per tutelare i detenuti, isolare e punire quelli violenti e che il personale in servizio merita rispetto e sostegno. Non pregiudizi”. Caso Almasri, la destra al contrattacco fa quadrato attorno a Nordio di Andrea Colombo Il Manifesto, 12 luglio 2025 La maggioranza si scaglia contro la fuga di notizie sul caso del torturatore libico. Per il governo Matteo Renzi avrebbe diffuso informazioni coperte da segreto. Il Tribunale dei ministri deciderà solo la settimana prossima se procedere con la richiesta di autorizzazione a procedere contro la premier, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Mantovano. Ieri ha autorizzato la visione degli atti da parte della difesa di tutti e quattro gli esponenti del governo, l’avvocata e senatrice Giulia Bongiorno. L’intera opposizione reclama le dimissioni del guardasigilli per aver mentito al parlamento sulla tempistica con la quale avrebbe ricevuto il fascicolo da firmare per convalidare l’arresto di Almasri, tra il 19 e il 20 gennaio scorsi accusando la premier di complicità ove non reclamasse il passo indietro del ministro. Ieri però è stata soprattutto la giornata della controffensiva del governo e della difesa. Bongiorno valuta la possibilità di sporgere denuncia contro Matteo Renzi per la fuga di notizie sui fascicoli secretati dell’inchiesta. Il senatore FdI Rastrelli, tra gli applausi di tutto il suo partito e della maggioranza, ha avanzato un’interrogazione a Nordio segnalando le anticipazioni proprio di Renzi nel corso di un comizio del 5 luglio, prima ancora che le notizie sulle presunte menzogne del ministro uscissero sui due quotidiani italiani più diffusi. Ma nel mirino non c’è solo il leader di Iv. Il Tribunale dei Ministri ha annunciato ieri la formalizzazione della denuncia per divulgazione di atti coperti dal segreto. Ovviamente la denuncia non è a carico di nessuno ma il Tribunale specifica che gli atti “sono custoditi all’interno di un armadio cassaforte, salvi i passaggi procedurali previsti dalle leggi costituzionali”. Il passaggio in questione dovrebbe essere il trasferimento degli atti in Procura, avvenuto al momento di chiedere la proroga delle indagini. Sembrerebbe dunque che il Tribunale, con tutta la cautela del caso, alluda alla probabilità che la fuga sia partita di lì. Il ministro ostenta sicurezza. Liquida le accuse dei giornali come Nuts, sciocchezze. Oltre che all’inglese ricorre anche al latino: Hic manebimus optime. Anche la sua capo di gabinetto Giusi Bertolazzi, per ora ascoltata dal Tribunale come persona informata sui fatti e al centro della tempesta, esclude le dimissioni: “Sono serena. Quando usciranno le carte si capirà tutto”. La dirigente di via Arenula allude forse a una mail pubblicata ieri dal quotidiano Il Dubbio, inviata domenica 19 gennaio alle 14.35 dall’allora capo del dipartimento Dag del ministero Luigi Birritteri a un magistrato in servizio a via Arenula e per conoscenza a Bertolazzi. Birritteri è il magistrato che proprio in quella giornata avrebbe, secondo le accuse a mezzo stampa contro Nordio, sollecitato il ministro a firmare la convalida dell’arresto del libico. Sul caso, scriveva però il 19 gennaio, “concordo su una prima valutazione dei fatti inerente l’irritualità della procedura che sinora non vede coinvolto il Ministero come autorità centrale competente”. E aggiunge: “Solo domani faremo le nostre valutazioni sulla base della documentazione che ci verrà eventualmente trasmessa”. Se verificata, e se non ci fossero ulteriori documenti a smentirla, la mail potrebbe coinciderebbe con la versione dei fatti offerta dal ministro il 5 febbraio nell’aula di Montecitorio. Quanto alla capo di gabinetto, che in una mail aveva chiesto “massimo riserbo” invitando a usare la piattaforma Signal, e non quella ufficiale, ha sostenuto che si tratta di una piattaforma usata dai dirigenti del ministero quando sono in ballo questioni particolarmente delicate. Sta al Tribunale dei ministri accertare la dinamica e la tempistica dei fatti in quei due giorni. Ma quel che è certo è che il ministero, pur sapendo che il fascicolo sarebbe arrivato di certo lunedì 20, non ha fatto nulla per accelerare i tempi e impedire che Almasri tornasse in libertà. La responsabilità penale è in forse. Quella politica no. Ribaltone Almasri: Nordio blindato, ora è caccia alla talpa di Errico Novi Il Dubbio, 12 luglio 2025 Il Tribunale dei ministri denuncia la fuga di notizie. Bongiorno, legale del governo, potrà visionare gli atti. È un po’ come la radiazione interstellare dopo il big bang: più ci si allontana dal botto palingenetico, più l’effetto svanisce. Così procede il furibondo attacco a Carlo Nordio, il processo mediatico imbastito nel giro di pochi giorni (prima le anticipazioni di Matteo Renzi, poi l’onda lunga dei giornali) nei confronti del guardasigilli. Accusato, solo dai media e non dal Tribunale dei ministri che lo indaga davvero, di aver mentito sul caso Almasri. Certo, a due giorni dagli articoli di Corriere della Sera e Repubblica, resiste ancora Matteo Renzi, che persevera nel mirare a Giusi Bartolozzi, Capo di Gabinetto del ministro (“o è lei che ha nascosto le informazioni a Nordio, o è lui che ha mentito). Fa ancora a pezzi la presunzione d’innocenza Elly Schlein, segretaria dem (“non può rimanere un ministro che ha mentito al Parlamento e quindi ha mentito al Paese”). Poi ancora qualche invettiva dai 5 Stelle, e da Avs, ma insomma, gli anatemi si diradano. Ed è la conseguenza della virata che aveva subito il presunto Almasri-gate già mercoledì pomeriggio, quando Giulia Bongiorno, senatrice leghista che è anche avvocata di Nordio e degli altri tre big di governo indagati (Meloni, Mantovano e Piantedosi) aveva dichiarato di valutare denunce per violazione del segreto istruttorio. Alcune, almeno, delle informazioni sparpagliate ai giornali sembravano poter provenire solo dal fascicolo del collegio che procede contro il governo. Ma oggi la caccia alla talpa ha conosciuto un’impennata clamorosa: perché proprio il Tribunale dei ministri incaricato di indagare sulla vicenda ha diffuso una nota per informare di presentato un’autonoma denuncia per la violazione del segreto. Segue una puntualizzazione che ha un’eco un po’ sibillina: gli atti relativi all’inchiesta sono “custoditi nella cancelleria della Corte d’assise all’interno di un armadio cassaforte, salvi i passaggi procedurali previsti dalle leggi costituzionali”. A cosa si riferiscono, nell’ultimo inciso, le tre magistrate che compongono, appunto il Tribunale dei ministri? Ci sono poche alternative. Nel corso dell’indagine “Nordio e altri 3”, per dirla col gergo questurile, è stato necessario chiedere una proroga. Nel caso del procedimento per presunti reati dei ministri, la proroga viene chiesta non al gip, come per qualunque altra indagine penale, ma alla Procura, depositaria della notizia di reato e, di fatto, autorità che delega il “collegio inquirente straordinario” a condurre l’inchiesta. Naturalmente è da escludere che il riferimento contenuto nella nota del Tribunale dei ministri riguardi colleghi di Piazzale Clodio. Sembra improbabile che un pm di Roma possa aver trasferito le notizie ai giornali. Casomai quell’inciso della nota fa pensare al fatto che il passaggio relativo alla richiesta di proroga ha esposto gli atti d’indagine anche ad altri soggetti (certo non gli avvocati, i quali non toccano palla, in quella fase), e che individuare la talpa sarà forse possibile, anche se molto difficile. Solo per completare il quadro, va precisato che l’informazione diffusa dal collegio delle tre magistrate parte da un’altra novità, pure abbastanza clamorosa: Giulia Bongiorno potrà visionare gli atti, seppur senza poter estrarne in alcun modo copia. L’autorizzazione del “Tribunale speciale” sembra preludere a un’ulteriore denuncia per violazione del segreto, che stavolta sarebbe l’avvocata del governo a presentare. Ed è chiaro come, a questo punto, sia la fuga di notizie il nuovo, vero cuore della questione. Soprattutto dopo quanto emerso sulle mail scambiate, in quella fatidica domenica 19 gennaio a via Arenula: comunicazioni che, come rivelato dal Dubbio, smontano completamente la tesi secondo cui già quel giorno Nordio sarebbe stato nelle condizioni di autorizzare l’arresto di Almasri, e avrebbe dunque mentito nell’informativa del 5 febbraio alla Camera. Quel giorno il ministro presentò esattamente il quadro confermato ora dai fatti. Pinelli: “Basta attacchi ai giudici, sulle carceri visione medievale” di Conchita Sannino La Repubblica, 12 luglio 2025 Il vicepresidente del Csm: “Toghe nel mirino? Sorpreso da certe frasi del ministro, anacronistico evocare ancora Palamara”. Il caso Almasri? Non sarebbe opportuno alcun commento, e non ho conoscenza diretta degli elementi”. E poi guarda su, come a dire: ci sono già troppi fuochi accesi sulla giustizia. Eppure Fabio Pinelli, 59 anni, l’avvocato lucchese che dal gennaio 2023 è vicepresidente del Csm (area Lega, con profilo di “indipendente”) qualche sassolino dalla scarpa lo fa volare. Anche contro la destra. “Sulle carceri non abbiamo elaborato, come società e anche come comunità di giuristi, un pensiero: su come vincere l’utopia repressiva e mettere la rieducazione al centro”. E poi un’altra cosa gli sta a cuore “a costo di essere noioso: testimoniare il lavoro tanto efficiente quanto silenzioso portato avanti da tutto questo Consiglio superiore, che purtroppo quando funziona non fa notizia”. Vicepresidente Pinelli, il Csm è spesso sotto attacco: Nordio sostiene che sul caso Palamara è stato insabbiato tutto. Replica? “Ne resto un po’ sorpreso. Ma non mi permetto di replicare alle dichiarazioni del ministro. Mi limito a osservare che mi pare anacronistico riproporre ancora il caso Palamara dopo sette anni. Sollecitando una narrazione che sembrerebbe trasmettere il concetto che nulla è cambiato. Potrebbe apparire una banalizzazione”. Sta dicendo che il Csm lavora bene ed è stanco di subire attacchi? “La guida autorevole del presidente Mattarella ha consentito al Csm di compiere un lavoro straordinario, per merito di consiglieri molto impegnati, di una struttura attenta, al servizio dei magistrati italiani. L’80 per cento delle nomine vengono votate all’unanimità, la commissione disciplinare ha assunto decisioni importanti, le tabelle organizzative degli uffici giudiziari sono approvate in tempo reale. Siamo pronti in queste ore pronti, per quanto ci compete, a fornire soluzioni”. Si riferisce al Piano d’azione tra Csm e ministero per abbattere la durata del processo civile? “Una virtuosa cooperazione, per il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr. Quindi sì, mi sento di dire che questo Consiglio sta lavorando in modo eccellente”. Insomma: collaborazione e non conflitti? “Sì, collaborazione istituzionale nell’ottica del servizio giustizia ai cittadini”. Tema carceri. Il ministro ha detto che non c’è relazione tra le celle sovraffollate e i troppi suicidi. È d’accordo? “Noi dovremmo raccogliere una grande sfida. Aprire con lucidità, cautela ma anche coraggio una riflessione per evitare che il carcere finisca per essere un’avanzata scuola del crimine, anziché luogo di rieducazione, obiettivo posto dalla nostra Costituzione”. Ma intanto anche il Capo dello Stato chiede di agire subito, i suicidi continuano, e anche le rivolte... “La situazione del sovraffollamento è drammatica e inaccettabile perché la visione che abbiamo è ancora carcero-centrica, verrebbe da dire: medievale. In quanto basata sull’idea che il carcere, come luogo fisico, sia l’unico presupposto della rieducazione. Ecco perché da un lato c’è necessità di individuare soluzioni immediate, dall’altro va approntata una strategia di medio-lungo termine. Sa cosa dicono i numeri?”