Misure alternative scelta di sicurezza di Ornella Favero* Il Riformista, 7 giugno 2025 La lettera di R.D. spiega molto bene perché la carcerazione può moltiplicare comportamenti violenti e aggressivi. Stavo riflettendo sull’articolo che dovevo scrivere sul tema delle misure alternative, messe continuamente in discussione ogni volta che succede che un detenuto al lavoro all’esterno o semilibero o in affidamento torna a commettere un reato (fatto raro se si guarda alle statistiche), quando mi è arrivata una lettera da R. D., detenuto che in carcere è riuscito ad “aumentarsi” la pena perché incapace di accettare la disumanità e la mancanza di speranza della vita da galera e di gestire la rabbia che ne deriva. Questa lettera mi è sembrata “esemplare”, e ne voglio trascrivere qui una parte perché meglio di tanti dati e statistiche spiega che se le persone detenute non possono sperare, dopo anni di carcere, di cominciare un graduale ritorno nella società, e quindi di dare un senso alla loro detenzione con i permessi e poi le misure alternative, la loro carcerazione rischia di diventare un moltiplicatore di comportamenti violenti e aggressivi, che alla fine della pena si tradurranno in ulteriori pericoli per la società. “Sono rimasto buono per tre anni, sperando che avrei sbloccato finalmente qualche permesso, ma sono state solo chiacchiere e aspettative poi cancellate. Nonostante abbia fatto tante cose positive, corsi, spettacoli teatrali, un lavoro fisso da due anni in lavanderia, attestati di concorsi di scrittura, scuola alberghiera, revisione critica del mio passato, con parere positivo del carcere per l’apertura dei permessi premio, sia il magistrato di sorveglianza che il tribunale non mi hanno voluto concedere in nessun modo nessun beneficio. Ovviamente ad un certo punto, dopo mille impugnazioni, cambi di avvocato e altro, mi è saltata la lampadina ed il diavolo non l’ho trattenuto più. Ho cominciato a smuovere un po’ i fili di quel sistema, mettendomi contro la direzione, denunciando tutta una serie di cose che non funzionavano nell’istituto. Così una sera insieme a tutta la sezione abbiamo fatto mancato rientro, lamentando questi malfunzionamenti e cercando di farli risolvere, ma ovviamente dopo vari tentativi da parte della sorveglianza generale interna di farci rientrare in cella, invece, la situazione è andata fuori controllo; alla fine mi hanno fatto rapporto, chiuso in cella per qualche giorno e trasferito in un altro istituto. Mentre stavo arrivando lì mi sentivo anche contento, sia per il trasferimento che era quello che volevo e sia perché sapevo che in qualche modo la Sorveglianza di Perugia era buona. Come sono arrivato in quel carcere mi hanno messo al circondariale per osservazione, un manicomio vero e proprio, succedevano casini tutti i giorni, un carcere sottosopra. Dall’altra parte avevo per fortuna un’educatrice capace e sensibile alla mia situazione. Non si capacitava che ero ancora in carcere dopo tutti questi anni e in qualche modo la cosa mi faceva sperare bene, perché comunque la Sorveglianza funzionava e mi rassicuravano che in un periodo di osservazione mi avrebbero concesso permessi ed eventuali misure. A fine settembre però è cambiato il magistrato, ed è arrivata una molto chiusa che non sta facendo uscire più nessuno. E infatti subito mi rigetta il permesso per i miei trascorsi. Così, il diavolo ha ricominciato ad accarezzarmi i capelli, e i toni mi sono diventati sempre più accesi. Alla fine, dopo vari casini, hanno sanzionato me, con rapporto disciplinare, e 15 giorni di isolamento, come promotore di disordini e sommosse, dove in realtà io ero la parte lesa. Dopo qualche giorno, mi hanno trasferito qui a Prato per ordine e sicurezza. Sono arrivato a dicembre e subito mi sono attivato per l’università, e ho scritto al magistrato di sorveglianza che, dopo gli accertamenti di rito, mi ha accolto il ricorso sul diritto allo studio ed al possesso del PC; cosi mi hanno dato di nuovo il computer un mese fa, mentre a Perugia in 7 mesi di pressioni e solleciti dall’educatrice non mi hanno mai dato il PC, e aspetta, aspetta hanno fatto prima a partirmi. Per gli studi alla fine mi hanno fatto perdere un anno e, a dire la verità, mi hanno fatto passare pure la voglia. Dove mi trovo ora è un carcere veramente disordinato e quello che mi trattiene qui è solo il fatto che la sorveglianza non è male”. Quella di R.D. è purtroppo una vita da galera passata a inseguire il miraggio di un permesso o una misura alternativa, che dovrebbero costituire la normalità di una detenzione che abbia un senso e invece troppo spesso sono intesi come un beneficio e non come un diritto, che era invece il modo in cui li intendeva un grande magistrato di sorveglianza, Alessandro Margara. Il detenuto R. D., come tanti altri che stanno scontando una pena tutta in galera, prima o poi da quella galera uscirà, perché non possiamo riempire le carceri di condannati a vita; e allora la scelta meno rischiosa è di accompagnarli gradualmente con le misure alternative a riconquistarsi e imparare a gestire la loro libertà. *Direttrice di Ristretti Orizzonti Alternative mirate al tempo del sovraffollamento di Fabio Gianfilippi* Il Riformista, 7 giugno 2025 Occorre essere aperti a stimolare i segnali di cambiamento, a valorizzare i punti di forza. La legge penitenziaria compie cinquanta anni. Il regolamento di esecuzione ne compie venticinque. Un percorso lungo, e non esente da contraddizioni, in cui di certo il mondo dell’esecuzione penale ha imparato a conoscere il prezioso contributo che alla risocializzazione degli autori di reato possono dare le misure alternative alla detenzione. Il tempo delle pene è importante, perché non è neutro l’effetto che si produce su chi vi è sottoposto. Il tempo trascorso in carcere, che resta comunque un luogo di sofferenza, assume un significato diverso a seconda di come è vissuto. Se è sprecato in un contesto degradato e povero di umanità e di opportunità di crescita, rischierà di tradursi in un orizzonte chiuso ad un futuro di cambiamento, e rinforzerà in chi lo vive un senso, magari già sperimentato, di isolamento, di rabbia e di rancore. Se costituisce l’occasione per una migliore comprensione di sé, per fare i conti con ciò che è andato per il verso sbagliato, con i drammi di cui si è stati responsabili, e per provare a cercare chiavi nuove per decodificare le proprie, per quanto esigue, opportunità di futuro, allora può contribuire seriamente all’evoluzione della persona condannata e a ridurre, sensibilmente, il pericolo per la sicurezza della collettività. A quel punto possono utilmente innestarsi le misure alternative alla detenzione, quale forma efficace di “convalescenza sociale”, con le parole di Glauco Giostra, un accompagnamento della persona al rientro in comunità, mediante prescrizioni impeditive, ma soprattutto contatti significativi con i servizi sociali e con le altre agenzie territoriali in grado di indirizzare e sostenere lo sforzo di ritorno alla libertà di chi ha quote di pena che progressivamente si approssimano al suo termine. È il tempo per la costruzione di un “Fuori”, per utilizzare il suggestivo titolo del film di Martone sull’esperienza detentiva di Goliarda Sapienza, in questi giorni nelle sale, che non riproduca il peggio di quanto vissuto “dentro”, ma davvero si faccia esperienza in grado di rinforzare i propositi positivi di chi vuole riprendere in mano la propria vita. Perché simili strumenti funzionino davvero, occorre che le misure alternative alla detenzione, quando riferite a persone che hanno intrapreso l’esecuzione penale in carcere, siano concesse, in modo prudente e informato mediante una ampia istruttoria, all’esito di percorsi di osservazione seri, da parte della magistratura di sorveglianza. Suo è il compito, assegnatole dalla legge, di decidere avendo in mente la fotografia dei reati commessi dall’interessato, come punto di partenza della sua indagine, da mettere poi a confronto con l’evoluzione personale compiuta. Occorre essere aperti a stimolare, e poi cogliere, i segnali di cambiamento, a valorizzare i punti di forza, a puntellare le criticità con sostegni proporzionati. C’è un tempo giusto, anche se difficile da individuare, come ha ben saputo scrivere Elvio Fassone. E poi potrebbe essere tardi. A monte è quindi essenziale una osservazione individualizzata, che richiede risorse umane ed una quotidianità penitenziaria ricca di opportunità, e non invece sterilmente chiusa al perimetro asfittico delle camere detentive. A valle della concessione non deve venir meno l’attenzione alle difficoltà che possono emergere, e perciò ancora una volta serve lo sguardo degli Uffici esecuzione penale esterna, e delle forze dell’ordine, perché le misure alternative sono prove sul territorio, e quando emerge che non procedono nel rispetto degli obiettivi risocializzanti che ci si è prefissi, possono, e devono, essere revocate. Il sovraffollamento drammatico, che oggi affligge il mondo penitenziario, è un ostacolo gravoso alla costruzione di questi percorsi, prosciuga le risorse dell’amministrazione nella gestione dell’emergenza alloggiativa, favorisce un contesto intramurario fatto di tensioni, di spazi angusti e non opportunamente mantenuti, riduce i contatti delle persone detenute con gli operatori e le allontana, spesso, dai nuclei familiari e dai centri di interesse sociale, che costituiscono il volàno per immaginare un futuro di ritorno in società. Si creano “desertificazione affettiva”, degrado, violazioni di diritti, carenza di percorsi educativi e lavorativi, reati ulteriori, maturati in un contesto carcerario che si fa scenario di nuova criminalità, si genera una vera e propria dispnea… di futuro. Secondo le fonti sovranazionali, le misure alternative alla detenzione sono un valido strumento di contrasto al sovraffollamento carcerario, ed hanno soprattutto un risultato premiante, dal punto di vista statistico, rispetto al pericolo di recidiva nel reato, altrimenti estremamente probabile, in chi non ha avuto l’occasione di sperimentarle. Tuttavia, occorre essere consapevoli che il pur lodevole obiettivo di ridurre le presenze in carcere, non può costituire la sola ragione per concederne. La loro efficacia è direttamente proporzionata alla serietà con cui si è costruito il progetto di reinserimento su cui si basano, alla motivazione che la persona detenuta è pronta a metterci e alla fiducia che le istituzioni devono concedere a chi voglia intraprendere il cammino. Esiste il rischio che una misura non vada come sperato, anche quando, come doveroso, si è adoperata la massima attenzione nella valutazione degli elementi a disposizione. Occorre essere consapevoli che questa assunzione di rischio è una scelta dell’ordinamento, connaturata ai giudizi prognostici che sono necessari, e dettata da una precisa logica, lungimirante, che tiene conto della grande efficacia delle misure alternative nella stragrande maggioranza dei casi. *Magistrato di sorveglianza di Spoleto Quando la cronaca sovverte la realtà di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 7 giugno 2025 Un detenuto definitivamente condannato per omicidio viene assegnato dopo pochi anni al lavoro esterno. Le relazioni sono eccellenti, i proprietari dell’albergo dove costui lavora al ricevimento sono pienamente soddisfatti. Poi, la tragedia; uccide una collega di lavoro con la quale intratteneva una relazione, tenta di uccidere un altro collega di lavoro, e poi si suicida, buttandosi giù dalle guglie del Duomo di Milano. Puntuale esplode la polemica, tutta incentrata sulla pretesa debolezza dello Stato e di un sistema giudiziario che, lungi dal buttare la chiave della cella di un omicida, lo lascia libero di uccidere di nuovo, dopo pochi anni di carcere. Il Ministro, altrettanto puntualmente, manda gli ispettori. Sotto accusa il carcere di Bollate, struttura penitenziaria di avanguardia, emblema di un carcere diverso e di una idea della pena focalizzata sul comando costituzionale della sua finalità rieducativa. Mediaticamente, un massacro. Gli ispettori ci diranno se il percorso valutativo che ha dato fiducia alla volontà di riscatto di un omicida sia stato affrettato, imprudente o invece solidamente motivato. D’altronde, si sa, “del senno di poi son piene le fosse”. Ma la questione, ovviamente, trascende - o meglio, dovrebbe trascendere - il nudo dato di cronaca, che ci racconta di un drammatico fallimento del progetto di recupero di un detenuto già resosi responsabile di un grave fatto di sangue. Perché se da esso si vuole trarre una morale, un insegnamento per il futuro, o peggio ancora un orientamento legislativo e giurisprudenziale, allora si ha il dovere di fare i conti con i numeri. I quali ci dicono, tanto per cominciare, che la percentuale di soggetti affidati alla esecuzione della pena esterna al carcere, che approfittano di tale condizione di parziale riacquisto della libertà per delinquere, è grosso modo di 3 su 100. Io comprendo perfettamente che i 97 che scontano la pena affidati al lavoro esterno, o al controllo dei servizi sociali, non fanno notizia, mentre i 3 che tradiscono la fiducia che il sistema aveva avuto in loro, rappresentano una notizia succulenta. Ma se dalla cronaca relativa alle malefatte di quei tre si pretende di trarre conseguenze di sistema, sulle quali istigare la pubblica opinione raccogliendo like e indici di ascolto, beh allora chi fa quella cronaca senza ricordare quegli altri 97 semplicemente falsifica la realtà, manipolando le coscienze attraverso una deliberata opera di irresponsabile disinformazione. Per le stesse ragioni, chi sostiene ostinatamente l’idea politica - più volte ribadita, ad esempio, dal Ministro Nordio - che affrontare il tema del sovraffollamento carcerario con il potenziamento della esecuzione esterna equivalga ad una manifestazione di debolezza dello Stato, dovrebbe almeno confrontarsi, ancora una volta, con i numeri, a proposito del tasso di recidiva. Che è altissimo per chi sconta la intera pena in carcere, ed è significativamente basso per chi ha potuto accedere alla esecuzione esterna. Chi volesse esprimere - e sono tanti, purtroppo - tutto il proprio disinteresse, se non la propria avversione, per il principio della finalità rieducativa della pena, considerandolo più o meno un vuoto orpello retorico, dovrebbe avere almeno la onestà intellettuale di comprendere che abbattere il tasso di recidiva criminale significa, molto banalmente, aumentare il tasso di sicurezza sociale; che è esattamente ciò che accade quando la pena è scontata fuori dal carcere. Ovviamente, l’esecuzione esterna funziona se su di essa si indirizzano risorse economiche e strutturali adeguate, rispetto a quelle attuali, scarsissime, con le quali si fanno letteralmente miracoli. E dunque siamo al nodo delle scelte di politica criminale; perché la sicurezza è un obiettivo importante per tutti, ma con gli slogan populisti del “buttare la chiave” si ottiene l’esatto contrario. Buona lettura! La rieducazione: parla “il direttore”, Luigi Pagano di Valentina Alberta Il Riformista, 7 giugno 2025 Il carcere Luigi Pagano lo conosce come pochi. Perché ha dedicato un’esistenza intera al superamento della distanza che separa i princìpi fissati nella Costituzione italiana dalla realtà della detenzione. Direttore di diversi istituti (San Vittore a Milano per 15 anni), diviene responsabile dalla fondazione, nel 2000, del carcere di Bollate e contribuisce ad impostarne la struttura. È stato poi Provveditore Regionale, vice Capo DAP, e ha scritto un libro, appunto “Il Direttore”. Dottor Pagano, la tragedia accaduta qualche settimana fa ha fatto tremare tutti quelli che sostengono l’efficacia dei percorsi di reinserimento graduale dei detenuti. Una persona ammessa al lavoro all’esterno e detenuta nel carcere di Bollate ha messo in atto una serie drammatica di delitti e si è poi tolta la vita. Cosa ha pensato? Ovviamente mi ha colpito, non