Censure e ostacoli ai giornali dietro le sbarre. L’Ordine dei giornalisti interviene di Ilaria Beretta Avvenire, 11 luglio 2025 Le redazioni dei periodici dei detenuti denunciano divieti di firma, blocchi preventivi e sospensioni sospette. L’Odg: “Sia garantita la libertà di espressione di tutti”. “Ci stanno chiudendo anche la bocca”. È questo l’allarme che arriva da diverse redazioni giornalistiche. Non dagli uffici con sede e insegna ben visibile in città, come potrebbe essere questa da cui scriviamo, bensì da quelli che si trovano oltre le sbarre in decine di penitenziari italiani. Il giornalismo in carcere ha una lunga storia, cominciata all’inizio degli anni Cinquanta, sia per dare voce ai detenuti sia per informare chi sta fuori della quotidianità in cella spesso ignorata dai grandi media. Oggi, però, sui giornali dal carcere cala un’ombra nera. Almeno a detta dei detenuti stessi, dei volontari che vi lavorano e del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti che nella seduta di mercoledì ha approvato un apposito ordine del giorno che suona come un allarme. “Il carcere in Italia - recita l’Ordine - rischia di allontanarsi dai principi costituzionali e dalla legislazione. Il Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere di recente ha denunciato diversi episodi di ostacoli che sono stati frapposti all’attività dei laboratori di scrittura nelle carceri finalizzata alla pubblicazione di periodici realizzati dalle persone private della libertà”. Nel concreto i casi segnalati arrivano dalla casa di reclusione di Rebibbia, a Roma, dove si pubblica il giornale “Non tutti sanno”. Da un giorno all’altro la direzione del penitenziario ha obbligato i redattori detenuti a fare richiesta di un’autorizzazione per potere firmare gli articoli con nome e cognome e solo recentemente il diritto alla firma, completa ed estesa, è stato riconosciuto. A Lodi la direzione della casa circondariale pretende una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di “Altre storie” - che vengono poi pubblicati dal quotidiano della città Il Cittadino - e di entrare nel merito della scelta degli argomenti da trattare, vietando temi come l’immigrazione o il diritto alla sessualità in carcere. Nella casa circondariale di Ivrea il giornale “La Fenice”, edito dall’Associazione Rosse Torri, è stato sospeso per mesi e a giugno chiuso definitivamente per volontà della direzione che ha annullato il progetto, controllato e bloccato i computer e sospeso l’autorizzazione all’ingresso in carcere ai volontari che gestivano il laboratorio. La motivazione? Secondo quanto trapela, generiche critiche ai volontari che collaborano con i detenuti alla gestione del giornale che, però, recentemente aveva scritto di celle fatiscenti, sovraffollamento, mancanza di acqua calda, griglie alle finestre e muffe alle pareti. Più o meno lo stesso è accaduto a Trento dove si pubblica il giornale “Non solo dentro”: il direttore responsabile, volontario da oltre dieci anni, è stato messo alla porta dopo l’uscita di pezzi che evidenziavano criticità della realtà penitenziaria locale. Non solo. Il Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere guidato da Ornella Favero, referente del più storico giornale dal carcere “Ristretti Orizzonti”, ha denunciato in una lettera aperta le lungaggini che le redazioni dei penitenziari devono affrontare per ottenere permessi di ingresso per materiali giornalistici o intervistati significativi. Inoltre - secondo il Coordinamento - si è diffusa la tendenza di impedire l’uso di registratori, macchine fotografiche e Internet, persino se in presenza di operatori volontari e nonostante una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del 2015 preveda espressamente la possibilità e il valore dell’uso degli strumenti informatici da parte dei ristretti. Divieti di firmare gli articoli, censure preventive, lentezze e ostacoli tecnici, espulsioni di volontarie, sospensioni giustificate come “questioni burocratiche” sembrano essere i metodi più comuni per sopire o proprio spegnere progetti nati per dare voce ai detenuti e spazio a storie scomode che si preferirebbe non far uscire. Per l’Ordine dei giornalisti si tratta di una lesione dei diritti delle persone private della libertà che, oltre all’articolo 21 della Costituzione che stabilisce per tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero, sono tutelati anche dall’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario che prevede la libertà di informazione e di espressione dei ristretti “anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”. Perciò il Consiglio promette di vigilare sulla questione e chiede al ministro della Giustizia e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di “adottare gli opportuni interventi per garantire il pieno diritto alla libera informazione delle persone detenute che partecipano alle attività delle redazioni, coscienti anche della finalità rieducativa che le stesse svolgono in una prospettiva costituzionalmente orientata della pena”. La storia della riforma penitenziaria del 1975, i 50 anni della legge che ha cambiato il carcere di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 11 luglio 2025 Intervista a Mauro Palma, ex Garante dei detenuti, che celebra l’anniversario ma si dice preoccupato per il clima che si è creato. Tra le tante ricorrenze che ogni giorno commemoriamo, ce n’è una che fa fatica a trovare spazio sui giornali: la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che prese il posto del regolamento fascista del 1931. Una rivoluzione copernicana, una riforma epocale, come molte negli anni 70: lo Statuto dei lavoratori, la riforma della sanità e del diritto di famiglia, la chiusura dei manicomi, il divorzio, l’aborto. Per la prima volta, il detenuto diventa un cittadino (quasi) come gli altri, con una sua soggettività giuridica. Non solo doveri - l’obbligo di scontare la pena nella privazione della libertà - ma anche diritti che lo Stato deve garantire, come esseri umani e cittadini. Con una prospettiva non più solo punitiva, ma di reinserimento nella società. Ne parliamo con Mauro Palma, memoria storica sull’argomento, che per quasi otto anni è stato Garante nazionale delle persone private della libertà e oggi è presidente dell’European Penological Center, all’università di Roma Tre. Professore, la riforma è del ‘75: in che clima matura? “All’epoca la prassi era più avanti delle regole. Per fare un esempio, nel regolamento del ‘31 si prevedeva che ai detenuti fosse vietato persino parlare. “I soliti ignoti”, che è del ‘58, ci fa vedere un’altra realtà. Ma la necessità di aggiornare le norme e andare avanti era sentita da tutti”. A sinistra e a destra? “Sì. Comincia a lavorarci nel 1960 il ministro della Giustizia Guido Gonella, democristiano. Poi si entra nel vivo nel 1973, quando è ministro il socialista Mario Zagari. A destra e a sinistra ognuno faceva pressioni per privilegiare il suo polo di riferimento: punizione, prevenzione o rieducazione. Ma alla fine ci fu una convergenza”. Fu facile l’iter? “No, perché in itinere il clima cambiò. Zagari la presenta nel ‘73, il Senato l’approva nel ‘74. Ci vuole poi un anno e mezzo, poi, per il via libera della Camera. Che la cambia in senso restrittivo. Nel frattempo, nel maggio del ‘74, c’è la rivolta di Alessandria con sei morti. E a giugno c’è il primo delitto delle Br, che uccidono a Padova due militanti del Msi. Il clima di tensione si fa sentire”. Cambia anche il clima sociale: nel 1977 esce “Un borghese piccolo piccolo”, di Mario Monicelli con Alberto Sordi vendicatore del figlio ucciso in una rapina. Politicamente cosa succede? “Diventa ministro Oronzo Reale, diventato noto poi per la legge a suo nome, sull’ordine pubblico. Agli 89 articoli del Senato, la Camera aggiunge il 90, per il quale premeva il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Articolo che è un po’ il nonno del 41 bis. Consentiva di sospendere le regole del trattamento. La legge Gozzini del 1986 cancellerà questo articolo e produrrà il 41 bis, che in caso di rivolta consente di sospendere le regole in un istituto. Il secondo comma del 41 bis, introdotto dopo le stragi del ‘92, permetterà di sospendere le regole anche per i singoli detenuti”. Insomma, l’articolo 90 fu il prezzo da pagare per ottenere riforme liberali. Chi furono i padri della legge? “Il primo fu Gonella. Quando la legge viene approvata alla Camera, siamo nel governo Rumor IV, l’anno successivo siamo nel Moro IV. Nel 1973 si forma un gruppo di giovani cattolici impegnati, tra i quali Gozzini e Sandro Margara. Si riunivano vicino alla Badia fiesolana, a Firenze, e poi in carcere e qui discutevano dei lavori di avanzamento della riforma. Fu un momento importante: allora le difficoltà si affrontavano discutendo e creando un clima culturale e politico”. Lei che faceva allora? “Io nasco come matematico. Mi sono laureato inizialmente in logica matematica e mi occupavo della deontica, la logica dei comportamenti, applicata anche al sistema penale. Ero un ragazzotto di poco più di 25 anni e cominciavo a scrivere per il manifesto”. Fece paura all’opinione pubblica questa legge rivoluzionaria? “No, c’era un clima e un’impostazione che favoriva la cultura dell’inclusività. All’epoca preoccupava di più, in senso opposto, la legge Reale. Il clima cambia con la lotta armata, che fa aumentare la criminalità e anche il numero dei detenuti. All’epoca, nel 1973, c’erano 27 mila detenuti. Crebbero negli anni 80 fino a 45 mila”. Niente in confronto agli attuali 62 mila. Ma la politica non si fece fermare... “No. Le faccio un esempio: la legge sull’abolizione dei manicomi. Guardiamo la data di approvazione: 13 maggio 1978. Quattro giorni prima era stato trovato il cadavere di Aldo Moro. L’attività parlamentare non si fermò neanche di fronte alla più grande tragedia del dopoguerra. Oggi può bastare uno scippo finito male per paralizzare tutto”. Tentiamo un bilancio di quella riforma: in cosa è fallita? “Direi in due aspetti. Il mancato investimento di risorse. In personale, strutture, supporto. E poi una difficoltà di applicazione: spesso è stata vista come una sperimentazione. Quando sento dire che l’esperienza di Bollate è un esperimento, capisco che è stato un fallimento. L’eccezione doveva diventare normalità. Non è successo anche perché è cambiata la popolazione penitenziaria. Nel 1975 non c’era la marginalità sociale. Il carcere - sento l’espressione “discarica sociale” ormai da 30 anni -, è diventato un luogo di contraddizioni irrisolte”. Cos’altro è cambiato da allora? “Il clima. La politica non è più propulsore di un avanzamento sociale, ma cerca solo il consenso elettorale. Si governa con le paure. Basti guardare le pagine che i giornali dedicano alla cronaca nera, e lo spazio in tv. Quando ricordo che 25 anni fa c’erano 2500 omicidi all’anno e lo scorso anno sono stati solo 334, mi prendono tutti per pazzo. La verità è che è cresciuta l’enfasi, non il crimine. E l’enfasi determina spesso imitazione”. Casi come quello di Emanuele De Maria, che lavorava all’esterno e ha ucciso due persone, e del ragazzo che si è laureato ed è scappato, scandalizzano l’opinione pubblica. La notizia dovrebbero essere le decine di migliaia che ogni giorno rispettano le regole... “Esatto. Se c’è stato un problema in un caso singolo, evidentemente la relazione di chi doveva seguire il soggetto è stata disfunzionale. Ma non è un allarme sociale”. Il ministro Nordio è partito dalla rivendicazione di un diritto penale minimo a un aumento di pene e reati... “Sì, solo nell’ultimo decreto sicurezza ci sono nove nuovi reati. Nordio non ha capito che l’aumento dei detenuti è un riflesso dell’aver trasformato questioni disciplinari in reati”. Cioè? “Il possesso di telefonini in cella era un’infrazione, ora è reato. Non è diminuito il fenomeno, in compenso quando vengono scoperti prendono altri due anni di pena. Si chiamano reati endocarcerari. Come quello della rivolta, in arrivo con il decreto sicurezza, e ancora peggiore. L’espansione del controllo penale fa scoppiare le carceri”. È il panpenalismo. Ma i detenuti sono davvero cresciuti tanto? “Quando sono diventato Garante nazionale, nel 2016, le persone nell’area del controllo penale - che include carceri, comunità chiuse e misure alternative - erano 100 mila. Quando ho lasciato, quasi otto anni dopo erano 160 mila. Oggi siamo a 180 mila”. Non ci dovrebbero stare tutti, a rigor di legge... “Si parla spesso di ridurre la custodia cautelare ed è giusto, naturalmente. Ma riflettiamo su un dato: oggi ci sono 1300 persone in cella condannate a meno di un anno di carcere. Dovrebbero essere fuori, ma rimangono perché non hanno casa e i magistrati non li possono scarcerare in misura alternativa. Ecco la marginalità”. L’ufficio del Garante, con questo governo, sembra sempre meno indipendente, sempre meno presente e incisivo. E, in definitiva, sempre meno garante. Lei non ama parlarne, da ex garante, ma proviamoci... “Ci tengo a quest’istituzione, non voglio attaccarla. Ma è vero che è evidente la questione della scarsa indipendenza. Non solo quella. Il collegio fa sempre meno visite, non solo in carcere ma anche nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura e nei centri migranti. Visitare è molto complicato ed è un diritto che è stato ottenuto grazie a Sandro Margara tanti anni fa: il garante può entrare in maniera libera, fare colloqui riservati, controllare documenti, approfondire le dinamiche. Oggi vedo che si fa una visita rapida, ci si fa una foto per la stampa e via”. Suppliscono Antigone, Nessuno Tocchi Caino e poche altre associazioni... “Meritorie, ma non hanno gli stessi poteri del Garante”. E poi c’è la questione della relazione, che il Garante dovrebbe presentare al Parlamento ogni anno... “L’ultima l’ho fatta io, il 15 giugno 2023. Da allora nulla. Non vedo traccia di quelle del 2024 e del 2025. L’ufficio del Garante è sempre meno efficace, tanto è vero che molti esperti se ne stanno andando. Ma a proposito di indipendenza, sa chi è stato nominato Garante dei diritti delle persone disabili?”. Chi? “Il capo di gabinetto della ministra della Disabilità. Le pare una garanzia di indipendenza?”. Non esattamente un contropotere. Se c’è qualcosa che le norme non riescono a frenare sono i suicidi. Sempre più numerosi. “Non c’è un rapporto di connessione diretta, causa effetto, tra il sovraffollamento, le condizioni materiali di detenzione e i suicidi. Ma c’è un rapporto di correlazione chiaro. Se la parola d’ordine è chiudere, questo determina uno stato di tensione complessiva. E nella tensione sono i soggetti più fragili che soccombono”. A distanza di 50 anni da quel piccolo miracolo che è stata la riforma dell’Ordinamento (seguito dall’altro che è la legge Gozzini del 1986), vede un pericolo di controriforma? “No, ma non ce n’è bisogno: bastano le circolari. Quando non si dà la possibilità di mettere le tendine alle finestre, quando non si fanno appendere i manifesti ai muri “perché sono dello Stato”, quando si negano certi libri perché considerati pericolosi, allora si sta già facendo una sorta di controriforma di fatto. Comunque i tentativi di cambiare le norme non mancano”. Cioè? “Nella scorsa legislatura, sono state presentate due proposte di riforma dell’articolo 27, quello sulla rieducazione dei condannati. Era a firma Meloni, Del Mastro Delle Vedove e Lollobrigida. Aspetti che la trovo. Eccola, ce l’ho nella cartella “proposte pericolose”, insieme a quello sulla modifica del reato di tortura”. Una proposta del 2021: chiedeva di cambiare l’articolo 27 limitando le finalità rieducative della pena con riguardo alla prevenzione e alla difesa sociale. Spiegava che l’esecuzione della pena deve avvenire “senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Un modo per depotenziare le misure alternative. Ma all’estero come funziona? Meglio o peggio? “Ogni Paese ha la sua specificità, che deriva dal contesto e dalla sua storia. In Francia ci sono pessime condizioni di detenzioni e un tasso di sovraffollamento molto alto. In Spagna il sistema è migliore. A Madrid potrebbero mettersi a ridere se dicessimo loro che stiamo discutendo da anni di introdurre l’affettività in carcere: in Spagna è regola da anni, perno di un sistema più ordinato e controllabile. Per contro, in Spagna la contenzione meccanica è più frequente rispetto a noi, che abbiamo avuto la riforma Basaglia”. In Germania? “Il numero dei detenuti è molto più basso del nostro. Noi abbiamo un tasso di imprigionamento dello 1,05 su mille abitanti, loro dello 0,77, ovvero un quarto in meno. Però hanno poche misure alternative. Anche perché in Germania si danno spesso all’inizio, nel momento in cui viene irrogata la sanzione. Ognuno ha la sua specificità”. In tempi di insicurezza globale, l’opinione pubblica è spaventata. La richiesta di pene più elevate e l’invocazione dell’ergastolo è sempre più frequente... “Mi sembra si sia rallentato quel processo di emancipazione in cui era la politica a guidare il cambiamento. Oggi la politica è diventata subalterna al sentire sociale. È un cortocircuito che va interrotto”. Le fiamme del caldo nell’inferno carcerario di Rosanna Volpe Gazzetta del Mezzogiorno, 11 luglio 2025 “Nessuno tocchi Caino”: “in queste giornate di afa, le celle sono delle camere a gas”. Ventidue ore rinchiusi in una cella sovraffollata e surriscaldata. Questa è la condizione dei detenuti nelle carceri italiane. “In queste giornate di afa, le celle sono delle camere a gas”. Elisabetta Zamparutti, uno dei fondatori dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” racconta le condizioni delle carceri. Condizioni che di fatto non rappresentano una novità. Lo dicono i report del Garante, lo denuncia l’alto numero di suicidi, lo raccontano le associazioni impegnate sul campo. Gli istituti penitenziari sono soffocati dal sovraffollamento e dall’inadeguatezza delle strutture. E la Puglia in questo non si distingue. In particolare, Foggia che ospita il secondo carcere più affollato di Italia con un tasso che - secondo i dati diffusi nel XXI Rapporto sulle