Carcere Padova, disinnescare l’odio e disarmare le parole di Antonella Barone gnewsonline.it, 5 giugno 2025 È un’affermazione di Gino Cecchettin, “essere cattivo cosa aggiungerebbe di bello nella mia vita?”, a dare il titolo a una delle sessioni del convegno annuale di Ristretti Orizzonti “Disinnescare …Attrezziamoci per disinnescare i conflitti, non per fomentarli”, tenutosi il 23 maggio nella casa di reclusione di Padova. Il padre di Giulia, uccisa dal suo ex fidanzato Filippo Turetta il 22 novembre 2023 - oggi impegnato con la Fondazione a lei dedicata in iniziative di contrasto alla violenza di genere - è stato uno dei relatori intervenuti sul tema del convegno di quest’anno, dedicato agli strumenti per superare la cultura del conflitto che sembra ancora radicata nella percezione sociale della giustizia penale. È la seconda volta che Cecchettin entra al Due Palazzi, la prima è stata per un incontro con la redazione di Ristretti Orizzonti, il 31 ottobre 2024, a meno di un anno dall’assassinio della figlia. Incontro che tiene a descrivere anche nei risvolti più personali, davanti a una platea di 600 persone, tra detenuti, volontari, operatori penitenziari, studenti, magistrati: “Ornella Favero (direttrice di Ristretti Orizzonti e organizzatrice dell’evento ndr) è stata perseverante nell’invitarmi. Ho accettato senza pensarci troppo anche se mi aspettavo di incontrare persone con pene brevi. Trovarmi di fronte a ergastolani mi ha disorientato all’inizio. Poi hanno iniziato a raccontare le loro storie e più ascoltavo degli uomini che avevano sbagliato, più sentivo di non essere nessuno per poter giudicare. Ho avvertito sincerità nelle loro parole. Dalle pieghe della vita sono nate poi le domande. E’ stato un confronto costruttivo tra approcci all’esistenza completamente diversi”. Un confronto divenuto più emozionante e autentico quando Gino ha iniziato a parlare del proprio percorso: “Ho raccontato la strada affrontata per stare lontano da sentimenti di rabbia e di odio. I ragazzi della redazione mi ascoltavano increduli ma incredulo ero anche io verso quello stavo provando. Sono uscito da quell’incontro di tre ore esausto. Però mi è servito per andare avanti”. “Se - chiarisce - un mese più tardi quando mi sono trovato davanti a Filippo durante l’udienza non mi sono sentito pieno di rabbia credo di doverlo a quell’incontro. Anzi, mi ha quasi fatto pena come essere umano, forse sono stato l’unico in quell’aula a non sentire odio benché il più legittimato a provarlo”. L’iniziativa ha visto la partecipazione di tante vittime o autori di reato, protagonisti di percorsi di riconciliazione. Tra loro, Benedetta Tobagi, che ha parlato della lotta contro la violenza di genere, Anilda Ibrahimi, che ha affrontato il tema del pregiudizio e dell’integrazione, Sonia Fusco che ha abbracciato l’uomo che ha investito e ucciso la figlia, Yehia Elgami, padre di Ramy, morto nel corso di un inseguimento, Marino O. che solo dopo un rientro in carcere ha compreso che non bastava essere un detenuto modello per vincere la rabbia. L’incontro, introdotto dalla nuova direttrice del carcere Due Palazzi, Maria Gabriella Lusi è stato moderato da Adolfo Ceretti, docente di Criminologia all’Università di Milano Bicocca e coordinatore scientifico dell’Ufficio di mediazione penale di Milano. Ceretti ha sintetizzato con il termine frantumaglia, mutuato da un saggio di Elena Ferrante, il deposito del tempo senza l’ordine di una storia che si porta dietro chi consulta i mediatori: “Si devono lasciare andare in un mulinello per ricostruire la propria storia, raccontata finalmente senza essere giudicata”. “L’idea del tema di questa giornata di studi c’è stata imposta dal clima di aggressività dominante ovunque, non solo attorno a ciò che riguarda il carcere. Credo che in primo luogo bisogna disarmare le parole, sceglierle, curarle. E poi disarmarsi per primi, non bisogna pensare che debbano essere gli altri per prima a farlo” sottolinea con energia Ornella Favero, alla quale chiediamo, a margine del convegno, quale è stata l’emozione più condivisa tra i presenti. “Quando Gino Cecchettin - risponde - dopo aver detto che ora il suo sogno è veder ritrovare la felicità ai suoi figli Elena e Davide, ha chiesto ai detenuti ‘E voi ce l’avete un sogno?’. Disorienta che un uomo come lui, che ha vissuto il dolore più grande che un genitore possa provare, venisse qui a riconoscere a loro il diritto di sognare. Gino è una persona che, come suggerisce il titolo della Giornata, ha disinnescato la rabbia davvero, in modo autentico. Per questo il suo insegnamento è così importante”. Decreto sicurezza e carceri sovraffollate di Rachele Gonnelli sbilanciamoci.info, 5 giugno 2025 La situazione nelle carceri italiane diventa bollente. La rivolta dei detenuti del carcere Marassi di Genova arriva nel giorno dell’approvazione anche al Senato del decreto sicurezza che, anche per loro, aggraverebbe le pene. “Senza Respiro”, il report di Antigone. Soltanto due agenti penitenziari portati in ospedale per accertamenti e altri due medicati sul posto: è contenuto il bilancio della rivolta scoppiata mercoledì 4 giugno nel carcere Marassi di Genova, in particolare - a quanto sembra - scoppiato negli spazi della seconda sezione penale. Ma poteva essere più cruento e in ogni caso è un drammatico segnale del sovraffollamento del sistema penitenziario italiano. Il Marassi ha un sovraffollamento storico, verificato sei mesi fa da visita organizzata dall’associazione Nessuno Tocchi Caino pari al 128 per cento: 684 detenuti per 535 posti. Una insegnante, Simonetta Colello, testimone diretta della rivolta, ha raccontato: “La sommossa dentro il carcere di Marassi a Genova è stata molto pesante, sono 18 anni che insegno lì e non ho mai visto una cosa del genere, sembrerebbe che tutto sia iniziato a seguito delle sevizie contro un detenuto da parte di altri detenuti. Noi insegnanti e anche il personale sanitario che eravamo dentro siamo stati rinchiusi al sicuro in un’aula. Ci hanno fatto uscire dopo molto tempo. I detenuti in rivolta erano tantissimi e c’erano solo due agenti, non c’era la possibilità di comunicare con l’esterno. Abbiamo visto vetri