perché io consideri Bollate un istituto perfetto ma perché è dimostrazione della imprevedibilità delle azioni umane. Rispetto alla reazione emotiva deve prevalere il raziocinio, e credo che si debba lavorare per ridurre al minimo i rischi, anche se va considerata la componente fatalità. Peraltro, non va mai dimenticato che i passaggi in progressione del trattamento penitenziario presuppongono che il detenuto - quando fa il primo di essi - non possa considerarsi già reinserito in società; il percorso deve proseguire, con il giusto accompagnamento, al di fuori delle mura del carcere. Parlando di lavoro all’esterno, e quindi di quel provvedimento rispetto al quale il magistrato di sorveglianza approva un programma predisposto dall’equipe trattamentale del carcere, si vede come sia un istituto che l’ordinamento considera il primo step di trattamento “aperto”, tanto che può essere concesso ai condannati da subito (se per reati gravi dopo un terzo di pena) e comunque prima, per esempio, dei permessi premio. Qual è la procedura in concreto per valutare la persona rispetto alla idoneità del programma e delle sue prescrizioni a reinserire ma anche ad evitare rischi? Partiamo dall’importante sviluppo che sta avendo il cosiddetto “articolo 21”. I numeri del lavoro dei detenuti crescono complessivamente e anche questo Governo ha investito molto su questo tema, da ultimo inserendo nel decreto sicurezza alcune norme di incentivo anche fiscale specifico. Quasi un terzo dei detenuti lavora, ma il lavoro vero, quello per le aziende private, riguarda solo una parte - in crescita - di chi sta in carcere. In una realtà come la Lombardia, dove la comunità esterna è culturalmente orientata a riaccogliere chi ha sbagliato, si concede un terzo dei programmi di lavoro all’esterno di tutta Italia (circa 700 nel 2019, quasi 900 oggi). Addirittura, Bollate ha superato di recente con il lavoro per aziende esterne quello prestato per l’amministrazione penitenziaria, realizzando quell’obiettivo di dare ai detenuti percorsi di reinserimento autentico, che porta a quella enorme riduzione di recidiva di cui tanto si è parlato in questi giorni. La proposta di lavoro esterno nasce dall’attività di osservazione scientifica della personalità, che nei primi sei mesi di detenzione deve portare ad elaborare un programma di trattamento penitenziario individualizzato. Con il contributo di tutte le figure di riferimento (educatori, psicologi, criminologi, polizia penitenziaria, assistenti sociali, anche volontari) si costruiscono proposte trattamentali, che vengono aggiornate anche in funzione di quello che accade negli spazi di trattamento previsti, sia fuori che dentro il carcere. All’esterno, le prescrizioni del programma fungono quasi da “mura” che crescono intorno al detenuto quando esce dall’istituto a lavorare, ma la sua osservazione prosegue con il contributo del datore di lavoro e delle forze dell’ordine sul territorio, e la relazione di sintesi per il detenuto viene periodicamente aggiornata. Bollate ha poi la particolarità che dalla fondazione è nata pensando alla struttura in funzione del trattamento, e dunque con spazi fisici predisposti per osservare all’interno la persona detenuta. Per questo la sorveglianza dinamica si era così ben inserita in quella struttura: la persona poteva essere osservata anche all’interno nelle sue dinamiche di relazione, invece di restare chiusa a oziare nella camera di pernottamento (il che è evidentemente un controsenso) durante il giorno. Ma tutto questo sistema funziona? Cosa si può fare perché diventi una prassi seguita in tutti gli istituti italiani, almeno nelle case di reclusione dove ci sono i condannati definitivi? Sicuramente, ma ci devono essere alcuni accorgimenti che aiutino le imprese esterne ad accettare, accanto ai vantaggi del loro impegno (lavoratori molto motivati a reinserirsi, in primo luogo, ma anche agevolazioni fiscali significative), le tante difficoltà legate alle rigidità della burocrazia carceraria. Per esempio, già dai primi tempi del progetto Bollate, si iniziò ad inserire il lavoro all’esterno nei programmi individuali di trattamento, per avere una valutazione di idoneità “pronta all’uso” quando fosse arrivata una proposta concreta (così è accaduto per i tanti detenuti che hanno poi lavorato per Expo 2015). Altrettanto importante è che ci sia un coordinamento effettivo a livello regionale da parte del Provveditorato, in modo che ci sia una sorta di punto di riferimento che raccoglie le offerte di lavoro e che le gestisce anche in funzione delle caratteristiche delle diverse carceri sul territorio (nel 2009 si cercò di istituzionalizzare questa funzione con il progetto Articolo Ventisette, che resta attuale). Se l’impresa poi può avere lavorazioni interne dove formare persone che poi possono uscire a lavorare sul territorio, è l’ideale. L’importante è che questo coinvolga tutto l’istituto e non soltanto qualche sezione fortunata. È anche una questione di impostazione culturale. Ci vuole anche un po’ di coraggio di cambiare, io ricordo che all’inizio i detenuti non volevano muoversi da San Vittore e spostarsi a Bollate; poi ora, dopo 25 anni, sappiamo che le persone cercano a tutti costi di scontare la pena in quel carcere. Cosa si può dire oggi alla magistratura di sorveglianza, da un lato, e all’opinione pubblica, dall’altro, perché si continui ad avere fiducia nella preparazione al reinserimento in società che si fa in carcere e che, attraverso le misure esterne come il lavoro, porta poi ad abbattere la recidiva? Il punto è che la stragrande maggioranza di storie positive non fa rumore, mentre il caso singolo drammatico ne fa tanto. Ma io credo che i risultati di sistema siano davanti agli occhi di tutti. Le poche storie di fallimento purtroppo accadono, ma devono portare a migliorare il sistema e non certo a metterlo in discussione nelle sue linee fondamentali. Oggi si deve innanzitutto ridurre il numero di detenuti, posto che il sovraffollamento non consente di lavorare al meglio, si deve incrementare il personale che osserva i detenuti e anche quello che accompagna nella transizione interno/esterno (si è perso il ruolo centrale degli assistenti sociali), si devono investire risorse. Ma soprattutto bisogna credere nelle competenze ed avere fiducia verso chi, con fatica e passione, lavora a contatto con le persone detenute. Qualche storia bella aiuta. Oggi una delle principali cooperative che aiutano le persone detenute a trovare lavoro, la Bee4, è diretta da un ex detenuto per reati gravi, Pino Cantatore, che ha compiuto un percorso personale straordinario e ha messo a disposizione le sue capacità per consentire ad altri di fare lo stesso. Impariamo da lui che ci si può credere. Misure alternative, meno recidiva: parlano i dati di Gianpaolo Catanzariti Il Riformista, 7 giugno 2025 Tutte le volte che i giornali e le tv diffondono la notizia di un delitto commesso con violenza da un detenuto in misura alternativa al carcere, un vortice irrazionale travolge la nostra società. In realtà, proprio in queste drammatiche occasioni, con la forza della ragione, bisogna difendere, rivendicandone l’allargamento, le misure alternative e le opportunità di lavoro all’esterno. Senza aggiungere l’ennesimo “chiodo sulla bara” ad un sistema di per sé già sgangherato. Se vogliamo dare forma ai princìpi costituzionali sulle pene e sul carcere, rendendo, così, più sicura la società, dobbiamo pretendere condizioni detentive rispettose della dignità umana. Solo attraverso uno sviluppo personale e sociale del reo possiamo favorire il suo reinserimento, rafforzando, così, la sicurezza collettiva. Lo avevano chiaro i costituenti nel 1948. Lo aveva chiaro il legislatore del 1975, con la radicale sostituzione del regolamento fascista del 1931, disegnando apposite misure alternative alla detenzione nonché specifici obblighi di opportunità lavorative per i reclusi. Non si trattava di un mero sentimento di bontà, pur nella consapevolezza di dover ridurre il sovraccarico umano nelle celle. Era, piuttosto, una vera utilità sociale, dettata dalla esigenza di contrastare la c.d. sindrome da prisonizzazione, ovvero quel processo di immedesimazione disumanizzante nella vita in prigione, nonché la ghettizzazione nella società civile, fattori determinanti per la replica di condotte criminali una volta fuori dal carcere. Purtroppo, a distanza di 50 anni dalla loro introduzione, dobbiamo riconoscere come l’effetto deflattivo delle misure alternative sia stato del tutto annullato dalla fabbrica di nuovi reati delle diverse compagini alternatesi al governo, dall’inasprimento delle pene e dalla schizofrenica estensione delle ostatività, in ragione di contingenti pulsioni. Si riscontra, inoltre, una evidente difficoltà della magistratura nella concessione delle misure alternative, condizionata, oltre che da insufficienti risorse umane, dalla violenza della pubblica opinione appositamente orientata da una politica irresponsabile e dai media sempre più aggressivi. A fronte di circa 43.000 nuovi ingressi in carcere (04/24 - 04/25), i detenuti usciti nello stesso periodo in misura sono poco più di 19.000. Ancora oggi, in carcere vi sono 20.000 detenuti con pena residua fino a 3 anni, possibili fruitori, quindi, di percorsi di reinserimento sociale. Esiste un dato, però, che dovrebbe indurci a rivendicare l’incremento delle misure alternative al carcere e delle opportunità di lavoro, soprattutto all’esterno, difendendole da ogni attacco: la significativa riduzione della recidiva. I pochi studi effettuati in Italia ci dicono come la ricaduta nel reato di coloro che si trovano in carcere “sino all’ultimo giorno” sia pari al 70%. Le revoche delle misure alternative per la commissione di nuovi reati sono, in media, addirittura pari a 0,19%. Anche il cedimento alle lusinghe criminali, al termine della misura o di concrete opportunità lavorative all’esterno, si riduce drasticamente (una forbice che oscilla tra il 2% per gli occupati e il 19% tra gli affidati). Oggi, purtroppo, oltre alle drammatiche condizioni di sovraffollamento dei nostri istituti di pena, siamo costretti a registrare una palese carenza di opportunità lavorative, specie all’esterno, per i reclusi. Secondo l’ultima relazione ministeriale, solo il 32% dei detenuti lavora, per la quasi totalità all’interno delle carceri, in attività per nulla formative o poco professionalizzanti. Solo il 5% lavora all’esterno, alle dipendenze di cooperative (4%) e aziende private (1%). Anche sul piano economico-finanziario converrebbe l’ampliamento dei percorsi risocializzanti. Si calcola che la mancanza di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul Pil fino a 480 milioni di euro l’anno. Ancora, il sistema delle misure alternative alla detenzione incide, sul bilancio pubblico, meno di un decimo rispetto a quello carcerario. Siamo, però, prigionieri di un sistema gravato da una cronica inadeguatezza delle risorse destinate al trattamento, alla individuazione di percorsi individuali. Troppo orientato a scandagliare spericolate introspettive di colpa, piuttosto che a verificarne la tenuta comportamentale e relazionale. Ci assumiamo, così, la responsabilità di vanificare l’effetto benefico, già sperimentato in diverse nazioni, prodotto, sulla sicurezza dei cittadini, da una pena detentiva dal volto umano, avviata lungo concreti ed effettivi percorsi di risocializzazione. Eppure, se solo informassimo correttamente la pubblica opinione, con dati del tutto inoppugnabili, sulla utilità del reinserimento sociale, pur graduale, del reo, potremmo riscontrare un consenso diffuso tra la popolazione, come dimostrato in Francia, alcuni anni fa, dai sondaggi condotti nell’ambito di uno studio su “Les mesures alternatives” e la loro efficacia nel contrasto alla recidiva. Mamme e figli in carcere: ora decide il giudice di Ilaria Dioguardi vita.it, 7 giugno 2025 Diventa facoltativo l’attuale obbligo di rinvio della pena per le donne in gravidanza e le mamme con figli sotto i tre anni, che andranno negli istituti a custodia attenuata per detenute madri. Alessio Scandurra (Antigone): “La norma è palesemente ad hoc per le donne rom, riguarda poche decine di persone l’anno”. E aggiunge: “Gli Icam sono solo tre, tutti al Nord. Questo vuol dire, per tante donne con bambini piccoli, allontanarsi centinaia di chilometri dal resto delle famiglie”. È stato approvato il decreto Sicurezza, 39 articoli che hanno recepito gran parte del ddl in materia risalente al 2023. Disco verde anche dal Senato, con 109 voti favorevoli, 69 contrari e un astenuto, al provvedimento, a sei giorni dalla deadline per la conversione in legge. Tra le misure previste, una riguarda le detenute incinte o mamme: diventa facoltativo (non è più obbligatorio) il rinvio della pena per le donne in gravidanza e per quelle con figli sotto i tre anni, che andranno negli Istituti a custodia attenuata per le detenute madri - Icam. “La norma è palesemente ad hoc per le donne rom, stiamo parlando di un fenomeno che è molto poco quantitativo”, dice Alessio Scandurra, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone. Scandurra, come commenta questa norma? In un anno sono alcune decine le persone a cui si riferisce questa norma. Però si tratta di donne rom, i giornali danno un grande spazio alle notizie di cronaca che le riguardano, come se fosse un fenomeno di massa. Quindi, come spesso accade, il Governo interviene con lo strumento penale, particolarmente inadatto per affrontare tanti problemi e in particolar modo quelli legati alla genitorialità. Cosa cambia? La disciplina che avevamo prevedeva il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della sentenza o della misura cautelare, in caso di donna incinta o madre di prole inferiore all’età di tre anni. Ora il giudice può ancora rinviare, ma può decidere anche di non rinviare e, quindi, di assecondare quello che è un orientamento abbastanza palese del legislatore. Ci spieghi meglio... Questa norma dà libertà al giudice ma gli dà anche un’indicazione, in qualche modo. Il legislatore risponde a una campagna di allarme sociale, togliendo l’obbligatorietà a favore della scelta facoltativa. Le donne in gravidanza e le madri con figli sotto i tre anni andranno, come già prevede la legge, negli Icam, che attualmente in Italia sono tre, dopo la recente chiusura dell’istituto a Lauro... Sì, in Italia gli Icam sono solo tre: a Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Torino. Tutti al Nord, nel Sud Italia non ce ne sono più. Questo vuol dire per tante mamme con figli allontanarsi centinaia di chilometri dal resto delle famiglie. È molto improbabile che queste mamme non abbiano altri figli. Questa norma potrebbe essere anche un modo per spingerle a separarsi dai bambini, piuttosto che andare molto lontano dal resto della famiglia. Separare le madri dai figli è un fatto particolarmente grave, soprattutto perché in tante di queste vicende non si parla di detenzioni lunghe. Si parla di periodi anche brevi perché capita che, durante la detenzione, si trovi una comunità esterna in cui accogliere madre e bambino, si trovi una misura alternativa. Tenere insieme mamme e figli, durante questo passaggio dal carcere, ha il vantaggio di non interrompere il rapporto tra di loro. Nel momento in cui li separi, il bambino viene affidato a qualcun altro, poi quando la madre esce bisogna ricucire una relazione, e anche una situazione organizzativa amministrativa, che è stata interrotta. Questo è il motivo per cui abbiamo gli Icam e gli asili nido negli istituti. Il senatore di Fratelli d’Italia Gianni Berrino, in aula al Senato, ha commentato questa norma del decreto Sicurezza: “Le donne che fanno figli per poter rubare, non sono degne di farlo”. Poi ha continuato: “I giudici che, giustamente, avete detto che sono indipendenti reputeranno se un bambino forse sta più sicuro in carcere che a casa con i genitori che li concepiscono per andare a