Rivolte, suicidi e sovraffollamento. C’è anche un’Italia dietro le sbarre di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2025 Il sistema penitenziario è allo stremo: l’emergenza non è più solo una questione di sicurezza, ma di dignità umana e la politica resta sorda alla “rabbia”. La pressione nelle celle, stipate al limite dell’impossibile, è palpabile: ogni sussulto può trasformarsi in rivolta. Nel “37esimo Rapporto Italia” di Eurispes un capitolo dedicato a rivolte, suicidi e sovraffollamento svela senza esitazioni il dramma delle nostre carceri italiane. Nei nostri penitenziari la tensione è al limite: sono inagibili oltre 4.000 posti letto, aggravando la crisi. Nel 2024 i detenuti sono stati 61.861, a fronte di 51.312 posti disponibili, con un sovraffollamento medio del 20,55%. Tra le regioni, la Puglia guida la classifica con un impressionante 48% di eccedenza (4.355 presenze su 2.943 posti), seguita da Lombardia (+43,79%), Friuli Venezia Giulia (+42,36%) e Veneto (+40,44%). Solo Valle d’Aosta (-22,10%), Sardegna (-12,42%) e Trentino Alto Adige (-6,67%) fanno eccezione. La gravità del quadro emerge anche dai suicidi: nel 2024 se ne sono contati 83, cifra record che supera i dati dell’ultimo decennio. Ogni settimana un detenuto ha scelto la via estrema, schiacciato dall’isolamento, dal caldo estivo e dalle condizioni igienico-sanitarie precarie. Queste morti innescano spesso ondate di protesta e scontri con la polizia penitenziaria. Il caso più eclatante è quello del 6 settembre alla Casa Circondariale di San Vittore, a Milano: un recluso dà fuoco alla propria cella e muore carbonizzato; i compagni, in segno di rabbia, incendiano materassi, scatenando tensioni che hanno richiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Secondo il Rapporto Eurispes, le rivolte sono state 67, catalogate incrociando dati ufficiali del ministero della Giustizia, rapporti sindacali, fonti giornalistiche nazionali e locali e materiali rintracciati nel dark web. Ogni evento è codificato per data, luogo, numero di feriti e tipologia di azione: disordini, incendi, uso di armi bianche o bastoni. Nei 67 episodi si contano 89 feriti tra agenti e detenuti, con una media di 1,36 feriti per evento. Se si considera soltanto il 28% delle rivolte che ha provocato lesioni, la media schizza a 4,68 feriti a protesta violenta, cifra che conferma come gli scontri possano rivelarsi particolarmente cruenti quando degenerano. Dal punto di vista cronologico, i mesi estivi sono stati i più critici: luglio, agosto e settembre 2024 hanno concentrato il 68% delle sommosse, con luglio in testa a 22 eventi. Durante l’ondata di caldo, spesso accompagnata da blackout idrici, celle e corridoi sono diventati forni a cielo aperto, esasperando i detenuti. A peggiorare il clima, il dibattito politico sul “Disegno di legge Sicurezza”, che prevedeva l’introduzione del reato di rivolta in carcere, rendendo anche il semplice ritardo nel rientro in cella un’aggravante. Geograficamente, il Lazio è la regione più “calda”, con 18 rivolte, seguito dal Piemonte con 16: entrambe presentano carceri soffocate dal sovraffollamento, ma non sono le uniche a esplodere in protesta. Campania e Lombardia ne contano 8 ciascuna, Liguria e Toscana 3, Calabria, Sicilia e Friuli Venezia Giulia 2, Puglia, Trentino Alto Adige, Umbria, Valle d’Aosta e Veneto 1. Tra le città, Roma guida con 11 sommosse, Torino ne registra 8 e Milano 7. I penitenziari più in rivolta sono stati Roma - Regina Coeli e Ipm Casal del Marmo - Milano - Beccaria e San Vittore - e Torino - Lorusso e Cotugno e Ipm Ferrante Aporti. Quest’ultimo ha vissuto il 1° agosto una sommossa di circa 50 giovani detenuti, armati di bastoni e bombole incendiarie: dieci agenti sono rimasti intossicati e 12 minorenni sono stati trasferiti in ospedale per controlli. Tra le modalità di protesta, l’incendio è l’arma più comune (42% dei casi): materassi, lenzuola e bombole diventano torce di rabbia, simbolo di un disprezzo che arde dentro le celle. I disordini generalizzati - in cui rientra anche il rifiuto di tornare in cella - rappresentano il 45% delle azioni di protesta, spesso per denunciare condizioni di vita disumane, ritardi nelle visite mediche o reazioni a suicidi. Le armi bianche e i bastoni compaiono nei restanti casi, a volte in scontri alimentati da tensioni etniche, religiose o contrasti con gli agenti. Circa il 30% dei detenuti è straniero, elemento che rende l’eterogeneità culturale un ulteriore fattore di frizione. Il 2024 ha segnato un picco di tensione: il numero record di detenuti, l’aumento drammatico dei suicidi e il proliferare di rivolte dipingono un sistema penitenziario al collasso. In carcere la voce del dibattito pubblico arriva filtrata, ma arriva. Come evidenzia Eurispes, in diverse occasioni le rivolte sono esplose pochi giorni dopo l’approvazione di emendamenti punitivi. All’interno delle mura, anche il timore di un inasprimento delle pene, senza garanzie di percorsi di rieducazione, è diventato detonatore di proteste. Più che un’istanza di miglioramento, i detenuti temono un futuro ancora più duro: così nasce la rabbia che prende forma dietro le sbarre. Alla fine del viaggio nei numeri resta la sensazione di un sistema in caduta libera. Le rivolte non cessano, i suicidi non accennano a diminuire e il sovraffollamento peggiora anno dopo anno: il 2024 è il primo anno dal 2014 in cui il numero di detenuti supera quello dell’anno precedente, con un +2,81%. Significa che ogni nuova strategia legislativa e ogni promessa di riforma fin qui non solo non sono bastate, ma, in casi come il decreto sicurezza, hanno aggravato la situazione. Carcere, quando il volontariato è una vocazione. Incontri con i protagonisti di Antonella Barone gnewsonline.it, 9 giugno 2025 Difficile trovare una foto in cui Michalis Traitsis non sorrida. Di motivi per essere soddisfatto in effetti il fondatore di Balamòs Teatro ne ha: pur fra le varie criticità di cui parlerà nell’intervista, la sua visione del teatro ha superato i cancelli delle carceri veneziane, in cui opera da quasi vent’anni, per raggiungere la Biennale teatro, la Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia e molte istituzioni internazionali. Membro e socio fondatore del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (partner di un Protocollo d’intesa con il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), ha ottenuto l’encomio del Presidente della Repubblica e, nel 2013, il premio Critici del teatro. Greco di origine, nel 1986 è venuto in Italia per iscriversi alla Scuola superiore di giornalismo di Urbino. Il primo approccio con il mondo del teatro è avvenuto però durante la frequenza della facoltà di Sociologia. Spinto da un amico ad assistere a una lezione di teatro, “rimasi folgorato dall’energia che quella pratica poteva generare” racconta. Dal teatro universitario ai palcoscenici del carcere: come è accaduto? Tutto è iniziato con una collaborazione nel 2002-2003 con la casa circondariale di Pesaro e poi di Montacuto con un progetto di Vito Minoia. Poco dopo, nel 2006 ho creato negli istituti di Venezia il progetto Balamòs. Lei tiene a specificare di fare anche pedagogia teatrale. Da cosa è caratterizzato il suo metodo laboratoriale? L’aspetto pedagogico ha a che fare prevalentemente con quella che si potrebbe definire la formazione della persona e risiede nella propedeutica all’interpretazione di un ruolo, nell’acquisizione di tutti quegli strumenti che servono a fare teatro. La persona deve poter gestire corpo, mente e questo comprende respirazione, attività fisica, introspezione psicologica. Quando comincio a lavorare non rivelo mai il tema dello spettacolo ma cerco di capire, attraverso ricerca e sperimentazione, quali sono le specificità e le esigenze dell’interprete, in modo che possa approcciarsi al personaggio partendo da sé. Per me, infatti, il teatro non è interpretare ma “essere”. È elaborare il dolore per restituire bellezza. È quanto c’è di te che li interpreti di Romeo e Giulietta. In carcere mi sento di poter dire che ho scoperto una miniera. Ci sono molte persone che hanno bisogno di mettersi in discussione per dire la verità. Lei ha detto che non occorre che l’interprete sia artista, l’importante che lo sia il regista. Ma davvero non si può definire artista il detenuto attore? È un’affermazione che non è stata interpretata correttamente. Come ho detto, credo fermamente che la valenza del teatro sia elaborare il dolore per restituire bellezza: prendere un’emozione, contenerla e restituirla. In questo caso la professionalità è più un aspetto tecnico. Nel 2013 abbiamo ricevuto il premio dell’Associazione critici per il teatro per l’allestimento delle ‘Troianè perché è stato riconosciuto proprio questo aspetto. Le donne hanno fatto un lavoro sull’elaborazione del dolore in quanto le ‘Troianè è un canto funebre, non ha una trama. È stato molto significativo. In tal senso si può dire che le detenute hanno svolto un lavoro artistico pur non essendo professioniste. Circa venti i percorsi laboratoriali di Balamòs conclusisi con spettacoli nella SAT, ora chiusa, a Santa Maria Maggiore e, dal 2010, all’istituto femminile della Giudecca. Il suo progetto vanta una collaborazione molto stretta con la Biennale D’arte e con la Mostra del Cinema di Venezia. Fare teatro in carcere come “vicini di casa” della Biennale è più facile? In realtà, una delle caratteristiche del progetto Balamòs fin dall’inizio è stata quello di avviare relazioni con tutte le istituzioni territoriali per far conoscere fuori quello che si realizza dentro. Molto significativa è la collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara dove, dal 2005, conduco laboratori teatrali. Realizzo incontri e spettacoli con detenuti e studenti, ho collaborato con il Liceo Foscarini di Venezia, abbiamo un protocollo d’intesa con il Teatro stabile del Veneto e ogni anno realizziamo incontri didattici con attori ospiti della Biennale o di passaggio a Venezia per altri motivi. David Cronemberg, Matteo Garrone, Gabriele Salvatores, Gianni Amelio, Pupi Avati sono solo alcuni degli attori e dei registi ospitati in questi anni negli Istituti di Santa Maria Maggiore e della Giudecca. Quale è stato il loro contributo all’attività di Balamòs? Invitiamo artisti che riteniamo abbiano una sensibilità umana e sociale. Gli incontri sono preceduti dalla visione di film da loro diretti o interpretati in modo che si arrivi all’incontro preparati. Si tratta di incontri proficui che contribuiscono alla formazione dei partecipanti ai nostri laboratori. Di recente vi siete incontrati anche con Willem Dafoe, presidente della Biennale Teatro, e con Pietrangelo Buttafuoco presidente della Biennale di Venezia. L’attore statunitense ha molto apprezzato la vostra breve performance... Incontro importante perché nella prospettiva di rendere ancora più solida la collaborazione con la Biennale. Inoltre nel carcere di Santa Maria Maggiore si sta ristrutturando un locale da destinare a una sala teatrale aperta al pubblico. In conclusione, cosa manca al pieno riconoscimento della funzione del teatro in carcere? Manca il fatto di considerarci professionisti quali siamo mentre a volte sentiamo quasi di essere considerati operatori culturali di serie B. Una caratteristica positiva di Balamòs è il fatto di essere un’attività continuativa, un laboratorio permanente non soggetto a tempistiche e indipendente dai finanziamenti. Questo è possibile grazie al fatto che io ho un’attività come docente all’Università di Ferrara ma non tutti possono permettersi di investire tanto tempo a fronte di una precarietà e discontinuità nei fondi. In tutto il mondo, anche in Cina dove sono stato di recente, il teatro in carcere italiano è considerato un’eccellenza. Dispiace che non sia pienamente riconosciuto nel suo valore proprio in Italia. È indiscutibile che il teatro abbia per i detenuti una funzione riabilitativa ma in realtà il teatro in carcere riabilita anche la sua funzione proprio per il luogo in cui la esercita. Reinserimento difficile e recidiva ancora alta. “È ora di ripensare il carcere” di Stefano Liburdi Il Tempo, 9 giugno 2025 Il Presidente della Biennale di Venezia Pietrangelo Buttafuoco immagina una giustizia che non sia solo punitiva ma che sappia riparare, reintegrare e che esplori modelli alternativi. Trasformare o chiudere questo modello di carceri a distanza di quasi mezzo secolo, quella stessa sfida viene oggi rilanciata, in un altro ambito, da una voce autorevole come è quella del Presidente della Biennale di Venezia Pietrangelo Buttafuoco, scrittore, intellettuale e filosofo, che propone di ripensare radicalmente il sistema carcerario, fino a immaginare - come accadde per i manicomi - la chiusura delle carceri o almeno la trasformazione. Nel cuore della storia italiana, ci sono date che segnano non solo un cambiamento legislativo, ma una vera e propria svolta culturale. Il 10 maggio 1978 è una di queste, in un’Italia sconvolta dal terrorismo e dal ritrovamento, il giorno prima, del corpo di Aldo Moro, il Parlamento approvava in via definitiva la Legge 180, nota come Legge Basaglia, dal nome dello psichiatra veneziano che ne fu l’anima. Con quella legge, l’Italia diventava il primo Paese al mondo a decretare la chiusura dei manicomi, ponendo fine a un sistema che per decenni aveva rinchiuso, isolato e dimenticato migliaia di persone affette da disturbi mentali, ma anche disabili, emarginati, poveri. Quella legge non fu solo un atto normativo, fu una rivoluzione, una sfida alla paura, al pregiudizio, alla logica dell’esclusione. Una dichiarazione di fiducia nella possibilità di curare senza segregare, di accogliere senza rinchiudere. L’idea del Presidente Buttafuoco può sembrare estrema, ma invece affonda le radici in una riflessione profonda sul senso della pena, sulla funzione della giustizia e sul ruolo della società. Così come Basaglia ci costrinse a guardare in faccia la realtà dei manicomi, Buttafuoco ci invita oggi a interrogarci sul carcere: è davvero uno strumento di giustizia? O è diventato, come i manicomi di un tempo, un luogo di esclusione e abbandono? Questa non è un’idea folle, non è una provocazione ma è una sfida intellettuale che servirà come visione politica, affinché si possa trasformare questa concezione di carcere. Un’idea che può sembrare utopica, estrema, ma che merita di essere ascoltata, perché affonda le radici in una riflessione profonda sul senso della pena, della giustizia e della società. Non si tratta, di un’abolizione cieca o di una qualsiasi utopia, ma di una riflessione sul fallimento del carcere come strumento di rieducazione. Come il manicomio, anche il carcere è spesso un contenitore sociale: vi finiscono non solo i colpevoli di reati gravi, ma anche i marginali, i poveri, i tossicodipendenti, i malati psichici e alle volte capita qualche innocente. La recidiva è alta, il reinserimento difficile, la funzione rieducativa spesso solo teorica. Bisogna guardare oltre, ad immaginare una giustizia che non si limiti a punire, ma che sappia riparare, responsabilizzare, reintegrare. Una giustizia che non si fondi sulla privazione della libertà come unica risposta, ma che esplori modelli alternativi: la giustizia riparativa, le comunità terapeutiche, i percorsi di mediazione. Il paragone tra manicomio e carcere non è solo simbolico, entrambi sono istituzioni totali, come le definiva Erving Goffman: luoghi chiusi, regolati da norme rigide, dove l’individuo perde identità e autonomia. Entrambi rispondono a una logica di controllo sociale, più che di cura o giustizia, entrambi, infine, sono stati oggetto di critiche per le condizioni disumane, l’inefficacia, l’ingiustizia sistemica. Ma se la società ha avuto il coraggio di chiudere i manicomi, perché non può oggi interrogarsi sul carcere? Non si tratta di negare la necessità di protezione sociale o di giustizia, ma di chiedersi se il carcere, così com’è, sia davvero la risposta migliore, e se non sia giunto il tempo di una nuova rivoluzione culturale. Questo è un invito al pensiero, come la Legge Basaglia fu preceduta da