“Garantire e tutelare le esperienze di libera informazione nelle carceri” odg.it, 10 luglio 2025 L’Ordine dei Giornalisti approva documento proposto dai Consiglieri Pallotta e De Robert: “Tutelare i giornali dove collaborano i detenuti”. Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, nella seduta del 9 luglio 2025, ha approvato il seguente Ordine del giorno. Il carcere in Italia rischia di allontanarsi dai principi costituzionali e dalla legislazione: un luogo spesso poco trasparente dove talvolta le regole democratiche faticano a trovare attuazione. Il Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere di recente ha denunciato diversi episodi di ostacoli che sono stati frapposti all’attività dei laboratori di scrittura nelle carceri finalizzata alla pubblicazione di periodici realizzati dalle persone private della libertà. Ostacoli non di poco conto, come per esempio, controlli preventivi sugli scritti da pubblicare o il divieto di acquisti di libri, come è accaduto con il testo “Un’altra storia inizia qui” dell’ex Presidente della Corte costituzionale nonché già Ministra della giustizia Marta Cartabia. Ne riportiamo qui di seguito alcuni relativi a diversi giornali di carcere. Nella Casa di reclusione di Roma Rebibbia, dove si pubblica il giornale “Non tutti sanno”, frutto del laboratorio condotto da un giornalista professionista, in un primo tempo la Direzione ha comunicato che la persona detenuta autore dell’articolo dovesse richiedere autorizzazione per poterlo firmare con nome e cognome, visto che la pubblicazione degli articoli era prevista con le iniziali del nome e cognome, nome di fantasia o di battesimo. Solo recentemente, il diritto alla firma con nome e cognome è stato finalmente riconosciuto. Nella Casa circondariale di Lodi, la Direzione dell’Istituto “chiede” una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di “Altre storie” e pubblicati dal quotidiano della città Il Cittadino e di entrare nel merito della scelta degli argomenti da trattare, vietando temi sensibili come, per esempio, quello dell’immigrazione. Nella Casa circondariale di Ivrea, il 15 giungo 2025, mesi di sospensione “tecnica” del giornale “La Fenice”, edito dall’Associazione Rosse Torri, sospensione imposta dalla Direzione, la stessa ne ha deciso la chiusura, ha annullato gli incontri, bloccato i computer e sospeso l’autorizzazione all’ingresso in carcere ai volontari che portavano avanti il laboratorio. Nella Casa circondariale di Lodi, dopo dieci anni di presenza in carcere come volontario, non è stata rinnovata l’autorizzazione all’ingresso al Direttore del periodico “Non solo dentro”. Guarda caso, successivamente alla pubblicazione di articoli che evidenziavano una serie di criticità della realtà penitenziaria. Si tratta di episodi che, tuttavia, non sono rimasti isolati e il controllo preventivo sugli scritti degli autori detenuti rischia di fare scuola. Si tratta di fatti lesivi dei diritti delle persone private della libertà personale in contrasto con le regole democratiche che il nostro Paese si è dato. L’articolo 21 della Costituzione sancisce, infatti, che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e con ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazione o censure”. Nello specifico, inoltre, l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario al comma 8 prevede che “Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento”. Alla luce di tali fatti, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti esprime preoccupazione e chiede al Ministro della giustizia e al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di adottare gli opportuni interventi per garantire il pieno diritto alla libera informazione delle persone detenute che partecipano alle attività delle redazioni, coscienti anche della finalità rieducativa che le stesse svolgono in una prospettiva costituzionalmente orientata della pena. Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti continuerà a monitorare la situazione in stretto contatto il con Coordinamento dei giornali e delle altre realtà dell’informazione e della comunicazione sulle pene e sul carcere. L’anno del decreto legge “Carcere sicuro” di Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane camerepenali.it, 10 luglio 2025 L’amaro e pur prevedibile destino del decreto “Carcere sicuro” a un anno di distanza dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. È trascorso appena un anno dalla tanto attesa conferenza stampa del Ministro della Giustizia in cui si annunciava un decreto-legge chiamato “Carcere sicuro”. Un provvedimento, per usare le parole del ministro Nordio, “vasto e strutturale che affronta in modo organico un altro settore del sistema dell’esecuzione penale… frutto di una visione del governo Meloni, condivisa dai nostri sottosegretari, che sul punto di vista della Giustizia è orientata essenzialmente su quello che potremmo chiamare umanizzazione carceraria”. Un decreto che avrebbe dovuto, secondo i proclami a reti unificate, ridurre il sovraffollamento, arrestare la spirale violenta dei suicidi, dare, insomma, una boccata d’ossigeno al carcere attraverso una varietà di interventi: - facilitare il trasferimento dei detenuti dal carcere alle comunità di accoglienza; - trasferire fino a 10.000 detenuti stranieri nelle carceri dei loro paesi; - semplificare la liberazione anticipata, in maniera da sgravare il lavoro degli uffici di sorveglianza, dando maggiore certezza al maturare del beneficio in corso di esecuzione pena; - modificare la disciplina in materia di colloqui telefonici dei detenuti, ampliando le condizioni di fruibilità e il numero degli stessi. Il tutto attraverso l’impegno ad adottare regolamenti attuativi sia in materia di comunità residenziali per accogliere detenuti al di fuori delle carceri, sia in materia di colloqui telefonici, entro il termine di sei mesi dall’adozione del decreto. Siamo giunti al primo anno di vigenza del DL 92/204 cd. carcere sicuro, nel frattempo convertito in legge 112/2024, eppure ad oggi non vi è nessuna traccia del regolamento che avrebbe dovuto formare l’elenco, sui territori, delle comunità residenziali di accoglienza per detenuti e disciplinarne il loro operare, così come del regolamento sulle telefonate. Il sovraffollamento invece che ridursi è aumentato, passando dal 130% (3 luglio 2024) a poco più del 134% (30 maggio 2025). Le presenze nelle carceri, nello stesso periodo, sono aumentate (da 61.509 a 62.722 detenuti). La capienza disponibile, nonostante i proclami sul lavoro del Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, è addirittura scesa, da 47.003 a 46.706 posti disponibili. Il numero di stranieri trasferiti negli Stati di appartenenza, dal dato previsionale di 10.000 si è ridotto ad appena 463 espulsi. Per non parlare del dato crescente di suicidi (78 dal 4 luglio ad oggi) e dei morti per diverse cause o da accertare (67 nello stesso periodo). La burocratizzazione della liberazione anticipata ha reso ancora più farraginoso il meccanismo di accesso alla misura e più incerta la sua concessione; ha determinato una varietà di interpretazioni nella magistratura di sorveglianza e una sostanziale diseguaglianza tra gli aventi diritto; ha svilito le caratteristiche premiali e incentivanti dell’istituto in chiave trattamentale e risocializzante, ingolfando gli uffici di sorveglianza, carenti di risorse umane e materiali e sempre più inidonei a rispondere tempestivamente alle istanze di un bacino di utenti sempre più vasto. Almeno due sono le ordinanze di rimessione alla Consulta della nuova liberazione anticipata trasmesse dai magistrati di sorveglianza di Napoli e di Spoleto, con chiare questioni di illegittimità costituzionale del DL 92/2024 da noi più volte denunciate. Scorgevamo bene, da subito, le incongruenze e le assurdità del tanto strombazzato Decreto “carcere sicuro” e degli effetti nocivi riversati sul già deficitario sistema dell’esecuzione penale. Non è, purtroppo, una novità l’uso strumentale e propagandistico di un concetto di “sicurezza” del tutto astratto e disancorato dalla realtà che si nutre di slogan e non si misura con i problemi che solo a parole afferma di voler risolvere. Siamo, però, ben oltre le nostre negative previsioni, nonostante proprio ad un anno di distanza, il Ministro della Giustizia, rispondendo ad una interrogazione parlamentare, abbia rivendicato le “risposte straordinarie ed energiche all’emergenza del sovraffollamento ma anche soluzioni adeguate, proporzionali e lungimiranti ai problemi strutturali, trascinati da anni, del sistema penitenziario”, date dal Governo Meloni con il DL che ha compiuto l’anno. Nell’indifferenza della politica e del Governo si consuma, giorno dopo giorno, il dramma umanitario nelle carceri. Suicidi, abusi, sovraffollamento: il carcere italiano ha fallito di Davide Traglia vdnews.it, 10 luglio 2025 Dovrebbe rieducare ma oggi è un contenitore di marginalità. Non basta aggiustarlo, il sistema va ripensato da capo. Nelle ultime settimane, il carcere La Dogaia di Prato è tornato al centro della cronaca a causa di gravi episodi di violenza sessuale fra detenuti. In un caso, un recluso sarebbe stato minacciato con un rasoio e costretto a subire abusi. In un secondo episodio, due detenuti avrebbero sottoposto un giovane tossicodipendente, alla sua prima esperienza in carcere, a giorni di torture e stupri. Secondo le indagini, la vittima sarebbe stata brutalizzata con mazze, pentole bollenti, pugni e colpi alla testa, costretta a vivere in un regime di terrore continuo. La procura ha definito la situazione “fuori controllo, segnata da un pervasivo tasso di illegalità e da un sistema incapace di garantire sicurezza e dignità”. In particolare, dal luglio 2024 al giugno 2025 sono stati sequestrati 41 cellulari, tre sim card e un router. Il 5 luglio scorso, inoltre, è stato rinvenuto un altro telefono nella cella 187 della sezione di media sicurezza. Dalle indagini, spiega il procuratore Luca Tescaroli, “emerge che altri apparecchi, non ancora sequestrati, sono stati attivati e utilizzati nei giorni 27, 28, 29 giugno e 1-2 luglio, segno di un controllo sofisticato degli spazi da parte di gruppi organizzati, che approfittano della libertà di movimento concessa ad alcuni detenuti e della compiacenza di agenti”. Ciò che sta emergendo a Prato non è un’anomalia isolata, ma il sintomo di una crisi strutturale del sistema penitenziario italiano. Durante una visita nel 2024, l’associazione Antigone aveva già denunciato la situazione, sottolineando come nel carcere si concentrino persone con disturbi psichiatrici, dipendenze e precedenti di disordini in altri istituti. Come nei giorni scorsi ha ricordato l’ex Garante dei detenuti Mauro Palma a VD, le carceri italiane sono diventate un contenitore di marginalità sociale, con “persone che hanno problemi psichiatrici, senza una casa, che sono stranieri e non sanno di poter chiedere una misura alternativa, senza avvocato, che non conoscono i propri diritti”. Le responsabilità non sono solo gestionali ma anche politiche. Come ha rivelato il rapporto annuale di Antigone, nonostante i reati siano in calo -2,4 per cento in meno rispetto al 2019, 1,15% rispetto al primo semestre del 2023 - ogni due mesi le persone detenute aumentano “dell’equivalente di un nuovo carcere, un dato esorbitante per poter pensare di rispondere con una qualunque strategia di edilizia penitenziaria”. Colpa anche del nuovo decreto sicurezza, che ha introdotto 14 nuovi reati e 9 aggravanti, incrementando la popolazione detenuta senza risolvere i problemi alla radice. Come ha spiegato Palma a VD, però, “il diritto penale dovrebbe essere l’ultima risorsa, non la prima. Servono investimenti nei servizi territoriali, nella prevenzione, nella capacità di intercettare i comportamenti problematici prima che esplodano”. Il carcere di Prato è solo la punta dell’iceberg di un sistema che non funziona. È la fotografia di un’istituzione che ha smarrito la propria missione: quella di rieducare, non solo punire. L’urgenza non è tanto quella di nuove carceri, ma di un cambio radicale di visione. Senza una riforma profonda che rimetta al centro la dignità delle persone, continueremo a contare morti, violenze e fallimenti. E non potremo dire di vivere in un Paese giusto. Manca personale nelle carceri? “Mettiamo più telecamere”, dice Nordio di Angelo Perrone Critica Liberale, 10 luglio 2025 La notizia dei 114 milioni di euro di tagli alla giustizia è un segnale forte sulla reale priorità che il Governo riserva alla giustizia e ai diritti dei cittadini, mentre l’attenzione è distratta dal mitico progetto della separazione delle carriere dei magistrati. Questo taglio, frutto di un’operazione di “economia” imposta dal Ministero dell’Economia ai vari dicasteri, rivela il disinteresse per una funzione cruciale per la vita dei cittadini. Le ricadute sui cittadini saranno gravi e tangibili. La scelta del ministro Carlo Nordio di concentrare i tagli principalmente sugli istituti penitenziari, nonostante l’allarme lanciato dal presidente Mattarella sullo stato delle carceri, è emblematica e carica di conseguenze nefaste. L’idea di sostituire “più turni di sorveglianza” con “più telecamere installate nelle carceri” non è affatto un segno di modernità o efficienza, ma un pericoloso passo indietro. Cosa significa in concreto? Meno occhi umani, meno capacità di prevenire violenze tra detenuti o atti di autolesionismo, meno tempestività negli interventi in caso di emergenze mediche o risse. Si traduce in un ambiente più pericoloso sia per i reclusi, privati di un’adeguata supervisione e di percorsi di riabilitazione significativi, sia per il personale penitenziario, già sotto organico e ora esposto a rischi ancora maggiori. La sorveglianza elettronica non sostituisce l’interazione umana, necessaria per mantenere un barlume di dignità e per favorire quel percorso di reinserimento sociale che è fondamentale per la sicurezza di tutti. Rischiamo di trasformare le nostre carceri in meri depositi di persone, con un impatto devastante sul tasso di recidiva e, di conseguenza, sulla sicurezza collettiva. Ma le conseguenze non si limitano alle mura carcerarie. Proprio mentre si discute di questi tagli, i precari dell’Ufficio per il processo - figure cruciali introdotte con i fondi del PNRR per accelerare i procedimenti giudiziari e ridurre l’enorme arretrato - stanno lottando per il loro futuro. Se il loro impiego non verrà garantito, si assisterà a un inevitabile rallentamento della macchina giudiziaria. Il costo è sulle spalle dei cittadini: tempi processuali più lunghi, sia per le vittime in cerca di risarcimento e giustizia, sia per gli imputati che attendono un verdetto. E poi incertezza prolungata per le imprese e gli investitori, scoraggiati da una giustizia lenta e imprevedibile. In un Paese che ambisce a essere moderno ed efficiente, tagliare la giustizia è un autogol. È un segnale di disinteresse verso la tutela dei diritti, la certezza del diritto e l’efficienza dello Stato. Invece di investire per superare le croniche lentezze e carenze del sistema, si preferisce applicare una logica ragionieristica miope, che scaricherà il peso di queste scelte direttamente sulle spalle dei cittadini, privati di un accesso effettivo e rapido a un servizio di giustizia equo e funzionale. È un grave impoverimento per l’intera società. “La destra non abbia paura e dica sì agli sconti di pena” di Paola Sacchi Il Dubbio, 10 luglio 2025 “Gianni Alemanno più che un detenuto è un prigioniero” Sul caso dell’ex sindaco di Roma, ex parlamentare e ministro del governo Berlusconi, tutt’ora a Rebibbia a causa del mancato rispetto della pena dei servizi sociali per una condanna definitiva relativa a traffico di influenze nell’ambito della cosiddetta inchiesta Mafia capitale - torna a parlare con Il Dubbio Francesco Storace. Storace, lei in un post su X in questi giorni ha scritto: “Gianni Alemanno non è un corpo estraneo a destra. E la denuncia non può essere raccolta solo a sinistra. È ora di una battaglia comune. il carcere è un luogo di detenzione e non di tortura. Chiedono umanità e non impunità”. Finora sono stati di più gli interventi di sinistra che di destra, in effetti… Comunque in carcere sono andati a trovarlo molti esponenti di centrodestra come Maurizio Gasparri, Paolo Trancassini… Tra le voci di sinistra c’è stata anche Monica Cirinnà che era in consiglio comunale a Roma all’opposizione di Alemanno sindaco. Però evidentemente o a essere ottimisti non si vuole sprecare un’occasione che si può verificare e quindi è meglio non apparire e lavorare sotto traccia magari per portare a casa la proposta di legge Giachetti che è l’ampliamento della legge Gozzini, oppure c’è chi magari dice di no perché la vive come una cosa contro il proprio schieramento e sarebbe abbastanza cinico questo. Intanto, il presidente della Camera, Lorenzo Fontana (espresso dalla Lega, ndr) come aveva già fatto il presidente del Senato Ignazio La Russa (FdI, ndr), è andato a Rebibbia. Che impressione le hanno fatto quelle foto mentre parla con Alemanno, sotto tutti i riflettori? È stata un’immagine molto forte, molto bella quel colloquio sotto le telecamere. Fontana ha dato un segnale