condizioni di detenzione dell’associazione Antigone - supera il 210 per cento. Non va meglio nel resto della regione. E così a oltre dieci anni dalla pronuncia con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato l’Italia per le condizioni di sovraffollamento delle carceri il nostro Paese rischia ancora di essere richiamato per lo stato degli istituti di pena. “Le proposte negli anni sono state tante - prosegue Zamparutti - Si è anche ipotizzato di costruire nuovi istituti penitenziari. Ma l’emergenza è adesso. Il caldo è adesso. Questa è la vergogna di uno Stato che ha la presunzione di educare ma che non rispetta la legge”. E l’onda dello sdegno sta lentamente coinvolgendo anche pezzi di politica. A iniziare lo sciopero della fame Rita Bernardini, presidente di “Nessuno tocchi Caino”. Uno sciopero iniziato ad aprile scorso. “Un atto di giustizia e responsabilità politica: un indulto generalizzato è oggi necessario per ridurre la pressione intollerabile che grava sul sistema penitenziario italiano. Non si tratta solo di dare respiro alle carceri, ma di riaffermare il principio costituzionale del rispetto della dignità umana”. “Il caldo arroventa il sovraffollamento nelle celle, ma la politica dorme con l’aria condizionata”. A scriverlo, in una lettera rivolta al Governo è l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, detenuto nel carcere di Rebibbia. Nel suo “diario di cella” racconta il cento ottantesimo giorno di detenzione. “È stato necessario - sottolinea Pietro Rossi, garante regionale dei diritti dei detenuti - che un ex politico raccontasse le condizioni del carcere per riparlarne. Ormai da decenni i detenuti, quelli che nessuno conosce, vivono oltre i limiti della dignità umana. Il caldo soffocante di questi giorni finirà ma l’emergenza in carcere proseguirà. Il carcere ad oggi non ha quindi una funzione rieducativa. Questo, voglio precisarlo, non ferma i professionisti di buona volontà che ogni giorno fanno quanto possono: progetti, e piccole battaglie che cerchiamo di vincere. Perché nel carcere non ci sono aguzzini. C’è una sorta di collaborazione nell’emergenza. Tra detenuti e chi in carcere lavora nelle loro stesse condizioni. Al caldo d’estate, al freddo di inverno”. “A Trani - spiega il Garante uscente dei diritti dei detenuti, Elisabetta De Robertis - ci sono due istituti penitenziari distinti tra uomini e donne. Quattrocento quindici uomini a fronte di una capienza di trecento ventitré posti. E in quello femminile, quarantacinque donne su trenta posti. Nel complesso la situazione è al limite. Ci sono tante difficoltà da affrontare. Per esempio il carcere femminile non è provvisto di docce nelle celle e quelle che ci sono possono essere utilizzate solo in orari prestabiliti. Questo sicuramente crea un grande disagio”. E sulle condizioni degli istituti e sulla loro funzione educativa, De Robertis precisa: “Nella maggior parte dei casi resta una esperienza traumatica. La verità è che sui detenuti non si scommette e il reinserimento molto spesso fallisce. Mentre il carcere resta di fatto un ‘mondo escluso”. Carcere, il faro dell’avvocatura sui dimenticati di Giacomo Puletti Il Dubbio, 11 luglio 2025 In piena estate, con temperature record, le carceri italiane si trasformano in trappole di calore. Celle roventi, sovraffollamento, strutture fatiscenti e personale insufficiente rendono le condizioni di detenzione non solo disumane ma pericolose per la salute e la vita dei detenuti e degli operatori. È da questo scenario estremo che l’Organismo Congressuale Forense (Ocf) ha scelto di partire per rilanciare con urgenza una riforma profonda del sistema penitenziario, durante l’evento “Le persone dimenticate”, ospitato ieri al Cnel. I numeri parlano da soli: 62.722 detenuti in spazi pensati per 46.706, con un tasso di sovraffollamento del 134,3%. A ciò si aggiungono 34 suicidi tra i detenuti e due tra gli agenti penitenziari dall’inizio dell’anno, segno di un malessere diffuso che il caldo estremo sta solo esasperando. “In troppe carceri italiane si muore di caldo, di abbandono e di silenzio. La pena detentiva, per Costituzione, deve tendere alla rieducazione. Ma come può esserci riscatto laddove si nega la dignità umana più elementare, come l’accesso a un ambiente vivibile? Questo non è più solo un tema di giustizia penale, ma una questione morale e civile”, ha dichiarato il Coordinatore dell’Ocf Mario Scialla. L’incontro è stato aperto dal Presidente del Cnel Renato Brunetta, secondo il quale “il tema carcerario non può più essere affidato solo alla buona volontà dei singoli”. Per Brunetta “stiamo parlando di un universo di oltre 250mila persone coinvolte, tra detenuti, soggetti in esecuzione esterna e in attesa di esecuzione della pena” e “per dare risposte strutturali, non bastano le buone pratiche isolate: servono interventi sistemici, replicabili in tutti i 189 istituti penitenziari italiani”. Da qui un accordo con Cassa Depositi e Prestiti, coinvolgendo le sue partecipate, “per promuovere numerosi progetti di investimento in carcere: spazi, formazione, capitale umano, logistica, tecnologie, contrattualistica”. Parallelamente, ha aggiunto il presidente del Cnel, “stiamo lavorando per includere i detenuti nella piattaforma SIISL del ministero del Lavoro, nata per il matching tra domanda e offerta per i soggetti più fragili”. Subito dopo hanno preso la parola Elisabetta Brusa, referente Commissione detenzione dell’Ocf, e il vicepresidente della Fondazione dell’Avvocatura italiana (Fai), Vittorio Minervini, che ha ricordato l’impegno quotidiano del nostro giornale sul tema carceri e la recente iniziativa dell’ 8 marzo a Perugia sulla condizione femminile nei nostri penitenziari. “A Perugia abbiamo anche chiesto che si cancelli dal sistema legislativo il termine edilizia carceraria per parlare piuttosto di architettura penitenziaria - ha spiegato Minervini - L’edilizia è quella che ti consente di costruire container, l’architettura è il luogo dove arte e scienza costruiscono i luoghi dove vive l’uomo”. La giornata ha visto la partecipazione di giuristi, accademici, operatori del settore e testimoni diretti come Beniamino Zuncheddu, che ha raccontato i suoi trent’anni di ingiusta detenzione, e Andrea Noia, esempio concreto di reinserimento sociale attraverso il lavoro. Nello stesso panel di Zuncheddu ha parlato anche Leonardo Arnau, responsabile della commissione Diritti umani del Cnf e fresco di nomina a presidente dell’Oiad. “L’essenza del nostro ruolo sta nella funzione sociale e se l’avvocatura ha un senso sta esattamente nella difesa delle persone che difesa non hanno - ha detto Arnau - Il tema è molto complesso perché ci misuriamo con un’opinione pubblica che non vuole ascoltare e la politica va a ruota”. Per il neopresidente dell’Oiad “le carceri vivono un’emergenza endemica, irrisolta, alla quale tutti noi tendiamo ad assuefarci” e “l’analisi delle condizioni di vita nelle carceri italiane è la cartina di tornasole di un sistema penale che non rispetta il principio di uguaglianza e del senso di rieducazione della pena”. Durante l’incontro l’Ocf ha ribadito l’urgenza di una riforma su tre direttrici principali: investimenti strutturali, cioè non solo nuove carceri, ma riqualificazione dell’esistente, con spazi adeguati per attività formative, lavorative e trattamentali. Fondamentale anche garantire il diritto all’affettività, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 10/ 2024; potenziamento delle misure alternative, cioè comunità terapeutiche, case famiglia, centri di servizio sociale, per favorire percorsi di pena che permettano il reinserimento nel tessuto sociale, in una logica non emergenziale ma di sistema; riforma del processo esecutivo, cioè snellimento del procedimento di sorveglianza e rafforzamento del ruolo della difesa anche nella fase esecutiva, attraverso la formazione specialistica degli avvocati e il dialogo interdisciplinare con magistrati, educatori, psicologi e terzo settore. Inoltre, è stata rilanciata la necessità di valutare la proposta di legge sulla liberazione anticipata come strumento immediato per alleggerire la pressione interna, nell’attesa di riforme strutturali. Caso Andrea Cavallari, la sua evasione non cancelli i benefici per i detenuti di Roberto Cavalieri* La Repubblica, 11 luglio 2025 L’intervento del Garante dell’Emilia Romagna. “Mancano percorsi dedicati alle vittime, capaci di stimolare negli autori dei reati una vera assunzione di responsabilità”. Il caso di Andrea Cavallari, il 26enne condannato per la strage di Corinaldo che ha ottenuto un permesso per laurearsi e non è più rientrato in carcere, ha sollevato polemiche. L’opinione pubblica condanna l’assenza di controllo durante il permesso e contesta la possibilità di concedere benefici a chi si è reso responsabile di reati tanto gravi. A essere più ferite, però, sono le famiglie delle vittime, che ancora una volta sentono le loro istanze trascurate e non riconosciute. L’aspetto su cui dovremmo riflettere non è l’esistenza di strumenti come i permessi premio o il lavoro esterno, che non vanno assolutamente demonizzati, bensì la totale assenza di percorsi dedicati alle vittime, capaci di riconoscerle pienamente e di stimolare negli autori dei reati una reale assunzione di responsabilità. Pertanto, occorre chiedersi se la giustizia riparativa potrebbe rendere percorsi detentivi come quello di Cavallari più significativi e realmente trasformativi, soprattutto in vista della concessione dei benefici. In Italia, strumenti come i permessi premio fanno parte del programma di trattamento e possono essere concessi dal magistrato di sorveglianza a chi non risulti socialmente pericoloso e abbia mantenuto una condotta regolare. Questi permessi mirano a favorire il recupero dei legami affettivi, culturali o lavorativi. Tuttavia, ci si può legittimamente chiedere se i criteri adottati per la loro concessione siano davvero sufficienti. Implementare programmi di giustizia riparativa significa favorire un percorso che restituisca senso alla pena e dignità alla vittima. È chiaro che questi percorsi non devono essere lasciati al caso, né ridotti all’incontro diretto tra vittima e autore del reato, incontro che, se non adeguatamente preparato, può rivelarsi sfavorevole, come nel caso di Innocent Oseghale, detenuto che lo scorso 7 marzo ha incontrato la madre della vittima nel carcere di Ferrara. È possibile ipotizzare che casi come questi amplifichino il senso di sfiducia nei confronti della giustizia riparativa. La giustizia riparativa non si esaurisce in quel tipo di incontro, che resta raro e delicato, ma deve necessariamente coinvolgere anche la società e diventare parte integrante dei percorsi trattamentali all’interno delle carceri. Purtroppo, questi strumenti non sono ancora sistematicamente previsti né integrati nel trattamento penitenziario italiano. Eppure, in altri Paesi esistono programmi strutturati che includono l’incontro con vittime aspecifiche, ex detenuti che testimoniano gli effetti dei reati ponendo enfasi sul danno arrecato alla società, laboratori sulla gestione della rabbia o sul legame tra tossicodipendenze e reato. Si tratta di percorsi che agiscono in profondità, che trasformano la percezione del reato e fanno nascere una vera assunzione di responsabilità non arrecando alcun danno alla vittima del crimine. Il punto, allora, non è abolire i benefici o irrigidire il sistema. Il punto è costruire percorsi che abbiano un reale valore trasformativo. La giustizia riparativa potrebbe essere la chiave. Ma se è così, e le esperienze più evolute ci dicono che lo è, allora dobbiamo chiederci: perché non la stiamo usando? Perché da due anni sono completamente disattese le pratiche previste dalla riforma Cartabia? *Garante regionale persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale Cedu, carcere con il 41 bis: Italia ricondannata di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 luglio 2025 La Corte europea dei diritti umani accoglie il ricorso di un detenuto contro l’ordinanza, non sufficientemente motivata dal Dap, che proroga oltre i limiti di legge le limitazioni alla sua corrispondenza. Per la seconda volta nel giro di tre mesi, la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna l’Italia per il modo in cui in carcere viene applicato il regime di detenzione speciale del 41 bis. Nella sentenza di ieri, i giudici di Strasburgo all’unanimità hanno accolto il ricorso di un uomo, recluso nel carcere di Parma per reati di stampo mafioso, stabilendo che il modo in cui il Dap ha prorogato in automatico, e senza particolari giustificazioni, le restrizioni imposte alla sua comunicazione epistolare con l’esterno viola l’articolo 8 (diritto al rispetto della corrispondenza) della Convenzione Edu. Arrestato nel 1998 e condannato per associazione mafiosa, il detenuto Giuseppe Gullotti è sottoposto al cosiddetto “carcere duro” che prevede “restrizioni alle visite, all’uso del telefono, al controllo della corrispondenza in entrata e in uscita e alla possibilità di uscire all’aperto”, come ricorda la Corte europea. Per un anno, tra il giugno 2012 e il maggio 2013, la sua corrispondenza venne limitata ai soli familiari cui era permesso di fargli visita in carcere. Restrizioni giustificate, sottolinea la Cedu, “in base al suo ruolo di rilievo all’interno dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra”, ma che il detenuto ha già contestato nel 2014 davanti alla Cassazione, che però gli ha dato torto. A quel punto, l’uomo si è rivolto alla Corte europea dei diritti umani sostenendo che non fosse sufficientemente motivata l’ordinanza che rinnovava le restrizioni sulla sua corrispondenza. Ieri, dopo quasi 11 anni, la Cedu ha riconosciuto “senza alcun dubbio” che c’è stata una violazione dei diritti del detenuto perché effettivamente le proroghe alle limitazioni “si erano basate solo su argomentazioni brevi e generali”. Una “ingerenza”, questa, che secondo Strasburgo “aveva una base giuridica” anche “nel diritto interno” italiano, “in particolare l’articolo 18 ter della legge sull’amministrazione penitenziaria, che prevedeva che la limitazione della corrispondenza dei detenuti dovesse essere motivata e limitata nel tempo” (6 mesi, rinnovabili per altri 3) e “valutata in modo esplicito e autonomo”. Questa volta la Cedu non ha imposto allo Stato italiano alcuna forma di risarcimento del detenuto, ritenendo “che l’accertamento di una violazione costituisse di per sé una sufficiente equa soddisfazione per qualsiasi danno morale subito”. Diversamente da quanto stabilito il 10 aprile scorso, quando l’Italia fu condannata per trattamento inumano e degradante (art.3) per aver prorogato il 41 bis ad un detenuto novantenne, mafioso e a lungo latitante, affetto da una degenerazione cognitiva progressiva. Va ricordato però che, finora, la Corte di Strasburgo non ha mai emesso condanne contro lo stesso 41 bis. E anzi nel 2015, rispondendo al ricorso del “Capo della Stidda”, organizzazione rivale di Cosa nostra, stabilì che quel regime dell’ordinamento penitenziario rispettava gli standard di tutela sanciti dalla Convenzione europea dei diritti umani. Anche se nel frattempo il regime è stato allargato e indurito fino a farlo diventare, secondo molti osservatori, una pena ulteriore non giustificata. Carceri, 6mila malati da spostare (e curare) di Alessandro Pirola ilsussidiario.net, 11 luglio 2025 Se i carcerati con problematiche psichiatriche venissero ospitati in apposite strutture a loro dedicate, ci sarebbe un duplice effetto positivo. Il grande dispendio di energie rappresentato dalla spesa per la gestione delle carceri non sembra generare risultati particolarmente incoraggianti; gli indicatori in merito sono implacabili da qualunque parte si prendano: elevato grado di aggressività di detenuti e custodi, percentuali infime di miglioramenti del livello di scolarizzazione, improduttività del sistema a fronte di bisogni pubblici enormi, recidive altissime alla dimissione. La qualità della vita dentro le carceri è anche peggio; in alcuni istituti è drammatica: una doccia alla settimanale, celle stipate come pollai, vestiti e saponi portati in massima parte dai volontari, malati psichiatrici non curati. Le cause sono molteplici e perduranti nel tempo; accenno solo a una che mi sembra decisiva. La popolazione civile ha bisogno di una sacrosanta sicurezza quando vive, si sposta, è in casa, usa i mezzi pubblici o va in vacanza, ma si è consolidata l’idea che la detenzione, meglio se aspra e lontana, reprima il crimine mentre repressione e redenzione sono cose diverse; esattamente come in sanità lo sono le manovre di rianimazione dalle operazioni programmate. Il problema è complesso e non ha soluzioni semplici o raggiungibili con singoli provvedimenti: ci vuole conoscenza, cultura, passione per sé e per i propri simili. Occupandomi di luoghi di cura per malati psichiatrici indico un contributo, parziale ma utile, che da lì è possibile dare al problema. Oggi i carcerati in Italia sono oltre sessantamila, seimila dei quali con diagnosi psichiatrica severa. La loro presenza nelle carceri incide esponenzialmente sulla qualità della vita nelle stesse. In Italia esistono circa ventisettemila posti letto in strutture psichiatriche di riabilitazione, pubbliche e private, idonee a ricevere, in giusta proporzione, anche pazienti provenienti da luoghi di detenzione. Se tali strutture ospitassero per il 20% della propria popolazione pazienti provenienti dalle carceri, queste si svuoterebbero di malati psichiatrici. Per tali strutture, tuttavia, la provenienza del paziente dalle carceri è normalmente causa di non idoneità al ricovero per l’onerosità gestionale e burocratica del ricovero stesso; la non idoneità è data a volte anche a fronte di una non saturazione della struttura di riabilitazione. Occorre far diventare il paziente proveniente dalle carceri un punto di interesse per queste strutture, permettendo loro di attrezzare requisiti organizzativi idonei (educatori, infermieri, psichiatri). L’incremento delle rette di ricovero in strutture di riabilitazione