anni di dibattito, sperimentazione e mobilitazione, così anche una riforma del sistema penitenziario richiede visione, coraggio e progettualità. Serve investire in alternative credibili, formare operatori, coinvolgere le comunità. Serve, soprattutto, una nuova idea di giustizia, che non si limiti a punire, ma che sappia riconoscere, ascoltare, trasformare. In un tempo in cui la sicurezza è spesso brandita come slogan, e la paura alimenta risposte repressive, la voce di Buttafuoco - come quella di Basaglia allora - ci ricorda che la civiltà di una società si misura da come tratta i suoi ultimi. E che forse, per essere davvero giusti, dobbiamo avere il coraggio di assistere ad un cambiamento radicale visto all’attuale sistema. Ci invita a guardare oltre l’abitudine, oltre la paura, oltre la punizione proprio come ha fatto Franco Basaglia che ci ha insegnato che la malattia mentale non è un crimine, e quindi oggi possiamo chiederci se il crimine debba necessariamente essere una condanna all’esclusione perpetua. Il carcere, come il manicomio, rischia di diventare un luogo dove si rinchiude ciò che non si vuole vedere, dove si dimenticano le persone dietro le colpe, dove la società abdica al proprio compito educativo e trasformativo. Trasformare o chiudere questo modello di carceri non significa aprire le porte, ma aprire la mente a nuove forme di giustizia. Significa credere che la sicurezza non si costruisce con le sbarre, ma con l’inclusione, la responsabilità, la cura. Significa, in fondo, avere il coraggio di immaginare un mondo migliore, come lo immaginò Basaglia nel 1978. Forse è tempo di guardare il carcere con gli stessi occhi con cui, mezzo secolo fa, abbiamo guardato il manicomio: non come una necessità, ma come un fallimento da superare. E allora, come oggi, la domanda non è se sia possibile. La domanda è: abbiamo il coraggio di farlo? L’incertezza del diritto nuoce ai magistrati di Salvatore Merlo Il Foglio, 9 giugno 2025 Il ministro Nordio alla Festa del Foglio. “Dopo la separazione delle carriere e la riforma del Csm, metteremo mano al codice di procedura penale”. Il reato di femminicidio, “un messaggio di attenzione”. Di recente noi abbiamo abolito il reato di abuso di ufficio che intasava i tribunali e ipotecava la serenità degli amministratori e ha alleggerito di molto il carico giudiziario. Poi ci sono invece delle situazioni dove non esiste una tutela e lì è giusto che intervenga la legge penale. Faccio un esempio. L’occupazione abusiva di case, che era, ed è ancora oggi, un flagello per quelle persone che hanno comprato un appartamento, magari anche modesto, con i frutti dei risparmi di una vita, vanno un paio di giorni, o anche un giorno solo, fuori di casa, ritornano e se lo trovano occupato da degli abusivi. Premetto che, secondo me, fino ad ora sarebbe dovuta intervenire la magistratura perché si trattava pur sempre di violazione di domicilio aggravata. Però, poiché le cose non sono cambiate, è stato giusto secondo noi introdurre questo reato, proprio per dare la possibilità ai proprietari di casa di estromettere subito l’occupante abusivo e di riprendere possesso della propria abitazione. Così le truffe agli anziani, le truffe informatiche. Fino a 10 o 20 anni fa i reati contro il patrimonio erano, per esempio, le rapine a mano armata in banca, che oggi sono molto diminuite per una ragione molto semplice: in banca non ci sono più denari perché è tutto dematerializzato. Mentre se un delinquente vuole agire, può svuotare il patrimonio, magari di una persona poco attenta, intervenendo sulla telematica e attraverso frodi informatiche. Per cui è una polemica piuttosto sterile. Per quanto riguarda l’innalzamento di pene, si tratta di innalzamento di pene edittali, quindi sta pur sempre alla magistratura applicare o meno le pene nel minimo o nel massimo. Una critica che è stata fatta, per esempio, riguarda il reato di femminicidio. Addirittura c’è un appello di ottanta giuriste donne che hanno spiegato, in maniera verrebbe da dire geometrica, che non serve a niente perché sono reati già puniti. L’omicidio è punito, è punito con severità. E allora l’impressione, di queste giuriste ma anche di un cittadino che osserva, è che di fronte a dei fenomeni difficili da contrastare, delle forme di devianza sociale, la cosa più facile talvolta sia quella di reintrodurre un nuovo reato che si aggiunge e complica le cose ma dà un segnale, aumentare le pene, con l’idea che aumentare la pena possa essere un deterrente a compiere questo reato. Ma non è dimostrato in nessun modo. Si parla, infatti, di populismo penale, che è un argomento, o di panpenalismo, che lei nei suoi libri ha anche affrontato. Lei non criticava questo modo di condursi nel legiferare? Allora io ho criticato e critico l’idea che la legge penale quanto più è severa, tanto più sia deterrente nei confronti dei potenziali criminali. Tant’è vero che, se questo fosse vero, nei paesi dove c’è la pena di morte i reati dovrebbero diminuire, mentre in realtà sono addirittura aumentati. Il significato del diritto penale non è tanto quello della deterrenza. È quello del messaggio che manda lo stato per quanto riguarda l’attenzione di fronte a certi comportamenti e a certi problemi che meritano una determinata tutela. L’introduzione del femminicidio, sappiamo tutti che per quanto riguarda la pena che sarà irrogata dal giudice, non è che cambierà moltissimo. L’ergastolo c’era anche prima, adesso si deve fare più attenzione al bilanciamento con le attenuanti (ma insomma sono problemi tecnici, tanto l’ergastolo non esiste più in Italia, lo sanno tutti che dopo un po’ di tempo si esce quantomeno in libertà anticipata). Perché è stato introdotto il reato di femminicidio? Per dare un segnale culturale, per dire che una cosa è ammazzare una persona che può essere uomo, donna o neutro per varie ragioni (quindi si sopprime una persona, e lì c’è già il reato di omicidio, il 575 del codice penale). Il femminicidio invece è connotato dal principio che tu uccidi quella persona non in quanto persona, non perché hai un interesse, non perché aspetti un’eredità, non perché la odi, non per vendetta, ma in quanto donna. In quanto vuoi manifestare la tua superiorità, la tua prevaricazione, la tua frustrazione nei confronti di questa persona in quanto appartiene a un genere che tu ritieni inferiore, e sulla quale intendi esercitare il tuo dominio. Ecco, questo è il punto. Noi abbiamo detto che in questi casi il reato di femminicidio, che deve essere appunto punito con l’ergastolo - anche se, ripeto, l’ergastolo di fatto lo sappiamo tutti che non esiste più - è un po’ come l’inferno, che c’è, ma è vuoto (dicono i teologi), però abbiamo dovuto e voluto mandare questo messaggio culturale, cioè che in questo modo la donna viene protetta in quanto tale, e il femminicida è punito non in quanto uccide una persona, ma in quanto uccide una donna in quanto tale. Quindi insomma non è una forma di debolezza. In realtà è una forma di attenzione. Però non mancano forze politiche e sociali nelle scuole, aiuti alle donne che denunciano i maltrattamenti, investimenti sulle case sicure, che sono tutte cose che forse potrebbero essere più utili di una legge che inasprisce una pena, per quanto sia un segnale. I segnali a che servono alla fine? Ribadendo il concetto che la presenza di una sanzione penale è necessaria, ma non è assolutamente sufficiente, da sempre tutti noi che abbiamo studiato criminologia, a cominciare dal sottoscritto, diciamo che la legge penale, in quanto tale, non solo non risolve i problemi, ma nemmeno li riduce in modo significativo. Ma soprattutto in questi tipi di reati quello che conta è la prevenzione, e la prevenzione si fa attraverso l’educazione. Poi non ci si può aspettare dalla politica più di tanto perché la stessa scuola arriva in ritardo, quando si pretende che sia la scuola a insegnarti il rispetto verso l’individuo. L’educazione del bambino avviene nei primissimi anni di vita e avviene in famiglia e non avviene con le belle parole, ma con le lezioni, avviene attraverso l’esempio. Quando io sono andato a fare, e lo faccio da trent’anni - lo facevo da magistrato - lezione o chiacchierate con i ragazzi dei licei sulla legalità, qualche volta esordivo dicendo: “Sono lieto dell’invito, ma preferirei piuttosto fare lezione ai vostri genitori”, perché è dai genitori che viene il primo input al ‘software’ di un bambino. Il carattere di un bambino si forma nei primissimi anni di età, e certo che serve la scuola, l’educazione sessuale, l’educazione al rispetto, l’educazione civica, l’educazione alla legalità servono. Ma se tu non insegni al bambino che di fronte a te non hai un antagonista, ma hai un fratello, che la prima cosa da rispettare è la personalità altrui anche quando è di sesso diverso o quando ha delle idee diverse o quando è di un’etnia diversa, ecco alla fine anche quando intervieni a scuola probabilmente è tardi. Ecco lei prima diceva: i magistrati - faceva riferimento alle occupazioni abusive - sarebbero dovuti intervenire e non lo hanno fatto. Questo può aver impattato sul calo della fiducia, che viene registrato da tutti i sondaggi, degli italiani nei confronti della magistratura? Come se lo spiega questo? Allora io prendo atto con dolore, da ex magistrato e da magistrato (una volta che sei magistrato, rimani sempre magistrato nell’intimo). Quando sono entrato in magistratura alla fine degli anni 70 la magistratura godeva dell’85 per cento dei consensi. Quando io ho condotto proprio qui a Venezia l’indagine sulle Brigate rosse tra il 1980 e il 1982, il consenso delle persone era tra l’85 e il 90 per cento. Certo abbiamo avuto dei morti, eravamo visti un po’ come i salvatori dello stato. Però era una percentuale di credibilità altissima, adesso purtroppo siamo crollati. Ora lei mi chiede perché. Io non credo che dipenda solo o principalmente dalle regioni che ha detto lei, sicuramente anche queste. Più in generale dipende dall’incertezza del diritto. Una volta la criticità maggiore era la giustizia lenta. E questa rimane certo, la nostra giustizia è una giustizia lenta, anche se, per merito anche della magistratura, i tempi si stanno riducendo con la telematizzazione, e abbiamo anche dei vincoli con l’Europa. Oggi i tempi dei processi si sono ridotti e si stanno riducendo, e di questo dobbiamo essere grati alla magistratura che lavora, lavora molto e lavora bene. Quello che invece, a mio avviso, può essere alla base di questa caduta è l’incertezza del diritto, cioè il fatto che, a parità di condizioni, Tizio viene condannato di qua, Caio viene assolto di là, e poi magari dopo vent’anni si fa un altro processo e si rimette in discussione quello che è stato fatto vent’anni prima. Tutto questo disorienta il cittadino, che da un lato può anche prendersela con il legislatore, ma essenzialmente vede nel magistrato il responsabile di questa fonte di disorientamento. E il caso Garlasco rientra in questa categoria. Cioè noi siamo di fronte a una persona che non si sa se è innocente o colpevole. Certamente è stato condannato. È stato assolto in primo grado. Assolto in secondo grado, riprocessato, poi condannato, si è fatto credo 16 anni di carcere in un complesso di indagine e di processi che sembravano fatti con i piedi... Allora, premesso che sul caso Garlasco io sono stato interpellato varie volte e ho sempre detto e lo ribadisco qui che non intendo parlare del caso in sé, tra l’altro per principio non ho neanche voluto seguirlo, proprio come ministro della Giustizia. Sì, so com’è andata, diciamo molto a spanne. Però quello che conta è il principio: una persona che sia stata assolta in primo grado e assolta in secondo grado e poi venga condannata senza rifare dall’inizio il processo, è una cosa anomala. Noi possiamo condannare, dice la nostra legge, soltanto quando le prove sono al di là di ogni ragionevole dubbio. Come fai a condannare al di là di ogni ragionevole dubbio quando ben due corti hanno già dubitato al punto da assolvere? Tutto questo è incompatibile con il processo anglosassone, che noi abbiamo introdotto quarant’anni fa ed è firmato tra l’altro da una medaglia d’argento della Resistenza, il professor Vassalli. Cioè se tu spieghi questo principio agli americani, agli inglesi, intanto non ti capiscono. E poi al massimo si mettono a ridere. Per loro è incomprensibile. E lo è anche per me. Ecco perché, al di là del caso Garlasco o meno, bisogna riformare la legge nel senso che dopo una condanna o tu rifai ex novo il processo, perché sono intervenute nuove prove, o perché ci sono dei vizi procedurali nel processo che si è svolto. Ve lo dico perché, forse magari rubo un secondo in più, molti di voi non hanno un’esperienza giudiziaria, però poniamo un processo in Corte d’assise o davanti a un tribunale che dura un anno: i giudici vedono in faccia gli imputati, ascoltano i testimoni, i periti, gli interpreti, tutto quanto. Dopo un anno di dibattimento, di arringhe, ti assolvono. Poi l’incartamento telematico, o semplicemente cartaceo legato con lo spago, finisce in Corte d’appello o in Corte d’assise, e senza rifare quello che è stato fatto, o magari rifacendone in modo molto ridotto, semplicemente sulle carte, in sei ore la camera di consiglio ti dà l’ergastolo. Ora tutto questo è manifestamente irragionevole. Se io lo spiego a un americano, innanzitutto dubita del mio inglese, e poi mi dice che siamo diventati matti. Ecco, su questo punto interverrete? Sarà impossibile fare appello dopo un’assoluzione? Noi abbiamo proposto proprio questo: di eliminare la possibilità per il pubblico ministero di impugnare la sentenza di assoluzione. Per una serie di ragioni tutto questo è stato accolto soltanto per i reati minori. Erano ragioni più che plausibili, anche perché quando tocchi il codice di procedura penale in questi settori rischia di crollarti tutto addosso. Una cosa è certa: dopo la riforma madre di tutte le riforme che stiamo facendo, cioè la riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura, e sulla creazione dell’alta corte disciplinare, metteremo mano al Codice di procedura penale, e probabilmente anche questa sarà una riforma. E questa mi sembra una notizia. Un’ultima cosa: lei ha preso la tessera di Fratelli d’Italia. Lei è entrato al governo come un tecnico, quasi un indipendente. Oggi lei è a tutti gli effetti un dirigente, un militante di Fratelli d’Italia? Un dirigente del partito no, certamente un militante, ho preso la tessera e ne sono ben lieto. La grande soddisfazione è di vedere proprio l’avvicinamento che il partito, che magari vent’anni fa era bollato di una certa nostalgia per temi passati, oggi è a pieno titolo accolto in Europa con grandissimo prestigio. Questo è dovuto anche alla grande credibilità della nostra presidente del Consiglio. E si è sempre più avvicinato a quelle posizioni liberali, liberaldemocratiche che io ho sempre espresso anche nei miei libri. Del resto è significativo il fatto che la premier abbia scelto come ministro della Giustizia una persona che da trent’anni scrive di cose che stiamo cercando di riformare: la separazione delle carriere, la riforma dell’appello, il sorteggio del Csm. Son cose che io scrivo da trent’anni. Il fatto stesso che abbia scelto me vuol dire che il partito si è spostato su posizioni liberali. Il tempo è scadutissimo. Perché i magistrati ce l’hanno tanto con lei? Un tweet, ministro... Non è che ce l’hanno, ce l’hanno sempre avuta con me, e non i magistrati in quanto tali, ma i vertici del sindacato. Mi hanno chiamato i probiviri dell’associazione nazionale magistrati. Mi chiamarono nel ‘97, i probiviri, a render conto delle mie idee, che son quelle che esprimo adesso. Naturalmente li ho mandati al diavolo, non ci sono neanche andato. Poi naturalmente si sono acquietati. Certo, non possono vedere con simpatia uno che vuole il cambiamento radicale del Consiglio superiore della magistratura o la creazione di un nuovo istituto, come l’alta corte disciplinare, che diminuisce quel potere delle correnti del sindacato. Però le posso assicurare che moltissimi colleghi ed ex colleghi, sottovoce magari, dicono “guarda fai, bene vai avanti”. Le disfunzioni che sono state illuminate dal caso Palamara continuano al Csm secondo lei? Ma guardi, io sono molto amico del presidente Pinelli, al quale va il mio ringraziamento per quello che sta facendo, e anche per la sua opera molto difficile di riformare questo Consiglio superiore della magistratura anche sotto il profilo della sezione disciplinare. Mi rendo conto che stanno lavorando molto di più e molto meglio, però quello che è rimasto fermo nel Consiglio superiore della magistratura e non è ancora risolto, è il caso Palamara, che non è mai stato affrontato alla radice. Lo sanno anche i sassi che dietro c’era una montagna di polvere che è stata messa sotto il tappeto. