Carceri, la politica batta un colpo di Gian Luigi Gatta, Cesare Parodi, Francesco Petrelli* La Repubblica, 6 giugno 2025 Il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto livelli intollerabili. Il 30 aprile scorso i detenuti erano 62.445, a fronte dei teorici 51.292 posti disponibili. Vi sono dunque almeno 11.153 persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare. È un problema che periodicamente si manifesta in modo critico. Dopo le misure emergenziali adottate durante la pandemia, il numero dei detenuti è cresciuto in modo considerevole. Nel 2020 erano infatti 53.363, cioè 9.000 in meno rispetto ad oggi. Continui interventi con i quali sono stati introdotti nuovi reati e nuove ostatività o aumentate le pene, come nel caso del d.l. sicurezza o del d.l. Caivano, promettono di aumentare l’entità del sovraffollamento. Il d.l. Caivano ha consentito la custodia cautelare in carcere per lo spaccio di lieve entità e ha introdotto preclusioni all’accesso alla messa alla prova per i minorenni. Il numero dei minori negli istituti loro dedicati (Ipm) è aumentato di oltre il 50% dal 2023 a oggi: erano 385 il 15 maggio 2023 e sono saliti a 600 due anni dopo, mettendo in crisi l’intero sistema della giustizia minorile. Anche per questo è preoccupante il continuo ricorso allo strumento penale come farmaco per curare i più diversi mali e fenomeni di disagio sociale, che dovrebbero trovare altrove adeguati strumenti di intervento. Il carcere non ha un effetto taumaturgico. Tanto più che le condizioni di sovraffollamento: a) incidono negativamente sulla capacità della pena di adempiere al suo fine costituzionale, cioè la rieducazione, riducendo la recidiva; b) gravano anche su quanti, da presunti innocenti, si trovano in carcere in custodia cautelare; c) compromettono la sicurezza all’interno degli istituti; d) complicano il lavoro degli educatori; e) pregiudicano l’assistenza sanitaria e psicologica impedendo agli operatori di intercettare le situazioni di disagio e di fragilità. Come ha rilevato anche il Garante nazionale dei detenuti, vi è una correlazione tra il sovraffollamento e il numero record dei suicidi in carcere che si è registrato nel 2024, quando sono stati 91. Quest’anno sono già 34 e l’estate, periodo critico, è oramai alle porte. Per questo sono necessarie e non più differibili misure volte a ridurre il numero dei reclusi e a porre fine alla violazione dei diritti fondamentali dei detenuti, in quanto naturalmente i diritti umani vanno tutelati senza distinzione alcuna. Lo impongono la Costituzione e la civiltà del nostro Paese, che è esposto a livello internazionale a imbarazzanti giudizi: l’Olanda ha di recente rifiutato di consegnare all’Italia un sospetto omicida ritenendo le nostre carceri inadeguate a causa del sovraffollamento e del numero di suicidi. Se da un lato si è tutti d’accordo nel ritenere necessario un intervento che incida sul sistema penitenziario nel suo complesso, deve, tuttavia, prendersi atto che riforme strutturali devono inevitabilmente accompagnarsi ad interventi urgenti di decompressione capaci di restituire ai detenuti una condizione di dignità e di umanità compatibile con la funzione costituzionale della pena. Le soluzioni tecniche esistono o comunque possono essere studiate: sta alla politica individuarle, se vorrà, con l’aiuto dell’accademia, dell’avvocatura e della magistratura. La storia del nostro Paese insegna come, di fronte ad emergenze come quella in atto, la volontà politica può formarsi anche in modo trasversale. La soluzione al sovraffollamento carcerario non può d’altra parte risiedere solo nell’aumento dei posti in carcere. Basti pensare che nell’ultimo anno i detenuti sono cresciuti di quasi 1.200 unità e che la capienza media di un carcere è di 300 posti: solo per non aggravare il sovraffollamento occorrerebbe aprire circa 4 nuovi penitenziari all’anno. Si rischierebbe poi una mass-incarceration e si spenderebbero ingenti risorse pubbliche che potrebbero essere con maggior frutto destinate: a) all’ammodernamento delle strutture esistenti; b) all’assunzione di personale (educatori, medici, psicologi, mediatori culturali, assistenti sociali) che lavori in carcere e negli uffici di esecuzione penale esterna; c) a colmare i vuoti di organico del personale amministrativo degli uffici giudiziari di sorveglianza; d) ad aumentare il numero dei magistrati di sorveglianza (sono poco più di 200); e) a finanziare il reclutamento di addetti all’ufficio per il processo negli uffici di sorveglianza; f) a incrementare le risorse per l’assistenza legale per i non abbienti. Risorse sono necessarie anche per fronteggiare un’altra emergenza; quella degli oltre 90.000 liberi sospesi, cioè condannati definitivi a pene fino ai 4 anni che attendono per anni in stato di libertà la decisione sulla richiesta di una misura alternativa. La soluzione al sovraffollamento oltre che nella riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere, deve mirare anche ad allargare il canale di uscita anticipata dal carcere per quanti hanno intrapreso con successo un percorso di rieducazione. Basti pensare che sono circa 8.000 i detenuti con pena residua non superiore a un anno. Quale che sia il rimedio, sul carcere bisogna intervenire subito. *Gli autori sono, rispettivamente, presidente dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Anm: “In un anno 1.200 detenuti in più, sovraffollamento intollerabile” La Stampa, 6 giugno 2025 Nell’ultimo anno i detenuti sono cresciuti di quasi 1.200 unità e che la capienza inedia di un carcere è di 300 posti: solo per non aggravare il sovraffollamento occorrerebbe aprire 4 nuovi penitenziari all’anno. “Il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto livelli intollerabili. Il 30 aprile scorso i detenuti erano 62.445, a fronte dei teorici 51.292 posti disponibili. Vi sono dunque almeno 11.153 persone detenute in più rispetto alla capienza regolamentare”. È quanto si legge nella lettera pubblicata da Repubblica e firmata dal presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, Gian Luigi Gatta, dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Cesare Parodi, e dal presidente dell’Unione delle camere penali italiane, Francesco Petrelli. “Come ha rilevato anche il Garante nazionale dei detenuti, vi è una correlazione tra il sovraffollamento e il numero record dei suicidi in carcere che si è registrato nel 2024, quando sono stati 91. Quest’anno sono già 34 e l’estate, periodo critico, è oramai alle porte - proseguono -. Per questo sono necessarie e non più differibili misure volte a ridurre il numero dei reclusi e a porre fine alla violazione dei diritti fondamentali dei detenuti, in quanto naturalmente i diritti umani vanno tutelati senza distinzione alcuna”. “Lo impongono la Costituzione e la civiltà del nostro Paese, che è esposto a livello internazionale a imbarazzanti giudizi - aggiungono - l’Olanda ha di recente rifiutato di consegnare all’Italia un sospetto omicida ritenendo le nostre carceri inadeguate a causa del sovraffollamento e del numero di suicidi. Se da un lato si è tutti d’accordo nel ritenere necessario un intervento che incida sul sistema penitenziario nel suo complesso, deve, tuttavia, prendersi atto che riforme strutturali devono inevitabilmente accompagnarsi ad interventi urgenti di decompressione capaci di restituire ai detenuti una condizione di dignità e di umanità compatibile con la funzione costituzionale della pena. Le soluzioni tecniche esistono o comunque possono essere studiate: sta alla politica individuarle, se vorrà, con l’aiuto dell’accademia, dell’avvocatura e della magistratura”. Le soluzioni proposte - “La soluzione al sovraffollamento oltre che nella riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere - aggiungono i magistrati - deve mirare anche ad allargare il canale di uscita anticipata dal carcere per quanti hanno intrapreso con successo un percorso di rieducazione. Basti pensare che sono circa 5.000 i detenuti con pena residua non superiore a un anno. Il caso Genova, verso una doppia inchiesta - La procura di Genova va verso l’apertura di una doppia inchiesta per la rivolta scoppiata nel carcere di Marassi a Genova e per la presunta violenza sessuale subita da un detenuto che avrebbe scatenato la rabbia degli altri reclusi. I reati che il pm Andrea Ranalli sta valutando sui disordini sono danneggiamento aggravato, resistenza e lesioni aggravate a pubblico ufficiale, ma anche quello di rivolta penitenziaria introdotto dal decreto Sicurezza. Dell’aggressione a sfondo sessuale se ne occuperà la pm Silvia Saracino che ha ricevuto i primi atti su quanto sarebbe accaduto al 18enne. Sono stati disposti alcuni sequestri. Il giovane, arrestato per una rapina di poco conto era stato trasferito in carcere da poco tempo: sarebbe stato abusato per molte ore se non addirittura giorni, da quattro dei suoi cinque compagni di cella (due italiani e due stranieri). Dopo l’aggressione il ragazzo, difeso dall’avvocata Celeste Pallini, è stato ricoverato ed è al momento sedato. Il suo legale ha presentato istanza di scarcerazione o attenuazione della misura in una struttura sanitaria. Intervista a La Russa: “Restituire subito dignità ai detenuti” di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 6 giugno 2025 Il presidente del Senato insiste sulle carceri: “Di sovraffollamento si muore. Intollerabili le minacce agli avvocati sui social”. Presidente Ignazio La Russa, qualche giorno fa lei, dopo aver ricevuto il deputato di Iv Roberto Giachetti e la presidente di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, ha dichiarato in una nota di essere favorevole a una misura che, per un periodo limitato, aumenti gli sconti di pena già esistenti per i detenuti che abbiano avuto un comportamento irreprensibile. Ci può dire come si è fatta strada in lei questa presa di posizione? Non c’è stata da parte mia una modifica del mio pensiero, perché per me rimane fermo il concetto della certezza della pena e che chi sbaglia deve pagare. E non ho mai apprezzato in maniera particolare indulti e amnistie. Si tratta di avere a cuore, oltre alla certezza della pena, anche le condizioni di vita dei detenuti. Sono un avvocato penalista e ho sempre avuto questa impostazione. Ricordo che un mio detenuto morì in carcere bruciato vivo perché un extracomunitario suo compagno di cella aveva dato fuoco al materasso per protestare contro il sovraffollamento. E stiamo parlando di trent’anni fa o più. Rimase imprigionato nelle fiamme, morì e io andai a verificare dentro il carcere e feci delle dichiarazioni che assomigliano a quelle di oggi. Non ho quindi avuto bisogno di fare una profonda riflessione, quando ho visto Giachetti e la Bernardini: li ho incontrati perché avevo già queste idee. Nel suo partito, però, potrebbe essere definita una posizione eretica... Nel partito c’è grande considerazione per la dignità del detenuto in carcere, però si fanno anche altre considerazioni che hanno diritto di esistere. C’è chi è assolutamente in linea con quello che ho detto io e c’è chi dice anche che si pone il problema dell’opinione pubblica: magari pensa che in carcere ci siano meno persone di quante ce ne dovrebbero essere e che tutti i benefici che hanno i detenuti siano eccessivi, e che questi benefici li portano a scontare meno pena di quella comminata. Io ho cercato di dire che il problema è diverso: molto è stato fatto nelle carceri. Oggi ci sono tanti servizi che, quando ho cominciato a fare io l’avvocato, non c’erano. Penso alla pizzeria, alla sala musica, alla palestra. Tutto bello, ma se poi metti sei persone nella stessa cella dove ce ne potrebbero entrare due o tre, allora tutti gli sforzi diventano inutili. C’è quindi bisogno di coprire il tempo necessario a realizzare un vero piano carceri, che il Governo mi ha detto di volere fare in due anni, con una norma che valga solo per determinati casi, che faccia leva sugli sconti di pena per chi non ha compiuto reati gravi e abbia avuto una condotta perfetta. Ovviamente tengo in debita considerazione le obiezioni che vengono non solo dal mio partito ma da una larga parte di opinione pubblica, anche di quella che non vota il mio partito. Noi parliamo nelle nostre pagine spessissimo di episodi di cronaca in cui gli avvocati sono minacciati. Un avvocato, ad esempio, che difende un accusato per stupro o per omicidio spesso diventa preda degli hater, sotto la spinta del clamore mediatico. C’è ormai nell’opinione pubblica questa tendenza secondo cui alcuni imputati non dovrebbero avere diritto alla difesa. Ci sono sempre più avvocati sotto scorta... È assolutamente un grande problema, a cui a volte hanno concorso anche certi comportamenti un po’ troppo disinvolti di alcuni miei colleghi. Ma questo è marginale: la verità è che c’è un’insofferenza generalizzata per il diritto di difesa. Questa cosa sta superando la soglia di tolleranza in uno Stato di diritto, la cui regola basilare è che tutti hanno diritto a una difesa tecnica. Il giudice ha studiato, il giudice conosce la legge, e anche il pubblico ministero, che è quello che sostiene l’accusa, ha studiato, conosce gli atti più dell’avvocato. Se non ci fosse un difensore, ci sarebbe una enorme disparità nei confronti di un imputato non ancora condannato che potrebbe essere innocente, come in molti casi, e che non ha quelle conoscenze tecniche. Da lì nasce, in qualunque Stato di diritto, la necessità, l’obbligo non solo giuridico ma prima di tutto morale, di dotare qualsiasi imputato di una difesa tecnica affinché vi sia una voce competente a sostenere le ragioni di chi è accusato. Io non mi sono mai trovato in difficoltà a difendere persone ritenute responsabili di reati che naturalmente mi facevano obbrobrio. Se da avvocato difendo uno che ha rapinato una banca, mi pare ovvio che non sono d’accordo nel fare le rapine in banca, ma può anche darsi che chi è accusato di avere fatto una rapina in banca sia innocente. Tutti hanno bisogno e hanno diritto ad avere un avvocato sempre e comunque, se non altro per sapere quale sia l’entità giusta della pena da infliggere. Vorrei chiudere con una nota di leggerezza parlando di politica e calcio. Le volevo chiedere se avrebbe barattato la sconfitta a un’elezione o a un referendum con la vittoria della Champions da parte dell’Inter... Di sconfitte elettorali ne ho subite talmente tante nella mia lunga carriera, che una più una meno... ho già dato quanto a sconfitte. Comunque se mi dicessero che possiamo rifare la partita, allora sarei pronto a barattarla mettendo in discussione la mia personale candidatura. “Santa Maria Capua Vetere, cure negate ai detenuti”. Ma è emergenza nazionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 giugno 2025 Interrogazione choc del Pd. Il caso, sollevato da “Sbarre di Zucchero”, approda in Aula grazie a Serracchiani ed altri deputati dem. Nel frattempo “Antigone” fotografa la drammatica realtà sanitaria del Paese. Un’interrogazione parlamentare mette nero su bianco quello che i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere gridano da mesi, senza ricevere risposte. Il 29 maggio, Debora Serracchiani del Partito Democratico ha formalmente chiesto ai ministri della Giustizia e della Salute di intervenire, dopo aver ricevuto - tramite l’associazione “Sbarre di Zucchero” - una lettera firmata da numerosi ristretti della Casa circondariale “Francesco Uccella”. L’interrogazione, presentata congiuntamente da Serracchiani e dai deputati Federico Gianassi, Rachele Scarpa, Michela Di Biase e Marco Lacarra, ricostruisce in dettaglio i contenuti della denuncia dei detenuti: accesso alle cure ridotto al minimo da quasi due anni, assenza di medici generici, mancata assistenza per i pazienti oncologici, e una situazione ancora più grave per i malati cronici come i diabetici, che - secondo quanto riportato - da oltre un mese non riceverebbero più alcuna terapia. Nel mirino anche la gestione del reparto sanitario interno. Il dirigente medico viene descritto come completamente assente: non avrebbe mai accettato nemmeno un confronto diretto con i detenuti, rifiutando anche una semplice delegazione. L’interrogazione, facendo proprie le parole della lettera, sottolinea come questa assenza venga percepita come una negazione della dignità e del diritto alle cure. Il testo affronta anche le carenze strutturali: l’istituto non dispone di alcun reparto detentivo ospedaliero, nonostante la normativa ne prevedesse l’istituzione fin dal 2000. I detenuti psichiatrici - prosegue l’interrogazione - vengono trattati come detenuti ordinari a causa della cronica carenza di posti nelle Rems. Un’emergenza silenziosa che si traduce nell’abbandono, anche nei casi in cui la fragilità mentale è evidente. Ancora più allarmante è la condizione del cosiddetto “repartino sanitario”, che è stato allestito all’interno di un ospedale privo di pronto soccorso e con pochissime specialistiche. La conseguenza? Anche per una semplice radiografia, il detenuto deve essere spostato - da ricoverato - in altri ospedali, con tutte le complicazioni del caso. L’interrogazione non si limita alla denuncia, ma fotografa con parole nette la situazione nazionale. Scrive Serracchiani: “Il sistema dell’esecuzione penale nel nostro Paese è al collasso”. Il testo evidenzia l’elevata presenza di detenuti con problematiche psichiatriche, di persone in stato di dipendenza o depressione, e allo stesso tempo la “modestissima” dotazione di personale sanitario, psicologi e psichiatri. Le Rems sono poche, distribuite male, e strutturalmente inadeguate rispetto al fabbisogno. Nel richiamare la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1946 - secondo cui la salute è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” - l’interrogazione conclude con una domanda precisa ai ministri Nordio e Schillaci: intendano o meno adottare, con urgenza, misure volte a verificare e risanare le condizioni sanitarie del carcere di Santa Maria Capua Vetere, mettendo a disposizione personale e strutture adeguate. Questa interrogazione nasce grazie all’iniziativa di Monica Bizaj, presidente dell’associazione “Sbarre di Zucchero”, che ha ricevuto e trasmesso alle istituzioni l’appello dei detenuti. “Non si può morire di carcere e in carcere”, aveva scritto Bizaj nel documento allegato alla denuncia. Parole che oggi sono formalmente parte del dibattito parlamentare. Resta da vedere se, oltre a essere lette, verranno ascoltate. A questa fotografia già grave si aggiunge un’analisi ancora più ampia e impietosa contenuta nel recente rapporto dell’associazione Antigone, intitolato emblematicamente “Senza respiro”. Il focus è proprio sul diritto alla salute in carcere. Nonostante la presa in carico sia formalmente affidata al Servizio Sanitario Nazionale, il principio rimane troppo spesso solo sulla carta. Il carcere - si legge - è un luogo “patogeno”, dove la permanenza peggiora le condizioni di salute psichica e fisica. Sovraffollamento, assenza di spazi per l’attività fisica, mancanza di presidi medici, accesso discontinuo alle terapie: tutte condizioni che trasformano la reclusione in un fattore aggravante, non solo punitivo. Le strutture sono inadeguate, il personale sanitario insufficiente e i ricoveri esterni - quando concessi - subiscono ritardi pesanti, spesso causati dalla cronica carenza di agenti per accompagnare i detenuti. L’accesso alla salute si scontra, ogni giorno, con i limiti strutturali del carcere. Nel rapporto “Senza respiro” compare anche un contributo di Benedetta Centonze e Francesca Stanizzi dedicato allo sportello legale di Antigone presso la Casa circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso “Raffaele Cinotti”. Attivo dal 2012, è il primo sportello interno aperto dall’associazione: un gruppo di circa quindici volontari, tra ingressi in istituto e back office, che offre consulenza per istanze, reclami e segnalazioni alle istituzioni, senza sostituirsi agli avvocati nominati dai detenuti. Le rubriche di assistenza hanno evidenziato un numero cresciuto di richieste legate alla salute, tanto da spingere Antigone a dialogare direttamente con i professionisti sanitari dell’infermeria. Medici, infermiere e operatori socio- sanitari hanno descritto le difficoltà quotidiane: un contesto rigido, esigenze sanitarie molteplici, turnover elevato (il medico “di più lunga anzianità” è in servizio da solo sette anni) e un equilibrio emotivo costantemente sotto pressione. A fine marzo 2025, i 1.561 detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso (capienza regolamentare 1.170) facevano registrare un sovraffollamento del 133,4%. La pianta dell’istituto - con reparti distinti (G6- G14) per isolamento, tossicodipendenza, alta sicurezza, malattie infettive, disabilità fisiche, 41- bis - costringe a turnazioni complesse: i medici coprono più reparti, gli infermieri si spartiscono turni che spesso slittano oltre l’orario ufficiale, mentre di notte resta un solo medico per tutto l’istituto, affiancato da due infermieri al G6. Il Cup interno per le prenotazioni mediche prova a dare ordine, ma le liste d’attesa esplodono: molte visite saltano per mancanza di agenti penitenziari in grado di scortare i detenuti. Così, richieste urgenti di radiografie, Tac o risonanze possono attendere mesi, se non anni; quel che conta per il detenuto è “accaparrarsi” un posto in ambulanza, spesso a fronte di promesse non mantenute. Nel frattempo, si intensificano minacce di autolesionismo per ottenere farmaci “di scambio” - in particolare il Pregabalin - e si solleva un allarme continuo per la sicurezza delle infermiere, costrette a gestire la distribuzione dei medicinali in assenza di sufficienti agenti di polizia penitenziaria. Il rapporto documenta poi il rapporto critico con l’Asl Roma 2, a cui spetta il reclutamento e il materiale: medici “a prestazione” senza stabilizzazione contrattuale dal 2018, infermieri e Oss assunti da cooperative esterne, assenza di ausili (sedie a rotelle, stampelle) e scarsa manutenzione delle apparecchiature avanzate in dotazione. Nel reparto G14, riservato a chi convive con infezioni infettive (HIV, epatiti), l’ambulatorio specialistico c’è, ma manca l’ortopedico: un problema per fratture o traumi che obbliga a trasferimenti fuori misura. Infine, lo sportello legale registra storie emblematiche: il detenuto P. M., colpito da tumore alla laringe, ha subito laringectomia dopo lunghi rinvii di Tac; un altro ha visto l’ernia trasformarsi in urgenza da pronto soccorso per sfuggire a interminabili liste d’attesa. Queste voci, spiegano Centonze e Stanizzi, restituiscono la misura di quanto “ammalarsi in carcere” talvolta significhi “condanna a morte”. Ora la palla passa alla politica. Ma anche all’opinione pubblica. Perché dietro quelle sbarre ci sono persone. E, come scrisse l’ex garante nazionale Mauro Palma in uno dei suoi ultimi rapporti, “i diritti dei detenuti sono la cartina di tornasole della democrazia”. Quando in carcere si smette di curare, fuori si comincia a morire di indifferenza. “Il mio primo giorno in cella, uno choc che da cui non mi sono ancora ripresa” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 6 giugno 2025 Alcuni detenuti raccontano come è stato il primo giorno in carcere. La seconda puntata della serie “Voci dal carcere”. Con il tempo, il mondo di fuori diventa un ricordo impreciso, annebbiato. La vista si accorcia, mutilata da una parete nuda a due metri, una porta con blindo e un pezzo di cielo senza sole incorniciato da una grata. L’udito diventa prima ipersensibile, torturato da rumori metallici e porte blindate che sbattono, poi affetto da una sordità difensiva, mentre il silenzio diventa un ricordo lontano. L’odore di candeggina e di muffa si mischia con quello del cibo, cucinato a un metro dal cesso, e invade il corpo e il cervello. Le malattie psicologiche e fisiche verranno dopo. Ma cosa succede quando un uomo o una donna varcano per la prima volta la cella di una prigione? Cosa succede a quelli che, con linguaggio burocratico asettico, vengono chiamati i “nuovi giunti”? Lo raccontiamo attraverso la storia di Maria Poggio, già avvocato penalista, finita nella sezione femminile del Bassone, il carcere di Como, uno dei peggiori d’Italia. L’arresto al ricamificio - “Facevo l’avvocato. A un certo punto, è successa una cosa talmente grossa nella mia vita che nel lavoro mi sono affidata a terze persone e ho rifiutato di controllare quello che stava succedendo. Sono stata condannata a 3 anni e 10 mesi. È andata così. L’ordine di esecuzione è sospeso, per pene inferiori a 4 anni. Non ero in carcere, dunque, perché mi mancavano due mesi alla soglia. Per riprendermi, sono andata a fare l’operaia in un ricamificio di Busto Arsizio. Un lavoro durissimo, ma mi faceva stare bene. Mi serviva fare lavori materiali. La testa mi scoppiava, volevo far lavorare le braccia. Un giorno mi chiama la titolare. Ci sono i carabinieri, dice. Sono due pattuglie, c’è anche una donna. La dobbiamo portare via, mi dicono, c’è un ordine di esecuzione. Va bene, dico. Non mi scompongo. Sono bianca di polvere, a causa della termogarza. Bruciavo capi sotto le presse. Chiedo se posso salutare i colleghi, mi dicono di no. Mi accompagnano a casa, dove c’è mia figlia, 21 anni, disperata. Li supplica di non portarmi via. Non se l’aspettava e neanche io. “Faccia una borsa con quattro cose da portar via, si dia una pulita”. Mi lavo le mani. Chiedo di fare le doccia, perché sono sporca per il lavoro. Mi dicono che devono restare in bagno con me per controllare, allora dico di no. Prendo le quattro cose che mi mette mia figlia. Piange disperata”. Le impronte che si ribellano - “Mi portano a Varese, alla stazione dei carabinieri. Devono prendere le impronte digitali. Le mani sono molto sporche, per il lavoro, e non riescono a prenderle. Il sistema telematico a Roma di acquisizione delle impronte non funziona. Resto in caserma per oltre due ore. I militari sono gentilissimi, mi offrono il caffè. Non capisco. Chiedo: ma com’è possibile che due giorni fa ero qui per prendere una notifica, nessuno mi dice niente e dopo due giorni finisco in carcere? Salta fuori che era arrivato a sentenza un altro procedimento. Un altro anno, avevo superato la soglia dei quattro. Mi mettono in macchina”. In viaggio con le manette - “L’appuntata dice ai colleghi: è una signora, non mettiamole le manette. Ma un carabiniere si impunta. Dice che sono obbligati. I miei non sono reati violenti, non c’è nessun pericolo, ma me le mettono lo stesso. Resto in manette per tutto il viaggio. Me le toglieranno solo all’ingresso del carcere. Quando partiamo, mi dicono: andiamo al carcere di Monza. Ma io so che il femminile a Monza è chiuso da 5 anni. Ma siete sicuri, dico, il femminile di Monza mi risulta chiuso. Loro sono già in autostrada, chiamano, chiedono informazioni, gli dicono che in effetti quello è chiuso. Escono dal casello, si torna indietro. Si dirigono verso Como”. Al Bassone, si chiude la porta - “Arrivati al Bassone, verso le sei di sera, mi fanno scendere. Mi tolgono le manette, entriamo. L’addetta mi leva la catenina con il crocefisso e il braccialetto. Ho con me le foto dei miei figli, non vuole lasciarmele. Poi l’addetta telefona, parlano un po’. Vabbè, sono di carta, possiamo lasciargliele. C’è la perquisizione, terribile. Sono nuda come un verme. Mi rivesto, finisco in una cella di prima accoglienza, davanti al corpo di guardia. In pratica sei in isolamento, lo fanno sempre, perché temono qualche atto di autolesionismo e da lì è più facile controllarti. La porta si chiude. Sono dentro. Vedo un materasso conciatissimo, una coperta, un cuscino. C’è un televisore rotto. Di fianco alla branda, un cesso alla turca, con il lavandino. Non ci sono sanitari veri, è un carcere per uomini, come quasi tutti. Le donne devono farla nella turca, sospese in aria. È il 29 giugno e fa un caldo tremendo. Quell’anno era un’estate torrida fuori, figuriamoci dentro”. Il primo giorno - “Quando arrivo, ho un solo pensiero: mia figlia. Voglio farle sapere che sto bene, voglio rassicurarla in qualche modo. Nessuno mi parla, sono sola. Vedo passare una volontaria e la chiamo. Chiedo di poter telefonare ma non si può: serve il tesserino e bisogna fare la domandina. Anche per fare spesa devo aspettare. Le chiedo di chiamarla, di aiutarmi. Le chiedo un foglio e una matita. Scrivo poesie, voglio sfogarmi. Ho sete, ma nessuno mi dà l’acqua. Bevo dal rubinetto, anche se ho il dubbio che non sia potabile”. La doccia - “Quando arrivi dentro, all’inizio non capisci, non sai nulla, nessuno ti dice nulla. Voglio lavarmi, farmi una doccia, ma non so dove farla. Mi danno un pezzo di sapone, mi arrangio con il lavandino. Nei giorni successivi vengo a sapere che quelli del corpo di guardia si lamentano di me, dicono che non mi lavo. Ma io non lo so come funzionava. Non sapevo che sotto in sezione ci sono le docce e posso chiedere di andarci. Ho 62 anni e sono in una cella. Sono inebetita”. L’ora d’aria - “Chiedo timidamente se posso uscire per fare l’ora d’aria. Me lo concedono solo il terzo giorno. Tre giorni chiusa da sola nella cella, senza poter parlare con nessuno. Poi aprono la porta. Finisco in questo cortile, da sola. C’è un caldo cocente, sto male, non ho acqua, chiedo di poter rientrare ma mi dicono che non si può, devo finire l’ora. È un momento terribile. Sto malissimo. Non sapevo che sarei finita in questa specie di cubo di cemento senza niente, senza copertura, senza alberi. Sono sotto il sole a picco e non ce la faccio più”. In sezione - “Dopo cinque giorni di isolamento, mi fanno entrare in sezione. Finisco in una cella con un’altra ragazza, molto carina. È lei a chiedere di stare con me. Ha visto che scrivevo, lei è una che canta canzoni rap. Parla con le agenti e finisco con lei. Sono fortunata, la mia è una cella a due. Ma ce n’erano altre con tre, con quattro e anche con cinque persone. Già in due stiamo strettissime. Stiamo su un letto a castello, c’è un mezzo tavolino e il bagno, sempre con la turca. Non so dove appoggiarmi, a 62 anni non è facile”. Le domandine - “Dopo 5 o 6 giorni ricevo la tessera per telefonare. A quel punto posso fare la domandina. Servono documenti, però, devo produrre lo stato di famiglia, recuperare la carta d’identità. Le telefonate sono di 10 minuti alla settimana, ma il direttore autorizza qualche minuto in più. Si può fare anche qualche whatsapp video, ma in questo caso i minuti si accorciano. C’è molta burocrazia. Per ogni cosa si devono fare le domandine, che si perdono spesso e si devono rifare. Comincio a fare la scrivana: raccolgo la posta, le istanze. Per un’autentica di firma ci vogliono un sacco di giorni. C’era una ragazza di Venezia, che chiede un avvicinamento parentale. Non glielo danno, rimane al Bassone per mesi. La trasferiscono alla Giudecca quando le mancano solo due mesi al fine pena. Per le donne c’è poco. Tutte le carceri sono per uomini. In Lombardia, a parte San Vittore, c’è Como. E poi Bergamo e Brescia”. L’educatrice - “Il Bassone è una struttura pessima, fatiscente. Il tempo non ti passa mai. Faccio qualche corso, cucito, fotografia. Ma sono corsi gestiti male, non c’è organizzazione, qualcuno comincia, poi non va più. Chiedo se posso organizzare un corso di scrittura creativa, mi dicono di no. Non c’è neanche un educatore. Loro sono fondamentali: non solo perché aiutano i detenuti a organizzare attività, ma anche perché senza di loro non c’è speranza di uscire. Sono loro che fanno le relazioni per il magistrato di sorveglianza, che decide se concedere o meno le misure alternative. Siamo disperati, protestiamo, scriviamo al direttore. Alla fine ne vengono nominati quattro. Si presentano in due, uno si mette subito in malattia. Ne rimane una, che deve lavorare sia per il maschile sia per il femminile. Poverina, si dà da fare, ma noi donne siamo 56, gli uomini saranno 300. Gli psicologi sono pochissimi e cambiano in continuazione. L’unica continuità è con il medico. Vai, ti visita e ti dà il bicchierino. Psicofarmaci, sedativi. Vedo gente inebetita. Dormi, mangi, non sei più una persona. C’è gente che urla e bisogna farla stare zitta. Gente che beve il detersivo. Trovo una ragazza che si è appesa un cappio al collo e si è attaccata al termosifone. La salviamo noi. Si voleva uccidere, perché non le davano una risposta su quando sarebbe arrivata la pensione di invalidità. La stava aspettando da tanto. È senza soldi e senza nessuno, è disperata”. L’ultimo giorno - “Quel giorno sto lavorando. Mi do da fare per aiutare le altre, mi avevano dato questo registrone con le domandine. Sono passati 7 mesi, è un giorno come gli altri. Mi chiamano al corpo di guardia e mi dicono: guarda che esci, è arrivato il provvedimento. Avevo fatto istanza per l’affidamento in prova, ma non sapevo quando sarebbe arrivato. Mi schedano, mi fanno il dna, firmo le dimissioni. L’Uepe, l’ufficio di esecuzione penale esterna, controlla quello che fai o non fai, ma non è che ti trovano un lavoro. Io lo chiedo, ma non salta fuori niente. Poi mi riprendono al ricamificio, sono gentilissimi. Mi fanno una grande festa quando torno. Con l’affidamento non puoi uscire di casa prima delle 6 e non puoi tornare dopo le 11 di sera. Ma sono fortunata. Molti altri escono dal carcere, se escono, e c’è il vuoto”. ? Occorre separare le carriere tra opposizione politica e alzata di scudi demagogica di Giuliano Ferrara Il Foglio, 6 giugno 2025 Capisco molte delle obiezioni politiche e legislative al disegno di legge sulla Sicurezza approvato dalla maggioranza alle Camere con il voto di fiducia e le condivido. La definizione di nuovi reati, l’inasprimento delle pene, le nuove aggravanti hanno spesso, non sempre, il sapore di misure che puntano a un consenso facile e generico piuttosto che a un’efficienza dissuasiva e repressiva difficile. Questo governo di destra, che forse ci darà la separazione delle carriere tra accusa e difesa, un pilastro dello stato di diritto, un antidoto al giustizialismo, una pratica ovvia per il garantismo anglosassone, cioè il più avanzato nel mondo democratico e liberale, ha scelto di procedere, immagino anche per temperare i costi politici di una scelta che è liberale e di sinistra, una spolverata legislativa di securitarismo su una rete di comportamenti penalmente rilevanti ancora non codificati o trattati fin qui con negligenza, passività, pigrizia, sebbene costituiscano materia di notevole allarme sociale (come il borseggio nei mezzi di trasporto, le truffe agli anziani, il casino intorno alle stazioni, i blocchi della circolazione, certe impudenti forme di resistenza violenta alle forze di polizia in assetto di ordine pubblico, il vandalismo). Ma isolare alcune scelte molto infelici come la criminalizzazione della resistenza passiva, passaggi tristemente insensati sulle donne incinte e sulle carceri, che dovrebbero invece