. Lo spieghi... “Solo quando la pena si associa ad un’offerta di lavoro o di cultura, le persone cambiano strada. Tra coloro che hanno scontato tutta la pena in carcere torna a delinquere ben il 69 per cento, troppi. Mentre ci ricade solo il 5 per cento di chi ha potuto lavorare all’esterno, e solo il 17 di chi ha avuto una misura alternativa”. Lei aveva appoggiato l’idea della liberazione speciale anticipata, condivisa anche da La Russa. Ma il resto della destra è contro... “Comprendo delle riserve su indulto e amnistia. Ma l’istituto della liberazione anticipata esiste già: e consente nell’immediato di tutelare la dignità dei detenuti. Ma a monte dovremmo ripensare al ruolo del diritto penale”. A cosa pensa? “Ad agire sull’eccesso dei reati. Abbiamo assistito a una moltiplicazione notevolissima, che contrasta con la necessità di un quadro ordinato, in una materia delicatissima. Il diritto penale è una extrema ratio, non va dimenticato”. Scusi, ne ha parlato con il governo, che ha varato il controverso decreto Sicurezza? “Non spetta al mio ruolo. Peraltro, devo dire che la pratica di moltiplicare i reati è risalente nel tempo”. A giorni, anche il Senato darà il suo ok alla separazione delle carriere. Lei aveva espresso criticità sull’Alta Corte disciplinare... “Ci sono profili problematici, su cui, credo, si dovrà tornare a riflettere”. Il reato di “femminicidio” nega l’uguaglianza di genere e influenza i giudici di Pietro Dubolino* La Verità, 12 luglio 2025 Il disegno di legge, nella sua nuova formulazione, è addirittura peggiorato. Di male in peggio. Non trovo altre parole per commentare la nuova formulazione, approvata all’unanimità il 9 luglio dalla commissione Giustizia del Senato, del reato di “femminicidio” che si vorrebbe introdurre, in aggiunta all’ordinario omicidio, nel codice penale. La formulazione originaria, contenuta nel disegno di legge a suo tempo presentato dal governo, era la seguente: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità è punito con l’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575”. Ed ecco ora il testo della nuova formulazione: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali, è punito con la pena dell’ergastolo”. Diciamo subito che, indipendentemente da ogni e qualsiasi formulazione, l’idea stessa che possa attribuirsi un qualunque rilievo al sesso della persona offesa per differenziare la sanzione da infliggere a chi ne abbia cagionato la morte costituisce nulla di meno che un abominio giuridico, del tutto assimilabile a quello che, a termini invertiti rispetto agli attuali, era riscontrabile nella legislazione e nella prassi di secoli passati. Chi scrive aveva già illustrato, in un articolo comparso sulla Verità del 16 marzo 2025 il palese contrasto nel quale la nuova figura di reato, una volta introdotta nell’ordinamento, si verrebbe a trovare con il principio di uguaglianza solennemente affermato, anche con riguardo al sesso, dall’art. 3 della Costituzione. Si metteva in luce, inoltre, nello stesso scritto, come si rivelasse, in realtà, inesistente, alla stregua dei dati ufficiali del ministero dell’interno, il preteso, abnorme aumento dei “femminicidi”, per fronteggiare il quale si sostiene che sarebbe comunque necessario un inasprimento delle pene, e come, in ogni caso, per espresso riconoscimento da parte della Chiunque potrebbe commettere un delitto perché si sente rifiutato stessa ministra Roccella, promotrice del disegno di legge in discorso, nei casi comunemente definiti, nei commenti e nelle cronache giudiziarie, come “femminicidi”, sarebbe già applicabile, in base alla normativa vigente, la pena dell’ergastolo. E tanto per dimostrare che le critiche non provenivano solo da chi scrive, basti ricordare, fra le tante, quelle espresse da un riconosciuto maestro del diritto penale, coautore di un notissimo manuale diffuso da decenni in buona parte delle università italiane, qual è il prof. Giovanni Fiandaca, il quale, in un articolo comparso sul Foglio del 13 marzo 2025 e ripreso il giorno dopo dalla rivista Sistema penale, esprimeva, all’esito di una rigorosa analisi, il più totale dissenso per la nuova, ipotizzata figura di reato, affermando che essa non poteva che “andare incontro a una netta bocciatura”. La nuova formulazione della norma, introdotta dalla commissione Giustizia del Senato, non potrebbe che rafforzare tale giudizio. Immutato essendo rimasto, infatti, il suo evidente carattere di “norma manifesto”, espressione di una determinata visione ideologica dei rapporti uomo-donna, risulta poi addirittura peggiorata, rispetto all’originale, la configurazione delle condizioni in presenza delle quali l’omicidio di una donna possa essere qualificato come “femminicidio”. Ciò vale, anzitutto, con riguardo all’aggiunta, al fine di una maggiore caratterizzazione del reato, dell’elemento costituito dall’avere il colpevole cagionato la morte della donna “come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna”. Non si comprende, infatti, sulla base di quali elementi oggettivamente accertabili un giudice potrà mai stabilire che l’atto omicidiario abbia avuto una tale inusitata e singolarissima connotazione. Essa, quindi, proprio a causa di ciò, potrà essere riconosciuta o negata, in modo sempre e comunque opinabile, a seconda dei personali orientamenti socio-politici del giudice. Il che rende la previsione in questione fortemente sospettabile di genericità e indeterminatezza e, pertanto, di contrasto con l’art. 25, secondo comma, della Costituzione, nell’interpretazione che costantemente ne è stata offerta dalla Corte costituzionale. Non meno criticabile, sotto diverso profilo, appare poi l’ulteriore aggiunta costituita dalla qualificabilità del fatto come “femminicidio” anche quando ricorra la sola condizione che esso sia stato commesso “in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo”. Appare infatti manifesta, in questo caso, la violazione del principio costituzionale di uguaglianza, giacché una identica condotta può essere facilmente posta in essere anche da una donna in relazione ad un rapporto affettivo con un uomo, e non si vede per quale ragione essa dovrebbe essere punita meno gravemente dell’altra, autore della quale si presume debba essere un uomo. Il fatto che la condotta in questione sia più frequentemente commessa da uomini non può, all’evidenza, giustificare la limitazione solo a questi ultimi della sua previsione come reato. Anche il delitto d’onore, previsto nella originaria formulazione del codice penale, risalente al 1930, era quasi sempre commesso da uomini. Ciò non aveva, però, impedito che nella norma incriminatrice ne venisse giustamente indicato come possibile autore “chiunque”, per cui, teoricamente, anche una donna poteva esserne riconosciuta autrice se, come pur era possibile, avesse posto in essere la stessa condotta in danno di un uomo. E lo stesso poteva dirsi in base alla formulazione dell’analoga ipotesi di reato contenuta nel precedente codice penale Zanardelli, in vigore dal 1889 al 1930. Vien quasi da pensare, a questo punto, che i legislatori di quegli anni avessero, con riguardo all’uguaglianza dei sessi, benché non ancora codificata a livello costituzionale, idee più precise di quelle mostrate, almeno nella presente occasione, dai legislatori dell’epoca nostra; il che, potrebbe, tuttavia, spiegarsi ipotizzando che questi ultimi non abbiano inteso, in realtà, disattendere l’art. 3 della Costituzione ma solo meglio interpretarlo alla luce della regola vigente nella Fattoria degli animali di George Orwell, in cui, com’è noto, tutti gli animali erano uguali ma alcuni erano più uguali degli altri. *Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione Le opinioni contano nei processi, ma sul caso Sofri quella di Violante è solo una spirale omertosa di Giuliano Ferrara Il Foglio, 12 luglio 2025 La sua opinione sul caso Calabresi è stata secondo lui stesso avvalorata da una testimonianza a lui resa, che resta riservata nonostante la richiesta di chiarezza, per motivi di lealtà personale. Un intenibile paradosso. Luciano Violante ha fatto l’elogio della riservatezza, sollecitato da Sofri su Repubblica a svelare la “fonte non ostensibile” di cui aveva parlato all’epoca del processo per l’assassinio del commissario Calabresi, una fonte rimasta segreta ma capace di convincerlo della colpevolezza dell’imputato. La cosa è paradossale. Sofri lo aveva provocato con accenti fermi ma gentili e ironici: ora che si fa tardi, ora che siamo vecchi, ora che si appresta a insegnare la Costituzione in tv, nella trasmissione di Diaco, Violante faccia chiarezza su quella opaca testimonianza, rimasta anonima. Era un fatto, una circostanza verificabile? Era un’opinione, e di chi, di grazia? Le opinioni contano anche nei processi, tanto è vero che proprio nella Costituzione, all’articolo 111, è stato a un certo punto (nella riforma del 1999 e nella riforma dell’articolo 533 del codice di procedura penale, che è del 2006, anni dopo la conclusione del processo Calabresi) inserito un comma che limita il potere dirimente, nell’emettere sentenza, del “libero convincimento del giudice”, aggiungendo, sul modello della procedura penale anglosassone, che la decisione deve essere presa “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Convincimenti delimitati dai fatti accertati con il massimo dell’incontrovertibilità, ecco. Violante è intellettuale, politico e magistrato di formazione, inutile intrattenerlo e intrattenersi su questioni anche troppo sottili di procedura e sui loro risvolti. Sta di fatto che la sua opinione sul caso Calabresi è stata secondo lui stesso avvalorata da una testimonianza a lui resa, che resta riservata nonostante la richiesta di chiarezza, per motivi di lealtà personale. A metà dei Novanta Violante guidò la Commissione parlamentare antimafia, escusse testimoni importanti, generò un clima politico e culturale in cui campeggiava la esigenza di chiarezza, di esposizione o ostensione di tutte le pieghe dell’attività criminale e delle circostanze processuali relative, e fu protagonista di celebri polemiche riguardanti il processo Andreotti, le accuse alla Democrazia cristiana e alle sue correnti e ai suoi ministri di collusione e di omertà, la nascita del partito di Berlusconi, e la sua relazione fu rilevante nel caratterizzare in questo senso un’intera epoca della storia della Repubblica, coincidente con l’avvio delle inchieste di Milano sulla corruzione, e definita dalle tecniche, arresti a grappolo, retate, detenzione preventiva, che tutte convergevano sulla denuncia di reati o sulla delazione e sulla gestione la più disinvolta del famoso segreto investigativo. L’idea in sé encomiabile di riservatezza rispetto alla conduzione di un’indagine o di un processo, rispetto all’onorabilità personale di chiunque, era giudicata, nel tempo della legislazione sui pentiti e delle grandi confessioni dei boss, come una variante dell’omertà mafiosa. Questo dunque colpisce come un intenibile paradosso. Se io dicessi che qualcuno mi ha convinto del fatto che un tizio ha fatto qualcosa di male, di tremendo, come uccidere un poliziotto, e che questo qualcuno mi ha impegnato alla riservatezza sul suo nome e sulla sua responsabilità nella denuncia, mi procurerei l’accusa di diffamazione, quale che sia il destino giudiziario di questo cittadino e imputato in un processo. Questo è un fatto, non un’opinione. E un altro fatto, che proprio non si capisce e sul quale sarebbe inutile fare insinuazioni, quando invece esiste una richiesta accertata di chiarezza e di vera, autentica lealtà verso il destinatario dell’accusa, è che Violante sembra non intendere, non capire perché e da dove nasca questa sollecitazione a uscire da una spirale omertosa. Toscana. Luci e ombre del carcere: 2.100 detenuti nei percorsi di inclusione ma 140 tentati suicidi firenzetoday.it, 12 luglio 2025 In Toscana sono oltre 2.100 le persone detenute o in uscita dal carcere coinvolte in percorsi di inclusione sociale, lavorativa e giustizia riparativa ma nell’ultimo anno si registrano anche molti tentativi di suicidio tra detenuti. Luci e ombre della situazione carceraria toscana sono state trattate nel corso del convegno “Carcere inclusione sociale, comunità: il sistema delle politiche regionali per la giustizia penale in Toscana” organizzato dalla Regione Toscana e Anci Toscana. A concludere la tre-giorni, una lectio magistralis della prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano. In Toscana cinque le carceri più critiche e 140 casi di tentato suicidio - “Conosco il carcere da cinquanta anni e devo dire che l’ho visto migliorare, anche se oggi siamo di fronte a una situazione drammatica - afferma Giuseppe Fanfani, garante dei detenuti della Regione Toscana - In Toscana abbiamo cinque carceri problematiche: Sollicciano, Prato, Livorno, Pisa e San Gimignano. Tutti connotati da almeno due carenze di fondo, la prima è la mancanza di personale adeguato e la seconda è la mancanza di spazi”. Fanfani ha inoltre fatto il punto sul sovraffollamento degli istituti penitenziari toscani. “L’affollamento ordinario sono tre metri quadri a persona. Potete immaginare con questo caldo in una stanza di 15-20 metri quadri, pari a una stanza d’albergo, con cinque persone e un unico bagno, se così si può definire”. Oltre alla mancanza di personale “si aggiunge il problema vero del reinserimento sociale la quale presuppone un programma estremamente lungo, complesso e costoso ma fondamentale per dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione perché se facciamo uscire dal carcere una persona peggiore di come c’è entrata si sono buttati via soldi e non si è fatto nulla. Questo è il problema” afferma Fanfani. Tra gli aspetti più critici delle carceri anche i tentati suicidi. “L’anno scorso, oltre ai morti in carcere, abbiamo avuto 140 tentativi di suicidio. Ammesso che le statistiche e i numeri che ci forniscono siano veri, perché secondo me sono molti di meno di quelli reali, questa è la situazione - spiega Giuseppe Fanfani -Il sistema carcerario toscano non è tra i peggiori perché esistono delle carceri in Italia con 1.000 o 2.000 persone, là dentro un detenuto è solo un numero - continua - Nella nostra regione ci sono carceri che al massimo hanno 500 o 590 detenuti, come Prato per esempio. Poi ci sono carceri più piccole in cui c’è la possibilità di una forma di rieducazione ma, al di là di questo, la disperazione è reale e assale le persone e con la disperazione si muore”. Bortolato: “Bisogna far capire che è nell’interesse della collettività che le persone vengano recuperate dopo il carcere” “Bisogna far capire alla pubblica opinione che è interesse della collettività che le persone vengano recuperate, perché nel momento in