La giustizia è riconoscere a tutti la dignità di essere ascoltati di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 8 giugno 2025 Immaginiamo una piazza. Un luogo popolata. Un’agorà viva, dove i cittadini parlano, ascoltano, dissentono, propongono. Per Jürgen Habermas, la giustizia non nasce né nei tribunali chiusi né nelle stanze silenziose del potere, ma in luoghi simili a questa piazza: luoghi dove si parla in condizioni di uguaglianza, dove si cercano ragioni valide, dove la parola è principio d’ordine e non solo strumento di influenza. La giustizia, nella sua forma più profonda, è il frutto di un discorso. E le istituzioni, in questa prospettiva, non sono altro che i pilastri di un discorso che è diventato struttura. Ciò che rende giusta una norma, dunque, non è il suo contenuto, ma la modalità con cui è stata accettata. La validità è la legittimità ottenuta discorsivamente. Il nesso tra giustizia e istituzioni emerge chiaramente: le istituzioni non sono meri apparati di regolazione, ma le condizioni di possibilità della comunicazione pubblica. Devono garantire ciò che Habermas chiama “condizioni simmetriche di partecipazione” - l’eguaglianza nell’accesso, l’assenza di coercizione, la trasparenza delle argomentazioni. Nelle nostre società complesse, queste condizioni non si danno spontaneamente. Devono essere costruite, difese, istituzionalizzate. È qui che la giustizia si traduce in architettura civile. Parlamenti, tribunali, assemblee, media pubblici, perfino i processi di consultazione partecipata, diventano spazi di deliberazione discorsiva. Quando funzionano, non semplicemente amministrano: rendono il diritto un’espressione dell’autonomia collettiva. “Il diritto - scrive il filosofo - è legittimo solo se può essere accettato discorsivamente da coloro che ne sono destinatari in quanto co-legislatori”. La giustizia, ci dice Habermas, è il cuore pulsante del vivere sociale, è innanzitutto comunicazione. Comunicazione intesa non tanto come strumento ma come fondamento. Non come mezzo per influenzare l’opinione degli altri, ma come via per facilitare la comprensione reciproca. In questo senso, l’agire comunicativo di cui abbiamo parlato nel Mind the Economy della settimana scorsa, non va inteso come un lusso etico, ma come una condizione necessaria all’esistenza stessa della giustizia. Nel secondo volume della sua Teoria dell’Agire Comunicativo (Il Mulino, 1986), Habermas estende questa etica del discorso sul piano politico ed istituzionale. Egli distingue tra due modelli fondamentali del comportamento umano: l’agire “strategico”, volto al successo, alla manipolazione e al controllo dei risultati, e l’agire “comunicativo”, orientato invece alla comprensione intersoggettiva, all’instaurazione di un dialogo sincero con l’altro. Se il primo domina le strutture del sistema sociale, come il mercato, la burocrazia e l’amministrazione della legge, il secondo abita la Lebenswelt (il mondo della vita) fatto di cultura condivisa, norme informali, identità storiche. Tale distinzione è per Habermas non solo sociologica, ma principalmente etica. Nell’agire comunicativo, ciascun parlante solleva pretese di validità - verità, giustezza, sincerità - che possono essere criticate e difese. La comunicazione autentica, per questo, non è mai neutra: rappresenta già, in sé, un atto di riconoscimento reciproco. “Nel linguaggio dell’agire comunicativo - scrive Habermas - non si tratta di influenzare l’altro, ma di raggiungere con lui un’intesa”. Sulla base di questo presupposto, allora, la giustizia non può più essere considerata come una distribuzione algoritmica di beni o diritti, opportunità e risorse. Dev’essere, invece, pensata come l’esito di un processo discorsivo e dialogante di convergenza tra soggetti liberi e uguali. È su questo terreno che Habermas costruisce la sua Diskursethik, l’etica del discorso che sottolinea come la validità delle norme non possa essere dedotta a priori, né ricavata empiricamente. Essa, infatti, emerge come risultato dell’interazione tra cittadini liberi e partecipanti, nell’ambito di un confronto pubblico, nel dialogo condiviso. Quando ci chiediamo, dunque, se “questa norma è giusta” non possiamo trovare risposta né nel sentimento identitario, né nell’utilità individuale. Occorre, piuttosto, riferirsi alla possibilità che tale norma venga accettata da coloro che abitano la “piazza” che partecipano al dibattito pubblico e si rendono protagonisti di una deliberazione informata e libera da ogni forma di coercizione. La “situazione discorsiva ideale”, come la definisce il filosofo, cioè una finzione regolativa e non un fatto empirico, diviene in questo modo il criterio morale necessario per valutare azioni e istituzioni. Ogni azione comunicativa si inserisce in un contesto culturale preesistente (Hintergrund), fatto di linguaggi, valori, abitudini. Uno “sfondo” che non è generalmente oggetto di riflessione cosciente nella vita quotidiana, ma può diventarlo nei momenti di crisi o di conflitto normativo. In quei momenti, le norme passano dallo stato di certezza tacita a oggetto di discussione critica. È in questi momenti di transizione che si manifesta la connessione tra giustizia e comunicazione. È in questi momenti che scopriamo che una norma è giusta se, e solo se, può essere giustificata discorsivamente da chi ne è soggetto e co-estensore. Non basta che essa sia coerente o efficace: deve essere accettabile in condizioni di simmetria argomentativa. Solo così il diritto, il giudizio, la sanzione possono acquisite legittimità. Il sottotitolo del secondo volume della Teoria dell’Agire Comunicativo che in italiano è stato tradotto come Critica della ragione funzionalistica, nella versione inglese recita Il Mondo della Vita e il Sistema. Il “mondo della vita” è rappresentato dall’insieme di saperi impliciti, dalle relazioni, dalle culture condivise che rendono possibile l’agire quotidiano e la comunicazione intersoggettiva. Il “sistema”, invece, è fatto dagli apparati burocratici ed economici che operano secondo logiche funzionali: quella del denaro, innanzitutto, del potere e dell’efficienza. Il problema della modernità, secondo Habermas, è che i sistemi tendono a “colonizzare” il mondo della vita, svuotando i processi comunicativi di senso e legittimità. “Il disaccoppiamento tra sistema e mondo della vita - scrive il filosofo - minaccia di interrompere la razionalità comunicativa, sostituendola con imperativi strategici o funzionali”. Nel passaggio dal mondo della vita ai sistemi funzionali, Habermas scorge il rischio della “delinguistificazione” delle interazioni. Le azioni coordinate attraverso denaro e potere tendono, in questo modo, a diventare transazioni strumentali, in cui le pretese di validità si attenuano o scompaiono. Un processo inevitabile nella complessità moderna, ma che va per questo controbilanciato dalla creazione e dalla difesa di spazi discorsivi in cui si ricostruisca il legame tra norma e riconoscimento. Il diritto, in particolare, gioca su questo terreno un ruolo ambivalente. Da un lato, consente la convivenza tra sconosciuti in una società pluralistica; dall’altro, rischia di sostituire la legittimità con la mera legalità. Habermas sostiene che la giustizia nel diritto moderno “non si basa più sul prestigio dello status, ma sulla legittimità di un ordine legale rispettato come valido”. Ma tale rispetto non è scontato: deve essere costantemente rigenerato nel discorso pubblico. La giustizia, allora, non può che consistere nella ricostruzione dei legami tra individuo e istituzioni, tra democrazia e razionalità: una ricostruzione che passa per il rafforzamento dello spazio pubblico, della partecipazione e della fiducia. Tutti devono poter parlare. Tutti devono poter essere ascoltati. Tutti devono poter mettere in discussione le pretese normative del “sistema”. In questo senso, la giustizia non è una struttura data, ma un processo aperto, un cantiere discorsivo sempre in opera. Il legame tra l’agire comunicativo, la giustizia e la politica diviene, in questo snodo, evidente. Perché le scelte politiche sono legittime solo se scaturiscono da un processo discorsivo in cui tutti i soggetti potenzialmente coinvolti abbiano avuto la possibilità di esprimere la propria opinione, argomentare, dissentire. È la visione “deliberativa” della democrazia. La giustizia politica, quindi, non è una proprietà delle norme, ma, piuttosto, delle procedure con cui tali norme vengono validate. Se l’agire comunicativo è la via privilegiata per la costruzione della legittimità normativa, allora le istituzioni - politiche, giuridiche, amministrative - non vanno pensate semplicemente come strutture esecutive o strumenti di potere ma, piuttosto, come l’incarnazione istituzionale del dialogo. In questo senso, la ricerca della giustizia e l’agire comunicativo si intrecciano proprio nel definire il modo in cui le istituzioni facilitano o impediscono la partecipazione dei cittadini al discorso pubblico. È un processo che viene costantemente messo in pericolo dall’incombenza del “sistema”. Quando quest’ultimo, infatti, colonizza il “mondo della vita”, le logiche del denaro o del potere invadono gli spazi comunicativi, la possibilità stessa del discorso pubblico si restringe. Le istituzioni, se vogliono essere giuste, devono resistere allora a questa colonizzazione, riaprendo spazi alla parola, alla contestazione, alla co-deliberazione. Habermas, che naturalmente è più che consapevole della complessità delle società moderne, non propone un ritorno a forme assembleari o comunitaristiche. Egli riconosce, invece, la necessità di apparati formali, burocrazie e sistemi funzionali, ma pone per essi una condizione decisiva: che tali sistemi siano connessi, attraverso canali permeabili e trasparenti, al mondo della vita da cui traggono legittimità. L’etica dell’agire comunicativo ci chiama alla responsabilità e alla partecipazione. Ci chiede di creare spazi in cui la parola conti davvero, il disaccordo sia accolto e il consenso sia costruito e non imposto. Il progetto politico che emerge da questa prospettiva è chiaro: istituzionalizzare l’agire comunicativo significa trasformare la democrazia da mero meccanismo di voto a processo deliberativo continuo. Significa rafforzare quei luoghi - parlamenti, media pubblici, consultazioni civiche, dibattiti - in cui gli argomenti possono confrontarsi liberamente, senza dominio, sopraffazione o esclusione. È per questo che Habermas difende con forza l’idea di una “democrazia deliberativa”, in cui le decisioni collettive siano fondate su una ragione pubblica condivisa, e non solo su interessi aggregati o compromessi opachi. In questo modello, le istituzioni giuste non sono quelle che impongono norme, ma quelle che rendono possibile la loro co-costruzione discorsiva. Il rapporto tra agire comunicativo e giustizia passa attraverso il disegno e il funzionamento di questo genere di istituzioni. Una società è giusta non solo quando distribuisce equamente le risorse e le opportunità, ma quando garantisce a ciascuno il diritto di parola, la possibilità di incidere, la dignità di essere ascoltato. Condizione minima della convivenza democratica. Solo in una società che si prende cura della parola - che ne rispetta la fragilità, ne riconosce il potere, ne protegge l’apertura - potrà fiorire, allora, una giustizia degna di questo nome. Perché ogni volta che, in un’assemblea, in un’aula di tribunale, in un forum pubblico, ci sforziamo di capirci, di ascoltare, di rispondere con argomenti e non con slogan, staremo facendo giustizia. De Lucia: “Proliferazione di reati, così si ingolfa la macchina della giustizia” Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2025 L’allarme del procuratore di Palermo: “Separare le carriere non sposta di un giorno la durata dei processi. Cosa Nostra? Si sta concentrando sul boom turistico in Sicilia”. Una proliferazione di reati, che bloccherà la macchina della giustizia. È l’allerta lanciata con un’intervista a La Stampa dal procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia. “Il processo contro i mafiosi è un processo come gli altri e, bene o male, ancora si riesce a fare. Quello che non si riesce a fare è il processo normale, che il cittadino ha bisogno si svolga in tempi ragionevoli. Ora abbiamo un proliferare di reati, ma sempre con le stesse regole. Non possiamo aumentare i processi perché aumentano i reati: così si ingolfa tutta la macchina”. De Lucia è molto critico sulla riforma della separazione delle carriere in magistratura: “Non è una riforma della giustizia, ma della magistratura - sostiene - Separare le carriere non sposta di un giorno la durata dei processi. Inoltre, la separazione tra pubblico ministero e giudice già c’è”. Il riferimento è al fatto che attualmente è possibile passare dal ruolo di giudicante a requirente e viceversa solo una volta durante la carriera. “Con le modifiche proposte, invece, si avrà un pubblico ministero senza responsabilità. Questa riforma porta o a un pubblico ministero incontrollato o, in futuro, controllato dall’esecutivo”, aggiunge De Lucia. E ancora secondo il magistrato la riforma creerà “un pubblico ministero isolato e a rischio di diventare molto autoreferenziale”. Il capo dell’ufficio inquirente