pari a un terzo di quel che costa un detenuto ordinario al sistema carcerario risolverebbe il problema. Cinquemila detenuti con malattia psichiatrica severa costerebbero cento milioni all’anno: una bazzecola rispetto ai 3,3 miliardi di costo annuo del sistema penitenziario. Chi ha ospitato pazienti con misure in atto ha potuto costatare che non ne scappa neanche uno e che i tassi di aggressività e di riacutizzazione precipitano, così come cala il consumo di farmaci. Qualche istituto, come quelli in cui mi capita di operare, si è spinto a percentuali di ospiti provenienti dal sistema penitenziario molto vicine a quelle qui ipotizzate cercando risorse nelle tasche della provvidenza: è uno spettacolo di umanità e un guadagno per tutti. Un avatar-psicologo per i detenuti di Gabriella Cantafio Venerdì di Repubblica, 11 luglio 2025 Il carcere di Mamone in Sardegna da un anno sperimenta le visite virtuali. Funziona? Sembra proprio di sì. A Mamone, frazione del piccolo paese di Onanì, nell’entroterra sardo, dove si vive di pastorizia e antiche tradizioni, un progetto innovativo ha varcato i cancelli di un istituto penitenziario. “Siamo tra le poche colonie penali ancora attive. Senza mura di cinta, circa 140 detenuti con pene di massimo sei anni coltivano la terra e allevano bestiame”, dice il direttore Vincenzo Lamonaca. Qui circa un anno fa è stato avviato il Progetto Metaverso. I detenuti una volta la settimana usufruiscono di visite psichiatriche e psicologiche da remoto. “Abbiamo ricreato uno studio in cui medico e detenuto possono interagire con avatar, indossando visori e imbracciando joystick per muoversi e parlare”, spiega Andrea Bandera, amministratore delegato e co-fondatore della società Statel che ha ideato l’ecosistema immersivo VR Clinic. “Utilizzavamo già la telemedicina, ma volevamo garantire visite psichiatriche e psicologiche, le più richieste, nelle carceri più isolate”, racconta Paolo Cannas, direttore generale dell’Asl di Nuoro. A fornire la soluzione è stato Alessandro Spano, docente di economia aziendale presso l’Università di Cagliari: mediante lo spin-off accademico Chain Factory, ha intercettato e coinvolto la startup Statel. “Ogni visita avviene in una sessione privata, con protocolli rigidi: non deve essere registrata né intercettata, è blindata grazie a sistemi di cybersecurity”, precisa Bandera. “L’ospedale più vicino è a Nuoro e dista circa un’ora e mezza da Mamone. Trasportare i detenuti per una visita richiede l’impiego di guardie carcerarie e almeno due auto, indebolendo la vigilanza interna già carente. I medici impiegherebbero complessivamente tre ore di viaggio per recarsi qui, mentre in quello stesso tempo riescono a fare circa tre visite a realtà virtuale. Razionalizziamo tempi e risorse”. Nel frattempo, come evidenzia Giuseppe Falchi, lo psichiatra pioniere del progetto, “anche i detenuti, inizialmente refrattari al collegamento inteso come un esperimento scientifico in cui si sentivano cavie, hanno imparato a conoscere i benefici di questi strumenti tecnologici”. Cella con vista di Diego Bianchi Venerdì di Repubblica, 11 luglio 2025 Non dovrebbe andare così, ma talvolta è la celebrità reclusa (come Alemanno) che fa accendere la luce sul carcere. “Alemanno e Falbo: al G8 di Rebibbia evitato in extremis l’ennesimo suicidio di una persona detenuta. Sarebbe stato il 39esimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno”. L’intestazione della mail, anzi, il titolo della mail già scritta come fosse un articolo di giornale, porta la data del primo luglio. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma nonché uomo di punta per molto tempo della destra più a destra di questo Paese, scrive dal carcere nel quale è recluso a diverse testate giornalistiche, cercando interlocutori utili per comunicare all’esterno quelle che sono le condizioni della sua reclusione e di quella dei suoi compagni di destino. Insieme a Fabio Falbo, lo “scrivano del G8”, detenuto che ho avuto modo di conoscere in occasione di alcune visite in quel carcere, Gianni Alemanno, tra gli altri, scrive anche a me. Ripenso a quando qualche mese fa ho avuto l’opportunità di andare a Rebibbia a raccontare la mia esperienza professionale a una classe di detenuti del Reparto G8, nell’ambito di un corso di giornalismo organizzato per loro dall’università di Tor Vergata. Tra loro, seduto in seconda fila, c’era anche Alemanno, che salutai così come salutai gli altri, perché se c’è un posto dove credo che sia bene non fare distinzioni nella forma tra chi è noto e chi non lo è, quello è proprio il carcere. Se poi si considera che la notorietà di alcuni di coloro che mi sedevano di fronte e stavano per ascoltarmi era quella inevitabilmente negativa, figlia di fatti di cronaca assurti per vari motivi a paradigma nazionale di dibattito mediatico, fare distinzioni sarebbe stato ancora più odioso. Per quel poco che ho frequentato e capito di celle e storie di detenzione, ho rapidamente deciso che farmi condizionare nel sempre delicato approccio alle vite dei detenuti dal pregiudizio verso il reato da questi commesso sarebbe stato certo sbagliato, e avrebbe gravemente nuociuto alla possibilità di capire e far capire quel che di importante e vitale quel posto ha da dirmi. Tuttavia, se il detenuto “noto” è uno che meglio di chiunque altro conosce il mondo della politica per il semplice fatto di farne ancora parte, quella notorietà può tornare improvvisamente utile al fine di smuovere la coscienza di qualche collega in relazione ai tanti problemi del mondo carcerario. Che poi la parte politica di Alemanno sia per lo più quella di chi prova “intima gioia” nel non lasciar respirare un detenuto o straparla ad ogni occasione di “buttare la chiave” e “marcire in gabbia”, è un contrappasso sul quale, ne sono certo, lo stesso Alemanno starà amaramente ragionando. Le sue meritevoli e preziose testimonianze sono arrivate anche in Senato, grazie a un senatore del Pd (Fina) che le ha lette in un intervento, a riprova ulteriore che almeno su questi temi non dovrebbe essere l’avversario politico, ma l’uomo e la sua dignità, a destare un minimo di attenzione (a prescindere dalla sua notorietà). Cospito, la difesa del legale segnalato: “Rivendico l’umanità che gli è negata in cella” di Valentina Stella Il Dubbio, 11 luglio 2025 Accusato del “reato” di abbraccio, l’avvocato scrive al consiglio di disciplina dell’Ordine di Roma per archiviare il caso: “Il mio cliente è un essere umano prima ancora che un detenuto”. Rivendicando “il ruolo e la missione più elevata che un avvocato possa recitare nella sua funzione difensiva, non limitando la stessa al solo rigore professionale ma innervandola di senso di umanità e empatia per le sorti dei propri assistiti” e rifiutando “il ruolo di concorrente nell’opera di deumanizzazione del proprio assistito in special modo quando proposta in aperto contrasto con i dettami costituzionali e con le basilari regole che devono e dovrebbero essere comuni ad ogni essere umano come insegnateci nei libri di Primo Levi” l’avvocato Flavio Rossi Albertini ha chiesto al Consiglio distrettuale di disciplina del Coa di Roma di archiviare la segnalazione a suo carico per aver compiuto un gesto di generosità verso Alfredo Cospito. Come raccontato qualche settimana fa sul Dubbio, il legale era stato segnalato, su input del Gom (Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria), dalla direzione del carcere di Sassari all’Ordine degli avvocati della capitale per aver salutato il suo assistito, ristretto al 41bis dal 2022, con due baci sulle guance e una stretta di mano al termine di un colloquio. “Tenuto conto della caratura criminale dei soggetti ristretti presso il reparto 41 bis di questo istituto - si leggeva nella relazione della direzione del carcere - ed il significato intrinseco che può avere tale saluto, si chiede di valutare se il comportamento dell’avvocato sia deontologicamente corretto, anche al fine di dare le opportune indicazioni al personale di Polizia Penitenziaria che con abnegazione e professionalità assicura la vigilanza dei detenuti sottoposti al regime di cui all’ art. 41 bis”. Per replicare, Rossi Albertini, nella sua memoria difensiva, ha ricordato che il regime di detenzione del 41 bis o.p. ha quale finalità “quella di impedire al condannato di comunicare con la consorteria criminale di appartenenza”, ma tutto ciò che esula da tale scopo “persegue propositi ultronei, non dichiarati, incompatibili con il principio di umanità e rieducazione della pena sancito dall’art. 27 Cost., dall’art. 7 del Patto Internazionale per i Diritti civili e politici nonché dall’art 3 Cedu”. Com’è noto, inoltre, il detenuto al 41 bis è privato di ogni contatto umano con qualsiasi soggetto estraneo al gruppo di socialità in cui è inserito. Il colloquio mensile, di una sola ora, riconosciutogli con i prossimi congiunti, è compiuto in salette dotate di vetro divisorio, la comunicazione verbale è realizzata tramite un apparecchio citofonico, alla presenza di un agente del Gom, e i dialoghi sono registrati. Il detenuto non ha pertanto il diritto di stringere la mano, abbracciare, baciare, i figli, la madre, il padre, i fratelli. Nessun contatto fisico è ammesso al 41 bis. Contro tale regime Cospito aveva anche intrapreso uno sciopero della fame protrattosi per quasi sei mesi, giungendo a perdere circa trenta chili di massa corporea e mettendo in pericolo la sua stessa vita. Ancora oggi quel regime gli impone restrizioni maggiori rispetto a quelle previste per legge: ultimamente infatti non gli vengono consegnate né le lettere né gli vengono dati i libri richiesti come l’ultimo di Scurati, uno sulla fisica quantistica e uno su Gramsci, senza alcuna motivazione. Cospito, dice Rossi Albertini, rappresenta “per me una persona con la quale ho attraversato esperienze umane e professionali fortemente significative, caratterizzate da gioie e delusioni, sconfitte e vittorie processuali”. Il 9 maggio 2025 - racconta - “come accade regolarmente da numerosi anni, il sottoscritto giunto a visitare il detenuto in Istituto gli stringeva la mano e lo baciava sulle guance, unico soggetto proveniente dall’esterno a poter compiere quel gesto di vicinanza e empatia umana. Un atto che rivendico quale dimostrazione dell’umanità e del ruolo non solo professionale che un avvocato edifica con il proprio cliente, un essere umano prima ancora che un detenuto”. D’altronde - scrive ancora nella sua memoria - “sono gli insegnamenti della cultura occidentale a ricordarci, avvocati o meno, che prima del diritto positivo esiste un diritto naturale superiore ad ogni legge umana o regolamentazione ministeriale. È Rousseau nell’Origine delle Disuguaglianze a rammentarci che la prima e più semplice operazione dell’anima umana è “la ripugnanza naturale a veder soffrire qualunque essere sensibile, e soprattutto i nostri simili”, a dirci “che anche il detrattore più spinto delle virtù umane” è costretto a riconoscere all’uomo il sentimento di “pietà”, moto che “persino le bestie ne danno qualche volta dei segni sensibili”; è Sofocle a far dire ad Antigone a confronto con il tiranno Creonte “non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. Infatti queste non sono di oggi o di ieri ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero”. Date tutte queste premesse, Rossi Albertini ha chiesto al consiglio di disciplina di archiviare la sua posizione sottolineando ancora una volta che “gli avvocati non si presteranno mai a recitare un ruolo subalterno e ancillare nei confronti di chi intende nelle maglie dei regolamenti mutare il senso e lo spirito dei traguardi raggiunti dall’assemblea costituente con l’art. 27 della Costituzione”. Adesso l’organo di controllo può decidere di mettere tutto nel cassetto oppure fare una istruttoria più ampia, sentendo anche il legale. Giustizia riparativa, che cos’è, da quando esiste, perché fa discutere di Elisa Chiari Famiglia Cristiana, 11 luglio 2025 Il caso di Impagnatiello, che si è visto respingere dalla Corte d’Appello di Milano l’accesso a un programma di giustizia riparativa, porta alla ribalta della cronaca un istituto che la riforma Cartabia ha formalizzato. Cerchiamo di capire che cos’è, come nasce, a che cosa mira. Traduzione dall’inglese “restorative justice” la cosiddetta giustizia riparativa è un percorso parallelo ma non alternativo al processo penale che mira a “riparare” la frattura che il reato determina tra reo vittima e società. Il termine, in chiave moderna, risale agli anni Settanta del Novecento anche se ne sono esistite forme più antiche. Lo si fa coincidere con “caso Kitchener”, dal nome di una piccola città dell’Ontario al confine tra Canada e Stati Uniti, quando educatori proposero al giudice che aveva condannato due ragazzini per aver danneggiato delle case un impegnativo programma di incontri tra i minori e le famiglie che avevano subito i danni dovuti alle loro azioni e l’impegno a risarcirle riparando materialmente il danno compiuto con il lavoro di restauro. Esperienze simili sono state realizzate da allora in diversi Paesi dal nord America all’Oceania, passando per l’Europa a partire dagli anni Ottanta, all’inizio come esperienze estemporanee, dal basso, in seguito catalogate dall’International scientific and professional advisory council (ISPAC). Tra gli anni 80 e 90 pratiche simili sono state tradotte in forma di legge in diversi Paesi europei, con particolare riferimento alla giustizia penale minorile. Nel 1999, in tema di mediazione penale, è stata approvata la Raccomandazione del Consiglio d’Europa R19 del Comitato dei ministri degli Stati membri. Il tema è anche oggetto della Direttiva 2012/29/UE. Esempi di giustizia riparativa sono considerati e universalmente riconosciuti gli interventi di riconciliazione che hanno permesso al Sud Africa, con la Truth and Reconciliation Commission (TRC), o in afrikaans Waarheid-en-versoeningskommissie (WVK), ossia “Commissione per la verità e la riconciliazione”, di sopravvivere all’Apartheid e all’Irlanda del Nord di sopravvivere alle migliaia di morti dell’Ira senza che i rispettivi conflitti degenerassero in guerra civile. Qual è la filosofia del concetto di giustizia riparativa - È l’istituzione di un percorso che possa contribuire al risanamento del tessuto della società lacerato dal delitto, coinvolgendo in modi diversi il reo, la vittima e la società, superando la mera retribuzione delitto/sanzione, che, concentrandosi sulla relazione società-reo, finisce per marginalizzare la vittima lasciandola sullo sfondo: la giustizia riparativa sarebbe nelle intenzioni di chi la sostiene un modo di rimettere la vittima al centro o almeno di riconsiderarla, di rispondere anche al suo bisogno di superare la ferita che il delitto le ha inferto. Che cosa non è la giustizia riparativa - Non è un meccanismo di riparazione del danno nel senso di lavoro socialmente utile e non è, almeno in Italia, un’alternativa al processo penale che rimane con le medesime regole e procede come ha sempre fatto fino al suo termine naturale: una sentenza di assoluzione o di condanna e, nel caso, relativa sanzione. Nel sistema italiano che ha in Costituzione l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale non sarebbe immaginabile, neanche volendo, un percorso alternativo al procedimento penale. Può essere solamente un percorso parallelo che cerca per altre vie una strada di mediazione. Quando però un percorso riparativo si compie, e può essere compiuto anche senza il consenso della vittima e in sua assenza con altre parti di società ferita, ed è riconosciuto come positivo dal giudice, cui viene inviato l’esito, può rappresentare un’attenuante al momento dell’emissione della sentenza o comunque una diversa valutazione della gravità del reato agli effetti della pena o dar luogo alla sospensione condizionale della pena per il termine di un anno. Ma non implica sconti di pena automatici. Al contrario, il rifiuto di accedere al percorso o il suo esito negativo non possono tradursi in una sanzione più grave di quella originariamente inflitta. Il dissenso della vittima non può costituire, di per sé, una preclusione alla possibilità di accedere al percorso. Perché ha fatto discutere di recente - Il 19 settembre 2023 per la prima volta in Italia una Corte d’Assise, quella di Busto Arsizio, si è pronunciata su una richiesta di ammissione a un programma di giustizia riparativa - prevista dalla riforma Cartabia - da parte di un condannato per femminicidio, inviando il caso al centro per la giustizia riparativa e mediazione penale del Comune di Milano, per verificare la fattibilità del programma. Il caso ha fatto discutere perché riguardava un delitto particolarmente efferato e perché il padre della vittima aveva reagito negativamente alla notizia uscita sui media. La notizia secondo cui anche Cesare Battisti, che sta scontando ergastoli per 4 omicidi, compiuti durante gli anni di piombo, avrebbe chiesto di accedere a un percorso di giustizia riparativa, ha riacceso il dibattito, che si rinfocola ogni volta che tocca un caso di reato grave con una forte eco mediatica. Come è certamente il caso Impagnatiello. Giustizia riparativa secondo la Riforma Cartabia - La possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa, si legge sul portale Altalex, che illustra il Decreto legislativo n.150 del 10 ottobre 2022 di attuazione della legge 134 del 27 settembre 2021, (c.d. “riforma Cartabia”), deve essere “assicurata a titolo gratuito a tutti i soggetti che vi hanno interesse; l’accesso è - per espressa previsione dell’art. 43 - sempre favorito, con la sola eccezione del caso in cui dallo svolgimento del programma possa derivare un pericolo concreto per i partecipanti; come precisa l’art. 44, i programmi sono accessibili senza preclusioni relative alla fattispecie di reato o alla sua gravità e l’accesso è possibile in ogni stato e grado del procedimento penale, nonché nella fase esecutiva della pena o anche dopo l’esecuzione della stessa, così come all’esito di una sentenza di non luogo a procedere o di non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità o per intervenuta estinzione del reato”. CHI Può accedere alla giustizia riparativa - Possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa: la vittima del reato, la persona indicata come autore dell’offesa e altri soggetti appartenenti alla comunità (es. familiari, persone di supporto, enti e associazioni), oltre a chiunque vi abbia interesse. L’adesione è libera e volontaria. Non può essere imposta a nessuna delle parti e il percorso avviene sotto la guida di un mediatore terzo e imparziale che non è comunque il giudice, dato che il percorso riparativo avviene al di fuori dei tribunali. Non implica necessariamente l’incontro diretto tra vittime e persone indicate come autori del reato. È avviabile infatti anche con una cosiddetta “vittima surrogata”, ossia tramite l’incontro tra l’autore del reato e vittime di un reato simile commesso da altri. In che cosa consiste concretamente - L’esito ripartivo può essere simbolico e “può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi”. Oppure materiale e “può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori”. Quali possono essere gli effetti penali della giustizia riparativa - “L’articolo 15 bis del d.lgs. 150/2022 oltre a consentire l’accesso alla giustizia riparativa in ogni fase dell’esecuzione penale”, scrive di Francesco Cingari in La giustizia riparativa nella riforma Cartabia, pubblicato in Sistema Penale, novembre 2023, “attribuisce allo svolgimento del programma riparativo e all’eventuale esito riparativo rilevanza ai fini della concessione di benefici penitenziari e di misure alternative al carcere. In particolare, posto che la mancata effettuazione del programma o il suo insuccesso non possano assumere rilevanza, la partecipazione al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale”. E ancora: “Inoltre lo svolgimento del programma e l’eventuale esito riparativo assumono rilevanza ai fini della valutazione del periodo di prova e la dichiarazione di esito positivo. Infine, lo svolgimento riparativo figura tra le condizioni in presenza delle quali il detenuto o internato condannato per reati ostativi dei benefici penitenziari non collaborante possa accedere a tali benefici stessi”. Il precedente italiano, l’incontro tra Br e vittime - Un esempio italiano di giustizia riparativa, percorso “precursore” compiuto a pene ormai scontate, con la mediazione di padre Guido Bertagna, ha riguardato responsabili e vittime del terrorismo rosso ed è documentato in Il libro dell’incontro. Di questo programma porta sovente testimonianza positiva e pubblica Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, che, dopo una vita che definisce “sotto la dittatura del passato” si è più volte definita, a partire dal 2009: “Una utente felice della giustizia riparativa. In un primo momento ho detto no. Ho accettato di partecipare a una riunione solo di vittime e ho incontrato persone che attraverso questi incontri hanno iniziato a vedere le cose in un modo diverso”. Tra il dire e il fare - Se l’ambizione è chiara: dare alle vittime uno spazio di ascolto, che Agnese Moro arriva a esemplificare anche nella possibilità di rimproverare, e a chi ha commesso un torto di prendere coscienza della sofferenza inflitta per maturare consapevolezza della ferita inferta al tessuto sociale; la difficoltà di “istituzionalizzare”, e inevitabilmente “burocratizzare”, un percorso che necessariamente è individuale, e che potrebbe non essere da tutti e per tutti, è altrettanto evidente; soprattutto se l’intenzione è, come ovunque asserito, non farne un mero modo di provare ad acquisire benefici penali, in un sistema sovraccarico. Tra gli addetti ai lavori il dibattito è aperto, anche perché si tratta di individuare prassi a un meccanismo e a una cultura nuovi, ma è una riflessione che finora sembra concentrarsi prevalentemente sulle problematiche di conciliazione tra giustizia riparativa e penale, perché non vengano meno garanzie all’indagato, qualora si intervenga in fase di indagini: perché un percorso riparativo non si traduca in presunzione di colpevolezza. E, qualora lo si faccia in fase successiva, perché un esito non positivo possa tradursi in un pregiudizio negativo da parte del giudice verso l’imputato o il condannato. Quello che sembra mancare molto in questo dibattito è la vittima, che il più delle volte appare relegata ai margini, citata quasi solo per dire che non le si può imporre un consenso o accordare un diritto di veto. Sembra poco rispetto alla prospettiva di “accoglienza” che a quanto si dice dovrebbe essere il cuore della giustizia riparativa. E qui forse sta il nodo tra il dire il fare che è una questione tutta aperta. Il ruolo della vittima, nodi e contraddizioni. Casi di femminicidio sotto la lente - A questo proposito il 21 novembre 2023, nel respingere un’istanza di accesso alla giustizia riparativa, un’ordinanza del Tribunale di Genova ha sollevato il tema del rischio, per come sono stati scritti i decreti attuativi rispetto alla legge delega, che si profili una vittimizzazione secondaria, ossia che la vittima esca da questo percorso, qualora le passasse sopra la testa, vittima una seconda volta, ravvisando in questo aspetto un possibile contrasto con la normativa Ue. In modo simile, il 9 luglio 2025, ha ragionato la Corte d’Appello di Milano, respingendo analoga richiesta da parte di Alessandro Impagnatiello condannato, poche settimane prima, all’ergastolo in primo grado per l’omicidio di Giulia Tramontano e del bambino che portava in grembo. Si sarebbe trattato di un avviare un percorso con una vittima surrogata, ossia con altre persone che avevano subito reati simili, data l’indisponibilità “irretrattabile” dei familiari di Giulia Tramontano. “L’interesse della vittima specifica (dissenziente e per giunta esposta a rischi di strumentalizzazioni secondarie)”, ha scritto la Corte, “verrebbe frustrato e avvilito, così accentuando proprio quei conflitti interpersonali e quelle fratture sociali che la giustizia riparativa dovrebbe ricomporre”. Secondo la Corte i moventi non sono stati rielaborati “criticamente” da Impagnatiello, e hanno fatto sì che la Corte non abbia ravvisato “l’utilità di avvio” del percorso per arrivare a una “responsabilizzazione dell’autore dell’offesa”, fine primario della giustizia riparativa. Nei casi di Busto Arsizio e in quest’ultimo di Milano - che hanno avuto dai giudici risposta diversa e che molto dibattito hanno suscitato anche per la gravità del reato violento implicato - si nota una coincidenza, oltreché nel reato (due omicidi di donne per cui è stato condannato in primo grado il partner) e nel fattore tempo: la richiesta di accedere a programmi di giustizia riparativa è arrivata molto vicino al delitto e alle condanne in primo grado. La legge consente la richiesta e l’accesso in qualsiasi fase e in qualsiasi momento del procedimento e dell’esecuzione, resta da capire se tutto questo sia compatibile con i tempi di elaborazione di traumi molto profondi. Caso Elmasry, Nordio nega tutto: “Non mi dimetto” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 11 luglio 2025 Al question time il ministro smentisce le indiscrezioni sulle sue bugie ma non entra nel merito: “Segreto istruttorio”. E sulle carceri il guardasigilli sostiene non esista relazione causale tra suicidi e sovraffollamento. Dopo che tutte le forze di opposizione, dai renziani ai rossoverdi, ne hanno chiesto le dimissioni per il pasticcio del rimpatrio di Elmasry e le rivelazioni che smentiscono buona parte della ricostruzione che lui stesso aveva fornito davanti al parlamento, Carlo Nordio rigetta ogni accusa. Fin dal mattino, quando si affaccia alla conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina all’Eur e nelle ore successive, quando si presenta in aula Palazzo Madama per sessanta minuti di question time, durante il quale il ministro della giustizia sciorina il latinorum e le frasi ad effetto pur di distogliere l’attenzione dalle troppe zone d’ombra circa la vicenda del generale libico ricercato dalla Corte penale internazionale. La minoranza inchioda Nordio alle sue affermazioni. E alla discordanza tra quanto aveva detto per spiegare la vicenda quando aveva assicurato di essere stato informato dell’arresto di Elmasry soltanto il 20 gennaio, dunque non in tempo per perfezionare il suo trattenimento. Ma, come si è appreso nei giorni scorso,la sua capo di gabinetto Giusi Bartolozzi aveva inviato già il 19 gennaio una una mail ai collaboratori nella quale, con oggetto proprio l’arresto di Elmasry si invitava alla massima prudenza e si intimava di usare Signal, sistema di messaggistica impermeabile a intercettazioni. Tutto ciò, bisogna ricordare, avveniva prima che venisse disposta la liberazione e il rimpatrio con volo di stato per la carenza degli atti ministeriali del generale libico. Nordio, appunto, nega. Dice che ciò che è trapelato corrisponde al falso ma che di più non può dire, dunque non spiega, perché la faccenda è oggetto di indagine al tribunale dei ministri. Dribbla la faccenda tra una smentita, la citazione procedurale e, come poteva mancare, l’invocazione della macchinazione politica nei suoi confronti, che sarebbe colpevole di portare avanti la riforma della giustizia e la separazione delle carriere. “Tutto quello che è stato scritto e che ho letto in questi giorni è un poco come le leggende - spiega ai cronisti uscendo dall’aula - Sono alcune verità corredate di molte invenzioni. Ma non posso entrare nei particolari perché c’è il famoso segreto istruttorio”. E ancora, a chi gli chiede di essere almeno più puntuale circa le clamorose discrepanze emerse sulla vicenda: “Da ex magistrato sarebbe improprio se entrassi nei dettagli di una indagine che è in corso - prosegue Nordio - Quando saranno esibiti gli atti, potrete vedere chi aveva ragione e chi aveva torto. Però posso dire che quello che ho letto non corrisponde a verità, al parlamento ho sempre detto la verità. Quando saranno esibiti gli atti e il tribunale dei ministri avrà fatto le sue valutazioni potremo parlarne a ragione veduta”. Le opposizioni considerano di avere ulteriori ragioni per chiedere che il ministro faccia un passo indietro, la maggioranza tiene la linea e spera che il pasticcio sul macellaio libico che ha investito il governo sia dimenticato il più presto possibile. La decisione del tribunale dei ministri, che ha indagato anche Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano e Giorgia Meloni è attesa a giorni. Nordio deve rispondere anche di omissione di atti d’ufficio ma la richiesta di autorizzazione a procedere verrebbe respinta dalla maggioranza. Il tribunale depositerà gli atti alla procura ordinaria, che potrà poi muoversi per valutare altre posizioni, come quella di Bartolozzi, sentita come persona informata dei fatti. L’apparizione al senato di Nordio è stata occasione per evidenziare il doppiopesismo finto-garantista che contraddistingue questa gestione. Perché quando si è trattato di rispondere sul tema dell’emergenza carceri, e dunque di cimentarsi con una questione di diritto che riguarda gli ultimi, il ministro non si è fatto alcun problema nello sciorinare praticamente tutti i punti fermi della destra più forcaiola. Dal rifiuto di prendere in considerazione misure alternative e riduzioni delle pene per sfoltire le galere all’affermazione secondo la quale non esisterebbe alcuna correlazione tra l’affollamento delle prigioni e l’alto tasso di suicidi nelle celle. “Per i suicidi la nostra massima attenzione è sull’aiuto psicologico affinché la situazione di dolore venga attenuata da un sostegno e dall’attenzione di persone preparate”, ha proclamato Nordio. C’è chi ha diritto a un volo di stato per tornarsene a casa e chi, se è fortunato, può farsi al massimo un colloquio con no psicologo. La mail che smentisce gli anti-Nordio: “Gli atti su Almasri ancora non ci sono” di Errico Novi Il Dubbio, 11 luglio 2025 È l’allora capo del “Dag” Birritteri, a scrivere, il 19 gennaio, che le carte dell’Aia sarebbero arrivate a via Arenula solo il giorno dopo. Come il ministro ripete da mesi. Lo hanno proclamato “teste chiave”, uomo della verità. Ma Luigi Birritteri, capo del “Dag” a via Arenula nei giorni in cui Almasri veniva rimpatriato in Libia, deluderà i suoi fan. Lascerà spiazzata l’opposizione anti-Nordio, insolitamente capeggiata da Renzi. È una mail di Birritteri a smontare drammaticamente, inesorabilmente le ricostruzioni trasferite ai giornali negli ultimi giorni. Frana la teoria secondo cui il guardasigilli avrebbe avuto già domenica 19 gennaio gli atti necessari ad autorizzare l’arresto del poliziotto libico accusato di torture. E si sbriciola così il “wishful thinking” degli avversari, come lo definisce proprio Nordio nel question time di ieri al Senato: “Sperano quello che desiderano”, una fuga del ministro appunto. E niente, sarà per un’altra volta. Perché alle 14.35 della fatidica domenica 19 gennaio, il dottor Birritteri scrive la seguente mail, destinata a un altro magistrato in servizio a via Arenula e, in copia, anche a Giusi Bartolozzi, Capo di Gabinetto del guardasigilli: riguardo al “caso dell’arresto in Torino di Njeem Osama Elmasry/Almasry, concordo su una prima valutazione (fatti salvi i dovuti approfondimenti) inerente l’irritualità della procedura che sinora non vede coinvolto il ministero della Giustizia come autorità centrale competente”. A quell’ora del 19 gennaio, dunque, Nordio non può ancora autorizzare l’arresto di Almasri, e non ha omesso alcun atto d’ufficio. Prosegue Birritteri: “Domani”, cioè nell’altrettanto fatidico lunedì 20 gennaio, giorno in cui Nordio ha sempre sostenuto, anche nell’informativa a Montecitorio, di aver ricevuto l’atto completo del mandato d’arresto per Almasri, solo “domani”, sillaba Birritteri, “faremo le nostre valutazioni, sulla base della documentazione che ci verrà eventualmente trasmessa”. Quindi: alle ore 14.35 di domenica, l’allora capo del “Dag” non è ancora in possesso del mandato d’arresto vero e proprio. Ha solo ricevuto un’informazione sommaria (che anche Nordio aveva già solennemente dichiarato, il 5 febbraio alla Camera, di avere, a quel momento, fra le proprie mani) dal magistrato italiano distaccato all’Aia, Alessandro Sutera Sardo. Ma domenica 19 gennaio, l’atto che consentirebbe a Nordio di formalizzare l’autorizzazione all’arresto di Almasri ancora non è a via Arenula. Lo certifica graniticamente la mail di Birritteri. Non c’è niente, non uno straccio di verità, dietro i furibondi anatemi scagliati ancora ieri a Palazzo Madama contro il ministro della Giustizia. Ma fra tante, è rivelatrice una battuta rivolta a Nordio dalla capogruppo renziana Lella Paita: “Sono stupita di vederla in Aula, pensavo fosse scappato per non rispondere sul caso Almasri”. E invece il guardasigilli risponde per l’intera giornata di ieri. In tutte le possibili occasioni. Chiude il cerchio già la mattina, appena arrivato alla conferenza sull’Ucraina: “Riferiremo in Parlamento quando sarà il momento, però gli atti che abbiamo smentiscono totalmente quanto è stato riportato, non so come e perché, dai giornali”. Forse si riferisce alla mail di Birritteri (che al Dubbio non risulta essere agli atti del Tribunale dei ministri, investito dell’indagine su Nordio per presunta omissione di atti d’ufficio, oltre che per favoreggiamento e peculato). Il guardasigilli maramaldeggia in lungo e in largo: “Siamo in dirittura di arrivo per una riforma epocale della giustizia e le provano tutte per rallentarla o intimidirci, a costo di inventarsi delle bufale solenni. Quello che ho detto in Parlamento è la verità”. Ed è vero anche che le ricostruzioni improbabili passate nelle ultime ore ai giornali sembrano tendenziose proprio perché false. Ancora il guardasigilli, a proposito delle dimissioni invocate dagli avversari: “Lo sa cosa disse il generale McAuliffe durante l’assedio di Bastonia? Nuts!”