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse realmente acquistare credibilità, dovrebbe squadernare tutta la realtà del caso Palamara. Cosa che non mai fatto. Finché non lo farà, c’è sempre questo sospetto che le cose più di tanto non possano essere modificate, malgrado gli sforzi che sta facendo il presidente Pinelli. Era inevitabile liberare Brusca? Bè, sì, con la legge che c’è, sì. In questi casi io ho l’esperienza delle Brigate rosse. Noi abbiamo liberato, faccio un nome, Savasta, e tra l’altro credo sia anche deceduto, che aveva ucciso 10 persone. È stato liberato 10 anni dopo la condanna, anche prima, perché lo stato aveva fatto un patto, un do ut des, tu collabori e io ti libero prima. È un giudizio di convenienza, che con le Brigate rosse ha funzionato, con la mafia funziona, sia pure in modo molto diverso (il terrorismo era politicizzato, mentre la mafia ubbidisce a criteri completamente diversi). Però se lo stato fa dei patti, pacta sunt servanda. “Cambiare la giustizia, oppure cambiare la magistratura?” di Giovanni Longo Gazzetta del Mezzogiorno, 9 giugno 2025 L’accelerazione impressa dal governo sulla riforma costituzionale della magistratura, non piace affatto all’Associazione nazionale magistrati che ha organizzato per martedì 10 giugno tre eventi pubblici, a Milano, Roma e Bari, per manifestare il dissenso. Nel capoluogo pugliese l’appuntamento è nell’aula della corte d’assise in via Dioguardi. Ad introdurre i lavori dal titolo “Riformare la magistratura per non riformare la giustizia?”, Antonella Cafagna, presidente distrettuale dell’Anm. Presidente, il titolo dell’incontro, in particolare la forma interrogativa dice molto: il governo davvero vuole riformare la magistratura per non riformare la giustizia? “La riforma non risolverà alcuno dei problemi che affliggono la giustizia in Italia; non renderà la giustizia più celere ed efficiente; toglierà, invece, ai cittadini la garanzia di una giustizia uguale per tutti”. Facendo degli esempi concreti, quali sono le principali “spie” di questa tendenza che dal vostro punto di vista sarebbe in atto? “Nella stessa direzione di un arretramento del controllo di legalità vanno senz’altro altre riforme, approvate o solo preannunciate, che si devono a questo Governo: pensiamo all’abrogazione dell’abuso di ufficio, alla limitazione della durata delle intercettazioni, allo scudo penale per le forze di polizia”. In una ipotetica classifica, tra le novità della riforma Nordio, qual è quella che secondo voi danneggia di più la giustizia e perché? “Difficile a dirsi. Probabilmente la riforma dell’autogoverno, con lo sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio dei suoi componenti togati e la sparizione della funzione disciplinare. La revisione del Csm potrebbe riflettersi negativamente sulla tutela dell’autonomia ed indipendenza dei magistrati, esponendoli alle ingerenze del potere politico”. L’introduzione di nuovi reati (pensiamo al dl sicurezza) può servire come deterrente o rischia di ingolfare aule di giustizia già inflazionate? “È prevedibile il rischio di un incremento dei processi ma anche di un aggravamento della situazione delle carceri, già al collasso”. Nel panel dei relatori ci sono autorevoli magistrati e giornalisti, ma non, esponenti della politica. Casualità o scelta? “Di certo un caso. Siamo aperti al confronto con ogni parte politica”. Come definirebbe oggi il rapporto tra magistratura e politica? “La riforma inciderà sull’equilibrio tra questi due poteri nel senso di ridimensionare quello della magistratura a discapito del controllo di legalità sull’operato della politica. Si vuole così depotenziare la funzione di garanzia che la Costituzione assegna alla magistratura. Questo mette in pericolo il corretto funzionamento democratico”. La magistratura non ha nulla da rimproverarsi? “Ad insegnare non è solo il passato. Riconosciamo l’esistenza di criticità e vogliamo respingere ulteriori derive del correntismo. Ma una riforma punitiva per la magistratura non renderà un buon servizio alle istanze di giustizia dei cittadini”. Scherzi del decreto-vessillo: più tempo per fare appello, tagliola per la Cassazione di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* Il Dubbio, 9 giugno 2025 Il termine per proporre appello è ora di trenta giorni, quello per il ricorso per Cassazione è rimasto di dieci. Nel presentare il ddl “Sicurezza”, molti politici si erano intestati il ??merito di alcune novelle subito iscritte, senza ragione, nel novero delle conquiste memorabili per la civiltà del diritto. Grande enfasi, in particolare, era stata riservata all’aumento del termine per impugnare i provvedimenti di prevenzione, portato da dieci a trenta giorni, a fronte di procedimenti utilizzati da elevatissima complessità tecnica (non solo di natura giuridica, ma anche contabile, fiscale, societaria, commerciale) e di atti la cui stesura necessita di competenze multidisciplinari. In realtà, un termine di almeno 30 giorni per impugnare un decreto che applica una misura di prevenzione, sia essa personale, patrimoniale o mista, è solo l’esplicazione minima di un diritto di difesa effettivo e non meramente nominale. Una goccia nel mare, quindi, lungo un percorso di “civilizzazione” della prevenzione, ancora molto di là da venire. Nel frattempo, il ddl è diventato decreto legge “Sicurezza”, la cui conversione è stata impostata al Parlamento con il ricorso al voto di fiducia, e quella piccola conquista è diventata una pericolosissima tagliola, di quelle ben nascoste per essere più insidiose e fare più danni. Se infatti l’originaria intenzione del legislatore era dettare un regime più favorevole a tutte le impugnazioni di prevenzione, nei dossier di studio sul Dl si illustrava la imminente riforma come destinata a incidere sui soli provvedimenti di prevenzione personale e, dunque, non anche su quelli patrimoniali. Una disparità di trattamento irragionevole, ma per fortuna inattuabile, dal momento che il Testo unico delle leggi Antimafia non prevede un termine autonomo per impugnare i provvedimenti di confisca, ancorandolo invece a quello previsto per le misure personali. La modifica del secondo, quindi, avrebbe automaticamente variato anche il primo. E, dunque, quei dossier rappresentano la inadeguatezza di fondo che caratterizza l’approntamento del testo normativo, che lascia trasparire la scarsa conoscenza della materia incisa dalla novella legislativa. Nel Dl, la nuova disposizione in tema di impugnazioni dei decreti emessi nell’ambito di procedimenti di prevenzione non rispetta né la ratio del ddl - che era quella di ampliare in modo uniforme il termine di impugnazione senza alcuna distinzione - né l’interpretazione datane nel dossier, che era quella di una illogica e irragionevole distinzione tra misure personali e patrimoniali. Superando ogni limite di buon senso, di buona tecnica legislativa e di logica sistematica, il governo ha modificato il solo comma 2 dell’articolo 10 del Testo unico, senza incidere sul successivo comma 3. In pratica: il termine per proporre appello è ora di trenta giorni; il termine per proporre ricorso per Cassazione è rimasto di dieci! Poiché una tale distinzione presenta i tratti di una irragionevolezza imbarazzante, si spera che essa non sia il frutto di una deliberata scelta legislativa. Estendere i termini per l’appello e lasciare sincopati quelli del ricorso per Cassazione, l’atto generalmente più complesso dell’intero procedimento, sarebbe infatti un autentico controsenso. E allora si è trattato di una svista. Un errore del governo, passato inosservato a tutta la catena di commissioni, uffici studi, consulenti che hanno lavorato al testo. Ignorato dai due rami del Parlamento, nella corsa alla approvazione di una legge che, con l’apposizione della fiducia, è diventato l’ennesimo vessillo della “politica della sicurezza”. Da ratificare a occhi chiusi, per non apparire deboli, ma col rischio concreto di essere superficiali e devastanti nel disciplinare le vite degli altri. Che è proprio ciò che è accaduto. Forse non è un caso che quest’esempio di schizofrenia legislativa si sia manifestato nella materia della prevenzione, che ancora una volta invera le dure parole di Tullio Padovani, secondo il quale essa è “la violazione più manifesta, conclamata, intollerabile assurda e vergognosa del diritto europeo”, ovvero un “mostro da eliminare per ristabilire le condizioni di legalità nel nostro Paese”. Un sistema vocato all’eccezione e, in questo caso, persino all’eccezione dell’eccezione, in una progressione o, meglio, in una regressione inarrestabile rispetto ai costituti più elementari del diritto penale, del giusto processo, dei principi generali dell’ordinamento. Ma, al di là delle riflessioni di ordine generale, questa riforma “a metà” spiegherà effetti drammatici di ordine pratico e quotidiano. Un sistema così congegnato, infatti, ha già creato le condizioni - diaboliche - per indurre in errore gli operatori del diritto. Chi, dopo l’11 aprile 2025, ha confidato ingenuamente nel termine di 30 giorni per rivolgersi alla Cassazione è già incorso in una causa di inammissibilità. E per il futuro, l’anomala e ingiustificabile compressione dei termini per il solo ricorso in Cassazione, già limitato alla sola violazione di legge, comporterà le inevitabili questioni di legittimità costituzionale che, fin troppo facile prevedere, verranno accolte dalla Consulta. E tutto ciò a causa della insipienza di un legislatore che, ancora una volta, è l’immagine più drammatica di questa (in)giustizia della postmodernità. *Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione dell’Ucpi L’Italia degli impuniti. Chi paga davvero il conto? di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 9 giugno 2025 “Uno dei più grandi freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse”. Già nel 1764 il giurista e filosofo Cesare Beccaria nel celebre trattato Dei delitti e delle pene ha indicato uno dei pilastri fondamentali di ogni sistema giudiziario: a scoraggiare i crimini non è la severità delle punizioni, ma la certezza che quelle punizioni vengano effettivamente applicate. La capacità di eseguire le pene inflitte a chi ha violato il Codice penale, dunque, è una partita sulla quale l’apparato giudiziario gioca la propria credibilità e quella dell’intero Stato. Cosa succede in Italia? Punizione senza conseguenze - Un reato su quattro viene punito esclusivamente con una pena pecuniaria, in pratica una multa. Si tratta di reati come le lievi lesioni personali colpose, i furti di piccola entità, o le violazioni delle norme sulla sicurezza sul lavoro. Un reato su due, invece, viene punito sia con la detenzione che con una sanzione economica: dallo spaccio di droga a rapine, truffe, riciclaggio, ricettazione, peculato. Tra il 2019 e il 2022 sono state comminate pene per un totale di 3,2 miliardi di euro. Lo Stato italiano quanto è riuscito effettivamente a riscuotere? Solo 86,3 milioni di euro, ossia all’incirca il 3%. Nel calcolo della percentuale, che riflette anche l’andamento degli anni precedenti, sono considerate anche le somme che vengono ridotte per legge o cancellate per sopravvenuta inesigibilità, altrimenti il tasso di riscossione sarebbe ancora più basso. Vuol dire che lo Stato, per decenni, ogni 100 euro di dovuto ne ha incassati tre. Di fatto le sentenze sono rimaste sulla carta. Ma dove si annidano le responsabilità? Giustizia paralizzata - Ricostruiamo il percorso burocratico: quando la sentenza diventa definitiva, la cancelleria del giudice dell’esecuzione compila un’apposita scheda con le voci di credito relative al fascicolo processuale. Equitalia Giustizia, società partecipata dal ministero dell’Economia e delle Finanze e sottoposta al controllo del ministero della Giustizia, acquisisce il fascicolo e procede alla quantificazione del credito e all’iscrizione a ruolo. Quindi l’Agenzia delle Entrate-Riscossione procede all’emanazione della cartella esattoriale. Questo iter, per legge, non deve superare i cinque anni dalla sentenza, altrimenti interviene la prescrizione. A quel punto il destinatario della cartella, che a suo tempo magari i soldi per pagare li aveva, se li è spesi o si è liberato dei suoi beni. Chi invece era nullatenente fin dall’inizio, tale è rimasto. E la questione finisce lì. Un’anomalia unica in Europa, segnalata da anni, e figlia di un meccanismo che genera inefficienze in tutti i passaggi, tant’è che la Corte costituzionale, nella sentenza del 20 dicembre 2019 n. 279, denuncia: “La pena pecuniaria in Italia non riesce a costituire un’alternativa credibile rispetto alle pene detentive”. La svolta della riforma Cartabia - Nel 2021 il governo Draghi e l’allora ministra Marta Cartabia decidono di cambiare passo: la riforma, che entra in vigore da ottobre del 2022, si pone come obiettivo la semplificazione del pagamento e la riscossione delle multe e delle ammende. Attenzione però: il vecchio sistema di recupero delle pene pecuniarie prosegue per i reati commessi prima del 30 dicembre 2022. Infatti anche nel 2023, su 889,5 milioni di euro da riscuotere, lo Stato ne ha incassati solo 30,2 (3,9%). Per i reati commessi a partire dal 30 dicembre 2022, invece, scatta un meccanismo completamente diverso. Ora il pubblico ministero, con un ordine di esecuzione, intima direttamente al condannato di pagare entro 90 giorni utilizzando un bollettino PagoPA. Se non lo fa, il magistrato di sorveglianza converte la pena pecuniaria in semilibertà (cioè lo manda a dormire in carcere), oppure in lavori di pubblica utilità (in caso di accertata insolvibilità). Se il condannato è già in carcere, viene inasprita la pena detentiva. Ebbene, cosa ha prodotto il nuovo metodo? Si può misurare sulle sentenze relative ai reati commessi in questi 2 anni e mezzo, e Dataroom è in grado di anticipare i risultati contenuti nella relazione 2025 al Parlamento: su 60,3 milioni di euro da incassare, sono stati portati a casa 8,2 milioni, vale a dire il 13,5%. Nuovi reati e vecchio organico - I dati dimostrano che la direzione è quella giusta, anche perché in un ordinamento in cui la pena pecuniaria è effettiva, rappresenta una valida alternativa alla detenzione e può ridurre il sovraffollamento carcerario. Per esempio in Germania, dove il sistema di riscossione funziona, le condanne alla sola pena pecuniaria sono il triplo di quelle italiane e il numero di detenuti in carcere decisamente inferiore all’Italia, pur avendo oltre 20 milioni di abitanti in più. Ma per raggiungere percentuali di incasso degne di un Paese civile è indispensabile rafforzare gli organici dei magistrati di sorveglianza che si occupano di convertire le multe non pagate in pene alternative. Inoltre, bisogna garantire che le sanzioni sostitutive della semilibertà e del lavoro di pubblica utilità siano effettivamente applicabili dai magistrati. Per questo servono spazi disponibili adeguati all’interno degli istituti penitenziari, e Uffici di esecuzione penale esterni con personale sufficiente per seguire tutti gli adempimenti previsti dal nuovo procedimento. Ad oggi sono scattate concretamente la semilibertà o i lavori di pubblica utilità solo per 154 condannati che non hanno pagato 287 mila euro. Il contrabbando - Per il reato di contrabbando (cocaina, petrolio, opere d’arte, farmaci, pesticidi, sigarette, ecc.), anche applicando la nuova