cui restituisci dopo l’esperienza carceraria una persona che ha commesso dei delitti, quello che la società si aspetta è che non ritorni più a delinquere, quindi bisogna lavorare in quel senso - spiega Marcello Bortolato, presidente del tribunale di sorveglianza - sono necessarie risorse economiche che, ovviamente, devono essere messe a disposizione in prevalenza dallo Stato che ha la responsabilità dell’esecuzione penale”. Quindi “è necessario assumere educatori, psicologi, assistenti operatori che si occupino dell’esecuzione penale, perché senza le persone anche le buone leggi non camminano, e noi disponiamo di ottime leggi. Ci stanno lavorando, ma ancora i numeri sono molto bassi. Perché funzioni tutto il sistema dell’esecuzione penale è necessario che ci sia una comunità accogliente, e questa è una grande responsabilità degli enti territoriali” afferma Bortolato. Sono oltre 2.100 le persone detenute o in uscita dal carcere coinvolte in percorsi di inclusione sociale, lavorativa e giustizia riparativa in tutta la Toscana. I progetti, finanziati attraverso il Fondo Sociale Europeo e il Fondo di Sviluppo e Coesione, si sono svolti su tutto il territorio regionale e hanno previsto servizi di accompagnamento sociale, percorsi di giustizia riparativa, attività di orientamento e formazione al lavoro, tirocini di inclusione sociale. “Dal mondo del carcere arrivano notizie sempre più drammatiche, però c’è bisogno di interventi strutturali e di un sistema che parte dal carcere ma sia capace di coinvolgere tutta la comunità, non possiamo limitarci a rincorrere l’emergenza - ha dichiarato l’assessora regionale alle politiche sociali Serena Spinelli, tirando le somme del convegno appena concluso. “Abbiamo voluto questa tre giorni - ha spiegato - per fare il punto sul percorso compiuto in questi anni che è stato incentrato su una presa in carico multidisciplinare delle persone, perché questa è la strada per attuare il principio costituzionale della rieducazione dei detenuti e dare gambe a un modello sociale inclusivo e per i diritti di tutti e tutte”. Un tema ripreso anche durante la lectio magistralis della prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano. “Lancio l’idea del portale del lavoro in materia di immigrazione perché la Toscana potrebbe davvero svolgere un ruolo significativo in merito - afferma Cassano - si tratta di prevedere che le persone immigrate che stanno in questi Cpr che diventano in realtà dei meri luoghi di contenimento, invece siano intervistate sulle loro abilità professionali, sul lavoro che facevano nei loro paesi di provenienza, prima di approdare in Italia, per prevedere e programmare poi interventi lavorativi mirati nei diversi territori sulla base delle loro competenze”. Per Cassano “una cosa è certa, se noi le teniamo semplicemente contenute, lontane da casa, senza un lavoro, senza nessuna prospettiva per il loro futuro, noi non facciamo altro che creare le condizioni affinché diventino domani manovalanza del crimine”. Giani: “Mi vedrò con il ministro Nordio per fare un punto sull’edilizia carceraria” Il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani torna sull’importanza dell’edilizia carceraria. Un tema che verrà affrontato con il ministro della Giustizia Carlo Nordio. “Ci siamo dati appuntamento, poi è slittato per vari impegni reciproci, però abbiamo focalizzato la necessità di fare il punto sull’edilizia carceraria in Toscana - afferma Giani - Sotto questo aspetto, anche per quello che riguarda Sollicciano, dove sappiamo che c’è forse la maggiore emergenza e non solo di sovraffollamento ma anche di adeguatezza di strutture, ritengo che la priorità sia quella di chiedere al ministero della Giustizia di adeguare le strutture e che siano la passo con ciò che la legge richiede”. Cassano: “Le istanze securitarie portano alla moltiplicazione di una serie di reati” “Ho l’impressione che quelle che, con un termine un po’ tecnico, vengono chiamate le istanze securitarie, portino alla moltiplicazione di una serie di reati che, lo dico in questa sede come ho avuto modo di ripetere anche in altre, hanno un effetto più simbolico che sostanziale - afferma Margherita Cassano, prima presidente della Corte di Cassazione - è nell’esperienza pratica di ognuno di noi, forze dell’ordine e magistratura, che la moltiplicazione di questi reati, l’introduzione di nuovi reati per affrontare aspetti minori, ha un effetto simbolico e non sostanziale”. Questi “nuovi reati che riguardano aspetti non gravissimi di criminalità, sono corredati da un apparato sanzionatorio che da un punto di vista processuale rientra nelle previsioni contenute nel nostro codice di procedura penale che comportano la sospensione dell’esecuzione della pena”. Secondo la prima presidente della Corte di Cassazione in questo modo “si fa credere alla collettività che attraverso questi reati avremo una risposta assolutamente severa, una reazione inconcepibile dell’ordinamento, si creano delle aspettative che non corrispondono al reale, perché forze dell’ordine e magistratura devono applicare, nel loro complesso e nella loro interazione, le regole”. Brescia. “Si vive come scarafaggi”: un ex detenuto racconta le condizioni disumane nel carcere di Giulia Ghirardi fanpage.it, 12 luglio 2025 Un ex detenuto del carcere del Canton Mombello di Brescia ha deciso di raccontare a Fanpage.it le “condizioni disumane” che ha vissuto all’interno dell’Istituto, un luogo dove “la mentalità è quella di buttate via la chiave, dove le persone si uccidono e, se escono, lo fanno senza più un’anima”. “Si vive come scarafaggi, costretti a nascondersi dal sole. Viene il vomito all’interno di quella sezione, di quei corridoi pieni di polvere, dove si fatica anche a respirare. Ma di tutto questo a nessuno importa nulla”. A parlare è Walter M., ex detenuto del carcere del Canton Mombello di Brescia, che ha deciso di raccontare a Fanpage.it le “condizioni disumane” che ha vissuto all’interno dell’Istituto, un luogo dove “la mentalità è quella di buttate via la chiave, dove le persone si uccidono e, se escono, lo fanno senza più un’anima”. Alla fine di giugno si è tenuta a Roma l’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale che sembra confermare quanto testimoniato da Walter. In tale occasione, infatti, Luisa Ravagnani, Garante dei detenuti nel Comune di Brescia, ha riferito a Fanpage.it di aver avanzato una serie di richieste per fronteggiare l’emergenza che esiste proprio all’interno del Canton Mombello: “Abbiamo chiesto l’indulto per circa 16 mila detenuti con pene brevi e un’apertura delle celle negli orari di maggior caldo perché - con l’abolizione della sorveglianza dinamica - tutti i detenuti che non sono nelle aree a trattamento avanzato devono stare nella propria cella in condizioni di sovraffollamento. Servono ventilatori e servono frigoriferi. Altrimenti d’estate la vita chiusi in cella è drammatica, non si riesce neanche a respirare dal caldo”. L’esperienza di Walter: “C’è chi sta male, chi si dà fuoco, chi si taglia perché non ce la fa più” - Dopo aver ascoltato il punto di vista del Garante, abbiamo voluto raccogliere anche la voce di qualcuno che queste condizioni le avesse vissute sulla propria pelle. È così che abbiamo trovato Walter, uscito dal Canton Mombello nel 2023 ora a casa in misura alternativa, che ha deciso di raccontare la sua esperienza all’interno del carcere a Fanpage.it. “Ho girato diversi carceri, tra i quali anche il Canton Mombello. Qui si respira un clima del tutto anticostituzionale a partire proprio dall’emergenza caldo”, ha iniziato a raccontare Walter a Fanpage.it facendo riferimento all’Articolo 27 della Costituzione che sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Come mai l’aria condizionata è installata soltanto negli spazi dove lavora il personale penitenziario? Se è presente vuol dire che di per sé è considerata fondamentale, come accade anche negli ospedali o nelle RSA. Eppure i detenuti non ce l’hanno, viene dato soltanto un ventilatore per cella dove, però, si registrano fino a 40 gradi. È disumano. Una persona esce di testa quando ci sono queste temperature roventi”, ha continuato Walter. “Per un periodo ho lavorato nelle cucine del Canton Mombello. Ricordo che mi sono ritrovato ad avere il latte acido, non perché il latte non fosse buono, ma per via del calore che lo scaldava mentre facevamo il giro di distribuzione. Il latte andava male nel giro di un’ora per le altissime temperature. Non potevamo neanche mettere l’acqua in frigorifero perché non c’erano. Per non parlare dello sporco nei corridoi: i pavimenti luridi, pieni di muffa. Con questo caldo asfissiante respiriamo polvere”. In più, “l’ora d’aria viene fatta dall’13:30 alle 15:30. D’estate, però, a quell’ora ci sono oltre 30 gradi. Ci si trova a “camminare” in una conca soffocante”, ha continuato Walter a Fanpage.it. “Per rispondere a tutti quelli che dicono: ‘Hanno sbagliato, devono pagare’, questo non è pagare, è andare contro la Costituzione perché i detenuti vengono trattati come animali. Agli animali allo zoo vengono concessi più metri quadrati calpestabili di quelli che vengono dati ai detenuti in carcere”. Poi, un ricordo che aggrava ulteriormente il quadro già drammatico. “In passato, in un altro carcere, è capitato che ci fosse un caldo soffocante e un ragazzo si è dato fuoco in cella con l’olio di semi di girasole. Si era chiuso e barricato all’interno della cella e si è ucciso. Questo perché? Perché lo Stato non lavora sulle persone, le abbandona, non c’è nessun tipo di percorso di riabilitazione”, ha aggiunto Walter. Per tutto questo, già nel 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) con la cosiddetta “sentenza Torreggiani” aveva condannato l’Italia per le condizioni disumane e degradanti in cui versavano le carceri italiane. “Da allora nulla è cambiato. Marciamo come animali all’interno delle celle nell’indifferenza delle persone”, ha rincarato Walter. “È giusto che una persona paghi se ha sbagliato, ma deve farlo in maniera umana. Purtroppo questo non accade perché in Italia c’è una mentalità punitiva. È allucinante: c’è chi sta male, chi si dà fuoco, chi si taglia perché non ce la fa più”, ha concluso Walter a Fanpage.it. “Ringrazio di aver avuto la mia famiglia che mi ha sostenuto, ma la maggior parte delle persone che finisce in carcere non ha nessuno. Oggi ho trovato un lavoro: mi occupo del trasporto di ragazzi disabili ed è una cosa che mi riempie. Sono riuscito a rimettermi in sesto, ma sono uno dei pochi. L’uscita dal carcere dovrebbe essere il risultato di un processo di riabilitazione, non il risultato dato dalla variabile della fortuna”. Ma in fondo, “questa è l’Italia che piange Papa Francesco, una persona che lottava davvero per i carcerati”. Eppure “di tutto quello che ha detto, nessuno ha ascoltato una sola parola”. Lauro (An). Il carcere delle detenute-madri vuoto per mesi: perché? di Ilaria Dioguardi vita.it, 12 luglio 2025 L’istituto a custodia attenuata per madri con bambini al seguito a Lauro, nella provincia di Avellino, sembrava apprestarsi a chiudere, a fine febbraio, con il trasferimento negli istituti del Nord, delle donne presenti con i figli. “Per tre mesi non ci sono state detenute. Poi hanno ricominciato ad arrivare”. Cosa è successo? Lo abbiamo chiesto al garante delle persone private della libertà personale della Campania Samuele Ciambriello. Il 26 febbraio di quest’anno dall’Istituto a custodia attenuata per detenute madri - Icam di Lauro, in provincia di Avellino, hanno trasferito al Nord le donne presenti, con i figli al seguito. “Per tre mesi non ci sono state detenute. Dopo allarmi lanciati, polemiche, interrogazioni parlamentari l’Icam ha ricominciato ad ospitare detenute con figli”, dice Samuele Ciambriello, garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Campania e portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà. Dalla sua apertura, nel 2017, quello di Lauro è stato spesso l’Icam più affollato d’Italia perché è l’unico del Sud e ci vengono portate tutte le detenute madri con figli piccoli presenti da Roma in giù, e per la capienza di 50 posti. Lo scorso febbraio su VITA scrivemmo un articolo, dicevamo che l’Icam della provincia di Avellino si apprestava alla chiusura, dopo il trasferimento in altri istituti di pena di tutte le madri e dei loro bambini presenti. Intervistammo Maria Patrizia Stasi, segretaria generale della Fondazione della Comunità salernitana, che lanciava un appello. In quell’occasione lei disse: “Vorrei ricordare alle autorità che hanno ordinato questi trasferimenti durante l’anno scolastico che l’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza sancisce il principio che ogni legge, ogni provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica, l’interesse del bambino deve avere una considerazione preminente”. Poi cosa è successo? Premetto che sono contrario a far vivere la detenzione negli istituti, per le detenute madri con i figli, per questi bambini senza colpe. Però meno male che le mie proteste fatte la prima volta al ministro della Giustizia Carlo Nordio, quando lo incontrai il 12 marzo di quest’anno, abbiano avuto effetto. Quando venni ricevuto, il ministro mi disse che non aveva fatto nessun decreto