palermitano dice la sua anche sulla lotta a Cosa Nostra. “Per combattere la mafia serve una strategia collettiva, investimenti e sviluppo economico e culturale”. A proposito dell’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, il 16 gennaio del 2023, De Lucia dice che ha segnato “la fine dell’egemonia corleonese su Cosa Nostra. È stata la cattura dell’ultimo stragista. Il raggiungimento di un risultato che per lo Stato era obbligato. Se non l’avessimo arrestato, o l’avessimo trovato morto come suo padre, sarebbe passato il messaggio che Cosa Nostra è in grado di nascondere i suoi capi e farsi beffe dello Stato”. Adesso invece come stanno gli affari della piovra? Cosa Nostra, risponde il capo dei pm palermitani, si sta concentrando “sul boom turistico in Sicilia. Se lo sviluppo è caotico e non governato, l’organizzazione cerca di inserirsi lì”. Sul fronte normativo, il magistrato spiega che “le organizzazioni criminali si infiltrano dove c’è opacità, contraddizione”. Un esempio? “I subappalti a cascata. La prevenzione si è attenuata e le piccole imprese mafiose riescono a infiltrarsi proprio in quel settore”. Quale è la soluzione? “Bisognerebbe individuare dei tetti più severi oltre ai quali il subappalto non può essere a cascata”. Il caso Garlasco e la sfida della giustizia davanti ai progressi scientifici di Manuela D’Alessandro agi.it, 8 giugno 2025 Intervista al giudice Giuseppe Gennari che afferma che la scienza non sempre aiuta nell’accertamento della verità. “I magistrati italiani non sono preparati a maneggiare i progressi della scienza, e il rischio è che finiscano ostaggio del sapere scientifico, determinando gravi ripercussioni sui diritti degli imputati e la credibilità del processo”. Giuseppe Gennari, giudice del Tribunale di Milano e autore di numerosi articoli e monografie sulla genetica forense pubblicati su riviste giuridiche internazionali, trae spunto dalla riapertura dell’indagine sul delitto di Garlasco per riflettere sull’arretratezza italiana in questo campo e sulle devastanti conseguenze. Intanto, la risposta che sembra ovvia alla domanda se la scienza abbia favorito l’accertamento della verità giudiziaria non è così scontata dal suo punto di vista. “L’utilizzo esasperato dei dati scientifici può sortire esiti inconcludenti - spiega in un’intervista. In parte è vero che ha portato a dei miglioramenti: pensiamo al caso della perizia sbagliata nell’inchiesta su Amanda Knox, all’omicidio di Lidia Macchi o a quello di Simonetta Cesaroni. Tutte situazioni gestite in modo pessimo e poi riviste. Ma in generale possiamo dire che la scienza, anche solo tornando indietro di 5 anni, era paradossalmente più ‘sicura’ di oggi. È vero che abbiamo dati molto più raffinati e solidi di quelli che avevamo prima. Prima per trovare del sangue su un coltello, era necessario che ce ne fosse una grande quantità, oggi ne puoi trovare anche in quantità infinitesimale. Poi però bisogna rispondere alla domanda: qual è il significato di quel dna? Pensiamo a quello di Sempio che sarebbe stato trovato sulle unghie di Chiara Poggi, è difficile attribuirgli un significato sensato. Abbiamo dati sempre più ‘esasperati’ ma non sappiamo come usarli”. Una possibilità per dare significati più precisi a queste tracce invisibili ci sarebbe, ma in Italia è stata percorsa in casi che si contano sulle dita di una mano. “Ci sarebbe la rete baysiana, un modello probabilistico. In sostanza si costruiscono dei nodi concettuali come ad esempio: Sempio frequentava la casa della vittima? Trasferiva facilmente dna? Domanda quest’ultima da porsi perché c’è chi trasferisce più facilmente dna, chi meno. Ci sono una marea di dati che vengono ignorati. A ognuna di queste domande si risponde ‘vero’ o ‘falso’ e poi un software ti dà risposte in termini di verosimiglianza. Ma questa rete è usata pochissimo. In tre casi: dal maggiore Christian Faccinetto del Ris, da Luciano Garofalo come consulente di parte e dal biologo Luca Salvaderi in un procedimento ancora aperto. Stop”. Gennari solleva poi un tema poco noto ma che, di fatto, pone al di fuori della legge la magistratura italiana, anche nel caso Garlasco. “Da 20 anni esiste la legge istitutiva delle banche dati. Qualunque laboratorio che effettua della analisi sul dna deve essere accreditato e, per esserlo, devi vantare certi parametri, come una certa dotazione strumentale e metodologie che riducano il margine di errore. Il laboratorio di De Stefano, non era accreditato eppure nel 2014 c’erano già 3 laboratori che lo erano. Questo ha minato la robustezza della sua perizia”. Lo studio del genetista Francesco De Stefano nel processo d’appello-bis stabilì che il materiale genetico sulle unghie di Chiara Poggi non era utilizzabile perché era deteriorato. Altro errore comune che segnala il giudice milanese è la maggiore fiducia che viene data alle strutture universitario rispetto ai privati. Il prezzo della verità: Brusca libero e le ferite che non smettono di bruciare di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 8 giugno 2025 Le ferite inferte dalle stragi mafiose, nella storia recente della Repubblica, sono fra le più difficili da rimarginare. A farle riaprire, a volte, concorrono la riapertura di un’inchiesta, un anniversario o la flebile speranza di scovare altri brandelli di verità giudiziaria nella ricerca dei mandanti. E nel frattempo può accadere, ed è il caso di cui ragioniamo, che nel calendario di un tribunale arrivi il giorno del “fine pena” per uno di quegli assassini che le suddette stragi - e molte altre efferatezze - contribuirono ad architettare e a eseguire. Ora tocca a Giovanni Brusca, classe 1957, già capo mandamento di San Giuseppe Jato e boss dei Corleonesi, soprannominato lo scannacristiani. Per conoscerne la ragione, può bastare l’agghiacciante descrizione che lui stesso rese al giornalista Saverio Lodato: “Ho ucciso Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’autobomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso”. Ecco, viene da chiedersi, per una tale montagna di atrocità, confessate e riscontrate nei processi, quale pena sarebbe davvero “giusta”? Quale castigo in terra sarebbe adeguato rispetto al carnefice che fece sciogliere un ragazzino nell’acido e che premette il bottone del telecomando del tritolo di Capaci? Com’è noto, la condanna che, in base alle leggi dello Stato, i giudici gli hanno comminato e che lui ha appena terminato di scontare ammonta a venticinque anni di detenzione più altri quattro di libertà vigilata. Troppo poco? Avrebbe meritato uno, due, dieci, cento ergastoli? Non compete a noi dirlo. Ma comprendiamo l’amarezza che in queste ore esprimono, con la composta dignità di chi ha sempre lottato per la legalità, uomini come Giuseppe Costanza, scampato per miracolo all’attentato, o donne come Tina Montinaro, vedova del caposcorta Antonio, entrambi convinti che questa “non è giustizia”, perché “chi è stato ucciso non tornerà più in vita”. Frasi pronunciate a testa alta, in cui non risuona brama di vendetta, quanto piuttosto umanissima sofferenza. Ciò detto, la commozione per le centinaia di vittime non deve impedirci di vedere la realtà per ciò che è. La prima disciplina sui collaboratori di giustizia mafiosi nasce con un decreto-legge, il numero 8 del 1991, caposaldo di una materia integrata più volte in seguito. A ispirare quel testo, è bene non dimenticarlo, fu proprio Falcone, mentre dirigeva gli affari penali del Ministero della giustizia. A lui era chiaro quanto fosse necessario, per scardinare l’omertà e i ranghi di cosa nostra e delle altre mafie, un sistema “premiale” che convincesse i cosiddetti “pentiti” a fornire uno spaccato dall’interno. E come occorresse una cornice giuridica chiara per un fenomeno che già dagli anni Ottanta, con le storiche deposizioni di Tommaso Buscetta, stava dando frutti nei processi contro le cosche. Chi allora era in prima linea, come l’ex presidente del Senato Pietro Grasso, amico e collega di Falcone, giudice a latere nel primo maxi-processo e poi procuratore nazionale antimafia, oggi non nega di provare, come tutti, “rabbia e indignazione”. Ma poi invita a non ragionare “di pancia”, perché - e questa valutazione va tenuta a mente - con Brusca lo Stato ha vinto tre volte: quando lo ha catturato, quando lo ha convinto a collaborare e ora che è un esempio per tutti gli altri mafiosi, mostrando come “l’unica strada per non morire in carcere” (come è accaduto a Totò Riina, Bernardo Provenzano e da ultimo a Matteo Messina Denaro) è quella di confessare e aiutare la macchina della giustizia. Un baratto - notizie, verificabili, su crimini e affiliati in cambio di protezione e sconti di pena - di cui Brusca e altri hanno fruito, non in virtù di un qualche “perdonismo giudiziario”, ma sulla base di una norma dello Stato, forse cinica (sempre che una norma possa esserlo) ma allora come adesso pragmatica e necessaria. “Questa è la legge, ispirata da Giovanni, di cui Brusca ha beneficiato” ribadiscono - senza nascondere il dolore che provano - due cittadini esemplari come Maria Falcone, sorella del giudice palermitano, e Alfredo Morvillo, fratello della sua compagna Francesca. Certo, ogni legge è perfettibile e si può trarre insegnamento da certe situazioni per migliorarla, come ipotizza la presidente della Commissione parlamentare antimafia Chiara Colosimo. Ma la sua ratio rimane. In virtù di quella legge, dunque, l’ex padrino Brusca resta sotto protezione, ma è un uomo “libero”, come si dice, sempre che lo possa davvero essere chi porta sulla coscienza il peso terribile di tante vite spezzate. E se la nostra Costituzione ha un senso, forse bisognerà augurarsi che la pena scontata, lunga o breve che sia stata, abbia generato un barlume di vero cambiamento, perfino in un uomo col suo feroce e non cancellabile passato La vendetta dello Stato contro Alfredo Cospito, l’anarchico seppellito al 41-bis di Monica Cillerai* L’Indipendente, 8 giugno 2025 Ventuno ore al giorno rinchiuso in una cella di tre metri per due, scavata quasi sotto terra. La luce elettrica va sempre tenuta accesa, nelle celle della sezione 41-bis del carcere di Bancali, frazione di Sassari. Perché quella naturale quasi non c’è. Alfredo Cospito, l’anarchico condannato a 23 anni di detenzione per una “strage” in cui non ci sono stati morti né feriti, vive ancora come sepolto vivo. “Nell’ultimo mese ad Alfredo hanno negato anche l’acquisto di libri” dice il suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, a L’Indipendente. “Un libro sui vangeli apocrifi, uno sulla fisica quantistica e due libri di fantascienza. Più un cd musicale”. Ha tutta l’aria di essere una vendetta di Stato quella contro Alfredo Cospito. E sembra manifestarsi in maniera ancora più decisa ora, dopo che alcuni esponenti della classe politica sono stati messi in discussione per il loro operato durante il lunghissimo sciopero della fame dell’anarchico contro il 41-bis e l’ergastolo ostativo. Effetti personali ridotti al minimo, un’ora di socialità con altri tre detenuti e due ore dove può uscire all’aperto, sempre solo e circondato da muri, grate, agenti. Una visita di un’ora al mese con la sorella, separati da un vetro divisorio in un colloquio che avviene tramite telefono sotto l’attenzione dei secondini. Quasi nessuna possibilità di comunicare con il mondo esterno, dato che tutta la sua posta viene trattenuta e censurata. Anche l’ingresso in biblioteca gli è stato negato, nonostante sia autorizzato ad accedervi. E un pacco inviatogli dalla sorella è stato rispedito al mittente perché il carcere non ha provveduto a ritirarlo. Per mesi, non ha potuto nemmeno tenere la foto dei genitori, entrambi deceduti, appesa in cella. Il 20 febbraio 2025, Andrea Delmastro, sottosegretario alla giustizia, è stato condannato a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio, per aver riferito al collega di partito Donzelli le chiacchiere scambiate da Cospito con le uniche persone con cui gli era permesso parlare (secondo la decisione delle autorità carcerarie), ovvero due condannati per mafia. Chiacchiere che poi Donzelli ha usato per attaccare esponenti di altri partiti politici in Parlamento. E mentre il ministro della Giustizia Nordio - uno dei principali fautori della linea dura contro Cospito - ribadisce la sua “più totale e incondizionata fiducia” al sottosegretario condannato e Giorgia Meloni grida allo scandalo, rifiutandosi di chiedere le dimissioni di Delmastro, Alfredo Cospito vede peggiorare ancora di più le proprie condizioni di reclusione. È difficile pensare che si tratti di un caso. “Alfredo dice che c’è stato un irrigidimento, una sclerotizzazione, cioè una maggiore difficoltà ad accedere a ciò che in qualche modo prima gli veniva consentito”, riporta ancora l’avvocato Rossi Albertini, precisando che “tutte le sue ultime richieste sono state rigettate”. Vendetta? O normale non-vita da 41-bis? A fine dicembre il capo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria), Giovanni Russo, si è dimesso dal suo incarico. Voci di corridoio parlano di forti frizioni con Delmastro, che l’avrebbe “dimissionato”. Frizioni dovute alla testimonianza di Russo sul sottosegretario proprio nel processo legato alla questione Cospito: l’ex capo del DAP aveva infatti