procedura per i reati doganali commessi dopo il 30 dicembre 2022, le cose sono più complesse. Il problema è che si tratta prevalentemente di reati commessi da stranieri che diventano rapidamente irreperibili. Ma questo non può comportare la resa del sistema giudiziario, e tantomeno giustificare il fatto che dal 2019 al 2023 si sia riusciti a incassare soltanto 183.800 euro su 4,8 miliardi (che vanno a sommarsi a quelli precedenti). Le spese processuali - C’è poi il capitolo delle spese processuali. Lo Stato, per perseguire i reati deve necessariamente avvalersi di perizie, consulenze tecniche, intercettazioni. Costi che devono poi essere risarciti dai condannati in via definitiva. Anche qui tra il 2019 e il 2023, a fronte di 1,2 miliardi di costi sostenuti, sono stati incassati 81,9 milioni, il 7,3%. L’iter burocratico delle spese processuali però è rimasto fuori dalla riforma Cartabia: queste somme continuano ad essere trattate come crediti ordinari, alla stregua di un divieto di sosta, e trasmesse all’Agenzia delle Entrate-Riscossione per il recupero. Anni dopo in caso di mancato pagamento si applicano le normali regole dell’esecuzione forzata: pignoramenti di beni mobili, conti correnti, stipendi o pensioni, con tutte le limitazioni del caso. Beni come letto, cucina e frigorifero sono impignorabili, stipendi e pensioni di norma sono aggredibili fino a un quinto dell’importo. Va considerato che in molti casi i debitori sono detenuti, irreperibili o nullatenenti. Una strada più efficace, secondo coloro che sono quotidianamente sul campo nel recupero delle spese processuali, sarebbe quella di quantificarle direttamente nel dispositivo della sentenza, stabilendo importi forfettari esigibili in tempi brevi, e con il vantaggio di ridurre anche i tempi di conteggio degli uffici. È vero che uno Stato vince se condanna chi se lo merita, ma se non riesce ad incassare il dovuto, a perdere è l’intera comunità, che oltre a essere stata danneggiata dai reati commessi, deve pure farsi carico dei debiti. Quasi mezzo milione per un’ingiusta detenzione scontata non in carcere ma in casa di lavoro di Antonio Alizzi Il Dubbio, 9 giugno 2025 La Cassazione ha respinto il ricorso del Ministero dell’Economia che, tramite l’Avvocatura dello Stato, aveva impugnato un provvedimento della Corte d’Appello di Roma. La quarta sezione penale della Corte di Cassazione, con una sentenza destinata a fare scuola, ha respinto il ricorso del ministero dell’Economia e delle Finanze contro la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva riconosciuto a un uomo il diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, in relazione alla misura di sicurezza della casa di lavoro applicata dal 24 ottobre 2016 al 20 giugno 2021. L’imputato prosciolto per vizio totale di mente rispetto alle accuse di molestia o disturbo alle persone, era stato sottoposto prima a libertà vigilata, poi - a seguito di presunta irreperibilità e successiva denuncia per ricettazione - alla misura detentiva della casa di lavoro, revocata successivamente nel maggio 2023. Secondo la Corte d’appello di Roma, la misura non poteva essere disposta in quanto “la misura di sicurezza non poteva essere applicata per un illecito contravvenzionale”. Ha inoltre ritenuto che l’uomo non avesse concorso con la propria condotta alla restrizione della libertà, disponendo così un indennizzo pari a 235,82 euro al giorno per 1700 giorni, per un totale di 400.894 euro. Tuttavia, l’Avvocatura dello Stato aveva sollevato tre motivi di ricorso. Una violazione dell’articolo 314 del codice di procedura penale per una presunta condotta concausativa dell’imputato nella determinazione della misura. Inoltre, aveva evidenziato un errore nell’interpretazione della normativa sulle misure di sicurezza, ritenendo che nel 2016 vi fosse un contrasto giurisprudenziale sull’applicabilità della libertà vigilata anche per le contravvenzioni. Ed ancora, ipotizzava un errore nella quantificazione dell’indennizzo, contestando l’equiparazione della casa di lavoro a una misura detentiva tout court. Prendendo in esame il ricorso, la quarta sezione penale della Cassazione ha ritenuto infondato ogni punto del ricorso. Nel primo caso, ha rilevato che l’aggravamento non poteva comunque essere disposto perché, a monte, non poteva essere adottata misura di sicurezza personale per una contravvenzione, essendo tale possibilità prevista soltanto per delitti non colposi puniti con pena superiore ad una certa soglia. Quanto al secondo motivo, la Cassazione ha richiamato una sentenza del 2019, stabilendo che in caso di proscioglimento da una contravvenzione per infermità psichica è da considerare illegittima l’applicazione della misura di sicurezza personale del ricovero “dovendosi escludere che le modifiche legislative abbiano determinato il superamento della distinzione tra delitti e contravvenzioni”. Rispetto alla terza censura formulata dall’Avvocatura dello Stato, gli ermellini hanno precisato che la permanenza dell’uomo presso la casa di lavoro è avvenuta in condizioni di fatto detentive, e che il reclamo non si è confrontato con questo aspetto. E qui che la Corte di Cassazione ha inteso ribadire che anche la misura di sicurezza detentiva, se illegittimamente applicata, dà diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. “La restrizione della libertà personale dovuta all’adozione della misura di sicurezza del ricovero presso una casa di cura, là dove imposta al di fuori dei presupposti legislativamente previsti, deve ritenersi tale da legittimare la richiesta della riparazione per l’ingiusta detenzione”, si legge nella parte in cui viene citata una sentenza della quarta sezione penale del 2013. Sempre la Cassazione ha infine richiamato la pronuncia della Corte costituzionale n. 219/2008, che ha chiarito come la riparazione per l’ingiusta detenzione va riconosciuta in tutte le ipotesi che “recano una oggettiva lesione della libertà personale”. Cagliari. Lutto nel carcere di Uta: Sandro Arzu si è tolto la vita dopo due anni di latitanza di Giulia Rinaldi unita.tv, 9 giugno 2025 Un nuovo episodio drammatico si è consumato nella casa circondariale di Cagliari-Uta, dove nella notte Sandro Arzu si è suicidato. L’uomo, tenuto in custodia da appena tre settimane, aveva un passato giudiziario segnato da una condanna per omicidio e traffico di stupefacenti. Il caso riporta sotto i riflettori questioni delicate legate alla gestione dei detenuti in attesa di processo. La notizia della morte di Arzu ha subito destato sgomento all’interno della struttura penitenziaria di Cagliari-Uta. Secondo quanto riferito da fonti interne e dall’associazione Socialismo Diritti Riforme, l’uomo ha deciso di porre fine alla propria vita durante la notte. Gli agenti penitenziari, allarmati dalla situazione, hanno chiamato immediatamente il personale sanitario, che si è adoperato in un tentativo di rianimazione durato diversi minuti. L’intervento, però, non ha avuto successo e Arzu è deceduto sul posto. Questo episodio mette in luce le condizioni spesso difficili all’interno delle carceri, dove la presenza di detenuti con carichi giudiziari pesanti può creare situazioni di forte tensione. La breve permanenza di Arzu nella casa circondariale, appena tre settimane, non ha lasciato margine per un possibile supporto psicologico efficace, elemento spesso indicato come cruciale nei casi di tentativi di suicidio. Sandro Arzu, 56 anni, originario di Arzana in Ogliastra, era noto alle forze dell’ordine già da anni per reati gravi. A suo carico, infatti, ci sono precedenti per omicidio e traffico di droga, per i quali era stato condannato anni addietro. Dopo la sentenza, però, Arzu si era sottratto alla giustizia ed era diventato latitante nel 2023, vivendo nascosto per circa due anni. Il 26 maggio 2025, i carabinieri di Cagliari sono riusciti a bloccarlo durante una operazione mirata a catturare i ricercati più pericolosi nell’area. L’arresto ha rappresentato un punto di svolta, dato che Arzu era anche indagato per un nuovo omicidio avvenuto il 9 luglio 2024 ad Arzana. La vittima, Beniamino Marongiu, 52enne di zona, era stata uccisa in circostanze ancora al vaglio degli inquirenti, con Arzu ritenuto uno dei principali sospettati insieme ad altre quattro persone coinvolte nelle indagini. Reazioni e riflessioni dall’associazione socialismo diritti riforme - Maria Grazia Caligaris, rappresentante dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, ha espresso parole di cordoglio per la famiglia di Arzu, sottolineando il dolore per un epilogo tanto tragico. Nel suo comunicato stampa, Caligaris ha ricordato l’intervento tempestivo dei sanitari, chiamati dagli agenti penitenziari, rimarcando però come “ogni tentativo di salvare la vita all’uomo si sia rivelato vano.” L’associazione richiama anche l’attenzione sulle difficoltà del sistema penitenziario nel garantire assistenza psicologica e sociale ai detenuti, specialmente a chi si trova in attesa di giudizio e con un passato complesso. Le strutture carcerarie, infatti, spesso presentano carenze nella gestione di casi delicati come quello di Arzu, dove il rischio di gesti estremi è elevato. Il caso di questa notte in Sardegna si inserisce nel più ampio dibattito nazionale sulla salute mentale nelle carceri e sulla necessità di nuove misure di prevenzione, con esperti e associazioni impegnati a sollecitare interventi mirati. Un episodio che riapre il tema delle condizioni dei detenuti nei penitenziari italiani - Il suicidio di Sandro Arzu nel carcere di Cagliari-Uta richiama alla memoria una serie di vicende similari registrate in varie regioni italiane. La gestione della detenzione, specie nei confronti di persone con trascorsi gravi, richiede un equilibrio delicato tra sicurezza e tutela della salute psichica. Nei penitenziari, la pressione quotidiana, la solitudine e l’incertezza del futuro provocano un forte impatto sugli ospiti, innescando fenomeni di depressione e disperazione. Non siamo di fronte a casi isolati, ma a segnali che chiedono attenzione e risposte concrete da parte delle autorità competenti. La morte di Arzu in carcere, anche alla luce della sua recente cattura dopo anni di latitanza, sottolinea l’urgenza di rivedere protocolli e strategie di supporto psicologico all’interno delle carceri. Lo stato del sistema penitenziario italiano resta oggetto di indagini e riforme, con questa tragedia che fa emergere i limiti attuali e la necessità di una maggiore protezione per i detenuti a rischio. Palermo. “Ucciardone al collasso: tra caldo, degrado e carenze, Nona Sezione da chiudere subito” di Ilaria Calabrò strettoweb.com, 9 giugno 2025 Senza materassi, arredi né ascensori funzionanti, il carcere di Palermo versa in condizioni drammatiche. Sindacati denunciano: “Turni massacranti, sicurezza a rischio e personale allo stremo. Servono interventi urgenti”. “L’Ucciardone, il noto carcere di Palermo, sta affrontando una crisi profonda e preoccupante. La Nona da chiudere subito lo ribadiamo, ma siamo convinti che il segnale significativo e la vicinanza al personale del sottosegretario alla giustizia Andrea Del Mastro e del Capo di gabinetto Giusi Bartolozzi porterà in tempi brevi alla chiusura della predetta struttura. Le condizioni all’interno del carcere sono drammatiche e stanno degenerando”, lo riferiscono il segretario nazionale Cnpp Maurizio Mezzatesta e il Segretario Generale SPP Aldo Di Giacomo. “Una serie di carenze fondamentali tra queste perfino la mancanza di arredi, materassi e congelatori per i detenuti, aggravando in una struttura Borbonica quale è l’Ucciardone le condizioni di vita dei detenuti con altrettanto ripercussioni sul servizio del personale di polizia penitenziaria che giornalmente devono mettere le toppe alle falle dell’Amministrazione; continuano i sindacalisti: “già di suo da tempo il personale soffre la carenza di personale, i carichi di lavoro insostenibili e il prolungamento del servizio”. “Spesso gli animi diventano incandescenti perfino per la mancanza di un plexiglas o di un tavolino o addirittura il reperire della pittura per rendere decente un ufficio del personale o una cella, il reparto colloqui da tempo non può utilizzare alcune sale adibite ai colloqui dei detenuti con i propri familiari e contestualmente il personale ivi di servizio visto anche l’ aumento dei colloqui visivi nonché delle video chiamate dovute all’ aumento in pochi mesi della popolazione detenuta è costretto ad effettuare turni di servizio che superano di gran lunga le sei ore giornaliere. Quanto ampiamente summenzionato ha un impatto negativo sul servizio e sulla sicurezza”. Oltre alle carenze di base, ci sono anche problemi strutturali e di servizio, la Nona sezione insiste anzi vi è stato un aumento di detenuti ivi ubicati, quest’ultima tristemente nota per le aggressioni ai danni del personale anche in modo violenta. Da tantissimi anni, alla 6^ e 7^ Sezione non funzionano due ascensori, le garitte 9^ e 3^ sezione sono totalmente da ristrutturare e il personale ancora attende la tanto attesa palestra più volte sollecitata dal CNPP”. “Non ultimo, nel 2024, il governo in carica, il comitato paritetico Giustizia-Ministero delle Infrastrutture ha approvato la realizzazione di nuovi interventi in materia di edilizia penitenziaria per un valore complessivo di oltre 36 milioni di euro. In particolare, sono stati approvati lavori per 2,5 milioni di euro per la ristrutturazione dell’Ucciardone Conclude Mezzatesta e Di Giacomo, anche questa estate il caldo renderà le condizioni di lavoro insopportabili per gli agenti, che devono affrontare il caldo estremo senza adeguati sistemi di ventilazione. La situazione all’interno del carcere Ucciardone sta diventando sempre più critica e potrebbe avere gravi ripercussioni sulla sicurezza di tutti coloro che lavorano e vivono all’interno del carcere. È fondamentale che vengano prese misure urgenti per risolvere queste carenze e migliorare le condizioni di lavoro degli agenti”. Napoli. Intervista don Tonino Palmese: “Io, sacerdote da 40 anni lotto per i diritti dei reclusi” di Maria Chiara Aulisio Il Mattino, 9 giugno 2025 Quarant’anni di sacerdozio li celebrerà il 22 giugno, alle 10.30, nella chiesa della Santissima Trinità, in via Portamedina, quella del Vecchio Pellegrini per intenderci, dove don Tonino Palmese - salesiano, presidente della Fondazione Polis, che sostiene le vittime innocenti della criminalità, e Garante dei diritti dei detenuti per il Comune di Napoli - ogni domenica dice messa. Tempo di bilanci... “Ho il grande privilegio di poter dire ne è valsa la pena e anche di aggiungere che ne vale ancora la pena”. Nessun rimpianto? “Nessuno. I bilanci talvolta possono farti disperare se sei rimasto illuso o deluso di ciò che hai vissuto. Seguire Cristo attraverso la storia di don Bosco mi ha sempre sostenuto e incoraggiato”. Don Bosco, il vostro fondatore. “Ci ha insegnato che al primo posto viene il dovere di dar conto alla propria coscienza e subito dopo la capacità di non dire mai “non tocca a me”. Credo sia questo l’elemento che più di ogni altro mi ha fatto amare la sua scelta e quella della vita salesiana”. Partiamo dalla decisione di diventare sacerdote. “Non ci ho messo molto a capire quale sarebbe stata la mia strada”. Aveva le idee chiare. “Mi sono fidato e affidato a Dio e alla Madonna. Mi ricordo perfino che da piccolo non riuscivo a prendere in giro gli altri, nemmeno a fare un piccolo dispetto; e non per paura o vergogna ma perché, ogni volta che vedevo qualche compagno farlo, provavo una grande sofferenza. Così come mi porto dentro il ricordo, direi poetico, del mio pianto per i camerieri”. Perché piangeva per i camerieri? “Quando andavo al ristorante, vedere un adulto costretto a servirmi senza potersi sedere a tavola con noi, mi faceva stare male. Forse è lì che è nata la mia vocazione, la mia empatia verso il cristianesimo, quando ho capito che volevo servire e non farmi servire”. Da qui l’impegno nei confronti dei più fragili. “Dai familiari delle vittime della criminalità ai detenuti”. Due facce della stessa medaglia. “Il nostro obiettivo