. E l’ufficiale di brigata americano, con quello slang, voleva dire ai nazisti qualcosa del tipo “andate all’inferno”. Il ministro della Giustizia non tralascia di far notare che c’è stata qualche violazione del segreto, considerato come su diverse testate circolino informazioni evidentemente carpite dal fascicolo delle tre giudici incaricate dell’inchiesta su Meloni, Mantovano, Piantedosi e, appunto, Nordio: “Il chiacchiericcio riportato dalla stampa è completamente infondato, se sarà necessario chiariremo al momento opportuno eventuali altre novità. Novità che al momento non si presentano se non come eventuali violazioni di atti riservati di cui non si riesce a capire come qualcuno sia arrivato in possesso. Anche questo”, aggiunge il guardasigilli, “sarà eventualmente oggetto di attenzione da parte delle autorità giudiziarie”. Ed è la sola questione sulla quale siamo noi a sentirci di smentire Nordio: che qualche pm possa indagare sulle fughe di notizie dalle Procure ai giornali è un’ipotesi più fantasiosa dei racconti che le “talpe” hanno sparpagliato nelle ultime ore. Cosa insegna il “caso Bibbiano” di Carlo Rimini Corriere della Sera, 11 luglio 2025 Il giudice è costretto ad avvalersi di assistenti sociali sempre diversi con i quali non ha un rapporto diretto. I Comuni più piccoli non hanno risorse sufficienti e sono costretti a consorziarsi. Una parte del lavoro viene appaltato a cooperative esterne. La notizia che la maggior parte degli imputati sono stati assolti nel “caso Bibbiano” fa tirare un sospiro di sollievo. Il polverone sollevato dalla polemica politica si è finalmente posato a terra. Tuttavia, un problema esiste. I giudici che si occupano della tutela dei bambini effettuano gli accertamenti necessari attraverso gli assistenti sociali. I servizi sociali sono strutture locali: dipendono dai Comuni. Dunque, le indagini disposte dai tribunali sui comportamenti dei genitori - che portano, nei casi più gravi, a disporre che un bambino sia dato in adozione - non vengono effettuate da dipendenti del Ministero della giustizia, sotto il controllo del giudice o delle procure minorili, ma da operatori che dipendono dai Comuni. Il giudice è costretto ad avvalersi di assistenti sociali sempre diversi con i quali non ha un rapporto diretto. I Comuni più piccoli non hanno risorse sufficienti e sono costretti a consorziarsi. Una parte del lavoro viene appaltato a cooperative esterne. La qualità del lavoro è affidata alla buona volontà dei singoli, che spesso operano con grande dedizione, talvolta sono invece negligenti, molto raramente perseguono interessi diversi da quelli dei bambini. I controlli sono scarsi per la scissione fra l’autorità che commissiona le indagini (il tribunale) e l’autorità da cui i servizi sociali dipendono (il sindaco). Il giudice è costretto ad affidarsi quasi ciecamente alle relazioni dei servizi sociali, perché il carico eccessivo di lavoro dei tribunali consente ai giudici di avere uno scarso contatto con ogni singolo caso. ???Sarebbe quindi necessario creare un apparato amministrativo di supporto ai giudici alle dipendenze del Ministero della giustizia e sotto il controllo diretto dei tribunali. Le polemiche sul “caso Bibbiano” non costano niente; questa riforma strutturale avrebbe invece un costo. Da Milano a Bibbiano, l’uso dell’infamia come strumento di lotta politica di Mariano Croce* Il Domani, 11 luglio 2025 Nel 1630 come nel 2019 si diffuse la convinzione che un reato di straordinarie proporzioni fosse stato commesso da alcuni amministratori assieme a conniventi tecnici e civili. Poco importa se a sei anni di distanza, quei supposti untori si sono rivelati innocenti: la capitalizzazione dell’infamia ha comunque permesso agli accusatori d’allora di raggranellare una manciata di voti. Per un paese come il nostro, che nella propria araldica custodisce l’emblema della Colonna Infame, il caso Bibbiano dovrebbe essere visto, né più né meno, come il coerente sviluppo di una storia illustre. A Milano nel 1630 come a Bibbiano nel 2019, si diffuse la convinzione che un reato di straordinarie proporzioni fosse stato commesso da alcuni amministratori assieme a conniventi tecnici e civili. Eppure a Bibbiano il clamore fu persino più eclatante, perché molti presunti innocenti furono trattati come se avessero sparso unguenti velenosi, non tanto sui muri e le strade della città, ma su quanto esiste di più indifeso e prezioso, vale a dire i bambini. E poco importa se, a sei anni di distanza, quei supposti untori si siano rivelati innocenti: la capitalizzazione dell’infamia ha comunque permesso agli accusatori d’allora di raggranellare una manciata di voti. Tanto basta - quantomeno a loro. La sentenza - A Bibbiano non vi fu alcun rapimento di minori, alcun ricorso all’elettroshock, alcun crimine organizzato per la sottrazione di chicchessia. La tormentosa narrativa, patrocinata in particolar modo dalla triade Meloni-Salvini-Di Maio, è naufragata dinanzi alla sentenza (pur sempre di primo grado) del tribunale di Reggio Emilia, che rende nulla una messe di capi d’imputazione, perché i fatti contestati non sussistono. E chissà se in futuro un redivivo Manzoni sarà capace di trarne un saggio storico; ma temo che né da quegli eventi né dai resoconti degli stessi gli italiani sapranno apprendere la lezione, specialmente alla luce dell’esempio fornito dalla classe politica. Nel 2019, animati da virtuoso zelo, i politici accusatori salmodiavano affettati una varietà di rituali tutti volti a denunciare una turpe oscenità che, a loro dire, un qualche sistema di potere intendeva tener nascosta. E come carmelitane scalze in penitenza per la salvezza dell’umanità, occupavano contriti lunghi spazi televisivi, che i media volentieri cedevano, per celebrare l’ordalia di un processo che avrebbe dovuto aprirsi e chiudersi sullo schermo. Quel processo fu in effetti celebrato, con tutti i rituali del caso e con l’immancabile piacere del giustizialismo splatter, che per l’occasione vantava un sovrappiù di santità, perché si stava accusando l’orco - la cui dieta, com’è noto, prevede solo carne di bambino. La responsabilità del giudizio - In un periodo in cui si va perorando la proposta di legge Sciascia-Tortora, che vorrebbe radicalmente rinnovare la formazione della magistratura, armonizzando le competenze tecniche con una solida consapevolezza morale, mi chiedo chi potrebbe discutere e legiferare su una materia tanto delicata. Chi, come fece Sciascia nel 1983, potrebbe sollevare con altrettanta carica etica e vitale la questione della responsabilità insita nel giudizio? Quale politico potrebbe oggi insegnare al giovane magistrato, come al semplice cittadino, che non si giudica sulla spinta dell’emozione e men che meno per spirito di parte o pregiudizio personale? Come spiegare che il giudizio non è mai vendetta né predazione, bensì l’esame dell’eventuale torto per la sua riparazione a un tempo ristorativa e pacificante? Un bel tacer - Proprio per la delicatezza della vicenda, di Bibbiano si sarebbe dovuto fare il caso di scuola per una rinnovata etica della comunicazione politica: si trattava di un quadro complesso, ibrido, ingiudicabile senza dovuto approfondimento, dov’era difficile distinguere il resoconto dall’immaginazione, la cura appassionata dal principio di reato. Si sarebbe dovuto tacere, per ascoltare protagonisti ed esperti, resistendo al piacere pulsionale del boccale di latta che produce clangore sul banco consunto della mescita. A oggi sembra invece rivivere lo spirito di quei giornali di primo Novecento, in cui politici e scrittori facevano impudente uso dell’infamia come strumento di lotta politica. Al tempo, quantomeno, mezzi di contesa tanto sregolati vantavano le firme di figure insigni come Papini, Prezzolini o Soffici. L’odierno scempio da salotto televisivo, con effettacci di scena e cartelli appesi al collo, non produrrà invece nulla, se non maggiore ignoranza, assieme a un più diffuso e sottile piacere per l’uso a tutto campo dell’ingiuria. *Filosofo Armando Veneto, l’odissea giudiziaria di un Signore del foro di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 11 luglio 2025 Con un’assoluzione definitiva la Cassazione mette la parola fine alla vicenda del penalista calabrese nonché fondatore dell’Unione camere penali. Insigne penalista, decano degli avvocati calabresi, fondatore dell’Unione Camere penali italiane, deputato ed europarlamentare. E per alcuni anni stretto nella morsa di un’accusa infamante. Per Armando Veneto si è chiusa nel migliore dei modi una pagina dolorosa - personale e professionale - con l’assoluzione definitiva dall’accusa di corruzione in atti giudiziari e concorso esterno in associazione di stampo mafioso. A mettere la parola fine sulla vicenda processuale dell’avvocato Veneto è stata la Prima sezione penale della Corte di Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura generale presso la Corte di appello di Catanzaro. I processi dal 2020 a oggi - Tutto ha inizio nel 2009. I fatti contestati risalgono a sedici anni prima, ma solo nel 2020 Veneto ha ricevuto un avviso di conclusioni delle indagini. Gli episodi si riferiscono alla presunta corruzione messa in atto, secondo l’accusa, nei confronti del giudice Giancarlo Giusti, all’epoca componente del Tribunale del riesame di Reggio Calabria. Il magistrato avrebbe intascato 120mila euro per far scarcerare tre esponenti della ndrangheta. In particolare, come giudice relatore ed estensore, Giusti nell’udienza del 27 agosto 2009 aveva disposto l’annullamento delle ordinanze cautelari emesse dal gip di Reggio Calabria a carico di Rocco e Domenico Bellocco e Rocco Gaetano Gallo. Da questi ultimi avrebbe ricevuto 40mila euro a testa, per un totale di 120mila euro. La Dda di Catanzaro, negli anni scorsi guidata da Nicola Gratteri, contestò ad Armando Veneto un coinvolgimento nella vicenda pur senza individuare un ruolo specifico da questi svolto. A ciò si aggiunse pure l’accusa di concorso esterno per aver fornito, come riportato nell’avviso di conclusione delle indagini, “un valido contributo”, finalizzato “alla realizzazione degli scopi rientranti nel programma criminoso dell’associazione mafiosa”. La tesi dell’accusa poggiava sulla ipotesi di un rapporto tra il penalista e il giudice Giusti, in realtà escluso dalle evidenze investigative. In primo grado, il 25 febbraio 2022, il gup di Catanzaro condannò Veneto a 6 anni di reclusione a conclusione del processo con rito abbreviato. L’avvocata Clara Veneto, figlia del noto penalista, motivò la scelta del rito abbreviato “solo ed esclusivamente” per la “presenza nel fascicolo di evidenze schiaccianti per la esclusione di responsabilità”. Due anni dopo intervenne l’assoluzione per non avere commesso il fatto pronunciata dai giudici della Corte d’appello di Catanzaro. Infine, mercoledì sera l’assoluzione definitiva, con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso della Procura generale presso la Corte di Appello di Catanzaro, da parte dei giudici della Suprema Corte. Veneto: “Ho combattuto la mia battaglia per la verità” - Felice per la pronuncia della Cassazione, ma anche amareggiato. È questo lo stato d’animo di Armando Veneto. “Ho scelto sin da subito - dice al Dubbio - di vivere la vicenda giudiziaria che mi ha colpito e di combattere la mia battaglia per la verità, mantenendomi nella riservatezza, come ho fatto durante tutta la mia vita. Ma anche con la volontà di capire perché si sia dovuti giungere alla verità solo dopo un calvario giudiziario durato anni e cercare di capire perché non si siano utilizzati fin da subito gli elementi chiari da cui risultava come io sia stato confuso con altri e che non abbia nulla a che fare con la corruzione di un giudice. Dopo aver compreso, avverto la necessità di spiegare dove doveva essere cercata la verità che alla fine è stata accertata”. A 89 anni l’amore per la toga e la fiducia verso la giustizia restano intatti. “Farò in modo - aggiunge Veneto - che la mia vita ulteriore non si affidi al sospetto, alle opinioni o peggio alla vendetta, avendo considerazione degli errori, sia pure non accettabili, commessi in mio danno. Al fondo combatto una battaglia di civiltà: come al solito, per tutti. Ringrazio i miei difensori, il professor Vincenzo Maiello e l’avvocato Beniamino Migliucci, che con la consueta professionalità intrisa di amorevole amicizia hanno reso evidente la verità”. L’esultanza dei difensori - Vincenzo Maiello e Beniamino Migliucci, esultano per il risultato conseguito e al tempo stesso riflettono sul quanto affrontato in questi anni dal penalista calabrese. “La soddisfazione per la definitiva assoluzione di Armando Veneto dalle gravissime imputazioni che gli erano state contestate - commentano Maiello e Migliucci - non ha la forza di cancellare amarezze e sofferenze che, con i suoi familiari e colleghi, egli ha patito nei lunghi anni di celebrazione del processo. Si dirà che questo è il costo fisiologico e, perciò, ineliminabile di ogni accertamento giudiziario. L’obiezione vale se, e solo se, una verifica processuale della tesi d’accusa si renda necessaria, in funzione sia della qualità descrittiva delle imputazioni sia della loro attendibile rappresentazione probatoria. Ma è proprio questo che è mancato nella vicenda processuale di Armando Veneto, il quale è stato tratto a giudizio all’esito di un’indagine che, dopo aver ricostruito con compiutezza tempi, modalità e protagonisti della corruzione, aveva sancito la sua estraneità ad ogni fatto che fosse, anche solo eticamente, disdicevole. Era emerso, anzi, come l’avvocato Veneto avesse tenuto, nei confronti del proprio assistito, comportamenti inconciliabili, se non addirittura antagonistici, con l’ipotesi del suo illecito coinvolgimento. Anche per questo l’accusa non è mai stata in grado di precisare i termini della partecipazione criminosa di Armando Veneto”. Il professor Maiello e l’avvocato Migliucci non nascondono “l’orgoglio di aver contribuito al riconoscimento delle ragioni della piena innocenza di Armando, da parte della Corte d’Appello e della Corte di Cassazione, ai quali va l’onore per aver fatto fare festa al garantismo penale celebrato dallo Stato costituzionale”. “Ci auguriamo - concludono - che questo possa restituirgli la serenità per fargli godere le gioie di un’esistenza vissuta nel culto della funzione civile della toga”. Le Camere penali: Veneto un gigante dell’avvocatura - La Giunta dell’Unione delle Camere penali sottolinea che con l’assoluzione di Armando Veneto “si infrange definitivamente sul muro della verità processuale e sulla toga specchiata di un gigante dell’avvocatura penalista italiana, l’ingiusto e infondato teorema accusatorio costruito dalla Procura di Catanzaro”. Genova. Candia (Avs): “Segnale di civiltà realizzare la stanza degli affetti nel carcere” genovatoday.it, 11 luglio 2025 Il provveditore per l’amministrazione penitenziaria ha individuato la struttura di Marassi per ospitare una delle prime stanze per consentire ai detenuti di incontrare i partner in condizioni di sicurezza, ma ci sono problemi di spazi. Selena Candia, capogruppo di Avs in consiglio regionale, traccia un quadro drammatico della situazione carceraria dopo la visita al penitenziario di Marassi, allo stesso tempo però annuncia una possibile novità per i detenuti, la creazione di una stanza dell’affettività per incontri sicuri con i partner, resa però complicata dalla mancanza di spazi. Sovraffollamento e problemi - “Le carceri liguri soffrono di gravi arretratezze, che spesso trasformano la detenzione in una misura solo punitiva, con poche possibilità di recupero e reinserimento - attacca Candia -. È impossibile tacere davanti al sovraffollamento delle celle, alle carenze di personale, sia nella polizia penitenziaria sia nelle figure di assistenza, alla scarsità di corsi di formazione professionale, alle gravi problematiche strutturali delle aree detentive, dove in questi giorni le temperature toccano livelli insostenibili”. Per quello che riguarda il carcere di Marassi Candia sottolinea le ormai note condizioni di sovraffollamento: “Dovrebbe ospitare 554 detenuti - spiega - ma adesso sono 659. L’organico di polizia penitenziaria è inferiore del 15 per cento rispetto alle previsioni. Oltre metà dei detenuti è straniera e oltre un terzo è assistito dal Sert, mentre una percentuale enorme assume una terapia medica. Questi dati fanno capire come sia fondamentale aumentare le figure di sostegno all’interno del carcere, come medici, psicologi, psichiatri ed educatori, perché gli agenti si trovano quotidianamente ad affrontare situazioni difficili”. Una stanza per incontrare i partner, ma mancano spazi - “Il provveditore per l’amministrazione penitenziaria ha individuato la struttura di Marassi per ospitare una delle prime stanze dell’affettività, per consentire ai detenuti di incontrare i partner in condizioni di sicurezza - annuncia la capogruppo di Avs Candia -. È una misura necessaria per garantire i diritti delle persone recluse, senza intaccare il provvedimento restrittivo, che è stata riconosciuta dalla legge. Purtroppo nel carcere di Marassi mancano gli spazi negli edifici attuali per realizzare questa stanza. L’unica soluzione fattibile è quella di installare un prefabbricato con servizi igienici all’interno del penitenziario, in modo da assicurare sia la vigilanza esterna sia la riservatezza dell’incontro. Il costo dell’installazione è molto basso e quindi ci faremo promotori di questo progetto”. Pavia. “Liberi di ricominciare”, un appello per integrare i detenuti La Provincia Pavese, 11 luglio 2025 Nella sala conferenze di palazzo Broletto si è svolto l’incontro pubblico, promosso da Azione, “Liberi di ricominciare”, un confronto sul sistema penitenziario italiano, le condizioni di detenuti e agenti penitenziari, e soprattutto lo sviluppo della dimensione rieducativa. Sono intervenute le educatrici Marta Struzzi e Daniela Bagarotti, trattando il loro lavoro nell’istituto penitenziario, reso ancor più arduo visto il sovraffollamento (circa 140%), Angela Scariato ha parlato del progetto “Sport in carcere”, che rappresenta non solo una valvola di sfogo per i detenuti, ma un percorso di crescita e apprendimento di valori come il rispetto del prossimo e il lavoro di squadra. Infine il progetto “Qua la Zampa”, presentato da Anna Giulia Brunati: è il caso di una concreta riqualificazione professionale dei detenuti, in quanto alcuni di loro hanno anche acquisito il patentino da addestratore cinofilo. Il capogruppo in consiglio comunale e segretario provinciale di Azione, Tommaso Bernini, ha presentato una mozione scritta insieme alla consigliera Lorena Cuccu del Pd: “La mozione ha visto il contributo di tanti attori, consiglieri e assessori, ma è anche frutto di un confronto con la direzione del carcere. L’obiettivo è valorizzare la collaborazione tra casa circondariale e amministrazione comunale per inserire il carcere nel tessuto socio-economico pavese. Chiederemo quindi di promuovere le associazioni del terzo settore, mettendo a disposizione anche spazi comunali e di attivare ulteriori progetti di pubblica utilità per sostenere azioni che favoriscano percorsi di reinserimento sociale, formativo e lavorativo durante e dopo la pena”. Modena. Carcere Sant’Anna, il Comune dona beni per alleviare dal caldo i detenuti bologna2000.com, 11 luglio 2025 Ombreggianti e nebulizzatori da posizionare presso i cortili e il campo sportivo, così da alleviare dal caldo la popolazione detenuta al Sant’Anna di Modena. È questo il dono che, a nome dell’Amministrazione comunale, l’assessora alla Sicurezza integrata e alla Polizia locale, Alessandra Camporota, ha consegnato questa mattina, giovedì 10 luglio, alla direttrice in missione della casa circondariale di Modena, Austelia Oliviero. “Quanto emerso dalla recente visita dei parlamentari Enza Rando e Stefano Vaccari al Sant’Anna, non può lasciare indifferenti - ha detto l’assessora Alessandra Camporota - Il caldo estremo delle ultime settimane ha, infatti, aggravato una situazione già al limite e che più volte, con il sindaco, abbiamo denunciato chiedendo un piano straordinario per un istituto che vive da troppo tempo una vera e propria emergenza. Con questo supporto, che completa la fornitura di analoghe