delinquere”. Queste frasi hanno suscitato le contestazioni delle opposizioni, sono state interpretate come una sorta di attribuzione di colpevolezza intrinseca ai figli di persone che commettono reati, “condannate” al carcere... Il giudice ha la facoltà di valutare caso per caso, anche la mamma può decidere di tenere il figlio con sé, quando le condizioni materiali e logistiche e le distanze sono più favorevoli. Il senatore Berrino dice che “un bambino forse sta più sicuro in carcere che a casa…”, dipende se a casa c’è qualcuno che può stare con lui e di chi si tratta. Se la donna ha una famiglia solida e affidabile generalmente non si porta il figlio in carcere. Gli Icam sono solo tre: a Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Torino. Tutti al Nord, nel Sud Italia non ce ne sono più. Questo vuol dire per tante mamme con figli allontanarsi molte centinaia di chilometri dal resto delle famiglie... Vanno entrambi in Icam quando le mamme non hanno nessuno a cui lasciarli, oppure non si fidano dei familiari a cui potrebbe affidarli, oppure la nonna ha già tanti altri bambini a cui badare. Per qualunque mamma non è una situazione ideale portarsi il figlio in carcere e la stragrande maggioranza dei bambini, infatti, restano fuori. Quando il bambino viene portato in Icam è perché è un problema lasciarlo fuori, intervenire in maniera netta su questo può fare molti più danni che vantaggi. I 39 articoli del decreto Sicurezza introducono 14 nuovi reati e nove aggravanti di delitti già esistenti. Fra le norme penali volute dal Governo e contestate dalle opposizioni, il divieto di resistenza pacifica e di rivolta in carcere... Questo è un altro pezzo molto problematico del decreto perché va a criminalizzare, in maniera molto pesante, cose che purtroppo in carcere succedono molto spesso e che sono generalmente gesti disperati. Le persone non si metteranno a fare i conti, prima mettere a soqquadro una sezione di un istituto di pena, per vedere quali sono le conseguenze sanzionatorie di un gesto, per poi decidere di non farlo. La norma non avrà nessun impatto sulla prevenzione di questo tipo di incidenti, ma può averlo sull’estensione della pena per tanti detenuti. Dall’inizio dell’anno ci sono state proteste e incidenti, che hanno coinvolto già un’ottantina di detenuti. Se si immagina che queste persone devono scontare, ad esempio, altri quattro anni di detenzione per le proteste, (anche pacifiche) e le rivolte, è una norma che rischia di far crescere la popolazione detenuta che già vive una situazione di grande sovraffollamento, di aumentare la tensione e la conflittualità dentro gli istituti. Sovraffollamento e disagio psichico: la fotografia impietosa del Garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 giugno 2025 La fotografia che emerge dal nuovo report analitico del Garante nazionale sulle carceri al 30 maggio 2025 non lascia spazio a edulcorazioni: il sistema penitenziario italiano naviga in acque agitate, stretto dalla morsa del sovraffollamento e da una serie di eventi critici che restituiscono la fragilità delle strutture e delle persone ristrette. I numeri disegnano un quadro chiaro: 62.722 persone detenute risultano presenti negli archivi del Dap, a fronte di una capienza regolamentare di 51.285 posti e di soli 46.706 posti effettivamente disponibili perché più di 4.500 posti sono temporaneamente inagibili. Tradotto in percentuali, l’indice di affollamento - calcolato sul rapporto fra detenuti presenti e posti regolarmente disponibili - è al 134,29%, mentre quello rapportato alla capienza regolamentare è al 122,27%. Il sovraffollamento non è un’emergenza passeggera ma una costante sin dal 2012, quando l’Italia fu condannata dalla Cedu con la sentenza Torreggiani; dopo una flessione durante la pandemia, il numero dei detenuti è tornato a salire fino ai livelli attuali, con un aumento di 10.499 presenze dal dicembre 2020 al maggio 2025. L’anno più segnato fu il 2023, con quasi 4.000 ingressi netti: un’onda che non ha ancora trovato argini. A livello regionale la situazione è tutt’altro che omogenea: in Puglia l’indice è al 170,72%, in Lombardia al 153,28%, in Molise al 153,20% e in Friuli Venezia Giulia al 152,53%. Solo Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Sardegna restano sotto la soglia regolamentare, rispettivamente con indici al 76,44%, 97,06% e 97,95%. Non è un caso se il report sottolinea come le inagibilità di alcuni reparti - tra cui Milano San Vittore, con un affollamento del 208,9% - comportino un aggravio per tutto il sistema e minino la possibilità di trasferimenti omogenei sul territorio, che dovrebbero invece preservare i legami familiari dei detenuti. Nelle prime dieci carceri più sovraffollate spiccano Lucca (236,84%), Foggia (218,06%), Milano San Vittore (208,90%), Brescia Canton Monbello (202,75%) e Lodi (193,18%). Il fatto che 157 istituti su 189 (l’ 83%) superino il limite consentito e ben 63 (il 33%) abbiano un affollamento pari o superiore al 150% è un segnale di allarme: non si tratta più di criticità isolate ma di una condizione sistemica che tocca province e regioni diverse. Alle camere inagibili si aggiunge la carenza di personale. Il Garante segnala un divario significativo tra organico previsto e impiegato: nel Lazio mancano 626 agenti, in Emilia Romagna 180, in Lombardia 408, in Toscana 170 e così via, con punte critiche in tutte le regioni maggiori. L’assenza di agenti di polizia penitenziaria e di figure amministrative e pedagogiche aggrava il clima già saturo di tensioni, come ribadito dal report sui suicidi e sugli spazi detentivi. Gli eventi critici non mancano. Tra il 1° gennaio e il 30 maggio 2025 si contano 5.015 atti di autolesionismo e 768 tentativi di suicidio (rispetto ai 5.193 autolesionismi e 829 tentativi nello stesso periodo del 2024, con un lieve calo nei suicidi tentati ma senza una vera inversione di tendenza). I numeri diventano ancora più allarmanti se si considera che i decessi per suicidio non sono inclusi in questo report ma in un documento specifico, il “Decessi in carcere”. Il Garante sottolinea come la crescita delle situazioni di autolesionismo e l’invio urgente in ospedale (5.971 casi nel primo trimestre 2025, a fronte di 6.133 nel 2024) siano segnali inequivocabili di una tensione costante che si traduce in sofferenza psichica. Le aggressioni tra detenuti (1.976 colluttazioni nel periodo gennaio- maggio 2025) e quelle al personale di polizia penitenziaria (938 episodi nel 2024) sono altri indicatori di un clima esplosivo, dove l’assenza di spazi adeguati e la dimensione collettiva esasperata provocano continue esplosioni di violenza. A livello di possibili soluzioni, il report richiama l’urgenza di un rafforzamento delle misure alternative alla detenzione: il dato sulla durata delle pene conferma che circa 23.995 persone hanno un residuo di pena fino a tre anni, e di queste circa 20.000 potrebbero beneficiare di misure alternative (escludendo i casi relativi all’art. 4 bis, i reati ostativi). Non bastano tavoli tecnici e linee guida. La fotografia del 30 maggio 2025 consegna un penitenziario che regge ancora in piedi su equilibri fragili. Non c’è più spazio per rinvii: è tempo di cambiare passo, dentro e fuori le mura. Ieri nell’intervista al Dubbio il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha ribadito la sua richiesta di provvedimenti urgenti per “restituire dignità” a chi sconta la pena dietro le sbarre. Nel raccontare il lungo trascorso da avvocato, La Russa sottolinea come le misure deflattive non vadano lette come un “regalo” ai detenuti, ma come un modo per alleggerire subito la pressione sulle carceri. L’interlocuzione con il deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, e con Rita Bernardini di Nessuno tocchi Caino ha contribuito ad accelerare la riflessione di molti: “Se le celle restano affollate come ha denunciato più volte il Garante, tutte le attività diventano fasulle: sei persone in uno spazio pensato per due o tre, e ogni sforzo educativo finisce nel vuoto”. Non c’è fronzolo nelle sue parole: un invito rivolto a chi dovrà votare in Aula, ma anche a chi governa in silenzio, affinché non resti tutto su carta. Inchiostro che si mescola al sudore di chi vive la condizione carceraria: la proposta deflattiva può far storcere il naso a una parte consistente della maggioranza parlamentare e al Movimento Cinque Stelle, ma ogni detenuto che può fare a meno del carcere è una conquista di civiltà. E, proprio per usare le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, bisogna anteporre gli interessi di partito a quelli del Paese. Sovraffollamento carceri, dopo i decreti Caivano e Sicurezza situazione “intollerabile” Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2025 L’appello di Gatta (Professori di diritto penale), Parodi (Anm) e Petrelli (Camere penali): la politica batta un colpo. Il 30 aprile scorso i detenuti erano 62.445, a fronte dei teorici 51.292 posti disponibili. “Il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto livelli intollerabili. Il 30 aprile scorso i detenuti erano 62.445, a fronte dei teorici 51.292 posti disponibili. Vi sono dunque almeno 11.153 persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare”. È quanto scrivono, in una “lettera aperta”, Gian Luigi Gatta, presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, Cesare Parodi, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle camere penali italiane. “Dopo le misure emergenziali adottate durante la pandemia, il numero dei detenuti è cresciuto in modo considerevole. Nel 2020 erano infatti 53.363, cioè 9.000 in meno rispetto ad oggi. Continui interventi con i quali sono stati introdotti nuovi reati e nuove ostatività o aumentate le pene, come nel caso del Dl sicurezza o del Dl Caivano, promettono di aumentare l’entità del sovraffollamento - si sottolinea - Il Dl Caivano ha consentito la custodia cautelare in carcere per lo spaccio di lieve entità e ha introdotto preclusioni all’accesso alla messa alla prova per i minorenni. Il numero dei minori negli istituti loro dedicati (Ipm) è aumentato di oltre il 50% dal 2023 a oggi: erano 385 il 15 maggio 2023 e sono saliti a 600 due anni dopo, mettendo in crisi l’intero sistema della giustizia minorile”. “Come ha rilevato anche il Garante nazionale dei detenuti, vi è una correlazione tra il sovraffollamento e il numero record dei suicidi in carcere che si è registrato nel 2024, quando sono stati 91. Quest’anno sono già 34 e l’estate, periodo critico, è oramai alle porte. Per questo sono necessarie e non più differibili misure volte a ridurre il numero dei reclusi e a porre fine alla violazione dei diritti fondamentali dei detenuti, in quanto naturalmente i diritti umani vanno tutelati senza distinzione alcuna”. Le soluzioni tecniche “esistono o comunque possono essere studiate: sta alla politica individuarle, se vorrà, con l’aiuto dell’accademia, dell’avvocatura e della magistratura”. La soluzione al sovraffollamento “oltre che nella riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere - concludono Gatta, Parodi e Petrelli - deve mirare anche ad allargare il canale di uscita anticipata dal carcere per quanti hanno intrapreso con successo un percorso di rieducazione. Basti pensare che sono circa 8.000 i detenuti con pena residua non superiore a un anno. Quale che sia il rimedio, sul carcere bisogna intervenire subito”. *** L’appello firmato dal presidente dell’Anm, Cesare Parodi, da Gian Luigi Gatta, presidente dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale e da Francesco Petrelli, presidente dell’Unione delle Camere penali italiane. “Il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto livelli intollerabili. Il 30 aprile scorso i detenuti erano 62.445, a fronte dei teorici 51.292 posti disponibili. Vi sono dunque almeno 11.153 persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare. È un problema che periodicamente si manifesta in modo critico. Dopo le misure emergenziali adottate durante la pandemia, il numero dei detenuti è cresciuto in modo considerevole. Nel 2020 erano infatti 53.363, cioè 9.000 in meno rispetto ad oggi. Continui interventi con i quali sono stati introdotti nuovi reati e nuove ostatività o aumentate le pene, come nel caso del d.l. sicurezza o del d.l. Caivano, promettono di aumentare l’entità del sovraffollamento. Il d.l. Caivano ha consentito la custodia cautelare in carcere per lo spaccio di lieve entità e ha introdotto preclusioni all’accesso alla messa alla prova per i minorenni. Il numero dei minori negli istituti loro dedicati (IPM) è aumentato di oltre il 50% dal 2023 ad oggi: erano 385 il 15 maggio 2023, prima del d.l. Caivano, e sono saliti a 600 due anni dopo, mettendo in crisi l’intero sistema della giustizia minorile. Anche per questo è preoccupante il continuo ricorso allo strumento penale come farmaco per curare i più diversi mali e fenomeni di disagio sociale, che dovrebbero trovare altrove adeguati strumenti di intervento. Il carcere non ha un effetto taumaturgico. Tanto più che le condizioni di sovraffollamento: a) incidono negativamente sulla capacità della pena di adempiere al suo fine costituzionale, cioè la rieducazione, riducendo la recidiva; b) gravano anche su quanti, da presunti innocenti, si trovano in carcere in custodia cautelare; c) compromettono la sicurezza all’interno degli istituti; d) complicano il lavoro degli educatori; e) pregiudicano l’assistenza sanitaria e psicologica impedendo agli operatori di intercettare le situazioni di disagio e di fragilità. Come ha rilevato anche il Garante nazionale dei detenuti, vi è una correlazione tra il sovraffollamento e il numero record dei suicidi in carcere che si è registrato nel 2024, quando sono stati 91. Quest’anno sono già 34 e l’estate, periodo critico, è oramai alle porte. Per questo sono necessarie e non più differibili misure volte a ridurre il numero dei reclusi e a porre fine alla violazione dei diritti fondamentali dei detenuti, in quanto naturalmente i diritti umani vanno tutelati senza distinzione alcuna. Lo impongono la Costituzione e la civiltà del nostro Paese, che è esposto a livello internazionale a imbarazzanti giudizi: l’Olanda ha di recente rifiutato di consegnare all’Italia un sospetto omicida ritenendo le nostre carceri inadeguate a causa del sovraffollamento e del numero di suicidi. Se da un lato si è tutti d’accordo nel ritenere necessario un intervento che incida sul sistema penitenziario nel suo complesso, deve, tuttavia, prendersi atto che riforme strutturali devono inevitabilmente accompagnarsi ad interventi urgenti di decompressione capaci di restituire ai detenuti una condizione di dignità e di umanità compatibile con la funzione costituzionale della pena. Le soluzioni tecniche esistono o comunque possono essere studiate: sta alla politica individuarle, se vorrà, con l’aiuto dell’accademia, dell’avvocatura e della magistratura. La storia del nostro Paese insegna come, di fronte ad emergenze come quella in atto, la volontà politica può formarsi anche in modo trasversale. La soluzione al sovraffollamento carcerario non può d’altra parte risiedere solo nell’aumento dei posti in carcere. Basti pensare che nell’ultimo anno i detenuti sono cresciuti di quasi 1.200 unità e che la capienza media di un carcere è di 300 posti: solo per non aggravare il sovraffollamento occorrerebbe aprire circa 4 nuovi penitenziari all’anno. Si rischierebbe poi una mass-incarceration e si spenderebbero ingenti risorse pubbliche che potrebbero essere con maggior frutto destinate: a) all’ammodernamento delle strutture esistenti; b) all’assunzione di personale (educatori, medici, psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali) che lavori in carcere e negli uffici di esecuzione penale esterna; c) a colmare i vuoti di organico del personale amministrativo degli uffici giudiziari di sorveglianza; d) ad aumentare il numero dei magistrati di sorveglianza (sono poco più di 