infranti e lanci di cose”. I rivoltosi hanno distrutto alcune celle, spaccato spazi comuni e sono saliti fin sul tetto, mentre all’ingresso del penitenziario si radunavano squadroni di agenti in tenuta antisommossa pronti ad entrare in azione. Tutto ciò è accaduto lo stesso giorno dell’approvazione definitiva del decreto Sicurezza, decreto che peggiorerà ulteriormente la situazione carceraria italiana, già sotto la lente dell’Unione europea come una delle peggiori a livello continentale. Il decreto sicurezza infatti, con i suoi 39 articoli istituisce altri 14 nuovi reati e 9 aggravanti, oltre a inglobare un nutrito pacchetto di misure volte ad aumentare le garanzie di impunità delle forze dell’ordine e ad ampliare i poteri dei servizi segreti e a vietare la produzione e la commercializzazione della cannabis light. Il testo è stato approvato con 109 sì, 69 no e una astensione, tra le vibranti proteste delle opposizioni M5S, Pd e AVS con i senatori che si sono stesi per terra a inscenare una sorta di sit-in nel centro dell’Aula di Palazzo Madama. Non è ancora in vigore, non essendo ancora stato sottoposto alla definitiva firma del Colle né pubblicato in Gazzetta. Ma è significativo che proprio ieri le opposizioni abbiano denunciato come il decreto non farà altro che riempire ancor più le carceri di persone che si sono macchiate di piccoli reati, che continuano a aggiungersi ad ogni pacchetto “sicurezza” messo in campo dalla destra al governo. Secondo il XXI Rapporto “Senza Respiro” dell’associazione Antigone sulla condizione degli istituti penitenziari in Italia, presentato alla stampa lo scorso 29 maggio, il sovraffollamento continua ad aumentare a ritmi vertiginosi: 300 nuovi detenuti ogni sessanta giorni, ciò significa che - segnala Antigone - se il problema fosse risolvibile con l’edilizia penitenziaria come sostiene il governo si dovrebbe costruire un nuovo carcere ogni due mesi. Inoltre, sempre a partire dal report di Antigone, finora il 51,2 per cento dei detenuti ha una condanna definitiva di meno di tre anni, una soglia che consentirebbe, almeno teoricamente, l’accesso a misure alternative. E più di 1.370 detenuti, su 62.445 che sono la popolazione carceraria al 25 aprile scorso, è dentro per pene inferiori a un anno. Molti sono in carcere perché spacciatori-tossicodipendenti. Alcuni hanno problemi psichici e restano in carcere come in una discarica sociale. Dovrebbero essere trattati in forma acuta nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (in sigla Rems, gli ex Opg), strutture giudicate da Antigone non davvero idonee al trattamento dei detenuti con gravi problemi psichici, che invece dovrebbero avere appositi servizi territoriali - che però non ci sono; comunque i posti nelle Rems sono pochi e le liste d’attesa infinite. Nel report di Antigone si segnala che dopo quattro anni di attesa i dati aggiornati indicano 688 posti disponibili, di cui risultano effettivamente occupati 654. Ma il governo sembra avere a cuore solo il “tutti dentro”, piuttosto che l’effettiva umanizzazione del carcere. Così il decreto sicurezza ora aggrava le pene per limitare le misure alternative al carcere e criminalizza il dissenso. Ad esempio introducendo il reato di occupazione di immobile (punibile da 2 a 7 anni), il reato di blocco stradale laddove al massimo era una contravvenzione (con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro), i reati per chi protesta contro le grandi opere - infrastrutture “destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici” - mentre istituisce anche la nuova fattispecie di reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni. La resistenza a pubblico ufficiale costituirà una aggravante fino a metà della pena (era un terzo) e le forze di polizia potranno portare armi anche non in servizio. Durante la presentazione del XXI rapporto di Antigone, la segretaria confederale della Cgil Daniela Barbaresi ha segnalato come “il sintomo più evidente delle criticità delle condizioni detentive è quello drammatico dei suicidi che nel 2024 ha raggiunto il numero più alto degli ultimi trent’anni: praticamente un suicidio ogni quattro giorni”. Poi ci sono le rivolte come quella del Marassi, sintomi estremi dell’insopportabilità della condizione carceraria, si calcola che l’anno scorso siano stati circa 1.500 gli episodi di protesta collettiva non violenta, che hanno coinvolto almeno 6 mila detenuti. In questi casi con il nuovo decreto sicurezza viene aumentata la pena per chi istiga alla disobbedienza delle leggi se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o attraverso scritti o comunicazioni dirette a persone detenute. Ed ecco così un altro reato, quello di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”, che punisce le condotte di: promozione, organizzazione o direzione e partecipazione a una rivolta consumata all’interno di un istituto penitenziario da tre o più persone riunite, mediante atti di violenza o minaccia, tentativi di evasione o atti di resistenza anche passiva che impediscono il compimento degli atti d’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza. A seguito delle notazioni del Quirinale, è stato corretto il confine di rilevanza penale delle condotte di resistenza “anche passiva”, tipo sciopero della fame, circoscrivendole a quelle relative all’esecuzione di ordini impartiti “per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”. In ogni caso la fattispecie di reato viene prevista anche per i centri di trattenimento per migranti irregolari. In questo caso, per la resistenza, si fa riferimento agli ordini impartiti “per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza” nei confronti di gruppi di stranieri irregolari presenti nei soli Cpr, espungendo ogni riferimento ai centri di accoglienza, sempre come correzione accettata per il rilievo incostituzionale. E qui può scattare un’altra norma dal sapore anticostituzionale: si estende la revoca della cittadinanza a 10 anni (l’arco di tempo prima era di 3 anni) nei confronti dello straniero, a decorrere dalla sentenza di condanna per i gravi reati già previsti dall’ordinamento, a condizione che possieda o possa acquisire un’altra