diventare un cavallo di battaglia riformista e umanitario di qualunque governo vista l’infernale insostenibilità della situazione attuale, per assalire il governo e la maggioranza sul piano ideologico e politico con l’accusa di “svolta autoritaria” sembra una linea di risposta legittima ma sproporzionata. Come la campagna d’Albania condotta dalle opposizioni per dannare una linea equilibrata, accettata e perfino imitata nel contesto europeo, e riconosciuta da voci non sospette come alternativa alle vampate populiste, sovraniste e identitarie che percorrono le destre in molti paesi a noi vicini e che furono lo stigma d’azione e trombonismo provocatorio del governo Conte, Salvini, Di Maio qualche anno fa. Quella sì che era una deriva securitaria e andava combattuta con le baionette dell’antiautoritarismo autentico. Meloni non sembra di quella partita, e credo che il ministro Piantedosi non direbbe nemmeno sotto tortura quanto affermato dal ministro dell’Interno francese, Bruno Retailleau, che “lo stato di diritto non è sacro né intoccabile perché la fonte della democrazia è la sovranità popolare”. Da noi, dentro le carceri e nel mondo esterno, si allungano ombre di semilegalità e comportamenti opachi degli apparati di stato, eppure la protezione legale dei poliziotti, sacrosanta per tanti motivi, non arriva al divieto francese di fotografare cortei e barriere di sicurezza in divisa, e più in generale non siamo il paese che calpesta la sua stessa immagine storica di faro libertario con sequestri di studenti stranieri da parte di agenti in borghese, con i bandi all’immigrazione dei ricercatori nelle università, con i rimpatri forzati in democrature bananiere sbandierati in modo disumano con contorno di catene e teste rasate, altro che paesi sicuri, in un tripudio di sensazionalismo demagogico, con le vittime dei reati esibite piangenti sui palchi dei comizi politici alla ricerca di un consenso sempre più passivo e sanguinoso nella corrente della paura. Tutto questo e molto altro accade negli Stati Uniti, non in Italia. Il paradosso è che, sia quando la svolta autoritaria è chiara e certificata dai fatti, sia quando la retorica della sicurezza è di facciata, anche le opposizioni che fanno il loro mestiere intoccabile sono all’origine della deriva denunciata. A forza di infischiarsene delle paure diffuse, arriva chi le cavalca in modo indecente e costituzionalmente intollerabile. Come è successo nell’America woke, che si è risvegliata certo, ma con quel bestione arrogante e manesco di Trump. Opporsi come doveroso ma con un certo senso della misura, e considerare la sicurezza un elemento irrinunciabile della vita democratica, è un antidoto contro la penalizzazione della vita pubblica. Occorre separare le carriere tra opposizione politica e alzata di scudi demagogica, quando si tratta di un governo che ha messo in castigo il lepenismo di alcuni suoi ministri irrilevanti, capi politici in calando, e che ha dato segnali sulla sicurezza in qualche caso non seri, ma solo raramente gravi e ideologicamente connotati, mentre cerca di smantellare il davighismo che da quasi quarant’anni affligge la Repubblica con lo spirito di procura e il militantismo delle manette facili. Non c’è nessuna “orbanizzazione” in corso, in Italia, come non c’era nessuna “germanizzazione”, famoso e sciocco slogan estremista degli anni Settanta, quando con fatica si introducevano norme contro il dilagante terrorismo politico e stentatamente si cercava di attuarle. La bufala sulla legalizzazione del “terrorismo di Stato” e il ruolo dei servizi segreti di Ermes Antonucci Il Foglio, 6 giugno 2025 Parla Mario Mori. L’ex direttore del Sisde spiega perché non è vero che il decreto Sicurezza consentirà ai servizi di compiere un colpo di Stato, come denunciato dall’inedita coppia Boldrini-Renzi. E dice: “Gli agenti dei servizi devono poter agire agli alti livelli delle organizzazioni terroristiche”. “Per i servizi segreti un conto è avere all’interno di un gruppo terroristico o mafioso una fonte che è un semplice simpatizzante, insomma un picciotto di mafia. Ben altro conto è avere una fonte che partecipa alle riunioni della direzione strategica del gruppo. Cosa si vuole dai servizi? Che svolgano le loro operazioni fiancheggiando la costa, oppure che vadano al largo, cercando di capire a fondo come funzionano le organizzazioni terroristiche e mafiose?”. A porre la domanda, intervistato dal Foglio, è l’ex generale Mario Mori, già comandante del Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, l’organismo di intelligence che fino al 2007 ha svolto l’attività di raccolta e analisi di informazioni per la sicurezza interna. Mori si riferisce alle polemiche che hanno accompagnato l’approvazione definitiva del decreto Sicurezza, in particolare per una norma in esso contenuta che amplia i reati per i quali gli agenti dei servizi possono agire senza essere puniti. A questi sarà infatti consentita non più solo la partecipazione ma anche la “direzione e organizzazione” di associazioni con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. La disposizione ha provocato l’indignazione soprattutto della deputata Pd Laura Boldrini, che ha denunciato “la legalizzazione del terrorismo di stato”, e del leader di Italia viva, Matteo Renzi, che mercoledì nell’Aula del Senato ha attaccato il governo: “State dicendo che se i servizi segreti vogliono compiere un colpo di stato stanno rispettando la legge, e non c’è nessuno che si muova. Avete scelto di mettere i servizi segreti nelle condizioni di dirigere associazioni terroristiche, ma siete impazziti?”. “Nel paese della P2, di Gladio e di Piazza Fontana, noi per la prima volta nella storia repubblicana diamo ai servizi segreti la possibilità di guidare organizzazioni terroristiche”, ha aggiunto Renzi. Le cose, in verità, non stanno esattamente come rappresentate dalla strana coppia Boldrini-Renzi. La legge che disciplina le attività di intelligence infatti, come ci ricorda anche Mori, stabilisce chiaramente che le condotte relative ai reati scriminati (per esempio partecipazione ad associazioni sovversive, arruolamento con finalità di terrorismo, organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo, partecipazione a banda armata) possono essere compiute dagli agenti dei servizi solo se rispettano i criteri di indispensabilità, ragionevolezza e proporzionalità. Soprattutto, la legge esclude che possano essere autorizzate condotte dirette a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone, e altre condotte particolarmente gravi, come ad esempio attentato contro organi costituzionali o contro i diritti politici. “Chi è del mestiere sa che ci sono presupposti molto precisi per lo svolgimento delle attività riconducibili ai reati scriminati”, afferma Mori. “Tanto per dirne una, un agente dei servizi non può sparare, come invece è previsto in altri paesi come la Francia. Allo stesso modo non puoi sovvertire le istituzioni”. Insomma no, non è vero che il decreto Sicurezza legittimerà i servizi segreti a compiere colpi di stato, come sostenuto da qualcuno. Piuttosto, l’occasione è utile per riflettere sulla direzione che i servizi di intelligence dovrebbero avere. “Se vuoi rendere veramente efficace il lavoro del servizio, gli devi dare la possibilità di agire ai giusti livelli”, sottolinea Mori. “Sa qual è l’essenza dell’attività dei servizi segreti?”. Qual è? “Glielo spiego con un esempio. Prendiamo il più importante latitante al mondo fino a qualche anno fa: Osama Bin Laden. Il sogno di un agente di polizia giudiziaria, di un carabiniere o di un poliziotto è arrestare Bin Laden. Il sogno di un agente dei servizi, sia esso italiano o americano, è far diventare Bin Laden una propria fonte. La differenza è tutta qui”. Perché è questo il sogno dei servizi? “Perché in questo modo sviluppi ulteriormente l’attività di intelligence. Addirittura entri nel campo avverso e puoi capire completamente l’organizzazione e la strategia del tuo nemico, perché hai uno dei massimi esponenti che ti fa da fonte”, risponde Mori. Una lezione per chi in queste ore parla, a sproposito, del ruolo dei servizi. Brusca, fine pena: perché giustizia non fa rima con vendetta di Giovanni Tizian Il Domani, 6 giugno 2025 La scarcerazione definitiva del mafioso che azionò la bomba di Capaci e sciolse nell’acido il piccolo Di Matteo ci mette di fronte a un bivio: vendetta o giustizia? Brusca si affiliò alla mafia nel 1976. Aveva solo 19 anni e già contava nel curriculum due omicidi. Un predestinato per il crimine, a tal punto da aver avuto come padrino nel rito di affiliazione Totò Riina in persona, il capo dei capi della mafia stragista. Insomma, se fosse il personaggio di un film, sarebbe il cattivo per antonomasia, di quelli che creano una forte repulsione. Eppure il nostro non è un set cinematografico, ma una società fondata sul diritto, con la Costituzione come faro a far luce nell’oscurità della barbarie. Siamo, in altre parole, in una democrazia che dovrebbe ripudiare, tanto quanto la guerra, l’idea di una giustizia vendicativa fondata sullo slogan del rinchiudi il criminale in cella e “butta le chiavi”. Un tradimento della democrazia. Quante volte è stato pronunciato dai leader della destra nazional-populista? In una miriade di occasioni. È, tuttavia, proprio il profilo criminale di Brusca a mettere alla prova la maturità della nostra democrazia. Di fronte a un soggetto di tale caratura criminale, siamo in grado di accettare che la giustizia è altro rispetto alla vendetta degli antichi? Il padrino di Cosa nostra ha sfruttato una legge dello Stato, è diventato collaboratore di giustizia. Una legge, peraltro, voluta fortemente proprio da Falcone, pensata per erodere dall’interno Cosa nostra. Che garantisce trattamenti di favore a quei mafiosi, anche i più feroci, disposti a tradire la famiglia criminale per affidare i loro segreti ai magistrati. L’unica strada per penetrare in un sistema che fonda il suo potere sui segreti. La legge sui pentiti è stata una svolta epocale nella legislazione italiana. Ha cambiato la guerra ai clan. La giustizia è dunque cosa diversa dal dire “Brusca deve marcire in galera”. Non è mai facile confrontarsi con il dolore perpetuo di chi ha perso un familiare trucidato dalle mafie. Perché siamo di fronte a famiglie il cui corpo è sfregiato da ferite incurabile. Per tutta la vita continueranno a sanguinare. Soprattutto quando a mancare è la verità. Come nella stragrande maggioranza dei delitti di mafia. E sul terreno dove è assente la verità, quindi la giustizia, cresce la pianta dell’odio, perciò la voglia di trasformare la pena in vendetta eterna. Di questi tempi è utile ribadirlo. E ricordarlo anche a chi riveste ruoli apicali nelle istituzioni. Perché se è comprensibile, seppure non sempre condivisibile, la reazione istintiva di alcuni familiari che considerano inaccettabile la liberazione dopo 25 anni di carcere di Brusca, non è accettabile che la presidente del Consiglio si esprimesse così quattro anni fa dopo la notizia della libertà vigilata concessa al sanguinario padrino: “È una notizia che lascia senza fiato e fa venire i brividi. L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, è un affronto per le vittime, per i caduti contro la mafia e per tutti i servitori dello Stato che ogni giorno sono in prima linea contro la criminalità organizzata. 25 anni di carcere sono troppo pochi per quello che ha fatto. È una sconfitta per tutti, una vergogna per l’Italia intera”. Un condensato di ignoranza della legge, della storia, dei diritti garantiti in democrazia anche al peggiore dei criminali. Non si ricordano parole d’indignazione tale per la concessione della libertà condizionale anticipata ai neofascisti condannati per la strage di Bologna (85 morti) cresciuti negli ambienti del Movimento sociale italiano. Peraltro nessuno di loro, a differenza di Brusca e molti altri mafiosi, ha mai collaborato con la giustizia. Ma non deve stupire: è il doppio standard sul garantismo che ha sempre contraddistinto la destra al governo. Trasformare in un caso la liberazione di Brusca, cioè un fatto che non dovrebbe sollevare alcuna polemica per via di una cornice normativa che lo permette, ha però una sua utilità politica: modificare la legge sui pentiti, nemici pubblici dai tempi in cui si erano permessi di raccontare i legami di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri con la mafia siciliana. “Una legge da cambiare”, aveva promesso Matteo Salvini, sempre nel 2021, dopo la notizia di Brusca libero in libertà vigilata. Per fortuna a oggi è rimasta solo una minaccia alla memoria di Falcone. La liberazione di Giovanni Brusca prova che lo Stato è più forte della vendetta di Sergio Lima* Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2025 La legge, per essere credibile, deve valere anche per chi ci ripugna. È questo il paradosso dell’essere giusti. La liberazione di Giovanni Brusca non è solo una eclatante - per quanto attesa - notizia di cronaca giudiziaria. È la riapertura di ferite mai rimarginate. È lo scontro tra memoria e sentimento collettivo e il diritto. È la durissima prova a cui siamo, tutti e tutte noi, sottoposti e sottoposte. Testimoniare che lo Stato, le sue leggi e il suo ordinamento, può essere anche più forte dell’istintivo desiderio di vendetta. Ma resta una verità scomoda, insopportabile per molti: il debito che Brusca ha con la Sicilia, e l’Italia tutta, non si può ripagare. Neppure con 500 ergastoli, uno per ogni chilo di tritolo fatto detonare a Capaci. Chi sia Giovanni Brusca, oggi 64enne, non si può riassumere solo in una stringata biografia mafiosa. Brusca è una delle più insopportabili e crudeli incarnazioni del potere di Cosa Nostra. Non solo un mero esecutore della volontà omicida dei Corleonesi, ma un protagonista di primissimo piano della stagione delle stragi. Fu lui ad azionare il telecomando che fece esplodere il tritolo sotto l’autostrada A29, all’altezza di Capaci nel 1992. Sempre lui era nel commando che fece saltare l’autobomba usata per uccidere Rocco Chinnici. Una carriera criminale che vanta innumerevoli omicidi, e innumerevoli non è parola usata a caso, visto che lo stesso Brusca non ricorda il numero esatto: “più di cento, meno di duecento” per usare le sue parole. E poi l’orrore assoluto: l’ordine di uccidere Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo. Il bambino fu rapito, tenuto prigioniero per oltre due anni e poi strangolato. Il suo corpo, infine, sciolto nell’acido, per cancellarne ogni traccia. Un delitto aberrante reso ancora più carico di orrore nella ricostruzione fornita in udienza da Vincenzo Chiodo, esecutore del delitto. Nel 1996, dopo l’arresto nel maggio dello stesso anno e a pochi mesi dall’omicidio del piccolo Di Matteo, Brusca inizia a collaborare con la giustizia. Non lo fa per pentimento morale, ma per strategia. Racconta, rivela, fa nomi, aiuta a decifrare i codici oscuri di Cosa Nostra. In cambio, ottiene uno sconto di pena. È il meccanismo della legislazione sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni Falcone stesso, consapevole che per abbattere la mafia bisognava scardinarne l’omertà dall’interno. ?Senza uomini come Brusca, forse molti segreti di quegli anni sarebbero ancora sepolti. È una realtà amara, che fa male. Tanto male. Ma è la verità che dobbiamo accettare. La legge, per essere giusta, deve anche essere efficace. E in quel contesto, l’efficacia ha avuto un costo altissimo. Brusca ha scontato 25 anni di carcere, ha ottenuto i benefici previsti ed è tornato in libertà sotto sorveglianza speciale. Non è un privilegio: è una conseguenza di una norma che lo Stato ha deciso di applicare, anche quando fa male. Ma la legge, per essere credibile, deve valere anche per chi ci ripugna. È questo il paradosso dell’essere giusti: non scegliere a chi applicare la giustizia, ma applicarla a tutti. Un principio, a ben pensarci, che è l’esatto opposto di uno dei pilastri mafiosi. E tuttavia, c’è qualcosa che nessuna sentenza potrà mai chiudere. Per quanto Brusca abbia collaborato, per quanto abbia scontato anni in cella, per quanto oggi sia fuori dalle gerarchie mafiose, per quanta luce abbia portato su molti dei più sanguinosi fatti di mafia il debito nei confronti della comunità siciliana, della verità, della pietà umana, è e resterà incancellabile. Chi ha strappato un bambino alla vita con quella crudeltà, chi ha fatto esplodere autostrade e auto senza preoccuparsi delle vite sacrificate, chi ha ucciso e torturato senza neppure preoccuparsi di ricordare nomi e volti delle vittime non potrà mai restituire ciò che ha tolto. Lo Stato lo ha scarcerato, ma la memoria no. La società no. Perché ci sono azioni che superano il perimetro della pena e della legge. Non per vendetta, ma per consapevolezza. Perché ricordare è un nostro dovere. Al pari di rispettare quanto previsto dalle norme che hanno, in maniera cosi importante, contribuito a tante vittorie contro Cosa Nostra. La vera forza dello Stato si misura quando rinuncia alla vendetta, anche davanti al mostro. Giovanni Brusca è libero, ma non sarà mai innocente. La giustizia lo ha trattato come un uomo, non come un simbolo. E questa è la vittoria più difficile per chi nel 1992 chiedeva verità ed era stanco di contare funerali e morti ammazzati. Liberare Brusca secondo la legge è stato giusto. Dimenticare ciò che ha fatto sarebbe imperdonabile. Che Brusca, detto “u verru” cioè il