sottolineato come quei documenti riservati non sarebbero mai dovuti uscire dall’amministrazione. Altra strana coincidenza, che forse ha favorito un ulteriore indurimento della linea contro Alfredo, è il ritorno al comando della sezione 41-bis di Bancali del graduato del gruppo operativo mobile che era stato trasferito proprio per il suo coinvolgimento nella vicenda delle intercettazioni. Il prezzo della lotta - Alfredo Cospito sta scontando una condanna a 23 anni dopo essere stato giudicato colpevole di aver piazzato due bombe a basso potenziale in un cassonetto nei pressi della scuola dei carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo. Le bombe erano state fatte detonare di proposito in un orario in cui non passasse nessuno e infatti non vi furono feriti nell’esplosione. Tuttavia, i giudici hanno condannato l’anarchico per strage ai danni dello Stato, il reato più grave del nostro ordinamento, che - tanto per dare un metro di paragone - non venne contestato nemmeno agli autori delle stragi di Capaci e via D’Amelio, dove vennero uccisi i giudici Falcone e Borsellino. Date le condizioni di detenzione, è legittimo chiedersi se stia pagando la sua condanna o anche l’aver messo in crisi una parte del regime penitenziario italiano, accendendo i riflettori sulle inumane condizioni di detenzione del 41-bis. Un sistema che attualmente vede detenute 720 persone e che è finito ripetutamente nel mirino della CEDU, la Corte Europea dei Diritti Umani. Una delle molteplici manifestazioni a favore di Alfredo Cospito, il cui caso ha riacceso i riflettori sulle condizioni di detenzione inumane previste dal regime del 41-bis. I sei mesi di sciopero della fame dell’anarchico avevano suscitato un acceso dibattito riguardo queste sezioni “speciali” e in molti avevano iniziato a mettere in discussione la legittimità di questo modello carcerario. “Il 41-bis serve per evitare che una persona possa continuare ad avere collegamenti con il proprio circuito criminale di appartenenza”, spiega l’avvocato Rossi Albertini, “sempre che esista un’associazione tra gli anarchici”. “Ma comunque quella è la finalità: l’interruzione di quel rapporto. Tutto il resto è mera afflizione. Poi se la vuole chiamare vendetta, se lo vuole chiamare un insegnamento, un messaggio, un monito che si invia a tutti gli altri che possano pensare di seguire le orme di Cospito, io non lo so, però certamente è gratuito, certamente non trova più alcuna copertura giuridica”. Il 41-bis, di fatto, ha un altro ruolo, che non è quello di impedire le connessioni tra prigioniero e gruppo “criminale” esterno. Ed è quel ruolo che lo Stato non vuole perdere, nonostante le diverse condanne all’Italia della CEDU per aver più volte violato l’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, per il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti disumani o degradanti”. “Non sembra che effettivamente poter svolgere l’ora d’aria all’interno di un cubicolo di cemento armato con le grate sopra la testa, con la mancanza di prospettiva, senza un fiore, senza un filo d’erba, un albero, cozza e contrasta con l’esclusiva necessità di impedire la comunicazione all’esterno. Se ci fosse un parco dove poter trascorrere l’ora d’aria, ugualmente sarebbe impedita la comunicazione all’esterno, quindi forse tutte queste forme, così come pensate e attuate, nascondono altre finalità. Gli avvocati da sempre sono abbastanza schietti nell’individuare una finalità impropria nel 41-bis che è quella di spingere, di spronare alla collaborazione”, commenta il legale. Dal 41-bis, infatti, si esce quasi solo collaborando. “Le condizioni del 41-bis sono insopportabili e non trovano alcuna giustificazione con la ratio”. Alfredo, così come tutti i detenuti costretti in quelle condizioni, dopo tre anni di 41-bis inizia a soffrire le conseguenze a livello fisico e mentale. “Questa ripetitività, questi spazi angusti, questa assenza di prospettiva anche visiva, incide sulla capacità cognitiva, ovvero su forme di memoria breve che tendono a dissiparsi e a svanire” continua l’avvocato. Conseguenze delle quali non soffre solamente Cospito, ma che si riscontrano in tutti i detenuti in quel regime. Un modello sempre più esportato nell’UE Il ministro della giustizia Carlo Nordio - Il “carcere duro”, dopo quei pochi mesi di attenzione pubblica dati dallo sciopero della fame di Cospito, è tornato nell’ombra. E a oggi sembra che altri Paesi vogliano portarlo all’interno del loro sistema carcerario. Il ministro degli Interni francese Darmanin si è recentemente recato in visita in Italia per impararne da Nordio il funzionamento e anche il Cile di Boric si è detto interessato a introdurlo nel proprio ordinamento. “È la tendenza dell’Occidente, dei nostri sistemi giuridici, cosiddetti democratici”, commenta Rossi Albertini. “Una tendenza di trasformazione sempre più autoritaria delle democrazie occidentali, secondo me, è evidente ed è chiaro che lì dove sono stati utilizzati degli strumenti ritenuti efficaci nella loro asprezza, vengano ripresi”. Il decreto applicativo di 4 anni alla detenzione di Cospito in 41-bis scadrà a maggio del 2026. Se vorranno prorogarlo, sarà necessario emetterne uno nuovo e darne motivazione. Anche se la questione, per Cospito, è molto più politica che giuridica: due anni fa, la stessa Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo aveva dichiarato che il 41-bis per l’anarchico non fosse più necessario. Ma il ministro, pur di tenerlo in regime duro, aveva utilizzato le dure argomentazioni della Procura generale di Torino, manifestando un cortocircuito anche tra i soggetti che avrebbero titolo a esprimere effettivamente una qualificata valutazione in ordine alla pericolosità di un soggetto. “Tra un anno, il ministro si dovrà nuovamente esprimere - dichiara Rossi Albertini - e contro le eventuali decisioni di proroga si potrà riattivare quel circuito che interessò anche l’opinione pubblica per il lungo sciopero della fame di Cospito”. *Laureata in Scienze Internazionali a Torino, con un master in Risk Analysis and Management all’Università di Scienze Politiche di Bordeaux. Per L’Indipendente è corrispondente dal Medio Oriente oltre a scrivere di immigrazione e frontiere, estrattivismo e tematiche ambientali. Sicilia. Politiche sociali, accoglienza extra-carceraria di genitori detenuti con figli al seguito di Roberta Barba tfnweb.it, 8 giugno 2025 Tutelare la genitorialità delle persone recluse e l’infanzia, mettendo a disposizione dell’Autorità giudiziaria residenze idonee a evitare la presenza di bambini in carcere. L’assessorato regionale della Famiglia e delle politiche sociali pubblicherà, la prossima settimana, un Avviso rivolto agli enti del Terzo settore per selezionare un progetto sperimentale per l’accoglienza extra-carceraria di genitori detenuti con figli al seguito. Le risorse complessive assegnate dal ministero della Giustizia alla Sicilia ammontano a oltre 294 mila euro e il governo Schifani li destinerà a interventi volti alla copertura delle rette per il mantenimento sia dei genitori che dei figli presenti nella struttura e per l’attivazione di percorsi di inclusione sociale. “La detenzione carceraria - dice l’assessore regionale alle Politiche sociali, Nuccia Albano - è sempre una grave frattura nella vita delle persone. E quando ci sono figli minori, sono loro a pagare il prezzo maggiore. È un tema che stiamo affrontando e gli uffici stanno definendo l’Avviso che ci consentirà di finanziare un progetto sperimentale. Attualmente, in Sicilia, esiste solo una struttura che può accogliere mamme detenute e i loro bambini, come nel caso della donna nigeriana con un bambino di un mese, ristretta nel carcere Pagliarelli di Palermo, trasferita poi nell’istituto penitenziario di Agrigento, dove è presente uno spazio dedicato a nido, e infine ai domiciliari nell’unico centro adeguato a Palermo. L’obiettivo del progetto è quello di offrire soluzioni alternative e più umane, riducendo l’impatto della detenzione sui bambini e sulle famiglie garantendo condizioni di sicurezza, dignità e benessere, anche attraverso interventi educativi, relazionali e di sostegno alla genitorialità, assicurando il mantenimento del nucleo familiare e il supporto materiale necessario”. Bologna. L’allarme del Garante dei detenuti: “Dozza al limite, Pratello peggiorato” bolognatoday.it, 8 giugno 2025 Antonio Ianniello denuncia due situazioni critiche: sovraffollamento e degrado nel carcere minorile del Pratello, condizioni inumane e rischio salute alla Dozza. Una fotografia preoccupante delle condizioni carcerarie a Bologna arriva dalla relazione 2024 presentata in commissione a Palazzo D’Accursio dal garante dei detenuti del Comune, Antonio Ianniello. Due i nodi principali segnalati: il carcere minorile del Pratello, dove l’apertura del secondo piano avrebbe peggiorato drasticamente la qualità della detenzione, e il carcere della Dozza, dove il numero dei detenuti ha superato livelli critici, toccando soglie che per il garante rischiano di configurare trattamenti disumani. A oltre tre anni dall’apertura del secondo piano detentivo al carcere minorile del Pratello, “possiamo dire con chiarezza che ha esacerbato le criticità esistenti”, ha dichiarato Ianniello. Il Garante parla di condizioni peggiorate sia per i ragazzi detenuti che per gli operatori penitenziari. “Si è affacciata con tratti inediti e prepotenti la criticità del sovraffollamento”, con punte di 59 ragazzi su una capienza regolamentare di 40, oggi scesi a 43. “Possiamo parlare di un’inaccettabile assimilazione della detenzione minorile a quella per adulti”, denuncia Ianniello. “Aumenta il tempo vuoto e privo di qualità che i ragazzi trascorrono nelle celle”. Anche nella sezione per giovani adulti aperta alla Dozza - dove sono stati trasferiti 28 ragazzi in attesa dell’apertura di nuovi istituti a Rovigo, L’Aquila e Lecce - le condizioni sono definite “inadeguate e restrittive”, con spazi angusti, celle poco luminose e attività ridotte, nonostante recenti miglioramenti come laboratori di teatro, edilizia e barberia. Dozza: 760 detenuti su 457 posti. “Violata la Convenzione europea” Ancora più grave, secondo il Garante, è la situazione della casa circondariale della Dozza, dove si registrano 760 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 457. Tra questi, 83 donne, 11 delle quali avviate al lavoro esterno. A causa della saturazione degli spazi, in primavera sono stati sospesi per giorni nuovi ingressi, dirottando i detenuti su altri istituti del distretto. “Se i numeri continueranno a salire, ci troveremmo di fronte a una flagrante violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”, ha affermato Ianniello, ricordando che tale norma vieta pene e trattamenti disumani o degradanti. Il garante ha anche denunciato la presenza di tossicodipendenze e pratiche di autolesionismo, affermando che circa un terzo dei detenuti ha dichiarato uso di sostanze all’ingresso, e che all’interno dell’istituto sono stati documentati abusi di psicofarmaci, inalazioni di gas da bombolette da cucina e produzione artigianale di alcolici fermentati. “Servono percorsi specifici e strutturati per affrontare queste dipendenze, che rappresentano un rischio per la salute e una fonte di tensione continua nelle sezioni”, ha detto Ianniello, sottolineando l’urgenza di nuove strategie per prevenire il rischio suicidario e costruire “relazioni significative” tra personale e detenuti. Milano. Il direttore di Bollate: “Lo scopo del carcere è restituire alla società dei buoni cittadini” di Gianluigi Nuzzi La Stampa, 8 giugno 2025 Giorgio Leggieri: “Servono risposte costruttive. Imprevedibile il caso De Maria”. La tragedia di Emanuele De Maria, omicida e suicida è stata strumentalizzata e deformata da chi ha utilizzato la lente sfuocata dell’indignazione facile per modesti bottini politici e di revisionismo del lungo e tortuoso percorso di reintegrazione finora compiuto. De Maria era detenuto nel carcere di Bollate, istituto modello con il più basso tasso di recidiva di reati in Italia. La storia di De Maria non era prevedibile, il fascicolo era ricco di relazioni positive dei suoi miglioramenti. Direttore è Giorgio Leggieri, in prima linea per mettere la dignità di chi vive dietro le sbarre al centro di programmi e iniziative. Un ministro della Giustizia francese sosteneva: “Non esistono criminali, ma solo persone che hanno commesso un crimine”... “Condivido pienamente questo approccio che focalizza l’attenzione sulla persona e sul comportamento deviante messo in atto più che sull’etichetta di deviante attribuitagli dalla reazione che un certo contesto sociale, in un determinato momento storico, può avere nei confronti del fatto reato commesso. Solo se al centro della nostra osservazione resta la persona nella sua individualità e nel sistema di relazioni con l’ambiente in cui vive, si può evitare, a mio parere, di scivolare nel rischio di creare lo stigma del criminale in quanto tale irrecuperabile e da emarginare che a sua volta finirebbe per rafforzare, nell’individuo stesso, quella condotta deviante che si vorrebbe eliminare. Se non dovessimo aprire una prospettiva di cambiamento nei confronti di tutti coloro che hanno commesso dei reati, seppur nella distinzione