fortissimo. Essendo andato a trovare Alemanno e quel cortile lo ho visto, la scena la ho rivissuta anche fisicamente. Così come è stato importante il colloquio che La Russa ha avuto con Roberto Giachetti (deputato di Iv, ndr) e con Rita Bernardini (storica esponente radicale, ndr). Ecco, io ora spero che tutto questo movimento dei vertici della Repubblica possa servire a smuovere le acque delle istituzioni. Cosa si aspetta? Io vedo solo un percorso: la commissione per la legge Giachetti che amplia alcuni premi per chi merita. Cosa ben diversa dall’aprire una stagione perdonista con amnistia e indulto ai quali io stesso sarei con-tra-rio. Ma se chi sta in carcere accetta un percorso di rieducazione per avere un premio per la semilibertà un tot di giorni all’anno, io credo che questa sia una proposta civile. Ma non crede che la destra sia un po’ troppo prigioniera della sua pur giusta battaglia sulla certezza della pena che rischia però di trasformarsi in giustizialismo? Sì, questo è un tema che c’è tutto ed io spero che si riesca a superarlo. Ma non è un retaggio giustizialista. Attenzione, vorrei ricordare che ad esempio sull’indulto io e Alemanno ci esprimemmo in modo diverso: io a favore e lui contrario. Credo peraltro che sia una questione che nemmeno tocca Alemanno. Il quale è diventato un detenuto “speciale”… Speciale in negativo. Non sta assolutamente in una condizione privilegiata. Sta con altri sei in cella. Non sta in una suite. Ci sono i casi che lui ha fatto conoscere. I detenuti suicidi, quell’uomo di 81 anni che 15 anni fa fu condanno per reati finanziari, penso in seguito a una bancarotta. Alemanno grazie alla notorietà del suo nome ha avuto il merito di portare con maggiore attenzione alla ribalta la drammaticità di certe situazioni. Ma non trova che nel suo caso non solo ci sia un certo accanimento contro di lui “perché si chiama Alemanno”, come lei mi disse in un’altra intervista a Il Dubbio subito dopo l’arresto, ma anche l’ostilità di una certa magistratura contro la politica, come per un retaggio di “Tangentopoli”? Sicuramente c’è accanimento contro di lui perché ci sono politici che stanno agli arresti domiciliari. A lui pure quelli sono stati negati. Quello di Alemanno è il caso incredibile abbattutosi contro un uomo che non ha né ucciso né rubato. Perché tutto questo? Perché non ha mantenuto un patto con i magistrati? Allora, i magistrati mi trovino in carcere un detenuto condannato a 22 mesi, non ce n’è nessuno. Alemanno è più un prigioniero che un detenuto. Ora La Russa si starebbe dando da fare per creare una larga maggioranza in Senato sulla pdl Giachetti. Cosa auspica? Io spero che ci sia un consenso davvero molto largo, anche se i 5 Stelle già sappiamo che non la voteranno mai. Ma anche il Pd deve ora dimostrare il suo tanto sbandierato garantismo al momento del voto. Processo mediatico a Nordio. Il reato? Ha scritto la riforma di Errico Novi Il Dubbio, 10 luglio 2025 Fuga di notizie dall’inchiesta sul caso Almasri condotta dal tribunale dei ministri: violato il segreto ma su questo non indaga nessuno. PD-5S-AVS-IV intimano al ministro di lasciare. Tommaso Calderone, capogruppo Giustizia di Forza Italia alla Camera, ha annunciato un’interrogazione a risposta immediata rivolta al guardasigilli Carlo Nordio per segnalare che sono rarissime, anzi inesistenti le indagini della magistratura sulle fughe di notizie. Si hanno sempre grandi dettagli sulle inchieste, sulle prodezze dei pm o magari, come nell’ultimo caso, sul lavoro del Tribunale dei ministri, ma chissà perché non si viene mai a sapere chi quelle notizie, coperte da segreto, le fa arrivare ai giornali. Bene: per un bizzarro scherzo del destino, la mattina dopo l’annuncio di Calderone sull’interrogazione anti-talpe, quasi tutte le opposizioni (eccezion fatta per Azione) si uniscono in un coro polifonico per intimare proprio al ministro della Giustizia di dimettersi (ultimatum presto derubricato a richiesta di riferire alla Camera), colpevole, a loro dire, di “aver mentito sul caso Almasri”, giacché “da notizie di stampa” si apprende che, per il Tribunale dei ministri le cose, su Almasri, starebbero diversamente da come il guardasigilli le raccontò nella relazione al Parlamento dello scorso 5 febbraio. È la giustizia, bellezza! È il processo mediatico in tutto il suo fulgore. Un giorno chiedono al guardasigilli come mai nessuno indaghi sulle fughe di notizie dalle Procure ai giornali, e il giorno dopo tracima una fuga di notizie - su Corriere della Sera e Repubblica - relativa a un’indagine in cui proprio Nordio è sotto accusa, per favoreggiamento e peculato (con Meloni, Mantovano e Piantedosi) oltre che per omissione d’atti d’ufficio (da solo). Fantastico. Capolavoro. Truffaut non avrebbe saputo fare di meglio. Da leader di partito autoproclamatisi garantisti come Magi (+Europa) e Renzi (Italia viva, autore per l’occasione pure di un’interrogazione in real time) a capigruppo al Senato come Boccia (Pd), fino ai più coerenti Bonelli e Fratoianni (Avs) e all’intero M5S Conte in testa (of course), una lunga schiera di esponenti del centrosinistra si esercita nell’impallinare il ministro e il suo Capo di Gabinetto Giusi Bartolozzi. Ma nessuno, proprio nessuno si interroga sul segreto violato. Su come le notizie siano filtrate dall’inchiesta del collegio composto all’uopo da tre giudici (in questo consiste l’esoterica definizione “Tribunale dei ministri”), inchiesta che non si è mai conclusa e per quale vige dunque il segreto (assistito dall’articolo 326 del codice penale con cui si definisce il reato di chi, quel segreto, lo viola). Né alcuno fa caso al fatto che una fuga di notizie raffazzonata, maldestra, travolge il titolare della Giustizia proprio mentre costui vede (quasi) conclusa la prima “navetta” sulla separazione delle carriere. Nordio sta per portare a casa il sì del Senato alla propria riforma costituzionale e, guarda caso, si scatena un uragano mediatico basato su una violazione di segreto. Nessun comunicato dell’Anm, che diversamente da quanto aveva fatto poche ore prima Calderone non si chiede quante volte propri associati abbiano aperto indagini su fughe di notizie, né se sia il caso che qualcuno (un pm?) la apra riguardo alle notizie su Nordio. È la campagna referendaria anticipata, bellezza? Come no. Ma allora ditelo. Nel merito, secondo le informazioni confusamente trasferite ai giornali dalla talpa dell’indagine sul guardasigilli, l’allora capo dipartimento Affari di giustizia di via Arenula Luigi Birritteri avrebbe inviato a Bartolozzi una mail in cui segnalava già domenica 19 gennaio che serviva un’autorizzazione del ministro perché la Corte d’appello di Roma potesse ordinare l’arresto di Almasri. Basterebbe, sempre secondo la talpa, a dimostrare che sia Bartolozzi sia Nordio avevano acquisito già in quella domenica di gennaio gli atti provenienti dalla Corte dell’Aia, contenenti le accuse a carico dell’ex capo della polizia giudiziaria di Tripoli. Ma sempre la talpa non fornisce indicazioni che provino tale anticipata conoscenza formale, effettiva, degli atti. E, forse in un sussulto di prudenza, chi ha trasferito le informazioni ai due giornali segnala a un certo punto come a premere perché arrivasse l’autorizzazione di Nordio fosse la Corte d’appello di Roma, cioè la magistratura, che potrebbe aver avuto accesso già domenica 19 gennaio a quella “piattaforma Prisma” dov’erano stati appena depositati (da un magistrato in servizio a L’Aia) le carte della Corte penale internazionale. Bartolozzi ha dichiarato al Tribunale dei ministri di aver aperto quei file solo lunedì 20 gennaio. Il 5 febbraio Nordio ha detto alla Camera che fino al lunedì, appunto, non c’era chiarezza né ordine sulle accuse ad Almasri. La talpa dell’inchiesta, pur con tutti i suoi prodigiosi, e criminali, sforzi, manco è riuscita a dimostrare che davvero Bartolozzi e Nordio avessero in realtà ricevuto già la domenica tutto il carteggio, anziché una sommaria e inservibile informazione a voce, come il guardasigilli ha detto alla Camera. Sulla base di questa piuttosto claudicante spy story, il centrosinistra ha invocato, come detto, prima le dimissioni (alla faccia della presunzione d’innocenza) e poi un’informativa di Nordio. Pure sulla versione derubricata della pretesa, Luca Ciriani, ministro ai rapporti col Parlamento, deluderà le attese verso le 5 del pomeriggio, per dire che “certo non si farà domani”, cioè oggi. Via Arenula, a quanto risulta, ha deliberatamente preferito non replicare con propri comunicati stampa. Non si può escludere che il ministro della Giustizia inviterà i focosi avversari ad attendere la conclusione delle indagini “consegnate”, dal procuratore di Roma Franco Lo Voi, al Tribunale dei ministri, il quale a propria volta non ha ancora formulato alcun avviso di conclusione (prova certa della persistente sussistenza del segreto istruttorio). Forse almeno Nordio farebbe bene, in effetti, a rispettarlo, il segreto d’indagine, considerato che una seconda relazione al Parlamento potrebbe solo riprodurre i reati (sempre l’articolo 326 del codice penale) già consumati. D’altra parte, su questi ultimi, siamo pronti a scommettere che non verrà aperta un’inchiesta parallela, nonostante l’obbligatorietà consacrata dall’articolo 112 della Costituzione. E temiamo che l’ironica interrogazione di Calderone (“quante inchieste per fughe di notizie...”) sia destinata a restare, appunto, una domanda retorica. “Ha mentito su Elmasry, si dimetta”. Nordio ora rischia di Giansandro Merli Il Manifesto, 10 luglio 2025 L’opposizione attacca. Secondo le carte del tribunale dei ministri avrebbe ingannato l’aula. Per il ministro della Giustizia Carlo Nordio le cose si stanno mettendo male per davvero. Se saranno confermate le indiscrezioni sull’indagine del tribunale dei ministri, trapelate ieri su Corriere e Repubblica, in attesa della verità giudiziaria ci sarà una certezza politica: il guardasigilli ha mentito al parlamento durante l’informativa sul caso Elmasry del 5 febbraio scorso. Perché quel giorno ha detto all’aula che quando domenica 19 gennaio il capo della polizia giudiziaria libica è stato arrestato a Torino su mandato della Corte penale internazionale (Cpi), con accuse gravissime di crimini di guerra e torture, al ministero è stata trasmessa solo una “comunicazione assolutamente informale, di poche righe, priva di dati identificativi”. Il “complesso carteggio” con tutte le informazioni sarebbe arrivato il giorno seguente. Ma le carte del tribunale dei ministri, che avrebbe chiuso le indagini pronto a inviare alla procura della capitale la richiesta di archiviazione o rinvio a giudizio, dimostrerebbero il contrario. Il ministero sapeva da subito quello che stava succedendo a Torino e chi era l’uomo ammanettato dalla digos. “Ha mentito, si deve dimettere”, hanno scandito le opposizioni per tutto il giorno. Tutte insieme a eccezione di Azione: Carlo Calenda ha sempre sostenuto che l’esecutivo ha sbagliato solo a non apporre il segreto di Stato e rivendicare l’operazione. “Mentire in parlamento significa mentire al paese e mentire al paese è una pratica che una democrazia non può mettere in atto senza che ci siano delle conseguenze. Ci aspettiamo che Meloni torni alle camere a chiarire una vicenda che sta fortemente danneggiando la credibilità e la dignità dell’Italia”, dichiara la segretaria dem Elly Schlein. Per il leader pentastellato Giuseppe Conte: “È un governo di bugiardi. Sono stati bugiardi anche sul caso Elmasry. Abbiamo rimpatriato con un volo di Stato uno stupratore di bambini e adesso abbiamo le prove. Nordio deve dimettersi”. Sulla stessa linea il segretario di Sinistra italiana e deputato Avs Nicola Fratoianni: “Cosa aspetta la presidente del Consiglio Meloni a farlo dimettere?”. Per Riccardo Magi (+Europa): “Il ministro della Giustizia non ha più alibi: faccia un passo indietro prima di infangare ancora di più le nostre istituzioni”. “Un governo che si fa ricattare dai torturatori libici. Un governo che si fa umiliare sulla scena internazionale come a Bengasi”, sostiene il senatore Iv Matteo Renzi, che accusa la stessa presidente del Consiglio di aver mentito. I partiti di opposizione hanno poi invocato una nuova informativa urgente sulla vicenda. Tanto al Senato, quanto alla Camera. Ma il ministro per i Rapporti con il parlamento Luca Ciriani ha lanciato la palla in tribuna quasi subito: “Non sarà domani (oggi, ndr), il governo sta valutando, ci vuole del tempo per organizzare un’informativa”. Significa che l’esecutivo è in difficoltà che presto potrebbero aumentare. Intanto l’avvocata Giulia Bongiorno starebbe valutando una denuncia contro ignoti per la divulgazione di atti coperti dal segreto, pubblicati prima del deposito e della notifica alle parti. La senatrice leghista difende i quattro indagati nella vicenda: Nordio, Meloni, il sottosegretario Alfredo Mantovano e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Per tutti le ipotesi di reato sono favoreggiamento e peculato, solo per il guardasigilli anche omissione d’atti d’ufficio. Sempre ieri un’altra notizia che riguarda Elmasry è arrivata dalla Libia: dopo la rimozione del vincolo procedurale sull’ex ufficiale di polizia, la procura di Tripoli ha avviato un procedimento penale in base alla legge nazionale. L’uomo era stato interrogato una prima volta il 28 aprile, quando gli erano state notificate le ipotesi di reato. Che sono state costruite sulla base di quanto affermato dalla Cpi nell’ordine di arresto eluso dall’Italia. Sondaggi e incontri: la battaglia mediatica delle toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 10 luglio 2025 L’Anm pubblica i numeri di Youtrend: “Il 58% degli italiani ha molta o abbastanza fiducia nella magistratura”. Una bella iniezione di ottimismo in vista del referendum. La battaglia mediatica sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere si sposta sul piano dei sondaggi. Oggi infatti l’Anm ha reso nota una propria indagine commissionata a Youtrend in cui si fanno emergere tre elementi in particolare. Primo: “Il 58% degli italiani ha molta o abbastanza fiducia nella magistratura. Un dato nettamente superiore a quello destinato al Parlamento (35%) e al Governo (34%)”. Secondo: “La possibilità di passare da giudici a pm e viceversa viene ritenuto il principale problema della giustizia solo per l’1% dei cittadini”. Terzo: “solo per il 9% degli intervistati la politicizzazione dei giudizi è un problema”. Nulla di nuovo rispetto al primo, considerato che anche il sondaggio dell’Eurispes di un mese fa forniva quell’ordine di gradimento anche se però la fiducia nella magistratura era in calo del tre per cento. Rispetto al secondo c’è da notare la sottigliezza con cui non si è chiesto agli italiani se sono favorevoli o meno alla riforma Nordio ma solo se reputano un problema il passaggio di funzioni. Infine, secondo la società diretta da Lorenzo Pregliasco non esiste il problema delle ‘toghe rosse’, benché, ad esempio, un sondaggio Demos di inizio anno sosteneva che un italiano su due credeva nel teorema dei giudici politicizzati. Allora c’è da chiedersi quanto valore abbiano queste rilevazioni demoscopiche e quanto incida sulla risposta la modalità con cui viene posta la domanda. Questa iniziativa dell’Anm era stata annunciata ad aprile da Ida Teresi, presidente della commissione comunicazione del ‘parlamentino’ dei magistrati. “Dobbiamo capire come parlare a chi, e quali sono i target dei nostri messaggi. Quindi un sondaggio è importante” perché “stiamo vivendo un momento epocale”, disse la magistrata. Prospettiva più che corretta sicuramente. Tuttavia resta il fatto che il sondaggio, a differenza degli altri neutrali in partenza, è stato commissionato da una parte direttamente interessata dalla riforma. I dati sarebbero stati resi noti se fossero andati in direzione opposta? Sicuramente no. E sarebbe stato assolutamente giusto strategicamente. In fondo i vertici dell’Anm in questo momento hanno due obiettivi. Innanzitutto trasmettere a tutti gli elettori che saranno chiamati nel 2026 ad esprimersi sul referendum che la magistratura gode di buona salute e che i problemi della giustizia sono altri, come la lentezza dei processi. E poi provvedere ad una auto-iniezione di ottimismo: il provvedimento viaggia abbastanza spedito in Senato (il sì definitivo arriverà tra il 16 e il 23 luglio) e tutti i sondaggi, esterni al ‘sindacato’ delle toghe, danno il sessanta per cento degli italiani favorevoli alla modifica dell’ordinamento giudiziario. Occorre dunque far sapere a tutto il corpo della magistratura che la partita non è ancora persa e che bisogna conquistare giorno dopo giorno ogni centimetro di consenso per recuperare lo svantaggio e non soccombere alla maggioranza politica, determinata a rivoluzionare l’assetto dell’ordine giudiziario. Spesa per la giustizia e stipendi delle toghe: la Commissione Ue smonta le fake dell’Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 10 luglio 2025 Nel suo ultimo rapporto, la Commissione europea conferma la lentezza dei processi in Italia, ma rivela anche come la spesa per il sistema giudiziario sia in linea con altri paesi avanzati e come le retribuzioni dei magistrati finiscano