200); e) a finanziare il reclutamento di addetti all’ufficio per il processo negli uffici di sorveglianza; f) a incrementare le risorse per l’assistenza legale per i non abbienti. Risorse sono necessarie anche per fronteggiare un’altra emergenza; quella degli oltre 90.000 liberi sospesi, cioè condannati definitivi a pene fino ai 4 anni che attendono per anni in stato di libertà la decisione sulla richiesta di una misura alternativa. La soluzione al sovraffollamento oltre che nella riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere, deve mirare anche ad allargare il canale di uscita anticipata dal carcere per quanti hanno intrapreso con successo un percorso di rieducazione. Basti pensare che sono circa 8.000 i detenuti con pena residua non superiore a un anno”. Politiche green, un’opportunità per le carceri disastrate di Francesco Zironi* L’Unità, 7 giugno 2025 La quarta revisione della Direttiva Europea per l’Efficienza Energetica degli Edifici (EPBD4) introduce un percorso a tappe che metterà alla prova l’Italia e le sue amministrazioni. Un percorso virtuoso, quello stabilito a livello europeo, con l’obiettivo ultimo di avere unicamente edifici a zero emissioni - i cosiddetti ZEmB, edifici con un bassissimo consumo energetico, termicamente isolati, altamente efficienti e in grado di produrre pochissime emissioni di anidride carbonica durante il loro ciclo di vita. Come per tutte le normative sono prescritti obblighi, standard minimi e risultati da raggiungere sia sugli edifici privati che per quelli pubblici. Entro la fine dell’anno, infatti, il Governo dovrà presentare alla Commissione Europea il suo Piano Nazionale di Ristrutturazione, stabilendo gli obiettivi nazionali e le modalità con cui raggiungere i traguardi prefissati al 2030, 2040 e infine al 2050. Per raggiungere questi obiettivi - il cui fine ultimo è la completa decarbonizzazione dell’edilizia - sarà fondamentale includere nel piano di efficientamento anche le strutture penitenziarie nazionali, che rientrano infatti tra gli edifici pubblici. I 189 istituti di pena presenti in Italia, pari a circa 3 milioni di metri quadri (dati Strepin) sono, infatti, per la maggior parte costituiti da edifici antecedenti agli anni ‘90 e l’80% di questi appartiene alle più basse classi energetiche. Tra i primi step cui dovremo conformarci vi sarà l’obbligo all’installazione di pannelli solari sulle strutture pubbliche esistenti: inizialmente a partire dal 2027 per tutti gli edifici sopra i 2.000 mq e poi nel 2028 per tutti gli edifici pubblici sopra i 750 mq di superficie coperta. Qualunque sarà la strategia adottata dal Governo, entro il 2030 (tra soli cinque anni) scatterà la prima soglia di efficientamento energetico a livello comunitario: almeno il 16% degli edifici dovrà rispettare le prestazioni energetiche minime precedentemente stabilite a livello comunitario. Nel 2033, solo tre anni dopo, questa soglia dovrà riguardare una platea più ampia di immobili, il 26% degli edifici non residenziali. Per centrare questi importanti obiettivi sarà necessaria una attenta pianificazione e trovare anche ingenti risorse oltre a non mancare quanto deciso attraverso il Piano Nazionale di Ristrutturazione. Ci si augura che il Governo decida di non derogare agli impegni di efficientamento rispetto alle strutture penitenziarie; gli obblighi europei vanno visti come una importante opportunità di aggiornamento degli edifici antiquati e di programmazione per la realizzazione di nuove e più efficienti strutture. Un approccio virtuoso comporterebbe meno costi di gestione a carico della collettività sul medio-lungo periodo e contestualmente affronterebbe anche l’ormai cronico problema di sovraffollamento e vetustà delle strutture carcerarie. Molte di queste strutture hanno infatti urgenti e ormai improrogabili necessità di manutenzione e adeguamento; ci pare quindi più che opportuno sfruttare i prossimi inderogabili impegni di efficientamento energetico, anche per il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, nonché di sicurezza e riorganizzazione di queste strutture. Tra l’altro sapienti interventi di recupero edilizio ed efficientamento possono avere riflessi positivi anche sulle vicine aree urbane; è risaputo infatti che la trasformazione in tetti verdi delle coperture favorisce il raffrescamento estivo delle città attraverso la riduzione del fenomeno “isola di calore urbano”. Esiste a questo proposito un caso felice di realizzazione alla Casa Circondariale femminile di Rebibbia, dove nel 2021 è stato realizzato un tetto giardino di 150 mq con la partecipazione del lavoro delle detenute che si occupano inoltre della sua manutenzione e cura. Interventi come questo, oltre a favorire l’acquisizione di nuove competenze alle persone che vivono l’esperienza carceraria, consentono un miglioramento dell’efficientamento energetico degli edifici. Il miglioramento delle strutture penitenziarie non deve essere percepito come un costo, ma come un investimento strategico per la collettività, e l’adozione di soluzioni verdi, come a Rebibbia, non solo riduce le spese e prolunga la vita utile degli edifici, ma contribuisce anche al miglioramento della qualità dell’aria e al benessere psicologico di detenuti e operatori. Un’opportunità che va oltre l’efficienza energetica per le strutture carcerarie: un passo concreto verso una vera riabilitazione sociale. *Architetto Il carcere di Cremona è ancora pensato per mafiosi e terroristi di Cesare Burdese* L’Unità, 7 giugno 2025 Lo scorso 23 maggio, davanti al Duomo di Santa Maria Assunta a Cremona, mettevo ordine nella mia mente, reduce dalla visita di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale alla Casa circondariale. Quell’architettura mi parlava mirabilmente, attraverso le sue stratificazioni stilistiche, dell’evoluzione storica, culturale e artistica di una società nella città, ciascuna testimone di valori e di principi del suo momento. Anche il carcere da poco visitato mi è parso come un libro, le cui pagine di cemento raccontano della sua storia, architettonicamente ferma però al periodo dell’emergenza terroristica e mafiosa in Italia, nel quale fu costruito. Esso, in forza di quell’emergenza, è stato concepito per garantire la massima sicurezza e l’isolamento al suo interno e verso l’esterno, e così è stato per tutti i restanti carceri attualmente in uso in Italia. Il suo posizionamento, in prossimità dello snodo autostradale, all’estrema periferia della città, lo rende un fatto estraneo alla collettività, poco connesso con la realtà socio economica del territorio. Al suo interno esiste una falegnameria condotta dai detenuti ma che non ha commesse esterne. Dalla sua alta cinta muraria svettano spettrali gli edifici delle celle, da dove, ai piani più in alto, si intravede il Torrazzo, unico legame visivo con il nucleo urbano. La struttura è suddivisa in un padiglione vecchio, costruito negli anni ‘80 e aperto nel 1992 e una struttura nuova aperta nel 2013. Nonostante minime modifiche strutturali per sopravvenute nuove esigenze normative e l’ampliamento del 2013, nulla in quei muri traspare dei progressi che nel frattempo erano stati fatti in ambito architettonico penitenziario in altri Paesi, con lo scopo di umanizzare e dare dignità al carcere. Tramontato il periodo emergenziale, il requisito della sicurezza ha continuato a prevalere a discapito della qualità ambientale e delle finalità risocializzative. Il carcere di Cremona, come tutti gli altri, per come è costruito è un luogo di mortificazione dei bisogni fisiologici, psicologici e relazionali dei suoi utilizzatori e di ozio forzato, a discapito di una esecuzione penale secondo Costituzione e di una condizione lavorativa decorosa per gli operatori penitenziari tutti. A questo si aggiungono il degrado generalizzato degli ambienti detentivi, frutto di scarsa manutenzione nel tempo e il sovraffollamento che, tra il resto, limita e penalizza le attività trattamentali, insieme al sotto organico degli agenti, categoria da anni in “crisi di vocazione” e degli educatori. Le celle complessivamente fatiscenti, sono dotate di servizio igienico con doccia e acqua calda solo nella parte più recente; in molte l’impianto idrico è mal funzionante e gli armadietti per riporre gli indumenti e gli effetti personali scarseggiano e sono malandati. I panni lavati vengono stesi ad asciugare in cella. Il locale di ciascuna sezione detentiva, pomposamente denominato “saletta per la socialità”, dove presente, altro non è che una stanza disadorna, male illuminata e areata e priva di un arredo funzionale. I cortili cellulari, utilizzati per un massimo di quattro ore al giorno dai detenuti, sono luoghi angusti e inospitali, dove qualsiasi vista e visuale libera ed elemento vegetale sono assenti. Molte delle stanze, dove i detenuti svolgono i colloqui con i loro famigliari in totale mancanza di privacy, non hanno finestre alle pareti ma solo un lucernario a soffitto, protetto da pesanti inferriate. Complessivamente la quotidianità detentiva e lavorativa degli utenti di quella struttura si svolge al chiuso, in ambienti labirintici e illuminati artificialmente, senza poter vedere agevolmente fuori, con grave danno per tutti della capacità visiva. Nell’arco di vita del complesso, le minime migliorie introdotte non hanno sostanzialmente scalfito una condizione materiale anacronistica e contraddittoria, ancorché disumana e degradante. A Cremona, e non solo lì, i muri del carcere continuano a parlare di un carcere afflittivo, ignari di una pena riformata che celebra fra breve il suo cinquantesimo anniversario. Peraltro all’orizzonte non si intravede alcuna concreta possibilità di cambiamento, né di miglioramento. Al contrario, gli ultimi provvedimenti di natura architettonica adottati per fronteggiare il sovraffollamento configurano scenari ancora più critici, fondati sull’idea di una esecuzione penale tutta risolta all’interno di recinti carcerari esistenti. Le edificazioni programmate dal nuovo piano carceri consistenti in moduli prefabbricati con annessi cortiletti in cemento privi di verde e con arredi avvitati a pavimento, in carceri già al collasso, non lasciano ben sperare. Il 25 luglio prossimo venturo, saranno trascorsi cinquant’anni dal varo della Riforma dell’Ordinamento penitenziario, rimasta al palo, tanto nella sua esecuzione quanto nell’aggiornamento delle strutture detentive. *Architetto Dai minori alla tutela dei diritti dei detenuti, tutti i dubbi sulla nuova Legge Sicurezza di Mario Serio* Corriere della Sera, 7 giugno 2025 Nel parere fornito al Parlamento “erano già state espresse alcune correzione necessarie a garantire chi si trova privato della propria libertà”. La recente, contrastata approvazione parlamentare del cosiddetto decreto sicurezza, che racchiude numerose disposizioni applicabili alle persone private della libertà, ad esempio nelle carceri o nei centri di permanenza per il rimpatrio, è stata preceduta da un diffuso dibattito, di natura tecnico-giuridica, oltre che ovviamente politica. Anche il Garante nazionale delle persone private della libertà ha doverosamente fornito, in coerenza con le proprie attribuzioni di derivazione normativa, il proprio contributo alla discussione fornendo un parere ai rami del Parlamento sui temi direttamente incidenti sulle condizioni materiali e giuridiche delle persone private della libertà. In particolare, nello scorso mese di maggio il Garante è intervenuto integrando il parere precedentemente reso, nell’estate del 2024, allorché era stato depositato in Parlamento un disegno di legge governativo contenente alcune delle disposizioni poi trasfuse nel successivo decreto legge. Il parere da ultimo trasmesso al Parlamento, e pubblicato sul sito del Garante, prende espressamente in considerazione quelle previsioni, concepite con lo strumento della decretazione d’urgenza (a fronte di una prima versione elaborata in via ordinaria), che maggiormente si prestavano ad un analitico esame. Può essere utile riassumere per esigenze di trasparenza in breve alcuni dei passaggi del parere del Garante. Quanto alla norma che modifica il regime detentivo delle detenute madri in relazione a determinate condotte quali la compromissione dell’ordine e della sicurezza pubblica, il Garante non ha potuto far a meno di osservare che, nella formulazione legislativa, tali condotte si presentano largamente indeterminate. Da qui la raccomandazione alla necessaria precisazione dell’oggetto di tali condotte, insieme alla considerazione che gli istituti a custodia attenuata per le detenute madri, ad esse destinati, sovente si rivelano una soluzione non adeguata a garantire l’interesse superiore del minore. In relazione alla norma che prescrive la registrazione visiva delle operazioni di polizia, norma dettata da evidenti ragioni di trasparenza, il Garante ha fatto presente che vanno adeguatamente ponderati, in omaggio al precetto dell’articolo 8 Cedu, che tutela il diritto alla vita privata e familiare, taluni aspetti della vita intima di chi è privato della libertà. Sempre il parere si sofferma poi sulla nuova ipotesi incriminatrice delle condotte di resistenza all’esecuzione di ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza. Il Garante ha a tal proposito segnalato, al pari di qualificati contributi dottrinari, l’indeterminatezza del precetto penale e con ciò la fragilità strutturale della norma. Non minori perplessità suscita, secondo il Garante, l’inserimento della norma in questione tra le figure criminose ostative alla concessione di benefici penitenziari, malgrado la sua indeterminatezza. Ed ancora, in relazione alla nuova norma incriminatrice avente ad oggetto le condotte di rivolta mediante, atti di violenza, minaccia o resistenza, commessi anche nei Cpr, il Garante, nel ribadire le perplessità già espresse nel parere del luglio 2024 riguardo all’introduzione di figure di reato concernenti condotte già punite, rileva che la punizione della resistenza passiva soggiace ad un’ontologica indeterminatezza. È stato posto in rilievo nel parere che l’individuazione degli ordini non rispettati nei Cpr, dove non possono operare forze di polizia, appare specialmente problematica. Di speciale rilievo è, infine, la constatazione che l’incriminazione ulteriore della resistenza passiva esibisce profili di frizione con l’articolo 21 della Costituzione in materia di tutela della libertà di manifestazione del pensiero e con l’articolo 17 della stessa che garantisce il diritto di riunione. Queste considerazioni, riportate in via riassuntiva, rappresentano la meditata posizione collegialmente assunta dal Garante in merito ad un complesso di disposizioni la cui capacità di resistere alle perplessità, ai dubbi ed alle preoccupazioni circolanti anche nel parere deve auspicabilmente associarsi al mantenimento, e non alla temuta riduzione, degli spazi di tutela finora assicurati legislativamente alle persone private della libertà. *Componente Ufficio Garante nazionale dei detenuti E se la Consulta boccia il Dl sicurezza? Fa nulla, sono norme usa e getta di Errico Novi Il Dubbio, 7 giugno 2025 Si cercano consensi immediati, anche se tutto rischia di svanire in fretta. Salvini: “Castrazione chimica subito!”