attrezzature da parte della Garante dei detenuti Professoressa Laura De Fazio, che ringrazio per la sensibilità, speriamo di migliorare le condizioni di vita delle donne e degli uomini detenuti nella Casa circondariale modenese il cui scopo, ci tengo a ricordarlo, non è solo punitivo ma dovrebbe essere anche quello di rieducare e mirare al reinserimento sociale del detenuto come previsto dalla nostra Costituzione”. L’aiuto da parte del Comune vuole anche contribuire ad abbassare la tensione che ingenerano situazioni di invivibilità vissute in quei luoghi e che rendono sempre più complessa la loro gestione da parte della polizia penitenziaria. La visita dei due parlamentari modenesi al Sant’Anna a fine giugno aveva evidenziato, all’interno delle celle, temperature che in alcuni casi superavano i 48° in aggiunta alle numerose criticità su cui il Comune continua a mantenere alta l’attenzione. Già nel gennaio scorso, lo ricordiamo, proprio l’assessora Camporota aveva scritto al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, per esprimere la sua forte preoccupazione e chiedere più personale di Polizia penitenziaria, un incremento delle figure educative di sostegno e un maggiore ricorso a misure alternative alla detenzione per contenere il cronico sovraffollamento della struttura. Piacenza. Carcere delle Novate, donati 115 ventilatori ai detenuti ilpiacenza.it, 11 luglio 2025 In arrivo 115 ventilatori per i detenuti del carcere delle Novate. A consegnarli sono state alcune realtà piacentine, dopo l’appello del direttore, Andrea Romeo. “La casa circondariale delle Novate ha un problema di sovraffollamento e la sua struttura è di cemento armato. Ne deriva che il caldo è tanto e in quegli ambienti anche la temperatura insopportabile può portare a situazione critiche o a disordini” spiega l’avvocato Romina Cattivelli, della Camera penale di Piacenza, membro dell’Osservatorio carcere nazionale e della Fondazione Forense Piacentina. “Un problema che era stato rilevato dal direttore - afferma la garante dei detenuti Maria Rosa Ponginebbi - il quale ha chiesto se c’era la possibilità di raccogliere dei fondi per i ventilatori. I ventilatori ogni anno si usurano o si rompono, venendo così a mancare. Mi sono fatto portavoce con l’avvocato Cattivelli e Walter Bulla. In realtà, tutto il resto l’hanno fatto loro, coinvolgendo questa bellissima rete. Personalmente come garante sono veramente molto contenta e ringrazio tutti perché vuol dire che il territorio ha accolto questo bisogno”. Alla raccolta dei fondi hanno partecipato anche Lions Rivalta e valli Trebbia e Luretta, Aiga (Giovani avvocati), la Camera civile degli avvocati e il motoclub Lampeggianti blu Piacenza. La garante ritiene “che sia un aspetto molto importante cercare comunque di alleviare il disagio, perché nei giorni scorsi c’era veramente molto caldo e la vita della popolazione della casa circondariale ne ha risentito”. Ponginebbi ha ringraziato “tutti, proprio per la sensibilità dimostrata e questo vuol dire che il territorio risponde ai bisogni del carcere. Questo credo che sia molto bello perché il carcere fa parte della città, anche se è un po’ in periferia, ma fa parte della città” conclude la garante dei detenuti. Romeo, direttore carcere di Piacenza, ricorda che “il mio è stato un grido di allarme che ringrazio per la tempestività con il quale è stato accolto e al quale si è provveduto a trovare una soluzione in così poco tempo”. Salerno. Formazione e orientamento nel penitenziario: c’è S.O.F.U. 2 Ristretti Orizzonti, 11 luglio 2025 È in corso la seconda edizione del progetto S.O.F.U., Sportello di Orientamento e Formazione per Utenze Speciali tesa ad ampliare la gamma dei servizi inclusivi rivolti ai detenuti organizzato presso la Casa Circondariale “Antonio Caputo” di Salerno. Le attività di Formazione & Orientamento per l’emersione e la valorizzazione di idee di nuove attività profit e no profit sono organizzate dalla E.T.S. Socrates di Sala Consilina, ente di formazione diretto da Caterina Di Bisceglie, capofila dalla rete di partner costituita dalla Cooperativa Sociale Fili d’Erba e dall’Associazione Quartieri Ogliara. Gli utenti stanno sviluppando le loro “business idea” dopo aver seguito con interesse e partecipazione gli aspetti salienti inerenti all’avvio di una nuova attività. I destinatari delle azioni di progetto, in forma singola o in gruppi informali, stanno sviluppando i business plan inerenti alle nuove attività che ricadono prevalentemente nei seguenti settori: piccola ricettività turistica (B&B , Affittacamere), Food & Beverage (pizzerie/friggitoria), Servizi agli anziani (Silver Economy), Locazione e montaggio attrezzature per l’edilizia, Valorizzazione e Commercializzazione prodotti tipici, Attività boschiva, Noleggio mezzi di trasporto, Castanicoltura, ecc. Uno spazio allestito nell’ottica dell’Hub all’interno della struttura penitenziaria, un ambiente creativo e innovativo habitat ideale per definire nuove attività e creare lavoro autonomo dove si redigono curriculum vitae per presentarsi o richiedere colloqui di lavoro, si organizzano araund table per alimentare l’attività di brainstorming e la partecipazione attiva, stimolare la creatività e lo sviluppo di business idea, erogare attività di coaching e fundraising. Saranno pianificati incontri “one to one” coinvolgendo i titolari di imprese e saranno organizzati colloqui mirati in considerazione dei settori di attività e dei curriculum degli allievi. Le nuove attività saranno presentate dagli ideatori supportati dal personale coinvolto a vario titolo nella realizzazione delle azioni di progetto; sarà redatto quindi un book contenente idee sviluppate, azioni e servizi organizzati ed il programma della Regione Campania che ha finanziato S.O.F.U. 2. L’iniziativa fortemente voluta dalla Direttrice Gabriella Niccoli è stata organizzata con la referente dell’area giuridico pedagogica del Penitenziario Monica Innamorato, dalle Educatrici interne al penitenziario e da un team di risorse umane con competenze complementari, indicate dalla rete dei Partners costituita da Angela Quagliano, Maria D’Amato e Vincenzo Quagliano. L’intero apparato progettuale è innovativo per il contesto salernitano ed ha l’obiettivo di dotare la Casa Circondariale “Antonio Caputo” ed il territorio della provincia di Salerno di servizi innovativi in materia di inclusione sociale ed economica e per dare nuove opportunità agli autori di reato. Milano. Mattia, detenuto all’ergastolo a Bollate, sul palco al Castello di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 11 luglio 2025 “Racconto la mia storia. Di ombre scambiate per realtà”. A diciott’anni uccise due ragazzi: “delitto d’onore”. Oggi a 31, in permesso premio, racconta la sua storia. In carcere si è diplomato e sta studiando per la laurea. A diciott’anni aveva una pistola in tasca e l’onore come unica bussola. Oggi, a trentuno, Mattia sale sul palco del Castello per raccontare - davanti a centinaia di persone - la sua colpa, la sua metamorfosi, e il suo diritto a non essere più solo “l’ergastolano di Abbiategrasso”. Il 31 luglio, nel monologo “Attraverso la mia ombra” scritto e diretto da Serena Andreani e prodotto dalla cooperativa Le Crisalidi, per la prima volta darà voce alla storia che ha cambiato la vita di due famiglie: quella dei ragazzi albanesi uccisi per vendetta, e la sua. Un omicidio “d’onore”, come lo chiamavano allora. Un’idea che oggi lo fa rabbrividire. “Mi sembrano idee così lontane da me. Quella minuscola porzione di mondo era tutto ciò che conoscevo”, dice Mattia. Quel mondo - violento, chiuso, intossicato di codici tribali - lo ha lasciato per sempre tredici anni fa, in una cella di isolamento di tre metri per due, senza luce, senza voce. E senza più un alibi. “Non volevo morire lì dentro, ma non sapevo ancora come vivere fuori dal mio errore”. E dalla violenza. Da allora non si è più voltato indietro, se non per capire. Il suo è uno dei rari casi in cui il carcere ha funzionato davvero. Non come punizione, ma come attraversamento. A Bollate si è diplomato e sta studiando per la laurea in Scienza della formazione. Lavora per una azienda, vive in articolo 21 e da poco ha ottenuto i permessi premio. Ma soprattutto è diventato padre: una figlia di undici mesi, nata in un giorno d’autunno. “Non mi ero preparato a questo. Nessuno lo è. Ma c’ero. Sono stato io a sentirla piangere per primo”. Perché questa storia non è una parabola edificante, né un’abiura in punta di piedi. È un viaggio dentro la complessità: di una colpa che non si cancella, ma si attraversa. Di una pena che non finisce con un numero, ma con un senso. Di un uomo che si è guardato allo specchio e ha deciso di non rimanere l’ombra del ragazzo che fu. “Quel giorno in Tribunale - ricorda - ho incrociato lo sguardo dei genitori delle vittime. Mi sono sentito morire. Non ho mai avuto la forza di cercarli. Ma ho fatto tutto quello che potevo, con chi potevo”. Dal carcere ha parlato con studenti, professori, psicologi, ex allenatori, vigili urbani. Ha parlato anche con sé stesso. “In carcere ti ci sei messo tu. Un’altra frase fatta, ma vera. E allora devi trovarti un modo per uscirne. Per capire chi sei mentre sei lì”. Un giorno, nella minuscola biblioteca del penitenziario, trovò la Repubblica di Platone. Lesse il mito della caverna, e capì: “Era la mia storia. Di ombre scambiate per realtà. Di una verità che sta altrove, ma devi volerla cercare”. Non è una favola. Non c’è redenzione definitiva. Le catene e le ombre - e il dolore provocato - ci sono ancora e ci saranno sempre. Ma c’è l’impegno, anche con il volontariato nelle periferie, e c’è la possibilità di essere visti per intero, almeno una volta. Sul palco. Con buio e luce. Mattia non si assolve, e non pretende di essere assolto. “A volte penso di aver ucciso anche per mancanza di parole. Non ne avevo per spiegarmi, non avevo alternative”. Parlerà della vendetta travestita da giustizia, della libertà che non è fare ciò che si vuole, ma sapere chi si è. Di un padre che si interroga se avere una figlia, nelle sue condizioni, sia stato un atto d’amore o di egoismo. Di un uomo che ha imparato a sentire gli altri - anche quando fa male - perché qualcuno, un tempo, si è interessato a lui. Cerca disperatamente il riscatto umano perché la vita, dopo gli sbagli, non deve finire. Costa fatica restare umani, farsi toccare profondamente dal dolore. Dai legami, dalle fratture, dalle separazioni, dai cambiamenti. “A volte penso ai miei genitori, a come questo percorso mi abbia portato lontano dall’ambiente in cui sono nato e cresciuto. È bello, perché sono un altro, ma è anche molto triste”. Il carcere, dice, non è sempre fuori. A volte è dentro. Dentro una società che corre, che dimentica, che giudica senza ascoltare. Nessuno può sapere cosa succede davvero quando si riapre il cancello. Ma a questo punto, Mattia ha conquistato la cosa più difficile: la possibilità di essere un uomo intero. Non libero, non colpevole, non assolto. Intero. E capace di restituire, parola dopo parola, la complessità del male. E il rischio fragile, coraggioso, di voler scegliere - stavolta - il bene. Torino. Cardinale Repole, battesimi in carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 11 luglio 2025 Tre detenuti adulti sono stati battezzati dall’Arcivescovo card. Roberto Repole sabato 5 luglio nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Originari della Nigeria, 28 anni, 32 e 38 anni, i tre giovani grazie all’incontro con i cappellani e alla partecipazione alla Messa settimanale, hanno maturato il desiderio “di riprendere un percorso di fede iniziato due anni fa”. Il tempo della pena, sebbene vissuto in contesti come le nostre carceri non adeguati alla rieducazione, in molti casi è l’occasione per rientrare in sé stessi e ricominciare percorsi mai finiti. Così è accaduto per tre ristretti al “Lorusso e Cutugno” che hanno ricevuto il sacramento del battesimo lo scorso sabato, durante una celebrazione presieduta nella cappella del penitenziario torinese dall’Arcivescovo card. Roberto Repole. Originari della Nigeria, 28 anni, 32 e 38 anni, i tre giovani che hanno appreso i rudimenti della fede cristiana nel loro Paese prima di emigrare in Italia e finire impigliati nella rete dell’illegalità, nel silenzio assordante delle loro celle, grazie all’incontro con i cappellani e alla partecipazione alla Messa settimanale, hanno maturato il desiderio “di riprendere un percorso di fede iniziato due anni fa”. Così racconta suor Alessandra Pulina, missionaria della Consolata, volontaria del Centro d’ascolto Caritas le “Due Tuniche in carcere che ha affiancato i cappellani nella preparazione dei tre catecumeni ogni settimana. “La celebrazione del Battesimo è stata il coronamento di un cammino alla scoperta del grande dono che il Signore ha operato in questi fratelli che hanno desiderato fortemente - come ha sottolineato l’Arcivescovo - marcare la loro vita con il sacramento che ‘segna una svolta, un passaggio di non ritorno, una rinascita’”. Un cambio di passo, un’inversione di marcia percepito nella commozione che ha caratterizzato tutta la celebrazione a cui è seguito un momento di festa autorizzato dalla direzione. Commossi i catechisti che hanno fatto da padrini e madrine ai tre battezzandi, commossi i compagni di sezione che hanno voluto partecipare alla Messa e che hanno seguito con attenzione tutti i segni della celebrazione - dalla consegna della luce alla veste bianca all’unzione con il crisma. Commossi anche gli agenti presenti. “Molto toccanti le parole del cardinale che hanno sottolineato come con il battesimo si volta pagina e per un detenuto è questo sacramento è ancora più significativo perché è come un passaggio verso la vera libertà” prosegue suor Alessandra “‘da oggi non siete più quelli di prima, oggi rinascete a nuova vita’ ha detto l’Arcivescovo spiegando il significato del sacramento e tutti hanno capito che stava accadendo qualcosa di speciale a questi tre fratelli”. Suor Alessandra ricorda come durante gli incontri di catechesi le domande dei tre catecumeni fossero numerose e profonde e come, man mano che il percorso proseguiva, il confronto con il Vangelo suscitasse nuovi interrogativi tanto che per facilitare la comprensione ad un certo punto la catechista e i tre ristretti hanno iniziato a parlare in inglese lingua ufficiale della Nigeria. “Per me oltre a creare un clima di fraternità che si consolidava di settimana in settimana è stata un’esperienza che mi ha rafforzato nella fede” ammette suor Pulina “perché parlare di Dio, di cosa è Dio per te, che cosa significa vivere la vita con fede ti mette a nudo e ti fa riflettere su cosa per te catechista significa essere figlia di Dio, su quando la Parola accompagna e dirige la tua vita. E certamente per come abbiamo vissuto questo tempo di grazia quando i tre giovani saranno in libertà faranno tesoro di questo cammino e la loro vita non sarà più quella di prima”. “Solo Dio può giudicarmi” è la frase che uno di loro ha tatuato sul corpo e che da sabato significa “Signore solo tu sei la mia salvezza”. Anche dietro le sbarre. Pnrr e Terzo settore: “Interventi sociali urgenti ma erogazioni a rilento” di Giulio Sensi Corriere della Sera, 11 luglio 2025 Lo stato di avanzamento finanziario dei progetti nelle misure di interesse per il Terzo settore non arriva al 25%. La quota di pagamenti già erogati per progetti destinati al supporto delle persone fragili è appena al 7,8%. In totale i progetti sono 284 mila. Gli enti del Terzo settore sono coinvolti in più di 4 mila progetti per un totale di 3,1 miliardi di euro e l’1,8% delle risorse previste dal Pnrr. Una delle misure più simboliche del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) prevedeva di ampliare di 264mila i posti negli asili nido, ma è stata ridotta a 150mila. Lo stato di avanzamento finanziario dei progetti nelle misure di interesse per il Terzo settore non arriva al 25%. La quota di pagamenti già erogati per progetti destinati al supporto delle persone fragili è appena al 7,8%. Sono solo tre fra i dati più scoraggianti relativi all’attuazione delle misure di interesse per il terzo settore nel Pnrr contenuti nel report “Il Pnrr a un anno dalla conclusione. Il punto del Terzo settore” realizzato dal Forum del Terzo Settore e dalla Fondazione Openpolis e presentato giovedì 10 luglio nella Sala Capranichetta di piazza Monte Citorio a Roma. È uno sguardo sui dati relativi al terzo settore nel contesto complessivo dell’attuazione del Pnrr che fra poco più di un anno, nell’agosto 2026, arriverà a scadenza. Il Forum Terzo settore - In totale i progetti attivi sono 284mila e il denaro incassato da risorse europee dall’Italia per concretizzarlo ammonta a 122 miliardi di euro su un totale di 194,4 miliardi. Dati accessibili a tutti e che appaiono tutto sommato positivi. Ma guardandoci dentro si scopre che i fondi per ora erogati e i progetti avviati sulle tematiche che riguardano il terzo settore, come il sociale, l’ambiente e le vulnerabilità, ammontano solo a 7 miliardi di euro su un totale previsto di 28 miliardi. I numeri mostrano con una certa precisione che in realtà siamo ancora indietro su alcuni obiettivi. “È un monitoraggio civico sul Pnrr - ha spiegato all’evento di presentazione la portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore Vanessa Pallucchi - e le nostre aspettative erano e sono alte. Come Forum del Terzo Settore facciamo una prima considerazione: la forbice divide la forma dalla sostanza. Il Pnrr non è una contabilità, ma deve rappresentare una trasformazione. Al divario Nord - Sud sono state destinate tutte le risorse previste, ma i dati sulla spesa effettiva mostrano un’Italia a due velocità, con il risultato migliore del Veneto, che ha visto erogati il 35% dei fondi assegnati, e quello peggiore della Calabria che si ferma al 13%. Con questo rapporto vogliamo dare un contributo utile affinché il Pnrr torni ad essere un’opportunità sia percepita sia sostanziale”. Stato d’attuazione - Il rapporto è andato ad analizzare in particolare lo stato di attuazione