porco, possa adesso campare 150 anni, uno per ognuno dei morti che ha sulla coscienza. E che quei nomi e quei volti possano venirgli in mente ogni giorno. A ricordargli che si può essere liberi dalle sbarre di una galera, non da se stessi. E che alla fine abbiamo vinto noi, noi che abbiamo ben presenti i volti e i nomi delle sue vittime. *Direzione nazionale Pd La riforma fallita di Bergoglio sulla mafia. Moralismo penale e divino vanno insieme, ma zoppi di Maurizio Crippa Il Foglio, 6 giugno 2025 Papa Francesco aveva promesso la scomunica per i mafiosi, ma la Chiesa si è fermata prima di passare ai fatti. Il caso Brusca rivela il fallimento di una riforma rimasta solo nelle intenzioni. Sempre con tutto il rispetto per Francesco buonanima, la faccenda della definitiva liberazione di Giovanni Brusca u verru per avere scontato interamente la pena - 25 anni in virtù dello sconto per i collaboratori di giustizia - costringe a riflettere anche sulla distanza incolmabile tra i proclami morali, e persino le minacciate scomuniche della Chiesa, e i loro esiti nella realtà effettuale. Lo stragista di Capaci, il boss che fece sciogliere nell’acido il bambino Di Matteo, il capomafia e poi collaboratore cruciale nella lotta ai clan è libero. Il savonaroliano Lirio Abbate ha scritto: “La legge pretende fatti, non emozioni. Ma la giustizia, quella vera, pretende anche un’etica”. Del resto pure Papa Francesco aveva tuonato che la mafia è “una bestemmia”. Ma se già applicata alla giustizia penale l’etica traballa, anche nel caso della giustizia divina produce buchi nell’acqua. La notizia del fine pena di Brusca ha suscitato come è ovvio molti commenti, alcuni razionali pur nel grande dolore come quello della sorella di Giovanni Falcone, Maria: “Sento il dovere di affermare con forza che questa è la legge. Una legge, quella sui collaboratori di giustizia, voluta da Giovanni, e ritenuta indispensabile per scardinare le organizzazioni mafiose dall’interno”. Altri più esacerbati, come l’ex procuratore Antimafia Piero Grasso: “La prima reazione alla notizia della liberazione di Brusca è provare rabbia e indignazione”. E da più parti ci si è ricordati, con indignazione, di quando Papa Francesco aveva annunciato la scomunica per i mafiosi. Nel 2014 in Calabria Bergoglio aveva pronunciato parole nette: “I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”. Ma alle parole non seguirono i fatti, come spesso nel suo pontificato. Un po’ perché a segnare la posizione della Chiesa già era bastato Giovanni Paolo II, nel 1993 ad Agrigento, con un pubblico anatema ma per così dire più escatologico, “un giorno verrà il giudizio di Dio”, che di diritto canonico. Un po’ perché passare dalle intenzioni profetiche ai fatti è stato uno degli inghippi di Francesco. Come non era bastato il “chi sono io per giudicare?” per cambiare la dottrina sull’omosessualità; come le ben due commissioni sul diaconato femminile finite in nulla; come il Sinodo amazzonico che doveva dare il via libera ai viri probati. Scomunicare i mafiosi è stata un’altra delle celebrate riforme profetiche del Papa argentino rimaste al palo. La cosa andò comunque avanti. Nel 2021, in occasione della beatificazione di Rosario Livatino, “primo magistrato beato nella storia della Chiesa”, fu istituito presso il dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale un gruppo di lavoro sulla “scomunica delle mafie”. C’erano tra gli altri nomi celebri come don Ciotti, Rosy Bindi ex presidente della commissione Antimafia, l’ex procuratore Giuseppe Pignatone, il vescovo emerito di Monreale Michele Pennisi e don Marcello Cozzi, già numero due di Libera. I problemi non furono pochi, del resto un tentativo di scomunicare i mafiosi era già fallito clamorosamente nel 1989, quando in un’assemblea della Cei il cardinale di Napoli, Michele Giordano, aveva annunciato che i vescovi stavano per decidere la scomunica. Fu stoppato per le vie spicce dal cardinal Poletti nel discorso di chiusura: “La scomunica della mafia non è all’ordine del giorno. Non è prevista e non è prevedibile nessuna sanzione di questo tipo. La condanna della violenza da parte della Chiesa è sempre chiara e inequivocabile. Ma non è compito della Chiesa varare provvedimenti particolari”. La scomunica latae sententiae esiste per pochi casi: i reati contro la fede: apostasia, eresia e scisma; la profanazione delle specie eucaristiche; la violenza fisica contro il Pontefice; l’ordinazione di un vescovo senza approvazione del Papa; l’aborto. Fatto salvo che ci si può sempre pentire (la scomunica come “pena medicinale”). Ma, nel caso di reati che vanno dalla strage al pizzo all’omertà, qualcosa della necessità di normare i “provvedimenti particolari” al diritto canonico sfugge. A questo proposito è notevole un risvolto della vicenda di Brusca. Oggi, pentito o no, la sua anima nera è in buoni rapporti con don Marcello Cozzi, ex vicepresidente di Libera, a cui ha confidato: “Il paradosso è che questa libertà me l’ha donata il magistrato che ho ucciso, Giovanni Falcone”. Don Cozzi con lui ha scritto addirittura un libro, Uno così. Giovanni Brusca si racconta (San Paolo). Il paradosso vero è che è lo stesso sacerdote che, come membro della commissione vaticana, avrebbe dovuto scomunicarlo. Scrive Lirio Abbate che “Papa Francesco aveva un piano chiaro: colpire mafia e corruzione… usava parole forti: definiva la corruzione ‘un cancro’, ‘una radice velenosa’, ‘una bestemmia sociale’”. Ma la commissione non ha portato a nulla. Secondo don Ciotti, perché “purtroppo a un certo punto qualcosa si è interrotto. Non l’attenzione di Papa Francesco che è rimasta viva su questi argomenti, ma internamente al Vaticano c’è stato un freno”. Il solito complotto dei mafiosi del Vaticano, la trattativa Santa Sede-mafia. C’è chi sostiene che tecnicamente sia stato l’arrivo al dicastero del cardinale Michael Czerny, gesuita, a indirizzare la cosa su un binario morto: tra l’altro, l’idea era di varare una scomunica valida urbi et orbi per tutte le mafie di tutto il mondo, vasto programma. Più semplicemente non è agevole, quando si è sul terreno del diritto divino, stabilire in quali casi e fino dove ogni reato richieda una scomunica. Ad esempio c’è chi ha proposto l’idea della scomunica per la corruzione, “bestemmia sociale”. Ma basterebbe, nel caso, una condanna per abuso d’ufficio? E, con l’aria che tira, a quando la scomunica per il femminicidio, o il bullismo? Fra’ Cristoforo dei Promessi sposi non sarebbe esistito, perché sarebbe stato precedentemente scomunicato per omicidio aggravato da atti di bullismo. Può mai la Chiesa infilarsi in questo ginepraio? Roma. Detenuto di 27 anni trovato morto in carcere. Il Garante: “Non è un suicidio” di Lorenzo Nicolini romatoday.it, 6 giugno 2025 È stata disposta l’autopsia per accertarne le cause. A dare l’allarme il personale di polizia penitenziaria. Un detenuto di 27 anni è stato trovato morto in carcere a Roma. Lo scorso 4 giugno l’uomo stato trovato senza vita nel suo letto a Regina Coeli. “Non si è trattato di un suicidio, né aveva condizioni di salute note che potessero far temere un evento simile. È stata disposta l’autopsia per accertarne le cause”, ha reso noto Stefano Anastasìa, garante delle persone private della libertà della Regione Lazio. A dare l’allarme il personale di polizia penitenziaria. Secondo quanto appreso, da un primo esame del medico legale sul corpo del 27enne non sarebbero emersi segni di violenza o ferite riconducibili a una aggressione. L’ipotesi è quella di un malore fatale in carcere. “La scorsa settimana il direttore generale dei detenuti e del trattamento del Dap, alla presentazione del rapporto di Associazione Antigone ci ha spiegato che la discrepanza tra i dati ufficiali e quelli di Ristretti Orizzonti sui suicidi in carcere dipende dai casi in cui la causa di morte è da accertare. Il problema è che di questi accertamenti poi nessuno sa più nulla, salvo - forse - familiari e avvocati. - ha sottolineato Anastasìa in una nota - Per questo credo che noi garanti territoriali dovremmo sempre preannunciare la possibile costituzione di parte civile sui casi di morte in carcere, come faceva il Garante nazionale nel precedente mandato, almeno per avere notifica dalle procure competenti sugli esiti degli accertamenti predisposti”. Genova. Dopo la rivolta in carcere ispezione ministeriale e inchiesta sullo stupro di Marco Lignana e Stefano Origone La Repubblica, 6 giugno 2025 Insieme al bilancio dei danni e degli agenti feriti, a Marassi è l’ora delle domande sui tre giorni di sequestro e abusi sul 18enne. Il giorno dopo la violenta rivolta dei detenuti nel carcere di Marassi per denunciare gli stupri e le sevizie subite per tre giorni da un detenuto 18enne da parte dei suoi compagni di cella, senza che nessuna guardia se ne accorgesse, si scatena il dibattito politico. Con il centrodestra che protegge l’operato della polizia penitenziaria e il centrosinistra che chiede la grazia per il giovane detenuto in carcere per una rapina di poco conto e un passato in una comunità. Ma non solo. La pace è ancora lontana nel carcere, perché la rivolta segna anche una spaccatura tra i vertici dell’istituto penitenziario e le guardie, e la prova sono le dichiarazioni del sindacalista Fabio Pagani, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria, che ha chiesto la testa non soltanto della direttrice “Serve subito un cambio dei vertici”. In questo clima, ieri gli ispettori del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono arrivati da Roma per ispezionare Marassi. Nel frattempo la Procura ha già aperto un fascicolo sulle sevizie e ne aprirà a strettissimo giro uno sulla rivolta, valutando di applicare le nuove norme del decreto Sicurezza. Con ogni probabilità, poi, gli esiti degli accertamenti del ministero confluiranno nell’indagine penale, in mano al pm Andrea Ranalli. Sul tema è intervenuta anche la Camera penale ligure: “Quanto accaduto rende ancora più palese che introdurre nuovi reati e nuove pene non ha alcuna efficacia deterrente, se non si interviene sulle cause che possono portare a commettere quel reato”. Un fatto gravissimo, tanto è vero che mentre un centinaio di detenuti devastavano le celle e le aule scolastiche (gli operatori sanitari, gli insegnanti e il personale amministrativo sono stati radunati in una stanza per motivi di sicurezza), si è precipitato a Genova il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta, Antonio Galati, per una urgente riunione operativa. La situazione stava per sfuggire di mano, una decina di detenuti erano riusciti anche a salire sul tetto dell’istituto e sul camminamento delle mura di cinta, scendendo solo dopo aver denunciato le sevizie sul detenuto. La direttrice Tullia Ardito ha tentato una mediazione con i reclusi, senza riuscirci. È stata ancora lei a prendere in mano la situazione chiamando la Questura per chiedere rinforzi, e non la comandante delle guardie. Da quanto filtra, durante la rivolta il Provveditore l’ha di fatto sollevata dall’incarico per motivi legati alla gestione della rivolta, chiamando al suo posto il comandante del carcere femminile di Pontedecimo, che in due ore è riuscito a sedarla. Il Provveditore ha anche sottolineato che in carcere non possono comandare i detenuti e che questa rivolta si poteva evitare se ci fosse stata più accuratezza nei controlli, perché è impensabile che il giovane, ora ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Martino, abbia subito queste violenze da domenica scorsa a martedì e il personale fosse all’oscuro di tutto. In base alle prime ricostruzioni i suoi aguzzini durante le ispezioni l’hanno nascosto in bagno, e l’hanno addirittura coperto con una coperta. Va ricordato anche che nei disordini, durati due ore, sono rimasti feriti quattro agenti di custodia: uno ha perso la falange di un dito, poi ricostruita all’ospedale San Martino. Tra i provvedimenti di Galati, c’è stato anche l’immediato trasferimento di tredici reclusi in alcune carceri del Piemonte, mentre 22 sono in isolamento a Marassi in una sezione creata apposta. In segno di solidarietà verso le agenti della Penitenziaria, è intervenuto Stefano Balleari, presidente del consiglio regionale, che ha visitato ieri mattina il carcere: “Associare le sevizie commesse da alcuni detenuti nei confronti di un compagno di cella e il successivo tentativo di regolamento di conti tra gli stessi detenuti ad argomenti come la carenza di personale o il sovraffollamento, ritengo che sia un atto strumentale e mistificatorio”. La consigliera comunale genovese di Avs, Francesca Ghio, va oltre la questione della rivolta. “Il danno che ha subito questo giovane appena maggiorenne, stuprato per giorni, picchiato e tatuato in volto, è irreparabile, ma ci sentiamo di chiedere al ministro della Giustizia Nordio di proporre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di concedergli la grazia”. Si è riparlato del trasferimento nell’area ex Colisa, a Bolzaneto. Ma la sindaca Silvia Salis è stata chiara: “Più che parlare di spostamento del carcere, il problema riguarda il numero di agenti presenti in ogni istituto, su questo non si scappa e bisogna parlare”. Niente ex Colisa, dunque? “Non può essere un luogo isolato, considerando tutte le persone che devono raggiungerlo, dal personale ai partenti detenuti”. Anche i sindacati continuano a protestare. La Federazione della sicurezza della Cisl Liguria parla di “grave carenza di personale e sovraffollamento, diretta conseguenza di anni di abbandono da parte dei vertici aziendali”. Genova. Un istituto da abolire, il carcere di Agostino Petrillo terzogiornale.it, 6 giugno 2025 “Celle come tombe, clima insopportabile”: così un anno fa il Garante regionale per i detenuti, Doriano Saracino, aveva denunciato le condizioni del carcere di Marassi a Genova, dove ieri (4 giugno) è scoppiata una rivolta poi rapidamente rientrata. Marassi ospita 684 detenuti rispetto a una capienza massima di 550 posti; 317 persone sono in attesa di giudizio definitivo, e la loro custodia in carcere è cautelare. Il tasso di sovraffollamento è del 130%. Da mesi, a Marassi, si sono succeduti episodi di violenza, pestaggi, stupri, in un clima arroventato dall’affollamento cronico delle celle. Il 2024 è stato anche l’anno record per il numero dei suicidi, ben quattro. L’ultimo, nel marzo scorso, quello di un detenuto settantenne. La situazione è stata frequentemente denunciata dai sindacati di polizia penitenziaria, che sottolineano lo scarso numero di operatori a fronte di una situazione sempre più difficile. E ieri, dopo l’ennesima violenza, questa volta ai danni di un giovanissimo carcerato diciottenne, è scoppiata una rivolta: gruppi contrapposti di detenuti si sono fronteggiati, distruggendo una delle sezioni e fuoriuscendo dal carcere, una parte sui tetti e l’altra nei pressi del muro di cinta. La prigione, che sorge poco lontano dallo stadio, in un quartiere popolare, è stata immediatamente circondata da un nutritissimo schieramento di polizia in tenuta antisommossa: le strade di accesso al quartiere sono state bloccate per diverse ore. Gli agenti sono poi intervenuti e ci sono stati un paio di feriti leggeri. Quanto avvenuto a Genova non è un episodio isolato, ma il frutto di anni di trascuratezza e di abbandono della struttura: un sovraffollamento divenuto condizione “normale”, personale allo stremo, servizi sanitari ridotti al minimo. Marassi è oggi un luogo di disperazione, nonostante i tentativi fatti in passato di introdurre dei momenti di recupero, quando, per esempio, un coraggioso regista recentemente scomparso, Sandro Baldacci, vi aveva creato un teatro in legno, il primo costruito all’interno di un carcere, opera ingegnosa e unica in Europa, il “Teatro dell’Arca”. Per ironia della sorte, la rivolta esplode proprio mentre a Roma si approva il “decreto Sicurezza”, che contempla appunto l’inedito reato di “sommossa in carcere”, quasi a confermare che la gravità della situazione - in cui versa non solo Marassi, ma tutto il sistema carcerario italiano - è ben nota anche al governo, che pensa di cavarsela usando la maniera forte per gestire situazioni ormai ingestibili. Non rafforzando i servizi, non migliorando le condizioni di chi vive o lavora in carcere, non investendo sulla prevenzione, ma affidandosi unicamente alla repressione di un malessere insostenibile. Un provvedimento di legge che arriva al punto di considerare punibile anche chi si limita a resistere in modo non violento, per esempio rifiutandosi di rientrare in cella. Si vuole così silenziare ogni forma di protesta, punendo chi reagisce a condizioni di detenzione inumane ed estreme. D’altro canto, tutto l’impianto del “decreto Sicurezza” mostra il medesimo intento: governare mediante la costrizione e la paura situazioni che non si è in grado di governare costruendo diritti e creando condizioni di vita migliori. Nelle carceri, questo equivarrebbe a investire sul personale, sulla salute, sul reinserimento, sulle misure alternative. L’ex sindaco Marco Bucci, ora presidente della Regione, ha dichiarato che si tratta di “un fatto senza precedenti”, e ha approfittato dell’evento per rilanciare l’idea di spostare il carcere di Marassi in un luogo diverso, un’idea che circola da anni, e aveva anche trovato un’ipotesi di realizzazione in un’area remota e decentrata, in una zona di industrie dismesse, nella periferia estrema, a Coronata. Luogo peraltro difficile