di chiusura. Poi Nordio l’8 maggio rispose a un’interrogazione parlamentare delle senatrici Ada Lopreiato ed Elisa Pirro: “Non vi è, allo stato, alcun decreto di chiusura o di diversa destinazione”. Gli ha fatto eco il sottosegretario Andrea Ostellari, lo scorso 12 giugno, in risposta ad un’interrogazione parlamentare della senatrice Valeria Valente: “Non vi è alcun decreto di chiusura o di diversa destinazione di detto istituto”. È un sistema che non funziona a vari livelli. Cosa vuole dire? Se un ministro e un sottosegretario dicono, durante delle interrogazioni parlamentari, che non hanno fatto nessun decreto di chiusura e non hanno notizie di Lauro, allora mi chiedo, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap fino al responsabile della direzione locale di un carcere, chi decide queste cose? Non c’è comunicazione. Se fosse stato per emergenza, per trasferirci altre donne, oppure persone tossicodipendenti o con malattie, avrebbe avuto (pur sbagliando) un senso perché sarebbe stato un cambio di destinazione d’uso. In questo caso, per tre mesi non ci sono stati utenti a Lauro. Mi chiedo, chi ha deciso inopinatamente, e a quali livelli, di trasferire, a fine febbraio, le tre donne detenute con figli presenti a Lauro una a Milano e due a Venezia? Si è andati contro il principio della territorialità della pena, che vale per i rapporti familiari e affettivi, per il diritto alla difesa: dove vanno gli avvocati, chi si può permettere quei viaggi dal Sud al Nord dell’Italia? E vale per il reinserimento sociale. Se una detenuta è di Roma, Napoli, Avellino, Taranto e viene trasferita al Nord chi la aiuta? È importante essere in un carcere che non disti centinaia e centinaia di chilometri dalle famiglie, per l’organizzazione delle detenute madri con figli, per i minori, per gli adulti. Poi ci sono altre questioni da considerare. Quali questioni? Nel 2016 la struttura di Lauro venne ristrutturata con un milione di euro convertendo un Istituto a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti - Icatt. Quindi c’è stato un grande dispenso di energia economica. Inoltre, delle persone, in particolare agenti di polizia penitenziaria, nei mesi in cui è stato chiuso, sono rimasti lì a sorvegliare un carcere senza utenti. C’è stata un’approssimazione nella gestione. Ci spieghi bene, per quanto tempo Lauro è rimasto senza detenute? Dal 26 febbraio, quando le detenute c’erano ma sono state trasferite, fino al 27 maggio, quando è arrivata una detenuta con un figlio. Il 26 febbraio non era possibile chiudere con la motivazione che non c’erano detenute: erano presenti ma sono state trasferite. Ora nell’istituto ci sono quattro donne: una di Taranto, una della provincia di Avellino, una della provincia di Napoli e una (incinta, a breve partorirà) di Roma. Una delle donne campane, fino a pochi giorni fa, aveva tre figli al seguito, ora affidati ai nonni. Se fosse stata in un istituto del Nord e, quindi, non avesse avuto i familiari vicino, a chi avrebbe affidato due dei tre figli, che hanno oltre tre anni? Secondo gli ultimi dati del ministero della Giustizia del 30 giugno, i bambini presenti al seguito delle loro madri negli istituti di pena sono 19 (ma a Lauro ci diceva che sono andati via, nel frattempo, due bambini, dati in affidamento ai nonni). Sono presenti cinque donne, ognuna con un figlio, allo Stefanini Rebibbia femminile di Roma, tre donne con tre figli a Bollate, una donna con un figlio al Lorusso Cutugno Le Vallette di Torino, una donna con un figlio a Perugia (nuovo complesso Penitenziario Capanne), quattro donne ognuna con un figlio all’istituto Giudecca di Venezia, e (secondo i suoi dati aggiornati) quattro donne e tre bambini a Lauro. Bisogna sottolineare che i veri istituti a custodia attenuata per detenute madri sono gli istituti Giudecca di Venezia, Lauro e quello di Milano. Com’è la situazione nelle carceri campane? Come portavoce della Conferenza nazionale dei garanti, posso dire che ci stiamo battendo perché ci sia un provvedimento deflattivo per le persone che devono scontare appena un anno di carcere e non hanno reati ostativi, che sono circa 9mila (su 62.738 detenuti presenti il 30 giugno 2025, dati ministero della Giustizia, ndr), di questi 3.400 devono scontare solo sei mesi. In Campania ci sono attualmente 7.604 detenuti, i posti disponibili sono 5.497, c’è un sovraffollamento del 137%. Veniamo subito dopo la Lombardia per il numero di persone detenute. Vorrei sottolineare che noi garanti ci occupiamo della comunità penitenziaria, che è fatta di detenuti e detenenti. Nel 2024 sono state 4mila le unità di polizia penitenziaria uscite dal servizio per raggiungimento dei limiti di età, per inidoneità legate allo stress o alla malattia. E sono solamente 2.700 le nuove assunzioni. Quindi, c’è un bilancio negativo già in partenza. Poi, essendo un lavoro usurante, ci sono migliaia di agenti che ogni giorno per legittime motivazioni di salute, di permesso, non vanno al lavoro. Per questo tanti servizi ad uso sanitario, culturale, scolastico, ricreativo non vengono effettuati: mancano gli agenti. La carenza di agenti cosa comporta, ad esempio? Che le traduzioni (trasferimenti di persone in regime di restrizione della libertà personale da un luogo ad un altro, ndr) spesso non vengono fatte per mancanza di “nucleo di traduzioni. Per portare un detenuto in ospedale per una visita specialistica, se è in media sicurezza, ci vogliono tre agenti, se è in alta sicurezza, quattro agenti. Caltanissetta. Indagati sei agenti del carcere “Malaspina”: avrebbero picchiato un detenuto di Vincenzo Falci seguonews.com, 12 luglio 2025 Sei agenti penitenziari del “Malaspina” indagati. Due perché accusati di avere malmenato un detenuto durante una traduzione, gli altri - tra loro anche il comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti di Caltanissetta - perché li avrebbero favoriti nascondendo la verità. Due di loro sono stati pure sospesi dal servizio. Un sovrintendente per un mese e un ispettore per quattro mesi. Misure cautelari interdittive che già pure il tribunale del riesame ha confermato. Ai sei indagati sono state contestate le ipotesi, a vario titolo, di lesioni personali aggravate, favoreggiamento personale, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. A farne le spese sarebbe stato un quarantatreenne di origine marocchina ma che vive a San Cataldo, agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico. Sarebbe stato picchiato mentre dal palazzo di giustizia veniva trasferito a casa, al termine di un processo a suo carico. In quei frangenti sarebbe stato percosso e avrebbe perso pure un paio di denti. Così ha riferito il ferito nel momento in cui è arrivato al pronto soccorso del “Sant’Elia”. Ma nelle successive relazioni di servizio non vi sarebbe stata alcuna traccia della presunta aggressione al detenuto. Ragusa. Educazione alla salute nelle carceri, seminario sulla prevenzione delle malattie infettive comune.ragusa.it, 12 luglio 2025 Si è svolto presso la Casa Circondariale di Ragusa il terzo seminario rivolto ai detenuti e al personale penitenziario. Nell’ambito del progetto “Educare alla salute: Incontri sulla prevenzione delle malattie infettive”, si è svolto presso la Casa Circondariale di Ragusa il terzo seminario rivolto ai detenuti e al personale penitenziario. L’iniziativa, ideata da AJS Connection Srl con il contributo non condizionante di Gilead Sciences, gode del patrocinio non oneroso del Dasoe - Dipartimento per le Attività Sanitarie e Osservatorio Epidemiologico dell’Assessorato alla Salute della Regione Siciliana, di Federsanità Anci Sicilia e dell’Arnas Garibaldi di Catania. L’incontro ha rappresentato una tappa importante del calendario di eventi “Ragusa in Salute: percorsi di prevenzione e benessere”, promosso dal Comune di Ragusa e dall’ASP 7 di Ragusa con l’obiettivo di sensibilizzare la cittadinanza - e in questo caso la popolazione detenuta - su tematiche cruciali legate alla prevenzione sanitaria. Il seminario, fortemente voluto e reso possibile grazie alla disponibilità del Direttore della Casa Circondariale, Santo Mortillaro, e alla collaborazione particolare della dott.ssa Noto, responsabile dell’area trattamentale e del Comandante della Polizia Penitenziaria Claudio Iacobelli, ha visto una significativa partecipazione dei detenuti, coinvolti attivamente con numerose domande e riflessioni. Relatori dell’incontro sono stati il prof. Bruno Cacopardo, Direttore dell’UOC Malattie Infettive dell’Arnas Garibaldi di Catania, la dott.ssa Antonella Di Rosolini, infettivologa ed ex primario presso l’ospedale Giovanni Paolo II di Ragusa, la dott.ssa Amanda Succi, responsabile del progetto, e il dott. Francesco Santocono, dirigente per la comunicazione dell’ARNAS Garibaldi e autore del cortometraggio “Io e Freddie: una specie di magia”, proiettato durante l’incontro per approfondire in maniera emotiva ed efficace il tema dell’HIV. “Un incontro toccante e di grande valore - ha dichiarato l’assessore Giovanni Iacono - in un momento in cui, soprattutto tra i giovani, si registra un aumento esponenziale di malattie infettive sessualmente trasmesse, come sifilide, gonorrea, clamidia e HIV. Proseguiremo il nostro impegno portando la prevenzione anche nelle scuole superiori”. Durante il seminario, i relatori hanno approfondito le modalità di trasmissione e le strategie di prevenzione di malattie come HIV, epatiti virali, papilloma virus, sifilide e gonorrea. Un’occasione importante per fornire strumenti conoscitivi fondamentali in un contesto, come quello penitenziario, in cui le malattie infettive risultano significativamente più diffuse rispetto alla popolazione generale. Secondo recenti studi, infatti, fino a un detenuto su tre potrebbe non essere consapevole del proprio stato di salute, e la prevalenza di alcune infezioni può arrivare fino a dieci volte quella riscontrata fuori dagli istituti penitenziari. Tuttavia, la progressiva normalizzazione dell’HIV e di altre patologie infettive non è ancora accompagnata da una piena consapevolezza scientifica, lasciando spazio a timori infondati e a pericolosi pregiudizi. Per questo motivo, progetti come “Educare alla salute” risultano fondamentali nel promuovere una cultura della prevenzione, della conoscenza e del rispetto, all’interno e all’esterno delle mura carcerarie. Un ringraziamento particolare a tutti coloro che hanno reso possibile l’evento, contribuendo alla sua riuscita. Pescara. “In carcere insegno ai detenuti a raccontarsi attraverso i disegni” di Ilaria Dioguardi vita.it, 12 luglio 2025 Fumettista e insegnante di fumetto, Tonio Vinci ha passato mesi con i detenuti del carcere di Pescara e di Sulmona. Dopo quest’esperienza, ha scritto “Fumetti per l’evasione”, in cui racconta cosa succede quando un autore di fumetti tiene un corso all’interno di un carcere per insegnare ai detenuti a raccontare - e a raccontarsi - attraverso i disegni. “Utilizzo il fumetto per entrare in posti in cui sarebbe altrimenti impossibile entrare e per strappare un sorriso alle persone”. Uno di questi luoghi è il carcere. In Fumetti per l’evasione (Momo edizioni), Tonio Vinci racconta la sua esperienza con i detenuti, che sono i protagonisti del libro. Vinci, come nasce Fumetti per l’evasione? Un paio di anni fa ho fatto un’esperienza nel carcere di Pescara, durata per circa tre mesi, una volta alla settimana. Subito dopo ho fatto un’altra esperienza di cinque mesi nel carcere di Sulmona, dove la classe era formata da persone più adulte, da 45 anni in su. La mia motivazione era il voler utilizzare il fumetto per entrare in un mondo nel quale altrimenti non sarei mai entrato. Ero certo che, una volta entrato in contatto con questi mondi, avrei imparato molto e sarebbe cambiato il mio modo di vedere le cose. Nel caso di Sulmona, la mia esperienza è stata talmente intensa che ho voluto inserire nel fumetto tutto quello che è accaduto. Quindi, i personaggi e i dialoghi presenti nel libro, sono tutti reali? Sì, tutto quello che racconto è vero, con una grafica e un modo di scrivere personali. Ovviamente “mischiando le carte”, per privacy: alcuni volti assomigliano a quelli delle persone incontrate, ma faccio dire loro cose dette da altri. Tutto quello che faccio dire ai personaggi del fumetto è reale e mi è stato detto in momenti diversi delle mie lezioni, durante i mesi di corso. Ci faccia qualche esempio... C’è chi mi ha detto che “in carcere non sei mai solo… Sei sempre con qualcuno, ma non un compagno di cella, non lo puoi vedere ma c’è: in cella sei sempre in compagnia dell’ansia”. La loro perenne ansia è dovuta al fatto che fuori lasciano la vita, metà del loro tempo pensano a quello che hanno lasciato fuori, agli affetti, ai figli. Poi c’è chi mi ha raccontato che, quando è entrato in carcere, non sapeva né leggere né scrivere. Com’era il clima, durante il corso? Il fumetto ha aiutato le persone a porsi in maniera dissacrante e gioviale e, come dico nel titolo, ad evadere. I detenuti venivano da me con il piacere di vedermi. MI dicevano: “Ci porti l’aria da fuori”. Era un momento di divertimento, anche per me. Sembra che io scherzi, quando dico questa frase, ma io in carcere mi sono sentito a casa. Ero un momento di pausa per i