tra quelli che sono definiti reati “comuni” anche di particolare allarme sociale da quelli appartenenti alla criminalità organizzata, finiremmo paradossalmente con l’innescare un processo di de-responsabilizzazione, ottenendo pertanto una sorta di effetto boomerang: ovvero quello di portare il soggetto a continuare ad riorganizzarsi in modo deviante, in sostanza a fare la scelta più facile, quella anti- sociale che vorremmo neutralizzare”. Molti, invece, sono a favore dell’inasprimento delle pene, altri per “buttare la chiave”… “Il nostro sistema sociale oscilla perennemente tra due culture contrapposte: quella del “garantismo” a favore del primato delle garanzie individuali e dei diritti individuali e quella del “giustizialismo” a favore del primato della potestà punitiva dello Stato a discapito dei diritti di libertà della persona. Un conflitto insanabile tra due istanze che finisce con il mortificare sia la funzione principale e fondativa del processo penale che è quella di accertare la responsabilità di un fatto criminale sia la funzione rieducativa della pena detentiva gestita dall’Amministrazione Penitenziaria, a favore piuttosto di aspettative satisfattorie che pongono reo e Stato sullo stesso piano: quando così non è. Ecco, credo che dobbiamo sempre tenere in mente quanto la tutela della vittima debba essere perseguita attraverso in primis un giusto processo e successivamente attraverso una pena “utile” che per essere tale deve innescare un processo di cambiamento della persona”. Il carcere che dirige si indica spesso come “modello”, su quali cardini si basa e si sviluppa? “Fin dal momento della sua apertura (risalente a poco più di venticinque anni fa), troviamo la “reclusione ordinaria a trattamento intensificato”, ovvero apertura delle camere e tecnica di sicurezza interna secondo la cosiddetta vigilanza dinamica con il sistema delle pattuglie sulla falsariga dei poliziotti di quartiere. Oggi i requisiti essenziali di questo modello si possono sintetizzare in alcuni punti. Tempo di apertura delle camere per almeno dieci ore al giorno. Valorizzazione dei contenuti del tempo di apertura con lo sviluppo di attività articolate nell’arco della giornata. Accessibilità in autonomia a spazi comuni con specifica destinazione d’uso. Target di popolazione detenuta assegnata e quindi solo “condannati con sentenza passata in giudicato”, provenienti da altri istituti e non direttamente dalla libertà - e comunque dopo essere stati valutatati come idonei nell’istituto di provenienza per seguire percorsi più strutturati gestiti con una soglia maggiore di autonomia e responsabilizzazione”. E come si sviluppa? “Oggi la popolazione detenuta è composta da 1.384 persone per un modello integrato di lavoro sia all’interno che all’esterno dell’istituto. Il tasso d’occupazione è di oltre il 50% con un’aliquota di circa 392 persone alle dipendenze dirette di datori di lavoro privati. Di questi, circa 170 risultano fruire del lavoro esterno e circa 40 risultano appunto ammessi alla “semilibertà”. A questi si aggiungono 220 detenuti alle dipendenze sempre di privati, all’interno dell’istituto, nelle aree cosiddette “industriali” in cui le imprese hanno la propria sede operativa. Quindi, si punta alla maggiore professionalizzazione dell’offerta lavorativa con contratti a tempo indeterminato e l’obiettivo di aumentare l’ingresso del sistema imprese in carcere. Solo in questo modo si può pensare di prevenire la recidiva: un accompagnamento nei percorsi lavorativi che per esser efficaci devono costruirsi in maniera sempre più strutturata e qualificata durante la detenzione. Ed è un orgoglio che il tasso di occupazione aumenti gradualmente, segno che la sfida continua per costruire una pena “utile” per condannato e società civile. Solo così si può pensare di “restituire un buon cittadino” anziché un buon detenuto”. Quali sono i dati che più la preoccupano? “Desta preoccupazione sicuramente l’aumento di presenze di quella fascia di detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, rientranti nel circuito “giovani adulti” di cui molti provenienti dal Beccaria. Per loro si pone l’esigenza di un’offerta formativa e lavorativa mirata, una strategia trattamentale in grado di sollecitarne risposte costruttive, anche con l’ausilio dell’intervento tra “pari” con detenuti adulti che svolgono il ruolo di supporter”. C’è una storia a lieto fine e quale l’ha particolarmente colpita? “Una storia che direi di vera e propria rinascita è proprio quella di un giovane oggi ventottenne, entrato in carcere a 18 anni per scontare una pena di diciotto e giunto a Bollate nel 2021. Entra con un vissuto di rabbia e violenza proprio dell’ambiente di provenienza, per iniziare gradualmente ad abbracciare gli studi universitari, una volta giunto a Bollate, nell’ambito di un progetto con la Statale di Milano. L’incontro con i volontari di Seconda Chance, associazione fondata dalla giornalista Flavia Filippi che si occupa dell’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, ha fatto il resto. Oggi è consulente assunto a tempo indeterminato nell’azienda milanese Hunters Group, holding nel campo della ricerca e selezione del personale a livello dirigenziale e fruisce della semilibertà dopo un percorso graduale. Credo sia una testimonianza tangibile di come un percorso trattamentale strutturato possa costituire una speranza concreta di reinserimento sociale, restituendo alla comunità un “buon cittadino”. Bergamo. Carcere fra i dieci con maggiore affollamento: i detenuti sono il 187,42% dei posti Corriere della Sera, 8 giugno 2025 Il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà, con dati aggiornati a una settimana fa. Il carcere di Bergamo è fra i primi dieci in Italia per livello di sovraffollamento. È quanto emerge dall’ultimo report del Garante nazionale delle persone private della libertà, secondo il quale ci sono 62.722 detenuti presenti nelle carceri italiane, a fronte di 46.706 posti disponibili, con un indice di sovraffollamento del 134,29% a livello nazionale e di un “significativo aumento” del numero di presenze in carcere - con un incremento di 10.499 unità - registrato dal dicembre 2020. Nel suo documento - che riporta dati aggiornati al 30 maggio - il Garante evidenzia anche che la capienza regolamentare è pari a 51.285 unità e che il divario (-4.579) rispetto ai 46.706 posti effettivamente disponibili è dovuto “all’attuale inagibilità di diverse camere di pernottamento, e in alcuni casi, di intere sezioni detentive”, come avviene ad esempio a Milano San Vittore, dove ciò determina un indice di sovraffollamento del 208,9%. E ancora: sono 157 (pari all’83%) gli istituti penitenziari con un indice di affollamento superiore al consentito: in 63 di questi (pari al 33%) tale indice risulta pari e superiore al 150%. Tra i penitenziari con maggior tasso di sovraffollamento, il report del Garante - oltre a Milano San Vittore - segnala quelli di Lucca (236,84%), Foggia (218,06%), Brescia Canton Mombello (202,75%), Lodi (193,18%), Roma Regina Coeli (191,96%), Varese (190,57%), Como (189,82%), Bergamo (187,42%) e Chieti (187,34%). Firenze. Violenti e vittime a confronto. “Sì al Centro della giustizia riparativa” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 8 giugno 2025 Palazzo Vecchio ha dato la sua disponibilità al Ministero per il progetto di “Giustizia riparativa”. Prima l’hanno offesa, poi l’hanno aggredita fisicamente. Infine, qualche settimana dopo, le hanno chiesto scusa, riflettendo su ciò che avevano compiuto, immedesimandosi nella vittima e cercando di capire da dove provenisse quella violenza. È la storia, una delle tante, dove gli autori (o le autrici come in questo caso) di violenza incontrano le loro vittime. Un confronto diretto, faccia a faccia, moderato da esperti mediatori, dove due ragazze hanno agito bullismo nei confronti di una loro compagna di classe straniera. È stata proprio la provenienza della ragazza asiatica, oltre al colore della sua pelle e alla sua timidezza, a scatenare l’aggressività delle sue compagne. Inizialmente le ragazze italiane hanno invitato la loro amica ad uscire. La studentessa di origini orientali è stata contenta di unirsi a loro, seppur cominciasse a intravedere qualcosa di strano. Le giovani italiane hanno iniziato a prenderla in giro con modalità man mano più offensive e aggressive, sia in presenza che tramite social, finché un giorno la giovane asiatica è rimasta vittima di una vera e propria aggressione fisica che l’ha costretta ad andare in ospedale. Nei giorni successivi, la vittima di bullismo è andata a denunciare l’episodio alle forze dell’ordine. Poi, tramite i servizi sociali e il tribunale, c’è stato l’incontro tra le imputate e la vittima, dove le ragazze violente hanno preso coscienza di quanto commesso. È uno dei casi di giustizia riparativa a Firenze, seguiti dalla Società della salute nell’ambito del progetto regionale “Reti territoriali e Giustizia Riparativa” che prevede due azioni: la prima rivolta alle vittime di reato per un supporto, con una equipe composta da psicologo, avvocato, educatore e mediatore, la seconda, in collaborazione con l’Uiepe (ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) rivolta al reo e alla vittima insieme. Il percorso prevede la mediazione penale che aiuta il reo a riconoscere le responsabilità del reato con il dialogo, per poi arrivare a “riparare” il danno recato. La giustizia riparativa coinvolge spesso minorenni, per reati di aggressione, furto, risse, bullismo. Nel caso degli adulti, i reati sono legati a controversie condominiali, furti nelle abitazioni, aggressioni fisiche o verbali, dispute per incidenti stradali. Adesso il proè pronto a rafforzarsi ulteriormente. Il Comune, attraverso l’assessorato al welfare, ha dichiarato al ministero della Giustizia la sua disponibilità all’avvio di un centro regionale di giustizia riparativa in città, per permettere a un numero sempre maggiore di autori di reato e vittime di accedervi. “La giustizia riparativa è un paradigma innovativo in cui la vittima e l’autore del reato sono attivamente coinvolti nella risoluzione e nella trasformazione del conflitto, con l’aiuto di una figura terza come i mediatori - sottolinea l’assessore al welfare Nicola Paulesu - Sono percorsi spesso complessi, che non sostituiscono i processi penali ma sono complementari e che vedono al centro la vittima, ma anche il dialogo, la responsabilizzazione del reo, il coinvolgimento della comunità se necessario”. Melfi (Pz). Potenziato il diritto alle cure per i detenuti di Eliana Positano* aspbasilicata.it, 8 giugno 2025 Partito il progetto di telemedicina che vede coinvolti Asp, Rotary e il carcere federiciano che fa da apripista. Si è concluso l’ultimo atto per la definitiva messa a punto e partenza del progetto di Telemedicina che interessa i detenuti della Casa Circondariale di Melfi e che rappresenta il risultato di un patto a tre tra Rotary Club Melfi Distretto 2120 Melfi, Asp Basilicata e Ministero della Giustizia siglato lo scorso marzo. In mattinata, alla presenza del Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Locale di Potenza, Pierluigi Gigliucci, del Direttore Sanitario nonché Responsabile della Telemedicina, Luigi d’Angola, del Direttore della Casa Circondariale della cittadina federiciana, Maria Rosaria Petraccone, del Direttore dell’U.O.C. Cure Domiciliari e Palliative, Gianvito Corona e del presidente della sezione rotariana Riccardo Colucci, è stata presentata la strumentazione tecnica e, come incipit del progetto, è stata effettuata una simulazione di telemedicina su paziente interno all’istituto di pena con trasmissione dei dati alla centrale operativa di Venosa. La Asp gestirà le prestazioni di telemedicina, che sono inserite nella apposita piattaforma regionale e che rientrano nell’ambito delle azioni tese ad implementare le prestazioni di telemedicina secondo quanto previsto dal Decreto Ministeriale n.77/2022. Al riguardo la Direzioni Sanitaria, assieme agli uffici competenti e a seguito di intesa con gli specialisti che erogheranno le prestazioni di teleconsulto e telemonitoraggio, provvederà a predisporre ‘slot’ specifici di prenotazione delle prestazioni di telemedicina nel rispetto dei vincoli di privacy e sicurezza. Ciò significa che i detenuti con malattie croniche avranno un canale dedicato di accesso alle prestazioni che assicurerà maggiore speditezza e fruibilità nell’accesso alle cure. Inoltre, con l’attivazione del servizio, l’assistenza a quella che è una particolare categoria di pazienti sarà resa più sostenibile ovviando anche agli inconvenienti e agli impegni anche di carattere logistico che per l’amministrazione penitenziaria sono connessi all’attualizzazione delle procedure di trasferimento dei detenuti. Il progetto, denominato “La magia della connessione irresistibile” avrà durata previsionale biennale e consentirà un miglioramento della qualità assistenziale e della continuità delle cure. Va da sé che i consulti in telemedicina non saranno gli unici possibili, poiché, in caso di necessità, verranno comunque rese prestazioni sanitarie tradizionali con spostamento del paziente dal luogo di detenzione al più vicino ospedale. Nel progetto, il Rotary di Melfi si è fatto carico di