cittadinanza. Magari quella del Paese dal quale è fuggito. È prevedibile che decreto sicurezza darà ancora da fare alla Corte costituzionale con procedure incidentali derivanti da casi giudiziari e sentenze. Aggravando il peso e la lentezza della giustizia italiana. Esecuzione della pena e carceri, le norme controverse di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2025 Agli atti di resistenza sono equiparate anche le forme di resistenza passiva. Incrinano due principi base del nostro ordinamento penale altrettante misure inserite nel decreto sicurezza approvato ieri definitivamente al Senato. Entrambe riguardano le carceri e l’esecuzione della pena. Innanzitutto si introduce il reato di rivolta in istituto penitenziario sanzionato con la reclusione da uno a cinque anni; a esserne colpito chi partecipa a una contestazione con violenza e minaccia oppure atti di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti. Dove agli atti di resistenza sono equiparate anche le forme di resistenza passiva, introducendo una novità del tutto sconosciuta al nostro sistema giuridico, come ricordato dal parere approvato dal Csm sul provvedimento: sinora infatti le condotte di semplice inazione rispetto all’ordine impartito dall’autorità sono state caratterizzate da una sostanziale irrilevanza penale. Inoltre, a rendere ancora più problematica l’introduzione del nuovo reato ci sono i dubbi di irragionevolezza dell’equivalenza quanto a trattamento sanzionatorio tra le condotte di resistenza passiva e la violenza o le minacce. Con il possibile rischio, anche questo evidenziato dal Consiglio superiore della magistratura, di incentivare, paradossalmente, il ricorso a forme di contestazione o disobbedienza dotate di maggiore pericolosità e carica offensiva. E tra le misure più controverse, anche all’interno della stessa maggioranza (note e forti le perplessità di Forza Italia), nel corso degli stessi lavori preparatori, c’è quella che, per la prima volta, apre le porte della detenzione anche alle donne incinte e alle madri di figli fino a un anno. Sinora, o meglio sino alla pubblicazione in “Gazzetta” del decreto, il rinvio dell’esecuzione della pena era obbligatorio (a fare data dall’entrata in vigore del Codice Rocco e con successiva sentenza della Corte costituzionale che aveva respinto le questioni di legittimità), per le condannate in stato di gravidanza o madri di figli di età inferiore a un anno. Con il decreto invece l’esecuzione della pena detentiva non è più rinviabile quando esiste il rischio della commissione di nuovi reati, ma la pena dovrà essere scontata presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Tuttavia questi ultimi, a rendere verosimilmente più afflittive le condizioni di esecuzione della pena, si trovano solo a Torino, Milano, Venezia e Lauro, con la conseguenza che in molti casi la distanza tra l’istituto di destinazione e il contesto familiare di provenienza della detenuta incinta o madre renderebbe più pesante la reclusione. Il “Dl Sicurezza” è legge, 14 nuovi reati e 9 aggravanti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2025 Il Senato ha votato il via libera definitivo al provvedimento già approvato dalla Camera. Lavori sospesi per le proteste delle opposizioni che hanno inscenato un sit-in in Aula e poi ripresi dopo la Capigruppo. Via libera definitivo alla conversione del Dl 11 aprile 2025, n. 48, contenente disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario che si compone di 39 articoli. Il provvedimento riproduce sostanzialmente i contenuti del disegno di legge sicurezza, confrontando i testi dei due provvedimenti risulta che 12 articoli hanno subito modifiche, anche minime, rispetto al testo licenziato dalle Commissioni riunite del Senato. Il testo si compone di VI Capi e introduce 14 nuovi reati e nove circostanze aggravanti. Tra le novità, l’introduzione del reato di occupazione arbitraria di immobile, con procedura semplificata per lo sgombero, e l’estensione del Daspo urbano. Il blocco stradale o ferroviario attuato con il corpo diventa reato. Pene più severe per chi aggredisce agenti o operatori sanitari, e arresto possibile anche in caso di flagranza differita. Si punisce l’uso di minori per l’accattonaggio, si vieta la vendita di infiorescenze di cannabis e si inaspriscono le pene per lesioni, danneggiamenti e resistenza a pubblico ufficiale. Si aggrava il reato di istigazione commesso all’interno di un istituto penitenziario, nonché, il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario. Ampio spazio è riservato alla protezione degli agenti: sarà possibile l’utilizzo di bodycam e videosorveglianza, vengono rimborsate le spese legali (fino a 10mila euro per fase) in caso di processi e si consente il porto d’armi fuori servizio. Rafforzate anche le misure per gli 007 e le norme contro i comandanti di navi straniere che violano le direttive italiane. Sul versante carcere e reinserimento, si punta al lavoro come strumento rieducativo, con benefici per le imprese che assumono detenuti, anche in misure alternative. Introdotto infine un albo di esperti antiusura per aiutare le vittime a rientrare nel circuito legale. Nel dettaglio, il CAPO I, composto da 9 articoli, detta disposizioni per la prevenzione e il contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata, nonché in materia di beni sequestrati e confiscati e di controlli di polizia. L’articolo 1) introduce nuove fattispecie di reato in materia di detenzione di materiale contenente istruzioni per il compimento di atti di terrorismo e di divulgazione di istruzioni sulla preparazione e l’uso di sostanze esplosive o tossiche ai fini del compimento di delitti contro la personalità dello Stato. L’articolo 2 modifica l’articolo 17 del Dl n. 113 del 2018, in materia di prescrizioni penali in caso di violazioni delle norme per il noleggio di autoveicoli per la finalità di prevenzione del terrorismo. L’articolo 3 modifica il codice antimafia in materia di documentazione riferita ai contratti di rete e di non applicabilità da parte del prefetto dei divieti di contrattare qualora ne derivi il venir meno dei mezzi di sostentamento. L’articolo 4 interviene sulla