degli interventi nel 2024, lo stato dell’arte a maggio 2025 e tre aree tematiche: il sostegno alle persone vulnerabili, gli interventi per le persone senza fissa dimora e quelli per gli asili nido e le scuole per l’infanzia. “Dai dati emergono delle criticità - ha spiegato Chiara Meoli dell’Ufficio studi e documentazione del Forum Nazionale del Terzo -. Prima di tutto la difficoltà di integrazione degli enti del terzo settore nei meccanismi attuativi e quindi come la collaborazione fra istituzioni e terzo settore faccia ancora fatica ad affermarsi e sia troppo debole. In secondo luogo, come la spesa sia minore da quella programmata per il 2024”. Dato per il 2024 confermato anche dalla Corte dei Conti che nella sua relazione semestrale ha registrato come la spesa sia stata di circa 19 miliardi di euro, meno della metà di quanto programmato. Le risorse - Gli enti del Terzo settore sono coinvolti in più di 4mila progetti per un totale di 3,1 miliardi di euro e l’1,8% delle risorse previste dal Pnrr. “Che - ha aggiunto Chiara Meoli - deve avere una vena trasformativa ed essere percepito come una opportunità sostanziale”. Dal rapporto emerge come sui 58 investimenti economici che prevedono un totale di 28 miliardi da destinare alla realizzazione di progetti di interesse per il terzo settore siano stati erogati solamente 7 miliardi. Quelli che riguardano il servizio civile universale e le strutture sanitarie di prossimità territoriale sono a quasi completa erogazione, ma molto meno sull’ambiente (all’11,8%), sul sostegno alle persone vulnerabili (7,5%) e sulla parità di genere (4,7%). I nuovi posti previsti negli asili nido sono calati di 114.000 rispetto a quanto previsto. Fondazione Openpolis - “Le difficoltà sono condivise a livello europeo perché tutti i Paesi hanno presentato le proposte di modifiche al piano evidenziando i problemi di attuazione - ha spiegato Luca Del Poggetto della Fondazione Openpolis -. Alla luce di quello che emerge nel rapporto - ha aggiunto - sicuramente c’è necessità di rafforzare la governance multilivello, con maggiore coinvolgimento sia degli enti locali sia della società civile e il bisogno di un maggiore supporto per le amministrazioni più piccole e in difficoltà. Rimane la necessità di trasparenza e pulizia dei dati e sicuramente il terzo settore avrebbe potuto dare un contributo maggiore sia in fase di governance sia di realizzazione dei vari progetti. Questo apporto avrebbe potuto rappresentare un valore aggiunto”. Una richiesta, e un desiderio, che arriva anche dal Forum del Terzo settore. “Non chiediamo che si spendano in fretta le risorse - ha concluso Vanessa Pallucchi -, ma che si spendano bene, centrando gli obiettivi e rispettando i tempi. Ancora una volta, e proprio per garantire una ricaduta positiva e sostenibile delle risorse del Pnrr, auspichiamo che il Terzo settore, il cui potenziale risulta sottoutilizzato, sia maggiormente coinvolto”. La giustizia italiana si sta adoperando molto contro Ultima Generazione di Isaia Invernizzi ilpost.it, 11 luglio 2025 Negli ultimi tre anni sono stati avviati oltre 180 processi, di cui pochi conclusi con sentenze di condanna. Entro la fine della settimana un giudice del tribunale di Roma deciderà se condannare o assolvere due attivisti di Ultima Generazione accusati di aver violato il foglio di via, un provvedimento che gli impediva di tornare nel comune dove avevano partecipato a una protesta organizzata per sensibilizzare le persone sugli effetti del cambiamento climatico. A Carrara tre attivisti e un’attivista affronteranno un’udienza preliminare in un altro processo; all’inizio della prossima settimana altri undici attivisti saranno in aula a Milano. A settembre sono già in programma altre 13 udienze di altrettanti processi, a cui se ne aggiungeranno altre decine entro la fine dell’anno: sono solo una parte degli oltre 180 procedimenti giudiziari avviati negli ultimi tre anni, il segnale evidente di quanto la giustizia italiana sia impegnata a reprimere le azioni organizzate da gruppi e movimenti ambientalisti. Finora sono state fissate udienze di 72 processi, mentre altri 52 inizieranno nei prossimi mesi. Altri 58 sono già conclusi. I processi coinvolgono singoli attivisti, ma anche gruppi da oltre dieci persone. Le accuse sono tutte molto simili: vanno dalla violazione del foglio di via, al blocco stradale, all’interruzione di pubblico servizio, all’imbrattamento di monumenti e opere d’arte. Nelle indagini e nelle udienze sono coinvolte centinaia di persone tra investigatori, funzionari delle procure e dei tribunali, pubblici ministeri, giudici e avvocati. Ultima Generazione esiste in Italia dall’aprile del 2022 e si definisce una “campagna di disobbedienza civile nonviolenta”. Rispetto a movimenti ambientalisti come Extinction Rebellion (XR) e Fridays For Future (FFF), soprattutto nei primi anni ha scelto di seguire forme di protesta più radicali sia nel linguaggio che nelle azioni. Dall’estate del 2022, per esempio, gli attivisti hanno bloccato più volte il traffico sul Grande Raccordo Anulare di Roma e su molte altre strade in diverse regioni italiane. Hanno gettato vernice idrosolubile su opere d’arte all’interno dei musei, altre volte si sono incollati ai vetri di protezione delle opere esposte. Queste azioni, molto contestate da chi si trova a doverne subire le conseguenze (soprattutto gli automobilisti durante i blocchi stradali), sono organizzate per sensibilizzare la popolazione sulla necessità di intervenire il prima possibile per limitare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Negli anni Ultima Generazione ha presentato richieste puntuali al governo, come la chiusura delle centrali elettriche alimentate a carbone o maggiori investimenti sugli impianti che producono energia da fonti rinnovabili. Tuttavia il fine ultimo della mobilitazione non è tanto legato a questa o a quella misura, quanto a spingere l’opinione pubblica a considerare il cambiamento climatico un problema urgente, più centrale nel dibattito pubblico. Diversi esponenti del governo, in particolare il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, hanno detto più volte di voler reprimere queste proteste in modo più deciso. Nel gennaio del 2024 è stata approvata una legge che inasprisce le pene per chi danneggia opere d’arte e beni paesaggistici proposta dall’allora ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Nel decreto Sicurezza entrato in vigore lo scorso aprile invece sono state aumentate molto le sanzioni per chi partecipa a un blocco stradale: finora era prevista una multa che andava da mille a 4mila euro, ora è stata introdotta la reclusione fino a un mese, oltre a una multa fino a 300 euro. L’orientamento repressivo seguito dal governo contro gli attivisti del clima ha legittimato agenti di polizia e carabinieri a intervenire con più forza contro le proteste, in alcuni casi fino a usare la violenza. Agli arresti sono seguite centinaia di indagini aperte dalle procure: non è possibile sapere quante siano con precisione perché molte si sono chiuse senza nemmeno arrivare in tribunale. Dei 58 processi conclusi, 35 sono finiti con un’assoluzione, 11 con sentenze di non luogo a procedere, 12 con una sentenza di condanna in primo grado, a cui seguirà un processo di appello. L’impegno e lo stress di dover affrontare così tanti processi, oltre alle spese per pagare gli avvocati, hanno portato gli attivisti di Ultima Generazione a interrogarsi sulle modalità di protesta. Il problema è emerso in modo chiaro negli ultimi mesi, in cui il numero delle udienze ha superato quello delle azioni. La maggior parte dei fondi che l’organizzazione riceve dalle donazioni viene investita in spese legali, anche se molti avvocati hanno offerto assistenza legale gratuitamente. “Affrontiamo i processi con molta consapevolezza, e per noi le udienze non sono importanti solo perché cerchiamo di non finire in galera, ma anche per portare all’attenzione della giustizia dati che dimostrano la validità della nostra mobilitazione”, dice Simone Ficicchia, un attivista a cui è stata contestata la violazione di una decina di fogli di via. “Molti giudici riconoscono l’importanza di quello che facciamo”. Finora nessuno degli attivisti di Ultima Generazione è stato accusato di aver violato le norme inserite nel decreto Sicurezza. L’intervento del governo infatti è arrivato in ritardo rispetto al cambio di metodo già discusso e deciso all’interno del movimento, che da oltre un anno organizza più manifestazioni autorizzate, legali, e meno azioni radicali che rischiano di violare la legge, come i blocchi stradali. Le ronde “anti maranza” e la matrice neofascista: l’indagine è solo all’inizio di Marco Colombo Il Domani, 11 luglio 2025 Nove persone sono accusate a vario titolo di associazione per delinquere e istigazione a delinquere per aver organizzato e promosso le ronde anti-maranza a Milano e provincia. Dalle indagini della Digos emergono i legami tra alcuni indagati e movimenti neofascisti, in particolare con Forza Nuova.Ora hanno un volto e un nome gli ispiratori delle ronde anti maranza. E c’è anche una matrice nera su tutta questa storia. Ci sono, infatti, i primi indagati che negli scorsi mesi, organizzandosi su social ed app di messaggistica, si sono rese protagoniste di violenti pestaggi ai danni di cittadini stranieri. La Polizia di Stato ha eseguito nove perquisizioni nelle province di Milano, Pavia, Monza e Brianza e Como nei confronti di altrettante persone sospettate di far parte del gruppo “Articolo 52”. Gli indagati, tutti cittadini italiani di età compresa tra i 23 e i 49 anni, sono indagati a vario titolo per il reato di associazione per delinquere e istigazione a delinquere. Le perquisizioni arrivano a quattro mesi dal primo episodio, risalente ai primi di marzo, quando sulla neonata pagina di “Articolo 52” era spuntato il video di un pestaggio ai danni di un ragazzo straniero accusato dal gruppo di aver rubato una collanina. Dopo quella vicenda erano iniziate le indagini della Digos che avevano portato nel giro di pochi giorni alla chiusura dei canali Telegram utilizzati dal gruppo. L’attività di indagine, proseguita incessantemente, ha permesso di ricostruire la struttura del sodalizio originario composto prevalentemente da persone residenti nell’hinterland milanese. Il quadro che emerge sembra indicare l’esistenza di una vera e propria associazione stabile, con ruoli ben definiti al suo interno: c’era chi si occupava della logistica delle “ronde”, chi curava la parte mediatica, e chi fungeva da collegamento operativo tra i membri. Le comunicazioni interne erano mantenute tramite profili Telegram anonimi, ma gli investigatori sono riusciti a risalire all’identità degli amministratori principali, anche attraverso il sequestro di dispositivi e account social. Tra i nove indagati figura un ex steward, un operaio e almeno due individui noti nell’ambiente dell’estrema destra lombarda. Uno di loro, in particolare, era già salito alla ribalta alcuni mesi fa per aver partecipato come ospite, a volto coperto e con nome di fantasia, alla trasmissione radiofonica La Zanzara, dove rivendicava i pestaggi e invocava maggiori poteri per le forze dell’ordine, viste come possibili alleate contro i maranza. Nelle perquisizioni sono stati rinvenuti bastoni telescopici, spray al peperoncino e caschi utilizzati, si ipotizza, per le spedizioni punitive. Ora i magistrati potrebbero valutare anche la sussistenza di reati legati all’istigazione all’odio e alla discriminazione razziale. I legami con la destra - Oltre alle responsabilità nei pestaggi e nell’organizzazione delle ronde, l’inchiesta della Digos mette per la prima volta nero su bianco la matrice del gruppo: alcuni degli indagati sarebbero, infatti, “appartenenti all’area ideologica dell’estremismo di destra”. Una ricostruzione che smentirebbe i proclami dei membri del gruppo che sui social e in alcune interviste avevano sempre dichiarato la loro estraneità a qualsiasi ambiente politico. “Noi non seguiamo nessun movimento politico - aveva dichiarato uno degli indagati in un’intervista radiofonica - siamo solo padri di famiglia stufi di questa situazione”. Dichiarazioni che sembrano essere poco credibili alla luce di quanto fatto emergere dagli inquirenti che, anzi, evidenziano come “alcuni degli indagati abbiano anche partecipato a presidi, quale quello organizzato dal movimento di estrema destra Forza Nuova, contro degrado e immigrazione”. Le ronde nere “anti-maranza” finiscono dunque ora al centro delle indagini delle forze dell’ordine a quattro mesi esatti dall’inizio del fenomeno comunicato con un violento pestaggio la notte tra l’8 e il 9 marzo. Proprio con quella spedizione punitiva, può essere datata la nascita del movimento chiamato dagli stessi membri “Articolo 52”. Il nome richiama il diritto costituzionale alla legittima difesa, ma il gruppo lo interpreta in chiave offensiva: pattugliamenti notturni, pestaggi e slogan militareschi. “Un’interpretazione evidentemente distorta del dettato costituzionale”, insomma, come evidenziato anche dalla Questura. Ma sui social la pagina del gruppo si diffonde in fretta. Il video del primo pestaggio diventa virale e le migliaia di condivisioni portano presto nuovi follower. Il movimento assume così nel giro di pochi giorni dimensioni preoccupanti. Tutto ruota attorno a un linguaggio bellico: pulizia, onore, patria, ronde. I gruppi diventano luogo di reclutamento e propaganda, non solo di sfogo. Il 12 marzo arriva la svolta: viene organizzata una riunione su Zoom per organizzare le successive spedizioni, di cui Domani aveva dato conto nei dettagli. Durante la chiamata si discute della possibilità di creare nuclei locali in altre città, si condividono grafiche pronte all’uso, la bozza di un manifesto e si definiscono strategie comunicative e le regole di ingaggio. Oltre un’ora di confronto a cui, però, partecipano anche agenti della Digos che hanno potuto osservare e monitorare i tentativi del movimento trasformarsi in una vera e propria rete di picchiatori strutturata a livello nazionale. Di pestaggi documentati sui social, alla fine, se ne contano tre ma non è da escludere è che i casi possano essere più numerosi e che le immagini non siano state diffuse a causa della crescente attenzione mediatica ed investigativa. L’Invalsi scopre l’acqua calda: la colpa del disastro è la scarsa integrazione degli studenti migranti di Alex Corlazzoli* Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2025 Invalsi sembra dire: la scuola va male a causa dei migranti. Forse meglio affermare: la scuola italiana non ha ancora le competenze per accoglierli. Il divario tra Nord e Sud aumenta, le competenze degli allievi che passano dalle medie alle superiori diminuiscono, ma “finalmente” l’Invalsi ha trovato il “colpevole” del disastro della scuola italiana: la mancata integrazione degli studenti migranti. Ci voleva un governo di destra con un ministro dell’Istruzione e del Merito leghista per far sì che il presidente Roberto Ricci & company dichiarassero senza problemi che “necessariamente la frequenza di allievi e allieve che prima abbandonavano la scuola rende la popolazione generale più complessa e con più allievi/e con livelli di apprendimento più bassi. Di conseguenza si ha un effetto sugli esiti medi che tendono a contrarsi nel tempo”. Aggiunge Invalsi: “L’effetto è chiaramente visibile già a sette-otto anni, dove la presenza di alunni con provenienze molto diverse conseguono risultati molto eterogenei tra di loro”. Per la prima volta l’Invalsi non misura solo la febbre - come ha sempre detto - ma azzarda una diagnosi e persino una cura: “La sfida è quella di adottare strategie che consentano di accogliere una quota di coloro che prima abbandonavano la scuola e che ora la frequentano senza che questo si rifletta sui risultati degli altri studenti/delle altre studentesse”. Attenzione. Invalsi sembra dire: la scuola va male a causa della presenza dei migranti. Forse meglio affermare: la scuola italiana non ha ancora le competenze per accogliere la popolazione migrante. Ricci & company, infatti, scoprono l’acqua calda e ce la vendono pure come a Napoli fanno per l’aria in bottiglia. Chi fa l’insegnante sa bene che da anni è così: le ore di alfabetizzazione primaria sono insufficienti; mancano mediatori linguistici e culturali; sono sparite da anni le compresenze; non c’è formazione sul tema. Il tutto spesso si risolve con una bella “carta” da mettere nel cassetto perché tutti abbiano l’anima in pace: un bel pdp, un piano didattico personalizzato. Ciò che dice Invalsi sulla complessità della popolazione è vero: può accadere di dover fare lezione ad un gruppo di autoctoni con problemi vari (Bes, Dsa); a un indiano che a metà anno si assenta per un paio di mesi per tornare “a casa”; a un tunisino da poco arrivato in Italia; a una cinese in Italia dalla nascita ma che parla meglio la sua lingua che la nostra; a un marocchino che sa l’italiano meglio degli alunni italiani; a un rom che è migrato dalla Germania all’Italia. Come si fa? Si fa quel che si può, questa è la verità che dobbiamo ammettere. Anni fa mi arrivò in classe quinta un ragazzino afgano di dieci anni arrivato nell’epoca in cui fuggivano per l’arrivo dei talebani. Non sapeva una sola parola di italiano. Chiesi un mediatore linguistico per lui. Nulla. Mi procurai, allora, una ragazza che veniva in forma volontaria a scuola per aiutarlo a comprendere meglio le lezioni. L’Invalsi lo scopre ora, ma dobbiamo dircelo con franchezza: l’integrazione nel nostro sistema scolastico dei ragazzi migranti è scarsa e a pagarne le conseguenze spesso non sono solo gli studenti che arrivano da altri Paesi, ma gli italiani. Dimostrazione di questo è la bocciatura alla maturità del ragazzo pakistano: quel giovane è arrivato in Italia cinque anni fa, ha seguito i corsi per i cosiddetti nuovi arrivati ma non ce l’ha fatta. *Maestro e giornalista Oltre 2 milioni di “neet”: in Italia il record di giovani che non lavorano né studiano di Claudia Voltattorni Corriere della Sera, 11 luglio 2025 