acquistare il totem per la postazione di telemedicina con centrale trasmittente e braccio mobile attrezzato di monitor multiparametrico, telecamera, microfono, router, devices di rilevazione e trasmissione di parametri. Uno strumento che, se pur allocato presso l’Infermeria della Casa Circondariale, in caso di necessità e di impossibilità del paziente detenuto a muoversi per raggiungere la postazione, potrà essere traslato in cella garantendo anche in questo caso la tutela ed il diritto alla riservatezza dell’individuo. Alle tele visite ed ai teleconsulti assisterà sempre il medico di medicina penitenziaria. Per il Direttore Generale di Asp Basilicata Gigliucci, “il progetto fortemente voluto dal Rotary Melfi e sostenuto dalla nostra azienda, rappresenta un fattore di grande valenza umana e sanitaria poiché permette a chi è recluso di veder garantito il proprio diritto alla salute che non deve essere mai messo da parte e che va invece sempre più potenziato e integrato con una crescente risposta alla domanda di offerta sanitaria più moderna e tecnologica”. Soddisfazione per questo progetto è stata espressa dal Direttore Sanitario D’Angola per il quale, “tale progetto si colloca nell’ambito di un proficuo e collaudato rapporto di cooperazione tra l’Azienda Sanitaria potentina e altre associazioni. Il progetto, ancorché in via sperimentale, pone le premesse per un modello innovativo esportabile anche nelle altre strutture penitenziarie della provincia e della Regione. Da questo punto di vista la struttura penitenziaria di Melfi fa da apripista, tanto che sono state avviate interlocuzioni, oltre che con la Casa Circondariale di Potenza anche con la Direzione dell’Azienda Sanitaria di Matera. Tale progetto di telemedicina- conclude D’Angola- si colloca nell’ambito di una più compiuta strutturazione della sanità penitenziaria che mette al centro tutta la popolazione carceraria considerandone in primis la particolare “vulnerabilità” sanitaria e socio-sanitaria”. *Giornalista, Portavoce Asp Basilicata Volterra (Pi). I nodi della Rems: “Aspettiamo nuova struttura. Ma dal 2015 sembra indietreggiare” di Ilenia Pistolesi La Nazione, 8 giugno 2025 Il garante Ezio Menzione: “Liste d’attesa lunghe. Per gli ingressi possono passare da 8 mesi a un anno” “Attualmente, lo spazio disponibile per entrambe le infermerie è assolutamente insufficiente”. La Rems sotto la lente del garante dei detenuti della struttura per pazienti psichiatrici autori di reato e della Fortezza, l’avvocato Ezio Menzione, che disegna una cornice nella quale persistono una sequela di criticità dovute in particolar modo agli ambienti. Garante Menzione, la struttura è ancora provvisoria. “Dal 2015, non vi è l’ombra della prima pietra per la realizzazione della nuova Rems, che sembra aver indietreggiato piuttosto che avanzare. Quella di adesso doveva essere una struttura passeggera, che mostra per sua natura tutti i suoi limiti”. Quali? “Attualmente, lo spazio disponibile per entrambe le infermerie è assolutamente insufficiente. L’aspetto della struttura è vecchio, trascurato e talvolta abbandonato, in netto contrasto con le giuste aspettative dei pazienti, la dedizione del personale sanitario e i criteri di adeguatezza necessari per le attività psicoterapeutiche e riabilitative. Sottolineo inoltre che è presente un solo spazio comune e che lo spazio colloqui è poco più di un sottoscala”. E le sbarre? “Le sbarre alle finestre e i numerosi cancelli interni fanno sembrare la struttura più simile a un carcere, cosa che contrasta con i metodi terapeutici che invece puntano a favorire un certo senso di libertà per i pazienti, anche rispetto all’esterno”. Ci sono possibilità di migliorie a livello strutturale? “Sì, si potrebbero ricavare nuovi spazi con spese contenute”. E le liste di attesa? “Permangono per gli ingressi e dunque gli internati in attesa sono lasciati in carcere finché non si libera un posto. Possono passare da 8 mesi a un anno. Un’altra inutile e illegittima privazione della libertà si ha al momento in cui, pur essendo stati dichiarati dimettibili, in concreto non vengono spostati in strutture adeguate e aperte, anche luoghi di residenza, per mancanza delle stesse o perché si tarda a provvedere”. Oltre alle liste di attesa, esistono altri fattori che incidono sugli ingressi in Rems? “Sì, soprattutto da quando la giurisprudenza ha parificato il disturbo di personalità, uno o più, purché incidenti sul comportamento criminale posto in essere, con la vera e propria malattia mentale. Questo ha fatto crescere i numeri. Ha mutato anche la tipologia del paziente: fra quelli di oggi sono percentualmente aumentati quelli provenienti dalle file dei “criminali” e comunque l’aspetto della criminalità ha un’incidenza maggiore sull’aspetto della malattia mentale. Basti pensare a chi proviene da esperienze di tossicodipendenza, spesso legate al disturbo di personalità. E’ cambiata la tipologia del paziente e si pongono problemi diversi”. Esiste un problema di sicurezza nella Rems? “Non si ravvisa ad ora questa tipologia di problema. L’ultimo episodio risale a un anno fa”. Su quali architravi poggia la Rems? “Nella capacità di addetti sanitari e assistenti, tutto è possibile grazie al loro grande lavoro”. Avellino. Peppe Battaglia racconta l’esperienza di rieducazione di un gruppo di detenuti corriereirpinia.it, 8 giugno 2025 Il Garante Mele: necessario immaginare pene alternative al carcere. Sceglie di raccontare l’esperienza straordinaria di un gruppo di detenuti, coinvolti a Tufo in progetti sociali il libro di Peppe Battaglia, “La libertà è un organismo vivente”. Una esperienza capace di costituire una comunità di detenuti politici determinati nel loro progetto di ritorno alla vita sociale grazie all’accoglienza del territorio irpino. Comunità di Servizio Sociale dei detenuti era il nome dell’associazione che organizzò un laboratorio in Carcere, capace di tradursi in realtà concreta a Tufo con la realizzazione di articoli di pelletteria, il cui ricavato veniva devoluto a sostegno Questo pomeriggio, alle 19, la presentazione del volume, presso la sede dell’associazione Lsd (Libero Spazio d’arte). A confrontarsi con l’autore il direttore Gianni Festa, Luigi Fandelli, ex direttore Carcere Bellizzi e Carlo Mele, Garante dei detenuti della provincia di Avellino, Battaglia è stato tra i fondatori del primo gruppo di lotta armata in Italia denominato “III Gap” (noto con la denominazione giornalistica “XXII ottobre”), arrestato negli anni 70 e ospitato in ben ventidue carceri italiani. Il suo volume “La libertà è un organismo vivente” diventa l’occasione per rilanciare l’emergenza carceri tra sovraffollamento, alto tasso di suicidi, al centro di un acceso dibattito politico. E’ Mele a spiegare come raccontiamo in questo volume un’esperienza vissuta negli anni ‘80, “che si è consolidata e ha dato frutti importanti. Vogliamo ribadire che non può e non deve finire tutto con il carcere. La pena, secondo la Costituzione, deve rieducare, una rieducazione possibile attraverso la scuola, le attività professionali, i laboratori d’arte o di teatro. Diventa fondamentale che il tempo trascorso in carcere sia utilizzato per migliorare sè stessi. Troppo spesso, però, mancano le risorse. Ecco perchè diventa fondamentale immaginare pene alternative al carcere, per le quali la recidiva cala al 15%. Chi sconta la pena in maniera differente dal carcere ed è accompagnato in un percorso di rieducazione più difficilmente torna a delinquere” Siracusa. Progetto teatrale “Il Carcere va a Scuola” superioreaugusta.edu.it, 8 giugno 2025 Anche quest’anno, così come è tradizione per la nostra scuola dal 2010, il progetto “Il Carcere va a Scuola”, nato dalla collaborazione tra il Ruiz e la Casa di Reclusione di Brucoli, si è concluso con la messa in scena di una bella esperienza teatrale, che si è rivelata un importante strumento di crescita, inclusione e riflessione. La straordinaria compagnia teatrale del Ruiz e i detenuti della Casa di reclusione di Brucoli hanno, infatti, messo in scena con notevole successo la commedia di Peppino De Filippo “Non è vero ma ci credo” in due distinti spettacoli: mercoledì 4 giugno per un pubblico di soli detenuti, venerdì 6 giugno, invece, è stata la volta degli studenti della scuola. La commedia rappresentata è una strana storia di superstizione con tanti colpi di scena esilaranti che ha come protagonista l’imprenditore Gervasio Savastano, che vive nel perenne incubo di essere vittima della iettatura. A un certo punto le sue fisime oltrepassano la soglia del ridicolo: licenzia il suo dipendente Malvurio solo perché è convinto che porti sfortuna. Sembra il preambolo di una tragedia, ma invece è una commedia che fa morir dal ridere. E infatti sulla soglia del suo ufficio appare Sammaria, un giovane in cerca di lavoro. Sembra intelligente, gioviale e preparato, ma il commendator Savastano è attratto da un’altra qualità di quel giovane: la sua gobba… I ragazzi, in perfetta sintonia con i loro compagni di lavoro, guidati dalla bravissima regista la prof.ssa Giusi Lisi, hanno realizzato questa attività progettuale con grande interesse e impegno, dimostrando un grande senso di responsabilità e determinazione nel voler raggiungere l’obiettivo finale. Un esperimento didattico di educazione scolastica alla legalità e di rieducazione alla socialità che dopo quindici anni continua a divertire, a commuovere ed a emozionare il pubblico come il primo giorno, offrendo la possibilità a tutti i partecipanti di effettuare uno straordinario viaggio culturale, nella nostra migliore tradizione teatrale ma, soprattutto, un viaggio nella conoscenza dell’uomo. Un enorme ringraziamento va a chi ha reso possibile lo spettacolo: alla Dirigente Maria Concetta Castorina, che ha da sempre sostenuto l’iniziativa, alla regista Giusi Lisi, alla prof.ssa Cettina Baffo tutor del progetto, ai prof.ri Daniela Lo Faro, Marco Cannarella e Lino Traina; agli studenti: le attrici Alessia Scolla, Giorgia Di Vico, Nunzia Di Mare, Francesca Gianino, Ludovica Gibilterra, Lavinia Trigilio, Guendalina Zanti, i tecnici Gabriel Scrocca, Luigi Zullo e Alberto Catalano, al suggeritore Giuseppe Gianino; agli attori e tecnici della Casa di reclusione: Gennaro, Ciro, Salvatore, Francesco, Vincenzo, Antonio, Angelo Ivan, Simone, Andrea, Antonio, Luciano, Antonio; alla Direttrice della Casa di reclusione, dott.ssa Angela Lantieri, all ‘educatrice dott.ssa Martina Cinque e agli agenti della polizia penitenziaria. Sport negli istituti carcerari: la ricerca di speranza e dignità di Ivano Maiorella imgpress.it, 8 giugno 2025 Vivicittà Porte Aperte: il messaggio di speranza e dignità di questa storica corsa dell’Uisp fa parlare di sé in tutta Italia, dall’istituto penitenziario Marassi di Genova (servizio Tgr Rai Liguria) a quello femminile di Roma Rebibbia (su Corriere della Sera-Buone notizie), da quello di Ferrara (su Msn) a quelli che si svolgeranno nei prossimi giorni, ad Ancona Montacuto (9 giugno) e Ancona Barcaglione (17 giugno). A che cosa si deve questo interesse dei media? Al crescente significato sociale che assume questo intervento, attraverso una manifestazione nota come Vivicittà, da sempre portabandiera di diritti, dignità, inclusione. E ad un cambio di paradigma del processo educante, sostituendo l’aiuto al giudizio: il giudizio condanna, cerca la colpa, stabilisce la pena; l’aiuto invece serve a superare l’errore, riconoscendolo e correggendolo. Per questo il carcere assume la dimensione del luogo del recupero, un canale per tornare ad una vita normale e lo sport in questo senso è un elemento molto efficace: l’Uisp lo sostiene e lo pratica da circa quarant’anni, partendo dai territori e da singoli rapporti tra Comitati territoriali e Istituti penitenziari. Dalla fine degli anni 80 l’Uisp afferma che bisogna sostenere il diritto delle persone detenute a fare sport, non solo in virtù dei benefici per la salute, ma anche per il valore rieducativo e di recupero sociale dello sport, che è ormai riconosciuto anche in Italia. Da quelle prime esperienze a Roma, Torino, Bari, Bologna, Genova e tante altre città l’Uisp è arrivata a siglare negli anni 90 e Duemila, convenzioni con il ministero della Giustizia e con il Dap-Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, per le attività negli istituti penitenziari e minorili. Questa continuità e capillarità nell’azione Uisp per attività nelle carceri, che hanno assunto col tempo la forma di corsi di danza, ginnastica, pallavolo, calcio e così via, ha permesso a Vivicittà di radicarsi anche nelle carceri. Ormai da una ventina d’anni Vivicittà Porte Aperte (questo è il nome della campagna) è una manifestazione esemplare e di successo e coinvolge una ventina di istituti penitenziari in tutta Italia, riproponendo la formula di una corsa podistica con lunghezze variabili che riesce a portare, anche in ambienti tradizionalmente separati come quelli delle carceri, aria nuova di speranza e di rispetto, a partire dal rispetto per il proprio corpo. “Per noi lo sport sociale è un elemento molto importante, infatti sono ormai 71 anni che portiamo avanti un’idea di sport per tutti, che renda universale il diritto allo sport e con lui il diritto alla salute, all’educazione, alla cultura - dice Tiziano Pesce, presidente nazionale Uisp - Lo sport è un grande fenomeno sociale del nostro tempo e noi scegliamo di operare anche all’interno degli istituti penitenziari del nostro paese perché la cultura del corpo insegna il rispetto dell’altro e di se stessi e diventa elemento fondamentale per migliorare la qualità della vita dei cittadini e ovviamente sono cittadini a pieno titolo anche le persone detenute. La distanza fra cittadino libero e cittadino ristretto esiste sul piano pratico e logistico ma riteniamo che non abbia nessuna ragione di esistere sul piano umano e sociale”. Il tema sport negli istituti carcerari è al centro di recenti progetti nazionali e internazionali Uisp, come SPFF-Sport in Prison, a plan for the future (Sport in carcere, un piano per il futuro), un progetto che a partire dal 2020 ha mirato a sviluppare buone pratiche, utilizzando lo sport in carcere come ponte di collegamento con altri settori della società. “Quello del carcere è un tema respingente, un argomento del quale la gente non vuol sentire parlare” parte così il podcast realizzato dall’Uisp sull’esperienza del progetto Uisp Sicilia “Diritti in campo”. Il tema, affrontato dalle giornaliste Monica Matano e Laura Bonasera, è quello della comunicazione sociale attraverso lo sport, dal punto di vista dell’intervento sportivo. “È importante difendere gli spazi per storie di sport sociale, anche all’interno della propria redazione - dice Monica Matano, giornalista di Raisport - Spazi che dovono caratterizzare il servizio pubblico tv. Il valore della storia è fondamentale. Sono orgogliosa dello Speciale Carceri andato in onda perché ho avuto l’opportunità di raccontare le persone e la loro vita in carcere. Lo sport è uno strumento meraviglioso che dà rispetto regole e reinserisce le persone. Far entrare le telecamere in carcere è stata una sfida titanica. Ce l’abbiamo fatta poiché anche questo è fare servizio pubblico: raccontare tutto al meglio. Avevamo le idee chiare. Raccontare il problema da diverse prospettive: il carcere minorile di Bologna, il carcere femminile di Rebibbia, il carcere di Pozzo di Gotto (Me) e quello di Ferrara, dove si teneva Vivicittà. Un universo complesso dove è necessario un sostegno psicologico maggiore. Infine, auguro ai giovani di farsi guidare da una ‘sana curiositas’ e di scoproire i segreti del mestiere attraverso i maestri del giornalismo. Come diceva il grande Giampiero Galeazzi ‘Siate spiriti liberi”. Il “metodo” Uisp di intervento nelle carceri attraverso lo sport è stato anche al centro di una tesi di laurea: Adriano Maniscalco, studente di Scienze pedagogiche e dell’educazione presso l’Università degli studi di Genova ha dedicato la sua tesi a “Lo sport come risorsa di promozione della legalità e prevenzione della devianza”. “L’attività sportiva influisce su due caratteristiche molto importanti - scrive Maniscalco - la capacità di autoregolarsi e la libertà, la persona è libera quando si autodetermina nel perseguimento di uno scopo. Inoltre, lo sport può essere un utilissimo strumento per educare alla condivisione e alla cooperazione: nella vita si possono commettere gravi errori e incappare nella giustizia, attraverso lo sport ogni ragazzo ha la possibilità di esercitare la libertà con gli altri in vista di uno scopo perseguito nel rispetto delle regole e del gioco”. Tra le buone pratiche Uisp che vengono citate nella tesi di Adriano Maniscalco c’è il progetto “Le porte aperte”, che nasce negli anni novanta ed ha coinvolto venti città italiane tra Istituti penali minorili e l’area penale esterna. Si parla poi di “Ragazzi fuori”, che ha raggiunto sei città proponendo attività educative sul campo rivolte a ragazzi dai 14 ai 21 anni. Ultimo in ordine cronologico è il progetto nazionale “Terzo tempo”, che si è concluso nel 2015 ed ha avuto come destinatari minori a rischio e detenuti. Il progetto è stato finanziato da Fondazione con il sud, Enel e ministero della Giustizia e dipartimento minorile. L’intervento ha coinvolto cinque regioni ed oltre alle attività ludico sportive per i ragazzi, ha realizzato anche lavori infrastrutturali negli I.P.M. e in due centri socio-educativi per minori. Il dissenso oggi è messo fuori legge. L’invito ad astenersi al referendum è un esempio clamoroso di Sara Gandini Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2025 La sfiducia - spesso motivata - verso le istituzioni porta non pochi a un disfattismo carico di astio e di supponenza. Oggi si tratta di riannodare il filo e collegare i puntini. In pochi hanno colto che il punto nevralgico della “questione pandemica” su cui ci siamo intrattenuti più e più volte, atteneva alla nuova criminalizzazione e gestione autoritaria del dissenso. Temi importanti come il dispositivo biopolitico del greenpass e l’affidabilità (elevata per alcune fasce di popolazione, molto meno per altre) dei vaccini di nuova generazione, hanno catturato il dibattito come attrattori gravitazionali. Nel mentre la posta in gioco andava oltre i singoli contenuti, rivelando la postura prevalente del neoliberalismo di guerra: alla luce degli ultimi cinque anni, e dell’attuale delirio pro-riarmo fomentato dalle élite europee, è bene chiamare così questa fase del tecno-capitalismo contemporaneo. Come disinnescare qualunque dissenso articolato che potesse mettere in discussione il pilota automatico della governance neoliberale, è stato il fulcro di molti comportamenti assunti dai decisori politici. Profitti crescenti ai privati, controllo sui cittadini (spesso colpevolizzati o chiamati all’ordine sacrificale richiesto dall’Emergenza), squalificazione del sapere critico scientifico, colonizzazione della stampa e di tutti i canali comunicativi (propaganda massiccia e capillare): questi sono stati i principali vettori di una politica al servizio dei mercati, incline a spegnere sul nascere il conflitto sociale e le istanze di giustizia che esso porta con sé. Eccoci allora, un passo alla volta, fino al decreto “paura” approvato in Parlamento dalla maggioranza. Con la scusa della “sicurezza” (parola equivoca e tossica se scollegata da azioni concrete di tutela delle classi più deboli e di ridistribuzione della ricchezza verso il basso) un governo apertamente ostile alla Costituzione inaugura un periodo buio per la nostra democrazia. Il dissenso, già fortemente compresso anche da compagini politiche “progressiste”, oggi è messo fuori legge nei fatti. Altre idee nocive come il premierato, tanto caro alla presidente del Consiglio, vanno in direzione di una completa disarticolazione dei bilanciamenti istituzionali che, proprio grazie alla Costituzione antifascista, erano stati pensati per limitare il potere dell’esecutivo e le tentazioni autoritarie. ??Questa torsione pericolosissima avviene - e non stupisce - con una maggioranza di destra al governo, eppure la ciliegina avvelenata poggia sulla torta preparata in modo bipartisan dalla quasi intera classe politica italiana, la stessa che in piena crisi sanitaria ha ritenuto opportuno oscurare o criminalizzare le opinioni sgradite, creando una voragine tra popolazione e autorità. Ne è conseguito un effetto rovinoso che riguarda anche la cosiddetta “area del dissenso”, una galassia presto refluita dentro le bolle di filtraggio dei social, composta sia da persone che hanno criticato con intelligenza le misure adottate dai governi durante la pandemia, sia da soggetti che sembrano aver costruito la loro piccola carriera di influencer a partire dal dolore collettivo. La sfiducia - spesso motivata - verso le istituzioni porta non pochi a un disfattismo carico di astio e di supponenza. L’invito all’astensionismo militante per quanto riguarda i cinque referendum dell’8/9 giugno è un esempio clamoroso della subalternità culturale e politica di un’area che fatica a stare concretamente nei problemi del tempo e che, avendo subìto ostracismo negli anni feroci del Covid, si chiude in schemi reattivi simmetrici e complementari a quelli escludenti del sistema. Accade così che gli interessi materiali e simbolici che ci uniscono finiscano per essere trascurati e sottovalutati pur di rendersi riconoscibili in chiave identitaria (con forti dosi di vittimismo che indeboliscono le cause del dissenso stesso). Oggi più che mai si tratta di riannodare il filo e collegare i puntini. Non servono sacche chiuse e settarie di rabbia impolitica, ma una prassi convergente di lotte che tengano insieme tutte le istanze vitali di questo momento storico: no al riarmo, sì ai diritti del lavoro e alla giustizia sociale, sì ai diritti civili, sì a politiche per la salute che scelgano la via del dialogo con i cittadini e dell’informazione corretta (non degli obblighi scriteriati e della repressione), no alle logiche di privatizzazione dei beni comuni, no al suprematismo bianco di un Occidente che guarda dalla finestra mentre continua lo sterminio dei palestinesi in diretta su Tik Tok, no allo stato di polizia. Ripartiamo dall’essenziale, insieme, senza balcanizzare il fronte di una critica radicale dell’esistente. Odiatori in rete: se le parole diventano pietre di Emilio Carelli L’Espresso, 8 giugno 2025 L’educazione civica digitale deve diventare una priorità coinvolgendo studenti e insegnanti. La tragica morte di Martina, la giovane di 14 anni brutalmente uccisa dall’ex fidanzato, ci ha profondamente scossi. È un evento che, da solo, sarebbe sufficiente a innescare una riflessione collettiva sulla violenza di genere e sul senso dell’amore nei giovani. Eppure, ciò che ha ulteriormente aggravato il dolore per questa vicenda è stato un post vergognoso, pubblicato da un professore di 65 anni, il quale, in un atto di disumanità inaccettabile, ha auspicato la stessa sorte per una bambina di soli 8 anni. Questo individuo, che ha passato la vita tra i banchi di scuola, dove avrebbe dovuto fornire insegnamenti di civiltà, rispetto e comprensione, ha scelto di scagliare parole come sassi, senza pensare all’impatto devastante che esse portano con sé. Un insegnante, una figura che dovrebbe incarnare l’ideale di educatore e guida, ha offerto un desolante esempio di quanto il linguaggio possa essere avvelenato dall’odio. Ora la vera inquietudine risiede nel fatto che non si è trattato di un episodio isolato, bensì sia parte di un fenomeno più ampio: una società che, a causa di parole velenose e comportamenti tossici, sta perdendo di vista i valori fondamentali che dovrebbero unirla. Non possiamo ridurre la questione a una semplice condanna, senz’altro unanime. Questo non basta più. È giunto il momento di una riflessione profonda, di andare in fondo alla questione, il momento in cui dovremmo interrogarci, cercando di capire insieme cosa spinge le persone a diventare odiatori compulsivi online. Come pure quello di combattere una volta per tutte la deresponsabilizzazione sui social favorita spesso dall’anonimato. È urgente impostare un nuovo approccio al mondo dei social media, dove la cultura dell’odio si propaga come un virus, colpendo in particolare giovani e adolescenti. L’educazione civica digitale deve diventare una priorità nelle scuole, coinvolgendo tanto studenti quanto insegnanti. Solo attraverso un’educazione responsabile potremo sperare di formare una generazione in grado di contrastare e superare questa spirale di violenza e intolleranza. In questo processo anche noi giornalisti possiamo dare un importante contributo. Troppo spesso i titoli a effetto, violenti, aggressivi, insultanti sono finiti sulle prime pagine dei giornali, nei Tg, nelle homepage dei siti, rimbalzati nelle rassegne stampa come fossero normali. Ma non sono normali. Sono micce. E i social, con la loro furia amplificatrice, fanno il resto. Si parte da un titolo, si arriva a un post che augura la morte a una bambina. È un processo graduale, ma spietato. “Disarmiamo le parole e disarmeremo la Terra”, ha detto Papa Leone XIV ai giornalisti. È da lì che dobbiamo ripartire. Trovare un altro modo per raccontare la violenza, senza esserne complici. Dai femminicidi, alla fame dei bambini a Gaza, alle immagini dei corpi sotto le bombe, alle parole sprezzanti di certi leader politici: non basta più raccontare. Serve un’etica nuova. Serve responsabilità. E serve, oggi più che mai, una risposta dura e chiara. Il professor Addeo - perché sì, il suo nome è uscito - non può cavarsela con una sospensione. Chi pronuncia parole così disumane non può tornare in cattedra. Non è solo una questione disciplinare. È una questione etica che richiede una sanzione esemplare. Migranti. Vi racconto i miei 23 anni di attesa per diventare (forse) italiano di Alidad Shiri Avvenire, 8 giugno 2025 Circa 20 anni fa sono arrivato in questo Paese come minore straniero non accompagnato, avevo 14 anni. Successivamente sono diventato titolare di status di rifugiato politico, con la fatica di un lungo interrogatorio in Commissione Territoriale a Gorizia. Sono cresciuto qui, ho studiato qui, mi sono sentito accolto, ho stretto una bella ampia rete di amicizie. Ho studiato con passione il nostro sistema politico, la nostra Costituzione, le due culture che in Alto Adige coesistono, con le proprie peculiarità, e ho coltivato particolarmente la lingua italiana comunicando e scrivendo molto, interesse che mi è stato