disciplina delle misure di prevenzione, attribuendo al tribunale in composizione monocratica la cognizione in ordine all’applicazione del divieto di utilizzare strumenti informatici e telefoni cellulari ai soggetti maggiorenni destinatari dell’avviso orale disposto dal questore. L’articolo 5 modifica le disposizioni per la concessione dei benefici ai superstiti delle vittime della criminalità organizzata. L’articolo 6 introduce alcune disposizioni in materia di protezione di collaboratori e testimoni di giustizia, in particolare per quanto concerne il rilascio e l’utilizzo di documenti e identità fiscali di copertura. L’articolo 7, da un lato, contiene disposizioni in materia di impugnazione contro le misure di prevenzione personali e dall’altro, in materia di gestione delle aziende sequestrate e confiscate, di amministrazione di beni immobili abusivi sequestrati e confiscati, nonché di contributi agli enti locali per la messa in sicurezza e l’efficientamento energetico dei beni destinati con provvedimento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. L’articolo 8 modifica la definizione di “articolo pirotecnico” per l’adeguamento alla nuova definizione unionale, introdotta nell’anno 2021: gli effetti calorifici, luminosi, sonori, gassosi e fumogeni sono riferiti non più alle sostanze esplosive contenute nel prodotto, ma al prodotto medesimo. L’articolo 9 interviene sulle ipotesi di revoca della cittadinanza italiana in caso di condanna definitiva per i reati di terrorismo ed eversione e altri gravi reati stabilendo che non si può procedere alla revoca ove l’interessato non possieda un’altra cittadinanza. Al contempo, si estende da tre a dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna il termine per poter adottare il provvedimento di revoca. Il CAPO II, contiene altri 9 articoli, in materia di sicurezza urbana. L’articolo 10 introduce il reato di occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui e una procedura d’urgenza per il rilascio dell’immobile e la conseguente reintegrazione nel possesso. L’articolo 11, oltre a introdurre una nuova circostanza aggravante comune, modifica il Codice penale per rendere più incisiva la repressione delle truffe agli anziani. L’articolo 12 (modifica il terzo comma dell’articolo 635 c.p.) inasprisce le pene per il delitto di danneggiamento in occasione di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico se il fatto è commesso con violenza alla persona o minaccia. L’articolo 13 estende il c.d. Daspo urbano. Viene introdotta, inoltre, l’osservanza del divieto di accesso, disposto in caso di condanna per reati contro la persona o il patrimonio commessi nelle aree e nelle pertinenze dei trasporti, come ulteriore condizione al rispetto della quale può essere subordinata la concessione della sospensione condizionale della pena. La disposizione estende infine l’ambito di applicazione dell’arresto in flagranza differita nel caso di lesioni a un agente di polizia, nonché al personale sanitario. L’articolo 14 prevede che sia punito a titolo di illecito penale - in luogo dell’illecito amministrativo, attualmente previsto - il blocco stradale o ferroviario attuato mediante ostruzione fatta col proprio corpo. La pena è aumentata se il fatto è commesso da più persone riunite L’articolo 15, comma 1, modifica gli articoli 146 e 147 c.p. rendendo facoltativo, e non più obbligatorio, il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore a un anno. Inoltre è previsto che l’esecuzione non sia rinviabile ove sussista il rischio, di eccezionale rilevanza, di commissione di ulteriori delitti. L’articolo 16 introduce modifiche all’articolo 600-octies c.p., relativo al reato di impiego di minori nell’accattonaggio. L’articolo 17 estende anche ai comuni capoluogo di città metropolitana della Regione siciliana l’autorizzazione ad assumere 100 vigili urbani per ciascun Comune. L’articolo 18 dispone il divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze della canapa (Cannabis sativa L.), anche in forma semilavorata, essiccata o triturata, nonché di prodotti contenenti tali infiorescenze, compresi gli estratti, le resine e gli olii da esse derivati. Con l’applicazione delle sanzioni in materia di stupefacenti. Resta esclusa solo la produzione agricola di semi destinati agli usi consentiti dalla legge. Nel CAPO III troviamo le misure in materia di tutela del personale delle forze di polizia, delle forze armate e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, negli articoli che vanno dal 19 al 32. L’articolo 19 modifica i delitti di “violenza o minaccia a un pubblico ufficiale” (articolo 336 c.p.) e di “resistenza a un pubblico ufficiale” (articolo 337 c.p.), viene introdotta una circostanza aggravante se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Inoltre, viene introdotta un’ulteriore circostanza aggravante all’articolo 339 c.p., qualora i delitti di “violenza o minaccia a un pubblico ufficiale” (articolo336 c.p.), di “resistenza a pubblico ufficiale” (articolo 337 c.p.) e di “violenza o minaccia a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario o ai suoi singoli componenti” (articolo 338), sono commessi al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all’erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici. L’articolo 20 modifica l’articolo 583-quater c.p., introducendo la nuova fattispecie di reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’adempimento delle funzioni. L’articolo 21 al comma 1 consente alle Forze di polizia di utilizzare dispositivi di videosorveglianza indossabili. Il comma 2 rende possibile l’utilizzo della videosorveglianza nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale. L’articolo 22 offre una copertura delle spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto. Il beneficio è riconosciuto a decorrere dal 2025 e non può superare complessivamente l’importo di 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento. L’articolo 23 copre le spese legali del personale delle Forze armate, indagato o imputato per fatti inerenti al servizio, nonché al coniuge, al convivente di fatto e ai figli superstiti del dipendente deceduto. Il beneficio è