. Al momento nessuno sembra preoccuparsi. Da giorni la maggioranza è impegnata a incassare il “dividendo”, cioè il vantaggio che il decreto sicurezza dovrebbe assicurare in termini di consenso. Ancora ieri Matteo Salvini ha proclamato che la Lega si batte affinché “la castrazione chimica per stupratori e pedofili sia legge”, e ha sollecitato gli alleati a concretizzare la “promessa” evocata, per ora, solo da un ordine del giorno collegato al Dl. Giorgia Meloni ha maramaldeggiato con qualche gaffe degli oppositori: “L’accusa di alcuni giornalisti di sinistra contro il decreto: ‘Questo governo vuole criminalizzare chi delinque’. Confermo”. Solo Forza Italia è rimasta un po’ in disparte, consapevole che quella sequenza di norme ultrarestrittive - in qualche caso assurde e incostituzionali “anche” nel merito - è uno smacco, per l’anima moderata del centrodestra. Fatto sta che nessuno, né i meloniani né i salviniani né tantomeno i berlusconiani, ha dato il benché minimo segno di allarme sul rischio che un così brulicante armamentario repressivo finisca spazzato via in un colpo solo dalla Consulta. Sul Dubbio ne avevamo discusso, mercoledì, con Mario Esposito, costituzionalista all’Università del Salento. Abbiamo chiesto un parere anche a Sandro Staiano, che oltre a essere ordinario presso la Federico II di Napoli, è stato presidente dell’Associazione che riunisce i costituzionalisti di tutta Italia: “Potrebbero ricorrere i requisiti costituzionalmente necessari per l’emanazione di decreti legge se fossimo davvero di fronte a un’emergenza. Ma sappiamo bene che, in materia di ordine pubblico, non si parla di emergenza. A meno che non si inventi il concetto di emergenza stabilizzata, ma si tratta di un ossimoro giuridicamente insostenibile. Quindi i requisiti indicati dall’articolo 77 non ci sono. Quella relativa all’ordine pubblico non è un’emergenza, è una disfunzione. Stabilizzata, appunto. Nulla che coincida con i presupposti sanciti dalla nostra Carta”. Insomma, il decreto sicurezza è costituzionalmente illegittimo. E lo è, chiarisce Staiano, “anche perché non è che la legge di conversione, per il solo fatto di essere discussa dal Parlamento, sia in grado di sanare quel vizio: il difetto di legittimità si trascina dal decreto legge al provvedimento di conversione approvato dalle due Camere. È banalmente cosi”. Staiano è molto netto. E conferma dunque la valutazione del collega in servizio presso l’ateneo leccese. Il decreto sicurezza rischia di essere invalidato, di qui a un anno o anche meno, dalla Corte costituzionale. Fatica inutile. Fatica sprecata. E oltretutto, censura che si poteva evitare. Le stesse norme che martedì il Senato ha definitivamente convertito in legge erano - come ormai sanno anche le pietre disseminate attorno a Montecitorio e Palazzo Madama - già state approvate, sotto forma di ddl, nel settembre 2024 dalla Camera dei deputati. Poi, alle soglie della discussone nell’aula del Senato, era arrivato il colpo di scena. Il centrodestra si era persuaso della necessità di emendare il testo, anche per accogliere alcune sollecitazioni del Colle. Ma le correzioni che hanno reso meno sgangherato il provvedimento non sono state inserite sotto forma di emendamenti al disegno di legge: il governo ha preferito prendere il testo integrato dalle poche modifiche e trapiantarlo pari pari, lo scorso 4 aprile, in un decreto legge, appunto. Ha però così certificato che non si trattava di norme di straordinaria “necessità e urgenza”: erano in gran parte identiche, quelle misure, a quanto riportato nel famigerato ddl che lo stesso governo aveva presentato alla Camera nel gennaio 2024. Come potrebbero essere “urgentissime” norme che l’Esecutivo aveva tranquillamente affidato, quasi un anno e mezzo prima, a una procedura normale, con la prospettiva di attendere parecchi mesi prima di vederle entrare in vigore? A rilanciare la domanda, retorica, è stato, lunedì scorso, il Fatto quotidiano. Esposito e Staiano, interpellati dal Dubbio, chiariscono a loro volta che “necessità e urgenza” devono riguardare, per la Costituzione, casi straordinari, e ora non si è affatto davanti a uno “straordinario imprevisto”: si tratta di una “disfunzione consolidata”, come dice il costituzionalista della Federico II. Che aggiunge: “L’abuso del decreto legge è fenomeno lungo quanto la storia della Repubblica, sotto governi di ogni colore. La Corte costituzionale, per una breve stagione, lo ha contrastato, per poi ripiegare di fronte al suo riproporsi in forme nuove e più gravi, come quando il decreto legge disarticola discipline organiche, quali i codici penale e di procedura penale, istituendo numerose nuove fattispecie di punibilità. Resta da vedere che farà la Consulta di fronte alle ulteriori distorsioni”. E il giudice delle leggi potrebbe non fargliela passare, a Esecutivo e maggioranza. Il pericolo è evidente. Ma a nessuno importa. Paradossalmente, persino le opposizioni sono concentrate piuttosto sull’evocazione della “svolta autoritaria” (copyright Francesco Boccia) anziché sull’illegittimità del decreto e sulla possibile decadenza delle nuove norme. Ora, se pensiamo che si tratta in gran parte di norme- spot, di reati modellati spesso su martellanti campagne televisive (come quella relativa ai “ladri di case”) o sulle aspettative di segmenti molto specifici dell’elettorato (a cominciare dalle forze dell’ordine), se insomma si può parlare di potere legislativo impiegato quasi esclusivamente per esigenze di consenso (e va così da lustri, e certo non solo con la destra al governo) qui siamo però a una versione “10.0” del populismo penale, del Parlamento che si riduce a sfornare reclame: siamo alla legge- spot “usa e getta”. L’intero decreto, fra un anno, potrebbe essere soppresso dalla Consulta, ma fa nulla. Basta aver ottenuto una pur effimera impennata di consensi tra i settori più “spaventati” dell’elettorato. E pazienza se poi quelle norme saranno bocciate. Se ne approveranno altre, magari in tempo per la campagna elettorale del 2027. Una degradazione del legislativo a fast food, a tipografia che sforna manifesti, insomma. Certo, se poi qualcuno si sorprendesse ancora per il crollo al 21,1% della fiducia nei partiti, segnalato dall’ultimo Rapporto Eurispes, la tentazione di rispondere col turpiloquio sarebbe fortissima. “L’opposizione al dl Sicurezza ha fatto bene al campo largo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 giugno 2025 Intervista a Giuseppe De Cristofaro, capogruppo Avs. Il decreto Sicurezza è legge. E colpisce, come anche voi di Alleanza Verdi e Sinistra avete ribadito più volte, tante libertà diverse, tanti pezzi di società diversi. Senatore Giuseppe De Cristofaro, in che modo il governo ne giova politicamente? Fd’I sostiene che per la prima volta nel nostro Paese finalmente vengono colpiti scippatori, borseggiatori e criminali. Come se in Italia fossimo in una condizione da far west, o come se non esistessero già leggi che contrastano la criminalità, e perfino alcuni dei reati da loro indicati. È una gigantesca operazione di mistificazione. Naturalmente parlano a quella parte del Paese sensibile a questi argomenti, ma tutte le statistiche attestano che l’Italia è diventato un Paese molto più sicuro di quanto non lo fosse negli ultimi decenni. Per esempio il numero di omicidi, il reato più grave, è in netta diminuzione. Così, mentre usano il pugno duro verso le marginalità e i dissidenti, sono completamente proni e pavidi verso i potenti. Usano due pesi e due misure. Eppure sembra che le destre non perdano consenso, anzi. Perché? Sfruttano una narrazione che viene da lontano: questo governo, pur operando un consueto salto di qualità, nelle politiche repressive approfitta di un cedimento culturale a cui hanno contribuito anche i governi passati. Se si accetta che l’unica declinazione del termine sicurezza sia quella panpenalista, non possiamo stupirci se una legge totalmente repressiva possa ottenere consenso. E per contrastare la criminalità, che pure è un tema? Sono un cittadino napoletano e non posso non vedere che nel corso degli anni la microcriminalità è aumentata. Soprattutto però in quei quartieri dove c’è un insediamento sociale molto meno forte di prima, dove i partiti sono molto più deboli, c’è molto meno lavoro di prima ed è venuta meno la solidarietà sociale. Non sono questioni scollegate perché è in questo contesto che la camorra e la microcriminalità trovano spazio. Una società con più diritti e più inclusione è anche più sicura. Potremmo aggiungere, tra i problemi, anche il proibizionismo, per esempio. Ma, come lei diceva, ci sono fasce di popolazione più permeabili alla falsa narrazione dell’emergenza criminalità. Come rispondere a queste esigenze, più o meno indotte? Certo, penso che se ci fosse una totale legalizzazione delle droghe leggere si toglierebbero alla criminalità anche questi strumenti solidissimi di accumulazione. Per il resto, sperimento ogni giorno sulla mia pelle che, per esempio, le strade sono sicure solo se sono vive, se c’è socialità, non bastano le luci accese. Cosa pensa del reato di femminicidio? Si tratta di un reato odioso, gravissimo. E però allo stesso modo penso che la violenza dell’uomo sulla donna e nei rapporti affettivi si combatte non solo con gli strumenti repressivi. E invece, da molto tempo in Senato giace il ddl che ho depositato sull’educazione sentimentale nelle scuole: non è stato neppure calendarizzato. Si riesce ancora a fare opposizione in un Parlamento sempre più esautorato dalle sue funzioni? Lo abbiamo fatto con il ddl, tenendolo bloccato per più di un anno e mezzo. Io stesso ho presentato circa mille emendamenti. Poi il governo ha deciso di trasformarlo in decreto proprio ad un passo dalla conclusione dell’iter, probabilmente per sanare le divergenze interne alla maggioranza. Ma devo dire che in questo tempo abbiamo fatto un passo avanti come opposizione, perché abbiamo agito uniti nel campo largo, compresi quelli che negli anni passati in materia di sicurezza avevano inseguito le destre. Detto questo, onestamente bisogna riconoscere che avere modificato negli anni i regolamenti parlamentari, aver privilegiato l’iniziativa del governo e tolta la centralità del Parlamento, ha portato a rendere più difficile nella quotidianità fare opposizione parlamentare. Tagliole, canguri, contingentamento dei tempi, sono tutti strumenti che prima non esistevano a disposizione della maggioranza. Hanno reso molto più difficile l’ostruzionismo, rappresentato come un’azione negativa, perché ci si è convinti negli ultimi 25 anni che non bisogna disturbare il manovratore, nel mito della governabilità. Ci vorrà tempo per contrastare queste derive, ma credo che sia un buon punto di partenza provare a costruire un’alternativa tra le forze che oggi hanno fatto opposizione al decreto sicurezza. Sono certo che ora sarà più facile di prima. Da Prato a Foggia: il sogno dei partiti è creare nuove procure antimafia per qualche voto in più di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 giugno 2025 L’istituzione della Direzione distrettuale antimafia si è trasformata in un trofeo sognato dai partiti per guadagnare consenso sul territorio, a discapito del modello concepito da Giovanni Falcone. C’è chi ne chiede l’istituzione a Foggia (Movimento 5 stelle), chi a Verona (tutte le forze politiche, Lega in testa), chi a Latina e a Prato (Fratelli d’Italia), chi in Emilia-Romagna (Partito democratico): tutti vogliono una Direzione distrettuale antimafia. Da struttura concepita per consentire alla magistratura di combattere le associazioni mafiose, la Dda si è trasformata in un trofeo sognato dai partiti per guadagnare consenso sul territorio, senza tenere conto delle conseguenze che scelte del genere avrebbero sull’effettivo contrasto alla mafia. Ma partiamo dall’inizio. In Italia le Direzioni distrettuali antimafia sono ventisei, istituite nel capoluogo del distretto di Corte d’appello. Le Dda costituiscono delle sezioni delle procure con competenza esclusiva sulle indagini di mafia e, dal 2015, anche terrorismo. A livello nazionale sono coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, attualmente guidata da Giovanni Melillo. Il sistema della Direzione nazionale e delle Direzioni distrettuali rappresenta la concretizzazione di una delle principali idee di Giovanni Falcone. L’idea, cioè, che per combattere in maniera più efficace le mafie (e il terrorismo) occorrano strutture investigative altamente specializzate, che siano connesse fra loro e condividano reciprocamente le informazioni raccolte, sotto il coordinamento di una struttura centrale come la Dna. Le sedi delle Dda sono appositamente poche (ventisei), proprio perché la loro ragion d’essere è quella di ospitare un pool di magistrati altamente specializzati e consentire un coordinamento tra loro. In breve, più sono le Dda e più c’è il rischio di avere strutture investigative inefficienti (sul piano delle risorse umane ed economiche) e anche di disperdere il patrimonio conoscitivo acquisito con le indagini. Si potrebbe discutere a lungo su quanto il modello immaginato da Falcone si sia effettivamente realizzato, ma non è questo il punto. Ciò che è certo è che negli ultimi anni, anche in virtù della narrazione portata avanti da certi partiti e media sulla presunta diffusione senza freni della mafia in Italia, tutti sognano una Direzione distrettuale antimafia. Da anni, per esempio, il Movimento 5 stelle propone l’istituzione a Foggia di una sezione distaccata della Dda di Bari, sostenendo che in questo modo la magistratura potrebbe contrastare meglio le associazioni mafiose attive nel foggiano. Nell’aprile 2024, invece, tutti e 98 i sindaci della provincia di Verona (dunque di colore politico trasversale) hanno inviato una lettera al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e a quello della Giustizia Carlo Nordio per chiedere che sia istituita a Verona una sezione distaccata della Direzione distrettuale antimafia di Venezia. Una proposta già avanzata nel 2020 dalla Lega direttamente in Parlamento. L’idea è stata bocciata lo scorso luglio in audizione in commissione Antimafia proprio dal procuratore di Venezia, Bruno Cherchi, poi andato in pensione: “Creare una procura distrettuale antimafia a Verona significa indebolire una già debolissima procura distrettuale di Venezia”, ha dichiarato Cherchi, secondo cui “non basta spostare un ufficio di 150 chilometri per migliorare il lavoro, ma bisognerebbe avere più risorse umane e tecnologiche per le indagini”. Nei giorni scorsi, il procuratore di Bologna, Marco Forte, ha lanciato un appello al governo volto a rafforzare gli organici e anche a istituire una seconda Corte d’appello, con relativa Direzione distrettuale antimafia. L’appello è stato subito colto al volo dal Pd, che con la sua responsabile Legalità, la senatrice Enza Rando, ha fatto sua e rilanciato la proposta del procuratore bolognese. Il partito di governo, Fratelli d’Italia, si è mosso nella stessa direzione, proponendo l’istituzione di una sezione distaccata della Dda sia a Latina sia a Prato. In quest’ultimo caso, la proposta è fortemente caldeggiata dal nuovo procuratore pratese, Luca Tescaroli, giunto dalla procura di Firenze dove ha indagato su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi mafiose del 1993-1994. L’idea di istituire un’altra Dda a Prato è parsa insensata persino a Nicola Gratteri. Oltre a dire che “basta la Dda di Firenze per indagare”, il procuratore di Napoli non ha potuto non sottolineare l’ovvio: “Più si parcellizzano gli uffici, più aumentano le spese e più è facile paralizzare l’azione dei magistrati. Soprattutto nei tribunali con pochi addetti”. Ma i partiti sembrano più interessati a usare l’antimafia per conquistare voti. Pisa. Donna di 40 anni trovata morta in cella: era in carcere da poche settimane Il Tirreno, 7 giugno 2025 Una detenuta di poco meno di 40 anni è stata trovata morta ieri mattina nella sua cella nel reparto femminile del carcere Don Bosco di Pisa. Il corpo senza vita dell’italiana è stato scoperto dagli agenti penitenziari durante il giro di controllo. Secondo quanto appreso, la donna era distesa nel letto e non dava segni di vita. Inutili i tentativi di soccorso non c’era ormai più nulla da fare. In base a una prima ricostruzione fornita, il decesso sarebbe avvenuto per un arresto cardiaco. Ma, per fare chiarezza, la procura ha disposto l’autopsia che sarà eseguita nei prossimi giorni all’Istituto di medicina legale di Pisa. Sempre nella giornata di ieri, nel reparto femminile della casa circondariale, sono stati effettuati controlli straordinari con l’impiego di unità cinofile antidroga. Ma, secondo il Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria (Sinappe), “al momento non risultano collegamenti diretti” con la morte della detenuta che si trovava al Don Bosco da poche settimane. La donna era difesa dall’avvocato Andrea Fulceri del Foro di Pisa, il quale l’aveva incontrata l’altro giorno per parlare dell’appello cautelare presentato dopo l’aggravamento della misura cautelare che l’aveva portata in carcere. Il sindacato: clima dentro al carcere teso - “Il clima all’interno del carcere appare teso - dicono dalla segreteria regionale del Sinappe Toscana -. Non mancano interrogativi sulla gestione notturna del reparto. Secondo quanto trapela, infatti, non è del tutto certo se nella fascia oraria notturna fossero effettivamente presenti entrambe le unità di polizia penitenziaria previste. Una circostanza che, se confermata, solleverebbe dubbi sull’organizzazione interna e sulla capacità della direzione di garantire un presidio adeguato anche nelle ore più delicate”. Dall’organizzazione sindacale che rappresenta gli agenti di polizia penitenziaria dicono di aver denunciato da tempo, le condizioni di lavoro al limite della sostenibilità per lo più determinate dalla cattiva gestione del personale. Restano al momento riservati sia il nome della vittima sia ulteriori dettagli sulla sua condizione giuridica e sanitaria. Si attendono sviluppi nei prossimi giorni, quando l’autopsia potrebbe fornire elementi chiave per ricostruire le ultime ore della donna e fare luce su una vicenda che, al momento, lascia più domande che risposte. Prato. Vendetta in carcere: olio bollente sull’uomo che ha confessato l’omicidio di due donne di Valentina Stella Il Dubbio, 7 giugno 2025 Il 32enne è stato aggredito da un detenuto dello stesso braccio, parente di una delle vittime. Il procuratore Tescaroli: mancano controlli. Via Arenula: giudizio affrettato. Vasile Frumuzache, 32 anni, accusato degli omicidi di due prostitute a Prato e Montecatini Terme, è stato aggredito questa mattina in carcere da un altro detenuto, un parente della donna scomparsa e uccisa nel 2024, Ana Maria Andrei. L’aggressione è stata fatta con olio bollente tirato sul volto del giovane uomo che due giorni fa ha confessato i due delitti. Frumuzache è stato ricoverato al pronto soccorso dell’ospedale in codice di urgenza giallo. Nel momento in cui scriviamo il detenuto in attesa di giudizio si trova ancora in ospedale, piantonato dai carabinieri. Avrebbe riportato ustioni di primo e secondo grado a una guancia e alla tempia, ma non sarebbero interessate le vie respiratorie. A rendere noto l’accaduto è stato un comunicato del procuratore della Repubblica del capoluogo toscano, Luca Tescaroli, che ha “aperto un procedimento penale al riguardo”. Secondo il magistrato “per la particolare rilevanza dei fatti e al fine di far conoscere la situazione di grave criticità in cui versa la struttura carceraria pratese, peraltro già segnalata a livello istituzionale, sussiste specifico interesse alla divulgazione” della nota. In effetti la casa circondariale della Dogaia, secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 31 maggio di quest’anno, ospita 622 detenuti a fronte di una capienza di 589, pari ad un sovraffollamento del 102 per cento. Inoltre a dirigere la struttura c’è una “reggente” e non un direttore titolare. Gli agenti penitenziari previsti sono 270 ma effettivi 246. Ci sono venticinque docce esterne per 299 camere di detenzione. Sette suicidi nel 2024, uno nel 2025. Insomma, la situazione è complessa sia per i detenuti che per i detenenti, come altresì denunciato dopo le visite compiute nella casa circondariale dalla presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini. In base a quanto riportato ancora nel comunicato dal procuratore Luca Tescaroli “l’autore” dell’aggressione “ha potuto agire indisturbato senza alcun controllo”. “Il fatto è di particolare gravità - commenta poi lo stesso Tescaroli -, perché ogni persona, anche se in ipotesi di gravi crimini, ha il preciso diritto di essere tutelata, trattata con umanità e rispettata come essere umano”. Al momento sono in corso gli accertamenti da parte della procura e della polizia penitenziaria per ricostruire accuratamente la dinamica dell’aggressione. A quanto appreso dall’Ansa Toscana, il procuratore Tescaroli avrebbe dato al penitenziario indicazione di massima sorveglianza per Vasile Frumuzache, assegnato alla sezione “Protetti promiscui”, che reclude detenuti a rischio per la loro incolumità per aver commesso particolari tipi di reati. La sua presenza però avrebbe scatenato la protesta degli altri romeni nella stessa sezione, che hanno rifiutato la sua detenzione in quel braccio. Allora Frumuzache sarebbe stato spostato in un altro reparto dove però vi era già detenuto, per altri fatti, il cugino di Ana Maria Andrei. Questo parente in un momento favorevole, senza controlli, avrebbe attaccato Frumuzache con l’olio bollente ustionandolo al volto. Comunque indiscrezioni delle ultime ore dalle parti del ministero della Giustizia fanno trapelare un certo disappunto per l’espressione usata dal procuratore Tescaroli per cui l’aggressore avrebbe agito indisturbato: “A poche ore dall’accaduto come si fa a trarre già un simile giudizio?”, ci si è domandato commentando le parole del procuratore. Sarebbe stato più comprensibile leggere una valutazione di questo tipo dopo due o tre giorni dai fatti. Quello che poi ci siamo chiesti è come sia potuto succedere che un parente di una delle due vittime si trovasse nello stesso braccio del reo confesso. È facile immaginare che a sole ventiquattro ore dall’entrata in carcere dell’omicida Vasile Frumuzache sia stato impossibile per l’amministrazione carceraria accorgersi del legame tra il detenuto aggressore e una delle due donne. Roma. Il dramma di Roberto, 77 anni, lasciato in cella senza cure di Gianni Alemanno* Il Dubbio, 7 giugno 2025 La lettera dal carcere: “Quale vendetta sociale si deve ancora compiere su questa persona, che fa fatica a camminare, che non ci vede e non ci sente, che rischia di morire in carcere e che ha già scontato quasi la metà delle sua pena?”. Oggi non parliamo di pentole e di coperchi, ma di cose molto più serie Perché è il 2 giugno, Festa della Repubblica e della Costituzione italiana, che all’art. 27 sancisce il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e il dovere di tendere alla rieducazione del condannato. E anche perché così sono stato redarguito (“abbiamo ben altri problemi!”) da una giovane affascinante psicologa, marcatamente de’ sinistra ma molto seria e rigorosa nel suo lavoro di sostegno ai detenuti. Oggi parliamo di Roberto C., 77 anni, che si sta spegnendo nel Reparto G8 per letà e la mancanza di cure. Non è il più vecchio del Braccio G8, è il quinto in ordine di età. Prima di lui ci sono Antonio R., 87 anni, su cui ci sarebbe molto da dire, ma su cui è meglio sorvolare, visto che sta aspettando la decisione sulla scarcerazione del Tribunale di sorveglianza. Poi c’è Santo B., 83 anni, ergastolano in carcere dal 2009, Mario F. che è appena entrato in carcere ad 81 anni (bella età per cominciare!) e Franco D, coetaneo di Roberto. Qui va subito notato che, salvo casi molto particolari, secondo la legge chi ha più di 70 anni dovrebbe scontare la sua detenzione agli arresi domiciliari. Ma torniamo a Roberto, questa persona minuta che si aggira stancamente nel mio Reparto, è stata arrestata nel 2019 per un reato di piccolo spaccio commesso nel 2016 e ha scontato quattro mesi di carcerazione preventiva a Regina Coeli (carcere ottocentesco, tanto bello architettonicamente quanto invivibile per chi ci capita dentro). Poi, dopo la condanna definitiva, è stato arrestato nuovamente 3 anni fa e deve ancora scontarne altri 4 (superando così la soglia degli ottant’anni). Già questo è folle, ma non è la cosa più folle. Il problema è che Roberto non sta affatto bene. Negli anni passati è stato due volte operato ai polmoni per asportare dei tumori e oggi il medico di reparto gli ha prescritto una Tac toracica per vedere come vanno le cose. Ha avuto anche un’ischemia al cervello. Le gambe si gonfiano, facendolo camminare a stento, e per questo motivo il medico di reparto gli ha anche prescritto un esame ecodoppler alle gambe. Infine, non ci vede bene (non ci sente neanche, ma questa solo l’età) perché ha le cateratte ad entrambi gli occhi e un problema alle cornee, che lo specialista del reparto medico di Rebibbia (il G14) gli ha prescritto di indagare con una “microscopia endoteniale corneale”. Tutti questi esami andrebbero svolti in strutture ospedaliere esterne al carcere, ma da mesi non si riescono ad organizzare, non per indisponibilità di queste strutture, ma per l’assenza di scorte della Penitenziaria che possano tradurre questa persona detenuta dove può essere esaminata e curata. La drammatica carenza di organico della Polizia Penitenziaria, a fronte del grave sovraffollamento carcerario, provoca anche queste situazioni inaccettabili. Roberto ha inoltrato due reclami all’Ufficio di sorveglianza di Roma, il primo il 18.03.2025 e il secondo il 29.04.2025, ma ancora oggi sta aspettando di essere portato a fare questi esami, non inventati da lui, ma prescritti dalle strutture sanitarie del carcere Come non è l’unica persona detenuta del Braccio G8 a rimanere in carcere oltre i 70 anni, Roberto non è neanche l’unico -anzi è in buona compagnia - ad avere gravi problemi di salute che, per un motivo o per l’altro, non si riescono a curare adeguatamente. Ora io mi domando: che ci sta a fare Roberto in Carcere? Quale vendetta sociale si deve ancora compiere su questa persona, che si fa fatica a camminare, che non ci vede e non ci sente, che rischia di morire in carcere e che ha già scontato quasi la metà della sua pena? Non potrebbe essere mandato almeno agli arresti domiciliari, per cercare di curarsi a casa? Qualcuno mi risponda, o meglio risponda ai reclami presentati da Roberto, per favore. *Ex sindaco di Roma, attualmente detenuto a Rebibbia Genova. Rivolta a Marassi, D’Elia: “Il carcere è imploso. Serve una riforma strutturale” Il Dubbio, 7 giugno 2025 Dopo l’aggressione ai danni di un diciottenne e la protesta dei detenuti, Nessuno Tocchi Caino denuncia: “Il 30% dei carcerati non dovrebbe stare in prigione, servono strutture di cura”. È ancora forte l’eco della violenta rivolta scoppiata mercoledì all’interno del carcere di Marassi, a Genova, dove un centinaio di detenuti ha devastato una sezione penitenziaria in segno di protesta per la brutale violenza sessuale subita da un diciottenne, abusato da quattro compagni di cella. L’episodio ha riportato all’attenzione pubblica le condizioni di sovraffollamento e degrado all’interno dell’istituto, che secondo il più recente report di Nessuno Tocchi Caino ha raggiunto punte del 130% di affollamento. Il segretario dell’associazione, Sergio D’Elia, ha tracciato un quadro drammatico: “Il sovraffollamento è la causa primaria dell’impossibilità di garantire sicurezza e ordine nei penitenziari, perché impedisce qualunque forma di trattamento rieducativo. In queste condizioni, la missione originaria del carcere si dissolve”. D’Elia non ha dubbi: “Un diciottenne non dovrebbe mai essere ristretto con detenuti adulti. Inoltre, almeno il 30% della popolazione carceraria italiana non dovrebbe stare in carcere, ma in centri di recupero per dipendenze, seguiti da psicologi e psichiatri. Ma questi luoghi non esistono o sono insufficienti”. La denuncia si estende anche alle gravi carenze nella gestione quotidiana: “Il carcere diventa un calderone indifferenziato, dove vengono mescolati detenuti senza alcuna distinzione per età, patologie o tipo di reato. Questo genera tensioni, violenze tra detenuti e persino contro gli agenti. È il fallimento strutturale del sistema penitenziario”. Durante le sue visite ispettive, D’Elia racconta di aver riscontrato situazioni simili non solo a Marassi ma in moltissimi altri istituti. “Il carcere è un luogo di privazione della libertà, ma è diventato anche di privazione della salute, della dignità e della sicurezza. Chi è più forte impone la propria legge, spesso con modalità di sfruttamento e schiavitù. Le carceri sono ormai centrali di spaccio: droghe, psicofarmaci, alcol, sigarette entrano in mille modi, dai pacchi ai visitatori, fino a chi lavora dentro”. I dati - I numeri, secondo l’associazione, sono impietosi: oltre 62 mila detenuti in Italia, ma “solo 5.000 sono davvero pericolosi per la società”. Gli altri, sostiene D’Elia, “andrebbero curati, non rinchiusi. Eppure, mentre si smantellano i centri di igiene mentale, si lascia tutto in mano alla Polizia penitenziaria, che non è formata per occuparsi di disturbi psichiatrici”. Il quadro tracciato è desolante anche dal punto di vista strutturale: “I penitenziari cadono letteralmente a pezzi, in condizioni igieniche e architettoniche fatiscenti. Non c’è rieducazione, non c’è recupero. Lo Stato ha rinunciato alla sua funzione riformatrice”. Una via d’uscita potrebbe arrivare dalla proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale in forma retroattiva, presentata da Roberto Giachetti (Italia Viva) e accolta con favore anche dal presidente del Senato Ignazio La Russa. “È una proposta di merito - spiega D’Elia - che premia chi si comporta bene. Una misura che mira a ridurre la popolazione carceraria senza svuotare le carceri a caso, ma valorizzando la buona condotta e responsabilizzando il detenuto”. Genova. Carcere di Marassi, anche il Dap indaga sul giovane stuprato in cella di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 giugno 2025 Gli agenti ignari di tutto per giorni. Chi ha protestato potrebbe essere punito per “rivolta”. È ancora sedato e giace, agli arresti domiciliari, nel suo letto d’ospedale al San Martino di Genova, il ragazzo di appena 18 anni seviziato e stuprato ripetutamente per due giorni e mezzo dai suoi compagni di cella nel carcere di Marassi, dove era entrato da poco tempo ed era in attesa di giudizio per una rapina di scarso conto, proveniente da una comunità per tossicodipendenti. Mercoledì, a seguito della diffusione della notizia e contro la supposta inerzia degli agenti di polizia penitenziaria dell’istituto genovese che dicono di non essersi accorti di nulla, nel carcere sono divampate “violente” proteste, secondo i sindacati di Pol Pen, rientrate però dopo solo un’ora con il trasferimento di 13 detenuti e altri 22 messi in isolamento. La giudice Angela Nutini ha accolto la richiesta dell’avvocata Celeste Pallini, difensore della vittima, e ha disposto i domiciliari in ospedale con la scorta, per il giovane che verrà trasferito in una struttura sanitaria adeguata dopo le dimissioni. Ieri il ragazzo è stato ascoltato dagli inquirenti che indagano su due fronti diversi: la pm Silvia Saracino, che si occupa delle sevizie e dello stupro, potrebbe configurare il reato di tortura per i quattro detenuti adulti (due italiani e due stranieri, tutti intorno ai 30 anni, che in carcere vuol dire molto) che dividevano la cella con il diciottenne. Mentre il pm Andrea Ranalli, che indaga sulle proteste scoppiate nell’istituto, starebbe valutando addirittura la possibilità di configurare anche il reato di rivolta penitenziaria introdotto dal decreto Sicurezza (fino a 8 anni di reclusione), oltre al danneggiamento aggravato, alla resistenza e alle lesioni aggravate a pubblico ufficiale (un agente avrebbe perso la falange di un dito, poi ricostruita all’ospedale San Martino). Eppure in questa storia è evidente la responsabilità dell’istituzione carceraria. Se non altro perché, come spiegava ieri il garante dei detenuti della Liguria, Doriano Saracino, “non è normale non accorgersi di nulla, o meglio lo può diventare nel momento in cui la polizia penitenziaria non ha il controllo della situazione”. E infatti un altro filone di indagine è stato avviato sulle responsabilità del personale. Anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (sotto