deve essere uno solo: restituire dignità e autenticità a chi l’ha persa. Don Bosco già nell’ottocento metteva in pratica il bisogno di consegnare alle giovani generazioni l’orgoglio della vita e una coscienza capace di discernere, e scegliere, il bene e non il male”. Il bene, diceva. “Si insegna praticandolo”. Lei dove l’ha imparato. “Vi racconto una storia, la storia che mi ha illuminato, di tempo ne è passato ma è bella lo stesso”. Racconti. “Mi trovavo in una stanza di ospedale a Parigi. Uno dei letti era occupato da un uomo ancora giovane ma molto malato. Sarebbe entrato in coma di lì a poco, non so come si ricordò che quel giorno era il suo anniversario di matrimonio”. Momenti di lucidità. “Mi chiese la cortesia di andare a comprare un mazzo di fiori per la moglie, a fatica afferrò il portafogli e mi diede i soldi: non li volevo, mi avrebbe fatto piacere pagarli per lui ma non accettò. Feci una gran corsa e quando tornai con i fiori ebbe giusto il tempo di consegnarli alla sua sposa e si addormentò”. Bel gesto da parte sua. “Quell’uomo era mio padre e lei mia madre, fu una lezione d’amore che ha dettato le regole di tutta la mia vita. Nel tempo ho capito che la grazia più grande che possiamo ricevere è la possibilità di riconoscere in ogni cosa l’appello di Dio, la sua presenza, la sua gloria, il suo trionfo”. Ha parlato di lezione d’amore… “Tre cose mi ha insegnato mio padre. La prima è l’importanza di avere delle idee, era un comunista e cristiano militante papà, così innamorato di Berlinguer, che è riuscito a morire, a 59 anni, lo stesso giorno, mese e anno in cui morì lui”. La seconda? “La necessità di imparare un mestiere, se sai fare qualcosa - diceva - vivrai sempre nella legalità e nel rispetto degli altri. E poi la terza, la più importante: il valore dell’amore che praticava quotidianamente dedicando la vita alla sua donna”. Lavoro, amore e giustizia, il messaggio che cerca di trasmettere anche ai detenuti napoletani di cui è garante. “L’impegno nelle carceri è sempre stato uno dei miei obiettivi. Per cultura ritengo che la giustizia riparativa sia una forma di riconciliazione estranea alla retorica del perdono, provo a farlo capire anche a chi non la pensa così. La mia nomina è nata da un preciso desiderio”. Quale? “Dare la possibilità ai detenuti, attraverso le vie previste dagli ordinamenti carceri, di ottenere i loro diritti, dalla salute alla dignità, all’interno del carcere”. Tanto lavoro, non solo nei penitenziari, e sempre meno sacerdoti. A Napoli la crisi delle vocazioni si sente con forza. “A Napoli come dappertutto. Va detto che qui la città è in forte ripresa, avanza anche la legalità, e ci sarebbe un gran bisogno di sacerdoti pronti a scendere in campo”. Invece che cosa sta succedendo? “La verità è che è difficile fare un patto con qualcuno - nel senso di seguire il Signore - per tutta la vita, dare continuità a una promessa che duri per sempre. Credo che l’attuale modello di proposta vocazionale dovrebbe includere altre modalità: la chiesa, con grande umiltà, deve imparare a ribadire la bellezza della ministerialità sacerdotale, della consacrazione alla vita religiosa”. Sta dicendo che certi ruoli andrebbero rivisitati. “Con modalità nuove. Il sacerdozio non deve mai determinare la solitudine, bisogna imparare a convivere con altre forme di apostolato”. Una visione pastorale condivisa. “Sempre più condivisa direi. Attualmente in molti posti prevale la figura del prete navigatore solitario. E non funziona così, oggi più che mai servono figure e ruoli rivisitati per dare uno slancio vocazionale e missionario”. Qualche giorno fa ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Meta di Sorrento. Bel regalo per i suoi 40 anni di sacerdozio. “Straordinario. E aggiungo che sono molto fiero di aver condiviso lo stesso percorso con Federico Cafiero de Raho, cittadino onorario anche lui. Meta è diventata il nostro luogo del cuore”. Mantova. Don Ciotti, discepolo di don Mazzolari. “Il carcere è ora una discarica sociale” di Stefano Joppi Gazzetta di Mantova, 9 giugno 2025 Chiesa affollata domenica 8 giugno per ascoltare l’appello del prete degli ultimi. “Nel nome della sicurezza si giustifica tutto”. Puntuale, accompagnato da quattro uomini della scorta, è entrato nella parrocchiale di San Pietro per chiudere la “Tre giorni Mazzolariana”. Lui, don Luigi Ciotti, prima di prendere posto al tavolo dei relatori saluta le tante persone presenti nella maestosa chiesa che ospita le spoglie di don Primo Mazzolari. Si ferma a salutare due ragazzine e ha per loro parole di “pietà” sussurrando: “Quando siete stanche andate pure via. Non abbiate timore”. Una dolce attenzione non colta dalle due giovanissime che, come tutti, sono rimaste incollate ai banchi dell’edificio religioso senza mai un tentennamento. In silenzio per più di un’ora ad ascoltare le parole pregne di umanità e amore verso gli ultimi di don Ciotti, introdotto da don Bruno Bignami, direttore dell’ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro. Chi sono - “Ho ottant’anni e sono laureato in scienze...confuse, rompe il ghiaccio don Ciotti definito dal moderatore il “maestro dei preti di strada che ha speso la sua vita per rigenera esistenze e a ridare speranza a luoghi corrotti”. Una definizione che il prete nativo di Pieve di Cadore cerca di smorzare, con pudore, dalle labbra di don Bruno Bignami. “Sono una persona che sessant’anni fa ho fondato il gruppo Abele, associazione accanto agli ultimi, e trent’anni dopo Libera, per una società libera dalle mafie-riprende don Ciotti non prima di prima di ringraziare gli organizzatori per l’invito. “Qui sono stato anni fa e torno volentieri nella casa di un parroco, di un profeta e di un sacerdote che con i suoi scritti è più che mai moderno. Dai suoi libri ho attinto molti insegnamenti- continua don Luigi pronto a leggere una frase di don Primo utile a sviscerare il tema del libro, “Oltre le sbarre”, e la condizione carceraria: “Se c’è qualcosa di cattivo è impedire a qualcuno di diventare buono”. Da qui don Ciotti sviluppa la lunga lezione partendo dalla necessità di vedere il carcere come luogo di recupero. Il carcere - “Lo afferma anche la Costituzione italiana all’articolo 27. Invece oggi il carcere è diventato una discarica sociale. Un luogo di puro dolore. Lo stesso don Primo ricordava che non possiamo giudicare la sofferenza. La società può giudicare le azioni degli uomini ma non le sue sofferenze. Nel nome della sicurezza invece si consente tutto anche di approvare leggi, come l’ultima, che lasciano più di un dubbio. Il Decreto Sicurezza ha molte cose positive ma ora non si può più manifestare anche in forma passiva. Una democrazia matura si riconosce nella capacità di ascoltare non di reprimere. Parliamoci chiaro, il carcere non genera nuove opportunità e la reclusione non può essere esclusione”, continua don Ciotti prima di snocciolare numeri incontrovertibili. “Nel 2024 nelle carceri italiane si è registrato il record di suicidi: uno ogni quattro giorni. Ci sono stati 12 mila 400 casi di autolesionismo e con gli ultimi provvedimenti si stima che entreranno nei penitenziari 10 mila persone in più”, conclude don Ciotti al termine di un lungo intervento che ha collegato tra loro le figure di don Mazzolari, papa Francesco e il giudice Rosario Livatino, presto Beato, esempio fulgido di uomo di legge a servizio dell’ultimo, del diseredato. Roma. “Che fare per il carcere?”: al Senato la riflessione del cardinale Zuppi huffingtonpost.it, 9 giugno 2025 Al convegno, organizzato per l’11 giugno da Luigi Manconi e Stefano Anastasia, si discuterà delle misure possibili per migliorare la situazione degli istituti di pena e ridare speranza ai detenuti. Sovraffollamento, emergenza suicidi, carenza di spazi e di prospettive: il carcere vive uno dei suoi momenti più bui. E i detenuti hanno bisogno di risposte e di speranza. Si ragionerà di questo mercoledì 11 giugno, nel chiostro di Santa Maria della Minerva, una delle sedi del Senato, a Roma. L’incontro, promosso da Luigi Manconi professore e presidente dell’associazione A buon diritto, da Stefano Anastasia, professore e garante dei detenuti di Lazio e Umbria e dal deputato del Pd Paolo Ciani, sarà l’occasione per parlare del futuro dei penitenziari e delle misure che possono essere adottate per rendere il carcere più vivibile. Tra le varie proposte c’è quella di ripristinare la liberazione anticipata speciale, che consente uno sconto di pena maggiore ai detenuti che hanno avuto un buon comportamento in carcere. L’idea, lanciata dai Radicali e da Roberto Giachetti, ha incontrato di recente l’interesse del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Il convegno dell’11, dal titolo “Diritto e clemenza: che fare per il carcere?” culminerà con una riflessione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Matteo Zuppi. Interverranno la vicepresidente del Senato Anna Rossomando, la professoressa Donatella Di Cesare e i professori Luciano Eusebi e Andrea Pugiotto. Prato. “Seminare Idee”, riflessioni sul carcere nel reading di Fattori e Gionfrida di Andrea Capecchi reportpistoia.com, 9 giugno 2025 Andare oltre gli stereotipi per vedere il carcere come un mezzo di rieducazione e reinserimento sociale, in cui anche il teatro può essere uno strumento di grande aiuto. Nella suggestiva cornice rinascimentale del chiostro di San Domenico a Prato è andata in scena una conferenza spettacolo con l’attrice Antonella Fattori e la regista e drammaturga Livia Gionfrida, nell’ambito della seconda giornata del festival Seminare Idee. Un incontro tra musica e parole attraverso un reading teatrale che ha dato vita ai racconti e alle esperienze vissute dagli ospiti di carceri maschili e femminili, ponendo l’accento sulle loro emozioni, le loro sensazioni e paure, il complesso rapporto che si instaura con il “luogo” carcere e coloro che lo abitano. A fare da filo conduttore, la testimonianza di un ex detenuto della casa circondariale La Dogaia di Prato, struttura presso la quale da ormai diciassette anni Livia Gionfrida opera con il suo Teatro Metropopolare, un collettivo che ha eletto questo carcere a residenza artistica ideale e promuove l’attività teatrale come strumento di rieducazione e di riscatto culturale e sociale. Dai brevi racconti che si intrecciano e si sovrappongono durante il reading emerge l’immagine del carcere come luogo di punizione, di condanna e di coercizione, che umilia il detenuto attraverso azioni e pratiche volte a degradare la sua dignità di uomo o di donna. I detenuti raccontano e denunciano le condizioni talvolta disumane in cui sono costretti a vivere, parlano della facilità con cui purtroppo è possibile suicidarsi tramite impiccagione nelle proprie celle - il tema dei suicidi nelle carceri italiane è un problema di scottante attualità, con numeri in costante aumento - e avvertono sul senso di alienazione che si crea nell’opposizione tra il “dentro”, il mondo delle “quattro mura” del carcere, e un “fuori” che appare sempre più lontano e dai contorni sfumati quanto più passa il tempo. A tal proposito vale davvero la pena rileggere con attenzione le pagine de “L’università di Rebibbia”, romanzo autobiografico di Goliarda Sapienza del 1983 ma ancora attualissimo per tanti aspetti, e citato più volte nel corso del reading per rievocare l’atmosfera all’interno di un carcere femminile, con la rete di rapporti e di relazioni umane che si stabiliscono tra le detenute, fra gesti di spontanea solidarietà e la dura “lotta per la vita” per accaparrarsi i “posti migliori” e il favore delle secondine. “In galera le chiavi le hanno gli altri”: questa frase riassume tutto l’arbitrio a cui troppo spesso i detenuti sono sottoposti da parte delle autorità, come nel drammatico episodio di una perquisizione con cani antidroga alla Dogaia, tra caos, oggetti personali sequestrati, detenuti chiusi a forza nelle celle e il suicidio di un ragazzo di diciannove anni a cui erano state strappate di mano le foto dei suoi cari. Uno scenario crudo, brutale, senza speranza, che tuttavia può e deve cambiare per far tornare il carcere un luogo dove l’isolamento e la limitazione delle libertà personali siano funzionali al recupero e al reinserimento del reo, e non alla perdita della sua dignità umana. Fattori e Gionfrida ci suggeriscono che nessun detenuto, salvo rari casi, è da ritenere “irrecuperabile”: serve anche in questo ambito un cambio di mentalità riguardo alla funzione e al ruolo sociale del carcere, servono inoltre la volontà politica e investimenti mirati per far sì che questo diventi il luogo della rieducazione e della speranza, con benefici per l’intera comunità nel lungo periodo. E qualcosa può fare anche il teatro, come testimonia la significativa esperienza del Teatro Metropopolare che dà voce ai detenuti, li aiuta a crescere dal punto di vista personale e umano, promuove una loro riabilitazione alla vita sociale. Per essere cittadini di nuovo liberi, per non commettere più reati e, perché no, per diventare attori. Catanzaro. I giovani detenuti dell’Ipm in scena al Comunale: la solidarietà per i piccoli pazienti moveoncalabria.it, 9 giugno 2025 Un palco, tante storie. Storie di sofferenza e di coraggio, di errore e di rinascita, di malattia e di speranza. È da questa straordinaria trama di vite che nasce l’evento promosso dall’associazione Acsa & Ste ETS e dalla Camera Penale di Catanzaro, in collaborazione con l’Istituto penale per i minorenni (Ipm) di Catanzaro, il Teatro Comunale, l’Agenzia Present & Future e con il prezioso sostegno dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Renato Dulbecco”, guidata dal commissario straordinario Simona Carbone. Un’iniziativa speciale, profondamente umana, che ha visto protagonisti i giovani detenuti dell’Ipm di Catanzaro impegnati nella messa in scena di un’opera di Eduardo De Filippo. Ma lo spettacolo - divertente e ben riuscito grazie al “tocco” e alla sensibilità del regista Rodolfo Calaminici - è stato solo il veicolo di un messaggio ben più profondo: attraverso la cultura, l’arte e la responsabilità sociale, è possibile costruire ponti tra percorsi di vita apparentemente lontani. L’idea di realizzare l’evento nasce proprio dai ragazzi dell’Ipm, desiderosi di contribuire concretamente al progetto “We Will Make Your Dream Come True”, che da anni regala sogni ai bambini ricoverati nei reparti pediatrici dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “Renato Dulbecco”, offrendo momenti di gioia e normalità a chi sta affrontando il difficile percorso delle terapie oncologiche. “È un progetto che tiene insieme educazione, cultura, empatia e responsabilità sociale - hanno dichiarato il dottor Giuseppe Raiola, presidente di Acsa&Ste ETS, e l’avvocato Francesco Iacopino, presidente della Camera Penale “Cantafora” -. Aiutiamo i bambini malati, ma restituiamo anche dignità a ragazzi troppo spesso etichettati e dimenticati. È una battaglia educativa che dobbiamo combattere tutti insieme. “ Il senso profondo della serata è racchiuso nella bellezza della reciprocità: ragazzi che hanno sbagliato e che oggi percorrono una strada di rieducazione donano il proprio impegno e il proprio talento a bambini che lottano contro la malattia. Due fragilità che si incontrano e si sostengono, in un abbraccio che restituisce dignità e speranza. Come ha sottolineato la dottoressa Maria Concetta Galati: “Questo spendersi reciprocamente la mano tra persone che hanno vissuto la sofferenza è meraviglioso e fa sperare nel futuro”. L’evento, presentato dal direttore artistico del Teatro Comunale Francesco Passafaro, rappresenta anche il frutto di una sinergia straordinaria tra giustizia, sanità, volontariato e istituzioni. Una rete che, come ha ricordato la commissaria straordinaria Simona Carbone, “consolida sempre più il legame con il territorio, integrando i servizi sanitari con percorsi di umanizzazione e responsabilità sociale. La nuova Azienda Dulbecco vuole essere sempre più presidio di cura ma anche di comunità, capace di stare accanto alle persone non solo come pazienti, ma come cittadini”. Sul palco, al termine