per essere le più alte d’Europa. La Commissione europea ha pubblicato nei giorni scorsi il suo rapporto annuale sullo stato della giustizia nei ventisette paesi membri dell’Unione europea. Nonostante lievi miglioramenti rispetto al passato, anche stavolta il rapporto evidenzia la lentezza e l’inefficienza del sistema giudiziario italiano, tanto da collocare il nostro paese addirittura all’ultimo posto della classifica che riguarda il tempo stimato per risolvere una causa civile e commerciale in tutti i gradi di giudizio: occorrono 511 giorni per una sentenza di primo grado, 703 giorni per una sentenza d’appello e persino 1.003 giorni per la pronuncia in Cassazione (i dati si riferiscono al 2023). L’Italia è inoltre il quinto paese nell’Unione europea per il numero di cause pendenti di natura civile, commerciale e amministrativa in relazione al numero di abitanti. Segnali preoccupanti, e in controtendenza con quelli diffusi dal nostro ministero della Giustizia, emergono per quanto riguarda il tasso di smaltimento dei procedimenti civili in primo grado, che secondo la Commissione europea è sceso di nove punti percentuali dal 2014 al 2023 (da 119,3 a 110 per cento). Ma le lungaggini della giustizia italiana sono ormai cosa nota, tanto che gli organi di informazione non hanno dato minimamente risalto al rapporto della Commissione europea. Leggendo integralmente la relazione, però, si scoprono anche alcuni dati altrettanto interessanti ma ignoti ai più. Due tabelle della Commissione europea, ad esempio, sfatano il mito alimentato dall’Associazione nazionale magistrati secondo cui in Italia lo stato non spenderebbe abbastanza per far funzionare la giustizia. Nessuno mette in dubbio che potrebbero essere stanziate maggiori risorse per far funzionare meglio i tribunali. Eppure, il rapporto della Commissione Ue piazza l’Italia al decimo posto, su ventisette, per la spesa pro capite (cioè per abitante) stanziata per il sistema giudiziario: 108,4 euro. Più di paesi come Francia, Finlandia, Spagna, Danimarca e Portogallo, che di certo non sono da ritenersi nazioni proprio arretrate. L’Italia si colloca al decimo posto anche se si guarda alla percentuale di spesa totale rispetto al pil sostenuta per il sistema giudiziario: 0,33 per cento, in linea con la media europea e davanti a paesi come Francia, Portogallo, Austria, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia e Danimarca. Insomma, lo scenario non è così catastrofico come la magistratura italiana spesso denuncia. Un altro dato interessante riguarda la retribuzione delle toghe italiane. Leggendo il rapporto si scopre che il magistrato in Italia comincia la carriera con uno stipendio che è quasi il doppio del salario medio nazionale (1,8) e a fine carriera è addirittura sei volte il salario medio nazionale (dato di gran lunga più alto in Europa). I magistrati italiani infatti finiscono la loro carriera percependo circa 220 mila euro, cioè quanto spetta al primo presidente di Cassazione, pur non rivestendo effettivamente quel ruolo ma per semplice anzianità. Chissà se i dirigenti dell’Anm hanno mai provato a spiegare questo singolare meccanismo retributivo ai loro colleghi stranieri per vedere la loro reazione. Infine, all’interno del rapporto della Commissione europea vengono riportati anche i risultati dell’ultimo Eurobarometro, cioè dei sondaggi svolti periodicamente nell’opinione pubblicata sui vari argomenti. Nelle ultime ore proprio l’Anm sta sbandierando i risultati di un sondaggio commissionato a YouTrend, secondo cui la fiducia degli italiani nella magistratura sarebbe del 58 per cento, superiore a quello destinato al Parlamento (35 per cento) e al governo (34 per cento). Dall’Eurobarometro, invece, emerge che, nonostante i miglioramenti, l’Italia si colloca al diciassettesimo posto (su 27) per la percezione di indipendenza dei magistrati da parte dei cittadini: il 46 per cento ha una buona percezione dell’indipendenza delle toghe, contro il 47 per cento che ha una percezione negativa (di cui il 15 per cento con una percezione molto negativa). Lo stesso risultato si registra per la percezione di indipendenza da parte delle imprese: l’Italia si piazza al diciassettesimo posto su ventisette paesi. Un dato ben diverso da quello presentato ieri dall’Anm, su cui non si è espresso nessun esponente della magistratura associata. Riforma sì, riforma no... ma la giustizia oggi funziona? di Enzo Augusto Gazzetta del Mezzogiorno, 10 luglio 2025 Louis Ferdinand Céline diceva a un amico Giudice “Sii giusto, ma sii almeno arbitrario”. Gli studiosi si sono ovviamente interrogati sulla effettiva paternità e sul significato della frase. Qualche dubbio che sia effettivamente sua, resta, ma comunque i critici ne ritengono verosimile l’attribuzione perché il concetto rientrerebbe nel pensiero dell’Autore, il suo nichilismo, e quindi sfiducia e diffidenza nella Giustizia come in tutte le istituzioni. Amo molto Céline. Con un certo snobismo politico culturale lo leggevo e apprezzavo anche quando era (e forse lo è ancora per certi versi) un Autore “proibito”. Accusato di filonazismo, collaborazionismo, antisemitismo pétainismo (tutti gli ismi possibili insomma) ed era messo al bando dalla cultura tradizionalista e bacchettona di sinistra. È un grande scrittore, invece, che scandaglia come pochi l’animo umano sottoposto alle prove dure della guerra, della miseria, dell’esistenza tout court. Mi piace Céline, quindi, ma interpreto la sua frase in maniera diversa, in un senso che mi sentirei maggiormente di condividere. La Giustizia deve essere giusta, certamente, ma deve avere anche un alone di sacralità. Questo, secondo me, ci vuol trasmettere l’Autore. Anche senza ricorrere alle parrucche dei Tribunali anglosassoni, per parte mia sono convinto assertore dall’uso delle toghe, anche nei giudizi civili e, in tutti i luoghi in cui si amministra Giustizia, contestando e avversando comunque ogni forma di sbraco, colleghi in jeans sdruciti e felpe, e comunque abbigliamento casual e non consono. Sacralità, quindi, ma anche un senso di imprevedibilità, di fatalità, di ineluttibilità. Non a caso la Giustizia viene effigiata con la spada, ma bendata. Non guarda in faccia a nessuno. Ecco, se devo fare un’osservazione dopo decenni di professione, devo prendere atto che di sacrale, nell’amministrazione odierna della Giustizia, è rimasto ben poco. Non parlo solo dei giudici, ovviamente. Parlo degli avvocati, dei funzionari, degli utenti. È rimasto poco, negli operatori della giustizia, della funzione di “missione” (meno male! dirà qualcuno. Ma il senso è diverso). Molta routine, ordinaria amministrazione. La giustizia come il catasto o qualsiasi ufficio pubblico. Fare il proprio dovere, lavorare il meno possibile, ma senza l’assillo, e la pressione di assolvere a una Funzione fondamentale, a un Servizio da cui dipende la vita delle persone. C’è, in questo, molto di atteggiamento generazionale, ovviamente. I giovani non vedono più nel lavoro e in quello che il lavoro rappresenta la realizzazione degli interessi primari. Il sogno della pensione, per cinquatenni o giu di li’, la dice lunga sulle motivazioni professionali. L’Intelligenza Artificiale promette ancora più tempo libero. Le ricerche, le difese (e temo presto le sentenze) vengono/verranno affidate alla tecnologia. Che talvolta può fare anche meglio, ma spegne la creatività e la responsabilità che sono alla base di ogni professione intellettuale. Dove porta questo lungo preambolo divagante? A dire che le questioni, le discussioni, le polemiche, sulla riforma della Giustizia, trascurano l’elemento a cui facevo riferimento prima. La sacralità della funzione ma anche, e soprattutto, la consapevolezza che amministrando la giustizia si deve rendere un servizio fondamentale ed efficiente. Indispensabile ma, per certi aspetti, sacrale. Questa ottica credo che manchi completamente nella discussione. L’amministrazione della giustizia va quindi bene così com’è? Questa è la domanda. Ritardi. Lungaggini, costi, errori (che sono umani e ci stanno, ma non quando sono frutto di superficialità, noncuranza, senso di superiorità e disinteresse al confronto) allontanano i cittadini dalla giustizia. Cresce il numero dei cittadini che non votano, ma non votano anche per sfiducia nelle istituzioni che percepiscono inefficienti, lontane e disinteressate ai loro bisogni. Va tutto bene o bisogna che qualcosa cambi? Certo, la riforma del Governo qualche problema lo crea, soprattutto per i magistrati, per loro indipendenza e autonomia. Non sono rose e fiori. Ma non sarebbe utile e opportuno fare qualche autocritica, anche da parte della sinistra che è stata al governo? Se non c’è autocritica e consapevolezza della necessità del mutamento, se non c’è cambiamento dall’interno, o quando lo si può fare in termini positivi, poi viene sempre un cambiamento dall’esterno, in peius, in maniera conflittuale. A un cittadino, diciamolo onestamente, della separazione delle carriere e del sistema di elezione del CSM interessa poco, per non dire niente. Gli interessa che la giustizia funzioni. E la Giustizia, questa è la domanda, funziona? Funziona bene? Ha, o non ha, bisogno di cambiamenti? Diceva Corrado Guzzanti, la mitica Vulvia, “se vuoi cambiare la televisione devi andare al negozio”. Per cambiare l’amministrazione della Giustizia, dove bisogna andare? Ddl Femminicidio, bipartisan il primo sì al reato riformulato di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 luglio 2025 Maggioranza e opposizioni trovano un accordo in commissione Giustizia del Senato. In Aula il 17 luglio. Dopo “molte rielaborazioni” e “duri confronti”, ieri al Senato maggioranza e opposizioni hanno raggiunto un accordo sul ddl Femminicidio con un testo che riformula la fattispecie e accoglie diversi emendamenti proposti dalla minoranza. La commissione Giustizia ha dato così il primo via libera unanime al provvedimento che introduce nel codice penale il nuovo reato punito con l’ergastolo. Rimane infatti la pena a vita sicura - il vero obiettivo delle destre di governo - nel testo che approderà in Aula il 17 luglio, giorno in cui era atteso il ddl sul Fine vita, slittato per lasciare spazio ad un ciclo di audizioni e anche in attesa del pronunciamento della Consulta sull’eutanasia. La nuova formulazione, rivendicata come una vittoria da Pd, Avs e M5S, tenta di “oggettivizzare le condotte”, come spiega la dem Anna Rossomando. Ed evitare che al momento dell’incriminazione gli inquirenti debbano indagare l’intenzione psicologica della persona che uccide un altro essere umano “in quanto donna”. Questo il testo approvato: “Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali, è punito con la pena dell’ergastolo”. Alcuni emendamenti prevedono la formazione obbligatoria per i magistrati, il braccialetto elettronico che si attiva a 1 km (e non 500 m) e nuove norme sulle intercettazioni per il Codice rosso. Eliminato, poi, il parere vincolante della parte offesa riguardo le pene inflitte. Femminicidi: la tutela costa, una legge è gratis ma non basta di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 10 luglio 2025 Scrivere un nuovo reato aumenterà in concreto la sicurezza delle donne? Ben più lo farebbero pochi mirati aggiustamenti al sistema dei braccialetti elettronici antistalking. Fare una legge per introdurre un nuovo reato è comodo per la politica: costa niente, e rende molto. Di recente il ministro della Giustizia ha ad esempio concordato che, anche con l’introduzione del nuovo reato di femminicidio con annesso ergastolo, “non cambierà tantissimo”, visto che già l’omicidio aggravato è punito dall’ergastolo, ma sarà “un segnale culturale” per “far capire che la donna è protetta in quanto tale”. Messaggistica assai criticata dai giuristi per il deficit di tassatività e determinatezza del presupposto dei “motivi di ostacolo all’esercizio dell’espressione della personalità” femminile: tanto che ora lo si vuole circoscrivere all’assassinio “conseguenza del rifiuto della donna di mantenere una relazione affettiva o comunque una limitazione delle sue libertà individuali, pretesa in ragione della sua condizione di donna”. Ma al netto dei rattoppi, scrivere un nuovo reato aumenterà in concreto la sicurezza delle donne? Ben più lo farebbero pochi mirati aggiustamenti al sistema dei braccialetti elettronici antistalking, come emerge dall’archiviazione chiesta dal procuratore di Tivoli, Francesco Menditto, per un’ipotesi di “interruzione di pubblico servizio” dopo un apparente malfunzionamento. Tra essi, centralizzare (come in altri Paesi) il monitoraggio dei 14 tipi di allarmi indici di reale pericolo, altrimenti ingestibili da stazioni locali di polizie alle prese in media con 60/70 fisiologici alert al giorno per ciascuno dei 6.000 apparecchi antistalking (su 13.000 braccialetti totali) in uso; perfezionare il miglioramento già in corso nella durata effettiva delle batterie, e curare l’istruzione delle vittime sul funzionamento; e soprattutto, in capo al Ministero dell’Interno, integrare il contratto quadriennale da 16 milioni con Fastweb per incrementare le attivazioni mensili massime pattuite, dalle attuali 1.200 al fabbisogno verificato di almeno 1.500. Correttivi però non a costo zero, come invece declamare il battesimo di un nuovo reato. Storia dal 41 bis. Io, assolto ora dopo 15 anni “per non aver commesso il fatto” di Carmelo Gallico L’Unità, 10 luglio 2025 Era inizio giugno del 2010. A Brescia l’estate sembrava essere precipitata sulla città direttamente dall’inverno. Le scuole si apprestavano a chiudere, ma all’università era tempo di esami. Ci ero andato appena qualche giorno prima a ritirare il diploma di laurea in Giurisprudenza e ora sulla targhetta del citofono campeggiava la scritta “dottore” davanti al mio nome. Dietro quella semplice parola c’era molto di più del raggiungimento di un traguardo: c’erano tutti i sogni di un ragazzino che per tragedie più grandi di lui si era visto costretto a lasciare il liceo. C’era tutto il dolore dell’adolescenza e della giovinezza perdute. C’erano le tante rinunce che erano altrettanti furti di vita. C’era la caparbietà di un uomo che non si era voluto piegare ad un destino che altri pensavano di poter scrivere per lui. C’erano il riscatto, la speranza, l’orgoglio e la dignità conservata nonostante ogni violenza subita. Era, per me, come le parole magiche che spezzano anche il più malefico degli incantesimi. Il mio era fatto di tutte le mie vecchie paure. Avevano, quelle paure, l’odore e i rumori del carcere. Si manifestavano spesso nel buio della notte. Imperlavano di sudore la mia fronte. Mi agitavano il cuore e impedivano agli occhi di chiudersi su bei pensieri per il domani. E da quel momento, finalmente, potevo liberarmene per lasciare spazio solo ai sogni e alle nuove speranze. Ma nessuna alba di speranza mi attendeva quel giorno di giugno 2010... Il dito premuto insistentemente dal poliziotto sul pulsante del campanello squarciò la notte e inghiottì in un abisso infernale l’illusione di ogni sogno: il risveglio non aveva il calore di un abbraccio, ma il freddo della morsa metallica delle manette strette intorno ai miei polsi. La mia vita non trovava vigore nel profumo di un caffè mattutino, ma agonizzava nell’acre odore del mio sangue versato sullo squallido pavimento di una cella. Prima di accompagnarmi nel vecchio carcere bresciano di Canton Mombello, mi consegnarono il provvedimento di custodia cautelare: una montagna di fascicoli, migliaia di pagine in un giuridichese capace di svilire anche il più fiducioso e preparato dei lettori. Ed io di fiducia non ne avevo ormai più. La cella era spoglia: una branda con un materasso di spugna consunta dal tempo e dal sudore delle vite passate di lì, uno sgabello malfermo e un piccolo tavolino occupato quasi interamente da quella montagna di carte. Non le ho degnate neanche di uno sguardo. Steso sulla branda, gli occhi fissi sul soffitto scrostato, la sua ombra pesava più della mia vita: quella passata era ormai annientata, quella futura puzzava di morte. La fredda lama di un rasoio bic gettò una sinistra luce nei miei pensieri. Un attimo, e si fece strada sulla mia carne, affondò nella mia gola, scomparve nella pozza di sangue sgorgata dalle mie vene. Il caso volle che sopravvivessi ed io ho raccolto l’ultimo anelito di vita rimasto, mi sono sollevato dal cumulo di macerie lasciato dalla devastazione di quella notte e ho attraversato l’inferno, affrontato i demoni, lottato con la forza della verità dei fatti contrapposta agli artifici dialettici sostanziati di venefica menzogna. In stretta sinergia con il mio difensore di Brescia, ho spicconato e scalato pagina dopo pagina la montagna del teorema accusatorio che mi voleva capo di un’associazione mafiosa. Avevamo appena dieci giorni per presentare il riesame e non potevamo trascurare nessun elemento. Il giorno dell’udienza, l’avvocato partì alla volta di Reggio Calabria. Io, invece, fui impacchettato nella soffocante celletta di un furgone e spedito nel carcere di Badu e Carros, anticamera del 41 bis che mi venne applicato a qualche settimana di distanza. L’udienza al Tribunale del riesame si concluse con un rigetto e ci vollero poco più di otto