da raggiungere, che, se divenisse sede di una nuova struttura detentiva, non solo interromperebbe un rapporto storico tra carcere e città, ma penalizzerebbe non poco i familiari dei detenuti. “Il nuovo carcere, se mai verrà realizzato, si troverà in un’area totalmente decentrata e priva di collegamenti efficienti con il resto della città”, ha spiegato ancora il garante regionale Saracino. Quanto avvenuto a Marassi, dovrebbe indurre a una riflessione non solo sulla crisi del sistema carcerario del Paese, divenuto una sorta di discarica sociale, ma intorno a una serie di questioni in passato oggetto di dibattito, e di cui da qualche tempo non si parla più: le carceri possono davvero essere modernizzate? L’istituzione carceraria è veramente essenziale? La reclusione è un mezzo di punizione appropriato? Da dove viene la legittimità e il potere di punire privando della libertà fisica? Non si tratta di astrazioni filosofiche o di una discussione circoscritta ai criminologi di sinistra. Le prigioni non funzionano, gli obiettivi della carcerazione - cioè la considerazione degli interessi delle vittime di reati, la garanzia della sicurezza pubblica e la riabilitazione delle persone colpite - non vengono in genere raggiunti dalle strutture attuali, e potrebbero essere più efficacemente realizzati in un mondo con molte meno carceri e mediante l’introduzione di strutture e misure alternative, come si è a lungo provato a fare nei Paesi dell’Europa del Nord. Le prigioni oggi non riescono a realizzare la loro missione di riabilitare i detenuti e di ridurre la criminalità. Al contrario, generano violenza e alti tassi di recidiva. Il loro effetto deterrente è anche molto inferiore a quanto si pensi. La reclusione è eccessivamente punitiva, viola la dignità dei detenuti, perché non solo li priva della libertà, ma li sottopone a un regime istituzionale di vasta portata limitandone i diritti umani. Le persone sono costrette al lavoro, alla povertà e all’astinenza relazionale e affettiva; anche terze parti estranee, come i familiari, ne pagano le conseguenze e vengono indirettamente punite. Certo, se subito dopo i fatti di Genova si scorrono i social media, si rimane inorriditi dalle reazioni, per lo più all’opposto delle considerazioni appena svolte. L’opinione pubblica che si esprime nei social è forcaiola, ha una idea medievale del sistema carcerario, fondata su un’idea di pena afflittiva, se non addirittura ferma al concetto etico-giuridico del “taglione”, all’idea di espiatio, del carcere come forma di vendetta mirata a riparare i danni causati da un reato. Una società civile arretrata e spaventata, che cerca rassicurazioni nella privazione della libertà altrui. Non stupisce, allora, che l’Italia abbia subìto, in tempi recenti, una condanna da parte della Corte europea dei diritti umani per la violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti), in connessione con il fenomeno del sovraffollamento delle carceri. Quella che, per oltre quarant’anni, è stata la proposta di un’istituzione carceraria innovativa, focalizzata sull’individuo in regime di detenzione quale persona meritevole di riscatto sociale, sembra cancellata dalla memoria collettiva e dal dibattito politico. La prigione torna a essere un luogo fatto di violenza fisica e psicologica, preferibilmente sottratto agli occhi del grande pubblico, che, nel disinteresse generale, abbandona al loro destino le categorie più a rischio e indifese della società. Verona. Il calvario di una detenuta trans di Beatrice Branca Corriere di Verona, 6 giugno 2025 Chiede di essere assistita solo da donne. Il reclamo al tribunale di sorveglianza. Una detenuta di 38 anni si trova da febbraio in carcere a Montorio. In passato si è sottoposta a un intervento di transizione per essere considerata a tutti gli effetti una donna. La 38enne si trova in un regime di sorveglianza particolare e da mesi chiede di poter essere assistita solo dal personale femminile della polizia penitenziaria. Una richiesta che sarebbe rimasta inascoltata e che ha spinto i difensori a presentare un reclamo al tribunale di sorveglianza. Una vita di lotta per vedersi riconosciuta la sua vera identità di genere sia nella società fuori dalle mura che in carcere. Due ambienti, soprattutto quello dietro alle sbarre, dove ha trovato un clima ostile e non sempre aperto ad accogliere una persona che ha deciso di compiere un delicato percorso di transizione per essere considerata a tutti gli effetti una donna. È la storia travagliata di una detenuta di 38 anni di origini peruviane. A otto anni si è trasferita in Spagna e poi in Italia, girando diverse città fino ad arrivare a Verona. Nel corso della sua vita ha collezionato tutta una serie di sentenze per spaccio e detenzione di droga, rapine e lesioni. Ha spesso cambiato però istituto penitenziario proprio per la sua particolare storia clinica e personale, che l’ha portata più volte a essere da un lato tratta come un uomo e dall’altro derisa da alcune detenute. Da febbraio si trova nella sezione femminile del carcere di Montorio, dove è stata sottoposta per almeno sei mesi a un regime di sorveglianza particolare che prevede una limitazione nella partecipazione alle attività lavorative e a quelle culturali, sportive e scolastiche. A lei è stato inoltre vietato l’uso di un fornellino individuale da tenere nella sua cella dove c’è solo un letto, uno sgabello e un tavolino. Uno spazio dove passa le sue giornate da sola, a eccezione di quelle due ore all’aperto che le vengono concesse quonon tidianamente. Quel provvedimento di sorveglianza è arrivato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria lo scorso marzo, dopo che la detenuta ha manifestato in quattro occasioni atteggiamenti definiti “oltraggiosi, arroganti e minacciosi”. Uno stato di agitazione che, secondo i suoi avvocati difensori Simone Giuseppe Bergamini e Lorenzo De Guelmi, deriverebbe da “una violazione della sua privacy”. Per questo motivo i due professionisti hanno presentato un reclamo al tribunale di sorveglianza di Venezia, affinché venga valutato se con quel provvedimento siano rispettati i diritti fondamentali della persona e la sua dignità, “senza discriminazione in ordine di sesso, identità di genere, orientamento sessuale, razza e nazionalità”. “Gli asseriti modi arroganti e minacciosi - scrivono Bergamini e De Guelmi nel reclamo - rivelano la necessità di un intervento finalizzato a evitare la inconsulta reazione verbale e non certo aggressiva in senso fisico, di una persona portata all’esasperazione, nonostante la ripetuta richiesta di essere lasciata in pace e di vedersi violata nei diritti fondamentali”. Alla base di questo stato di agitazione ci sarebbe quella richiesta da parte della 38enne, rimasta secondo i legali finora inascoltata, di essere assistita solo da personale femminile. “La detenuta lo ha sempre chiesto a Verona, ma non ha mai ricevuto una risposta positiva e concreta, rispettosa della sua femminilità. Il controllo avviene anche tramite guardie di sesso maschile, cosa che comprensibilmente cozza con le sue esigenze di privacy. Una situazione che si verifica anche durante le visite mediche”. Nel reclamo i due difensori fanno inoltre presente che la detenuta sarebbe stata privata di un armadietto, costringendola a lasciare tutti i vestiti per terra, di uno specchio che potrebbe servirle anche per il trucco, di un televisore e di un fornellino, ovvero di uno “strumento che incide sul vitto e le esigenze di salute della detenuta”. Alla luce di queste “mancanze” e della delicata storia clinica della 38enne, Bergamini e De Guelmi hanno chiesto al tribunale della sorveglianza che il provvedimento di marzo venga “riformato, annullato o revocato non sussistendo alcun valido e giustificato presupposto per l’adozione di misure di sorveglianza”. Una richiesta su cui i giudici veneziani dovranno pronunciarsi nei prossimi giorni. Roma. Nuova vita per un campo da calcio e corsi di aiuto allenatore di Andrea Oleandri* antigone.it, 6 giugno 2025 Il progetto ha contribuito a costruire percorsi di solidarietà e promuovere valori positivi tra i giovani della Comunità di accoglienza Ceis e i giovani dell’IPM Casal del Marmo a Roma grazie al calcio, sport di squadra capace di unire al di là delle difficoltà. L’iniziativa è stata resa possibile grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo, in collaborazione con CESVI, attraverso un programma di raccolta fondi che ha coinvolto cittadini, imprese e lo stesso Istituto bancario che ha partecipato attivamente al crowdfunding destinando un contributo di 2 euro per i prodotti acquistati dai clienti in modalità online. Inaugurato ieri un campo da calcio ristrutturato grazie al progetto “Squadra Dentro: sport e carcere” dell’Associazione Antigone, sostenuto da Intesa Sanpaolo, attraverso il Programma Formula, in collaborazione con CESVI. Un progetto che ha contribuito a costruire percorsi di solidarietà e promuovere valori positivi tra i giovani accolti della Comunità di accoglienza CEIS e i giovani dell’istituto penale minorile di Casal del Marmo grazie al calcio: uno sport di squadra che si rileva strumento educativo e inclusivo, capace di unire anche dove sembrano mancare le condizioni. Il progetto è stato selezionato da Intesa Sanpaolo nell’ambito della Divisione Banca dei Territori guidata da Stefano Barrese, in collaborazione con CESVI e finanziato attraverso una raccolta fondi attiva da maggio ad agosto 2024 su For Funding, la piattaforma di crowdfunding di Intesa Sanpaolo dedicata a sostenibilità ambientale, inclusione sociale e accesso al mercato del lavoro per persone con disabilità. In quattro mesi sono stati raccolti oltre 120.000 euro grazie alla generosità di cittadini, di imprese, e anche della Banca che ha partecipato attivamente contribuendo con 2 euro per molti dei prodotti acquistati dai clienti in modalità online. Il progetto Squadra Dentro intende potenziare le attività a carattere educativo promosse nell’IPM di Casal del Marmo a Roma e del Centro Italiano di Solidarietà don Mario Picchi, attraverso lo sport, realizzando un corso di aiuto allenatore all’interno del carcere minorile e una squadra di calcio all’interno della Comunità. Con il supporto della ASD Atletico Diritti, creata nel 2014 da Antigone e Progetto Diritti, saranno selezionati dalla direzione della Comunità dei ragazzi che saranno seguiti da un allenatore di calcio esterno dedicato, frequentando due allenamenti settimanali. Grazie al percorso, si auspica di far partecipare Squadra Dentro ad uno o più tornei cittadini nell’ambito di quelli promossi da associazioni quali Aics, Csen e Lega Calcio ad Otto. Inoltre, in ottica di crescita e continuità progettuale, dieci detenuti, selezionati dalla direzione del carcere sulla base del programma personale di trattamento e reinserimento sociale di ciascun ragazzo, saranno formati professionalmente per divenire a loro volta tecnici allenatori. Infine, sempre grazie al progetto, da novembre 2024 all’interno del carcere minorile di Casal del Marmo è attivo uno sportello socio-legale di informazione e accompagnamento al rilascio. I beneficiari diretti del progetto sono i ragazzi reclusi nell’IPM di Casal del Marmo e i ragazzi utenti della Centro Italiano di Solidarietà don Mario Picchi (Ceis). Indirettamente saranno beneficiari tutti gli operatori e le famiglie dei ristretti di Casal del Marmo, gli operatori del Ceis, e tutti i partecipanti al Torneo o Campionato contro cui la squadra giocherà. “Dal 2014, attraverso la creazione dell’ASD Atletico Diritti, avvenuta in collaborazione con l’associazione Progetto Diritti, Antigone ha voluto credere nello sport quale importante strumento di reinserimento sociale. Lo sport comunica valori importanti, come il rispetto delle regole, dei propri compagni e degli avversari. Insegna a condividere spazi di socialità, a lavorare tutti insieme per uno stesso obiettivo, fidandosi degli altri e lasciando che gli altri si fidino di noi. Il progetto ‘Squadra Dentro’ è un ulteriore tassello che si aggiunge a questo percorso. Un tassello importante perché il primo che guarda specificatamente ai minori che, come e più degli altri, hanno bisogno di modelli educativi positivi”, ha dichiarato Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e presidente di Atletico Diritti. “Nel 2024 il nostro Gruppo ha avviato numerosi progetti di inclusione sociale per il mondo carcerario. Crediamo che tutti possano sbagliare e debbano poter ripartire nel modo giusto con fiducia in sè stessi, negli altri e nel futuro. Ne guadagna la persona che trova la forza di inserirsi a pieno titolo in una nuova vita e ne guadagna la società, più coesa, aperta all’accoglienza, più matura - ha sottolineato Roberto Gabrielli, responsabile Direzione regionale Lazio e Abruzzo Intesa Sanpaolo. “Dal 2021, il Programma Formula ci vede come partner strategico di Intesa Sanpaolo nel selezionare le migliori progettualità in tutta Italia, con l’ambizione di perseguire cambiamenti sostenibili ed inclusivi. Attraverso Formula, vengono sostenuti progetti sui temi di: emergenza e povertà; supporto sanitario e fragilità; inclusione sociale e Welfare di comunità; educazione, formazione e orientamento; rigenerazione urbana e ambientale; e conservazione del patrimonio culturale. Ad oggi, abbiamo ottenuto dei risultati significativi con oltre 170 progetti sostenuti. Formula è la dimostrazione di come il connubio tra i mondi non profit e profit possa rispondere alle tematiche territoriali, sociali e ambientali, in maniera mirata ed efficace”, ha dichiarato Roberto Vignola, Vice Direttore generale di CESVI. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Roma. Il calcio per insegnare ai giovani detenuti a fidarsi dell’altro di Chiara Di Benedetto Avvenire, 6 giugno 2025 Nuova vita per un campo sportivo e corsi di aiuto-allenatore per i ragazzi dell’Ipm di Casal del Marmo e per i giovani del Ceis, grazie al progetto “Squadra Dentro: sport e carcere”. È stato inaugurato oggi, 5 giugno, un nuovo campo da calcio, completamente ristrutturato, per i ragazzi reclusi nell’Istituto penale minorile di Casal del Marmo e per i giovani che frequentano il Centro Italiano di Solidarietà don Mario Picchi (Ceis). L’iniziativa è stata resa possibile grazie al progetto “Squadra Dentro: sport e carcere” dell’associazione Antigone che dal 1991 si occupa della tutela dei diritti dei detenuti, con la collaborazione della fondazione Cesvi (Cooperazione e sviluppo) e con il sostegno di Intesa Sanpaolo, attraverso il Programma Formula. L’iniziativa è stata finanziata grazie a una raccolta fondi durata quattro mesi, da maggio ad agosto 2024, su For Funding, la piattaforma di crowdfunding di Intesa Sanpaolo dedicata all’inclusione sociale. Con i 120.000 euro raccolti da Intesa Sanpaolo, oltre alla manutenzione e al riammodernamento del campo, il progetto “Squadra Dentro” ha avuto la possibilità di formare professionalmente dieci detenuti come tecnici e allenatori; ha poi fornito i materiali sportivi necessari ai detenuti, quindi tute e divise sportive, palloni, coni e pettorine, e ha potuto coprire i costi del coordinamento progettuale da parte di figure professionali dedicate, del tesseramento e dell’iscrizione della squadra al campionato. “Lo sport comunica valori importanti, come il rispetto delle regole, dei propri compagni e degli avversari. Insegna a condividere spazi di socialità, a lavorare tutti insieme per uno stesso obiettivo, fidandosi degli altri e lasciando che gli altri si fidino di noi”, ha spiegato Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e presidente di Atletico Diritti. E ha aggiunto che il progetto “Squadra Dentro” è un ulteriore tassello che si aggiunge a questo percorso, “un tassello importante perché il primo che guarda specificatamente i minori”. Proprio grazie al calcio il progetto di Antigone, nel corso dell’ultimo anno, ha contribuito a costruire percorsi di solidarietà tra i giovani della Ceis e tra i ragazzi dell’Ipm. L’obiettivo adesso è realizzare un corso di aiuto allenatore all’interno del carcere minorile e una squadra di calcio all’interno della Comunità. Con il supporto della Asd Atletico Diritti, creata nel 2014 da Antigone e Progetto Diritti, alcuni ragazzi verranno poi selezionati per essere seguiti da un allenatore di calcio esterno dedicato e frequenteranno due allenamenti settimanali. I promotori del progetto sperano poi di far partecipare “Squadra Dentro” ad uno o più tornei cittadini. “Crediamo che tutti possano sbagliare e debbano poter ripartire nel modo giusto con fiducia in se stessi, negli altri e nel futuro. Ne guadagna la persona che trova la forza di inserirsi a pieno titolo in una nuova vita e ne guadagna soprattutto la società”, ha spiegato Roberto Gabrielli, responsabile Direzione regionale Lazio e Abruzzo Intesa Sanpaolo. Mentre con il programma “Formula”, in cui rientra il progetto “Squadra dentro”, sono stati complessivamente sostenuti - ha sottolineato Roberto Vignola, vicedirettore generale di Cesvi - oltre 170 progetti “con l’ambizione di perseguire cambiamenti sostenibili ed inclusivi”. “L’amore in gabbia”, di Donatella Stasio recensione di Paola Filippi giustiziainsieme.it, 6 giugno 2025 Al convegno “Attorno a questo corpo dalle mille paludi”, titolo preso in prestito da un verso di Amelia Rosselli, sarà presentato il libro di Donatella Stasio “L’amore in gabbia”. In effetti tra le mille paludi