della rappresentazione, uno dei giovani, Alex, ha voluto ringraziare in modo speciale alcuni funzionari dell’Ipm che quotidianamente li accompagnano in questo difficile ma prezioso cammino di rieducazione, tra cui l’agente Antonio Trapasso e la dottoressa Alessandra Mercantini. Operatori ed educatori che grazie al progetto dell’Associazione “Veliero” Aps, presieduto da Francesca Gallello, salgono sul palcoscenico, parte attiva della rappresentazione, stando ancora di più vicino ai ragazzi che aiutano i ragazzi quotidianamente. Alex ha anche introdotto l’esibizione di Abdul, in arte Baby Blanca, che ha cantato “Corri”, brano simbolo del suo percorso. L’incasso della serata è di 5.885 euro, interamente destinati ai piccoli pazienti dell’oncoematologia pediatrica dell’AOU “Renato Dulbecco”. “Abbiamo realizzato non solo uno spettacolo, ma la bellezza dei sentimenti e della generosità” ha sottolineato Giuseppe Raiola, mentre il direttore dell’Ipm, Francesco Pellegrino, ha ricordato l’impegno costante a fianco dei ragazzi: “Li accompagniamo in questo percorso di sofferenza, con l’obiettivo di restituire alla società persone nuove, diverse da quelle che abbiamo accolto”. Durante la serata, l’avvocato Francesco Iacopino ha consegnato simbolici doni ai giovani protagonisti e ha annunciato nuovi progetti futuri, tra cui corsi professionalizzanti e percorsi di adozione di prossimità per i tanti ragazzi stranieri privi di riferimenti familiari in Italia: “Abbiamo realizzato in concreto l’articolo 27 della nostra amata costituzione. Stiamo avviando altri due progetti dedicati ai giovani del penitenziario, uno per dare loro l’attestato di panificatori, un altro per attivare l’adozione in città: la metà dei detenuti delle nostre carceri minorili sono extracomunitari con nessuno in Italia, vogliamo dare loro un riferimento territoriale. Partiremo con un progetto pilota e se va bene daremo vita a un’altra iniziativa che ci auguriamo possa diffondersi a tutta Italia”. Un ringraziamento particolare a chi ha contribuito a realizzare la serata con il proprio contributo: il Consiglio regionale della Calabria, Banca di Montepaone - Credito Cooperativo, Associazione Mogli Medici Italiane, Lions Club Catanzaro Host, Brulli Energia, oltre che al Teatro Comunale e all’Agenzia Present & Future. A rendere la serata ancora più incisiva nel messaggio e nella partecipazione la presenza di figure istituzionali, a partire dal questore Giuseppe Linares, il dirigente del Commissariato della Polizia di Stato di Lamezia Terme Antonio Turi, la presidente del Tribunale per i Minorenni di Catanzaro Teresa Chiodo, la presidente del Centro Calabrese di solidarietà Ets Isolina Mantelli e il sindaco di Vibo Valentia, Enzo Romeo. Quello andato in scena al Teatro Comunale di Catanzaro è stato molto più di uno spettacolo. È stato un potente messaggio di giustizia riparativa, di umanità e di speranza. È stato il segno che anche nei contesti più difficili possono germogliare bellezza, consapevolezza e generosità. Perché dietro ogni errore può esserci una rinascita. E dietro ogni sorriso donato a un bambino c’è un futuro che riprende colore. E come si legge ai piedi del palco intitolato a Nino Gemelli: “Il sogno di Eduardo… insieme si può”. Livorno. Al carcere di Gorgona uno spettacolo coi detenuti protagonisti gonews.it, 9 giugno 2025 Dopo il successo della “Trilogia del Mare” (Ulisse, Metamorfosi, Una Tempesta), il progetto “Il Teatro del Mare”, ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, prosegue con una nuova creazione originale: La Città Invisibile, che debutterà in prima nazionale all’interno della Casa di Reclusione dell’Isola di Gorgona nei giorni domenica 29, lunedì 30 giugno e martedì 1° luglio 2025. Lo spettacolo è il frutto di un laboratorio teatrale e musicale condotto da Gianfranco Pedullà, Francesco Giorgi e Chiara Migliorini, con la partecipazione attiva dei detenuti. Il testo nasce da un percorso di scrittura collettiva coordinato da Chiara Migliorini, basato su domande, conversazioni e suggestioni che hanno messo in relazione i partecipanti con lo spazio dell’isola, facendo emergere ricordi, sogni, desideri, paure e timori. Questa pratica laboratoriale ha trovato ispirazione nell’opera di Italo Calvino Le città invisibili e nelle Carte dei Tarocchi. Dal 2020, il progetto “Il Teatro del Mare”, ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, ha trasformato l’Isola di Gorgona in un palcoscenico unico, dove i detenuti della Casa di Reclusione diventano protagonisti di un approfondito percorso artistico e umano. La trilogia composta da “Ulisse”, “Metamorfosi” e “Una Tempesta” ha visto - negli anni 2020/2025 - la partecipazione alle repliche sull’isola di oltre 3.000 spettatori provenienti da tutta Italia, offrendo un’esperienza immersiva che unisce arte e riflessione sociale. Fuori da Gorgona gli spettacoli sono stati rappresentati a Roma, Piombino, Firenze, Follonica, Lastra a Signa alla presenza di oltre 2000 spettatori. Il progetto ha ricevuto riconoscimenti significativi, tra cui il premio Catarsi/Associazione Nazionale Critici di Teatro per “Ulisse” nel 2020, attestando l’importanza del teatro come strumento di rieducazione e reintegrazione. L’Isola di Gorgona, con la sua natura incontaminata e la sua storia, diventa così simbolo di rinascita e speranza, dimostrando come l’arte possa abbattere le barriere e costruire ponti tra mondi apparentemente distanti. Questo nuovo capitolo con “La Città Invisibile” è un viaggio poetico e simbolico che esplora l’identità, la memoria e il desiderio di trasformazione, offrendo una narrazione corale che intreccia le storie personali dei partecipanti con l’immaginario collettivo. La produzione è realizzata in collaborazione con la Casa di Reclusione di Gorgona, con il PRAPP di Firenze, con il contributo della Regione Toscana, e il sostegno del Teatro delle Arti e del Comune di Lastra a Signa. Per partecipare è obbligatoria la prenotazione scrivendo a teatrocarcere.tparte@gmail.com La richiesta dovrà includere: dati scelta, numero dei partecipanti, nome, cognome, dati e luogo di nascita di ciascun partecipante, una foto del documento d’identità e un recapito telefonico. La prenotazione sarà considerata valida solo dopo conferma via email. Il biglietto comprende il trasporto in traghetto e l’ingresso allo spettacolo. Le modalità di accesso all’isola saranno dettagliate nella conferma. Il pagamento deve essere effettuato dopo la conferma della prenotazione. Il costo è di 40€ per ogni partecipante ed è comprensivo di trasporto in traghetto e biglietto dello spettacolo. Per i minori di 12 anni il costo è di 25€. Italia 2025: il pensiero essenziale ci salverà di Gian Maria Fara* Il Dubbio, 9 giugno 2025 Un estratto dell’introduzione del presidente Gian Maria Fara, al 37° Rapporto Italia realizzato da Eurispes. Siamo ancora di fronte al bivio delle scelte di fondo, personali e collettive, che occorre compiere in risposta alle nuove sfide determinate dai cambiamenti, spesso sorprendenti e radicali, che sono avvenuti nella situazione geopolitica internazionale, nella evoluzione della scienza e della tecnologia, nel modo di pensare e nei comportamenti sociali, delle persone e delle comunità e, soprattutto, sul fronte della finanziarizzazione dell’economia, non più da intendersi come fatto tecnico, bensì come strumento di controllo e di indirizzo della politica. Siamo oggi costretti a misurare tutto il grado di incertezza e i relativi effetti negativi che questa condizione comporta. Una condizione che avevamo in gran parte previsto e valutato e che era stata presentata e messa a disposizione della comunità nazionale nelle precedenti edizioni del Rapporto Italia. Ci riferiamo, in particolare, al Rapporto Italia del 2023, quando, dopo l’uscita dal tragico periodo dell’epidemia da Covid-19, avevamo segnalato che quelli in atto nella società italiana non erano semplici cambiamenti di sistema da correggere più o meno agevolmente e tempestivamente per recuperare le situazioni del passato, ma si trattava, invece, di vere e proprie trasformazioni strutturali, destinate a condurci in territori sconosciuti e di fronte alle quali era richiesto a tutti noi, come scrivemmo allora, “il coraggio di avere coraggio”. Vale a dire di avere la capacità di pensare e di agire con scelte adeguate di fronte alla direzione del tutto nuova da imboccare e alla via da percorrere. Ed ancora: ci riferiamo al Rapporto Italia del 2024, in cui abbiamo segnalato come l’incertezza delle situazioni nelle quali operavamo fosse ormai diventata una norma, un dato costante con cui confrontarci, sostenuti, in questa nostra lettura, da una opinione oggi diffusa anche tra numerosi e autorevoli esponenti pubblici e privati, italiani e stranieri. L’Italia al bivio, avevamo sottolineato lo scorso anno; e lo è ancora attualmente in questo 2025 che continua ad essere carico di tensioni, rotture, tragedie sul fronte interno e su quello internazionale. Di fronte alla complessità con cui dobbiamo confrontarci, ci affidiamo all’insegnamento di colui che è stato il nostro maestro, Franco Ferrarotti, quando ci insegnava che il ricercatore non deve offrire soluzioni, ma porre domande e segnalare problemi. In questo senso, allora, le domande da porsi potrebbero essere queste: stiamo davvero operando con scelte valide, lungimiranti, in grado di farci intravedere, quanto meno, delle prospettive degne di essere perseguite e raggiunte? Ci stiamo davvero muovendo con un adeguato patrimonio di valori, di pensiero e di idee, di comportamenti in questa direzione? Abbiamo la consapevolezza, e il senso, di quanto sta accadendo intorno a noi? E ancora: ci siamo attrezzati intellettualmente e praticamente per affrontare in modo adeguato l’imponderabile e l’imprevedibile? Queste domande non sono il frutto di un’esagerata propensione al dubbio, o di un esercizio di retorica, ma trovano giustificazione nello studio, nelle analisi, nella valutazione dei processi di trasformazione che stiamo vivendo nella nostra società. Quando dalla superficie proviamo ad andare in profondità, quando decidiamo di alzare il velo delle apparenze, dell’effimero e del contingente per cercare la realtà effettiva del periodo storico nel quale ci è dato di vivere ed operare, allora emerge in tutta la sua gravità la portata della crisi attuale, una crisi che intacca e deprime i valori e i fattori fondamentali sui quali - finora - si sono basati e organizzati i nostri sistemi di convivenza, i nostri processi di crescita e di sviluppo. La razionalità e, perché no, anche il sentimento con cui portiamo avanti le nostre ricerche - quelle che presentiamo quest’anno con il 37° Rapporto Italia e che promuoviamo applicando sempre un approccio interdisciplinare e sistemico per non rischiare di trascurare qualche elemento importante di valutazione - queste ricerche ci evidenziano che lo stato di incertezza è arrivato a cogliere ed intaccare negativamente, in profondità, valori ed elementi essenziali del nostro vivere comune, quelli, per intenderci, in gran parte sanciti nei principali atti internazionali e nazionali di riferimento, come, ad esempio, i documenti fondanti dell’Onu, la “Carta delle Nazioni Unite” e la “Dichiarazione universale dei diritti umani” e anche la stessa Costituzione della nostra Repubblica italiana.(...) Il richiamo di questi elementi principali chiarisce senza equivoci che, al di là dei fatti e delle difficoltà contingenti, al di là delle frequenti emergenze, la nostra società è soggetta a processi di cambiamento radicale in cui ormai sono messi in discussione i valori etici, religiosi, culturali, politici, sociali sui quali tradizionalmente è stato costruito ed ha potuto progredire per decenni il nostro sistema. Un richiamo che chiarisce, di conseguenza, che ogni possibilità di correggere questa situazione e riprendere un cammino positivo è in effetti legata ad un impegno condiviso, volto a recuperare un pensiero forte, onesto, costruttivo, adeguato a orientarci nelle scelte da compiere, come individui e come comunità. In questo senso, anche a distanza di tanti anni, dovremmo aderire all’appello che Albert Einstein, insieme alla propria comunità di scienziati, promosse nel lontano 1946, per diffondere “il pensiero essenziale” senza il quale l’umanità non avrebbe potuto sopravvivere. Riteniamo, sinceramente, che quando sono in discussione e a rischio reale di rottura i valori essenziali di una comunità, come accade attualmente, quantomeno in Italia e nell’ambito della Unione europea, noi tutti dovremmo compiere ogni sforzo per considerare con adeguata attenzione la vera realtà che abbiamo di fronte, nella quale viviamo quotidianamente. Dovremmo sforzarci di intenderla e affrontarla, appunto, con un “pensiero essenziale”, mettendo da parte le valutazioni effimere, gli atteggiamenti superficiali. Dovremmo cercare di combinare gli interessi personali con quelli collettivi, accantonando e rinunciando a sterili e controproducenti contrapposizioni, nei diversi àmbiti del vivere comune, a cominciare da quello politico e da quello economico e lavorativo. Non abbiamo più tempo - ci sentiamo di aggiungere - perché i rischi di involuzione e di implosione sono assai elevati. Questo ci rivela il velo che è stato sollevato sul mondo reale. Occorre, insomma, come abbiamo ripetuto in tante occasioni, ritornare a riflettere sull’elementarmente umano, sull’elementarmente ragionevole. In sostanza, l’esercizio di questo pensiero essenziale ci induce a riflettere sui cinque punti di crisi della contemporaneità: - la crisi della democrazia: - la crisi della politica; - la crisi dell’ordine mondiale; - la crisi dell’idea di progresso; - la crisi dell’idea di comunità. Che cosa è diventata la nostra democrazia? Che cosa sono diventati i princìpi, le Istituzioni, le pratiche di partecipazione per le quali i cittadini hanno lottato per secoli, con il fine di poter esercitare i loro diritti fondamentali di libertà, eguaglianza e giustizia? Valgono ancora questi princìpi? O, meglio, esistono ancora le condizioni per un loro pieno esercizio? Se alziamo il velo sui nostri sistemi democratici e sulle loro modalità di funzionamento, vediamo con chiarezza che tra il cittadino e le Istituzioni democratiche si sono interposti dei soggetti esterni, dei mega-attori economico-finanziari e tecnologici che sono in grado di interferire sul processo di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica - una partecipazione libera, cosciente, responsabile - attraverso un condizionamento invasivo e profondo sulle loro scelte e comportamenti. Un condizionamento che impone orientamenti e interessi che, sempre più spesso, vanno al di là di quelli meramente economici e di consumo dei beni e dei servizi. Gli effetti diffusi di una simile situazione, che registriamo nei nostri sistemi democratici in questa fase storica, giustificano la domanda che molti hanno iniziato a farsi: siamo di fronte alla fine della democrazia? Il nuovo governo del mondo che si va delineando sembra ormai concentrato nelle mani di pochissimi attori che non pare abbiano particolarmente a cuore il bene dei popoli e la loro libertà. Crescono i condizionamenti esterni da parte di attori non politici e sempre più spesso assistiamo al progressivo svilimento - quando non ad un vero e proprio svuotamento dei valori- delle ragioni e delle prassi della politica, del pensiero e di quell’agire politico che abbiamo conosciuto. Stiamo vivendo una fase storica nella quale non soltanto sono venute meno le ideologie che alimentavano il confronto tra orientamenti diversi; una fine delle ideologie ormai ampiamente riconosciuta. È venuta meno, soprattutto, la capacità di intendere e praticare l’azione politica nella sua funzione primaria, che è quella di operare secondo una visione di bene comune e di progresso di una società nel suo insieme. È venuta meno la capacità di agire secondo un’idea di futuro condiviso che non sia soltanto un futuro da esplorare, ma che sia soprattutto un futuro da costruire; un futuro, come diciamo da tempo, legato all’individuazione e definizione