il controllo del ministero di Giustizia) starebbe verificando il ruolo degli agenti e della dirigenza del carcere che non si sarebbe accorta degli stupri di gruppo, delle sevizie (il ragazzo è stato tatuato in volto dai suoi aguzzini) e del sequestro durato da domenica pomeriggio a martedì mattina. Va sottolineato che il ragazzo avrebbe compiuto il reato di cui è accusato appena dopo i 18 anni. Motivo per il quale non poteva essere recluso in un Istituto per minorenni. Ma, in ogni caso, come sottolinea Saracino, “avrebbe dovuto essere seguito quotidianamente”. Perché non si può buttare un ragazzino in una cella e dimenticarselo. Avs chiede al ministro Nordio di attivare per il giovane detenuto abusato la richiesta di grazia al presidente della Repubblica, mentre la sindaca di Genova Silvia Salis ha sottolineato la mancanza di agenti che affligge le carceri del Paese. Altri, da più parti, puntano il dito contro il “sovraffollamento” che rende “impossibile gestire l’ordine e la sicurezza all’interno delle carceri”, come afferma Nessuno tocchi Caino che però chiede per i rei con problemi di dipendenza - come in “almeno il 30% dei carcerati” - il trasferimento in “centri per il recupero dalla dipendenza di sostanze (quasi tutte private, ndr), dove dovrebbero essere seguiti da psicologi, psichiatri e psicoterapeuti”. Operatori e sanitari che invece mancano proprio nelle carceri, quelle dello Stato. Il “sovraffollamento ha raggiunto livelli intollerabili” e va ridotto subito. Per questo si è levata addirittura la voce congiunta dei magistrati dell’Anm, degli avvocati penalisti dell’Ucpi e dei giuristi universitari. Chiedono “misure volte a ridurre il numero dei reclusi e a porre fine alla violazione dei diritti fondamentali dei detenuti, in quanto naturalmente i diritti umani vanno tutelati senza distinzione alcuna”, come impone “la Costituzione e la civiltà del nostro Paese”. Le “soluzioni tecniche esistono - affermano - o comunque possono essere studiate: sta alla politica individuarle, se vorrà, con l’aiuto dell’accademia, dell’avvocatura e della magistratura”. Qualche tempo fa, l’Anm si espresse anche contro il dl Sicurezza, spiegando che il testo introduce “nuovi reati per sanzionare in modo sproporzionato condotte che sono spesso frutto di marginalità sociale”. Ora però si potrebbe ipotizzare il nuovo reato di rivolta in carcere per chi ha partecipato ai disordini violenti dei Marassi, compresi però anche coloro che - se i fatti venissero confermati tutti - avrebbero solo reagito alla mancanza di sicurezza di cui pure i detenuti hanno diritto. Verona. Detenuta trans, accolto il reclamo. “Non turbò la vita del carcere” di Beatrice Branca Corriere di Verona, 7 giugno 2025 Era in libertà ristretta perché insultava gli agenti: voleva essere seguita da donne. “Non viene indicato alcun comportamento della detenuta che possa aver condizionato le attività degli altri detenuti. La sicurezza dell’istituto non risulta sia mai stata messa in pericolo dalla condotta della detenuta. Il collegio ritiene che il provvedimento impugnato debba essere revocato”. Le parole sono quelle dei giudici del tribunale di sorveglianza che hanno analizzato il reclamo che gli avvocati Simone Giuseppe Bergamini e Lorenzo De Guelmi avevano presentato a Venezia sulla delicata situazione di una detenuta peruviana transessuale di 38 anni. Il percorso - In passato si è sottoposta a un delicato percorso di transizione per essere considerata a tutti gli effetti una donna. Nel corso della sua vita ha collezionato tutta una serie di sentenze per spaccio e detenzione di droga, rapine e lesioni. Dopo aver cambiato diversi istituti penitenziari anche per la sua particolare storia, da febbraio si trova nella sezione femminile del carcere di Montorio, dove però non sarebbe sempre stata assistita, come da lei richiesto, solo da agenti donna, ritrovandosi quindi a vivere in alcuni casi, specie durante le visite mediche, delle situazioni di fastidio e disagio. Lo scorso marzo la 38enne era stata sottoposta a un particolare regime di sorveglianza per sei mesi, escludendola da attività di studio, ricreative e di socialità della sezione. Aveva il divieto di usare un fornellino ed era stata collocata in una cella singola con letto, tavolo e sgabello. Ogni giorno poteva usufruire solo di due ore d’aria. Questo provvedimento era stato adottato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dopo alcuni episodi di rilevanza disciplinare documentati in undici relazioni di servizio. Solo quattro di questi sarebbero però stati considerati rilevanti: in particolare la detenuta, fortemente agitata, aveva rivolto insulti e minacce alla polizia penitenziaria, specie durante le sue visite mediche. Gli episodi - Un’altra volta avrebbe invece lanciato della frutta marcia fuori dalla cella, mentre attendeva il suo colloquio telefonico. Dietro a quei comportamenti, come riporta la difesa nel reclamo presentato al tribunale di sorveglianza, ci sarebbe però “una risposta atteggiamenti provocatori e non rispettosi della sua personalità”. Le visite mediche - In particolare la donna si sarebbe infastidita nell’essere stata accompagnata a due visite mediche da alcuni agenti di sesso maschile, anziché da personale femminile come la 38enne ha sempre richiesto da quando si trova a Verona. “La detenuta non si è mai denudata - sottolineano i difensori -. Una volta uscito il personale maschile dall’ambulatorio e sostituito con agenti femminili, il suo stato di agitazione veniva a cessare”. L’8 marzo poi alla 38enne non sarebbe stato consentito di incontrare una volontaria che era venuta nel carcere di Montorio a fare gli auguri a tutte le donne e a consegnare piccoli doni. “Non è violenta” - “Il comportamento della nostra assistita non è certamente quello violento, turbolento e refrattario alla disciplina così indicato - avevano scritto Bergamini e De Guelmi bensì il risultato evidente di una esasperazione dovuta a molteplici comportamenti tenuti da chi manifesta di trattare la persona in oggetto come se fosse ancora un uomo, dimenticando quanto vissuto”. Nonostante i toni talvolta accesi della 38enne nei confronti della polizia penitenziaria, secondo i giudici del tribunale di sorveglianza il suo comportamento “non è tale da giustificare un accertamento di turbamento del regolare svolgimento delle attività all’interno dell’istituto”. La 38enne potrà quindi essere inclusa nelle attività ricreative della sessione, avere qualche ora d’aria in più e usare forse finalmente quel fornellino a cui teneva molto per riscaldarsi in autonomia il suo cibo. Bergamo. Io, prete in carcere, dalla montagna ho imparato che in vetta ci si arriva solo legandosi insieme di Ilaria Dioguardi vita.it, 7 giugno 2025 Don Dario Acquaroli, 37 anni, è cappellano del carcere di Bergamo e direttore della comunità Don Milani di Sorisole (BG). È un appassionato di montagna: “Quello che vivo lassù lo porto nei luoghi difficili dove il mio essere prete mi porta, fra chi non crede più che una cima sia possibile”. Non perde mai il sorriso, mentre parla del suo lavoro e delle sue passioni. Don Dario Acquaroli, classe 1988, è cappellano nel carcere di Bergamo da tre anni ed è direttore della comunità educativa Don Lorenzo Milani di Sorisole, nella bergamasca. “Ho iniziato a frequentare il carcere 16 anni fa. Tra qualche mese farò il cappellano solo dei giovani adulti del carcere, che sono sempre di più”. Don Acquaroli, come si è avvicinato al mondo del carcere? Ho iniziato a frequentare il carcere nel 2009. Accompagnavo l’allora cappellano don Fausto Resmini, figura molto particolare ed importante, tanto che dopo la sua morte il carcere di Bergamo è stato intitolato alla sua memoria. Lo accompagnavo per animare le messe. Questo mondo mi ha sempre interrogato e mi ha molto cambiato anche nella visione della persona e di tutto quello che poi ha riguardato le scelte della mia vita. Sono cappellano da tre anni. Prima ho vissuto il carcere, ma un po’ distante, non avevo un ruolo preciso, non avevo un rapporto costante come ora con le persone dentro. Comunque il mondo del carcere è cambiato moltissimo in questi ultimi anni. Perché il mondo del carcere, negli ultimi anni, è diverso? Negli ultimi tre-quattro anni la situazione è cambiata enormemente rispetto a prima. Ci siamo trovati a fare i conti con quello che si vede anche fuori, nella società, ma in maniera amplificata. Tante persone hanno problematiche psicologiche e psichiatriche, nella maggior parte non certificate o legate alle dipendenze: lavorare con loro, accompagnarle è davvero difficile e complesso, richiede un’attenzione molto particolare per noi cappellani. Io credo che questo tempo ci debba anche aiutare a capire che non dobbiamo correre il rischio di dire che il nostro compito è quello di aiutare tutti: cadiamo in un’assistenza che non è educativa, ma rischia di fare più danni che altro. Può spiegarci meglio? Il nostro lavoro è sicuramente quello di stare accanto a tutte le persone che sono presenti all’interno del carcere, dalla persona detenuta a chi ci lavora, di qualsiasi fede sia, accompagnandole. Quando c’è una persona molto povera, è nostro compito poterle offrire ciò di cui ha bisogno. Proprio per le difficoltà e per le problematicità forti che ci sono, l’attenzione particolare è anche quella di non pensare che dobbiamo dare ascolto a tutto quanto ci viene riportato e ci viene richiesto. Le persone ci dicono continuamente di aver bisogno di qualcosa, di non ricevere nessuna visita, di non avere nessuno che si sta occupando di loro. Se non c’è un lavoro di insieme, di rete con tutte le altre figure presenti all’interno del carcere, si rischia di prendere iniziative individuali quando possono esserci già diverse progettualità aperte che il detenuto non racconta perché ha fretta di poter uscire e poter incontrare. Questo crea solo confusione e disordine all’interno di un posto che è già molto problematico. Oppure, come è successo in altri istituti, i detenuti possono chiedere di chiamare persone fuori e di riportare dei messaggi, in realtà poi c’è dietro altro. Qual è il vostro principale lavoro di cappellani? L’attenzione nostra, come cappellani, è quella di accompagnare chiunque all’interno di un carcere ma, ripeto, con un forte lavoro di rete con tutte le altre figure, per fare in modo che non si sprechi quel lavoro che è già piccolissimo, visti i numeri alti che ci sono e visto le poche persone che possono lavorare con i detenuti. Non bisogna correre il rischio di disperdere le energie, dobbiamo fare in modo che quel poco lavoro che possiamo fare possa davvero essere un lavoro educativo all’interno di un carcere. Per fare questo chiunque deve imparare a fare più insieme possibile. Quando una persona va in carcere entra in un luogo che disumanizza, sotto certi punti di vista. Anche solo quel posto è una pena enorme, la visione del tempo, che scorre lentissimo, cambia completamente in un carcere. E le persone hanno fretta, sono alla ricerca spasmodica di una via d’uscita che sia il più veloce possibile ma che a volte complica le cose. Noi dobbiamo far capire loro che devono avere la capacità di rimanere all’interno di quel tempo, accompagnandole verso la consapevolezza di quello che si è chiamati a vivere in un percorso penale, con tutte le fatiche che comporta. I cambiamenti si possono vedere quando un detenuto inizia a guardarsi dentro, comincia a fare un percorso di riflessione e di fede su se stesso. Se devo parlare da cappellano, una persona in carcere inizia a cambiare quando comincia a fermarsi e a respirare, senza essere continuamente alla ricerca di un tempo che deve passare il più velocemente possibile. Lei, quando esce da lì, riesce a fermarsi a respirare? È fondamentale, per me, fermarmi a respirare, anche perché non faccio solo il cappellano del carcere. Sono anche direttore della comunità Don Milani di Sorisole (Bergamo), che ospita minori, autori di reato, persone senza fissa dimora. La problematicità fa parte della mia vita. Per me è fondamentale la cura di se stessi per potersi prendere cura degli altri. Personalmente la cura è sapere che ci sono persone con cui posso confrontarmi, con cui posso rileggere il mio vissuto personale. Ma ci sono anche momenti e spazi per respirare. Dove trova i suoi momenti e spazi per respirare? Io ho la passione grande per la montagna, quando posso ci vado per camminare e respirare. Vado a fare alpinismo, vado ad arrampicare e non è tempo perso, è tempo che mi serve per poter riconnettermi con me stesso. Vado da solo o con amici con cui condivido questa passione. Principalmente vado sulle Prealpi Orobiche bergamasche o in Val Camonica. Quando io sono entrato a far parte del gruppo dei preti del Patronato San Vincenzo, che si occupa di poveri e di ragazzi, uno dei preti anziani mi ha detto di stare attento perché è bello dedicarsi ai poveri, ma si corre il rischio di trasformarsi con loro, non nel senso buono del termine, ma nel senso peggiore. È vero, non bisogna mai dimenticarsi di se stessi. Dobbiamo ritagliarci sia spazi di riflessione, sia spazi di cura di sé. Perché riesce a riconnettersi con se stesso in montagna? La montagna è il luogo dove torno a fare silenzio, a ricordarmi chi sono. Che sia un sentiero, una cresta, una via di arrampicata o una lunga camminata in solitaria, ogni volta che salgo porto con me le storie, i volti, le fatiche che incontro nel mio ministero: i giovani delle comunità, i detenuti del carcere, le persone senza casa. Eppure, in quota, non cerco risposte: cerco ascolto. Amo andare in montagna anche da solo perché è nel silenzio del passo lento, e nel battito affannato del cuore che ritrovo la voce più vera. Ascoltare la fatica del mio corpo diventa un modo per tornare ad ascoltare davvero anche gli altri. Ogni salita è un esercizio di essenzialità, ogni vetta un punto di vista nuovo, ogni parete un dialogo tra fiducia e paura. Cosa le insegna la montagna? Quello che vivo lassù mi insegna molto di ciò che provo a vivere quaggiù, nei luoghi difficili dove il mio essere prete prende forma: lì dove c’è chi ha smarrito la strada o chi non crede più che una cima sia ancora possibile. La montagna mi ricorda che non si accompagna nessuno se non si è disposti a camminare davvero accanto, magari legati da una corda, magari nel silenzio. E allora torno, ogni volta, più leggero e più pieno. Con il cuore un po’ più libero. E con il desiderio rinnovato di essere, anche nella vita degli altri, un segno di speranza e di respiro. Nella casa circondariale di Bergamo sono presenti 599 detenuti, a fronte di 319 posti regolamentari (al 4 giugno 2025, dati Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Come si vive questa situazione di sovraffollamento? È davvero difficile e problematica. Il picco è stato, di recente, di 603 detenuti. Il sovraffollamento va di pari passo alla mancanza di personale, sia per quanto riguarda la polizia penitenziaria, sia del personale educativo. Gli educatori dicono che è impossibile dedicarsi a tutti i detenuti, quando hanno a testa circa 150 persone da seguire (nel carcere gli educatori presenti sono quattro, dovrebbero essere sei, ndr); riescono a vedere solo le persone che hanno pene definitive perché devono compilare la sintesi per il piano trattamentale, e le altre non riescono a vederle quanto ci sarebbe bisogno, è molto complicato a queste condizioni fare un percorso di rieducazione. Molte persone detenute sono seguite dal Servizio per le tossicodipendenze-Sert. Il carcere di Bergamo è una casa circondariale, chi è all’interno e in attesa di giudizio vuol dire che o non ha una casa e si trova in strada, oppure (una percentuale minore) ha fatto reati molto gravi, o sono persone con dipendenze che a casa non ci possono tornare perché le famiglie non vogliono. Nel carcere di Bergamo c’è internamente un Sert, con medici ed infermieri, è come se fosse un reparto in collaborazione con l’ospedale Papa