mesi per la discussione del ricorso in Cassazione. A parlare per primo in quella sede fu il PG e la sua richiesta sorprese tutti: accoglimento del ricorso e annullamento senza rinvio del provvedimento di custodia cautelare per assoluta mancanza di gravi indizi di colpevolezza. E così, in una fredda sera di metà febbraio, lasciai la cella del 41 bis di Rebibbia per far ritorno a Brescia. Tutto finito? Certo non per l’Ufficio di Procura di Reggio Calabria, che a pochi giorni dal Natale 2011, riproponendo quell’identico quadro indiziario censurato dalla Cassazione, avrebbe ottenuto dal GIP l’emissione di una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere. Cinque anni di dura galera al 41 bis di una gelida Cuneo accompagnarono le più importanti fasi del processo. Il GUP, un giudice civile applicato per l’occasione alla funzione penale, supino al teorema accusatorio, trasformò in sentenza la “velina” con la richiesta di condanna del PM: trent’anni di reclusione, ridotti a venti per la scelta del rito abbreviato. Andò leggermente meglio nel giudizio d’appello: caduta l’accusa di essere capo dell’associazione, la condanna si ridusse a dodici anni per il ruolo di partecipe. Ma la Cassazione, come già nel 2011, ribadì l’assenza di un grave quadro indiziario, annullò la sentenza di condanna ed ordinò un nuovo giudizio d’Appello, che avrei dovuto attendere sempre in stato di detenzione al 41 bis. L’udienza si celebrò nel marzo del 2016. Il giudice del rinvio confermò la condanna e ridusse la pena a poco più di quattro anni. Di anni in carcere ne avevo intanto passati quasi cinque e venni dunque scarcerato. Ovviamente i miei difensori impugnarono la sentenza di condanna e la Cassazione pronunciò il terzo annullamento. Nuovo giudizio nel novembre del 2021, nuova condanna, ennesimo annullamento della Cassazione nella primavera del 2023. Nei giorni scorsi, dopo ben 15 anni dalla notte del mio arresto a Brescia, la celebrazione del quarto giudizio d’appello e, finalmente, la piena assoluzione con la formula “per non aver commesso il fatto”. Campania. Salute mentale nelle carceri, lettera del Garante dei detenuti anteprima24.it, 10 luglio 2025 Il Garante regionale campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha inviato nei giorni scorsi una lettera al Direttore Generale dell’Asl Napoli 1 Centro, dott. Ciro Verdoliva, per ringraziarlo della nomina di una responsabile dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale (Uosd) di salute mentale per gli istituti penitenziari di Poggioreale, Secondigliano e Nisida. Nel manifestare la propria gratitudine per aver istituito questa unità operativa, il Garante ha però ribadito la necessità di attuare quanto previsto dal Decreto n. 6 del 25 gennaio 2018, punto 33, comma 3, emanato dalla Direzione Generale per la Tutela della Salute e il Coordinamento del Sistema Sanitario della Regione Campania. Da anni Ciambriello si batte per la piena applicazione di questo provvedimento, chiedendo oggi con forza il potenziamento dell’UOSD attraverso l’inserimento di ulteriori figure professionali specialistiche, in grado di garantire interventi efficaci di prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento per le persone detenute affette da disagio mentale o disturbi psichiatrici. Ciambriello ha dichiarato: “Per anni ho chiesto l’attuazione del Decreto n. 6 del 25 gennaio 2018 e oggi rinnovo l’appello con ancora più determinazione. Per curare la malattia mentale non basta uno psichiatra: serve un’équipe multidisciplinare composta da psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, tecnici della riabilitazione e operatori sociosanitari (OSS). Solo così si può parlare davvero di Unità Operativa Semplice Dipartimentale”. Il Garante ha inoltre evidenziato che, tra gli istituti di Secondigliano e Poggioreale, si contano circa 305 detenuti con disturbi psichici, di cui quasi un centinaio affetti da psicosi, distribuiti in diversi padiglioni. Ciambriello così ha concluso: “La malattia mentale in carcere è una realtà complessa, spesso gestita con l’isolamento anziché con le cure. Ma è proprio la malattia la causa di certi comportamenti. Troppo spesso mancano cure adeguate, figure sociosanitarie di sostegno e - quasi sempre - misure alternative al carcere. Il protocollo d’intesa della Conferenza Stato-Regioni prevede la presenza di almeno uno psichiatra ogni 500 detenuti: a Poggioreale e Secondigliano questo parametro non è rispettato. Il carcere, purtroppo, sta diventando sempre più una discarica sociale e un carcere dei matti.” Toscana. Affettività in carcere, sei penitenziari rispondono al Garante: “Non abbiamo spazi” novaradio.info, 10 luglio 2025 Nelle carceri toscane non c’è spazio per l’affettività dei detenuti, nonostante che una sentenza della Consulta (la 10/2024) abbia sancito con chiarezza il diritto all’affettività e ai colloqui intimi per i detenuti, inclusi quelli di natura sessuale, con il coniuge o il convivente non detenuto, a meno di comprovate ragioni di sicurezza. Sono infatti state infatti tutte negative le sei risposte finora prevenute al garante dei diritti dei detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani, che il 26 giugno scorso aveva scritto una lettera in merito a tutte le carceri della Regione. A renderlo noto è lo stesso Fanfani, a margine di un convegno a Firenze. “Mi sono stancato di aspettare, è passato un anno e mezzo circa dalla sentenza 10” ha detto: “È stata emanata soltanto una norma comportamentale che è ridicola. Ho scritto quindi una lettera con una diffida formale a tutti i direttori delle carceri dicendo ditemi cosa volete fare, come organizzerete, entro quali tempi. Sei le carceri che hanno risposto, tra cui Arezzo, Siena, Grosseto, mi sembra Massa. Ma in tutti i casi è arrivato un diniego: “Son tutte carceri piccole in cui è facile rispondere che non c’è spazio”. Quindi tutte risposte negative? “Ovviamente” chiosa amaro il garante. Roma. Cronaca di un suicidio evitato grazie all’umanità di detenuti e personale di Gianni Alemanno* Il Dubbio, 10 luglio 2025 A Rebibbia un recluso tenta di togliersi la vita. A salvarlo, la prontezza e il coraggio dei suoi compagni, di un’infermeria e di alcuni agenti. Un gesto collettivo che vale più dei discorsi sull’emergenza carceraria. Lunedì 30 giugno, ore 10: 30, Palazzo del Quirinale. Il Presidente Mattarella incontra i nuovi vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e approfitta dell’occasione per richiamare l’attenzione sulle drammatiche condizioni delle carceri italiane, ricordando in particolare la lunga serie di suicidi di persone detenute (e anche di agenti della penitenziaria). Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, gli risponde a stretto giro sfogliando il solito libro dei sogni (fatti mentre dormiva con l’aria condizionata) con nuove carceri, penitenziari prefabbricati e luoghi di detenzione riservati ai tossicodipendenti. Ore 15, Braccio G8 di Rebibbia. Lutfim, detenuto albanese di lungo corso, mentre passeggia nel corridoio del mio reparto al secondo piano, passa davanti alla cella d’isolamento dove è recluso Kafi, libico di 29 anni, messo in isolamento quando era malato di scabbia e lì lasciato anche dopo la guarigione da questa malattia, perché si agitava troppo. Nonostante la porta sia chiusa, Lutfim nota qualcosa attraverso lo spioncino aperto. Si affaccia e vede Kafi appeso alle sbarre della finestra della cella con il corpo grondante di sangue. Si mette a urlare per chiedere aiuto, arriva Fabio Falbo (“lo Scrivano di Rebibbia”, con cui scriviamo tutte le nostre lettere alle istituzioni), si rende conto della situazione e corre al piano terra per cercare gli agenti con le chiavi della cella. Torna al secondo piano con il capoposto Luigi e l’appuntato Giovanni, che finalmente riescono ad aprire la cella, chiusa non solo con il cancello con le sbarre ma anche con il “blindo”, la porta di ferro con spioncino usata per l’isolamento. Irrompono dentro Fabio, Francesco, Andrea e, soprattutto, Peppe. Peppe è un ragazzo di un metro e novanta, testa calabrese da parte di padre e corpo da Ussaro da parte della madre austriaca. Tutti insieme sollevano il corpo di Kafi e Peppe, forte della sua altezza, riesce a tagliare il laccio delle scarpe con cui si era impiccato. Il corpo ora giace per terra in una cella spoglia dove non c’è neanche un pezzo di carta, non respira, il sangue che esce copioso da un profondo taglio, che il tentato suicida si era inferto all’altezza della carotide. Fabio corre di nuovo al piano terra, dove c’è l’infermiera del braccio, trova Gloria, l’unica infermiera presente (una ragazza tosta dai capelli ricci, abituata a tenere a bada detenuti e fronteggiare emergenze). Si portano sopra una barella a braccio (in pratica un sacco di telo con sei manici), Gloria tampona la ferita alla carotide, cerca di rianimarlo, e tutti insieme, con altri due detenuti che si sono aggiunti (Massimo e Fabrizio), trasportano il moribondo in infermeria. Qui Gloria chiama il medico di guardia che sta al Braccio G6 (infermeria centrale), che si rifiuta di venire e chiede invece che Kafi sia portato da lui con tanto di “libro medico” (viva la burocrazia italiana). Provvedono Fabio e Gloria, accompagnati dal capoposto perché altrimenti i detenuti - vivi o moribondi - non potrebbero uscire dal braccio. Al G6, finalmente, il medico pone fine all’agonia di Kafi con gli opportuni farmaci e sei punti di sutura alla gola. Ma la sua tragedia non finisce qui: nella sera Kafi estrae due lamette che aveva tenuto nascoste in bocca sotto le guance e si taglia di nuovo le braccia e il torace per un atto di estremo autolesionismo, che però non diventa tentato suicidio perché è già ricoverato in infermeria, dove si trova tuttora in isolamento. Nel frattempo al Braccio G8, Giovanni, l’appuntato che aveva aperto la cella di Kafi, si è sentito male, è svenuto ed è stato portato a braccia anche lui all’infermeria. Così, quando un Fabio Falbo sudato e prossimo al collasso mi viene ad avvertire di quello che è successo e vado in infermeria a vedere la situazione, mi trovo davanti ad una scena surreale e toccante: Giovanni in divisa, steso sul lettino e circondato da un gruppo di detenuti che lo confortavano. Uno gli tiene la mano, l’altro gli trova una caramella per fronteggiare il calo di zuccheri, un altro gli parla all’orecchio. Solidarietà tra persone, al di là del ruolo, della divisa e della detenzione. Spirito di comunità tra due categorie di vittime del sovraffollamento e del caldo nelle carceri (e dell’indifferenza della politica): le persone detenute e quelle con la divisa della penitenziaria. Ho scritto al Presidente Mattarella chiedendo che a tutti coloro che hanno partecipato ai soccorsi e sventato in extremis questo suicidio, venga dato un riconoscimento ufficiale: Fabio, Giuseppe detto Peppe, Francesco, Andrea, Massimo, Fabrizio e Lutfim, con l’infermiera Gloria. Mi risponderà? Non ha importanza, l’importante è che continui a sollecitare la politica a svegliarsi e a fare qualcosa di serio. Nel frattempo un’altra persona detenuta, Mohamed, egiziano di 33 anni, malato di scabbia, è stata chiusa in isolamento al secondo piano, senza niente in cella, senza televisore, senza ventilatore. *Ex Sindaco di Roma, attualmente detenuto a Rebibbia Rivolta al carcere minorile di Torino. Arrivano condanne per 35 anni di Rita Rapisardi Il Manifesto, 10 luglio 2025 Contestato a nove ragazzi il reato di “devastazione” per i disordini avvenuti nell’agosto del 2024. In totale sono stati inflitti oltre 35 anni di reclusione ai nove ragazzi accusati della rivolta dei primi di agosto 2024 al carcere minorile di Torino. La sentenza con rito abbreviato è stata pronunciata martedì 8 luglio poco prima della mezzanotte, dopo un’udienza iniziata alle nove del mattino. I disordini al Ferrante Aporti, secondo le ricostruzioni di un anno fa, avevano coinvolto decine di detenuti che avevano appiccato un incendio nel primo padiglione della struttura e distrutto alcuni uffici. I motivi della rivolta sarebbero state le condizioni difficili e il sovraffollamento del penitenziario, all’epoca 52 detenuti a fronte di 40 posti disponibili. “Il forte caldo di quei giorni, il sovraffollamento e le condizioni carcerarie, non sono motivi banali per spiegare quanto successo”, sottolinea Cristian Scaramozzino, difensore di uno degli indagati, che mette in dubbio il riconoscimento dei futili motivi, sottolineando comunque i fatti gravi avvenuti durante la rivolta. L’avvocato, insieme ad altri colleghi, ha anche contestato il reato di condanna, devastazione e saccheggio, rimandando invece alla nuova fattispecie entrata in vigore con il decreto sicurezza: “È assolutamente incomprensibile la scelta di non applicare la “rivolta in un istituto penitenziario” quando la normativa inserita nel decreto sicurezza è chiara e incontestabile. Il tribunale ha applicato una fattispecie che non si adatta più alla situazione. Presenteremo appello”. La “rivolta penitenziaria” ha pene inferiori, da uno a cinque anni, rispetto agli otto per devastazione. “Non si poteva parlare di rivolta: questa figura introdotta solo di recente e peraltro, oltre a far sorgere dei dubbi di costituzionalità, è punita con pene inferiori”, ha detto Emma Avezzù, procuratrice presso il tribunale per i minorenni di Torino. Al di là della condanna la rivolta al Ferrante Aporti è specchio della situazione invivibile delle carceri, che a distanza di un anno non è cambiata, è strutturale nel panorama italiano. Lo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un recente intervento ha definito il tema “emergenza nazionale”. “Servono urgenti interventi di manutenzione e ristrutturazione per porre rimedio alle condizioni strutturali inadeguate di molti istituti”, ha detto Mattarella sottolineando anche l’inerzia della politica di fronte alle dure condizioni che si aggravano proprio nel periodo estivo. Inoltre gli istituti minorili sembrano vivere maggiormente nell’ombra, denuncia Filippo di Blengino, segretario di Radicali Italiani: “Abbiamo presentato richieste di accesso civico per ottenere i dati sul sovraffollamento dei centri per minorenni, ma da sette di questi non abbiamo ottenuto risposta. La giustizia, specie quando coinvolge minori, dovrebbe essere un palazzo di vetro, accessibile, aperto, controllabile”. Denunce sul tema giungono ogni giorno da chi si occupa di queste realtà dimenticate. Al 30 giugno 2025, le carceri italiane ospitavano 62.728 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51.300 posti, un dato che i sindacati definiscono “non degno di un Paese civile e patria del diritto”. Le dure condizioni detentive si traducono in decine di atti di autolesionismo giornalieri e in suicidi, 37 dall’inizio dell’anno a cui bisogna aggiungere anche tre operatori. Nel frattempo il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, minimizza e lavora per la costruzione di nuovi centri detentivi, anziché optare per le misure alternative che, come dimostrano gli studi, abbattono le recidive. Scelte che riguardano anche la giustizia minorile, il dipartimento preposto ha infatti annunciato un taglio dei nuclei organici che si occupano dei controlli sulle misure alternative. Salerno. Detenuto morto dopo visita e diagnosi, condannati 3 medici di Nicola Sorrentino Il Mattino, 10 luglio 2025 Aniello Bruno, 50 anni, di Angri, morì in carcere il 1 aprile del 2018. Il Tribunale ha emesso sentenza per i tre imputati di omicidio colposo. Diagnosi errata, detenuto muore dopo visita in ospedale. Per quei fatti, tre medici sono stati condannati al termine del processo di primo grado, celebrato presso il Tribunale di Salerno. Sullo sfondo c’è la morte di Aniello Bruno, 50enne di Angri, avvenuta il 1 aprile del 2018 all’ospedale ospedale di Aragona. La causa della morte era legata ad uno choc settico, risultato di una peritonite stercoracea che andò complicandosi, a causa di una ischemia intestinale. Il tribunale ha condannato a 6 mesi, con pena sospesa, tre medici. I primi due, in servizio presso il carcere di Fuorni, il terzo al pronto soccorso dell’ospedale del capoluogo. Un quarto medico, operativo presso il penitenziario, è stato invece assolto. Per comprendere cosa sia andato storto nella gestione di quel paziente toccherà attendere 30 giorni, quando sarà depositata la sentenza che permetterà alle difese di ricorrere in appello, oltre che a illustrare la dinamica dei fatti e il ragionamento dei giudici. Stando all’accusa originaria, i tre imputati avrebbero agito con “negligenza, colpa e imperizia” - secondo la più classica formula inquirente quando si tratta di medici - contribuendo - a seconda dei ruoli - al decesso del detenuto. Quest’ultimo era stato visitato più volte all’interno del carcere, alla fine di marzo di quell’anno. Eppure, il quadro clinico sarebbe stato sottovalutato dai medici, che non ordinarono esami strumentali adeguati. Una volta in pronto soccorso, il 50enne angrese fu registrato con una diagnosi di colica renale. Tuttavia, secondo le parti civili - rappresentate dall’avvocato Pierluigi Spadafora - non vi erano riscontri a quella specifica diagnosi. Il paziente ritornò in carcere ma le sue condizioni peggiorarono