attorno al corpo, la palude che, più di ogni altra, offre la plastica rappresentazione dell’impedimento al corpo è la palude simboleggiata dalla gabbia. Nel libro di Donatella Stasio la gabbia è un emblema così come un emblema è l’amore, quale rappresentazione unificante di plurime possibili interrelazioni salvifiche. Il saggio di Stasio è una rassegna sugli ostacoli al corpo: dalla restrizione nella cella di isolamento in cui viene rinchiuso Gianluca, ancora adolescente a Fossombrone, “venti ore al giorno in isolamento”, all’isolamento affettivo della sua infanzia, cucciolo di una madre “rigida di metallo, che non scalda ma grazie a un biberon meccanico nutre”, la mamma scimmia dell’esperimento scientifico di Harry Harlow. La lettura ti conduce attraverso un viaggio evocativo e stimolante nel corso della quale si passano in rassegna gabbie potenziali e reali, volontarie, imposte o eventuali: la famiglia, la droga, il carcere e la dannosa assenza di relazioni affettive. L’autrice non limita il suo obiettivo al racconto di “cosa significhi, nella vita di un essere umano, tenere in gabbia, insieme al corpo, anche la mente e il cuore, chiudere tutto a doppia mandata e buttare la chiave”, ma va oltre e punta il dito sulle criticità della nostra società e su come siano stati messi ““in gabbia” altri diritti di libertà riconosciuti dalla Corte costituzionale ma sgraditi alla maggioranza: il diritto al suicidio assistito in presenza di determinate condizioni; il diritto dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti cresciuti; il diritto delle madri di condividere realmente la scelta del cognome, materno o paterno, da attribuire ai figli, fin dalla nascita, e, in caso di disaccordo, di assegnare loro il doppio cognome”. L’Io come ha scritto Freud si oggettivizza nel corpo. L’Io “è in definitiva derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle sensazioni provenienti dalla superficie del corpo. Esso può dunque venire considerato come una proiezione psichica della superficie del corpo”. La proiezione psichica della superficie del corpo è influenzata dalle relazione affettive, la madre di morbida pezza, che scalda ma non nutre dell’esperimento di Harry Harlow conferma in maniera lampante che “non di solo pane vive l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Vangelo Matteo 4, 4 e Luca 4, 4), la parola dalla bocca di Dio, secondo una visione laica e contemporanea, altro che non è che l’amore dell’uomo, la solidarietà, la capacità di ascoltare di offrire, di relazionarsi in modo altruistico. Gianluca che rappresenta il corpo del detenuto, per tornare al fil rouge del convegno, un corpo affatto dissimile dal corpo del migrante - ristretto solo perché cerca un mondo - o dal corpo prigioniero - ristretto perché è un soldato mandato a combattere. Nella narrazione di Donatella Stasio il corpo di Gianluca in carcere soffre perché è rinchiuso, perché viene picchiato negli angoli in cui l’occhio della telecamere di sorveglianza non arriva e dagli stessi che dovrebbero proteggerlo, perché viene svegliato dai cani a scopo punitivo, perché la sua cella viene violata quanto all’intimità degli oggetti da perquisizioni violente, perché non ha un luogo dove rimanere in intimità, perché se sfiora il visitatore durante i colloqui il sorvegliante di turno lo sgrida. Gianluca in carcere è un corpo sofferente perché abusato nella sua dignità. “Avevo dolori fisici inenarrabili, ero bloccato in ogni parte del corpo, duro come un pezzo di legno. Non perché non fossi allenato, figuriamoci! Ma perché il mio corpo si prendeva la responsabilità di proteggermi dagli abusi, dalla mia emotività inesistente”, scrive Gianluca a Donatella. Gianluca dopo la prima volta diventa un recidivo. La recidivanza è il più grave tradimento della nostra Costituzione, il più grosso smacco al principio rieducativo della pena. È singolare come l’attenzione al principio rieducativo della pena sia condizionato dall’ideologia politica, come l’asperità o meno del trattamento penale del recidivo dipenda dal colore della bandiera del politico di turno. Il confronto tra la dottrina sulla recidiva del fascista Manzini e la teoria del socialista Matteotti (che nella sua breve esistenza scrisse un saggio ancora attuale sul trattamento penale del recidivo) offre un’idea plastica di come l’idea della punizione sia connaturale al fascista e come quella della rieducazione sia invece connaturale al socialista. Per fortuna la nostra bella Costituzione ha consacrato il principio rieducativo della pena. La più bella Costituzione del mondo, come scrive Donatella Stasio, è una Costituzione percorsa dal filo dell’impellenza delle relazioni sociali. Il primo richiamo alla comunità di sentimenti lo troviamo all’art. 2 che consacra i doveri della solidarietà politica, economica e sociale come doveri inderogabili e poi all’art. 3 si rinviene il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. In questo contesto dovrebbe orientarsi il principio rieducativo della pena ma i principi non vanno al passo delle situazioni di fatto, o meglio queste non si adeguano da sole ai principi costituzionali. Occorre uno sforzo che non si riesce a fare o che non si vuole fare, di qui l’enorme importanza della sentenza della Corte Costituzionale sull’intimità affettiva. Come scrive Stasio: “In carcere, l’intimità, l’affettività, la sessualità non sono considerate espressioni della personalità umana, tanto meno un diritto. Sono un lusso, addirittura un privilegio, e chi ha violato la legge - dal mafioso al ladruncolo, dal tossicodipendente allo straniero, dal detenuto di Alta sicurezza a quello comune - non ha diritti né privilegi né lussi, non merita niente, neppure di respirare. E che “intima gioia”, che godimento questa mancanza d’aria, specie per i “più pericolosi”, abbiamo sentito dire da un sottosegretario alla Giustizia del nostro governo”. A questa manifestazione di intima gioia, negazione assoluta della dignità umana, mi piace contrapporre un’immagine salvifica. L’immagine è quella di Papa Francesco che lava i piedi dei detenuti di Rebibbia. Restituiscono dignità all’uomo le mani del Papa sui piedi di corpi rinchiusi e rendono il valore di quei corpi inestimabile, così come deve essere il valore di ogni corpo umano. Chissà quanto è stato emozionante quel contatto fisico per il detenuto e per i presenti che hanno sentito tangibile l’amore esondante dal gesto purificatore che restituiva la dignità all’uomo senza condizioni. “Perché voi e non io”, diceva Papa Francesco ogni volta che varcava il portone pesante di un carcere. Un mantra che lo accompagnava nel suo pellegrinare fra gli ultimi, portando speranza, scambiando i suoi occhi con i loro, “facendo sua la storia di ogni persona detenuta”. Nessuno deve sentirsi uno scarto secondo la dottrina di Papa Francesco, eppure Gianluca dice di sé “sono stato un prodotto di scarto di questa società per talmente tanti anni che ancora oggi il dolore di quell’ambiente abusante è così vivo dentro di me da farmi sentire un bambino abbandonato tra i tanti, un numerino senza storia, un racconto di poco conto da non dire per non impietosire.” Negli ultimi anni l’articolo 27 della Costituzione è stato sfregiato dal disinteresse dei governanti. Il sovraffollamento carcerario colloca l’Italia al fanalino di coda dei Paesi europei e così il numero dei suicidi in carcere. Niente investimenti, niente politiche di depenalizzazione anzi, all’opposto, la maggioranza al governo dall’insediamento non fa che aumentare il numero dei reati, e con il decreto legge sicurezza sono stati introdotti quattordici nuovi reati e sono state aggravate le pene di quelli esistenti - sono questi i reati proprio dei poveri cristi - . I detenuti aumenteranno. Il decreto-legge sicurezza determinerà l’effetto esattamente opposto a quello propugnato dal decreto perché, come scrive Donatella Stasio la “pervasività fa sì che le patrie galere restituiscano alla “società civile” non persone libere, ma reduci. Che tornino a delinquere oppure no, sono dei reduci. Che abbiano pene lunghe o brevi da scontare, prima o poi tornano a casa - sempre che restino vive e che abbiano una casa -, ma tornano devastate dagli abusi consumati dal carcere. Sono come quei soldati ai quali la guerra ha strappato gambe, braccia, occhi: mutilati nel corpo e nella dignità, amputati dei sentimenti, della sessualità, della capacità di amare, della libertà.” Ma in questa nostra epoca caratterizzata dalla cultura dello scarto desertificata dal valore del rispetto della dignità umana, noncurante del dovere inderogabile della solidarietà, un passo avanti è stato fatto grazie a un magistrato di sorveglianza, Fabio Gianfilippi, - lo stesso che aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale - e alla pubblico ministero Michela Petrini che hanno imposto l’attuazione della storica sentenza della Corte Costituzionale n.10/2024, contenente la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 18 nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia. Come ci ricorda Stasio un tentativo in tal senso fu messo in pratica dal 1952 al 1960, da Eugenio Perucatti che diresse il carcere per “l’ergastolani” nell’isola di Santo Stefano, al largo di Ventotene, il carcere che - guarda caso - fu smantellato dal governo Tambroni (governo democristiano sostenuto con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano con il quale il partito Fratelli d’Italia ha in comune pure il simbolo della fiamma tricolore). Come scrive Donatella Stasio “La sentenza sull’affettività - la numero 10 del 2024 - ha suscitato scandalo e ilarità nel fantastico mondo della società civile, dove tanti, troppi, “godono” se i detenuti non respirano e vengono privati di momenti d’amore. Di quel “godimento” si nutrono le destre, che ne vanno fiere pubblicamente - è questo il dato politico nuovo rispetto al passato - e tanto basta a spiegare il lungo boicottaggio della sentenza della Corte, così come delle altre che riconoscono diritti fondamentali ideologicamente sgraditi alla maggioranza.” La stanza dell’amore è il punto di arrivo di un percorso il cui punto di partenza si rinviene nella nostra bella Costituzione, oltre che nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; si tratta di applicazione minima, ma essenziale, del principio secondo il quale “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La costrizione delle emozioni e dei sentimenti - ce lo dice la Corte costituzionale - costituisce un trattamento contrario al senso di umanità. Dell’intimità in carcere Gianluca, alla domanda di Donatella, risponde “non si fa” e chiarisce “Qualunque essere umano è in grado di astenersi dalla sessualità per anni senza patire, non è che i detenuti sono una specie a parte che se non eiacula ogni tot muore. La filmografia pop americana è tossica. Il carcere è un luogo di espiazione dove calarsi in una dimensione di intimità con se stessi, di ricerca, di comprensione”. Donatella è spiazzata “l’adesione convinta dei detenuti al “non si fa”, al “non sta bene”. L’accettazione, anzi, di più, la convinzione che “non sta bene” e dunque “non si fa” - baciarsi, abbracciarsi, toccarsi o semplicemente sfiorarsi con i propri fidanzati o le proprie fidanzate.” Anche attraverso la negazione del rapporto affettivo si lede la dignità umana e la lesione subìta da Gianluca è ancora sotto la sua carne cicatrizzata. Racconta il dolere derivante dalla violazione dell’intimità dei colloqui, “brandelli galeotti di affettività settimanale relegata a un’ora di orologio con parenti stretti, amori, conviventi vere o fasulle”. “Spesso”, racconta, “le guardie interrompevano malamente quei momenti, sostenendo che qualcosa non andava bene; sbattevano le chiavi sul vetro della sala colloqui o direttamente sul tavolo intorno al quale eri seduto a parlare. Era il loro modo di richiamarti all’ordine, anche sulla scadenza dell’orario di visita. Gesti brutali, piccole e grandi angherie, gratuite, umilianti, impossibile non coglierle se stai chiuso lì dentro. Io le ho sofferte tantissimo, così tanto da tenermi volutamente a distanza da tutto ciò che potesse provocarle. Ai colloqui diventavo glaciale pur di non essere disturbato dalle guardie, da quella vista indiscreta, da quei gesti intrusivi e violenti sulla mia intimità. E anche da possibili sanzioni disciplinari.” Nessuna emozione nessun sentimento nessun contatto sono le regole detenuto affinché sia garantita la pax carceraria; l’effetto collaterale è l’ablazione dei sentimenti e delle relazioni, effetto che determina l’analfabetismo delle emozioni, l’opposto di quello che serve al processo di rieducazione, e ciò in quanto “Il carcere che funziona è quello che produce libertà, come usava dire Alessandro Margara. E la libertà sta dentro i corpi, le menti e i cuori. La realtà è ben altra: la pax carceraria si nutre di subcultura che più o meno tutti, operatori e detenuti, finiscono per respirare, assimilare e condividere. È stato così anche per Gianluca, uno delle migliaia di allievi formatisi alla scuola del carcere. I suoi principali maestri sono stati detenuti mafiosi o dell’Alta sicurezza, il regime detentivo speciale destinato ai detenuti considerati particolarmente pericolosi o che hanno commesso reati gravi, con i quali ha convissuto per circa sei anni, quand’era poco più che un adolescente.” Gianluca sull’intimità in carcere dopo la prima risposta riflette ancora e poi ci ripensa occorre lavorarci, la stanza dell’amore produrrà i suoi effetti. Donatella Stasio offre al lettore una lucida analisi politica che non può non condividersi: “Il carcere racconta molto dello stato di salute di una democrazia. Il paesaggio contemporaneo delle prigioni italiane è fatto di corpi ammassati, sempre più giovani e sempre più vecchi, provati da tossicodipendenze, malattie mentali e psichiche, e dalla povertà; ma è fatto anche di corpi senza più vita, suicidati o deceduti, in numeri senza precedenti. Un contenitore nel quale buttare anche il dissenso e, più in generale, tutto ciò che non si vuole o non si sa affrontare - dai migranti al disagio sociale - e che perciò va chiuso in gabbia, possibilmente “a marcire”, cavalcando l’inganno secondo cui solo la gabbia garantisce legalità e sicurezza. Un totale rovesciamento della prospettiva democratica secondo cui le priorità sono il rispetto della dignità della persona, i suoi diritti, la sicurezza sociale.” Ma Gianluca ce l’ha fatta, il carcere di Bollate ha impedito che ricadesse di nuovo nell’errore. Una cosa è certa: le persone cambiano la storia dei singoli e pure quella dei popoli; questo ci deve far sentire tutti responsabili, attivi e propulsivi e disponibili, pronti a fare quello che in certi momenti occorre fare, in questo senso certamente Stasio ha adempiuto alle sue responsabilità di giornalista scrivendo questo bellissimo saggio. “Una persona è sempre fatta da tante persone che l’hanno aiutata e amata”, ha detto Ana Lydia Sawaya, professoressa dell’Università di San Paolo del Brasile, il giorno della sua consacrazione monacale. Il libro di Stasio non racconta soltanto la storia delle periferie e dell’abbandono sociale; Gianluca non te lo racconta soltanto, ma te lo fa incontrare. Un uomo fatto dalle persone che lo hanno aiutato e amato. Questi referendum sono una prova di resistenza civile di Franco Corleone L’Espresso, 6 giugno 2025 Votare l’8 e 9 giugno significa riprendersi il diritto di scegliere. Contro censure, sfiducie e paure. L’8 e 9 giugno si gioca una grande partita della democrazia attraverso lo strumento del referendum. È stata una campagna difficile per la censura dei mezzi di informazione - scandalosa quella del servizio pubblico - e per il boicottaggio da parte dei partiti della maggioranza con l’invito a non votare. Prevarrà, sorprendentemente, la partecipazione popolare per fare dispetto a La Russa e al neo-vicesegretario leghista Vannacci e per affermare la volontà di decidere come cittadini? Oppure la sfiducia, lo scetticismo e la rassegnazione si confermeranno il nuovo dato antropologico di un Paese devastato? Triste destino, individuale e collettivo, quello di essere sudditi e massa amorfa. Sul quesito che mira a ridurre il tempo necessario per richiedere la cittadinanza - che rimane una concessione e non un diritto - a cinque anni, come era in Italia fino al 1992, si è esercitata una manipolazione. Si è affermato che una misura presente in moltissimi Stati europei sarebbe un incentivo all’ingresso indiscriminato di una valanga di persone, falsificando la realtà: la norma, infatti, riguarda persone che soggiornano regolarmente in Italia, conoscono la lingua italiana, con un lavoro, che pagano le tasse e senza pendenze giudiziarie. Contemporaneamente, in occasione del summit internazionale xenofobo svoltosi a Gallarate il 17 maggio scorso, è emerso il consenso della Lega alla cosiddetta remigrazione, cioè alla proposta razzista di togliere la cittadinanza a chi già l’ha ottenuta. Due Italie si confrontano dunque. Se non si raggiungesse il quorum - previsto in Costituzione - di partecipazione al voto della metà più uno del corpo elettorale, sarebbe una prova ulteriore della crisi della democrazia. Non solo di quella rappresentativa, ma anche di quella diretta. Macerie su macerie. Diventerà palese la contraddizione tra la legittimità del voto per le elezioni amministrative e politiche anche quando scarsamente partecipate, e la previsione di un quorum