riconosciuto a decorrere dal 2025 e non può superare complessivamente l’importo di 10.000 euro per ciascuna fase del procedimento. L’articolo 24 introduce modifiche all’articolo 639 c.p., relativo al reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui, potenziando gli strumenti volti a salvaguardare i beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche. L’articolo 25 inasprisce le sanzioni con particolare riguardo ai casi di inosservanza dell’obbligo di fermarsi intimato dal personale che svolge servizi di polizia stradale, nonché delle altre prescrizioni impartite dal personale medesimo. L’articolo 26 introduce un’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi, applicabile se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute; nonché, il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario. L’articolo 27 con un nuovo reato reprime gli episodi di proteste violente da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento per i migranti. Si prevede, inoltre, l’estensione della disciplina speciale relativa alla realizzazione dei centri di permanenza per i rimpatri, anche alle procedure per la localizzazione e per l’ampliamento e il ripristino dei centri esistenti. L’articolo 28 autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza alcune tipologie di armi quando non sono in servizio. L’articolo 29 estende l’applicabilità delle pene previste dagli articoli 1099 e 1100 del codice della navigazione per i capitani delle navi, italiane o straniere, che non obbediscano all’intimazione di fermo di unità del naviglio della Guardia di finanza o che commettano atti di resistenza contro di esse, al naviglio della Guardia di Finanza impiegato in attività istituzionali (comma 1). Prevede inoltre la reclusione fino a 2 anni per il comandante della nave straniera che non obbedisca all’ordine di una nave da guerra nazionale nei casi consentiti dalle norme internazionali di visita e ispezione delle carte e dei documenti di bordo e la reclusione da tre a dieci anni per il comandante o l’ufficiale della nave straniera per gli atti compiuti contro una nave da guerra nazionale (comma 2). L’articolo 30 è finalizzato alla tutela delle Forze armate impegnate in missioni internazionali, e a tale scopo integra le disposizioni penali applicabili al personale partecipante e di supporto alle missioni, per prevedere la non punibilità dell’utilizzo di dispositivi e programmi informatici o altri mezzi idonei a commettere delitti contro l’inviolabilità del domicilio e dei segreti, ai sensi del Codice penale. L’articolo 31 rende permanenti le disposizioni per il potenziamento dell’attività dei servizi di informazione per la sicurezza, in materia di: estensione delle condotte di reato scriminabili, che possono compiere gli operatori dei servizi di informazione per finalità istituzionali su autorizzazione del Presidente del Consiglio dei ministri, a ulteriori fattispecie concernenti reati associativi per finalità di terrorismo; attribuzione della qualifica di agente di pubblica sicurezza con funzioni di polizia di prevenzione a personale militare impiegato nella tutela delle strutture e del personale degli organismi di informazione per la sicurezza; tutela processuale in favore degli operatori degli organismi di informazione per la sicurezza, attraverso l’utilizzo di identità di copertura negli atti dei procedimenti penali e nelle deposizioni; possibilità di condurre colloqui con detenuti e internati, per finalità di acquisizione informativa per la prevenzione di delitti con finalità terroristica di matrice internazionale. Inoltre, vengono introdotte nuove disposizioni, sempre riguardanti l’attività informativa, concernenti: la previsione di ulteriori condotte di reato per finalità informative, scriminabili, concernenti la direzione o l’organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico e la detenzione di materiale con finalità di terrorismo (reato quest’ultimo introdotto dall’articolo 1 del provvedimento), la fabbricazione o detenzione di materie esplodenti; la possibilità di richiedere informazioni e analisi finanziarie alla Guardia di finanza e alla DIA per il contrasto al terrorismo internazionale. L’articolo 32, modifica, in primo luogo, l’articolo 30 del codice delle comunicazioni elettroniche (decreto legislativo n. 259 del 2003) e prevede la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni per i casi nei quali le imprese autorizzate a vendere schede Sim non osservino gli obblighi di identificazione dei clienti. Viene previsto che al cliente, che sia cittadino di Paese fuori dall’Unione europea, sia richiesto il documento che attesti il regolare soggiorno in Italia, o del passaporto o documenti di viaggio equipollenti o documenti di riconoscimento che siano in corso di validità. Per il caso in cui il cliente lo abbia smarrito o gli sia stato sottratto, è necessario fornire copia della denuncia di smarrimento o furto. Il CAPO IV si occupa delle vittime dell’usura. L’articolo 33 istituisce un albo di esperti che affianchino gli operatori economici vittime di usura ai fini del reinserimento nel circuito economico legale, stabilendo altresì le norme fondamentali che disciplinano compiti, incompatibilità e decadenza, durata dell’incarico e compenso dei suddetti esperti Il CAPO V interviene sull’ordinamento penitenziario, articoli da 34 a 37. L’articolo 34 ricomprende l’aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e il delitto di rivolta all’interno di un istituto penitenziario nel catalogo dei reati per i quali la concessione di benefici penitenziari è subordinata alla mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; istituisce un termine di 60 giorni entro cui l’amministrazione penitenziaria deve esprimersi nel merito sulle proposte di convenzione relative allo svolgimento di attività lavorative da parte di detenuti ricevute. L’articolo 35 consente la concessione dei benefici previsti dalla legge n. 193 del 2000 a favore delle aziende pubbliche o private che impieghino detenuti anche per il lavoro svolto all’esterno degli istituti penitenziari. L’articolo 36 estende la possibilità di assumere in apprendistato professionalizzante anche i