di scenari degni di essere perseguiti: quale futuro vogliamo costruire? Con quali politiche? Quella che viviamo è troppo spesso una politica sterile, motivata da ragioni contingenti, emergenziali; una politica che sta perdendo il ruolo guida, che opera in superficie, che è lontana, disancorata dalla necessità ineludibile di affrontare le trasformazioni strutturali del nostro tempo. È una politica che, a causa della sua perdita di senso, sta diventando sempre più non-politica, vale a dire una politica che esalta il peggio mentre mantiene il silenzio sul meglio. Spesso una retorica fine a se stessa, che ci richiama un significativo pensiero che si legge nelle lettere di L.N. Tolstoj: “Gli uomini si distinguono fra loro anche in questo: alcuni prima pensano, poi parlano e quindi agiscono, altri, invece, prima parlano, poi agiscono e infine pensano”. Da qui la domanda che facciamo a noi stessi, e che ci permettiamo di proporre anche a tutti voi: siamo davvero alla fine della politica? La giustificazione a questa domanda, oltre che sugli elementi di decadenza e degrado decritti finora, la troviamo in quella che definiremmo come la povertà dei processi che emergono innanzitutto sulla scena internazionale. Una povertà, per usare un eufemismo che, ad esempio, porta Stati e cittadini a orientarsi verso valutazioni di chiusura miope, egoistica, nel modo di intendere e promuovere la tutela della sovranità e degli interessi nazionali, come dimostra il diffondersi di movimenti politici populisti e sovranisti: fino alla assurdità tragica, decisamente antistorica, di sostenere la promozione degli interessi nazionali con iniziative di guerra. D’altro canto, valgono i processi che tendono a condividere la sovranità e a concentrare il confronto e le decisioni politiche strategiche tra un numero ristretto di potenti, pubblici e privati, collocati sempre più spesso al di fuori delle Istituzioni tradizionali degli Stati e delle loro Istituzioni multilaterali di riferimento. A questo riguardo, non vi è dubbio che siamo entrati in una situazione caratterizzata dal fatto che vi è più politica al di fuori della politica ufficiale. In un famoso libro che ci induce a riflettere su chi siano i veri potenti della terra, lo studioso americano Noam Chomsky si domandava: “Chi governa il mondo?” ma concludeva le sue analisi con un’altra domanda: “Quali princìpi e valori comandano il mondo?”, richiamando in tal modo i limiti di una politica che non riusciva più a svolgere la sua vera funzione di operare le scelte secondo determinati princìpi di civiltà e di progresso. Sui temi etici il Paese va indietro. Ma sono i giovani a spingere il cambiamento di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 giugno 2025 Fine vita, adozioni gay, procreazione: gli italiani restano scettici. ma il consenso cresce sui diritti civili: quasi sei su dieci dicono sì al riconoscimento dei figli di coppie dello stesso sesso. Fine vita, procreazione assistita, diritti civili, droghe e prostituzione. Fotografare l’opinione degli italiani sui temi etici rientra tra le sfide più complesse. Perché oscilla, arretra, spacca i cittadini quasi sempre a metà, come dimostra anche l’ultimo Rapporto Italia curato dall’Eurispes. Che da anni “conduce un’indagine sistematica volta a rilevare l’opinione pubblica italiana su questioni di rilevanza etica, giuridica e sociale, fornendo un quadro evolutivo delle percezioni collettive riguardo a tematiche di primaria importanza”. Il quadro normativo che evolve (o si restringe) non riflette sempre la società, anche se i dubbi restano proprio dove una legge non si riesce a fare: è il caso del suicidio assistito, sul quale “i dati rivelano come prevalga ancora una chiusura, nonostante nel corso del tempo si sia registrato un aumento del consenso”. Nel 2019 si dichiarava favorevole il 39,4% degli intervistati, passati al 46,9% nel 2025: tre punti in meno rispetto a due anni fa. Ma forse sbaglieremmo a concentrarci sui cittadini di oggi, senza guardare a quelli di domani. I numeri cambiano anche in base all’orientamento politico e al grado culturale. Ma tutti i dati raccontano che più si cresce più si allargano i no. Al contrario i giovanissimi, quelli nella fascia tra 18-24 anni, sono i più aperti alla scelta di fine vita: il 79,2% del campione si esprime a favore dell’eutanasia. La percentuale è meno alta sul suicidio assistito, sul quale è il 62,8% dei ragazzi a dire sì: quasi il doppio delle percentuali registrata tra gli over 64, con il 36,5%. Il favore maggiore degli italiani, in assoluto, si registra sul testamento biologico (77,8%), disciplinato dalla legge numero 219 sulle Dat, che è entrata in vigore nel 2018 e resta pressoché sconosciuta. Una larga maggioranza dei cittadini dice sì anche all’eutanasia (67,9%), ma con una variazione nel dato storico: nel 2025 si registra uno dei valori minimi dei consensi tra quelli rilevati negli ultimi 6 anni (il più basso è quello del 2024: 66,7%). Il numero resta parecchio più alto, comunque, di quello sul suicidio assistito. Un tema che impegna anche il Parlamento, dopo anni di “rinvii”: a metà luglio se ne discuterà in Aula al Senato, sempre che il Comitato ristretto di Palazzo Madama riesca a formulare in tempo un testo che metta d’accordo il centrodestra. I nodi non mancano. “L’approfondimento scientifico di questi temi richiede un’analisi articolata che tenga conto della pluralità di prospettive morali, culturali e normative, nonché del ruolo delle Istituzioni nella regolamentazione di scelte eticamente sensibili”, sottolinea il rapporto. Ma le percentuali si fanno interessanti nell’ottica di un referendum sul fine vita, come pensa di fare Macron in Francia, e come propone l’associazione Luca Coscioni con una proposta di legge di iniziativa popolare depositata in Cassazione che ha l’obiettivo di legalizzare tutte le scelte di fine vita, compresa l’eutanasia attiva. L’ultima volta, nel 2022, il testo sull’eutanasia legale promosso dalla stessa Associazione aveva raccolto oltre un milione di firme, ma era stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale. Che fin dal 2019, con la sentenza 242 sul caso Cappato/Dj Fabo, spinge il legislatore ad occuparsi della materia. “Un nodo centrale di questa riflessione è rappresentato dal principio di autodeterminazione, che solleva interrogativi bioetici e sociali cruciali, richiamando l’importanza della libertà di scelta e di espressione. Di fronte alle sfide del presente, si impone la necessità di ridefinire i confini del vivere comune, con un rinnovato senso di responsabilità individuale e collettiva, capace di orientare le risposte ai cambiamenti culturali, sociologici e civici della contemporaneità con consapevolezza e con senso di solidarietà”, dice il rapporto. E chi altri, se non i giovani, sono i protagonisti del cambiamento? Sui temi ambientali e per la tutela degli animali, ad esempio, che resta un tema molto caro agli italiani. Ma anche sui diritti civili, sui quali gli italiani “rivelano posizioni solo parzialmente avanzate”, seppure con un’apertura crescente nel corso del tempo. Se il 70,2% del campione si dichiara a favore della tutela giuridica delle coppie di fatto indipendentemente dal sesso e il 66,8% si dice d’accordo sulla possibilità di contrarre matrimonio per le persone dello stesso sesso, i dubbi crescono quando entrano in gioco i figli: poco più di un italiano su due si dichiara favorevole all’adozione per le coppie omosessuali (51,9%) e per i single (54,3%). Il quadro cambia se si va per fasce d’età: l’84,7% dei 18-24enni si dichiara a favore della tutela giuridica alle coppie di fatto indipendentemente dal sesso; il 73,2% dice sì all’adozione per le coppie omosessuali e la percentuale cresce a favore dell’adozione per i single. Da quest’anno l’Eurispes ha interrogato gli italiani anche sul riconoscimento dei figli di coppie omogenitoriali, tema sul quale la Consulta si è recentemente espressa aprendo alle famiglie composte da due mamme: quasi 6 italiani su dieci dicono sì (il 58,1%). Tra i “nuovi temi” c’è anche la fecondazione eterologa, che incontra il favore del 59,7% del campione nel 2025, in aumento rispetto al 2021. Si abbassa il consenso sulla maternità surrogata, già illegale in Italia e resa “reato universale” con la recente normativa approvata dal Parlamento: nel 2025 solo il 35,5% si dichiara favorevole a fronte del 64,5% degli intervistati che si dichiara invece contrario, facendo registrare il dato più basso della serie storica di indagine (2021-2025). “Sul riconoscimento delle identità di genere che non si rispecchiano nel femminile o nel maschile appare esserci invece maggiore consenso, seppure questa sia l’opinione di poco più della metà degli italiani”, spiega il rapporto. Che registra un “certo grado di chiusura” rispetto al cambio di sesso tramite autodichiarazione (è a favore il 37,2%). Ultimo, ma non ultimo, il dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere e della prostituzione: nel 2025 meno di un italiano su due si dichiara favorevole (42%) alla prima opzione, mentre i dati rivelano una progressiva chiusura sul secondo tema. Nell’ultimo anno, lo stesso in cui è arrivato un codice Ateco per le attività da escort, dice sì solo il 48,2% degli italiani: dieci anni fa, nel 2015, la fetta di popolazione a favore delle “case chiuse” era il 65,5%. Pregiudizi antichi e società distratta: che cosa pensano gli italiani degli ebrei di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 9 giugno 2025 Seppure siano lontani i livelli di antisemitismo di Francia e Germania, anche nel nostro Paese stereotipi e leggende culturali sono duri a morire. In Italia l’antisemitismo non urla: sussurra. Non si manifesta in cortei e svastiche, ma si insinua nelle pieghe della disinformazione, negli stereotipi che resistono al tempo come pietra dura, nella pigrizia culturale di chi confonde l’ebreo con l’israeliano, il popolo con il governo, la Storia con l’opinione. Non siamo la Francia delle sinagoghe sorvegliate da militari armati, né la Germania delle aggressioni ai luoghi di culto ebraici documentati ogni anno. Ma anche da noi il pregiudizio esiste, magari diluito con la vecchia giudeofobia di matrice cristiana. E dove esiste un pregiudizio può attecchire la violenza. È in questa cornice che si inserisce l’ultima indagine dell’Eurispes, che da oltre vent’anni monitora l’evoluzione del pensiero italiano sul popolo ebraico anche in relazione al conflitto israelo-palestinese. Il risultato è una fotografia lucida e inquieta: l’Italia non è un paese apertamente antisemita, ma una certa ignoranza di fondo continua a nutrire cliché duri a morire. Prendiamo un dato solo all’apparenza marginale: quanti ebrei vivono in Italia? Solo quattro italiani su dieci lo sanno: circa 30mila. Per il 23% sarebbero mezzo milione, il 16,5% pensa siano due milioni. Una percezione profondamente distorta che non è solo frutto di ignoranza statistica: sopravvalutare la dimensione di una minoranza è spesso indice di timore, di alterità percepita, e in alcuni casi di sospetto. Gli stereotipi, infatti, sono vivi e vegeti. Il 37,9% degli italiani è d’accordo con l’affermazione “gli ebrei pensano solo ad accumulare denaro”; il 58,2% li considera “una comunità chiusa”, mentre il 61,7% li ritiene mediamente colti e istruiti. Un’antica ambivalenza riemerge: quella che associa l’ebreo al potere, alla ricchezza, ma anche all’eccellenza intellettuale. Stereotipi a volte positivi, ma che contribuiscono a definire un’immagine mitologica e ben poco reale degli ebrei. Il dato anagrafico mostra come certi riflessi condizionati resistano meglio tra gli anziani, al contrario, i giovani tra i 18 e i 24 anni sembrano meno influenzati da questi cliché tradizionali, ma più esposti a narrazioni semplificate del conflitto israelo-palestinese: il 50,8% di loro ritiene che “gli ebrei si siano appropriati di territori altrui in Palestina”. Un’affermazione che trova meno consenso tra le altre fasce d’età, ma che comunque raccoglie l’adesione di oltre quattro italiani su dieci (44,2%), a fronte di un 55,8% che esprime disaccordo. Un dato più confortante arriva dalla netta maggioranza - il 64,6% - che distingue tra il popolo ebraico e le scelte politiche del governo israeliano: un principio di base della convivenza democratica, ma che ancora un terzo del campione (35,4%) non condivide. Anche qui, l’ambivalenza: la condanna dell’antisemitismo c’è, ma non è pienamente interiorizzata. Sul piano della memoria storica, la situazione appare altrettanto sfumata. Sei italiani su dieci sanno che le vittime della Shoah furono sei milioni. Un dato positivo, ma che lascia sul campo il 40% del Paese con una conoscenza approssimativa o gravemente errata: 2 milioni, 800.000, 40.000, e persino solo un migliaio di vittime secondo l’1,8% degli intervistati. La memoria, evidentemente, non basta mai. E oggi? Cosa pensano gli italiani degli episodi di antisemitismo recenti, anche nel nostro Paese? Il 54% li considera isolati, non rappresentativi di un problema strutturale. Ma un robusto 46% non è d’accordo, e il 53,6% collega queste manifestazioni a un linguaggio pubblico intriso di odio e razzismo. Ancora più significativo è quel 38,9% che vede in questi episodi il segnale di una pericolosa recrudescenza. Soltanto per il 27,6% si tratta di bravate, provocazioni senza radici ideologiche. Rispetto all’indagine Eurispes del 2020, qualcosa è cambiato. Allora, erano di più quelli che tendevano a minimizzare: il 61,7% parlava di episodi isolati, il 37,2% li considerava soltanto provocazioni. Oggi, queste cifre si sono abbassate, e pur diminuendo anche la percentuale di chi teme un ritorno dell’antisemitismo (dal 47,5% al 38,9%), cresce una consapevolezza più diffusa dei meccanismi culturali che lo alimentano. L’Italia non è immune, ma resta - per ora - meno contagiata di altri Paesi europei, dove gli episodi violenti si susseguono con maggiore frequenza e visibilità. La nostra forma di antisemitismo è spesso carsica, più vicina all’ignoranza che all’odio attivo come dimostra la stessa biografia della nazione, mai realmente antisemita se non per opportunismo durante gli ultimi anni del regime fascista. Ma anche l’ignoranza, quando non riconosciuta, può provocare danni profondi. Soprattutto se accompagna una scarsa dimestichezza con la Storia, una fatica crescente nel distinguere il giudizio morale dal pregiudizio identitario. La sfida è culturale prima che politica. Serve più informazione, più conoscenza. E l’unico antidoto efficace resta una società vigile, che sappia guardarsi allo specchio. Anche quando l’immagine riflessa non è del tutto rassicurante. Quei figli che l’Italia non vede: “Le comunità Rom e Sinti private dell’identità” di Youssef Hassan Holgado e Marika Ikonomu Il Domani, 9 giugno 2025 Nedzad ha 33 anni, Aisa ne ha 23 e due figli. Nati in Italia, senza cittadinanza. Gli ostacoli del reddito e della residenza sotto continue minacce di sgombero. Nel campo di via Salone il tempo è fermo. All’ingresso, due vigili siedono annoiati in una volante. È un posto lontano da tutto, nella periferia est di Roma. A giugno fa già caldo nei container, ad agosto è invivibile. “Non c’è nulla. Per andare in città dobbiamo prendere il treno, ma d’estate non passa mai”, dice Aisa Husovic. Ventitré anni e due figli da crescere, si è ritrovata al punto di partenza dopo che il comune di Guidonia, alle porte di Roma, ha sgomberato l’insediamento di via Albuccione, dove vivevano diverse comunità Rom. “Quando sono tornata a Salone, ero depressa. Mi sono ricordata di quando ero bambina e vivevo qui. Non avrei mai voluto che i miei figli vivessero quello che ho vissuto io”, racconta Aisa, mentre tiene in braccio Tommaso, il più piccolo dei due, nella loro casa, l’unico container disponibile che hanno trovato al loro ritorno. Di fronte, i genitori e i fratelli stanno completando le loro abitazioni. “Non puoi neanche far giocare i bambini all’aperto. Ci sono in continuazione cose che bruciano, gente che si ubriaca”, dice. I roghi, l’immondizia e una convivenza forzata con altre centinaia di persone