per il voto referendario. Abolire il quorum è una necessità ineludibile: d’altronde in Svizzera e negli Stati Uniti non è previsto. Non solo, si pone anche il problema del rispetto dell’art. 48 della Costituzione che sancisce il voto come dovere civico. Come si sostanzia tale previsione in modo che non sia una vuota proclamazione retorica? È azzardato sostenere che si può non esercitare un diritto, mentre non si può disattendere un dovere? Senza dubbio un rappresentante delle istituzioni o un membro del governo non può impunemente invitare i cittadini a disattendere un dovere costituzionale violando l’art. 54 della Carta che richiama tutti i cittadini - in particolare chi ricopre cariche politiche - ad adempiere le proprie funzioni con disciplina e onore. La disobbedienza civile è uno strumento di resistenza ma comporta l’assunzione di responsabilità. Non può consistere in una furbizia, nel rubare il pallone per impedire una partita. Soprattutto quando il confronto è su scelte di civiltà e sull’idea di Paese. Per questo il voto sui referendum è tutto politico, al di là del merito delle proposte di abrogazione di leggi ritenute ingiuste. Il Sì è dunque una manifestazione per una felice convivenza contro il governo della paura, in concomitanza con l’approvazione da parte del Parlamento, con un doppio voto di fiducia, del decreto Sicurezza che travolge lo Stato di diritto e realizza una svolta autoritaria. Referendum, il fronte dei preti: “I partiti fanno propaganda invece di educare alla cittadinanza” di Valentina Petrini La Stampa, 6 giugno 2025 Tra i cassintegrati dell’ex Ilva e i disperati della Terra dei fuochi, sono i sacerdoti a informare sul voto: “Tocca a noi sopperire a questa mancanza”. “Hai sentito? - sussurra la moglie al marito -. Il prete sta dicendo che dobbiamo andare a votare”. Don Marco Crispino è parroco della chiesa San Giuseppe Moscati, quartiere Paolo VI. Domenica 18 maggio, messa della sera tra i palazzoni a schiera del quartiere nato negli anni Sessanta per far spazio alle famiglie degli operai del siderurgico ex Ilva nel periodo del boom economico. Durante l’omelia Don Marco si concede un messaggio alla sua comunità: “L’8 e il 9 giugno si voterà per i referendum su lavoro e cittadinanza. Siate consapevoli, qualsiasi scelta è legittima, purché sia una vostra scelta”. Alla fine della messa mi avvicino: “Tra i 18 e i 35 anni non c’è quasi più nessuno qui, vanno tutti via. Chi resta lavora in nero, precario, giovani che fanno home working per call center da casa. E poi la tegola dei 3.900 cassaintegrati ex Ilva che toglie il sonno e il sorriso”. Taranto è la città dell’acciaio che ha reso ricca l’Italia ed è rimasta però affamata. La siderurgia era la grande promessa per restituire parità economica alla gente del Sud. Oggi, invece, le famiglie non sono protagoniste di nulla, sui portoni prevalgono i cartelli vendesi, affittasi, ingialliti. Non solo la vita umana, anche gli immobili hanno perso valore a causa dell’inquinamento e della disoccupazione. Taranto-Cerignola, 187 km. Provincia di Foggia, quella dei ghetti dei braccianti, alcuni morti ammazzati, altri uccisi dal lavoro, con le paghe a 3, 4, 5 euro l’ora per 12 ore al giorno. Don Pasquale Cotugno della Diocesi di Cerignola dal 2024 è diventato anche delegato regionale Caritas. “Le persone non sono informate. Il referendum è uno strumento popolare di partecipazione alla vita pubblica e noi lo promuoviamo anche nei percorsi di cittadinanza con il servizio civile per i giovani, come metodo di partecipazione. Vedere che le istituzioni silenziano invece l’informazione sul prossimo appuntamento dell’8 e 9 giugno è per me gravissimo” aggiunge don Pasquale. Non ha paura di essere accusato di fare propaganda? “Sono i partiti oggi che preferiscono fare propaganda piuttosto che esercitare un ruolo di educazione alla politica, alla cittadinanza. Sopperire a questa mancanza rientra nel nostro compito di evangelizzazione”. L’ultimo bracciante morto nelle campagne tra Taranto e Cerignola è Rajwinder Sidhu Singh, ferito da un macchinario e non soccorso, proprio come Satnam Singh, stesso cognome, stessa sorte, senza contratto e senza permesso di soggiorno alle dipendenze di un imprenditore agricolo già sottoposto agli arresti domiciliari nel 2020. “Tra le famiglie di fedeli italiani - continua Don Pasquale - prevale l’angoscia per la disoccupazione, gli stipendi bassi, i licenziamenti, conseguenza anche dei contratti precari. Tra le famiglie migranti invece c’è lavoro nero schiavizzato, l’incubo dei rinnovi dei permessi di soggiorno e la lunga e lenta burocrazia per la cittadinanza che poi si abbatte soprattutto sui minori che stanno crescendo tra i banchi di scuola”. Don Giuseppe Molfese è della diocesi di Tricarico, in Basilicata, ancora 130 km, un’altra terra di confine a sud. Lo intercetto mentre sta per iniziare un incontro: “Dobbiamo parlare proprio dei prossimi referendum con i volontari del servizio civile. L’opzione fondamentale del cristiano è vivere non come una monade, ma capire che abbiamo una società dove l’altro non deve essere considerato un ostacolo, ma uno strumento per realizzarci pienamente”. Si riferisce al quesito sulla cittadinanza? “Non solo, anche al lavoro. Il mandato della Chiesa è l’attenzione verso gli ultimi. E in questi referendum ci sono diversi quesiti che riguardano questo stile di prossimità che è proprio del mandato pedagogico, ma anche educativo della Caritas”. Don Giuseppe per vocazione interpreta la speranza: “Molti però non sanno nemmeno la data del voto. È inutile negarlo, le reti nazionali e generaliste, pubbliche e private, hanno boicottato questo referendum. Solo una cosa mi rincuora: i giovani. Tra loro c’è grande interesse a differenza degli adulti. Nella mia realtà ecclesiale c’è dibattito e confronto. I ragazzi e le ragazze vivono l’integrazione con persone provenienti da Paesi stranieri come un valore aggiunto. Tra loro è passato il messaggio che è un diritto che abbiano una cittadinanza senza attendere tempi così lunghi come oggi”. Il funambolismo di Meloni sul referendum: andare a votare ma non votare - Altri 219 km, Terra dei fuochi, Aversa. Don Carmine Schiavone: “Ci sono fedeli nella mia comunità che quando hanno ricevuto da me l’informazione dei referendum dell’8 e 9 giugno, e nello specifico dei 5 quesiti, è come se fossero stati colti di sorpresa “questa cosa c’era sfuggita” mi hanno detto. Come è possibile? C’è una falla grave nel nostro sistema. Molti, benché cristiani cattolici, attenti al tema dell’immigrazione, non sapevano si votasse anche per la semplificazione della concessione della cittadinanza. Lunedì scorso, abbiamo persino incontrato un buon numero di sindaci e nemmeno da loro è emersa una presa in carico della missione di sensibilizzazione a questo tema. Gravissimo secondo me”. Don Carmine ha organizzato incontri con imprenditori, insegnanti, operai e terzo settore. E racconta: “I primi si sono mostrati preoccupati per i quesiti sul lavoro, per le regole sui licenziamenti, i contratti, gli indennizzi e gli appalti. I secondi sono parsi disinteressati e non ce lo aspettavamo. Soltanto l’associazionismo dà speranza, qui ne contiamo almeno una sessantina nella sola città di Aversa, ma l’intero agro aversano si è interrogato sui temi del referendum”. I ceti poveri? “È un po’ come se le difficoltà della vita avessero eroso il senso di comunità e spinto l’individuo alla sopravvivenza di se stesso, per mancanza di una formazione al bene comune da parte di partiti, istituzioni e media. Qui siamo nella cosiddetta terra dei fuochi, dove la camorra ha seppellito scorie e rifiuti, dove il dramma dell’inquinamento e delle malattie è in quasi tutte le famiglie, eppure nessuno fa quelle scelte orientate verso l’attenzione al creato, la scelta etica del rispetto dell’ambiente. Figuriamoci il voto”. Lunga vita al diritto di voto. Più Cpr, meno rimpatri: la macchina dei trattenimenti viola i diritti e non produce risultati di Giulio Cavalli Il Domani, 6 giugno 2025 I dati dell’Università di Bari dimostrano che nonostante le ingenti risorse investite nei Centri per il rimpatrio, il tasso di espulsioni continua a diminuire. Ma la permanenza prolungata nei centri continua a produrre atti di autolesionismo e somatizzazioni da detenzione forzata. Una politica fallimentare. C’è un dato che smonta l’apparato retorico sulla “linea dura” dei rimpatri. In Italia l’espulsione forzata è, nella maggioranza assoluta dei casi, un’operazione annunciata ma non eseguita. Lo certifica il rapporto Rimpatri forzati e pratiche di monitoraggio, frutto della ricerca empirica del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, curato da Giuseppe Campesi, Elisabetta de Robertis e Francesco Oziosi. Dal 1998 al 2023 l’Italia ha eseguito materialmente solo il 32% dei provvedimenti di espulsione emessi. Tradotto: due persone su tre destinatarie di un ordine di allontanamento restano comunque sul territorio nazionale. Nel primo periodo osservato (1998-2004), il tasso di esecuzione superava il 40%, favorito dalla presenza prevalente di cittadini dell’Europa orientale e dei Balcani, con cui i rapporti diplomatici e i meccanismi di cooperazione agevolavano i rientri. Dal 2005 in avanti, però, la curva si è inclinata stabilmente verso il basso. Nei sei anni successivi il tasso è sceso sotto il 30%, per poi assestarsi al di sotto del 25% nel decennio più recente. Il quadro è ulteriormente peggiorato con il progressivo cambiamento della composizione dei destinatari: oggi la quota più rilevante riguarda cittadini di paesi nordafricani e subsahariani, spesso provenienti da contesti di instabilità, conflitti, crisi economiche e regimi non collaborativi. E senza la cooperazione diplomatica dei paesi di origine, le operazioni di rimpatrio si bloccano già nella fase preliminare di identificazione. Il dato più recente, aggiornato al 2024, fotografa il collasso numerico dell’intero sistema: su 7.130 ordini di allontanamento emessi, solo 1.180 sono stati effettivamente eseguiti. Pari al 16,5%. La macchina repressiva, per quanto ingigantita nella narrazione politica, non regge l’urto dei numeri. Detenzione senza rimpatri - Nonostante l’espansione dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), la funzione di queste strutture continua a produrre più detenzione che rimpatri. Lo studio conferma che “le politiche di trattenimento non incidono sulle politiche di rimpatrio”. I Cpr restano il luogo in cui la procedura di allontanamento si arena spesso già nelle prime settimane. La permanenza prolungata nei Cpr genera tensioni crescenti: atti di autolesionismo, resistenze fisiche e psicologiche, somatizzazioni da detenzione forzata. L’intero sistema si regge su una gestione muscolare: i rimpatriandi vengono ammanettati con fascette in velcro — usate in modo generalizzato e sistematico anche in assenza di resistenza, in violazione delle stesse linee guida — e trasferiti sotto scorta fino all’aeroporto. Dietro la retorica del “rigore”, il sistema dei rimpatri forzati mobilita una filiera burocratica, sanitaria e logistica estremamente onerosa. I costi medi documentati dallo studio variano da 4.000 a 7.000 euro per ogni rimpatrio eseguito. Una cifra che comprende solo la fase finale dell’esecuzione: scorte armate, trasferimenti, voli charter dedicati (spesso noleggiati ad hoc per piccoli gruppi), presenza di personale medico, logistica aeroportuale separata, vigilanza aeroportuale specifica. Nel solo 2024, limitandosi ai 1.180 rimpatri effettivi, la spesa per i voli e il trasferimento supera già i 6 milioni di euro. E non tiene conto della parte sommersa: detenzione nei Cpr, costi di mantenimento, stipendi del personale, servizi sanitari e amministrativi, convenzioni alberghiere per i voli rinviati, costi diplomatici e per la gestione dei documenti. A questo si somma l’accordo siglato dal governo italiano con l’Albania: una convenzione che prevede l’apertura di due centri di detenzione esternalizzati, per una spesa iniziale di oltre 32 milioni di euro più costi fissi superiori al milione mensile. La collaborazione internazionale rimane il vero tallone d’Achille dell’intero impianto. I rimpatri assistiti — più flessibili e incentivati economicamente — rappresentano una quota marginale, mentre la macchina dei rimpatri forzati si arena su un quadro multilaterale che non controlla. Anche il monitoraggio indipendente previsto dalla normativa europea trova applicazione parziale. In Italia le comunicazioni preventive ai garanti avvengono mediamente 48-72 ore prima del rimpatrio, a fronte di preavvisi settimanali in paesi come Spagna, Svezia e Olanda. Questo restringe di fatto ogni possibilità di controllo sulle modalità di esecuzione o di ricorso effettivo. I dati empirici raccolti dal gruppo di ricerca dell’Università di Bari sono netti: l’ossessione italiana (e ora europea) non ha mai prodotto più rimpatri. Dal 1998 al 2024 la macchina repressiva si è espansa logisticamente ma ha costantemente ridotto la propria efficacia numerica. Ogni annuncio sulla “stretta” si infrange contro il dato reale. E la narrazione muscolare si sbriciola sotto il peso dei numeri. Ricordate i “frugali” d’Europa? Hanno cambiato idea, per le armi di Pietro Saccò Avvenire, 6 giugno 2025 Gli italiani che ancora si ricordano dei “frugal four” difficilmente li rammentano con simpatia. Si erano guadagnati questo soprannome dei “frugali” quattro governi dell’Unione europea - quelli di Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia - che nel 2020, durante i negoziati per il bilancio dell’Ue per il 2021-2027, erano uniti nell’opporsi all’aumento dei contributi degli Stati al bilancio comune, indebolito dall’uscita del Regno Unito. Alfieri del rigore fiscale e della parsimonia dei conti pubblici, sempre sospettosi verso gli Stati più indebitati (come l’Italia), i “frugali” avevano provato - senza successo - anche a darsi il più nobile nome di Nuova Lega Anseatica, con un richiamo alla federazione delle città mercantili che aveva tenuto il monopolio del commercio tra il Baltico e il Nord Europa per quasi quattro secoli. Mentre i governi negoziavano il bilancio, la pandemia del Covid-19 cominciava a fare strage anche in Europa. Nel panico generale i “frugali”, che nel frattempo avevano imbarcato anche la Finlandia, trovarono il modo di distinguersi: si ribellavano a ogni ipotesi di debito comune per gestire l’emergenza e rilanciare l’economia europea. Chiedevano di non concedere sovvenzioni ma solo prestiti da rimborsare. Invocavano una durata limitata per ogni spesa straordinaria. Solo la mediazione della Germania, che non entrò mai ufficialmente nel club pur apprezzandolo, li convinse ad accettare il Recovery Fund e il principio del rispondere insieme a un’emergenza condivisa. “Prima di tutto il nostro contributo al bilancio deve rimanere stabile, tenendo conto dell’inflazione e della crescita economica” scrivevano l’austriaco Sebastian Kurz, la danese Mette Frederiksen, l’olandese Mark Rutte e lo svedese Stefan Löfven in una sorta di manifesto dei frugali pubblicato sul Financial Times nel febbraio del 2020. Cinque anni dopo questo club può dirsi morto: davanti alla necessità di difendere l’Europa e alla volontà di comprare più armi i vecchi frugali non badano più alle spese. Frederiksen, che è ancora primo ministro della Danimarca, lo ha detto apertamente martedì scorso: “Abbiamo avuto in passato un ruolo di primo piano nel gruppo dei quattro frugali e ora lo avremo in un altro gruppo, perché i tempi sono cambiati e il mondo sta cambiando rapidamente - ha dichiarato Frederiksen in una conferenza stampa insieme a Roberta Mtesola, presidente del Parlamento europeo -. Per me la cosa più importante è riarmare l’Europa ed è il mio punto di partenza e questa è la mia conclusione in tutte le discussioni, perché se l’Europa non è in grado di proteggersi e difendersi il resto cade”. Quindi le armi, prima di tutto. Un pensiero certamente condiviso dai vecchi compagni della lotta per l’austerità. Uno di loro, l’olandese Rutte, ora è a capo della Nato e non perde occasione per chiedere ai governi di stanziare più fondi per rafforzare gli eserciti. Un altro, lo svedese Löfven, oggi da presidente del Partito socialista europeo è un convinto sostenitore del piano di riarmo e a febbraio ha rivendicato con orgoglio che l’Europa abbia contribuito con 113,3 miliardi di euro alla difesa dell’Ucraina dalla Russia. All’ultimo “frugale”, l’austriaco Kurz, ex enfant prodige della politica europea, il dichiarato scrupolo per l’uso dei soldi dei contribuenti non ha risparmiato una serie di indagini per corruzione (ancora in corso) che però lui affronta da una nuova posizione di sereno startupper alla guida di Dream, società di cybersicurezza con sedi a Tel Aviv, Vienna e Abu Dhabi già valutata oltre un miliardo di dollari. Non è certo che l’economista John Maynard Keynes abbia davvero risposto a una critica sul frequente mutare delle sue opinioni con qualcosa tipo “Quando cambiano i fatti, io cambio idea. Lei cosa fa, signore?”, ma questa frase è bella ed efficace comunque. Cambiare idea è lecito, spesso anche indice di una saggezza maggiore dell’orgoglio. Quello del rigore fiscale e della moderazione nella spesa pubblica come principi assoluti era un totem da abbattere senza troppi rimorsi. I vecchi “frugali” potevano capirlo quando a Bruxelles si cercavano i soldi per fermare il coronavirus. Invece