condannati e gli internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e i detenuti assegnati al lavoro all’esterno. L’articolo 37 autorizza il Governo ad apportare modifiche al regolamento in materia di organizzazione del lavoro dei soggetti sottoposti al trattamento penitenziario, sulla base dei criteri esplicitamente indicati. Il CAPO VI contiene le disposizioni finali. L’articolo 38 reca la clausola di invarianza finanziaria, disponendo che, salvo quanto previsto dagli articoli 5, 17, 21, 22, 23 e 36, dall’attuazione del disegno di legge in esame non devono derivare nuovi o maggiori oneri. L’articolo 39 dispone che il decreto-legge in esame entri in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Ma la sicurezza non può essere un alibi di Eugenio Fatigante Avvenire, 5 giugno 2025 Si è parlato di “svolta autoritaria”, di “atto repressivo”, di “deriva liberticida”. In molti ritengono che con il “dl Sicurezza” siamo alle prese con una nuova deriva populista per accrescere il consenso “vendendo” ai cittadini presunte rassicurazioni, mentre in realtà dietro il testo si nasconde una forma patologica di democrazia, dove il popolo è inteso come “soggetto passivo”, quasi non autorizzato a dissentire e ad attivarsi nelle forme di protesta finora usate. C’è sicuramente del vero in queste analisi severe. E sarà, per questa ragione, atteso più del solito, e senza alibi, alla prova dei fatti - e della possibile incostituzionalità di alcune parti - questo provvedimento, che resta in buona parte non condivisibile nel contenuto (anche dopo le correzioni fatte operare in via preliminare dal Quirinale, a partire da quelle sulle madri incinte o con neonati in carcere) e largamente da rivedere nel metodo, fino alla scelta finale di ricorrere all’ennesimo decreto per norme tutt’altro che urgenti. Un capitolo sconcertante, poi, è l’ampliamento dei reati non più punibili se compiuti dagli agenti dei servizi segreti durante operazioni autorizzate. Un intervento giustificato dal governo con la lotta al terrorismo, ma che rischia di dare una totalmente assurda “carta bianca” agli esponenti dei Servizi. Fino al rischio, paventato dalle opposizioni, di poter arrivare a “guidare organizzazioni terroristiche con finalità eversive”. Così come eccessivo è l’accanimento nel voler punire la resistenza passiva non violenta che, da storica protesta fatta usando anche i corpi per contrastare nella storia le espressioni più bieche di un “sistema” politico, troppo spesso però rischia di sconfinare nella prevaricazione rispetto ai diritti di masse ampie di cittadini e, quindi, di confliggere - pur avvenendo in modo pacifico - con diritti che parimenti vanno tenuti in conto. Certo, l’epilogo chiama in qualche modo in causa anche il centrosinistra. E tocca l’eccesso di sufficienza con cui questa parte politica ha sempre trattato negli anni temi che invece, forse anche per una questione anagrafica, stanno sempre più a cuore a larghe fasce del nostro tessuto sociale (lo attestano anche vari sondaggi, pur col loro valore relativo). E che rappresentano oggi uno degli anelli mancanti per tornare a parlare alla maggioranza del Paese. Gli esempi più eclatanti sono quelli degli imbrattamenti e degli sgomberi delle case (di abitazione) occupate abusivamente, ora possibile con l’intervento diretto della polizia giudiziaria cui si denuncia il fatto: una norma di assoluto buon senso che per troppi decenni, inspiegabilmente, è stata un tabù. In parte è anche l’aver troppo a lungo ignorato queste istanze a obbligare oggi la sinistra a dover subire, e reagire energicamente, alla “versione”, eccessiva, che ne sta dando la sua controparte politica. La resistenza passiva non ferma il Senato. Il dl sicurezza è legge di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 giugno 2025 “Denunciateci tutti”: le opposizioni inscenano una protesta in Aula. Ma il pacchetto viene approvato con la fiducia e 109 voti a favore. Uno spritz in mano al ministro Nordio che in diretta a “Un Giorno da Pecora” brinda al via libera definitivo del decreto Sicurezza, convertito in legge praticamente senza il parlamento. E i senatori dell’opposizione seduti a terra nell’emiciclo di Palazzo Madama che protestano, con le spalle alla presidenza e le mani alzate in una sorta di resistenza passiva alla violenza del provvedimento, innalzando cartelli con su scritto “Denunciateci tutti”. Mentre in tribuna assiste, con un certo stupore, una delegazione del Senato spagnolo. Sono solo due fermi immagine di ieri, una giornata che conclude un percorso legislativo a suo modo inedito cominciato il 17 novembre 2023 con il via libera del Consiglio dei ministri all’omonimo disegno di legge poi tramutato in decreto il 4 aprile 2025. Un pacchetto di norme penali da allora in vigore che, con il doppio voto di fiducia imposto dal governo Meloni prima alla Camera (dove è stato licenziato il 29 maggio scorso) e poi al Senato, ieri è stato convertito definitivamente in legge con 109 voti favorevoli, 69 contrari e un’astensione. Il passaggio lampo nella seconda camera del parlamento ha stabilito un tempo record, ad esclusivo beneficio dei calcoli politici dell’esecutivo. Martedì, in un solo giorno, il testo è passato dalle commissioni all’Aula. E ieri le opposizioni si sono fatte sentire, a tal punto che i presidenti di turno (prima La Russa, poi la dem Rossomando) sono dovuti intervenire più volte per sedare gli animi, richiamare all’ordine le minoranze e sanzionare le offese più sconclusionate di alcuni senatori delle destre. Come nel caso del presidente della commissione Affari costituzionali, Alberto Balboni, che ha attaccato il centrosinistra con il teorema preso in prestito dal fratello di partito Donzelli (nella famosa sparata del 2023) “Le rivolte nelle carceri sono manovrate dalla mafia che vuole l’abrogazione del 41bis. Se tra destra e sinistra c’è una differenza è questa: mentre voi andavate a trovare i terroristi e mafiosi per il 41bis, noi eravamo in quest’aula a difenderlo”, ha detto il senatore meloniano che alla fine, dopo due censure della presidente Rossomando, si è dovuto scusare. L’affermazione però ha scatenato la bagarre in Aula e ha convinto