velocemente. Al punto che il giorno dopo morì. La perizia del Tribunale aveva escluso responsabilità nei medici. Non quella della parte offesa, che aveva invece sostenuto l’esatto contrario. Al termine dell’istruttoria l’accusa aveva chiesto sentenza di assoluzione per tutti gli imputati, ad eccezione del medico del pronto soccorso. Il Tribunale ha deciso diversamente, riconoscendo tre degli imputati colpevoli e aggiungendo il risarcimento dei danni a beneficio dei familiari della vittima, che saranno quantificati in sede civile. Bolzano. “Mancano docce e wc nelle celle, questo è il peggiore carcere d’Italia” di Vittorio Savio Corriere dell’Alto Adige, 10 luglio 2025 Non usa mezze misure il segretario nazionale generale Uil-Pa della polizia penitenziaria Gennarino De Fazio dopo aver visitato la struttura di via Dante, insieme a una delegazione composta dal segretario regionale Antonio Cifelli, al consigliere nazionale, Nicolino Budano, e ad altri dirigenti territoriali del sindacato. Struttura fatiscente quella di via Dante, nonostante gli interventi di ristrutturazione in corso d’opera, ma unico carcere italiano ad avere ancora nelle celle in uso le turche al posto del water. Una struttura in carenza di organico: 61 gli agenti assegnati, ne servirebbero 136. “Apprezziamo gli sforzi che sta operando il direttore - spiega Di Fazio. Gli interventi di ristrutturazione hanno sicuramente migliorato in parte la situazione, ma restano molte criticità. Le docce in comune non sono a norma, le normative prevedono che siano nelle celle. Inoltre, Bolzano è l’unico carcere in Italia dove l’ufficio delle guardie è ricavato in una cella”. Un appello alla politica è quanto di immediato i sindacati si sentono di fare. “Sono decenni che a Bolzano si continua a parlare di un nuovo carcere - prosegue il segretario generale della Uil-Pa. Bisogna che il ministro Carlo Nordio, ma anche l’amministrazione provinciale, si diano una mossa per risolvere questa questione. Non si può andare avanti in questa situazione di degrado e precarietà”. Aosta. Due detenuti impiegati al McDonald’s: parte il progetto di reinserimento sociale aostanews24.it, 10 luglio 2025 Da circa due settimane due detenuti della casa circondariale di Brissogne, ammessi al lavoro esterno, sono regolarmente impiegati presso il McDonald’s di Aosta. A comunicarlo è la Direttrice dell’istituto penitenziario, Velia Nobile Mattei, che ha definito l’iniziativa “una concreta risposta alla sfida del reinserimento” e parte di un piano di collaborazione con l’associazione ‘Seconda Chance’ e la società Finoallafine s.r.l. L’obiettivo è chiaro: promuovere opportunità di reinserimento attraverso il lavoro, puntando su una riduzione della possibilità di recidivare. I due detenuti, assunti in tempi rapidi, sono destinati alla stabilizzazione occupativa, mentre nuove risorse sono già state selezionate per rispondere a un possibile aumento della forza lavoro richiesta. “Il lavoro è indispensabile per il detenuto perché dà dignità, senso del dovere e speranza”, ha dichiarato la dott.ssa Nobile Mattei. È il più potente strumento di giustizia sociale e sicurezza: riduce la frustrazione, restituisce motivazione e alleggerisce il carico su chi lavora negli istituti penitenziari. È quindi un investimento in dignità e sicurezza per tutti”. Brindisi. Carceri minorili, “messa alla prova” e detenzione: priorità educative da tutelare brindisitime.it, 10 luglio 2025 L’intervento della Garante dei detenuti. Le carceri minorili italiane sono state a lungo considerate un’eccellenza a livello europeo per la loro capacità di coniugare finalità rieducativa, inclusione sociale e tutela dei diritti dei minori. Questo paradigma si è tradotto in strumenti concreti come la messa alla prova (art. 28 DPR 448/1988), il collocamento in comunità e il coinvolgimento dei servizi territoriali. Tuttavia, negli ultimi anni, il sistema ha subito una preoccupante torsione repressiva con una tendenza alla detenzione anche in presenza di reati minori. Con il Decreto Caivano (DL 123/2023, L.?159/2023) si è abbassata la soglia per la custodia cautelare minorile, a discapito di misure alternative. Tra il 2022 e l’aprile 2025, i minori detenuti negli IPM sono passati da 392 a 611 (+55%), con solo 27 ragazze - un aumento insostenibile senza adeguati potenziamenti strutturali. Valentina?Farina, Garante delle Persone Private della Libertà Personale per la Provincia di Brindisi, avverte: “Servono interventi urgenti soprattutto in relazione al sovraffollamento e alla medicalizzazione del disagio intramurario che accentuano una condizione insopportabile. Il valore della nella giustizia minorile non è mera clemenza, ma uno strumento educativo-rieducativo in grado di interrompere il ciclo deviante, intervenendo sulle cause profonde come la povertà educativa. La detenzione dovrebbe essere un’extrema ratio, non una risposta automatica”. Sovraffollamento, impoverimento educativo e medicalizzazione. Nei 9 IPM più sovraffollati - con punte sopra il 150% in istituti come Milano, Treviso e Cagliari - si riscontrano carenze strutturali e relazionali gravi, con uso massiccio di psicofarmaci (spesa aumentata del 1.000%). Episodi di violenza istituzionale e un boom di suicidi (91 nel 2024 e 33 solo nei primi cinque mesi del 2025) delineano un disagio strutturale. Per far fronte all’emergenza, spazi IPM sono stati ricavati all’interno di carceri per adulti: una coabitazione che mina la separazione necessaria tra circuiti e compromette l’efficacia educativa. In relazione ai casi di matricidio negli ultimi mesi la Puglia è stata teatro di episodi e storie di violenza irreversibile familiare. Giovani in stato confusionale, gravi criticità relazionali e psicologiche, omicidi emblematici di un disagio accresciuto, emerso da esiti estremi di un disfacimento del clima familiare, dell’assenza di spazi di ascolto e dell’inefficacia dei primi segnali di disagio. Non si tratta di semplici atti criminali, ma richiami forti verso la necessità di interventi precoci sul versante della tutela minorile, in famiglia, a scuola, nei servizi sociali; è la denuncia di una comunità che non è riuscita a intercettare i segnali di crisi prima della tragedia. Questi fatti non vanno letti esclusivamente come eventi criminali, ma come l’esito estremo di un fallimento diffuso nel sistema educativo e di welfare. Farina commenta: “Quando si arriva al gesto estremo, la domanda non può essere: ‘come punire’ ma come educare. Il ruolo della difesa nella salute mentale come parametro giuridico, merita in futuro la valutazione dei coefficienti della salute mentale: traumi, fragilità cognitive, dipendenze. L’attivazione di perizie psico-sociali, relazioni terapeutiche e consulenze cliniche è essenziale per costruire una strategia multilaterale e capaci di tutelare il minore anche al di fuori del carcere”. Pavia. Raccolta straordinaria di beni di prima necessità per i detenuti diocesi.pavia.it, 10 luglio 2025 L’ondata di caldo che sta colpendo duramente tutta la popolazione in Italia e in Europa rende ancora più dura la vita in carcere, soprattutto per i detenuti privi di reti familiari. Per rispondere a questa emergenza, la Diocesi di Pavia, insieme alla Caritas Diocesana e alla Cappellania della Casa Circondariale, lancia una raccolta straordinaria di beni di prima necessità: shampoo, bagnoschiuma, saponette, dentifrici, spazzolini, deodoranti (no spray), abiti estivi (magliette, t-shirt, polo, pantaloni corti; taglie S, M, L, XL), ciabatte da doccia e scarpe da tennis o leggere (taglie 41-44). Un gesto concreto per affermare dignità e solidarietà, ricordando le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “È drammatico il numero di suicidi nelle carceri, che da troppo tempo non dà segni di arresto. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale, sulla quale occorre interrogarsi per porvi fine immediatamente”. Per partecipare alla raccolta, è possibile contattare il cappellano don Dario Crotti (347 9439679) o Antonella (349 5325009). Spoleto (Pg). Speranza e cultura: il Mondo che non c’è nelle carceri italiane edunews24.it, 10 luglio 2025 La X Giornata Nazionale del Cesp a Spoleto apre il dibattito su recupero, reinserimento ed emergenza umanitaria nello scenario carcerario italiano. Il 3 luglio 2025 si è svolta presso la suggestiva cornice di Spoleto la decima edizione della Giornata Nazionale del “Mondo che non c’è”, un evento organizzato dal Cesp (Centro Studi per la Scuola Pubblica) che, ormai da anni, punta l’attenzione sull’emergenza carceraria italiana proponendo una riflessione profonda sui temi del recupero dei detenuti, della risocializzazione e del ruolo centrale della cultura all’interno delle mura penitenziarie. L’appuntamento annuale ha visto quest’anno la presenza di oltre 700 partecipanti, tra cui operatori educativi, volontari, ex detenuti, studenti, esponenti del mondo dello spettacolo e delle istituzioni, riuniti per promuovere il dialogo e dare voce tanto alla sofferenza quanto alla speranza che può sorgere anche laddove sembrerebbe irrimediabilmente negata. Il contesto: il carcere in Italia oggi - L’appuntamento della giornata nazionale del “Mondo che non c’è” assume una rilevanza ancora maggiore nel contesto attuale, segnato da una crisi sistemica delle carceri italiane. Le cronache più recenti hanno denunciato, con dati e testimonianze, il peggioramento costante delle condizioni di vita nei penitenziari italiani. Il sovraffollamento, la carenza di personale, la scarsità di attività riabilitative e di percorsi di formazione rappresentano oggi alcune delle problematiche più gravi. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, spesso la popolazione carceraria supera di oltre il 30% la capienza regolamentare delle strutture. In molti casi le condizioni igieniche non sono idonee, il supporto psicologico è insufficiente e il percorso di recupero si interrompe a favore di una gestione meramente detentiva, lasciando i detenuti in una spirale di marginalità e abbandono. Proprio questo scenario drammatico ha spinto il Cesp a Spoleto a ribadire l’importanza della riflessione, non come esercizio accademico, ma come motore per un cambiamento radicale. La giornata si è quindi trasformata in uno spazio di confronto e proposta e, attraverso testimonianze dirette, seminari e spettacoli, ha tentato di restituire dignità agli invisibili delle nostre carceri. Cultura e speranza oltre le sbarre - Uno dei punti nevralgici della “Giornata Nazionale del Mondo che non c’è” è stata la valorizzazione della cultura come strumento di emancipazione e riscatto. La presenza di un pubblico attento e partecipe, costituito anche da operatori che quotidianamente si occupano del recupero detenuti, ha reso tangibile l’importanza degli strumenti culturali come motore di cambiamento. Il recupero detenuti e il reinserimento ex detenuti rappresentano oggi il banco di prova non solo del sistema penitenziario, ma di tutta la società. È ormai evidente che un approccio meramente punitivo difficilmente conduce a una riduzione della recidiva; al contrario, investire nella cultura, nella formazione e nella creazione di spazi di espressione artistica può favorire nuove narrazioni personali e sostenere il difficile percorso verso il reinserimento sociale. Nei diversi interventi durante la giornata, è stato posto l’accento sull’importanza delle biblioteche in carcere come luoghi di libertà, conoscenza e rielaborazione critica dell’esperienza. L’accesso ai libri e alle attività culturali, infatti, permette di ricostruire una dimensione individuale spesso annullata dalla detenzione. L’esperienza della Compagnia #SIneNOmine - Grande successo ha riscosso lo spettacolo messo in scena dalla Compagnia #SIneNOmine, che ha visto la partecipazione entusiasta di oltre 700 spettatori. Lo spettacolo, con la sua intensità emotiva e la sua forza espressiva, ha dato voce a storie di marginalità, ingiustizia, ma soprattutto di resistenza e speranza. Gli attori, molti dei quali formatisi attraverso esperienze laboratoriali in contesti detentivi, hanno portato in scena una drammaturgia capace di toccare corde profonde nel pubblico, ricordando come il teatro possa essere un potente veicolo di riscatto personale e collettivo. La presenza di ex detenuti tra gli interpreti ha reso ancora più autentico il messaggio dello spettacolo e ha testimoniato concretamente il valore della cultura in carcere come strumento di crescita e di possibilità di cambiamento reale. Le autorità intervengono: la denuncia della Corte Costituzionale - Uno dei momenti più significativi della giornata è stato rappresentato dall’intervento del Presidente della Corte Costituzionale, chiamato a dare una fotografia istituzionale della situazione carceraria italiana. La sua ferma denuncia del deterioramento delle condizioni nei penitenziari italiani ha costretto l’intera platea a confrontarsi con la realtà degli ultimi tempi: suicidi sempre più frequenti, isolamento, abbandono e violazioni dei diritti umani sono diventati ormai temi ineludibili. Il Presidente ha sottolineato come il sistema penale italiano si trovi di fronte a una duplice responsabilità, quella di garantire la sicurezza collettiva, ma soprattutto quella di non tradire i principi costituzionali sui quali si fonda lo Stato di diritto. “Non esistono cittadini di serie B”, ha affermato, evidenziando l’esigenza di una svolta che metta al centro la persona e il percorso di rieducazione e risocializzazione garantito dalla nostra Costituzione. La denuncia delle condizioni carcerarie in Italia è stata dunque rilanciata con forza come questione d’emergenza democratica, rispetto alla quale la società civile, le istituzioni e il volontariato sono chiamati a un rinnovato impegno, in vista della costruzione di un mondo che non c’è, ma che potrebbe e dovrebbe esserci. La voce degli ex detenuti tra reinserimento e difficoltà sociali - Un altro focus centrale del seminario è stato rappresentato dalle testimonianze degli ex detenuti, che hanno condiviso, spesso con emozione e coraggio, la propria esperienza di restrizione della libertà e il faticoso percorso di reinserimento sociale. Il racconto è stato tutt’altro che retorico: emergono con chiarezza tutte le difficoltà legate allo stigma sociale, alla difficoltà di trovare lavoro, alla precarietà abitativa, alla mancanza di una rete di sostegno concreta. La detenzione, spesso, finisce per segnare in modo indelebile il percorso di vita, rendendo ancora più arduo il cammino verso la normalizzazione e la dignità. Non sono mancati però sguardi di speranza. Come è stato sottolineato, la presenza di un tessuto associativo attento, di misure alternative e di laboratori culturali e formativi può davvero rappresentare una via di uscita. Tuttavia, perché tali strumenti siano efficaci, è indispensabile una collaborazione tra amministrazione penitenziaria, comunità territoriale e operatori specializzati. Focus sulle tavole rotonde: biblioteche e misure alternative - La decima Giornata Nazionale del “Mondo che non c’è” ha visto la realizzazione di due tavole rotonde molto partecipate, dedicate da un lato al tema delle biblioteche in carcere, dall’altro alle misure alternative alla detenzione. Il primo tavolo ha approfondito l’importanza delle biblioteche in carcere, non solo come spazi di lettura, ma come veri e propri presidi civici dove ogni detenuto può riscoprire il piacere della lettura, l’importanza dello studio e il diritto alla conoscenza. Esempi virtuosi da tutta Italia sono stati presentati, tra cui spicca la rete di biblioteche penitenziarie attiva anche a Spoleto, che offre, grazie alla collaborazione di docenti, educatori e volontari, un servizio prezioso e spesso insostituibile. Il secondo tavolo si è soffermato sulle misure alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e il lavoro di pubblica utilità. Si tratta di percorsi che, in presenza di determinate condizioni, possono favorire la progressiva liberazione del detenuto non attraverso la cella, ma mediante la responsabilizzazione e la costruzione di nuovi legami sociali. La riflessione ha posto in evidenza alcune criticità legate all’accessibilità e all’omogeneità nell’applicazione di queste misure nei diversi territori, ma ne è stato ribadito il valore come strumenti capaci di ridurre la recidiva e di concretizzare la funzione rieducativa della pena. Il ruolo della cultura nel recupero - Nell’ambito del seminario, il punto di convergenza tra i vari interventi è stato inequivocabilmente la centralità della cultura come leva di emancipazione. Da tempo gli operatori del settore sottolineano come la cultura in carcere sia, al contempo, strumento e obiettivo: strumento per riattivare percorsi di riflessione personale e crescita, obiettivo nella misura in cui permette di concepire l’inserimento sociale non come un atto meramente burocratico, ma come una vera e propria rinascita. La logica che ispira il Cesp Spoleto è quella della responsabilità collettiva: recuperare un detenuto significa restituire un cittadino alla società, non lasciarlo nella condizione di “scarto” o “invisibilità”. In questa prospettiva, le attività laboratoriali, le biblioteche, il teatro e la scrittura diventano