detenuti, ero una sorta di “premio” per loro. A breve li andrò a trovare, era già nei miei programmi e hanno anche chiesto di me ad un collega. “Entrare per la prima volta in carcere non è facile da descrivere. Forse la cosa che più si avvicina è la sensazione di avere uno schiaffo fortissimo in volto!”, scrive a pagina 13 del suo libro... La prima volta che sono entrato in carcere è stato a Pescara. Avevo paura, ero sicuro che sarebbe stata un’esperienza molto forte. Però fingevo agli altri (e un po’ anche a me stesso), che fosse tutto tranquillo. Quando sono entrato, camminavo, sentivo un forte odore di caserma e mi sono irrigidito come se avessi ricevuto uno schiaffo. Il fatto era che non potevo far vedere che avevo la sensazione di aver ricevuto un forte schiaffo, quindi ho preso questo “colpo” ma continuavo a camminare facendo finta di niente. È stata una sensazione molto intensa, che mi ero già immaginato, ma quando ho sentito lo sbattere dell’enorme portone dietro di me, ho sentito che lì dentro c’era un’altra dimensione, un’altra atmosfera. Nel libro scrive: “Sono meravigliato dalla loro serietà, dalla loro disciplina e dalla loro concentrazione. Mentre spiego la griglia bonelliana non posso fare a meno di pensare che sono i migliori alunni che abbia mai avuto”. Com’è stato insegnare ai detenuti? Una bellissima esperienza. Non ho mai voluto sapere cosa i miei alunni avessero fatto fuori, i motivi per cui fossero lì dentro. In quei momenti per me erano alunni che stavano cercando di disegnare una testa. Nel momento in cui facevano il corso di fumetto, i miei alunni vivevano un momento che li portava fuori dal carcere. Ho avuto l’impressione che vivessero quest’esperienza nella maniera più piena e seria possibile. Se riesci, in carcere, a stabilire un contatto con una persona, questo contatto diventa molto intenso. Io non ho mai visto la parte brutta del carcere: non ho assistito a tensioni, litigi o violenze. Ho inserito qualcosa nel fumetto perché sappiamo che esiste anche questa parte, ma personalmente ho vissuto solo esperienze positive, di grande umanità. L’obiettivo del mio libro era trasmettere quello che queste persone mi davano: felicità nel disegnare, gioia, sprazzi di dolore. Quando uscivo dal carcere, i colori cambiavano completamente. Anche il senso dell’aria cambiava. E io ci passavo poco tempo dentro il carcere (quattro ore a settimana) immagino loro, dopo tanti anni, come possano vedere distorti i colori. In alcuni momenti le persone si incupivano, trasmettevano il dolore che provavano lì dentro, la mancanza dell’aria aperta, degli alberi, della natura. E me lo dicevano, ma “a piccole dosi”, lo capivo attraverso le pieghe della loro quotidianità. Una persona mi diceva continuamente: “Il carcere è un girone dantesco”. Una curiosità, i temperini non possono essere usati in carcere. Come temperavate le matite? A Pescara i temperini non potevano essere usati e i ragazzi temperavano con una specie di carta vetrata (ma non riuscivano a temperare bene e si graffiavano anche un po’). A Sulmona potevano usarli e, dopo l’utilizzo, li riponevano in armadietti chiusi con il lucchetto. Roma. I disegni di Zerocalcare per i detenuti-fumettisti ansa.it, 12 luglio 2025 Il disegnatore in carcere a Regina Coeli per conclusione corso. I consigli su come dare vita ai personaggi, l’indicazione di quali matite scegliere per un lavoro ben fatto e, dopo i complimenti per il talento dimostrato, un ‘disegnetto’ per tutti: é stato Zerocalcare il protagonista dell’ultima giornata del corso di illustrazione e fumetto tenuto dall’artista Daniele De Sando. Una full-immersion particolare: si è infatti trattato di un corso per i giovani detenuti e si è tenuto nel carcere di Regina Coeli a Roma. A raccontare la storia è lo stesso ministero della Giustizia, nel quotidiano Gnewsonline che pubblica anche le foto del popolare fumettista tra i ragazzi detenuti. Tra l’altro Zerocalcare, nome d’arte di Michele Rech, conosce l’ambiente carcerario e in particolare l’istituto di Rebibbia, che si trova nel quartiere in cui vive e che spesso racconta nelle sue opere. Aveva visitato il minorile di Casal del Marmo ma per lui è stata la prima volta a Regina Coeli. Il corso è partito con 12 detenuti, in fase finale ne contava 3, ma ieri ce n’erano 8. “Alcuni non lo hanno portato a termine, altri sono usciti prima che terminasse” ha affermato Grazia Piletti, segretaria dell’associazione ‘A Roma, insieme’. “Cerchiamo il più possibile di differenziare l’offerta, proprio perché l’età media è sempre più bassa”, ha spiegato la direttrice Claudia Clementi. Stando a quanto riportano le bibliotecarie, i suoi libri nel penitenziario sono molto richiesti e anzi spesso non vengono restituiti. Su una delle copie che, ha detto la direttrice Clementi, resterà esposta in biblioteca, Zerocalcare ha lasciato una dedica: “Daje utenti della biblioteca di Regina Coeli!”. Parlando con i detenuti, ha commentato l’artista, “capisci che loro sono qui perché non hanno sostegni: soldi, una casa dove scontare la pena. Alcuni stanno fuori, a parità di cose che hanno fatto”. L’amore in gabbia, intorno all’affettività e alle sue prigioni di Fabio Gianfilippi sistemapenale.it, 12 luglio 2025 Recensione a Donatella Stasio, “L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere”, Castelvecchi, 2025. Donatella Stasio ha appena pubblicato per Castelvecchi “L’Amore in gabbia”. Nel sottotitolo leggiamo che si tratta della “ricerca della libertà di un reduce dal carcere”. È la storia, raccontata attraverso il fitto dialogo con l’autrice, di Gianluca, che ha conosciuto a lungo la detenzione nel nostro Paese e che, ora che ce l’ha alle spalle, come “uno che ce l’ha fatta”, può raccontarci non solo quello che ha provato vivendola, ma quello che ne è rimasto, quando a libertà riacquistata ha compreso che il cammino per ottenerla davvero cominciava, in un certo senso, soltanto allora. Luglio 1975. Nasce Gianluca, nella periferia di una Milano in crescita. Conosce presto un senso di emarginazione che è insieme sociale e personale. Incontra la droga. Poi il carcere, minorile e per adulti. La sua storia è eccezionale, come ogni storia personale sa esserlo. E come ogni storia può farsi esempio di tante altre. Un padre morto troppo presto e una madre che, oppressa dalla necessità di crescere i suoi figli, sviluppa una infinita difficoltà ad entrare in relazione emotiva con loro. Un figlio, Gianluca, per il quale l’incontro con il carcere si rivela per troppo tempo occasione per introdursi con più capacità nel mondo del crimine e per cristallizzare le carenze emotive vissute, in un guscio di impermeabilità ai sentimenti. Poi avviene l’incontro con il carcere di Milano “Bollate”, e uno stile di relazione tra operatori penitenziari e persone detenute in grado di stimolare prima, e intercettare poi, segnali di apertura, primi timidi passi fuori dal carapace di immobilismo che spesso è la casa di chi è privato della libertà. Una esperienza che si consolida in un programma esterno e poi in una libertà fatta di lavoro e di impegno positivo nel contesto sociale. Ciò che siamo stati, la penombra che abbiamo attraversato (Lalla Romano) nell’infanzia, le luci abbacinanti e il nero assoluto della nostra adolescenza, una maturità guadagnata e sdrucita, è quel che l’oggi di ciascuno si porta dietro. Gianluca se lo porta nelle sue relazioni, nella difficoltà di vivere in spazi chiusi che, anche lontanamente, ricordino il carcere, nel rovello di una affettività che ha dovuto spingersi al limite per compensare il dolore, e che fa fatica a liberarsi. Una storia, quindi, che priva di qualsiasi “vissero felici e contenti” si fa vicinissima e vera, con i punti di forza ben in vista, ma uno sguardo onesto alle conseguenze, durature, di una lunga sottrazione alla libertà degli affetti. Luglio 1975. È legge l’ordinamento penitenziario. Con un ritardo di ventisette anni dall’entrata in vigore della Costituzione e preceduta da importanti pronunce della Corte costituzionale, che avviavano il percorso, tortuoso e fondamentale, per far emergere il “volto costituzionale” delle pene. Si andava finalmente oltre i retaggi di un carcere vecchio, eredità, non solo edilizia, dei decenni del fascismo. Diveniva legge una riforma organica destinata a dare centralità alla persona detenuta e alle sue libertà residue nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, tenuta ad una individualizzata offerta trattamentale e a rispettare la dignità di chi le è affidato in custodia. Nel cinquantenario di quella data, molti momenti di incontro stanno consentendo in questi mesi un bilancio, che è inevitabilmente di luci e ombre. Riconosciuta la centrale importanza del mantenimento delle relazioni familiari per poter sviluppare veri percorsi risocializzanti, la legge penitenziaria del ‘75 restava però chiusa alla possibilità di incontri affettivi intimi, privi del controllo a vista del personale, che consentissero l’esercizio di una affettività fatta anche di corpi, di sessualità e di tenerezza. Donatella Stasio, in controcanto alla storia di Gianluca, che ha conosciuto un carcere dunque privo di questi spazi, e descritto come in tutto orientato alla negazione della dimensione affettiva delle persone detenute, ricorda la sentenza della Corte costituzionale n. 10/2024, che quel divieto l’ha superato, aprendo lo spazio ai colloqui intimi tra le persone detenute e i propri familiari. Una strada appena aperta, che vede allo stato un solo istituto penitenziario che si è attrezzato con una stanza in cui questi colloqui affettivi possano avvenire. Si interrogano l’autrice e Gianluca sul senso di questa nuova possibilità, e chi è stato reduce da un lungo percorso di dolore, come quello del carcere che conosciamo, non può che rimanere perplesso. Come può un carcere che, strutturalmente e culturalmente, nega i sentimenti, concepire questi spazi di intimità e sessualità? È un quesito decisivo. L’apertura agli incontri intimi, con gli occhi del magistrato di sorveglianza, si traduce in una contraddizione che può far vacillare un paradigma di azione che veda il tempo del carcere come meramente incapacitante. E si fa momento di confronto con la propria dimensione relazionale, in grado di far crescere i propositi e i progetti di reinserimento sociale su basi più ancorate al piano di realtà. Spesso le famiglie, lontane, sono indicate dalle persone detenute come perfette. Il quotidiano di privazione come ciò da cui allontanarsi per far ritorno a loro. Eppure, la realtà è sempre lontana da ogni perfezione, si costruisce in una quotidianità di accettazione dei limiti e di crescita condivisa, di abbracci sghembi, di tentativi di venirsi incontro, e allora ogni istante guadagnato all’intimità può restituire alla persona un frammento della propria dignità e al contesto del carcere una migliore consapevolezza che chi è detenuto non la perde, in nessun caso, perché è finito in quel luogo. Mi ha colpito la recente lettura del bel libro di Nicolas Fargues nel quale l’autore riassume i mesi di una sua esperienza di scrittura in carcere in Francia (On est le mauvais garcon qu’on peut, P.O.L. 2024). Quanto somigliano i problemi del carcere parigino di cui si parla a quelli che sperimenta chi conosce il nostro carcere! E lì si citano senza alcuna curiosità i parloirs familiaux, da tempo disponibili, ci si è fatta l’abitudine, e non se ne potrebbe più fare a meno. Non risolve, di certo, tutto ciò che il sovraffollamento carcerario porta con sé in termini di “desertificazione affettiva” e di carenza di programmi di reinserimento individualizzato, ma si pone come pietra di inciampo rispetto all’inevitabile spersonalizzazione che dai grandi numeri deriva. “L’amore in gabbia” si svolge per un ampio tratto in un setting carcerario, che l’autrice padroneggia in modo perfetto, da giornalista che da anni, e in molti modi diversi, si è interrogata su questo mondo e sul suo significato, di fronte al drammatico gap tra altissimi principi costituzionali e l’esistente, sempre marginalizzato nel dibattito pubblico, incompreso e abbandonato alla carenza di risorse, elevata al rango di pena aggiuntiva inevitabile. Tuttavia, il racconto della storia di Gianluca e il suo percorso attraverso il carcere e dopo, costituiscono, nel libro, soprattutto il banco di prova per affrontare un tema diverso e davvero più ampio: la delicatezza del congegno dell’affettività. Ci coinvolge. Mi viene da dire che è il punto in cui oggi siamo tutte e tutti più scoperti. Trasversale, attuale, irrisolto. Di fronte alla complessità delle relazioni, l’amore appare da un lato sempre in gabbia, e dall’altro sempre alla ricerca di una via d’uscita, di maggior libertà, di più profonda comprensione, di una stabilità che le regole del mondo contemporaneo non contribuiscono più a puntellare dall’esterno e che, perciò, è rimessa alla nostra costruzione personale, e alla sua fragilità. Nel tempo dell’amore liquido (Bauman), della persona che teme di divenire uno scarto, come scarto sono i tanti oggetti che ci circondano, il carcere si fa emblema, e può essere segno della nostra resistenza a buttar via le persone che in qualche modo si sono spezzate. Al contempo le gabbie in cui ci troviamo finiscono per