il capogruppo del M5S, Patuanelli, a non partecipare al voto: “Quando la mia città ha visto un gruppo no vax e no green pass bloccare il porto e le forze dell’ordine sono intervenute, voi con chi stavate? Il ministro Salvini con chi stava? Con le forze dell’ordine o con i no vax?”, ha chiesto il senatore triestino confutando le motivazioni di Lega e Fd’I secondo cui il nuovo pacchetto penale sarebbe diventato di colpo “necessario e urgente” perché occorre proteggere le forze di polizia dalla violenza delle piazze o dei detenuti. Inizialmente, Pd, M5S e Avs avevano chiesto una riunione dei capigruppo per tentare un ritorno in commissione del testo che, affermano, “modifica la Costituzione”. Niente da fare. Il presidente La Russa va avanti come un treno, ma è costretto a capitolare e interrompere la seduta quando dà la parola al leader di Azione Calenda, ma lui si rifiuta di intervenire: “Non voglio interrompere una protesta pacifica”, dice. Il pentastellato Scarpinato fa notare che questo pacchetto Sicurezza nasce da lontano e affonda le radici nell’impunità sperata per “i 25 agenti condannati in Cassazione per le violenze alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001” o per le divise che tradiscono lo Stato infliggendo torture ai cittadini affidati loro. Nel 2018, ricorda, Giorgia Meloni aveva promesso di abolire il reato di tortura introdotto finalmente nel nostro ordinamento l’anno prima, dopo la condanna della Cedu. “Oggi quella promessa viene mantenuta di fatto con un devastante messaggio di regressione democratica e di involuzione autoritaria dello Stato”. Il dem Giorgis bolla il provvedimento come una “legislazione contraddittoria, di dubbia legittimità, che conosce solo la dimensione repressiva e demagogica, non è in grado di risolvere nessun problema e non è in grado di garantire la sicurezza necessaria per l’esercizio di ogni libertà”. Nel frattempo, mentre il Guardasigilli Nordio brindava, il ministro dell’Interno Piantedosi, ospite di Sky tg24, si è detto “convinto” che con la nuova legge “non si determinerà l’aggravio sul sistema penale”. Che è sull’orlo di esplodere per via del sovraffollamento e dell’organico insufficiente ad ogni livello. Problemi che il decreto ignora alla grande mentre introduce, tra gli altri, il reato di rivolta in carcere che, come ha fatto notare ieri il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, “secondo il sottosegretario Delmastro avrebbe dovuto ridurre le rivolte del 70%”. Peccato che, invece, proprio mentre la nuova fattispecie diventava legge, negli ultimi due giorni ci sono state pesanti proteste dei detenuti prima nel carcere romano di Rebibbia e poi, ieri, a Genova Marassi. Qualsiasi fossero le cause che hanno scatenato i detenuti, in entrambi i casi l’effetto deterrente del decreto legge già in vigore è stato pari a zero. Decreto Sicurezza, la versione del Governo non regge alla prova dei numeri di Giulio Cavalli La Notizia, 5 giugno 2025 Il ministro Piantedosi difende il testo. Ma i dati dicono che le carceri sono già al collasso. E con le nuove norme si rischia di fare peggio. Decreto Sicurezza, la versione del governo non regge alla prova dei numeri: con le nuove norme si rischia più carcere. La fotografia che il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si ostina a proporre è sempre la stessa: il nuovo Decreto Sicurezza non aggraverebbe il sistema carcerario italiano. “Sono convinto che non si determinerà l’aggravio sul sistema penale”, ha dichiarato il 4 giugno a Sky TG24. Dichiarazioni che sbattono però contro i dati e le analisi tecniche. Il sovraffollamento già al collasso - Il primo dato, che Piantedosi finge di ignorare, è lo stato attuale delle carceri italiane. Al 2 giugno 2025, secondo i dati del Ministero della Giustizia, i detenuti sono 62.813 a fronte di 46.710 posti realmente disponibili, con un tasso di affollamento del 134,4%. Antigone conferma numeri analoghi, rilevando addirittura picchi del 220% in alcuni istituti come Lucca, Foggia e San Vittore. A questi numeri drammatici si aggiungono 91 suicidi nel solo 2024 e 29 nei primi quattro mesi del 2025. Quando il sistema penitenziario è già saturo al limite patologico, introdurre nuove fattispecie penali e aggravare le pene non può che generare ulteriore pressione. La “bulimia punitiva”, come la definiscono oltre duecento giuristi in un appello sottoscritto contro il decreto, non è solo un errore politico: è un disastro calcolato. Nuove norme, vecchia logica repressiva - Il Decreto Sicurezza non si limita a ritoccare norme esistenti. Introduce nuove fattispecie che trasformano condotte amministrative in reati penali. L’articolo 10, ad esempio, istituisce il reato di “occupazione arbitraria di immobile£, punito con pene da due a sette anni, rendendo inapplicabili le sanzioni alternative previste per pene inferiori a quattro anni. Persino chi “collabora” rischia il carcere, criminalizzando reti di solidarietà e movimenti per il diritto all’abitare. Anche il dissenso diventa bersaglio. L’articolo 14 trasforma il blocco stradale da illecito amministrativo a reato punito con la reclusione fino a due anni se compiuto in gruppo. I manifestanti, gli attivisti sindacali, gli ecologisti: tutti nel mirino. A completare il quadro, il nuovo reato di “rivolta penitenziaria”, punito fino a otto anni di carcere (dodici o più se vi sono lesioni o morti). La norma è costruita per essere un’arma di disciplina interna: la sola resistenza passiva può bastare per un’incriminazione. In quanto reato ostativo, preclude l’accesso ai benefici penitenziari, allungando inevitabilmente i tempi di detenzione. Madri, minori e vulnerabili sotto schiaffo - Il Decreto colpisce anche le detenute madri. Il rinvio obbligatorio della pena per donne incinte o con figli piccoli diventa facoltativo, con la possibilità di separare legalmente madre e figlio per “condotta inadeguata”. Non serve molta fantasia per intuire le ricadute psicologiche e sociali di queste scelte. Il sistema penale minorile, già sotto stress dopo il Decreto Caivano, rischia ora un ulteriore intasamento. Gli IPM registrano 611 presenze su 381 posti disponibili nel giro di due anni. Una