strumenti fondamentali per ricostruire l’identità e attribuire nuovo senso al futuro. Prospettive, criticità e possibili soluzioni - La giornata si è conclusa con un confronto aperto sulle prospettive future e le criticità persistenti. L’intreccio tra condizioni carcerarie Italia, misure alternative carcere e reinserimento ex detenuti necessita di ripensamenti profondi, sia a livello di risorse che di visione culturale. Gli operatori hanno chiesto con forza un aumento degli investimenti in progetti culturali, una maggiore collaborazione interistituzionale e il monitoraggio costante dei percorsi di reinserimento, affinché non rimangano iniziative isolate ma si radichino davvero nel tessuto sociale. È emersa la consapevolezza che lo sforzo deve essere condiviso e costante, e che la battaglia contro la recidiva si vince con il coraggio di rompere stereotipi e promuovere inclusione. Sintesi e conclusioni - La X Giornata Nazionale del “Mondo che non c’è”, organizzata dal Cesp Spoleto, ha rappresentato un importante momento di riflessione pubblica su temi spesso silenziati o marginalizzati. Attraverso il dialogo tra istituzioni, operatori, volontari e detenuti, l’evento ha posto in evidenza come la dignità, il rispetto dei diritti e il recupero detenuti siano elementi inscindibili da una società giusta e civile. Il seminario ha ribadito la necessità di investire nella cultura in carcere, valorizzando le biblioteche, il teatro, i laboratori e le misure alternative come strumenti efficaci per il reinserimento ex detenuti e la riduzione della recidiva. Ha lanciato infine una proposta concreta: che il mondo che non c’è oggi nelle carceri italiane possa diventare, grazie allo sforzo collettivo, il mondo che sarà, fondato sulla speranza, sull’incontro umano e sulla possibilità di una nuova cittadinanza. C’è ancora tempo per il dialogo. O per affossare la legge sul fine vita di Francesca Spasiano Il Dubbio, 10 luglio 2025 Slitta il termine per gli emendamenti, martedì le audizioni di quattro giuristi. Nessuno ha fretta di approvare una legge sul fine vita bruciando i tempi. Ma bisogna chiarirsi sull’obiettivo: se si fa slittare l’Aula è per favorire il dialogo tra le forze politiche, non per “insabbiare” il testo. Più o meno così si ragiona dalle parti del Pd, che insieme al Movimento 5 Stelle ha chiesto un mini- ciclo di audizioni in commissione Affari costituzionali del Senato per verificare la costituzionalità del ddl presentato dai relatori Pierantonio Zanettin (Forza Italia) e Ignazio Zullo (Fratelli d’Italia) e adottato come testo base dalle commissioni Giustizia e Affari sociali di Palazzo Madama. Gli altri gruppi non si sono opposti, seppure la richiesta appare “irrituale”. Le audizioni in sede consultiva, infatti, non sono la prassi - aveva spiegato il presidente della commissione in quota Fratelli d’Italia, Alberto Balboni - ma il via libera dovrebbe certificare lo spirito conciliativo che la maggioranza dimostra nei confronti delle opposizioni. Il clima che ne conseguirà potrà rivelarsi soltanto dopo il 17 luglio, quando scadrà il termine per la presentazione degli emendamenti inizialmente fissato per ieri. In quella fase si valuteranno anche gli spazi di mediazione possibile, dopo aver acquisito il parere degli esperti che saranno auditi il 15 luglio alle 11.30. In tutto si tratterà di quattro audizioni, due per la maggioranza e due per le opposizioni. Il centrodestra ha scelto due professori di diritto costituzionale, Mario Esposito e Lorenza Violini, mentre la minoranza punta sui nomi di Giuliano Amato e Vladimiro Zagrebelsky. Il loro punto di vista sarà utile alla Commissione Affari Costituzionali per formulare un parere. E aggiustare il tiro con gli emendamenti. Solo dopo si passerà all’Aula, ma è ancora presto per ipotizzare una data. Sul calendario del Senato resta impressa quella del 17 luglio, che sarà rinviata di almeno una settimana: dal 23 in poi è tutto possibile, dopo il voto sulla separazione delle carriere previsto per il 22. Ma si fa strada l’idea che il dossier sarà rimandato a settembre, con tutte le conseguenze del caso. I dem temono che il centrodestra possa “approfittarne” per far saltare la legge, dopo mesi di rinvii e polemiche nel comitato ristretto del Senato. Mentre la maggioranza spera di frenare la valanga di emendamenti attesi dalle opposizioni, che di certo tratteranno tutti i nodi irrisolti: dal ruolo del Servizio sanitario nazionale, escluso per volontà di Fratelli d’Italia, alla composizione del comitato nazionale che dovrà valutare le richieste di accesso al suicidio assistito. “Nel governo, quando si tratta di affrontare i nodi veri del Paese, si rinvia sempre. Lo abbiamo denunciato e lo diciamo ancora oggi perché non abbiamo nessuna intenzione di consentire ancora giochi politici sul fine vita. Il Pd, i gruppi di opposizione, hanno chiesto un ulteriore chiarimento, ma con tempi rapidissimi, per la settimana prossima, perché insistiamo che se ne debba occupare il servizio sanitario nazionale. Chi soffre, chi è in una condizione drammatica, non può vedere lo Stato in fuga”, ha spiegato il presidente dei senatori del Pd Francesco Boccia conversando con i cronisti al termine della riunione dei capigruppo. “Lo Stato deve accompagnare chi è in quella condizione. Per queste ragioni le audizioni che abbiamo chiesto servono a far capire alla maggioranza che stiamo parlando di una condizione di grande sofferenza di cui si deve far carico lo Stato. Non si può privatizzare la sofferenza, questo lo vogliamo sottolineare”, ha aggiunto l’esponente dem. “Vogliamo approvare la legge entro la pausa estiva - ha concluso -, speriamo con l’unanimità e con il sostegno anche di quella parte della maggioranza che ha una idea assolutamente regressiva dei diritti”. Qualche “ritocco” arriverà anche da Forza Italia, che sul servizio sanitario ha avuto i suoi dubbi. Ma bisognerà vedere anche cosa ne diranno i giuristi “chiamati” in Senato: se la privatizzazione delle prestazioni suscita perplessità in chi teme disparità tra malati su base economica, c’è chi sostiene che la Consulta non ha mai sancito un diritto al suicidio assistito, che resta soltanto una “scelta” depenalizzata. Nel frattempo, la politica dovrà fare i conti anche con altri due o tre elementi che “pesano” sulla discussione. In primis, la sentenza della Corte Costituzionale sull’eutanasia, che dopo l’udienza dell’8 luglio dovrebbe arrivare in tempi brevi. E poi ci sarebbe la decisione sulla legge della Toscana, impugnata dal governo dopo l’approvazione dello scorso febbraio. Il centrodestra vuole evitare “fughe in avanti”, con le regioni che procedono in ordine sparso. E l’Umbria potrebbe essere la prossima: proprio ieri ha raggiunto la soglia delle firme necessarie per la proposta di legge elaborata dall’Associazione Luca Coscioni per regolamentare l’aiuto medico alla morte volontaria. Migranti. Dalla Consulta un monito debole, ma i Cpr vanno chiusi di Alessandra Algostino Il Manifesto, 10 luglio 2025 Preoccupa l’abdicazione della Corte nella garanzia della Costituzione. Lascia sopravvivere la norma anche e se incostituzionale: gli stranieri sono esseri umani un po’ meno umani? Trattenere, alias detenere, uno straniero in un centro di permanenza per il rimpatrio determina un “assoggettamento fisico all’altrui potere”, con conseguente mortificazione della dignità umana: comprime la libertà personale. La Corte costituzionale è limpida nell’affermarlo, come nel sostenere che ne consegue la necessità di rispettare le garanzie dell’articolo 13 della Costituzione: riserva di giurisdizione e riserva assoluta di legge. Sono garanzie che non subiscono attenuazioni riguardo agli stranieri e concernono sia i casi sia i modi del trattenimento (come chiarito anche dalle corti di Lussemburgo e Strasburgo). I modi - prosegue la Consulta - non sono adeguatamente disciplinati con fonte primaria né vi sono le condizioni per colmare la lacuna attraverso il riferimento ad altre discipline; manca anche una “efficace tutela processuale”. Un percorso argomentativo ineccepibile, bruscamente interrotto - contraddittoriamente - da una dichiarazione di inammissibilità, con monito al legislatore perché intervenga. Senza cedere alle sirene di salvifiche oligarchie giudiziarie, a detrimento dello spazio del Parlamento, resta che dichiarare l’incostituzionalità di una norma è compito della Corte in quanto garante della Costituzione. Tanto più stridente la mancata incostituzionalità laddove - sono le parole della stessa Consulta - si consideri “la centralità della libertà personale nel disegno costituzionale”. Perché non dichiarare, coerentemente e semplicemente, l’illegittimità costituzionale? Forse “gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione” che non possono scalfire il carattere universale della libertà personale - che “spetta ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani” - hanno inciso sulla determinazione della Consulta? L’incostituzionalità della norma avrebbe condotto alla chiusura dei Cpr? Sarebbe un atto di civiltà non un attentato alla Repubblica. Preoccupa l’abdicazione della Corte nella garanzia della Costituzione. E preoccupa il monito al legislatore. Debole, perché deboli sono i moniti - non si contano quelli inevasi (per tutti, l’eutanasia) - e debole perché lascia sopravvivere la norma anche se incostituzionale: forse che gli stranieri siano sì esseri umani ma… un poco meno umani? Ancora. Il monito è debole perché non si può trascurare il contesto e, dunque, il rischio che il legislatore, ovvero facilmente il governo con decreto legge, si limiti a dare una base legale a detenzioni che, di fatto, non rispettano i diritti. Sarà ritenuto sufficiente un retorico riferimento alla dignità umana e al rispetto di standard formali? Il precedente di una convalida che è già pura forma, rimessa ad un “visto” del giudice di pace, non lascia ben sperare. E allora, è opportuno ricordare l’articolo 3 della Costituzione, l’eguaglianza sostanziale, la considerazione dell’effettività: è sul piano del fatto che i modi devono rispettare la dignità; i diritti, come insiste, con costante giurisprudenza, la Corte europea dei diritti dell’uomo, devono essere non teorici ed illusori ma pratici ed effettivi (la Corte oggetto delle critiche nella lettera promossa da Italia e Danimarca). I giudici che ora dovranno decidere sulla convalida dei trattenimenti non possono disapplicare la legge, ma nemmeno possono ignorare la sua incostituzionalità: l’auspicio è che ogni convalida divenga una questione di legittimità costituzionale. Non solo. È ora di rimettere in discussione anche i casi della detenzione: è legittimo restringere la libertà personale perché sono violate norme sull’ingresso e il soggiorno nel territorio? È un bilanciamento ragionevole tra libertà personale e controllo dell’immigrazione? Questo, anche se la detenzione fosse efficace ai fini del rimpatrio: e non lo è mai stata, nei quasi trent’anni (era il 1998) dalla sua nefasta introduzione con la legge Turco-Napolitano, nell’altalena di nomi e tempi. Certo, il discorso cambia se l’intento effettivo è, da un lato, contribuire alla criminalizzazione e disumanizzazione dei migranti; dall’altro, costituire laboratorio di sperimentazione di un diritto speciale, connotato da un alto tasso di arbitrarietà e da tutele, per usare un eufemismo, stemperate. Nell’era dell’autoritarismo che avanza, e, come mostra tragicamente Israele, la detenzione amministrativa è uno strumento utile contro tutti i nemici, in chiave razzista e politica. Negli occhi ho il Cpr di Torino, gabbie d’acciaio, mani aggrappate, occhi spenti e Moussa Balde, morto suicida (o è omicidio di Stato?). I modi di detenzione sono costituzionalmente illegittimi, mettiamo in discussione anche la legittimità dei casi. Nel nome dei diritti inviolabili della persona (articolo 2), i Cpr devono essere chiusi. Migranti. Mobilitazione doppia contro i trattenimenti di Simone Libutti Il Manifesto, 10 luglio 2025 Frontiere Tra oggi e domani in Basilicata - a Palazzo San Gervasio e Potenza - si terrà una due giorni di mobilitazione contro la detenzione amministrativa dei migranti e per la chiusura dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). Tra oggi e domani in Basilicata - a Palazzo San Gervasio e Potenza - si terrà una due giorni di mobilitazione contro la detenzione amministrativa dei migranti e per la chiusura dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). La manifestazione - organizzata dall’Assemblea lucana NoCpr e dal Network Against Migrant Detention - avrà luogo davanti al Cpr di Palazzo San Gervasio, simbolo del fallimento del sistema di trattenimento amministrativo. Proprio nel Cpr lucano il 4 agosto 2024 è stato trovato morto Oussama Darakaoui, ragazzo marocchino di soli 22 anni, trasferitosi in Italia per raggiungere la zia. Il tragico avvenimento ha riacceso le luci sul tema degli abusi, soprattutto la somministrazione di psicofarmaci, su cui sta già indagando la magistratura potentina: due mesi fa il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Potenza, Lucio Setola, ha rinviato a giudizio 18 imputati, tra cui quattro medici, per gli abusi avvenuti tra il 2018 e il 2022. Attualmente il Cpr è gestito da Officine Sociali che ha appena rinnovato il mandato biennale, nonostante le denunce riguardanti la mancanza di personale e servizi adeguati. La mobilitazione di giovedì e venerdì prossimo si inserisce in questo quadro. L’obiettivo è contestare tutto il “sistema Cpr”, a partire da quello lucano. Il presidio vedrà la partecipazione di tante associazioni - tra cui Giochi Antirazzisti e YaBasta Bologna - pronte a rivendicare la necessità di “abolire i centri per migranti, in Europa e altrove”. Nel secondo e ultimo giorno di protesta si terrà invece a Potenza un’assemblea pubblica per rimettere al centro l’urgenza di un’azione collettiva “contro la criminalizzazione delle persone in movimento e la violenza delle frontiere”, sia a livello nazionale che globale. Da Guantanamo ai centri libici, fino al protocollo Roma-Tirana che ha permesso la nascita delle strutture detentive extraterritoriali di Gjader. Le associazioni denunciano come Bruxelles - con l’approvazione del nuovo Piano Ue su migrazione e asilo - voglia gradualmente estendere il sistema di trattenimento amministrativo, normalizzandolo. Sistema che la Consulta ha ritenuto, con la sentenza del 3 luglio scorso, una forma di “assoggettamento fisico all’altrui potere, incidente sulla libertà personale” e mancante delle previsioni di legge richieste dalla Costituzione. Migranti. È un rifugiato politico ma viene arrestato in Italia su richiesta dell’Iran di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2025 Doveva essere una vacanza in famiglia, una pausa d’estate tra le spiagge della Sardegna. Ma per Mahdi Rahimian, cittadino olandese di origine iraniana e rifugiato politico riconosciuto nei Paesi Bassi, si è trasformata in un incubo: manette ai polsi, arresto su mandato della Repubblica Islamica e il rischio concreto di finire consegnato a chi lo perseguita da anni. Martedì scorso, Irene Testa, garante regionale per le persone private della libertà, ha scritto al ministero dell’Interno per mettere in luce l’incongruenza tra lo status di rifugiato politico e cittadino Ue di Rahimian e il suo arresto in Italia. Nella richiesta di chiarimenti, la garante ricorda che Rahimian era fuggito dall’Iran per motivi religiosi - la conversione al cristianesimo e l’aiuto a connazionali in fuga - e aveva ottenuto protezione e cittadinanza nei Paesi Bassi. Perciò chiedeva di spiegare le basi giuridiche che hanno permesso di eseguire, sul territorio italiano, un mandato di estradizione emesso dalla Repubblica Islamica, in apparente violazione delle garanzie europee per i rifugiati. Il 4 luglio scorso, la Digos di Sassari ha notificato il mandato di estradizione emesso nel novembre 2021 dall’Autorità giudiziaria di Bandar Abbas, accusando Rahimian di presunta frode - reato punibile fino a sette anni di carcere. All’udienza del 7 luglio, il tribunale di Sassari ha convalidato l’arresto, ma sostituito la custodia in carcere con l’obbligo di firma quotidiana ad Arzachena e il ritiro del passaporto. Nella motivazione della corte d’Appello di Cagliari, i giudici hanno giudicato “generiche” le informazioni trasmesse dall’Ambasciata olandese sul perché Rahimian avesse ottenuto lo status di rifugiato, senza indicazioni chiare sulla persistenza del rischio di persecuzione religiosa. Addirittura, si legge nelle motivazioni, che “allo stato degli atti, attesa la genericità delle informazioni non sussistono le condizioni per ritenere che, se estradato, il Rahimian sarà sottoposto ad atti persecutori per motivi religiosi”. Quindi nulla osta all’estradizione secondo l’art. 714, comma3, c. p. p. Parole che lasciano perplessi. In Iran, come denunciano diverse ong, la conversione dall’islam al cristianesimo è illegale e i convertiti possono essere arrestati e rinchiusi in prigione. Il governo interpreta le conversioni come un tentativo occidentale di minare l’islam e il governo iraniano stesso. Ciò significa che chiunque venga scoperto membro di una chiesa domestica può essere accusato di crimini contro la sicurezza nazionale: tale accusa può condurre a lunghe pene detentive. Chiunque venga arrestato o detenuto può subire torture e abusi durante la prigionia. Da qui l’intervento della garante regionale dei diritti, Irene Testa, che a Il Dubbio definisce “surreale” l’impostazione della Corte: “Se lo rimandano in Iran, la prima cosa che fanno è impiccarlo, lo fanno fuori”, ha denunciato. “Come può un rifugiato politico, cittadino Ue, ricevere protezione nei Paesi Bassi e finire in cella in Italia per aver aiutato altri iraniani a fuggire?”