facilitarci, ci giustificano. In qualche modo la privazione dell’affettività in carcere consente di vagheggiare un altrove, mentre la possibilità di viverla rende inevitabile un confronto con la realtà. Le gabbie cadute del nostro oggi, in cui ci si scopre ogni giorno in balia di una possibile diversa lettura di noi stessi, e del significato delle nostre vite, ci lasciano nudi di fronte all’amore. L’altra persona da guardare, comprendere, accogliere, toccare, custodire nel cambiamento e, a volte, lasciar andare. Un moto che porta fuori da noi stessi e ci restituisce a noi stessi. Un viaggio che facciamo con Stasio e Gianluca fuori e dentro una certa gabbia, ma ci racconta di dignità e sbarre che toccano tutte e tutti i reduci, non solo dal carcere, come nel sottotitolo del libro, ma dal proprio passato. Cultura, lo scatto della destra non c’è di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 12 luglio 2025 Egemonia non vuol dire, infatti, avere una lista di posti a disposizione e cominciare a riempirli sostituendo gli amichetti degli altri con i propri, all’insegna del fatidico “levati tu che mi ci metto io”. Nessuno si aspettava dal governo di destra qualcosa come la messa in cantiere dell’Enciclopedia Italiana. Non solo perché i tempi non sono più quelli, non solo perché lo sconsigliava un’ovvia prudenza, e non solo perché di Giovanni Gentile non mi pare che in giro ce ne siano molti. Ma soprattutto per una ragione: perché anche Giorgia Meloni sa che nei regimi democratici non spetta ai governi di occuparsi troppo e troppo da vicino di cose della cultura così grandi e ideologicamente connotate come quella. Qualcosa dunque come l’Enciclopedia Italiana no, ma qualcosina forse sì. Che so: un’iniziativa museale nuova e di prestigio, o magari, viste le nostre tradizioni, qualcosa di peso e di generosamente finanziato nel campo della musica o del teatro musicale, o ancora: dar vita, ad esempio, in qualche settore scientifico d’avanguardia a un istituto internazionale di ricerca importante, oppure insieme a un gruppo di Paesi africani immaginare un grande centro studi sul fenomeno migratorio; ancora: costituire ex novo o a partire da quanto già esiste un grande polo bibliotecario specificamente dedicato a un importante settore disciplinare (arte, storia, per dire) o a qualcosa di totalmente nuovo (video e “graphic novel”, sempre per dire). Insomma, chi stava al governo poteva, per rilanciare l’immagine culturale del Paese e intestarsi qualcosa d’importante, pensare a qualcuna delle iniziative ora dette. O pensarne mille altre invece di non fare nulla, come ha fatto, pur avendo davanti cinque anni di tempo prevedibilmente raddoppiati in altri cinque. Perché tra l’altro è così, diciamolo pure, che si costruisce l’egemonia, se proprio bisogna metterla in questi termini. Cioè avendo delle idee, delle buone idee, sapendo poi trovare le persone e i modi giusti per trasformarle in iniziative, in istituzioni, in prodotti, libri, mostre, film. È così che si acquista credito, autorità e influenza nel campo della cultura: credito che alla lunga diviene prestigio, e che nel caso di un partito finisce poi per riverberarsi su di esso e per trasformarsi in un importante capitale politico. Egemonia non vuol dire, infatti, avere una lista di posti a disposizione e cominciare a riempirli sostituendo gli amichetti degli altri con i propri, all’insegna del fatidico “levati tu che mi ci metto io”. Tutto comincia sempre dalle idee. Deve cominciare da qui. Specialmente se, come la destra è costretta a fare, si parte in svantaggio e dovendo, diciamo così, rimontare. E invece, ad oggi, il suo bilancio in questo senso è assai deludente. In quanto maggioranza di governo la destra, ad esempio, è per legge la padrona della Rai, vale a dire, come sempre ci viene ricordato, della più grande industria culturale del Paese. Ebbene, mai come oggi la Rai appare un polveroso deserto di idee, una cosa che con la cultura, tranne alcuni programmi di ultranicchia non ha nulla a che fare. Al suo posto, lotte continue e furibonde per la poltrona di megadirettore galattico, di vice caporedattore aggiunto, fino allo sgabello di cameriere in prova alla mensa di via Asiago. La Rai - mi perdonerà Aldo Grasso se in qualche modo gli rubo il mestiere - avrebbe potuto essere uno strumento prezioso per insegnare agli italiani a essere meno faziosi quando ragionano di politica facendoli assistere, ad esempio, a dibattiti veri e non a scimmiottature delle vuotaggini parlamentari; avrebbe potuto servire per metterli un po’ al corrente delle molte cose del mondo di cui sono in genere digiunissimi, e dunque anche per far loro sapere che cosa sono davvero lo spettacolo, l’ironia, l’anticonformismo, la cultura, i libri, l’intelligenza. Non si poteva trasmettere a viale Mazzini una direttiva in questo senso invece di obbligarci a vedere ogni sera tristi ragazze rifatte, tristi comici spompati e fiction raccapriccianti? Non si poteva avere un po’ di coraggio, di ambizione? E così un po’di coraggio e di ambizione è stato costretto a mostrarlo il solo ministro Valditara, imbarcandosi nella perigliosa impresa di dar vita niente di meno che a nuove Indicazioni per la scuola italiana dell’obbligo. Lo ha fatto - come è sempre accaduto, sempre in tutte le circostanze analoghe - con l’aiuto di un certo numero di docenti universitari, tra cui chi scrive, avventurandosi insieme a loro in un territorio che la sinistra di tutte le tinte ha sempre considerato un suo elettivo monopolio politico-culturale. E dunque dovendo affrontare, lui e i docenti suddetti - molti dei quali, sarà bene precisarlo, di opinioni politiche affatto diverse dalle sue - un impressionante fuoco di sbarramento diciamo così a prescindere. A prescindere cioè da ogni considerazione su quello che è diventato oggi, con le vecchie Indicazioni, il reale livello di apprendimento degli studenti; a prescindere da ogni verosimile capacità di comprensione e assimilazione delle conoscenze da parte di ragazzini di 11-12 anni o giù di lì; a prescindere da ogni ragionevole possibilità che la scuola diventi una dispensatrice di rimedi per qualunque male o problema della società. E invece, siccome il ministro è di destra allora è ovvio che “si vogliono mettere le mani sulla scuola”, si vuole “cancellare la scuola democratica”, si cerca di educare i giovani italiani al “nazionalismo”, e così via fantasticando e delegittimando. Come si vede muoversi nel campo della cultura non è facile. Ma qualcosa si può fare: basta mettere da parte qualunque progetto egemonico, non far caso né alle poltrone né agli strapuntini e cercare di avere invece qualche idea. Che ci vuole? Migranti. La detenzione nei Cpr: la Corte costituzionale colpisce ma non affonda di Francesco Pallante volerelaluna.it, 12 luglio 2025 La reclusione degli stranieri nei Centri di permanenza per il rimpatrio continua a sollevare gravi questioni di compatibilità con la Costituzione, da ultimo tornate all’attenzione della Corte costituzionale nella sentenza n. 96 del 2025 pubblicata nei giorni scorsi. Alla base di tutto - è bene evidenziarlo - vi è una deficienza dello Stato, consistente nell’incapacità di provvedere, in tempi ragionevoli, all’accompagnamento alla frontiera degli stranieri privi di regolare titolo di soggiorno. La reclusione nei Cpr viene di conseguenza, e dovrebbe avere minima durata: lo stretto tempo necessario a effettuare l’espulsione. Invece, può protrarsi sino a 18 mesi e, in più nella metà dei casi, si conclude con il rilascio in libertà dello straniero, contestualmente invitato a rientrare nello Stato di provenienza con i propri mezzi: vale a dire, a riuscire là dove lo Stato ha fallito. Le ragioni per dubitare della compatibilità con la Costituzione della normativa in materia sono molte: su tutte, il fatto che, non essendo il soggiorno irregolare un reato ma una condizione, le persone si ritrovano private della propria libertà personale - il “bene” costituzionale più prezioso, dopo la vita - non per ciò che hanno fatto, ma per quello che sono. Un esito difficilmente riconducibile ai principi dello Stato liberale di diritto, ma che una discutibile sentenza della Corte costituzionale - la n. 105 del 2001 - non ha ritenuto di sanzionare, pur riconoscendo la necessità di applicare, anche alla reclusione nei Cpr, le rigorose garanzie previste dall’art. 13 Costituzione: vale a dire, che sia la legge a disciplinare in via generale e astratta i casi e i modi in cui le persone saranno private della libertà (riserva di legge) e che sia un giudice a disporre la privazione della libertà nei casi particolari e concreti (riserva di giurisdizione). Se già la riserva di giurisdizione è stata soddisfatta in modo discutibile, affidando la competenza a un magistrato onorario, e non di carriera, come il giudice di pace, ancor più problematico risulta il rispetto della riserva di legge, dal momento che il Parlamento ha adempiuto solo in parte ai propri doveri, disciplinando con legge i casi, ma non i modi della reclusione degli stranieri. La restante normativa è stata rimessa ai regolamenti governativi e ai provvedimenti amministrativi dei prefetti (questi ultimi differenziati sul territorio), con il risultato che le concrete modalità di detenzione nei Cpr (standard abitativi, servizi da erogare, rapporti con l’esterno ecc.) sono stabilite non in esito al confronto parlamentare democratico tra la maggioranza e le opposizioni, ma in forza di decisioni assunte dal medesimo organo che, tramite le forze di pubblica sicurezza, esegue la limitazione della libertà personale degli stranieri. Insomma: là dove la Costituzione prevede che la legge parlamentare operi come strumento di controllo dell’azione governativa è, invece, il Governo a darsi da sé medesimo le regole del proprio agire. Chiamata a pronunciarsi su tale inadempienza parlamentare, con la recente sentenza la Corte costituzionale ha, sì, riconosciuto la violazione dell’art. 13 Costituzione, per via delle carenze della legge, ma ha altresì rinunciato a intervenire per porre rimedio, affermando che spetta al legislatore provvedere a colmare la lacuna. Dimenticando che, in passato, non di rado il legislatore ha evitato di dar seguito a moniti ben più incisivi (basi pensare al caso dell’eutanasia) e, soprattutto, che la Corte stessa ha a disposizione lo strumento delle decisioni “additive”: quelle con cui, in vista dell’intervento del legislatore volto a colmare la lacuna, sono indicati i principi costituzionali da seguire o, ancora più incisivamente, specifiche norme già esistenti nell’ordinamento da assumere temporaneamente a modello. Con logica inusualmente contorta, la sentenza n. 96 del 2025 individua la possibilità di prendere a modello l’ordinamento penitenziario, ma subito la esclude, affermando che la detenzione nei Cpr, non essendo conseguenza della commissione di reati, deve “restare estranea a ogni connotazione di carattere sanzionatorio”: con il risultato che la posizione che meno giustifica la limitazione della libertà personale (la detenzione in seguito a un illecito amministrativo) si ritrova disciplinata in modo svantaggiato rispetto alla posizione che più la giustifica (la detenzione in seguito a un illecito penale). Un esito gravemente irragionevole, che rivela la persistente inadeguatezza della tutela costituzionale in materia di tutela degli stranieri e, più in generale, la difficoltà degli organi di controllo di operare con efficacia a tutela della Costituzione in un momento in cui i suoi principi fondamentali si ritrovano, come mai prima d’ora, sotto l’attacco del potere politico. Migranti. Meglio occupati che delinquenti: ma la Lega attacca di Valentina Marotta Corriere Fiorentino, 12 luglio 2025 La presidente della Cassazione critica i Cpr e propone un portale per il lavoro. “Nei Cpr i migranti, senza prospettive, diventano manovalanza del crimine”. Non ha mai avuto dubbi la presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano. E ieri, ancora una volta, ha ribadito il principio nel corso del convegno intitolato “Carcere, inclusione sociale, comunità: il sistema delle politiche regionali per la giustizia penale in Toscana”, organizzato dalla Regione insieme ad Anci Toscana. Immediato tuttavia l’attacco al vertice istituzionale della capogruppo della Lega in Consiglio regionale Elena Meini: “Siamo allibiti dalle parole del presidente della Cassazione. In questi Centri ci sono persone che hanno compiuto reati”. Peccato che qualche giorno fa la Corte Costituzionale abbia ancora una volta affermato con sentenza che i Cpr siano luoghi di “detenzione amministrativa” a cui deve “restare estranea a ogni connotazione di carattere sanzionatorio”. Proprio ispirandosi alla Costituzione, la presidente Cassano ha immaginato il lancio di un portale del lavoro per i migranti in collaborazione con la Prefettura e la Regione Toscana. L’idea della presidente parte da lontano (“L’avevamo già pensato ai tempi dell’assessore Bugli”), prevede interviste agli immigrati presenti nei Cpr (definiti “meri luoghi di contenimento”) “sulle loro abilità professionali, sul lavoro che facevano nei loro Paesi di provenienza prima di approdare in Italia, per programmare poi interventi lavorativi mirati nei diversi territori