ci sono arrivati ora, quando il denaro da mettere in comune dovrebbe servire a comprare armi per tutta l’Ue, scoraggiare attacchi militari, magari combattere oltre i nostri confini. Oggi contro la Russia, poi chissà quali altri nemici avremo. Devono essere molto convinti che più saremo armati più potremo sentirci sicuri. Non erano simpatici quando erano frugali, ma ora che sono diventati militaristi prodighi fanno anche un po’ paura. Il governo svedese si è accordato con l’Estonia per affittare 400 celle di un carcere estone ilpost.it, 6 giugno 2025 È una misura voluta dall’estrema destra svedese per ridurre il sovraffollamento: non è la prima volta che si fa un accordo simile in Europa. I governi di Svezia ed Estonia hanno fatto un accordo per trasferire in un carcere estone fino a 600 detenuti dalla Svezia, con l’obiettivo di diminuire il sovraffollamento carcerario. L’accordo prevede che la Svezia affitti 400 celle nel carcere della città estone di Tartu, che in totale può ospitare 933 detenuti ma che oggi è vuoto per due terzi. Il testo deve ancora avere l’approvazione dei due parlamenti e in quel caso entrerà in vigore nel luglio del 2026. In Svezia il governo, di centrodestra, ha bisogno anche dei voti del Partito Socialdemocratico, di centrosinistra e all’opposizione, che per il momento non si è completamente opposto alla proposta, ma ha espresso molto scetticismo. I due governi si sono accordati affinché il trasferimento dei detenuti venga approvato caso per caso: verranno considerati solo uomini maggiorenni condannati per reati gravi, come omicidio, reati sessuali o economici. Non saranno trasferiti i detenuti considerati un grave rischio per la sicurezza nazionale, come i condannati per reati di terrorismo o che hanno legami con la criminalità organizzata, e nemmeno persone che hanno bisogno di cure. Il carcere di Tartu continuerà a essere gestito dal personale penitenziario estone, che però dovrà seguire un percorso di formazione preparato da agenti svedesi. Nel carcere sarà in vigore la legge estone, ma verranno fatte alcune modifiche affinché l’esperienza dei detenuti raggiunga gli standard della legge svedese. La lingua utilizzata sarà l’inglese e i detenuti verranno riportati in Svezia un mese prima della fine della loro pena. Il costo di ogni detenuto in Estonia sarà di circa 8.500 euro al mese (esclusi i costi di trasporto da e verso la Svezia), rispetto ai circa 11.500 euro necessari in Svezia. L’affitto di posti carcerari all’estero era uno dei punti chiave del cosiddetto accordo di Tidö, con cui nel 2022 i Democratici Svedesi, partito di estrema destra, si erano impegnati a dare l’appoggio esterno al governo formato da Partito Moderato (centrodestra), Democratici Cristiani (centrodestra) e Liberali: la misura era stata chiesta proprio dai Democratici Svedesi. Il governo svedese ha detto che l’Estonia è stata scelta, oltre che per la sua disponibilità, anche per la sua vicinanza e per il fatto che gli standard carcerari dei due paesi sono molto simili. Negli ultimi 15 anni in Svezia c’è stato un notevole aumento dei tassi di criminalità: il paese è oggi primo nell’Unione Europea per numero di omicidi compiuti con arma da fuoco pro capite. È una situazione che ha messo sotto pressione il sistema penitenziario svedese, considerato un modello all’estero perché molto concentrato sulla riabilitazione e il reinserimento sociale dei detenuti attraverso l’assistenza psicologica, il lavoro e lo studio. A maggio del 2025 circa 7.300 persone erano detenute in poco più di 5.200 celle: per la Svezia, dove si cerca di dare a ogni detenuto una cella singola, significa un tasso di occupazione del 141 per cento. Non è il primo accordo di questo tipo in Europa: tra il 2010 e il 2016 il Belgio aveva affittato 680 posti carcerari a Tilburg, nei Paesi Bassi, e nel 2021 la Danimarca aveva firmato un accordo da 210 milioni di euro per affittare 300 celle in Kosovo per 10 anni. Recentemente anche il presidente francese Emmanuel Macron ha menzionato un’intenzione simile, ricevendo molte critiche: trasferire detenuti in un altro paese, lontano dalla propria rete di affetti, e affidarli a delle autorità straniere ha serie implicazioni morali e legali ed è sconsigliato dalle associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti. Medio Oriente. Senza giustizia, prevarrà la legge della giungla di Alessandra Annoni, Micaela Frulli, Triestino Mariniello Il Manifesto, 6 giugno 2025 Il 19 luglio 2024, la Corte internazionale di giustizia (Cig) ha reso un parere consultivo di importanza storica. Considerando le prassi e le politiche implementate da Israele in Cisgiordania, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza come una grave violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, del divieto di acquisizione territoriale con la forza e del divieto di segregazione razziale e apartheid, la Cig ha accertato l’illiceità dell’occupazione israeliana, affermando l’obbligo per lo Stato ebraico di smantellare le colonie e ritirare le proprie truppe “il più rapidamente possibile” - senza possibilità di invocare ragioni di sicurezza o la necessità di negoziare una pace duratura come giustificazione per il protrarsi dell’occupazione - e quello di riparare i danni causati, consentendo ai rifugiati palestinesi del 1967 di fare ritorno nelle proprie terre. Vista la rilevanza generale delle norme di diritto internazionale violate, il parere riconosce anche una serie di obblighi in capo agli Stati terzi. Tutti, a maggior ragione quelli che intrattengono con Israele relazioni diplomatiche amichevoli, sono tenuti a interrompere qualunque forma di aiuto o assistenza al mantenimento dell’occupazione illecita ed hanno l’obbligo di adoperarsi per indurre Israele a ritirarsi. In linea con queste indicazioni, il 18 settembre 2024 l’Assemblea generale dell’Onu ha esortato gli Stati a cessare la fornitura a Israele di armi ed equipaggiamento militare che potrebbero essere usati nei Territori, li ha invitati a adottare sanzioni contro individui e imprese coinvolte nel mantenimento dell’occupazione e li ha sollecitati a garantire la punizione dei responsabili delle violazioni del diritto internazionale perpetrate ai danni dei palestinesi. La risoluzione è stata adottata a larghissima maggioranza; l’Italia si è astenuta. Obblighi in capo agli Stati terzi scaturiscono anche dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948, ratificata da 149 Stati tra cui l’Italia. La Convenzione definisce chiaramente il genocidio, il cui tratto caratteristico risiede nel compiere determinati atti (omicidio, lesioni gravi fisiche e mentali, condizioni di vita miranti a distruggere un gruppo, impedire le nascite e trasferire bambini da un gruppo a un altro) con l’intento di distruggere in tutto in parte un gruppo etnico, nazionale, razziale o religioso in quanto tale. Oltre a stabilire il divieto di genocidio, di istigazione e di complicità, la Convenzione pone a tutti i contraenti un chiarissimo obbligo di prevenzione. Obbligo violato se gli Stati terzi non fanno tutto ciò che è nelle loro possibilità per impedire che un genocidio si compia: è un obbligo di comportamento, non di risultato. Gli Stati devono prendere tutte le misure possibili per impedire che un genocidio si compia - anche se ritengono che le loro azioni potrebbero avere uno scarso impatto - e più stretti sono i rapporti con lo Stato che si accinge a perpetrare un genocidio, più grande la responsabilità nel fare tutto il possibile per fermarlo. Nel 2007, sulla base di questi argomenti, la Cig condannò Serbia e Montenegro per mancata prevenzione del genocidio di Srebrenica. La stessa Cig, nel 2024, ha adottato tre ordinanze cautelari con cui, preso atto delle condizioni di vita catastrofiche dei palestinesi a Gaza, ha ordinato a Israele di fare tutto il possibile per non commettere un genocidio, ritenendo plausibile il rischio di violazione della Convenzione. Di fronte a tale rischio, gli Stati terzi hanno l’obbligo di prendere misure incisive: sospendere ogni trasferimento di armi, adottare sanzioni politiche, diplomatiche e commerciali, garantire la distribuzione degli aiuti umanitari. A questi obblighi si aggiungono quelli derivanti dallo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (Cpi). Il 21 novembre 2024, la Cpi ha emanato mandati di arresto nei confronti del premier israeliano Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Gallant, indiziati di crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi a Gaza. Gli Stati contraenti dello Statuto di Roma - compresa l’Italia - devono eseguire i mandati di arresto nel caso in cui si presenti l’occasione. L’obbligo non lascia spazio a discrezionalità politiche: il mancato adempimento, così come avvenuto nel caso Al Masri, comporterebbe una grave violazione del diritto internazionale. Se il contenuto degli obblighi giuridici è chiaro, non è così evidente la volontà degli Stati e delle istituzioni europee di rispettarli in ogni circostanza. L’Italia sostiene legittimamente il ricorso agli strumenti del diritto internazionale in tanti altri contesti ma continua a porre Israele al di sopra della legalità internazionale. Come altri Stati - tra cui Francia e Germania - ha dichiarato che Netanyahu non verrebbe arrestato in caso di visita in Italia. L’Unione europea ha promosso con forza la giustizia internazionale in Ucraina, arrivando a proporre un nuovo tribunale per il crimine di aggressione e rendendo la ratifica dello Statuto di Roma una condizione per l’adesione dell’Ucraina all’Ue. Ma dov’è la difesa della legalità quando la Cpi viene minacciata dalle sanzioni Usa o uno Stato membro, come l’Ungheria, accoglie un ricercato internazionale e annuncia il ritiro dallo Statuto? Questo doppio binario discrimina anzitutto le vittime: ai Palestinesi, già disumanizzati da una retorica che li definisce “animali umani”, è negato persino l’accesso alla giustizia. La politica dei doppi standard mina alla base credibilità, legittimità ed efficacia del diritto internazionale e rischia di erodere l’architettura giuridica internazionale costruita faticosamente dopo il 1945. Continuare a opporsi all’applicazione di strumenti di diritto internazionale creati proprio per evitare il ripetersi degli orrori della Seconda Guerra Mondiale, non farà altro che contribuire a perpetuare uno scenario di morte e di ripetizione ciclica delle spirali di violenza armata nel contesto israelo-palestinese. Coloro che credono che gli attacchi degli Stati alla Cpi possano danneggiare il suo ruolo solo in Palestina sono pericolosamente ingenui. Cpi e Cig rappresentano alcuni degli ultimi argini contro la barbarie. Come ricorda l’avvocato palestinese Raji Sourani: senza giustizia internazionale, resta solo la legge della giungla. Medio Oriente. “Dietro le torture ai detenuti c’è una politica di Stato” di Michele Giorgio Il Manifesto, 6 giugno 2025 Intervista all’avvocata Nadia Daqqa. “Ho visitato la sezione sotterranea di Nitzan: i prigionieri vivono in celle minuscole, non sanno quando è giorno o notte, né sanno nulla di quanto avviene all’esterno”. Le migliaia di palestinesi di Gaza e Cisgiordania arrestate dopo il 7 ottobre 2023 rappresentano uno dei capitoli più critici della reazione di Israele all’attacco di Hamas. Abusi, torture, gravi privazioni ai danni dei prigionieri, in particolare quelli provenienti da Gaza, sono solo alcune delle accuse più frequenti rivolte a Tel Aviv, che ha allestito veri e propri campi di prigionia. Fondamentali per la diffusione delle notizie su quanto avviene nelle carceri sono gli avvocati israeliani e palestinesi. Noi abbiamo incontrato a Gerusalemme l’avvocata Nadia Daqqa. Israele afferma di avere un sistema carcerario conforme agli standard umanitari internazionali. Le critiche non sono mancate neppure negli anni passati, ma dopo il 7 ottobre sono fioccate le denunce. E si è appreso dell’esistenza di prigioni sotterranee... Ho avuto modo di visitare una di queste strutture sotterranee. Circa due mesi fa sono stata a Nitzan, a Ramleh. Dovevo incontrare due prigionieri di Gaza e verificare le loro condizioni. Quando sono entrata, mi sono resa conto che i miei assistiti si trovavano sottoterra, e non in celle normali. Le guardie hanno aperto una porta: c’erano delle scale che scendevano e mi hanno detto di andare giù. Una volta arrivata, ho capito di trovarmi in una sezione sotterranea a tutti gli effetti, illuminata solo da luci artificiali e completamente isolata. Se ne era parlato nei mesi scorsi come del luogo in cui sono rinchiusi i prigionieri della Nukhba (una brigata dell’ala armata di Hamas accusata da Israele di aver compiuto l’attacco del 7 ottobre 2023, ndr). Poi hanno portato i due palestinesi per il colloquio. Erano in detenzione amministrativa, senza processo né accuse formali? Uno è accusato di essere un “combattente illegale”, secondo una definizione usata nel sistema israeliano. Il secondo si trova in una sorta di detenzione amministrativa. È un giovane arrestato all’ospedale Kamal Adwan (nel nord di Gaza, ndr) alla fine di dicembre. Non esistono prove contro di lui, però resta in carcere. Entrambi sono detenuti in condizioni inadeguate e illegali, ma attualmente, in tutte le carceri israeliane, i detenuti palestinesi vivono in condizioni inaccettabili. Trascorrono tutto il tempo in celle minuscole, con telecamere che li sorvegliano 24 ore su 24. Non ricevono abbastanza cibo, un problema che riguarda tutti i detenuti palestinesi. Ho visto e conosco prigionieri che hanno perso molto peso, venti chili o più. I detenuti che ho incontrato a Nitzan hanno raccontato che durante l’inverno hanno avuto a disposizione solo la divisa marrone dei prigionieri di sicurezza, senza vestiti invernali. Le coperte, inoltre, erano disponibili solo di notte. Vengono costantemente controllati, anche durante la doccia. Questi due detenuti, e presumibilmente anche gli altri nella stessa sezione sotterranea, non sanno neppure quando è giorno o notte. Non sanno nulla di ciò che accade all’esterno, né dove siano stati portati. Mi sono apparsi molto disorientati. È riuscita ad avere ulteriori informazioni su questa sezione sotterranea? Esistono altre strutture simili? Per ora sappiamo con certezza dell’esistenza di questa sezione, già usata negli anni ‘80 e ‘90 e poi chiusa. Dal ministro della sicurezza (e leader dell’ultradestra, ndr) Itamar Ben Gvir abbiamo appreso che la sezione è tornata in uso dallo scorso anno. Abbiamo però molte informazioni sull’esistenza di altri centri di detenzione speciali, tra cui Sde Teiman, spesso citato nelle cronache per le condizioni dei prigionieri e le accuse di torture. La Corte suprema israeliana, per placare le proteste, aveva ordinato il trasferimento di una parte dei detenuti - un numero eccezionalmente alto dopo il 7 ottobre - e il miglioramento delle condizioni di quelli rimasti. Ma il miglioramento è rimasto sulla carta: nella realtà le cose sono rimaste come prima. Circolano voci su un campo militare di detenzione in costruzione nella zona di Wadi Ara. In ogni caso, anche nelle prigioni più conosciute e ufficiali - non speciali né segrete - come Ofer (nei pressi di Ramallah, ndr), i prigionieri sono sottoposti a umiliazioni, abusi e altro ancora. Spesso i detenuti provenienti da Gaza non sono stati informati di dove si trovassero. Un caso noto è quello del dottor Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza arrestato a fine dicembre. Ha sue notizie aggiornate? Non ho incontrato il dottor Abu Safiya. So che si trova nella prigione ufficiale di Ofer e non nel campo di detenzione allestito accanto ad essa. So anche che ha vissuto giorni molto difficili in carcere, non è stato nemmeno informato della morte della madre. Ho parlato con altri medici e paramedici arrestati negli ospedali Nasser (Khan Yunis), Shifa (Gaza City) e, appunto, Kamal Adwan. Tutti sono stati incarcerati a Keziot in condizioni disumane. I detenuti lì sono tenuti tutto il tempo in celle sovraffollate, con 10-15 persone, ed escono solo un’ora al giorno. Possono fare la doccia solo occasionalmente e l’accesso alle cure mediche è molto limitato. Alcuni detenuti mi hanno riferito di essere rimasti bendati per molti giorni. Tutto questo e molto altro non è frutto di decisioni isolate di qualche direttore o del comportamento di singole guardie. È una politica precisa, che va oltre le misure punitive ordinate da Ben Gvir. Ritengo che vi sia un consenso generale sull’uso di queste pratiche contro i prigionieri palestinesi. Anche noi avvocati subiamo restrizioni nell’esercizio del nostro lavoro. A 52 dei miei colleghi è stato vietato di tornare nelle carceri, spesso senza alcuna motivazione concreta. Arresti di massa: 17mila in venti mesi Secondo i dati della Società dei prigionieri palestinesi (Pps) le forze di occupazione israeliane hanno effettuato oltre 17mila arresti dal 7 ottobre 2023 solo in Cisgiordania. A questa cifra si aggiungono gli arresti a Gaza, stimati in migliaia. L’unico dato ufficiale disponibile proviene dal Servizio penitenziario israeliano, che classifica 1.846 detenuti di Gaza come combattenti illegali. Il numero totale di prigionieri politici palestinesi attualmente nelle carceri israeliane è di circa 10.100. Almeno 537 arresti hanno riguardato donne, alcune con cittadinanza israeliana, e minori, di cui 1.360 solo in Cisgiordania. Almeno 70 prigionieri sono morti in detenzione, 44 erano di Gaza.