Giovanni di Bergamo. Sono molti i giovani adulti attualmente presenti nel carcere di Bergamo? Ora sono circa 60 i ragazzi dai 18 ai 25 anni presenti in carcere, in aumento per due fattori principali. Una grossa percentuale di loro sono ex minori stranieri non accompagnati, i cui arrivi sono molto aumentati gli scorsi anni, soprattutto a Milano e Bergamo. Non hanno trovato luoghi di accoglienza ed educativi e hanno vissuto di più in strada. La mancanza di accoglienza ha portato a una più facile via verso la criminalità. Il secondo fattore, che sicuramente complica molto il lavoro all’interno del carcere con i giovani adulti, è la conseguenza del decreto Caivano, che ha concesso ai tribunali di poter spostare i ragazzi in misura cautelare, al compimento del diciottesimo anno di età, da un Istituto penale per minori-Ipm all’interno di una casa circondariale o di un carcere per adulti. L’aumento repentino dei detenuti giovani adulti complica tutto. Perché complica tutto? Gli Ipm puntano molto su un percorso rieducativo, cosa che all’interno di un carcere per maggiorenni è davvero complicato poter fare. Molte volte i ragazzi che vengono trasferiti all’interno delle carceri per maggiorenni sono quei giovani che portavano problematiche all’interno di un Ipm, quindi, la loro difficile gestione ha spinto la richiesta di trasferimento all’interno di un carcere per maggiorenni. Spesso hanno grandi fragilità psichiche o psichiatriche, oppure fanno uso di sostanze. Rimango convinto che l’azione educativa centrata sulla relazione e su tutti quegli strumenti, quali la scuola, il lavoro e altre attività, possano permettere a questi ragazzi di intraprendere un percorso e di non rimanere dentro questa rete stretta della criminalità che non lascia loro spazio e vie di fuga, e che punta molto sulle loro fragilità e sulle loro problematicità. Tra qualche mese mi dedicherò solo ai giovani adulti del carcere, sarò il loro cappellano. I giovani li incontro molto anche nella comunità Don Milani di Sorisole (Bergamo), che si occupa di penale minorile e di minori stranieri non accompagnati, oltre che di progettualità dei neomaggiorenni verso l’autonomia e di pene alternative al carcere per giovani adulti. “18+1. Diciotto anni e un giorno”. Il grido silenzioso dei giovani reclusi nelle carceri per adulti editrice.effata.it, 7 giugno 2025 Un libro necessario. Una voce che non può essere ignorata. Esce il 6 giugno 2025 in tutte le librerie italiane, fisiche e online, “18+1. Diciotto anni e un giorno”, nuovo libro di Monica Cristina Gallo, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino. Edito da Effatà Editrice, con prefazione del già magistrato Gherardo Colombo, il libro affronta una delle questioni più urgenti del sistema penitenziario italiano: la condizione dei giovani adulti reclusi nelle carceri per adulti. Il dato che allarma: all’inizio del 2025 si contano 5067 giovani under 25 detenuti nei penitenziari italiani. Solo nel 2023 erano 3274. Un incremento di quasi 1800 giovani in meno di due anni. Monica Gallo apre uno squarcio su una realtà spesso ignorata: il confine sottile tra minore e adulto, in termini di giustizia, può determinare destini drammaticamente diversi. A 17 anni e 11 mesi si accede al Tribunale dei Minorenni; a 18 anni e un giorno, si finisce in carcere con gli adulti, in ambienti che non sono preparati a contenere, accompagnare o rieducare. “18+1” non è solo una denuncia, è un appello: affinché il sistema penitenziario italiano torni ad essere umano, affinché ai giovani venga restituita una possibilità. Perché il carcere può essere la fine, ma anche un inizio. Attraverso racconti, incontri, storie vere, l’autrice ci guida nel perimetro del vuoto e della solitudine in cui questi ragazzi vengono intrappolati, lasciandoci un messaggio forte: “ogni giovane che entra in carcere per adulti è un giovane che perdiamo”. Con le parole dell’autrice: “Bisogna intervenire prima che il cinismo prenda il posto della speranza”. Un’opera coraggiosa, che ci interroga profondamente sul futuro che vogliamo costruire, sulla giustizia che vogliamo esercitare, sull’umanità che vogliamo difendere. “L’arte rianima la speranza”, presentato il Giubileo degli Artisti di Fabio Colagrande e Antonella Palermo vaticannews.va, 7 giugno 2025 Presso la Sala Stampa della Santa Sede il cardinale Tolentino de Mendonça ha illustrato, assieme a cinque donne, il ricco programma di questo Giubileo tematico in programma a Roma dal 15 al 18 febbraio. Spicca la visita del Papa agli studi di Cinecittà, la prima di un Pontefice, e l’inaugurazione di uno spazio di arte contemporanea a Via della Conciliazione dove saranno esposti i volti della comunità carceraria di Regina Coeli. “Un incontro veramente mondiale che riunisce più di settemila iscritti, proveniente da oltre 60 nazioni dei cinque continenti”. Così il cardinale Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero per la Cultura e l’Educazione, ha presentato oggi, mercoledì 12 febbraio nella Sala Stampa della Santa Sede i diversi appuntamenti del Giubileo degli Artisti e del Mondo della Cultura che si celebrerà a Roma dal 15 al 18 febbraio. “La sfida concreta - ha spiegato il porporato - è dare vita a occasioni creative che consentano a tutti, e a ciascuno, di rianimare la speranza”. De Mendonça: la speranza non è un accessorio - “La speranza è un’esperienza antropologica globale, che pulsa nel cuore di ogni cultura, e che a tutte dà la possibilità di dialogare”, ha sottolineato ancora il cardinale. Se nella Bolla di indizione Spes non confundit Papa Francesco auspica che l’Anno Santo 2025 sia occasione per “rianimare la speranza”, gli appuntamenti di questo particolare Giubileo devono aiutarci a metterla “al centro dello spazio pubblico come tema culturale prioritario”, come “una risorsa necessaria e potente, collettiva su cui dobbiamo investire sempre di più”. Dunque “un bene di prima necessità” e “non semplicemente qualcosa di accessorio”. “Dobbiamo domandarci - ha concluso - in che modo il patrimonio culturale delle religioni possa essere un trasmettitore più attivo di speranza presso le nuove generazioni” e come “l’arte contemporanea possa veicolare la speranza”. Ai Musei Vaticani la firma di un manifesto educativo - Nei giorni di questo Giubileo tematico i partecipanti saranno invitati a compiere il passaggio della Porta Santa - la sera di domenica 16 - e a un ricco programma di iniziative che si aprirà sabato 15 febbraio con la partecipazione all’Udienza Giubilare del Papa e con l’incontro internazionale Sharing hope - Horizons for Cultural Heritage. Organizzato in collaborazione con i Musei Vaticani, l’appuntamento vedrà riuniti i responsabili di alcune tra le più prestigiose istituzioni artistiche e museali al mondo che esploreranno nuovi linguaggi e strategie per la valorizzazione e la trasmissione del patrimonio religioso e artistico. Il loro dialogo confluirà nella sottoscrizione di un Manifesto educativo sulla trasmissione del codice culturale delle religioni, “senza il quale - ha sottolineato il cardinale de Mendonça - la cultura resta irrimediabilmente impoverita”. “Abbiamo fortemente voluto che questo Giubileo fosse dedicato non solo agli artisti ma anche agli operatori del mondo dell’arte il cui ruolo è essenziale nella trasmissione dei codici religiosi, della tradizione, della fede e dell’arte stessa”, ha spiegato la direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta. “I Musei Vaticani riconoscono il valore di tutti coloro che, attraverso la divulgazione e l’insegnamento, custodiscono e trasmettono questo patrimonio e questo Giubileo è un segno di riconoscenza”. “Conciliazione 5”, una galleria di strada - Alla fine del pomeriggio di sabato 15 verrà invece inaugurato un nuovo spazio espositivo, una “galleria di strada”, destinata a rimanere anche oltre il Giubileo, situata in Via della Conciliazione, e chiamata Conciliazione 5. La mostra con cui si comincia - curata da Cristiana Perrella e realizzata in collaborazione con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria italiana - è un progetto dell’artista cinese Yan Pei-Ming e mette al centro dell’attenzione di tutti i volti della comunità del carcere romano di Regina Coeli. I ritratti saranno esposti presso lo spazio “Conciliazione 5” e proiettati sulla facciata dello stesso Istituto penitenziario romano. “Nella storia dell’arte il ritratto conferisce tradizionalmente dignità a chi è rappresentato - ha spiegato Perrella - e testimonia il suo valore di persona, di individuo. Questo spazio, voluto dalla Santa Sede, nasce dalla fiducia nell’arte come generatore di cambiamenti”. Lina Di Domenico, Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria italiana, ha espresso “grande soddisfazione, ma anche emozione, per questa nuova iniziativa che, in occasione del Giubileo 2025, prevede diversi punti di contatto con il mondo delle carceri, a conferma della proficua e profonda collaborazione con la Santa Sede”. Già per l’apertura della Porta Santa nel carcere di Rebibbia, gesto compiuto dal Papa lo scorso 26 dicembre, era stata realizzata una grande scultura luminosa che riportava le parole dei detenuti e il padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte a Venezia è stato allestito nel carcere della Giudecca. Notte Bianca in Basilica - Domenica 16 febbraio, alle ore 10, Papa Francesco presiederà la celebrazione dell’Eucarestia nella Basilica di San Pietro, aperta a tutti ed in particolare a quanti operano nelle arti e nella cultura. In serata, a partire dalle 20, si svolgerà una “Notte Bianca” presso la Basilica Vaticana, aperta per l’occasione. Sotto il portico, i pellegrini saranno accolti dall’installazione sonora Gli echi muti di una grande scultura sonora - Il Campanone di San Pietro, dell’artista Bill Fontana, curata da Umberto Vattani e Valentino Catricalà. La prima volta di un Papa a Cinecittà - Appuntamento culminante del Giubileo degli Artisti sarà quello di lunedì 17 febbraio, quando Papa Francesco si recherà presso gli studi cinematografici di Cinecittà a Roma: la prima volta di un Pontefice. Nello spirito del Giubileo, Francesco incontrerà una delegazione di artisti e protagonisti del mondo della cultura, ma anche le maestranze di Cinecittà con le loro famiglie, per un totale di oltre settecento persone. Attesi anche cineasti internazionali come Tornatore, Burton, Ferrara, Bellocchio, attori come Monica Bellucci, Pierfrancesco Favino, Toni Servillo e Sergio Castellitto. “La scelta del Papa di incontrare coloro i quali arricchiscono occhi e anima di ciascuno di noi con le loro produzioni artistiche e il loro talento rappresenta un grande riconoscimento al valore della settima arte e al contributo apportato alla società dai protagonisti del mondo della cultura”, ha detto il sottosegretario alla Cultura della Repubblica Italiana, Lucia Borgonzoni. L’esposizione Global Visual Poetry - Non mancheranno riflessioni sul futuro del patrimonio culturale - con l’incontro Artisans of Hope, riservato ai rappresentanti dei centri culturali cattolici e agli organismi internazionali impegnati nella promozione della cultura - e un’attenzione speciale a forme d’arte contemporanee come la poesia visiva, protagonista dell’esposizione Global Visual Poetry, ospitata nella sede del Dicastero e curata da Raffaella Perna. In mostra 267 opere realizzate da 87 artisti e artiste di diversi Paesi e dedicate ai temi della pace, dell’ambiente e dell’inclusione. Diritti, minori e migranti: la lezione della Corte Ue al Governo di Vitalba Azzollini* Il Domani, 7 giugno 2025 Ancora una volta, i giudici smentiscono norme e politiche migratorie che ledono diritti fondamentali. Chi entra in Unione europea senza documenti insieme a minori di cui è affidatario non può essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ancora una volta, i giudici smentiscono norme e politiche in tema di immigrazione che ledono diritti fondamentali. La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha affermato che è contraria al diritto dell’Unione una disposizione che sanziona penalmente come favoreggiamento dell’immigrazione clandestina la condotta di un cittadino straniero che entra irregolarmente in uno Stato Ue accompagnando minori di cui sia affidatario. Il caso Kinsa - Nel 2019, una donna di origine congolese, all’aeroporto di Bologna, aveva esibito documenti falsi per sé e due minori, la figlia e la nipote di cui era affidataria, ed era stata arrestata con l’accusa di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione irregolare (caso Kinsa). La donna aveva dichiarato di essere fuggita dal paese di origine per minacce di morte, e aveva portato con sé le due bambine. Poco tempo dopo, aveva presentato domanda di protezione internazionale. Il tribunale di Bologna aveva sollevato la questione di costituzionalità riguardo alla norma sulle aggravanti del reato, e nel marzo 2022 la Corte Costituzionale ne aveva dichiarato l’illegittimità. La donna avrebbe potuto essere giudicata per favoreggiamento semplice. Ma il tribunale di Bologna aveva sospeso il giudizio e chiesto alla Corte di giustizia Ue di valutare se la normativa europea in tema di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare fosse compatibile con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La disciplina europea (direttiva Ue 2002/90 e decisione quadro del Consiglio europeo del 2002) impone di punire il favoreggiamento, ma “ciascuno Stato membro può decidere di non adottare sanzioni” per chi agevoli l’entrata dello straniero al solo fine di “prestare assistenza umanitaria alla persona interessata”. In Italia la normativa Ue è stata attuata dall’articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione senza alcuna eccezione umanitaria. La decisione della Corte Ue - Secondo la Corte, la regolamentazione europea va interpretata nel senso che chi entri illegalmente in uno Stato Ue, portando con sé minori di cui sia effettivamente affidatario, non commette favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma esercita la responsabilità di garantire loro protezione e cure. Un’interpretazione diversa - dice la Corte - comprometterebbe il diritto al rispetto della vita familiare e i diritti fondamentali dei minori, sanciti dalla Carta. Inoltre, continua la Corte, la donna congolese aveva presentato una domanda di protezione internazionale, e non poteva essere considerata “clandestina” fino all’eventuale rigetto di tale domanda; né poteva incorrere in sanzioni penali a causa del suo proprio ingresso illegale o per aver portato con sé minori di cui era effettivamente affidataria. “Il diritto dell’Unione”, concludono i giudici, “osta quindi a una normativa nazionale che sanzioni penalmente tale condotta”. Dunque, l’Italia non avrebbe dovuto perseguire la donna congolese protagonista del caso Kinsa. Gli impatti della decisione - La sentenza ribadisce la tutela del diritto d’asilo e definisce i confini entro cui lo Stato può agire contro chi fa ingresso irregolare, specie se sono coinvolti minori e relazioni di accudimento. Essa non solo vincola i tribunali nazionali, che vi si dovranno conformare in casi simili, ma incide pure sulle politiche dei governi nazionali: la linea dura nel contrasto all’immigrazione incontra paletti invalicabili nei diritti e nelle libertà fondamentali, che possono essere limitati nel rispetto del loro contenuto essenziale, come recita l’art. 52 della Carta, ma non travolti da politiche securitarie dell’immigrazione. La decisione smonta anche l’idea che il rispetto dei diritti dei migranti non debba ostacolare la gestione dell’immigrazione da parte dei governi nazionali. Idea che l’Italia, insieme alla Danimarca, ha formulato nella lettera inviata il 22 maggio scorso alla Corte europea dei diritti umani, accusandola di un’interpretazione troppo ampia di tali diritti. Il messaggio della Corte di giustizia Ue è forte e chiaro. E sarà bene che gli Stati Ue ne tengano conto. *Giurista