riconosciuto dalla Società Dante Alighieri per la diffusione della lingua e cultura italiana nel mondo con il “Diploma di Benemerenza” ottenuto a Roma. Ho quindi valorizzato la cultura italiana, come tanti altri giovani autoctoni ed anche nuovi arrivati. Ho letto tanti libri in italiano di numerosi autori, ho guardato film, ho ascoltato canzoni e ho scritto la mia storia in italiano. Per questo nei miei anni universitari potevo discutere con i miei compagni e compagne di studio su vari argomenti, e mi accorgevo di saperne di più di alcuni di loro. In questi anni ho cerato di servire questo Paese con il cuore, impegnandomi notti e giorni, collaborando con le forze dell’ordine, magistratura, mondo scolastico, accademico, giornalismo e terzo settore, come cittadino, qui in Italia, ma anche unito a tutto il mondo, come consulente delle Nazioni Unite e dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo. Viaggiando molto, incontrando persone di ogni età ma soprattutto giovani, ho sentito forte che appartengo ad una comunità globale. La mia sensibilità è sempre molto attenta ai rifugiati sparsi per il mondo, conosco le loro storie, le loro sofferenze, paure e speranze, il rischio di trovarsi in viaggi lunghi e impossibili tra la vita e la morte. Personalmente sono fortunato e grato verso tante persone che mi hanno accolto e sostenuto, ma conosco la situazione di tante persone che soffrono per il rifiuto nei loro confronti e il non riconoscimento dei loro minimi diritti umani. In questi ultimi anni vediamo in Europa e negli Stati Uniti politiche di sempre maggiore chiusura verso chi scappa da guerre, persecuzioni, miseria, disastri ambientali. Sono cavalcate da manipolatori professionisti che ogni giorno seminano il veleno dell’odio e pregiudizio contro lo straniero, accusato di essere un pericolo per il sistema dominante. Si gioca sull’incoscienza diffusa, dovuta anche ad errata informazione riguardo ai fenomeni migratori, cavalcando le paure di fronte al nuovo. Invece nei rapporti interpersonali so che quando semplicemente parliamo e comunichiamo tra di noi ci sono poche barriere e differenze, perché ci sentiamo tutti in fondo parte di questa umanità. È molto contradittorio pensare che mentre entriamo velocemente in una nuova era di globalizzazione, dove la solidarietà dovrebbe essere anima delle politiche globali e locali, una leadership guarda invece principalmente all’interno del proprio guscio previlegiato, come qualcuno che si rinchiudesse nella propria stanza mentre tutta la casa sta bruciando. I problemi che affrontiamo ora sono questioni globali che possono essere risolti solo con la cooperazione tra le nazioni del mondo. In ogni Paese il riconoscimento della dignità dei cittadini e dei loro diritti passa attraverso quella chiamiamo cittadinanza, che implica diritti e doveri. Tra i più evidenti, sono i doveri sociali di contribuire al sostentamento del Paese attraverso il lavoro e quindi il pagamento delle tasse, il dovere di rispettare le leggi ma anche di cambiarle attraverso la partecipazione politica. Ancora prima viene il diritto e dovere di istruirsi e istruire i propri figli anche attraverso la conoscenza della lingua o lingue locali, le tradizioni, le culture. In un mondo globale come quello attuale, per istruirsi occorre anche viaggiare, spostarsi, ma se non hai riconosciuta la cittadinanza questo ti viene impedito, e non è poco. Ad esempio, se uno studente, i cui famigliari vengono da altri Paesi, che pure lavorano, pagano le tasse, sono integrati, vuole frequentare un Erasmus, oppure uno scambio di alcuni mesi in altre scuole, come in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Canada... non gli è possibile senza la cittadinanza. Se un giovane, anche nato in Italia, ma senza cittadinanza vuole candidarsi alle elezioni politiche locali o nazionali, non è possibile. Così anche per un concorso statale. Per non parlare delle lunghe code per il rinnovo del permesso di soggiorno davanti alle Questure in Italia. Attualmente l’iter per la richiesta del riconoscimento della cittadinanza è molto lungo e complesso. Un immigrato può fare la domanda dopo 10 anni di ininterrotta residenza in Italia, 3 anni di contribuiti lavorativi, certificazione di una buona conoscenza della lingua, atto di nascita del paese di origine, fedina penale pulita sia in Italia che nel luogo di provenienza, oltre a pagamento di una discreta somma allo Stato. Dopo di che passano almeno tre anni per avere una risposta che può essere anche negativa per la mancanza di qualche documento. Allora occorre rinnovare da capo tutta la domanda e ancora aspettare. Nel mio caso, se tutto va bene fra tre anni potrei avere la cittadinanza, quindi 23 anni di attesa. Alcuni opinionisti, giocando sull’ignoranza diffusa, mettono in giro timori infondati che diminuendo la richiesta da 10 a 5 anni ci sarebbe una valanga di nuovi arrivi, mentre questa è una falsità perché riguarda solo chi sul luogo è già integrato e lavora. Semmai, una volta ricevuta la cittadinanza, come altri cittadini autoctoni molti potrebbero emigrare, cercando sistemazioni migliori, quindi avremmo meno immigrati. Io purtroppo non ho la possibilità di votare al referendum sulla cittadinanza, ma se l’avessi, voterei di si, per dare la possibilità ai bambini, ai ragazzi, alle persone che ogni giorno con fatica contribuiscono al benessere comune, di avere un riconoscimento pratico della loro dignità, diritti e doveri. Migranti. Frenano le pulsioni anti-immigrazione in Italia. Ma altrove il nativismo attecchisce di Enzo Risso Il Domani, 8 giugno 2025 Lo stop all’immigrazione è un’opzione politica auspicata dal 40 per cento degli italiani, ma il dato è in decrescita rispetto al 2016, quando era ben sei punti percentuali in più. Ma ci sono stati dove il numero invece è in crescita: posti in cui la narrazione nativista si radica, soprattutto per quanto riguarda il tema del lavoro. Il tema dell’immigrazione permane un punto caldo nella coscienza degli europei, anche se nel corso degli ultimi lustri ha subito alcuni mutamenti di intensità nei diversi paesi occidentali. Lo stop all’immigrazione è un’opzione politica auspicata dal 40 per cento degli italiani, ma il dato è in decrescita rispetto al 2016, quando era ben 6 punti percentuali in più. Il nostro paese, insieme alla Francia e agli Stati Uniti, sono le uniche realtà in cui l’avversione all’immigrazione ha subito un rallentamento, con un meno 5 per cento negli Usa e un meno 1 per cento nelle terre d’oltralpe. Le realtà nazionali in cui è maggiormente cresciuta la richiesta del blocco degli ingressi sono: la Svezia (+ 18 per cento rispetto al 2016, portando il dato al 45 per cento), la Polonia (anch’essa +18, arrivando al 49 per cento), la Gran Bretagna, la Germania e il Belgio, che hanno fatto registrare un +9, salendo rispettivamente al 40, al 46 e 47 per cento. Il paese dell’unione europea in cui è più alta la richiesta di blocco resta l’Ungheria (50 per cento), mentre la Spagna è la realtà in cui la percentuale è più bassa (34 per cento, ma in crescita di 6 punti rispetto al 2016). Sono i dati del recentissimo report sul populismo di Ipsos Global advisor, che ha condotto una indagine in 31 paesi del mondo. La questione lavorativa - Un altro pilastro delle dinamiche di avversione all’immigrazione è la richiesta di privilegiare per i posti di lavoro i nativi del proprio paese. La spinta nativista è fortissima in paesi come l’Ungheria (81 per cento, con un + 10 rispetto al 2021) e la Polonia (67 e un + 7). È ben presente anche in Svizzera (59 per cento), in Belgio (56 con un + 8 rispetto al 2021) e in Francia (51 con un + 3). Metà della popolazione Usa e di quella inglese è schierata su posizioni nativiste, ma con due direzioni inverse. Rispetto al 2021 il dato è in calo del 4 per cento negli States, mentre è in crescita del 9 per cento nel paese di re Carlo III. Le pulsioni nativiste sfiorano metà della popolazione in Spagna (49 per cento con un + 7) e in Italia, in cui pulsano nel 47 per cento dell’opinione pubblica, ma risultano in calo di 7 punti rispetto al 2021. Un po’ meno pressanti tali pulsioni sono in Germania (40 per cento con un + 2) e in Svezia (34 per cento con un + 4 rispetto al 2021). Un terzo ambito della costellazione che compone il senso comune intorno all’immigrazione è quello che alberga nell’accusa ai migranti di sottrarre posti di lavoro ai nativi locali. Anche questo aspetto della narrazione nativista appare insediata fortemente nelle opinioni pubbliche di Ungheria (51 per cento) e Polonia (45). In entrambi i paesi, rispetto al 2021, abbiamo una crescita del 16 per cento. Il Belgio è il terzo paese in cui questa percezione è forte (42 per cento, con un + 11 rispetto al 2021). In Italia il dato si attesta al 34 per cento, ponendo il nostro paese al quinto posto in questa classifica (subito dopo l’Irlanda che è al 36 per cento), ma, anche in questo ambito, va segnalato un rallentamento di tre punti rispetto al 2021. Simile calo negli Usa (33 per cento, con un meno 4) e in Francia (25 per cento, con un meno 4). In Olanda e Gran Bretagna il tema tocca il 30 per cento dell’opinione pubblica (con un + 3 in Gb), mentre in Spagna si ferma al 27 e in Germania al 22. Il paese in cui l’accusa ai migranti di rubare il lavoro è meno presente è la Svezia (21 per cento). Ansia per il futuro - Il quadro mostra la persistenza dell’avversione verso l’immigrazione nei paesi occidentali e i segnali minimi di rallentamento, come in Italia e Usa, sono interessanti ma avvengono in realtà in cui l’avversione era molto alta e lasciandola sempre a livelli consistenti. Il nativismo e la repulsione verso gli immigrati hanno molte radici che affondano, come ci ricorda la sociologa Saskia Sassen, nei problemi strutturali profondi nei diversi paesi di arrivo, perché come sostiene Zygmunt Bauman la paura degli stranieri esprime l’ansia per il futuro, generata dall’insicurezza del presente. E… nel nostro paese di ansia ce ne è certamente molta. *Sondaggio condotto da Ipsos in 31 paesi sulla sua piattaforma online Global Advisor tra venerdì 21 febbraio e venerdì 7 marzo 2025. Campione intervistato: 23.228 adulti di età pari o superiore ai 18 anni. Droghe. Sulla cannabis light il Governo fa testacoda Felice Florio L’Espresso, 8 giugno 2025 Rovina gli imprenditori, molti dei quali suoi elettori, rinuncia a un settore legale e favorisce indirettamente quello clandestino. Effetti di una crociata senza senso, diventata legge con l’approvazione del decreto Sicurezza. Hanno ricevuto persino dei fondi pubblici dall’Europa, dallo Stato e dalle Regioni per aprire nuove imprese agroindustriali. Il governo Meloni, adesso, decide che quei soldi sono stati erogati per delle attività illegali. È il decreto Sicurezza e, tra i suoi articoli, ce n’è uno che uccide la filiera della canapa. Perché il provvedimento, già approvato alla Camera e che dal Senato riceve il via libera definitivo, vieta importazione, lavorazione, detenzione, cessione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione, consegna e vendita al pubblico delle infiorescenze di canapa. Se tutte le piante fioriscono, ed è uno dei paradossi di questo decreto, anche chi ha scelto questa coltura per ricavarne prodotti di bioedilizia, ad esempio, diventa fuorilegge nel momento in cui sboccia un fiore nel proprio campo. La crociata dell’esecutivo sarebbe rivolta verso la cannabis light, benché la sua componente principale, il cannabidiolo (Cbd), sia considerata una sostanza sicura dall’Organizzazione mondiale della sanità. Non è psicotropa, non provoca alterazioni menta- li, quindi non è equiparabile a uno stupefacente. Inoltre, interdire le infiorescenze nei terreni coltivati significa proibire a coltivazione di canapa tout court. Così Lorella Mich, che in Trentino ha convertito alcuni campi di famiglia, sta già pensando alla delocalizzazione, “magari in Austria”. Nel 2019, un piccolo investimento iniziale di 20mila euro. Le prime piantine che resistono alle nevicate di maggio e crescono forti. Poi la raccolta in autunno, la trasformazione in inverno e l’immissione nel mercato di una serie di prodotti omeopatici. “Il nostro best seller è la pomata di Nonna Uccia. Lei, per la comunità montana, faceva creme a base di erbe. Usiamo l’antica ricetta di mia nonna, aggiungendo il Cbd che ricaviamo dalla lavorazione manuale delle infiorescenze”. I principi attivi miorilassanti, antinfiammatori e antidolorifici “sono utili anche per pazienti affetti da psoriasi”. È una soluzione naturale, afferma Mich, “alternativa o coadiuvante del cortisone”. L’età media dei dipendenti della sua Dolomiti Biohemp è di 26 anni. Sono dieci nei periodi meno carichi di lavoro, aumentano durante la raccolta e di inverno, quando i prodotti raggiungono i mercatini di Natale dell’arco alpino. Il fatturato è in crescita: “L’obiettivo è arrivare al milione entro il 2027”, dice fiduciosa. L’assurdità della situazione di questa piccola eccellenza trentina è che ha ricevuto contributi pubblici per lo sviluppo dell’e-commerce e per l’alternanza scuola-lavoro. “Soldi nazionali e regionali che, ora, rischiamo di dover restituire: molti finanziamenti sono a fondo perduto se l’attività resta operativa per dieci anni. Se chiude, invece, bisogna