sulla base delle loro competenze”. Perché senza percorsi di integrazione-lavoro Il rischio è concreto: “Se teniamo gli immigrati semplicemente contenuti, lontani da casa, senza un lavoro, senza nessuna prospettiva per il loro futuro, creiamo le condizioni perché diventino domani manovalanza per il crimine”. Mentre “se si fa questo - afferma la presidente Cassano, tornando sul portale - forse noi diamo un apporto davvero significativo a preparare il reinserimento di queste persone”. Ma l’idea non è andata giù alla Lega: “Altro che intervistarli e verificare le loro competenze professionali. Devono essere espulsi. Il primario obiettivo deve essere invece trovare lavoro ai tanti disoccupati toscani e mettere in sicurezza le città” attacca Meini. Per la leghista i Cpr ospitano “immigrati irregolari autori di reati in attesa di essere rimpatriati… già delinquenti, magari pure tra i più pericolosi per la collettività”. Nessuna replica dalla presidente Cassano, che evidentemente non vuole alimentare la polemica. Migranti. Due giorni di mobilitazione fuori dal Cpr a Potenza di Simone Libutti Il Manifesto, 12 luglio 2025 Manifestazione fuori dal Cpr di Palazzo San Gervasio a Potenza: “Dentro le temperature possono arrivare anche a 45 gradi”. Gli attivisti rilanciano la mobilitazione per l’autunno in Albania. “Non voglio morire qua” urla un ragazzo nel pomeriggio di giovedì 10 luglio scavalcando con la voce il muro che divide i moduli 14 e 15 del Cpr di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, dalla strada in cui si tiene il presidio contro la detenzione amministrativa, indetto dall’Assemblea lucana No Cpr dalla rete transnazionale Network against migrant detention. “Era dal 2011 che non si teneva una manifestazione di questa rilevanza” dice Maurizio Trittio, residente nel comune di Palazzo San Gervasio che già aveva denunciato, con due esposti in Procura e uno sciopero della fame, la situazione inumana del Cpr: “Qui, purtroppo, c’è accondiscendenza. Il centro è diventato un business economico per tutto il paese”. Nel Centro sono detenute attualmente 104 persone - in buona parte sotto i 25 anni - divise in 18 moduli e separate dal mondo esterno da tre livelli di grate che d’estate aumentano notevolmente il calore. “Dentro non c’è climatizzazione e le temperature possono arrivare anche a 45 gradi” spiega al manifesto Francesca Viviani del comitato lucano No Cpr. Insieme ad associazioni come Amnesty International, Libera e Non una di meno Matera, al presidio è arrivata anche la squadra di calcio popolare bolognese Crystal Bo: “Sentivamo la necessità di esserci perché siamo legate a questi temi, si tratta di intrecciare le lotte e renderle intersezionali” racconta Marina, una delle componenti. I manifestanti hanno provato a mettersi in comunicazione con le persone detenute, con cori di solidarietà e musica condivisa: la playlist che viene fatta ascoltare è stata scelta dai migranti reclusi e girata all’esterno attraverso una chiavetta usb. “La musica che facciamo ascoltare è la stessa che ascoltano loro, noi dialoghiamo anche così” spiega Rocco, attivista potentino. Le persone recluse hanno risposto, per comunicare, appiccando dei piccoli incendi, terminati con l’arrivo di un reparto della polizia. Successivamente sono entrati 18 pacchi, uno per modulo, con beni di prima necessità. In concomitanza con il presidio è entrata anche una delegazione composta dalla garante provinciale dei detenuti Carmen D’Anzi e dalla consigliera regionale del M5S Alessia Araneo. “Ci chiedono di non dimenticarli - ha spiegato quest’ultima al termine della visita - si sono lamentati soprattutto del caldo e del cibo scadente”. Il centro cottura è gestito da Officine Sociali, ente che ha appena ottenuto un rinnovo biennale. La manifestazione è proseguita ieri a Potenza, con un’assemblea aperta organizzata per riaffermare la necessità di rendere l’opposizione ai Cpr transnazionale. Si sono collegati dall’Albania i rappresentanti del collettivo Mesdhe, insieme a quelli di Stichting LOS dall’Olanda. “I mesi di luglio e agosto sono i più duri per chi è recluso nei Cpr - hanno spiegato dall’assemblea - oltre al caldo, aumenta la solitudine, diminuiscono i turni del personale e si preparano meno pacchi perché le città si svuotano. È in questi mesi che aumentano i casi di suicidio, proprio quando noi tutti andiamo al mare”. Il prossimo appuntamento è in Albania in autunno, per “rendere visibile la protesta per chi sta dentro. Per farli sentire meno soli”. Migranti. “Stop all’asilo dei migranti e carcere per gli irregolari”, la Grecia approva la legge di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2025 Ci provò anche l’Italia, Corte Ue disse no. Fu il governo Berlusconi IV a tentare la stessa strada: la Corte di giustizia europea dichiarò la violazione della direttiva Ue 2008/115. Al Parlamento di Atene la Camera dei deputati ha approvato con ampia maggioranza (177 voti a favore, 74 contrari e 42 astenuti) l’emendamento che sospende l’esame delle domande di asilo di chi arriva via mare dal Nord Africa, annunciato mercoledì dal governo di centrodestra dopo il boom di arrivi sull’isola di Creta per un aumento delle partenze dalla Libia che sta riguardando anche l’Italia. L’esecutivo di Kyriakos Mitsotakis, che ha incassato anche i voti degli ultranazionalisti di Soluzione Greca, ha scelto le maniere forti, prevedendo fino a 5 anni di carcere per gli irregolari che non lasciano il Paese, anche a costo di mettere in discussione le direttive Ue e le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea che hanno già censurato simili provvedimenti, introdotti nel 2009 proprio dall’Italia. La presidente del partito di Plefsi Eleftherias, Zoi Konstantopoulou, ha attaccato l’esecutivo: “Vuole morti alle frontiere”, definendo l’emendamento “incostituzionale, razzista e raccapricciante”. Anche il portavoce parlamentare di Syriza, Giorgos Psychogios, ha sostenuto l’incostituzionalità: “La protezione delle frontiere è un diritto e un dovere del Paese, ma deve essere soggetta al rigoroso rispetto del diritto internazionale e del diritto del mare”. La durata della sospensione per l’esame delle domande d’asilo durerà tre mesi e potrebbe essere ridotta per decisione del Consiglio dei ministri. Alle opposizioni, il ministro dell’Immigrazione greco, Thanos Plevris, ha risposto che sono state seguite “le linee guida pertinenti, introducendo restrizioni sia geografiche che temporali” e che il provvedimento si rifà a una misura del 2020 “approvata dalla Commissione europea e dai tribunali competenti”. Nei giorni scorsi erano state le Nazioni Unite a dire che la sospensione dell’asilo annunciata dalla Grecia “è un passo ingiustificato che mina diritti fondamentali e obblighi internazionali”. Ma c’è dell’altro: la reclusione fino a 5 anni per chiunque decide di rimanere in Grecia dopo che la sua domanda di asilo è stata respinta. “D’ora in poi, la strada per i migranti clandestini sarà la prigione o l’espulsione”, ha dichiarato Plevris, definendo la pressione migratoria dalla Libia “un’operazione di invasione dell’Europa, di sostituzione della popolazione”, e sostenendo che “sulle coste della Libia occidentale si trovano 3 milioni di migranti”. Numeri già sentiti, perfino in Libia, e già smentiti dai censimenti dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, che nel Paese conta circa 800 mila stranieri, compreso l’80 per cento che lavora, soprattutto nell’edilizia. Mentre l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr) conta circa 90 mila tra richiedenti e rifugiati, col 78% proveniente dal Sudan. Nondimeno, il messaggio di Atene è chiaro: “Restate dove siete. Non siete i benvenuti”. ?Le pene detentive previste appaiono tuttavia in aperto contrasto con la normativa europea, secondo le sentenze della Corte di giustizia Ue, titolata all’interpretazione delle leggi comunitarie al fine di armonizzarne l’applicazione negli Stati membri. La Cgue si espresse il 28 aprile 2011 sul noto caso “El Dridi contro Italia”, censurando il cosiddetto “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi IV, quello che introduceva il reato di immigrazione clandestina con pene fino a 4 anni di reclusione per gli irregolari che non rispettavano un ordine di espulsione (legge 94/2009). La Corte dichiarò la pena detentiva incompatibile con la direttiva 2008/115 che, al contrario, prevede sia favorito il rimpatrio volontario, coerentemente con i principi di gradualità e proporzionalità previsti dalla norma e con la finalità non punitiva ma amministrativa del rimpatrio. Prima dell’approvazione, il governo greco aveva informato Bruxelles e giovedì, rispondendo alla stampa, un portavoce della Commissione Ue ha parlato di “una situazione eccezionale, come sottolineato dal Consiglio europeo nelle sue recenti conclusioni, che hanno affrontato la preoccupante situazione in Libia e le possibili conseguenze, anche in termini di sicurezza europea e di flussi migratori. Qualsiasi misura adottata dalla Grecia deve essere compresa in questo contesto”. “Naturalmente - ha poi puntualizzato -, il diritto dell’Ue deve sempre essere rispettato: questo è scontato”. Da vedere, ora che il provvedimento è stato approvato, quale sarà la posizione della Commissione su una decisione che il premier Mitsotakis ha definito “difficile ma assolutamente necessaria”. E tutto sommato coerente con il suo governo. L’attuale ministro Plevris ha iniziato la sua carriera politica nel partito di estrema destra Laos e nel 2012 si è unito a Nea Dimokratia, partito attualmente al governo che, affidando a lui il ministero dell’Immigrazione, cerca di recuperare consensi tra i più estremisti dell’ala conservatrice. Oltre al provvedimento approvato, infatti, ha annunciato che “la Grecia adotterà una politica di drastica riduzione degli attuali sussidi” previsti per i richiedenti asilo. “Ho chiesto di rivedere anche il menu dei pasti offerti nelle strutture. Il ministero dell’Immigrazione non è un hotel”. Secondo gli addetti ai lavori, riportano testate come Kathimerini, il cibo arriva una volta al giorno per l’intera giornata ed è di qualità estremamente scadente o addirittura avariato, tanto da dover essere spesso buttato nella spazzatura, da dove però alcuni lo recuperano perché non hanno altra scelta. Dall’ottobre del 2021, dei richiedenti si occupano società di catering al costo di 6,88 euro al giorno a persona. Per una famiglia di quattro persone si spendono così 820 euro al mese. Prima del 2021, una famiglia di quattro persone riceveva un sussidio economico di 420 euro al mese per acquistare gli ingredienti e cucinare. Ma il governo ha ritenuto allora che fosse meglio non lasciare circolare i richiedenti, per evitare problemi, e si è optato per i catering che hanno fatto raddoppiare i costi. Anche il sussidio mensile di 75 euro previsto per ogni richiedente asilo è stato sospeso da luglio dell’anno scorso, ad eccezione di un unico pagamento mensile effettuato lo scorso aprile, riportano i media ellenici. Il tradimento dell’Europa a se stessa di Rosella Postorino La Stampa, 12 luglio 2025 A trent’anni dal genocidio di Srebrenica, nel giorno della commemorazione, io penso al tradimento. Penso ai bosniaci musulmani che in quella cittadina tra le montagne avevano cercato rifugio, perché era stata definita “zona sicura”, e rimasero invece intrappolati in una gabbia a cielo aperto, sotto il tiro dell’artiglieria serba, nel freddo invernale senza elettricità, falò di pneumatici accesi su strade innevate, per pranzo zucca e mais, per cena paglia e ghiande, le riserve d’acqua distrutte; penso a chi è morto di stenti, senza assistenza medica; a quello che una delegazione del Consiglio di Sicurezza inviata nell’aprile del 1995 chiamò “genocidio al rallentatore”, usando la parola che non si poteva pronunciare. Un preludio al genocidio che tre mesi dopo sarebbe stato perpetrato in poche ore: ottomila uomini uccisi, gettati nelle fosse comuni, poi dissotterrati, smembrati e occultati in altre fosse, anche distanti. I parenti cercano ancora di ricostruire gli scheletri con la prova del Dna, spesso hanno in mano solo un mucchietto d’ossa. I dispersi sono tuttora un migliaio. Penso alla fiducia con cui quelle persone avevano consegnato le armi, in cambio del cessate il fuoco, nella speranza di ricevere protezione dall’Onu. Quando il 6 luglio i serbi attaccarono, il comandante delle forze bosniache Be?irovi? le richiese indietro, ma il tenente colonnello Karremans, alla guida del battaglione olandese, rispose che difendere Srebrenica toccava all’Unprofor. I caschi blu ripararono a Poto?ari e la gente li seguì, ma solo 5.000 ebbero accesso al campo, gli altri 20.000 implorarono, si aggrapparono ai blindati, alcuni furono schiacciati dalle ruote. L’Europa non può permetterlo, si ripetevano. Chiunque l’avrebbe creduto. Chiunque si sarebbe sbagliato. Penso alla presa in giro di Mladi?: “Non abbiate paura, nessuno vi farà niente”, diceva l’11 luglio, distribuendo cioccolato e bibite fresche ai bambini davanti a una telecamera, benché il suo progetto fosse stato altrove dichiarato: “Il gregge è stato spinto nel recinto. Ora bisogna sparare sulla carne viva”. Penso che persino gli accordi di Dayton sono stati un tradimento: non soltanto perché hanno lasciato Srebrenica nel territorio della Republika Srpska, ma perché hanno convalidato la divisione etnica contro cui la Bosnia aveva combattuto; per questo hanno fermato la guerra ma non hanno consentito la pace. Basta ricordare le spinte separatiste della Republika Srpska, la negazione del genocidio da parte del suo presidente Dodik, i programmi scolastici diversi che, in Bosnia, studenti di “etnia” diversa studiano nello stesso edificio, ciascuno basato sulla vittimizzazione del proprio popolo e la demonizzazione dell’altro. Ma il tradimento non è stato unicamente dell’Europa verso la Bosnia. Il tradimento, iniziato durante la guerra nei Balcani e adesso al suo culmine, è dell’Europa verso se stessa. Difendendo la Bosnia, l’Europa avrebbe difeso le idee su cui era stata edificata: la tutela dei diritti umani, oltre al rifiuto della guerra. Nel Manifesto di Ventotene Rossi, Spinelli e Colorni lo scrissero chiaro: la divisione in stati nazionali sovrani non può che portare a un sovvertimento politico ed economico il cui effetto è la guerra. Oggi che ci troviamo nel paradosso di un’Unione di stati sovranisti e nazionalisti, oggi che dell’Unione fanno parte anche democrazie “illiberali”, e i migranti sono respinti con violenza, rinchiusi, deportati, considerati “persone illegali”, mentre i diritti umani vengono trasformati in diritti nazionali, garantiti cioè solo a chi appartiene alla comunità nazionale, dunque non inalienabili, oggi che i morti in Ucraina sono 300.000 e che alcuni stati dell’Unione sono filoputiniani, oggi che di fronte agli oltre 50.000 morti di Gaza l’Europa non prende posizione, oggi che a Bruxelles si parla di corsa agli armamenti, penso a quando Alexander Langer andò con un gruppo di parlamentari europei a Cannes, dove i capi di Stato erano riuniti, per avvertire che l’Europa sarebbe morta o rinata in Bosnia. Pochi giorni dopo, il genocidio di Srebrenica fu una sentenza sulla sorte di noi tutti. A chi è convinto che questo tradimento - un suicidio al rallentatore - sia inevitabile, e tratta gli altri da ingenui, oppongo le figure di quei tre antifascisti che, pur confinati su un’isoletta del Tirreno, nel momento più tragico della Storia europea immaginarono che un’alternativa fosse possibile, e la inventarono. 1995-2025, Srebrenica nel riverbero di Gaza di Francesco Strazzari Il Manifesto, 12 luglio 2025 Oggi il governo israeliano dichiara che gli abitanti di Gaza dovrebbero poter partire se lo desiderano, e che collabora con gli Stati Uniti per trovare paesi disposti a offrire ai palestinesi un futuro, garantendo libertà di scelta. Che piaccia o no, queste dichiarazioni riecheggiano in modo inquietante le parole di Mladi?, quando affermava che gli abitanti di Srebrenica potevano restare o andarsene. Non lo permetteremo mai più, ma continua ad accadere. Le fosse comuni hanno restituito 8.372 corpi, di centinaia manca ancora la ricomposizione. Questo fu Srebrenica: una sacca ingestibile, gonfiata all’inverosimile da disperazione e resistenza, nelle complesse vicende della pulizia etnica lungo il fronte bosniaco. Un’enclave musulmana sacrificata perché fuori dalla logica territoriale degli accordi di pace. Troppo lontana per essere congiunta da una lingua di terra da tracciare a Dayton, Ohio, come invece accadde - a notte tarda e grazie al whisky - per il corridoio di Gorazde. Srebrenica fu abbandonata da tutti, inclusa l’ONU, che l’aveva dichiarata area protetta. La guerra in Bosnia si giocò sugli aiuti umanitari: chi faceva passare cosa e per quale progetto politico. I serbo-bosniaci partirono con il favore delle armi, portando i musulmani sull’orlo della fame e manipolando gli aiuti così da spostare la popolazione. Gran parte degli assedi, Sarajevo compresa, prendeva di mira l’acqua, il pane e il mercato nero, protagonisti i cecchini e i mortai. Affamare e terrorizzare per trasferire altrove. Di Srebrenica ci resta l’immagine di Ratko Mladi? che porge cioccolata ai bambini, dicendo che non hanno nulla da temere. O quella del padre smagrito e spossato, costretto a chiamare a gran voce il figlio, esortandolo a uscire dal bosco in cui si nascondeva. Nessuno dei due sopravvisse. L’Assemblea Generale dell’ONU ha decretato l’11 luglio “Giornata internazionale di riflessione sul genocidio di Srebrenica”. Fra i Paesi che hanno sempre sostenuto che non si debba parlare di singolo atto di genocidio c’è Israele. La linea è ridurre l’accaduto alla nozione di crimini di guerra; l’attenuante è la separazione di donne e bambini prima delle esecuzioni di massa. I rapporti tra Israele e Serbia sono più che amichevoli, come testimoniato dalla recente visita della portavoce del Parlamento di Belgrado a Tel Aviv. Le forniture di armi alla Serbia sono definite da Tel Aviv come episodi occasionali. Un’inchiesta di BIRN e Haaretz ha appurato che, nel pieno dell’offensiva su Gaza, le vendite di armi serbe a Israele sono cresciute di 30 volte (da 1,6 a 42,3 milioni di dollari) anche grazie a uno spin doctor israeliano, incaricato dell’immagine del contestatissimo presidente Vu?i?. Evidentemente l’unicità dell’Olocausto non ammette eccezioni: il timore è che la gravità del crimine ne risulti sminuita. Altrettanto evidente, però, è il timore che il riverbero della violenza sui civili possa dar vita a precedenti, e non solo perché Gaza viene invocata dagli stessi sopravvissuti di Srebrenica. La Corte Internazionale di Giustizia e il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia, hanno infatti chiamato genocidio un massacro che è stato perpetrato mentre la comunità internazionale era impegnata a intervenire nel più ampio contesto della guerra in Bosnia; per quest’ultima non è stato riconosciuto il carattere di genocidio. Insomma, può esservi genocidio in un luogo, all’ombra di un più ampio contesto bellico. Occorre molto impegno per non vedere questo riverbero. Oggi il governo israeliano dichiara che gli abitanti di Gaza dovrebbero poter partire se lo desiderano, e che collabora con gli Stati Uniti per trovare paesi disposti a offrire ai palestinesi un futuro, garantendo libertà di scelta. Che piaccia o no, queste dichiarazioni riecheggiano in modo inquietante le parole di Mladi?, quando affermava che gli abitanti di Srebrenica potevano restare o andarsene. Andarsene o morire di stenti in un grande campo di concentramento fra le macerie. A distanza di 30 anni, la retorica, l’inerzia e la capziosità del dibattito suonano stranamente familiari, sebbene su altra scala. In Italia, abbiamo visto Paolo Mieli sporgersi dallo schermo per dirci che la “città umanitaria” sulle macerie di Rafah - dove, secondo il ministro della Difesa israeliano andrebbero rinchiusi 600 mila palestinesi - è un’idea da cogliere, perché “va fatta un’isola di ricostruzione dove tutto è ordinato”. Abbiamo letto Paolo Pombeni chiederci, con riferimento ai dati di non meglio identificati osservatori internazionali, “perché i bambini uccisi a Kiev valgono meno di quelli di Gaza?”. Come se numeri e natura della violenza bellica fossero paragonabili, un tanto al chilo. Come se l’Occidente non avesse sanzionato Putin e non stesse armando Netanyahu. Dall’altro lato, abbiamo sentito le invettive dei sostenitori del revisionismo più squallido sui crimini di Assad o Putin - per non parlare degli uiguri in Cina - tutti diventati dotti difensori del diritto internazionale. Enzo Traverso ha sostenuto che non possiamo guardare al XX secolo senza collocare l’Olocausto al centro dell’immagine: memoria pulsante, che ha illuminato i diritti fondamentali nelle nostre democrazie. Al tempo stesso, dobbiamo vedere la paradossale metamorfosi che tale memoria ha attraversato, diventando arma per sostenere - in modo incondizionato, o comunque fuori proporzione - l’azione di Israele, quasi fosse un test per essere accolti fra le forze politiche rispettabili. Non c’entra la spesso evocata banalizzazione del ‘senso di colpa’ per l’Olocausto, quanto piuttosto rapporti di forza e di dipendenza tecnologica e militare, in un mondo che ripropone contrapposizioni per blocchi geopolitici. Resta che, a livello retorico, anche il ‘mai più’ radicato nella memoria finisce piegato alla giustificazione di un’azione militare in cui droni lanciano granate per spostare i palestinesi, mentre gli stessi soldati raccontano di mirare ai civili affinché gli altri imparino a non tornare. Giorno dopo giorno, Gaza rivela sempre più caratteristiche genocidarie. Gli effetti perversi di questa metamorfosi, a lungo termine, sono devastanti: essi rafforzano l’idea che la memoria del genocidio, mitizzata a fini oppressivi, contenga essa stessa il male, e che l’antisemitismo vada relativizzato. L’attacco in corso contro la relatrice dell’ONU, Francesca Albanese, può essere letto come il preannuncio di un mondo sfacciatamente senza regole, in cui alcuni Stati rivendicando il diritto di commettere crimini senza doverne rispondere, non si sentono in alcun modo limitati. Sarà ancora più difficile prendere sul serio i nostri impegni per lo stato di diritto, la democrazia e i diritti umani. Gran parte del mondo vi leggerà il perdurare di gerarchie coloniali in cui si riflette il razzismo, l’Occidente dei genocidi coloniali nel nome della missione civilizzatrice, contro l’intolleranza dei barbari. Il crimine di Srebrenica non è rimasto impunito. Rimane oggetto di indagini, mandati di arresto e incriminazioni ‘per genocidio’ da parte della giustizia bosniaca. Colpisce vedere soldati dell’IDF scattare le proprie foto identificative di schiena, nascondendo il viso, forse provocatoriamente, forse per mettersi al riparo da eventuali accuse future. Da trent’anni l’Europa convive con questa ferita che non smette di sanguinare, alimentata dai suoi riverberi in un dibattito pubblico strumentale. Sostegno a Francesca Albanese anche da parte dell’Ue. Dalle istituzioni italiane non una parola di Mauro Del Corno Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2025 Sostegno a Francesca Albanese anche da parte dell’Ue. Dalle istituzioni italiane neppure una parola. In attesa di una qualche presa di posizione di una qualche istituzione italiana, è l’Unione europea ad esprimere solidarietà per le sanzioni annunciate dagli Stati Uniti contro la relatrice speciale delle Nazioni Unite per la Palestina, Francesca Albanese. “L’Ue sostiene fermamente il sistema dei diritti umani delle Nazioni Unite e si rammarica profondamente della decisione di imporre sanzioni a Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati”, ha detto il portavoce della Commissione europea per gli Affari esteri Anouar El Anouni durante il briefing quotidiano alla stampa. “L’Ue, ha aggiunto, continua a sostenere gli sforzi volti a intraprendere indagini indipendenti sulle violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale, comprese quelle che potrebbero configurarsi come crimini internazionali”. La decisione statunitense è arrivata mentre il premier israeliano Benjamin Netanyahu si trovava a Washington per una serie di incontri con Donald Trump e a pochi giorni dopo la presentazione da parte di Albanese di un dettagliato rapporto sul “business del genocidio” in atto a Gaza e Cisgiordania. Nello studio si elencano tutte le aziende, molte statunitensi tra cui anche Amazon, Microsoft, Google, Palantir, Lockheed Martin, che hanno un ruolo nel sostenere le operazioni condotte da Israele nei confronti dei palestinesi. Sinora, dalle istituzioni italiane, governo, presidenza della Repubblica, ministero degli Esteri, etc. non è arrivata nessuna dichiarazione a sostegno della giurista italiana, nonostante le ripetute sollecitazioni di diversi esponenti dell’opposizione. La segretaria del Pd Elly Schlein parla di un “silenzio vergognoso da parte del governo”. Il Movimento 5 Stelle preannuncia un’interrogazione al governo. Giovedì sono state le Nazioni Unite a schierarsi a difesa della relatrice e a chiedere la revoca delle sanzioni. “L’imposizione di sanzioni contro i relatori speciali rappresenta un precedente pericoloso”, ha detto il portavoce del segretario generale Antonio Guterres definendo “inaccettabile” l’uso di misure unilaterali contro qualsiasi esperto o funzionario delle Nazioni Unite. “Come tutti gli altri relatori speciali Onu sui diritti umani, Albanese è un’esperta indipendente nominata dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu e risponde al Consiglio per i diritti umani. Gli Stati membri hanno pieno diritto di esprimere le proprie opinioni e di non condividere i contenuti dei rapporti dei relatori speciali, ma li incoraggiamo a interagire con l’architettura Onu per i diritti umani”, ha aggiunto. Dal canto suo la giurista italiana ha spiegato in un’intervista a Repubblica: “Vogliono intimidire me, e chiunque cerchi di dire la verità sul genocidio in corso a Gaza, usando metodi che ricordano quelli adottati dalla mafia. Ma non ci riusciranno, perché io continuerò a fare il mio lavoro con la schiena dritta, chiedendo il coinvolgimento della Corte penale internazionale. Il premier israeliano Netanyahu deve essere giudicato all’Aia”. Nel frattempo si moltiplicano le iniziative di raccolta firme e adesione per proporre Albanese tra i nomi da valutare per il prossimo premio Nobel per la Pace.