sconosciute, sono solo alcune delle problematiche che scandiscono la vita monotona dentro il campo. Salone, in base al progetto del comune di Roma, dovrebbe essere superato entro la fine del 2026. Aisa ha qui la residenza, ma per un cortocircuito burocratico non risulta beneficiaria del progetto di superamento del campo. Discriminazione - Non c’erano altre opzioni. Dopo lo sgombero a Guidonia nell’agosto 2024, sono stati costretti a tornare a via di Salone. In cambio il comune ha promesso 500 euro a persona ma, fanno notare le famiglie, non bastano nemmeno per la caparra di un affitto. “Che ci faccio con quei soldi? Non li ho accettati e, comunque, senza documenti non potevo nemmeno riceverli”. Aisa, di fronte alla minaccia di sgombero dei terreni, è andata in una casa vuota, sequestrata alla criminalità organizzata. Ma anche lì le autorità l’hanno sfrattata, uno sgombero che lei definisce “su base etnica”. Appena tornata a Salone, è riuscita a iscrivere il primo figlio Santiago a scuola e l’anno prossimo inizierà la primaria. Aisa è nata e cresciuta a Roma, ma non è cittadina italiana. Secondo il permesso di soggiorno, ora scaduto, è bosniaca, ma in realtà non ha cittadinanza. Il padre è cittadino bosniaco, la madre è nata a Roma ma soltanto qualche anno fa, a quasi 50 anni, ha ricevuto il riconoscimento dell’apolidia. “Se passasse il referendum sulla cittadinanza, le persone che sono qui nel campo avrebbero la metà dei problemi. Tagliare la residenza continuativa da dieci anni a cinque, è un gran passo avanti”, dice Nedzad, fratello di Aisa. Però a Salone nessuno parla del referendum, “è un discorso che passa in secondo piano, rispetto alla situazione”. Nedzad ha 33 anni e lavora come operatore legale. È nato nell’ospedale romano di Villa Irma e nel 1994 la sua famiglia si è spostata al campo del Casilino 900, “a causa degli sgomberi”, racconta. Vivevano all’interno del parco di Centocelle, in tutto più di 300 famiglie: “Era un villaggio di case prefabbricate, non erano baracche”, precisa Nedzad, “anche se stavo in un campo Rom vivevo il quartiere. Sono cresciuto in comitiva”. E con accento romano dice: “Io sono italiano, anzi di Roma, prima ancora sono di Centocelle”. Nedzad è nato e cresciuto in Italia, ma non ha nessuna cittadinanza. Dopo la terza media, avrebbe voluto frequentare le superiori, ma senza permesso di soggiorno non era possibile. “Non sapevo di poter fare richiesta a 18 anni. Non ci è arrivata nessuna lettera”, spiega. Per lui è un’altra “discriminazione su base etnica”. C’è un ricordo vivido: “Avevo 18 anni durante il periodo degli sgomberi della giunta Alemanno. A Casilino 900 hanno caricato tutte le famiglie su un autobus. Abbiamo passato un’intera giornata dentro l’ufficio immigrazione, hanno schedato tutti”. La Questura ha inoltrato una richiesta di protezione internazionale, per lui che era cresciuto a Centocelle e non era mai uscito dall’Italia. Nedzad, secondo di dieci figli, non ha potuto acquisire nemmeno la cittadinanza bosniaca per superato limite di età. “Sono stato rimbalzato per anni dall’Italia e dalla Bosnia. Giocavano con la mia vita”, dice con rabbia. L’anno scorso è riuscito a ottenere l’apolidia e per la prima volta, con un titolo di viaggio, è uscito dall’Italia. “Molta della documentazione richiesta per la domanda di cittadinanza è irreperibile”, precisa Jessica Todaro Bellinati, attivista sindacale di base, di famiglia sinta. Gran parte delle comunità Rom e Sinti è arrivata in Italia dopo le guerre dei Balcani e scappando dal conflitto ha perso traccia di molti documenti, che servirebbero per accedere alla cittadinanza. A questo si sommano problemi di reddito e residenza per chi vive sotto continue minacce di sgombero. Anche se si riesce a ottenere la cittadinanza, “sulla carta si hanno gli stessi diritti degli italiani”, dice Todaro, “ma le condizioni di vita rimangono legate a una discriminazione etnica da cui non è facile uscire. Discriminazione e razzismo esistono a prescindere dal documento che si ha in tasca”. Todaro si è candidata alle elezioni europee con Alleanza Verdi e Sinistra. “Volevamo essere per la prima volta dall’altro lato: portare la voce delle comunità a cui appartengo, che solitamente devono chiedere alla politica”. Quella stessa politica che ha sostenuto a parole lo ius scholae, che per Todaro non è sufficiente: “C’è molta dispersione scolastica. Legare un diritto all’educazione scolastica è escludente per chi ha difficoltà di accesso all’istruzione”. In Italia, secondo i dati Openpolis, la percentuale di abbandono scolastico tra gli stranieri è del 26,4 per cento, contro il 10,5 per cento degli italiani. “Ho iscritto Santiago a scuola fino al 30 giugno. Cosa fa in questo posto?”, dice Aisa indicando l’area desolata del campo. “Tutti i giorni sono uguali, siamo in attesa di una qualche comunicazione”. Cosa vuol dire essere di origine Rom?, chiede Nedzad. “Per l’istituzione significa vivere nei campi. Così la cultura muore, viene schiacciata, e noi privati dell’identità”. Informazione, odio e amore dei potenti (da sempre) di Massimo Sideri Corriere della Sera, 9 giugno 2025 Lo scontro tra l’uomo più ricco del mondo e il più potente, Elon Musk e Donald Trump, via X e Truth, le due piattaforme che controllano, ci riporta al passato. Odio e amore: nonostante ne parlino spesso male, sembra irresistibile l’attrazione che i magnati e i potenti provano per l’informazione. E non da oggi: lo scontro tra l’uomo più ricco del mondo e il più potente, Elon Musk e Donald Trump, via X e Truth, le due piattaforme che controllano, ci riporta al passato. Quello di William Randolph Hearst e il suo discusso “New York Journal”. Quando alla fine dell’Ottocento il suo corrispondente - inviato a seguire a Cuba il conflitto con la Spagna - mandò un cablogramma con su scritto che non c’era nessuna guerra si vide rispondere: “Rimani, tu fornisci le immagini, io fornirò la guerra”. Una sfrontatezza che non lo aiutò nelle sue ambizioni politiche anche se lo porterà ad essere preso a modello per “Quarto Potere” di Orson Welles. Meno noto è che anche Henry Ford si impegnò nell’editoria con esiti infelici: attraverso il suo Dearborn Indipendent diffuse campagne denigratorie contro gli ebrei, ricevendo il plauso dei nazisti. Dearborn è la città dove Ford morì e dove si trova l’omonimo museo, anche se non c’è più traccia di questo giornale che raggiunse, grazie a un sistema che costringeva i concessionari Ford a prenderlo, quasi un milione di copie. D’altra parte lo stesso Jeff Bezos - prima di scivolare in campagna elettorale con la censura della vignetta di Ann Telnaes che poi ha vinto il Pulitzer - aveva festeggiato i suoi miliardi con l’acquisto del Washington Post, quello del Watergate, capace di cacciare un presidente dalla Casa Bianca. In passato. Anche Joseph Pulitzer stampava tabloid scandalistici prima di convertirsi, più o meno ciò che fecero gli usurai Scrovegni affidando la loro memoria (e l’anima) alla Cappella del Giotto. Ma la differenza oggi è che Trump e Musk sono proprietari, editori ed editorialisti unici dei propri giornali, “X Post” e “Truth Times”. Sanno di essere la notizia. E usano questo potere per plasmare l’informazione a propria immagine e propaganda. Gaza, l’esercito israeliano sequestra la nave della Freedom Flotilla e porta l’equipaggio in Israele di Greta Privitera Corriere della Sera, 9 giugno 2025 Un’attivista a bordo: “Quel mare non è di Netanyahu”. Dopo mezzanotte i motoscafi della marina militare israeliana accerchiano il vascello. Nei giorni scorsi, il Corriere ha parlato con Yasemin Acar: “Non possiamo salvare due milioni di persone stremate, ma non possiamo nemmeno accettare quell’inferno”. Non sorprende, ma vedere i video e le foto dei dodici attivisti della Madleen, la nave umanitaria della Freedom Flotilla, con le mani alzate mentre eseguono l’ordine di gettare i telefoni in mare, fa una certa impressione. Dopo mezzanotte, a poco più di cinquanta chilometri dalle coste di Gaza, i motoscafi della marina militare israeliana accerchiano il vascello che voleva portare aiuti umanitari alla popolazione stremata della Striscia. Uno sciame di droni scarica sul ponte una sostanza bianca che brucia gli occhi e rende difficile il respiro. Le ultime immagini che riescono ad arrivare sono confuse: “Ci hanno lanciato addosso dei prodotti chimici, guardate. Questo è un altro crimine di guerra, bloccare una nave umanitaria è un crimine di guerra”, riesce a dire in diretta la deputata Hassan. Poi le comunicazioni si bloccano, il team di degli attivisti informa via Telegram che l’esercito israeliano è salito a bordo, e ha “rapito” l’equipaggio. Il ministero degli Esteri d’Israele conferma la notizia e scrive su X che “lo “yacht per selfie” delle “celebrità” sta navigando in tutta sicurezza verso le coste di Israele”. Il post accusa “Greta e altri di aver tentato di mettere in scena una provocazione mediatica il cui unico scopo era quello di ottenere pubblicità”. Aggiunge un video in cui si vedono i militari distribuire acqua e cibo: “Tutti i passeggeri dello “yacht dei selfie” sono sani e salvi. Sono stati riforniti di panini e acqua. Lo spettacolo è finito”. E, per finire, pubblica una foto di Greta Thunberg a cui viene offerto un pezzo di pane, con una rassicurazione che a molti sembra più una presa in giro: “Greta è attualmente in viaggio verso Israele, sana e salva e di ottimo umore”. Le celebrità di cui parla il ministero, sono i dodici attivisti che il primo giugno sono salpati da Catania per provare a “rompere il blocco israeliano”. Oltre alla svedese Thunberg, c’è Rima Hassan, parlamentare franco-palestinese in Europa. Il Corriere, in contatto con l’equipaggio, ha parlato l’ultima volta con la tedesca Yasemin Acar. L’attivista ha raccontato come si stavano preparando a una risposta delle forze israeliane: “Siamo pacifici, su questa nave non ci sono armi. L’Idf non ci ha mai contatto direttamente. Ma ha pubblicato delle dichiarazioni in cui dicono che interverranno se entreremo in acque israeliane. Ma il mare davanti a Gaza non è d’Israele, la Striscia è un territorio occupato. Quindi noi non infrangiamo alcuna legge”. Mettevano in conto anche lancio di missili “perché abbiamo visto che l’Idf non ha limiti, ha superato tutte le linee rosse del diritto internazionale”. In questi giorni, si sono preparato al “worst case scenario”, allo scenario peggiore, con esercitazioni nel caso di un attacco. “Sappiamo che il nostro tentativo di portare aiuti a Gaza è solo una goccia nell’oceano, voglio condividere una frase che forse suona un po’ sdolcinata, ma che per me rimane un faro nella notte. L’ha scritta il filosofo Rumi: “Non sei una goccia nell’oceano, sei l’oceano in una goccia”. Vero, noi dodici non possiamo dare da mangiare a due milioni di persone, queste sono le responsabilità dei nostri governi, ma non possiamo nemmeno accettare l’inferno di Gaza. E allora facciamo la nostra parte: se ho un pezzo di pane io voglio condividerlo con loro”. L’azione della Freedom Flotilla è per mandare un messaggio a chi governa: “Non vogliamo che i palestinesi rimangano invisibili”, ha detto Acar. Che ha aggiunto: “Faccio l’attivista da sempre. Il senato tedesco mi ha celebrata per quello che ho fatto per l’Ucraina, ma quando ho fatto la stessa cosa per i palestinesi, le reazioni sono state diverse. Hanno fatto raid nel mio appartamento, mi hanno fermata, dimostrando il doppio standard che c’è per Gaza”. Il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha ordinato alle Idf di trasmettere il filmato del 7 ottobre per gli attivisti della nave Madleen: “È giusto che l’antisemita Greta Thunberg e i suoi amici sostenitori di Hamas vedano esattamente cos’è l’organizzazione terroristica Hamas, quella che sono venuti a sostenere e per conto della quale agiscono, e le atrocità che ha commesso contro donne, anziani e bambini, e contro cui Israele sta lottando per difendersi”. Francesca Albanese, relatrice speciale per le Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, che era al telefono con l’equipaggio della Madleen al momento del fermo, ha dichiarato: “Madleen deve essere rilasciata immediatamente. Rompere l’assedio è un dovere legale per gli Stati e un imperativo morale per tutti noi”. Intanto, Hamas definisce il sequestro della nave “terrorismo di Stato”. “Mladi? sta morendo”. Per il boia di Srebrenica chiesta la scarcerazione. Ed è subito polemica di Stefano Giantin ilnordest.it, 9 giugno 2025 Fa discutere l’istanza dei legali dell’ex generale condannato all’ergastolo. “Sottoposto a cure palliative e inguaribile, ha solo pochi mesi di vita”. Venticinque pagine per chiedere il rilascio anticipato di uno dei responsabili delle maggiori atrocità compiute durante la guerra in Bosnia: liberazione che potrebbe avvenire proprio nell’anno in cui si commemora il trentennale della sua “opera” più abietta: il genocidio di Srebrenica. È lo scenario che riguarda il caso di Ratko Mladic, ex generale serbo-bosniaco, leader militare dei serbi di Bosnia durante il conflitto negli Anni Novanta, condannato in via definitiva all’ergastolo per crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio: sulla sua coscienza atti efferati come l’assedio di Sarajevo e, appunto, i massacri del luglio 1995. Ma il boia di Srebrenica, da anni molto malato, non dovrebbe morire in carcere, bensì nel letto della sua casa, circondato dagli affetti più cari. È la richiesta - destinata a far discutere - presentata questa settimana dal team difensivo dell’ex generale, a firma dell’avvocato Dragan Iveti?, al Meccanismo residuale internazionale per i tribunali penali (Mict), organo succeduto al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia per gestire gli ultimi procedimenti ancora aperti. Non è la prima volta che gli avvocati di Mladic tentano la via della scarcerazione anticipata per il loro assistito - l’ultima nel 2024, rigettata - condannato in secondo grado e detenuto al Centro di detenzione delle Nazioni Unite all’Aja (Undu). Ma questa volta, leggendo le carte, quelle 25 pagine di richiesta di liberazione, la sfida appare più sostanziata che in passato. Vi si legge infatti che i “servizi medici” della stessa Undu avrebbero ammesso che Mladic, 83 anni, sarebbe ormai un paziente in condizioni gravissime, sottoposto solo “a cure palliative”, dunque un “inguaribile” per malattie non svelate al grande pubblico. E la cui “aspettativa di vita si misura in mesi”, non si sa quanti con precisione, perché la stima è stata censurata dal Tribunale. Di certo, secondo i legali di Mladic, “vista la natura terminale e inguaribile della malattia e la breve aspettativa limitata, la detenzione non serve il suo legittimo principio e si avvicina” al concetto di “trattamento inumano”. Tenuto conto del quadro, la mozione con carattere di urgenza chiede il rilascio “per ragioni umanitarie” di Mladic. E sarebbe questa l’unica decisione possibile, visti i precedenti - caso Goran Hadži? e altra giurisprudenza del Tribunale per l’ex Jugoslavia, con casi e scelte simili in Italia, Germania o Francia -, dato che quando un detenuto è sottoposto ormai solo “a cure palliative” ed è un “malato terminale” si dovrebbe concedergli la libertà, visto che “non c’è rischio di fuga”, perché l’ex generale è ormai allettato. E sarebbe moralmente accettabile concedere a Mladic di finire i suoi giorni “in famiglia e con medici che parlino la sua lingua”. Cosa deciderà la Corte? Impossibile fare previsioni, ma in Serbia i tabloid filogovernativi sono già sulle barricate, a sostenerne la causa. “I medici dell’Aja mi hanno detto che è a un passo dalla morte, ma non vogliono metterlo per iscritto”, ha accusato il figlio di Mladic, Darko, dalle colonne del giornale Informer. “Inumano lasciare Mladic in carcere”, ha fatto eco il Novosti, con il quotidiano Politika che ha pure dato ampio spazio alla richiesta e alle opinioni di Darko Mladic. “Mai ridare la libertà al macellaio”, soprattutto mentre si avvicina “l’anniversario del genocidio”, il clima sui social. Commenti punteggiati da qualche, sempre più isolato, “Ratko Mladic eroe”.