darli indietro”. Il governo non ha previsto ammortizzatori sociali per i circa 30mila lavoratori della filiera che potrebbero perdere il lavoro con il decreto Sicurezza. Sandra D’Alessio, che ha investito nel settore ed è membro dell’associazione Imprenditori canapa Italia, confessa che la sua società ha dovuto avviare la pratica di licenziamento collettivo. “Si tratta di circa 20 dipendenti stabili, che arrivano a un centinaio nei picchi di produzione”. Lamenta l’arretratezza dell’Italia rispetto ai Paesi vicini: “Distribuiamo in tutta Europa grandi quantità che vengono lavorate per l’industria del benessere. In Francia, ad esempio, le istituzioni riconoscono gli effetti positivi del Cbd”. E il mezzo miliardo di indotto che genera la coltivazione di canapa, in Italia, rischia di traslocare altrove. “È da imbecilli proibire un prodotto privo di qualsiasi sostanza drogante. Il governo ammazza una filiera che all’estero, invece, viene valorizzata per i suoi molteplici aspetti positivi. Sono sbalordita che a prendere una decisione così liberticida sia il centrodestra, che dovrebbe essere liberale, pro industria”. Marco Quilleri è un imprenditore bresciano che ha investito nella produzione di Cbd. La sua azienda, partendo dalla canapa, realizza cosmetici, materiale per la bioedilizia e commercia le infiorescenze. Non nasconde la lunga adesione della sua famiglia a un partito liberale di centrodestra, con un impegno in prima persona in politica. Da qui deriva la delusione per la repressione che il governo sta imponendo al settore. “Sono stato ricevuto, negli scorsi mesi, da diversi parlamentari della maggioranza. Tutti sembravano aver compreso l’importanza della produzione di canapa, ma nessuno ha speso una parola per fermare questo decreto”. E si chiede su quali basi scientifiche il governo basi la propria lotta al Cbd. “È solo una perdi- ta di denaro per lo Stato e per gli imprenditori. Non ci guadagna nessuno, se non la filiera dell’illegale. Il consumatore me- dio cosa farà, tornerà a comprare cannabis illegale?”. Tra i parlamentari che stanno cercando di difendere la filiera c’è Fabrizio Benzoni di Azione. Ha partecipato alle manifestazioni organizzate queste settimane, ha incontrato i lavoratori del settore e, ormai, è convinto che “l’iniziativa del governo è mossa soltanto da una cieca ricerca di consenso elettorale”. Non ci possono essere altre ragioni, afferma: “Per bloccare la cannabis light, che non ha effetti psicotropi, si uccide un mercato riconosciuto in tutti gli altri Paesi - che ha delle regole di tracciamento rigide del prodotto, dà lavoro a migliaia di cittadini - e si fanno chiudere industrie di eccellenza che realizzano centinaia di prodotti utili alle persone. Bloccare la produzione in Italia significa aprire le porte a merci realizzate con canapa europea, anziché locale. Favorendo, peraltro, il consumo delle droghe tradizionali, che non han- no alcuna filiera verificata, sulle quali non vengono pagate tasse e, anzi, servono da cassaforte per la criminalità organizzata”. Manifestazione per Gaza, prove di unità e tante contraddizioni: la parola “genocidio” divide di Antonio Polito Corriere della Sera, 8 giugno 2025 Elly Schlein non la dice, Conte sì. Lerner: “Tifare Hamas un’offesa”. Cominciamo col dire grazie alle decine di migliaia di italiani (dal palco hanno detto centinaia di migliaia, può darsi) che hanno sfidato un sole impietoso manifestando pacificamente per una giustissima causa. Cessate il fuoco a Gaza! Basta massacro! Viviamo un tempo in cui è diventato fin troppo facile irridere l’impegno civile. E qui siamo davanti a una tragedia storica che davvero non permette quel genere di cinismo. Vale per tutti, compreso chi in piazza di solito non va ma quel “basta massacro” lo condivide. “Anche se vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”, recitava un cartello sulla via del corteo, citando Fabrizio De André. Poi, certo, la grande manifestazione di ieri a Roma era piena di contraddizioni. Come la storia del Medio Oriente, del resto. Come il destino incrociato di due popoli condannati a convivere e costretti a combattersi sullo stesso, minuscolo lembo di terra. La divisione più grande era tra quelli che “è genocidio”, secondo i quali cioè Israele è deliberatamente impegnata a ripulire la Palestina dal sangue arabo. E quelli che “non dico genocidio”, per i quali la guerra di Israele è sì un tragico e disumano crimine, perfino una “pulizia etnica” si è spinta a dire Elly Schlein, ma non assimilabile a un progetto di “soluzione finale” come quello che i nazisti applicarono proprio agli ebrei (sul tema, io mi fido ciecamente del giudizio di una che il genocidio l’ha visto di persona, Liliana Segre: pur provando “repulsione” per la guerra di Netanyahu, ha sempre respinto con sdegno il parallelo). Voi direte: questioni lessicali, di lana caprina. Così dice pure Rosy Bindi, ai margini della piazza, in un pragmatico amarcord della sinistra che fu. E Bersani, sornione più che mai: “Allora chiamiamola la strage degli innocenti...”. E D’Alema, al solito impareggiabile: “Come ho scritto sulla mia rivista trimestrale già quattro anni fa...”. Genocidio è pure per Angelo Bonelli, che si commuove sul palco mentre racconta dei bambini di Gaza, e sembra più sinceramente emozionato del “brother” Nicola Fratoianni, anche lui armocromisticamente in bianco, come la Schlein. E genocidio è per Giuseppe Conte, l’unico dei leader in giacca, determinato a sembrare il più “premierabile” dei quattro capi dell’opposizione ri-uniti da Gaza (anche se un gruppo di contestatori, giovani palestinesi, gli rinfacciava in un angolo della piazza che fu proprio il Conte II a toccare “il record di esportazione di armi a Israele”, mah!). E ovviamente “genocidio” è per Rula Jebreal, star italopalestinese sul palco, non foss’altro perché ha appena dato alle stampe un libro con quel titolo. Eppure, questione lessicale non è. Se quello di Israele è davvero un progetto di genocidio, allora che senso ha rilanciare la parola d’ordine dei “due popoli, due Stati”, al centro della piattaforma di ieri? Perché fingere di credere nella pace, se uno dei due popoli si propone esclusivamente di sterminare l’altro? Non è già questo un cedimento ad Hamas? (E infatti Schlein, eroicamente, ha resistito anche ieri alla seduzione di un applauso, e non ha pronunciato la parola). Poi c’era anche un’altra contraddizione nella piazza di ieri, ma questa invece è stata pudicamente taciuta. E sta nel fatto che niente di analogo a sinistra è mai stato pensato per difendere un altro popolo dall’aggressione armata di un vicino, altrettanto più forte dell’aggredito ma ben più colonialista di Israele, mettete voi il nome del popolo. E ugualmente niente del genere è stato fatto, né sarebbe mai stato fatto senza la reazione israeliana, per condannare il progetto antisemita di Hamas, che il 7 ottobre di due anni fa ha ucciso in un sol giorno 1.200 ebrei innocenti. Ci ha pensato Gad Lerner, dal palco, a non mettere tra parentesi questa “colpa” del movimento pro Pal: “Chi ha festeggiato Hamas ha offeso la nostra Resistenza”, ha detto sfidando qualche fischio. Per poi dichiararsi orgogliosamente “sionista”, con un certo coraggio di fronte a una folla troppo spesso convinta che sia sinonimo di “fascista”, mentre invece identifica la storia di chi si è battuto e si batte per l’esistenza di Israele. Anche negare questo diritto, incitando a ripulire dagli ebrei tutto il territorio “dal Giordano al mare”, è incompatibile con la pace e la soluzione dei due Stati. E bisogna riconoscere che, per una volta, quello slogan ieri non l’abbiamo sentito. La guerra israelo-palestinese non finirà infatti mai con la vittoria dell’uno o dell’altro. L’unico sbocco razionale, per quanto utopico possa apparire oggi, è la convivenza. E infatti - accusa Lerner - la grande colpa del governo di Netanyahu è proprio di far credere agli israeliani che la soluzione possa essere la “guerra permanente”. Che un giorno, sterminati tutti i nemici, possano finalmente vivere in pace e sicurezza. Mentre invece Israele non vincerà mai se non vincerà anche sul piano morale. Per questo, tre mesi dopo il 7 ottobre, il Corriere scriveva: “Per amor di Dio, fermatevi!”. Poi, subito dietro Gaza e molto ben visibile, c’era l’Italia nella manifestazione di ieri. Una prova generale di Campo largo (ma non troppo, senza i centristi). Con Schlein, Conte, Bonelli e Fratoianni preoccupati soprattutto di dare addosso alla Meloni, colpevole di “balbettare” su Gaza (in effetti l’imbarazzo del centrodestra è palpabile, ma con i Trump che corrono che si può fare?). L’opposizione vuole dalla premier il riconoscimento dello Stato di Palestina, “come hanno fatto altri governi europei” (Spagna, Norvegia e Irlanda; la Francia non ancora; non certo la Germania). Mentre la piazza, appena poteva, si scioglieva in un liberatorio Bella ciao e urlava “Unità, unità”; con riferimento non certo alla Palestina ma al centrosinistra. A chiusura del tutto, dal palco, l’exploitation più esplicita e francamente evitabile della tragedia di Gaza a fini di politica interna. Forse memore del celebre avvertimento di Pietro Nenni, “Piazza piene, urne vuote”, il quartetto dei leader, a una voce e a favore di telecamere, ha rivolto un appello ad andare a votare oggi i referendum. Come se c’entrasse qualcosa. I portuali di Genova contro le navi delle armi di Riccardo Degli Innocenti Il Manifesto, 8 giugno 2025 Già per l’opposizione dei portuali della Cgt di Fos sur mer (Marsiglia) non erano stati caricati i tre container contenenti parti di mitragliatrici e di cannoni prodotti in Francia e destinati all’industria militare di Tel Aviv. Anche a Genova non è stato imbarcato alcun carico militare. Ha avuto successo il presidio di lavoratori e cittadini convocato di prima mattina al varco del Genoa Port Terminal del gruppo Spinelli-Hapag Lloyd da parte del Collettivo Autonomo Lavoratori del Porto (Calp), da anni protagonista di iniziative di lotta contro il trasporto di armi, e dalla sezione sindacale Porti di Usb. Si è avuta infatti conferma che a bordo della Contship Era, la nave noleggiata dalla compagnia israeliana Zim arrivata a Genova nella notte, su cui già per l’opposizione dei portuali della Cgt di Fos sur mer (Marsiglia) non erano stati caricati tre container contenenti parti di mitragliatrici e di cannoni prodotti in Francia e destinati all’industria militare di Tel Aviv, anche a Genova non è stato imbarcato alcun carico di natura militare. A testimonianza di questa nuova forma di embargo pacifista, il presidio, dopo avere bloccato per alcune ore l’accesso di Ponte Etiopia, si è mosso in corteo attraversando il porto sino al varco Albertazzi: un fatto di assoluto rilievo, una manifestazione di protesta di cittadini guidati dai portuali dentro lo scalo. Unico precedente, nel febbraio 2023, organizzato dal Calp stesso per la prima mobilitazione internazionale contro il transito di armi verso zone di guerra con lo slogan “abbassate le armi, alzate i salari”. Dal 2019 infatti, quando fu impedito il trasporto di cannoni francesi verso l’Arabia Saudita che bombardava la popolazione in Yemen e a Genova fu bloccato un carico con la stessa destinazione ricevendo l’approvazione del Papa che fece scalpore, grazie a questi esempi si è costituito un coordinamento internazionale dei portuali. Il giorno prima in conferenza stampa i rappresentanti di Calp e Usb avevano spiegato l’obiettivo della manifestazione, oltre a esprimere solidarietà al popolo palestinese con azioni concrete volte a interrompere, anche se parzialmente, la fornitura di armi che li uccide. È stato detto che sono i poteri economici internazionali che traggono i maggiori vantaggi dalle guerre, come testimonia la logistica, che nasce come scienza militare per rifornire gli eserciti e la loro inesauribile domanda di armi, viveri e mezzi soggetti a consumo, per procurare potere ai vincitori e profitti ai fabbricanti. Per questo è dai lavoratori dei porti in quanto snodi nevralgici delle catene logistiche, attraverso le cui mani transitano gli strumenti di guerra, che nasce questa forma di opposizione. Ma i lavoratori da soli non possono andare al di là della coraggiosa testimonianza (quella parresia che aveva così felicemente sorpreso papa Francesco), sempre più a rischio viste le nuove leggi liberticide. Occorre che tutte i soggetti della logistica scendano in campo per un embargo pacifista nei confronti di Israele e di ogni altro stato responsabile di analoghi delitti contro l’umanità: dalle autorità pubbliche che autorizzano i carichi in transito, agli operatori privati che si stracciano le vesti nei loro Codici etici e Rapporti di sostenibilità ad uso degli azionisti e del marketing, ma in realtà tollerano e ancora peggio profittano delle politiche militari aggressive. I porti sono considerati strategici dagli stati e i loro operatori gravati di responsabilità speciali nei confronti dell’interesse pubblico. I portuali genovesi oggi chiedono alla politica di inserire anche la pace e il rifiuto della guerra nell’interesse generale della società, ma non di essere lasciati soli a farsene carico concretamente. Oggi la nave andrà a Salerno. Anche qui i portuali sono pronti alla mobilitazione.