. La normativa europea è chiara: lo status di rifugiato riconosciuto in uno Stato membro vincola gli altri paesi dell’Unione a non rimandare chi gode di protezione internazionale in luoghi dove rischia persecuzioni o torture (direttiva? 2011/ 95/ UE). Eppure, la vita di Rahimian resta appesa a un filo. Resta da chiedersi: quale verifica ha condotto il ministero dell’Interno sulla credibilità delle garanzie iraniane? In un momento in cui l’Europa pretende coerenza tra principi e prassi, l’Italia può permettersi di ignorare l’ombra cupa del regime di Teheran? E soprattutto: fino a che punto il rispetto degli accordi internazionali e la tutela dei diritti umani possono cedere il passo a un foglio firmato a Bandar Abbas? Migranti. In fuga da Al Sisi, in Italia trova solo sbarre e Cpr di Lorenzo D’Agostino Il Manifesto, 10 luglio 2025 Da quando è entrato in Italia ad agosto 2018 sulla nave Diciotti, Mohammed Ezet Al Jezar ha conosciuto solo la detenzione. In tre forme diverse. La prima senza neanche una parvenza di legalità. Da quando è entrato in Italia ad agosto 2018 sulla nave Diciotti, Mohammed Ezet Al Jezar ha conosciuto solo la detenzione. In tre forme diverse. La prima senza neanche una parvenza di legalità: bloccato per nove giorni a bordo sull’unità della guardia costiera, con altri 177 naufraghi, per ordine dell’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini. A marzo la Cassazione ha certificato che fu un atto di puro arbitrio, condannando lo Stato italiano a risarcire i migranti. La detenzione più lunga, stavolta sancita da un giudice, arriva dopo lo sbarco. Accusato con altri due egiziani di essere uno degli scafisti del peschereccio su cui viaggiava, Al Jezar è stato arrestato e condannato a otto anni. Ne ha scontati sei e mezzo: a marzo ha ottenuto la liberazione anticipata per buona condotta. Subito dopo è stato trasferito in un Cpr, per “pericolosità sociale”. “Finito di scontare la pena ero felicissimo, finalmente era arrivata la libertà - racconta per telefono al manifesto dal Centro di permanenza per i rimpatri di Trapani - Ma all’ufficio matricola c’era la polizia ad aspettarmi per portarmi al Cpr”. A giustificare la presunta pericolosità basta la condanna per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una sentenza che si basa su prove particolarmente esili anche per gli standard dei processi agli scafisti. “Nel mio processo non è venuto nessun testimone a dire: ha guidato lui”, ricorda. Le cinque dichiarazioni che lo indicano come parte dell’equipaggio sono solo nei verbali di polizia. Nessuna è stata confermata in aula: i testimoni erano irreperibili. Eppure quegli stessi naufraghi hanno poi fatto causa allo Stato per il trattenimento sulla Diciotti. La prova principale contro Al Jezar è un messaggio trovato su un telefono attribuito a lui: “Stai attento, non accendere il Thuraya (telefono satellitare) in mare… che Allah ti aiuti”. Il messaggio è di due mesi prima dello sbarco, non fa riferimento a quel viaggio e Al Jezar nega che il telefono fosse suo. I giudici non gli hanno creduto, ma nella sentenza escludono un ruolo nell’organizzazione criminale. “Le organizzazioni non affidano a propri uomini l’ultima parte del viaggio - scrivono - Per il rischio di affondare e la possibilità di essere riconosciuti e accusati”. Il 5 luglio il trattenimento di Al Jezar nel Cpr è stato prorogato per altri 90 giorni. Una decisione che ignora la pena scontata, i permessi premio, il volontariato in carcere, l’offerta di alloggio e lavoro di un’associazione palermitana. Per i giudici la condanna passata è una marca di pericolosità sociale inestinguibile. L’avvocato Pasqualino contesta: “La pericolosità va valutata all’attualità, non può basarsi solo su una condanna già espiata”. Cercava la libertà, Al Jezar, in fuga da una condanna a cinque anni di lavori forzati inflitta da un tribunale militare del regime di Al Sisi. Per aver abbandonato il posto di guardia, dice la sentenza, vista dal manifesto. In Italia ha trovato solo prigionia: “Da quando sono entrato qua i giudici e la legge italiana mi hanno fatto solo soffrire. Comandano loro, io non sono nessuno. Posso solo usare la mia voce stanca, ma non ce la faccio più, sono stanco di esprimere il mio dolore tramite un telefono”. Dopo la proroga, ha iniziato uno sciopero di fame e sete. Con temperature vicine ai 40 gradi, è durato tre giorni. Domenica scorsa, capito che nessuno l’avrebbe ascoltato, l’ha interrotto. La sua è una delle tante proteste invisibili che attraversano i Cpr italiani, da Caltanissetta a Bari. Detenuti senza condanna si rifiutano di essere sepolti vivi: “Ti danno pastiglie per dormire, dicono: così non pensi troppo. Tutti fanno avanti e indietro e ci guardano: polizia, militari, carabinieri, dirigenti, lavoratori. Ci guardano come animali del circo, chiusi in gabbia”. Migranti. La Grecia sospende l’asilo. Meloni teme Putin dietro Haftar di Marco Bresolin e Ilario Lombardo La Stampa, 10 luglio 2025 Il Governo italiano in allarme per i flussi di migranti dall’Egitto verso la Libia. Mentre il governo italiano punta apertamente il dito contro i diplomatici dell’Unione europea per il pasticcio di Bengasi e la Commissione risponde che “noi non partecipiamo alla scaricabarile perché si trattava di una missione organizzata congiuntamente”, le conseguenze del clamoroso “respingimento” da parte delle autorità libiche del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, dei colleghi greco e maltese e del commissario Magnus Brunner iniziano già a produrre i primi effetti sul fronte migratorio. Con l’Italia che teme una nuova ondata di sbarchi nei mesi estivi. Ieri il governo greco ha preso misure straordinarie: Atene ha deciso di sospendere per tre mesi l’esame delle domande d’asilo per chi arriva dal Nordafrica, di costruire un nuovo centro di detenzione in cui rinchiudere chi sbarca e ha annunciato che rimanderà in Libia tutti i migranti entrati illegalmente. Il primo ministro Kyriakos Mitsotakis ha voluto inviare “un messaggio chiaro ai trafficanti e ai loro potenziali clienti: le nostre porte sono chiuse e quindi soldi spesi (per la traversata, ndr) sono soldi buttati”. Da domenica circa duemila migranti sono sbarcati in Grecia. Gli ultimi 520 sono stati salvati ieri a sud di Creta. Dall’inizio dell’anno gli arrivi sono stati 7.300, contro i cinquemila dell’intero 2024. Per questo il premier ha deciso di usare il pugno duro “per un periodo iniziale di tre mesi”, decisione poi comunicata anche alla Commissione europea. La questione investe tutti i Paesi membri, a partire dall’Italia che ora si trova teoricamente esposta alla possibilità che gli scafisti possano dirottare i migranti verso le coste nazionali. Le preoccupazioni del governo sono a più livelli, e spiegano anche il senso della missione dell’8 luglio finita con il divieto di sbarco del ministro Piantedosi, dei colleghi maltese e greco Byron Camilleri e Thanos Plevris, e del commissario europeo agli Affari Interni Brunner. La delegazione era arrivata in Cirenaica dopo la tappa a Tripoli - dove è in carica l’unico governo riconosciuto da Onu e Ue in Libia - per assicurarsi che non venisse meno il controllo sulle partenze degli uomini del generale Khalifa Haftar. Gli accordi, informali, prevedono rapporti bilaterali e investimenti in crescita con Bengasi, in cambio di un lavoro serrato sulle rotte dei migranti. Al generale viene chiesto di fare di più. I numeri degli sbarchi dalla Libia, infatti, stanno aumentando. Secondo i dati del Viminale, poco meno di 29 mila migranti sugli oltre 30 mila arrivati in Italia nel 2025 partono dalle coste libiche (anche se viene riconosciuto un maggiore impegno sia sul fronte del recupero in mare da parte della Guardia costiera locale, sia sul fronte dei rimpatri volontari assistiti). La sensazione degli italiani trasmessa a Bruxelles prima del viaggio è che la pressione migratoria in aumento sulla Libia possa rafforzare il potere di ricatto di Haftar, e dietro di lui dei suoi principali sostenitori, la Russia e la Turchia. Che la sponda sud del Mediterraneo - al netto dell’Ucraina - sia l’arma principale in mano a Vladimir Putin contro l’Europa è una convinzione che la premier Giorgia Meloni ha provato a condividere in tutti i summit, dal G7 al vertice Nato de L’Aja. Nessuno può fidarsi dei libici. E gli italiani lo sanno più di chiunque altro. Il governo di Tripoli guidato da Abdul Dbeibeh è sotto il controllo delle milizie. Omicidi eccellenti e guerriglia permanente non fanno dormire sonni tranquilli ai funzionari Ue e al governo italiano. In questo caos, il clan di Haftar, con i figli in ascesa, sembra offrire più affidabilità e dare più garanzie sul controllo del territorio. Così viene motivato da fonti diplomatiche lo spostamento strategico degli interessi del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, da Tripoli a Bengasi, assieme alla necessità di frenare le mire di Putin sui porti della Cirenaica, dopo il collasso del regime amico di Assad in Siria. L’Egitto è l’altra preoccupazione italiana, legata geograficamente alla porzione di Libia su cui regnano gli Haftar. Stanno aumentando gli arrivi dal Bangladesh e dall’area mediorientale infiammata dalla guerra di Gaza. Il governo del Cairo fatica a gestire i flussi di migranti, spesso lasciati passare al confine est libico. Queste sono le ragioni principali che hanno reso non rinviabile la visita a Bengasi dei ministri e del commissario Ue. L’incidente diplomatico che li ha costretti a rientrare anzitempo, con l’etichetta di “persone non grate”, si è prodotto dopo che l’ambasciatore Ue in Libia, l’italiano Nicola Orlando, si era opposto all’”accoglienza” predisposta dal governo di Bengasi, non riconosciuto a livello internazionale. Per l’Ue un incontro con gli esponenti dell’esecutivo della Cirenaica avrebbe significato legittimarlo. Atteggiamento bollato ieri come “un eccesso di zelo” da parte del ministro Piantedosi, che in Libia è ormai un habitué ed è solito avere incontri a diversi livelli. Ma per la diplomazia di Bruxelles, molto attenta al rispetto dell diritto internazionale, si trattava di una linea rossa. “L’Ue ha una politica unica sulla Libia - ha precisato ieri un portavoce della Commissione - e collabora con il governo di unità nazionale (di Tripoli, ndr), riconosciuto dopo la mediazione Onu”. La Commissione ha confermato che durante la tappa in Cirenaica la delegazione aveva intenzione di incontrare “le forze armate libiche”, ma si è rifiutata di confermare esplicitamente un faccia a faccia con il generale Haftar. Bosnia. I trent’anni di un genocidio. Gli echi di Srebrenica nei massacri dell’attualità di Gigi Riva Il Domani, 10 luglio 2025 L’11 luglio del 1995 la catena di comando al Palazzo di Vetro di New York non diede l’ordine di muovere l’aviazione per fermare i carri armati in marcia. Solo fuori tempo massimo i raid vennero autorizzati, i serbi erano già dentro la città. Da Srebrenica in poi l’Onu ha confermato la sua assoluta inconsistenza. L’irrilevanza a Gaza come in Ucraina è la coda di un processo irreversibile. Eppure il pianeta ha bisogno di un’Onu o di qualunque suo surrogato. In un luogo fuori rotta, tra montagne ricoperte da folti boschi, nelle case di un borgo bucolico dal nome antico che richiama fin dalla radice del nome, Srebrenica, i fasti perduti di una miniera d’argento (srebro) di epoca romana, si consumò definitivamente, trent’anni fa, l’11 luglio del 1995, la distruzione di un modo di stare al mondo come l’avevamo conosciuto. Chi scrive aveva appena consegnato all’editore un libro, scritto con Zlatko Dizdarevic, che avrebbe avuto come titolo L’Onu è morta a Sarajevo. Ci fu il tempo di aggiungere nel testo, prima che andasse in stampa, “ed è stata sepolta a Srebrenica”. L’Onu, per quanto pletorica e farraginosa, era l’organizzazione che aveva gestito l’ordine così come era stato concepito dai vincitori della Seconda guerra mondiale. Aveva svolto la sua missione persino con profitto fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989. Benché ammaccata godeva ancora di un minimo di reputazione prima che la missione cosiddetta “di pace” dei suoi caschi blu in Bosnia ne dimostrasse l’obsolescenza. Non era l’Onu a essere cambiata, ma il contesto internazionale che l’aveva prodotta. Da allora, da Srebrenica, ha confermato la sua assoluta inconsistenza. L’irrilevanza certificata a Gaza come in Ucraina è la coda di un processo di putrefazione purtroppo irreversibile. Queste parole non dovrebbero suonare accusatorie ma amare. Perché il pianeta ha bisogno di un’Onu o di qualunque suo surrogato. Il 16 aprile del 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva pomposamente proclamato con la Risoluzione 819 Srebrenica e altre città bosniache (Sarajevo, Gorazde, Zepa, Tuzla e Bihac) “zone protette”. Perché fossero protette andavano smilitarizzate. Compito che toccò, a Srebrenica, al generale francese Philippe Morillon. Il quale pretese la consegna delle armi dei difensori del borgo bosgnacchi (o musulmani di Bosnia) accerchiati dalle milizie serbe. Alla popolazione che non lo voleva lasciare partire dopo la sua visita nel timore che via lui sarebbe successo il peggio, aveva solennemente giurato: “Saremo noi a proteggervi”. Srebrenica era il punto di riferimento per tutta l’area circostante e la sua popolazione, lievitata da 15 mila a 60 mila persone, sfollati dei villaggi vicini. La sua “colpa” agli occhi degli architetti dell’ideologia della “Grande Serbia” stava in qualcosa di immutabile: la posizione geografica, a dieci chilometri dalla Drina il fiume che segna il confine tra la Bosnia e la Serbia e in una zona della Bosnia abitata a maggioranza dai serbi. Dunque da “ripulire” della presenza dei musulmani in vista, magari, di una futura annessione alla madre patria di là dalle acque del fiume. Secondo l’idea dominante nei Balcani negli Anni 90, e diffusa ancora oggi, bisognava “separare i vivi o contare i morti”. Non sta forse alla radice del progetto di Putin quando sostiene di voler riunire tutti i russi in uno Stato? O di Netanyahu quando, resa impossibile la soluzione dei due Stati, rifiutato lo Stato binazionale, sta pensando di cacciare tutti i palestinesi da Gaza e magari domani dalla Cisgiordania? La periferia che periferia non era - È per queste assonanze con la contemporaneità che il trentesimo anniversario da Srebrenica sta godendo di un’attenzione maggiore rispetto al passato. L’anno scorso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo definì “genocidio”, stesso termine usato in diverse sentenze del tribunale penale internazionale. Non avendo appreso quella lezione, i tentativi di genocidio si sono succeduti sino a farci pentire della nostra cecità. Le guerre nei Balcani erano considerate periferiche, non in grado di rovinare il sogno del resto d’Europa di una pace perpetua kantiana, semmai bisognava solo stendere un cordone sanitario attorno all’area infettata dal virus nazionalista per restare immuni. In realtà il virus era già dilagato e i Balcani annunciavano il nostro futuro. Ma cosa successe a Srebrenica? Con lo scopo di ripulire etnicamente tutto il territorio a ridosso della Drina, le truppe del generale serbo Ratko Madic mossero verso l’enclave protetta in teoria da 320 caschi blu olandesi. Gli olandesi anziché porre un argine all’aggressione si ritirarono nella loro base di Potocari consegnando docilmente la popolazione nelle mani della soldataglia serba. Sarebbe tuttavia ingiusto riversare tutta l’ignominia su quei soldati dell’Onu, lasciati anche loro soli. La catena di comando che partiva dal Palazzo di Vetro di New York non diede mai l’ordine di muovere l’aviazione per fermare i carri armati in marcia verso Srebrenica. Né tale iniziativa prese Yasushi Akashi, il giapponese inviato speciale del segretario generale Boutros Boutros-Ghali. E analogamente i comandanti dei caschi blu di stanza a Zagabria. Solo fuori tempo massimo i raid vennero autorizzati, ma impossibilitati ad essere efficaci perché i serbi si trovavano già dentro Srebrenica. Era l’11 luglio 1995. Cosa accadde - Una parte di uomini, timorosi del peggio, cercarono la salvezza con una marcia, un vero esodo biblico, verso il territorio libero di Tuzla. In decine di migliaia si riversarono nella base di Potocari nella vana speranza che i soldati blu potessero salvarli. Il generale Mladic, ripreso dalle telecamere mentre accarezzava la testa bionda di un bambino e gli donava delle caramelle, ordinò che fossero separati gli uomini (compresi gli adolescenti sopra i 12 anni giudicati in gradi di combattere) dalle donne e dai bambini. Avviò i primi allo stadio di Bratunac che da