Nasce “Dedalo”, osservatorio dei “giovani non invisibili”. Rosina: “È un’emergenza, non bisogna sprecare neanche un giovane”. Dopo i 30 anni percentuale “neet” donne il doppio degli uomini. “Non bisogna sprecare neanche un giovane”, dice il professor Alessandro Rosina, demografo e docente di Statistica sociale all’Università Cattolica di Milano e coordinatore dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo. Perché “lasciare i giovani in una condizione di neet, ha conseguenze su tutto il sistema Paese e investire sui giovani è la cosa migliore che un Paese possa fare”. Neet, Italia peggiore d’Europa (dopo la Romania) - In Italia nel 2024 sono oltre 2 milioni i giovani - fascia 15-34 anni - che non studiano né lavorano: vengono chiamati “neet”, acronimo di “Not in Education, Employment or Training” e l’Italia registra una delle percentuali più alte d’Europa. Nella fascia 15-29 anni sono il 15,2%. Peggio dell’Italia solo la Romania con il 19,4%. La media Ue è dell’11% e l’obiettivo per il 2030 è di arrivare al 9%. Nel 2020, anno della pandemia era stato raggiunto il picco con il 23,7%. L’Europa da reinventare. Ora o mai più di Franco Corleone L’Espresso, 11 luglio 2025 L’Europa è stretta tra guerre terribili, nel cuore del continente quella dell’Ucraina invasa dalla Russia di Putin e nel Mediterraneo quella dello stermino a Gaza da parte di Israele. Per non parlare dello spappolamento della Siria e della Libia, della persecuzione infinita del popolo curdo e dell’attacco alle istituzioni rappresentative in Turchia con arresti e censure. Non vanno trascurate le guerre economiche e sui dazi, la crisi della Nato e l’allentamento del rapporto storico con gli Stati Uniti. In una situazione ancora più drammatica, nel clangore della seconda guerra mondiale, negli anni 1941 e 1942, con il nazismo che occupava uno dopo l’altro tutti i Paesi europei, alcuni militanti antifascisti imprigionati dell’isola di Ventotene iniziarono un processo di ripensamento critico del passato e degli errori compiuti, ma soprattutto una ricerca di una idea originale, quella di un ordinamento federale dell’Europa. Questa priorità assoluta era fondata sugli sconvolgimenti provocati in tanti paesi dall’occupazione tedesca, dalla necessità della ricostruzione di una economia distrutta, dal ripensamento dei confini politici, delle barriere doganali, delle minoranze etniche, delle questioni dello “spazio vitale” e della “indipendenza nazionale”. Il testo, noto come il Manifesto di Ventotene, scritto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi era nato da una discussione con Eugenio Colorni e con il contributo di Ursula Hirschmann e altri esponenti di una minoranza estrema. Il titolo originale era “Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto” ed era composto da tre capitoli: il primo La crisi della civiltà moderna, il secondo Compiti del dopoguerra. L’unità europea, il terzo Compiti del dopoguerra. La riforma della società. Fu pubblicato a Roma nel gennaio 1944 con il titolo Problemi della Federazione Europea con la prefazione, non firmata, di Eugenio Colorni e con le iniziali A.S e E.R. come autori. Colorni sottolineava che questo ideale che poteva apparire “lontana utopia ancora qualche anno fa”, rappresentava invece una impellente, tragica necessità e stabiliva i punti essenziali di una libera Federazione Europea elaborati da un Movimento che aveva operato nella clandestinità sotto l’oppressione fascista e nazista e impegnato nella lotta armata per la libertà: esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli stati appartenenti alla Federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica. Nel maggio 1944 Ernesto Rossi pubblicò a Lugano con la firma Storeno un volume intitolato Gli Stati Uniti d’Europa come primo quaderno delle Nuove edizioni di Capolago, con la dedica a “Leone Ginzburg e a Eugenio Colorni, capi del Movimento Federalista Europeo in Italia che durante l’occupazione tedesca di Roma, hanno fatto olocausto della loro vita per la nascita della nuova Europa”. Questo saggio pubblicato quasi contemporaneamente al Manifesto di Ventotene offre approfondimenti politici importanti e precise indicazioni sull’organizzazione federale, sul rapporto con la Germania (Rossi stigmatizzava il fatto che l’intero popolo tedesco fosse considerato maledetto, degno di una punizione eterna) e con l’Inghilterra, sulla posizione della Russia e indicava la necessità di un nucleo promotore ristretto. La generosa utopia degli Stati Uniti d’Europa viene da lontano; Giacomo Matteotti nel 1923 scriveva un appello ai partiti socialisti europei perché fosse superata “la frammentazione nazionalista in infiniti piccoli Stati turbolenti e rivali”. Carlo Rosselli pubblicava sui Quaderni di Giustizia e Libertà del 17 maggio 1935 un saggio di straordinario acume intitolato “Europeismo o fascismo” sull’urgenza di fronte al trionfo nazista di trovare “un’altra passione più potente, giusta e lucida” per battere la Germania e darsi un concreto obiettivo politico. Rosselli rispondeva alle probabili accuse di utopismo così: “Le utopie dell’oggi possono essere le realtà del domani. I movimenti rivoluzionari, che ancora si attardano alla politica dell’ieri, debbono osare una politica anticipatrice, la politica del domani”. E non aveva paura di essere considerato un pazzo. Occorreva indicare alle masse un grande obiettivo positivo: “Fare l’Europa. Ecco il programma. All’infuori di ciò non esiste possibilità di vera pace e disarmo; non si sfugge alla miseria e alla crisi… La sinistra europea dovrebbe impadronirsi di questo tema abbandonato ai diplomatici. Prospettare loro sin d’ora la convocazione di una assemblea europea, composta di delegati eletti dai popoli, che in assoluta parità di diritti e di doveri elabori la prima costituzione federale europea, nomini il primo governo europeo, fissi i principi fondamentali della convivenza europea, svalorizzi frontiere e dogane, organizzi una forza al servizio del nuovo diritto europeo, e dia vita agli Stati Uniti d’Europa”. La conclusione era lapidaria: “Eppure, in questa tragica vigilia, non esiste altra salvezza. Stati Uniti d’Europa. Assemblea europea. Il resto è flatus vocis. Il resto è la catastrofe”. Che fare? L’assenza di un pensiero forte come quello di Luigi Einaudi nel 1946 sui problemi economici della Federazione europea e il ricordo della polemica di Ugo La Malfa contro De Gaulle e la concezione dell’Europa delle patrie mostrano una fotografia desolante. La afasia totale è segno di una mediocrità intollerabile. Per evitare un fallimento catastrofico sarebbe indispensabile proporre un referendum consultivo come nel 1989 a favore di una Costituzione europea. Bosnia. Trent’anni di silenzio su Srebrenica: perché la giustizia è ancora lontana di Nataša Kandi?* Avvenire, 11 luglio 2025 Le istituzioni continuano a ignorare le responsabilità dello Stato nel massacro di musulmani, ma la società civile non dimentica e le organizzazioni per i diritti umani oggi commemorano le vittime. In Serbia il trentesimo anniversario del genocidio di Srebrenica non sarà diverso da tutti quelli che l’hanno preceduto. I politici e i rappresentanti istituzionali del mio Paese rimarranno ancora una volta in silenzio e si guarderanno bene dal riconoscere le colpe dello stato. Con le organizzazioni della società civile e molti miei connazionali organizzeremo però una serie di iniziative per commemorare le vittime e per la prima volta faremo pubblicare su “Danas”, il principale quotidiano serbo, l’elenco completo con i nomi delle 8.372 persone che sono state uccise o risultano scomparse nei giorni del genocidio del 1995. Sarà il nostro omaggio silenzioso alle vittime e occuperà sedici pagine del giornale nell’edizione di oggi, 11 luglio. Non dobbiamo inoltre scordarci che, a trent’anni dalla fine della guerra, in Bosnia ci sono ancora circa ottomila persone disperse, circa un migliaio delle quali nella sola area di Srebrenica. A Belgrado il nostro Centro per il diritto umanitario continua a raccogliere le prove dei crimini di guerra commessi nei Balcani negli anni 90. Adesso stiamo cercando di trasformare l’organizzazione in un centro di documentazione indipendente sulla giustizia e la memoria. Il nostro compito principale sarà quello di pubblicare analisi e rapporti relativi a ciò che è accaduto in passato, basati sia sulle nostre ricerche che sui documenti e le sentenze del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia. Purtroppo però, da quando Aleksandar Vu?i? è salito al potere la situazione politica in Serbia è cambiata radicalmente. All’inizio pensavamo che avesse cambiato le sue opinioni (in gioventù Vu?i? è stato un ministro del governo di Milosevic, ndr) e avesse compreso l’importanza di stabilire buoni rapporti con i Paesi vicini, riconoscendo tutte le vittime e mettendo da parte le sue idee nazionaliste per la creazione di una Grande Serbia. Era stato lui a illuderci, subito dopo essere salito al potere, sostenendo che all’epoca era giovane, ma adesso vedeva il futuro in una prospettiva diversa. Anche la situazione politica globale appare profondamente cambiata da allora. Gli Stati Uniti sono diventati un Paese completamente diverso da quello che avevamo conosciuto in passato. Non è più il Paese dei diritti civili e questo condiziona inevitabilmente il resto del mondo. Anche l’Unione Europea pare avere nuove priorità che fatichiamo a comprendere perché talvolta appaiono lontane dagli stessi valori fondativi dell’Europa. Il tema della riconciliazione nei Balcani non rientra più tra queste priorità e i rappresentanti dell’UE non sembrano più interessati a promuoverlo. Eppure, se teniamo conto delle esperienze di altre società post-belliche, sappiamo bene quanto il passato sia importante. Sappiamo bene che senza fare tutti gli sforzi necessari per comprendere il passato sarà molto difficile stabilire buoni rapporti tra i popoli di questa regione. Personalmente non mi preoccupo dei violenti attacchi che continuo a ricevere da alcuni politici del mio Paese. C’è stato persino qualcuno che ha persino minacciato di farmi arrestare sostenendo che avrei accusato la Serbia di essere una nazione genocida, proprio con riferimento a quanto accadde trent’anni fa a Srebrenica. Io non ho mai detto che il popolo serbo è un popolo genocida: ho cercato soltanto di far presente che esistono molte sentenze del Tribunale penale dell’Aja per la ex Jugoslavia, della Corte internazionale di giustizia e persino di molti tribunali nazionali, in particolare in Bosnia Erzegovina, che hanno accusato lo stato serbo sulla base delle gravi prove raccolte a Srebrenica e altrove. A tre decenni dalla firma dell’Accordo di pace di Dayton le relazioni tra i paesi balcanici restano molto difficili. Quell’accordo è servito a fermare i massacri ma non a garantire relazioni amichevoli tra tutti i Paesi dell’area. La situazione non è molto diversa rispetto a trent’anni fa, sia perché la comunità internazionale ha fatto ben poco per promuovere la riconciliazione, sia perché molti degli attuali leader politici dei Balcani sono gli stessi dei tempi della guerra. Direi che oggi il clima politico risulta persino peggiore di quello che precedette lo scoppio della guerra. *Presidente dell’Humanitarian Law Center di Belgrado Stati Uniti. I raid degli agenti anti-immigrazione in chiese e ospedali di Roberto Festa Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2025 Se a Los Angeles, almeno per il momento, si sono placati proteste e disordini, il caos è esploso nelle fattorie, aree dove fino a un paio di mesi fa gli agenti dell’ICE evitavano di avventurarsi. E anche la chiesa è costretta ad attrezzarsi. Dispensa dalla messa della domenica. È quanto il vescovo di San Bernardino, Alberto Rojas, concede ai suoi fedeli. “C’è una paura reale che attanaglia molti nelle nostre comunità” spiega Rojas, che racconta di suoi parrocchiani prelevati dagli agenti dell’immigrazione la domenica, mentre andavano a messa. “Voglio che le nostre comunità di immigrati sappiano che la Chiesa è al loro fianco e cammina con loro in questo momento difficile”, continua Rojas, che lascia ai fedeli non in regola con il visto la possibilità di saltare la messa. È una decisione clamorosa, che dà il senso del terrore che i raid degli agenti dell’immigrazione stanno diffondendo in California e in vaste aree degli Stati Uniti. I migranti undocumented non escono più di casa. Non mandano più i loro figli a scuola. Evitano di farsi ricoverare in ospedale. Si tengono lontani dai centri commerciali. Ora sono dispensati dalla messa. Gli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) si nascondono del resto ovunque. Potrebbero saltar fuori all’improvviso e arrestarli, incatenarli, deportarli nel giro di poche ore. Con un milione e mezzo di fedeli, San Bernardino è la quinta diocesi cattolica negli Stati Uniti e la seconda, dopo Los Angeles, in California. L’area ha una nutrita popolazione ispanica. Nella contea di Riverside, dove sorge San Bernardino, il 52,5 degli abitanti è di origine ispanica. Rojas, che è nato e cresciuto ad Aguascalientes, in Messico, non è nuovo a prese di posizione in tema di immigrazione. Lo scorso giugno aveva parlato di azioni “contrarie al Vangelo di Cristo”, chiedendo il “rispetto di diritti umani e dignità” per persone che “hanno dato un contributo positivo alle loro comunità” e che non chiedono altro che di essere regolarizzate. Rojas non è solo nella sua battaglia. In maggio la diocesi di Nashville, Tennessee, aveva esentato i fedeli dall’obbligo della messa domenicale per la medesima ragione: gli appostamenti fuori delle chiese da parte degli agenti dell’ICE. La diocesi della contea di Orange, pur non avendo formalmente esentato i fedeli dalla messa, ha attivato un servizio di preghiere e comunioni a domicilio. E l’arcidiocesi di Los Angeles ha stilato un decalogo di cose che i migranti devono fare, se fermati. I suoi avvocati forniscono assistenza alle persone, nel caso di udienza di fronte a un giudice. ?La Chiesa cattolica americana si attrezza, come può, per arginare le tattiche sempre più aggressive dell’amministrazione. La Corte Suprema, nelle ultime settimane, ha offerto a Donald Trump una serie di vittorie giudiziarie: dalla possibilità di espellere migliaia di persone che hanno sinora goduto di protezione umanitaria negli Stati Uniti al consenso alle deportazioni di migranti in Paesi terzi, dove violenze e tortura sono una realtà conclamata. Il via libera della maggioranza conservatrice della Corte ha incoraggiato le politiche anti-immigrazione. Raid e arresti da parte degli agenti dell’ICE si sono moltiplicati. Presi di mira sono appunto chiese, ospedali, scuole, centri commerciali ma anche le aziende agricole, la cui manodopera è in larga parte straniera. Si intensificano anche gli arresti davanti ai tribunali, dove i migranti si presentano per discutere i loro casi. Sino a qualche mese fa, l’ICE preferiva non intervenire davanti alle aule di giustizia, nel timore che gli illegali smettessero di presentarsi alle udienze ed entrassero nella totale clandestinità. Recentemente, sono iniziati gli arresti anche davanti alle corti. Agenti mascherati prelevano i migranti, per poi deportarli senza che si sia concluso il loro iter giudiziario. Di recente, davanti ai tribunali di San Francisco e Concord sono scoppiati incidenti tra la polizia e gli attivisti che cercavano di bloccare gli arresti. A San Francisco un SUV con a bordo un giovane migrante si è lanciato tra la folla, mentre gli agenti usavano manganelli e pepper spray. La California resta per l’appunto l’area più calda. Se a Los Angeles, almeno per il momento, si sono placati proteste e disordini, il caos è esploso nelle fattorie. Sono aree dove, fino a un paio di mesi fa, gli agenti dell’ICE evitavano di avventurarsi. Ora i raid sono iniziati anche lì. La situazione è particolarmente grave nella Central Valley, da dove arriva il 40 per cento della frutta e della verdura che si consuma negli Stati Uniti e dove l’80 per cento dei lavoratori è undocumented. Molti di questi, per il terrore di essere arrestati, non vanno più al lavoro. Pesche, pesche noci, susine, albicocche marciscono sugli alberi, mentre crescono proteste e indignazione di molti imprenditori, colpiti nei loro affari e profitti dalle politiche di un presidente che, peraltro, molti di loro hanno votato. Le associazioni di farmers danno ai migranti una serie di suggerimenti per evitare l’arresto. Le aziende agricole sono luoghi ancora relativamente sicuri. Per entrarci, gli agenti hanno bisogno di un mandato, difficile da ottenere. La vera minaccia si nasconde per le strade, dove gli agenti attendono i lavoratori. Il consiglio è togliersi cappelli e bandane, che li identificano immediatamente come braccianti usciti. E ancora, modificare ogni giorno il percorso da e per il lavoro e viaggiare solo ed esclusivamente con persone conosciute. Se ci si sposta dai campi di frutta e verdura alle università, cambiano i soggetti presi di mira, non le tattiche di dubbia legalità. Nel corso di un’udienza in una corte federale di Washington, un funzionario del Department of Homeland Security, Peter Hatch, ha affermato che l’immigrazione USA si serve dei dati presenti sul database online di Canary Mission per identificare studenti e professori stranieri da deportare. Canary Mission è un gruppo dal profilo piuttosto opaco. Non si sa chi sia a dirigerlo, da dove riceva i suoi finanziamenti, dove sia localizzato. Si conosce invece il suo scopo: rendere pubblici nomi, fotografie, dettagli personali di chi promuoverebbe “l’odio verso gli Stati Uniti, Israele e gli ebrei nei campus universitari nordamericani”. Dallo scorso marzo, Canary Mission espone pubblicamente chi nei campus manifesta contro la guerra a Gaza e che, essendo straniero, potrebbe essere deportato. Il sito nega di aver rapporti con il Department of Homeland Security, che comunque ha usato i suoi dati per procedere all’arresto di una mezza dozzina di ricercatori, bruscamente strappati alle loro case e università da agenti mascherati.