campo di calcio si trasformò in campo di concentramento. Le donne e i bambini furono ammassati su autobus che li portarono verso la libertà. Le torture sugli uomini e le sevizie sulle donne a Potocari vennero documentate da un video girato dagli olandesi e distrutto agli stessi autori, secondo il capo di Stato maggiore di Amsterdam Hans Couzy. Cancellato dai comandanti secondo un’inchiesta della Bbc. Ciò che avvenne dopo è stato documentato dallo splendido libro Metodo Srebrenica di Ivica Dikic (Bottega errante editore). Mladic diede l’incarico al colonnello Ljubisa Beara di organizzare, gestire e portare a termine il genocidio nel più breve tempo possibile. Più di ottomila musulmani di Bosnia vennero uccisi nello spazio di tre giorni e i loro cadaveri fatti scomparire in fosse comuni sparse in tutta l’area circostante. Benché se ne avesse sentore da subito, l’entità del massacro fu chiara solo dopo alcuni mesi quando, grazie a rilevamenti satellitari si scoprirono le fosse comuni. Per il reato di genocidio sono stati condannati all’ergastolo il generale Mladic, il presidente della cosiddetta Repubblica serba di Bosnia Erzegovina Radovan Karadzic, il colonnello Beara oltre a diversi altri ufficiali. A Potocari è stato eretto un memoriale che si estende a perdita d’occhio e comprende decine di prati dove ogni stele bianca a forma di parallelepipedo porta il nome di una vittima. Migliaia degli assassinati (non ancora tutti) hanno potuto avere un nome grazie alle moderne tecniche di ricostruzione del dna e all’opera degli anatomo-patologi di trentadue Paesi del mondo. Trent’anni dopo, il loro lavoro continua. Bosnia. Srebrenica, una settimana di amnesie e di complicità di Riccardo Noury* Il Domani, 10 luglio 2025 L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato l’11 luglio come giornata del ricordo, ma sarebbe stato più giusto definirla della vergogna verso chi andava protetto. Possono le parole “protezione” e “genocidio” stare in un’unica frase? Sì. Ci sono state nel modo più tragico trent’anni fa in Bosnia, in piena Europa. Sono unite, e lo resteranno per sempre nella memoria dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime, dal genocidio più veloce della storia: oltre 10.000 morti nel giro di una settimana, a partire dall’11 luglio 1995. Srebrenica, nella Bosnia nordorientale, in quell’estate contava 42.000 abitanti, 36.000 dei quali profughi da altre zone sottoposte a pulizia etnica. Era assediata da tre anni dalle forze serbo bosniache. Abitanti e sfollati confidavano nella “protezione” internazionale, stabilita in ritardo dalla risoluzione 819 approvata il 16 aprile 1993 dal Consiglio di sicurezza. Srebrenica era a maggioranza musulmana ma si trovava in quella parte della Bosnia che, sulle carte militari ma anche già su quelle della diplomazia, sarebbe spettata alla Republika Srpska, l’entità con cui le autorità di Belgrado, capitale dell’allora Repubblica Federale di Jugoslavia (comprendente Serbia e Montenegro), avevano reagito al referendum per l’indipendenza della Bosnia del 1992. Nelle capitali occidentali era chiaro che la guerra sarebbe finita con una divisione della Bosnia corrispondente alle maggioranze presenti (pazienza se a seguito di trasferimenti forzati o di altri crimini). Srebrenica era il principale ostacolo a questa soluzione. Non ci si immaginava a che prezzo sarebbe stato rimosso. O forse sì. La “protezione” di Srebrenica era affidata a un battaglione olandese di 600 caschi blu: il Dutchbat 3, guidato dal bonario colonnello Thom Karremans. L’attacco finale da parte delle forze del generale serbo-bosniaco Ratko Mladi? iniziò il 6 luglio 1995. La mattina del 10 luglio Karremans chiese appoggio aereo alla Nato. Lo ottenne solo il giorno dopo: alle 14,40 dell’11 luglio due missili colpirono due tank serbi già fuori uso. L’impegno della comunità internazionale per la “zona protetta” si esaurì così. Alle 16.15 dell’11 luglio, di fronte alle telecamere, Mladi? proclamò tronfio l’avvenuta conquista di Srebrenica. Poco dopo Karremans fece chiudere i cancelli del compound dell’Onu dove si erano riversate alcune migliaia di civili. Molti di più rimasero fuori e si avventurarono per le montagne, dove furono sterminati. Non andò meglio ai maschi rifugiatisi nel compound: quelli “in età da combattimento” vennero consegnati da Karremans a Mladi?. Non mancò un brindisi, sempre a favore di telecamere. In meno di una settimana migliaia di uomini musulmani vennero passati per le armi. La prima commissione d’inchiesta, guidata dall’ex primo ministro polacco Tadeusz Mazowiecki, fissò inizialmente il numero dei morti a 7800. Negli anni successivi sarebbe emerso che a mancare all’appello erano oltre 10.000 persone. “Srebrenica è un nome che mette insieme immagini che preferiremmo non vedere mai: donne, bambini e anziani costretti a salire su autobus diretti verso destinazioni ignote; uomini separati dalle loro famiglie, privati dei loro effetti personali; uomini in fuga, uomini fatti prigionieri, uomini che non sarebbero più stati rivisti, uomini (non tutti) ritrovati morti; corpi uno sopra l’altro nelle fosse comuni; cadaveri con gli occhi bendati e mani e piedi legati; spesso, corpi smembrati e non identificati”. Questa citazione è tratta dalla prima sentenza per il genocidio di Srebrenica emessa dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia: il 2 agosto 2001 Radislav Krsti?, vice di Mladi?, è stato condannato a 46 anni, ridotti a 35 in appello. Per le due sentenze più importanti, nei confronti del capo politico dei serbi di Bosnia, Radovan Karadži?, nonché di Mladi?, si è dovuto attendere a lungo: ergastolo definitivo sia per il primo, nel 2019, che per il secondo, nel 2021. Si è dedicato a Srebrenica anche il tribunale che si occupa di stati e non di individui: nel febbraio 2007 la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto che era avvenuto un genocidio a opera delle forze della Republika Srpska e che la Serbia, pur non avendolo materialmente commesso, era venuta meno all’obbligo di prevenirlo. Il 23 maggio 2024 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato l’11 luglio “Giornata internazionale del ricordo del genocidio di Srebrenica”. Sarebbe stato più giusto definirla “della vergogna nei confronti di chi non volemmo proteggere dal genocidio”. *Portavoce di Amnesty International Italia Medio Oriente. Il report su Gaza fa infuriare gli Usa, Rubio: “Sanzioni a Francesca Albanese” di Marco Colombo Il Domani, 10 luglio 2025 Ma gli economisti difendono la relatrice Onu. In una lettera indirizzata all’Onu undici economisti internazionali, tra cui Thomas Piketty, Yanis Varoufakis e Nassim Taleb, si schierano a difesa della relatrice speciale sui territori palestinesi occupati, dopo gli attacchi di Usa e Israele che ne hanno chiesto la rimozione per aver denunciato le responsabilità di decine di aziende che traggono profitto dall’occupazione. “Sentiamo il bisogno di esprimere il nostro fermo sostegno a Francesca Albanese e di incoraggiare le Nazioni unite a respingere le insistenti richieste dei governi statunitense e israeliano”. Così, in una lettera aperta diffusa sui social dal greco Yanis Varoufakis, undici tra i principali economisti del mondo esprimono il proprio sostegno alla relatrice speciale delle Nazioni unite sui territori palestinesi occupati. Un testo con cui prendono le difese di Albanese, attaccata nei giorni scorsi dagli Usa, che ne hanno chiesto la rimozione, per aver denunciato nel rapporto “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio” le responsabilità di decine di aziende che traggono profitto dal massacro a Gaza. Ma per Washington non è così. Gli Usa hanno annunciato che imporranno sanzioni contro la relatrice italiana. Il segretario di Stato Marco Rubio ha definito “illegittimi e vergognosi gli sforzi di Albanese per fare pressione sulla Corte Penale Internazionale affinché agisca contro funzionari, aziende e leader statunitensi e israeliani”. È il primo risultato della visita negli Stati Uniti del premier israeliano Benjamin Netanyahu. La lettera - “La storia ci insegna che gli interessi economici sono stati fattori chiave e facilitatori delle imprese coloniali e spesso dei genocidi da esse perpetrati”. Inizia così la lettera con cui gli undici economisti, tra cui Thomas Piketty, Yanis Varoufakis e Nassim Taleb, elogiano il rapporto pubblicato il 30 giugno che, dicono, “costituisce un importante contributo alla comprensione dell’economia politica dello stato apartheid di Israele, della pulizia etnica dei palestinesi e, ora, del loro genocidio”. Nella lettera, gli economisti criticano duramente gli stati che nei giorni scorsi sono tornati a chiedere la rimozione di Albanese dal suo incarico all’Onu a causa delle sue denunce. “I governi degli Stati Uniti e di Israele, con la maggior parte dei governi europei troppo timidi per prendere posizione, chiedono alla comunità internazionale di chiudere un occhio sul genocidio in corso e, in particolare, sul ruolo chiave che le multinazionali e le aziende nazionali stanno svolgendo”. Una situazione che, ribadiscono, è invece necessario sottolineare per non dimenticare quali attori agiscono in quella che definiscono “forma di dominio nota come capitalismo coloniale razziale”. In particolare, evidenziano, sono tre le conclusioni che bisognerebbe trarre dal rapporto curato da Albanese, a partire dal profitto economico che le imprese conglomerate traggono dalla guerra in corso. Le imprese che producono armamenti, in particolare, hanno proliferato grazie al raddoppio del bilancio per la difesa da parte di Tel Aviv che, proseguono, “ha riversato ingenti “investimenti” nella macchina di morte israeliana attraverso questa rete internazionale di conglomerate complici”. Il secondo aspetto da sottolineare “è che i territori palestinesi occupati da Israele hanno funzionato come laboratorio e banco di prova ideale per le Big Tech - una funzione che la transizione dall’occupazione al genocidio ha solo accentuato”. Ma a sconvolgere maggiormente le coscienze dovrebbe essere il fatto che “le migliori università statunitensi ed europee dipendono finanziariamente dal rimanere legate a Israele”. Elementi che aiutano a gettare “una luce di importanza indescrivibile” su chi si sta rendendo complice delle atrocità di Israele. “Tra qualche anno - concludono - quasi tutti affermeranno di essersi opposti a questo genocidio. Ma è ora che le persone di buona coscienza prendano posizione”. E in effetti il rapporto, pubblicato il 30 giugno, sembra indicare la necessità di agire con urgenza per interrompere questo capitalismo coloniale. Il documento, infatti, analizza non solo la distruzione fisica e sociale del popolo palestinese, ma anche l’impalcatura economica e politica che rende possibile questa violenza sistematica. Secondo Albanese, Israele ha costruito un regime di apartheid fondato sull’espropriazione, la segregazione e l’annientamento progressivo dei palestinesi, con la complicità di governi e grandi imprese internazionali. Una denuncia che arriva diretta, senza usare mezzi termini: “Mentre leader politici e governi si sottraggono ai propri obblighi - si legge nel documento - troppe entita? aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana dell’occupazione illegale, dell’apartheid e ora del genocidio”. Ma a sorprendere è il contenuto del rapporto che non si limita a denunciare la complicità dei produttori di armamenti ma sottolinea le responsabilità di decine di aziende. E lo fa nominando in modo diretto alcuni dei principali colossi dell’economia mondiale. Da Ibm, che “opera in Israele dal 1972 addestrando personale militare e di intelligence”, a Microsoft, Alphabet e Amazon che “concedono a Israele un accesso praticamente esteso a tutto il governo alle loro tecnologie cloud e di intelligenza artificiale”. E poi Caterpillar, Booking, Airbnb, aziende agroalimentari e colossi dell’energia. Una pagina alla volta, un paragrafo dopo l’altro, Francesca Albanese evidenzia le responsabilità dirette e indirette di ogni azienda sottolineando come questo processo, le cui conseguenze sono oggi più che mai evidenti, non ha avuto inizio nel 2023 ma almeno 56 anni prima, dopo gli accordi di Oslo. Le reazioni - Come prevedibile, la pubblicazione del documento ha subito scatenato una tempesta diplomatica. Gli Stati Uniti, in una lettera dai toni durissimi indirizzata al Segretario generale dell’Onu, hanno chiesto la sua rimozione e il ritiro del documento, accusandola di parzialità e di aver oltrepassato i limiti del suo mandato. Israele, seguendo un copione già visto, ha parlato apertamente di antisemitismo, definendo il rapporto un attacco politico mascherato da analisi giuridica. L’Europa, in gran parte, ha scelto il silenzio, evitando prese di posizione pubbliche. A rompere l’isolamento, dunque, sono stati gli undici economisti che hanno firmato la lettera a sostegno di Albanese che, ancora una volta, si è trovata a dover subire attacchi trasversali per il suo lavoro di denuncia. Afghanistan. La Cpi mette i talebani nel mirino: “Donne vittime di persecuzione” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 10 luglio 2025 Una “persecuzione sistematica delle donne”. La Corte penale internazionale (CPI) ha spiccato per la prima volta due mandati di arresto contro due alti papaveri del regime dei talebani in Afghanistan, il leader politico del movimento Hibatullah Akhundzada e il presidente della Corte suprema Abdul Hakim Haqqani accusati di crimini contro l’umanità. I giudici dell’Aja ritengono che entrambi abbiano promosso, ordinato o incoraggiato atti di repressione contro le donne e le ragazze afghane. Oggi a Kabul le donne non possono frequentare la scuola secondaria, accedere all’università, esercitare un’attività professionale, passeggiare in un parco, andare in una palestra, in un bagno pubblico, in un salone di bellezza, recitare, cantare e persino recitare il Corano ad alta voce. Un dispositivo di segregazione totale e un “apartheid di genere” per impiegare le parole dell’Onu. Dal loro ritorno al potere nell’agosto 2021, i talebani hanno costruito un regime fondato su un’interpretazione inflessibile quanto artificiosa della legge islamica, imponendo divieti sempre più severi e punizioni feroci per chi trasgredisce, come la lapidazione nei casi di adulterio. le parole delle Nazioni Unite La Cpi documenta migliaia di episodi di privazione del diritto all’istruzione, di attentato alla privacy, alla libertà di movimento, di espressione, di pensiero, di coscienza e di religione, avvenuti tra il 2021 e il 2024. Le reazioni del regime islamico non si sono fatte attendere. Un portavoce del governo talebano ha definito “assurde” le accuse, ribadendo che l’Afghanistan non riconosce la legittimità della Corte internazionale e che le sue decisioni non influiranno sull’ “impegno incrollabile” per l’applicazione della sharia: “Ancora una volta, questo cosiddetto tribunale ha chiesto l’arresto di alcuni leader dell’Emirato islamico. Non abbiamo bisogno di questa corte e non la riconosciamo”. Al centro dell’indagine, Akhundzada rappresenta una figura tanto enigmatica quanto influente. Salito alla guida dei talebani nel 2016, dopo la morte del mullah Mansour in un attacco di droni statunitensi in Pakistan, ha esercitato il potere in modo schivo ma assoluto. Dalla sua abitazione di Kandahar, nel sud del Paese, pubblica proclami religiosi in occasione delle principali festività islamiche e governa attraverso decreti, evitando apparizioni pubbliche e mantenendo una rigida distanza dal mondo esterno. “Applicare la sharia è la nostra responsabilità fino alla morte”, dichiarava nell’agosto 2024, celebrando il terzo anniversario della presa di Kabul. Il suo braccio giuridico, Abdul Hakim Haqqani, condivide la responsabilità di avere istituzionalizzato e dato base legale un sistema di segregazione e repressione su base di genere, facendo dei tribunali lo strumento principe della persecuzione. Già lo scorso gennaio, il procuratore della Cpi Karim Khan aveva preannunciato la richiesta di mandati d’arresto, denunciando la “persecuzione senza precedenti, inammissibile e permanente” nei confronti delle donne, delle ragazze e della comunità Lgbtq+ in Afghanistan. Oltre guerra di genere, Khan ha ricordato che il regime talebano ha brutalmente silenziato ogni forma di opposizione politica, reale o presunta, con omicidi, torture, sparizioni forzate, stupri e altre violenze. Lunedì 7 luglio, anche l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che condanna il “sistema istituzionalizzato di segregazione” imposto ai danni delle donne afghane, segnalando un allineamento crescente della comunità internazionale nel rifiuto del regime misogino imposto dai talebani anche da parte di nazioni musulmane. In teoria, i mandati della Corte penale internazionale obbligano gli Stati membri ad arrestare gli individui incriminati se si trovano nei loro territori. In pratica, l’assenza dell’Afghanistan dall’elenco dei Paesi aderenti limita fortemente le possibilità di esecuzione dei mandati. Ma il segnale politico è forte: la giustizia internazionale ha preso posizione, anche contro chi si illude di poter agire impunemente in nome della religione.