deriva punitiva che normalizza l’incarcerazione precoce. Le voci che il governo ignora - Non sono solo le opposizioni a denunciare lo sfregio giuridico. Accanto all’appello dei giuristi, anche l’Associazione Nazionale Magistrati e il Csm hanno sollevato gravi profili di incostituzionalità. L’associazione Antigone parla di “minaccia allo Stato di diritto” e prevede un “inevitabile aumento della popolazione detenuta”. Persino il cosiddetto Decreto Carceri, varato dal governo per affrontare il sovraffollamento, è stato definito dagli esperti “una occasione mancata”, troppo debole per bilanciare l’effetto espansivo del pacchetto sicurezza. Non stupisce che il governo tenti di giustificare una scelta politica consapevole: quella di alimentare un diritto penale simbolico, da campagna elettorale permanente, che gonfia le carceri senza affrontare i problemi sociali. Il populismo penale non offre sicurezza. Produce solo più carcere, più suicidi, più disperazione. Parla Paolo Ciani: “Decreto Sicurezza fatto di slogan, funge da vendetta istituzionale” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 5 giugno 2025 “Questo decreto è un provvedimento repressivo, ideologico e inefficace. Non lo dice solo il buon senso, lo dicono i dati: moltiplicare i reati non serve a nulla. Anziché trovare soluzioni, si indica un nemico e si dice: tranquilli, li metteremo in galera”. Paolo Ciani, segretario nazionale di Democrazia Solidale, Vicepresidente del gruppo Pd-Idp alla Camera dei deputati. Il suo intervento in Aula è stato un possente j’accuse contro l’idea di sicurezza che chi governa l’Italia ha inverato in diversi decreti legge… La sicurezza è una cosa molto seria, uno di quegli argomenti che sono “interesse dello Stato” e come tali andrebbero trattati privandoli degli aspetti propagandistici. E nel Paese della criminalità organizzata parlare bene di sicurezza è importante. Ma, come abbiamo detto in tanti in Aula in questi giorni, questo è un provvedimento repressivo, ideologico ed inefficace. L’ennesima legge bandiera di questo Governo, con un chiarissimo intento propagandistico, che vuol far credere agli italiani e alle italiane che la sicurezza si costruisca con repressione, paura, più pene e più carcere. Sono state introdotte 14 nuove fattispecie penali e 9 nuove circostanze aggravanti; è stato criminalizzato il dissenso, equiparato la resistenza passiva non violenta a forme di protesta violenta. Ma mi chiedo, dove sono le prove che un simile approccio riduca i reati? Non lo dice solo il buon senso, lo dicono i dati, gli studi, i numeri: a nulla serve moltiplicare i reati e le aggravanti, soprattutto se non si interviene sulle cause profonde, di natura sociale ed economica, alla base del disagio. Pensiamo al “Decreto Caivano”; a distanza di un anno dalla sua entrata in vigore, i dati parlano chiaro: le presenze negli Istituti Minorili sono aumentate del 48%, un incremento drammatico che ha ulteriormente aggravato le condizioni già critiche di quelle strutture. E parliamo di ragazzi… Cos’altro serve per far capire a chi governa che l’approccio repressivo non funziona? È solo un modo per nascondere la polvere sotto al tappeto. Questa non è sicurezza: è vendetta istituzionale, è paura elevata a sistema, è debolezza mascherata da forza. Più repressione, più pene e più carcere: è la linea della destra. A chi parla nel Paese? Parla a tutti, ma lo fa con populismo ed insincerità. In aula una collega di FdI ha gridato: “noi non ascoltiamo gli ‘ermellinati’, ascoltiamo la gente”. Lo diceva riferendosi a tutti gli auditi che avevano criticato il provvedimento. Ma, a parte il disprezzo per la cultura e gli esperti, è la questione che è posta male. C’è forse qualcuno che è d’accordo con truffe, borseggi, lesioni, rivolte? Non credo… il problema sono le soluzioni proposte. Visto che dopo tre anni che governano queste condotte ancora dilagano, loro fanno credere che le risolveranno con più pene e più carcere. Anziché trovare soluzioni, si indica un nemico e si dice: tranquilli, li metteremo in galera! Agisce con provvedimenti che altro non fanno che acuire problemi già esistenti e situazioni già gravi: il Decreto sicurezza si inserisce in un contesto in cui le carceri sono al collasso e chi ci governa dovrebbe saperlo. Le celle sono sovraffollate, i servizi educativi insufficienti, l’accesso al lavoro e alla formazione gravemente compromessi. Gravi problemi sanitari, detenuti con pluridipendenze e altri con problemi psichiatrici. E i numeri dei suicidi ci restituiscono una fotografia ancora più drammatica: 88 suicidi in carcere nel 2024, il dato più alto degli ultimi 30 anni, già 32 nel 2025. I suicidi non sono solo tra i detenuti: si contano anche tra il personale penitenziario, segno di un sistema logorato, esasperato. Eppure, di fronte a queste criticità, il Governo chiude occhi ed orecchie e sceglie ancora la strada dell’inasprimento delle pene, la strada di più carcere. Questo provvedimento è l’ennesimo tassello in un mosaico repressivo che la destra porta avanti: rafforzare la repressione, indebolire i diritti, trasformare la giustizia in punizione. Fa propaganda ignorando deliberatamente i principi fondamentali della nostra Costituzione, ad esempio, abusando sistematicamente della decretazione d’urgenza, così svuotando il ruolo del Parlamento e riducendo al minimo gli spazi di confronto democratico. Non si tratta di un effetto collaterale ma di una scelta politica precisa: è la volontà di trovare un nemico da additare, rassicurando che lo si metterà in carcere. Loro chiamano sicurezza ciò che in realtà è controllo, concentrazione del potere e riduzione degli spazi democratici. L’allora ministro dell’Interno PD, Marco Minniti, non ancora folgorato sulla via di Meloni, ebbe a dire: sicurezza è parola di sinistra. Ma quale sicurezza? E quale sinistra? Sicurezza dovrebbe essere parola di tutti. Ma dove sta la sicurezza quando ogni 3 giorni un nostro concittadino muore sul lavoro, anzi, muore di lavoro. Dove sta la sicurezza quando una giovane donna, figlia, compagna, moglie, viene molestata per strada, sul lavoro, a scuola o addirittura uccisa brutalmente per mano di un uomo? Dov’è la sicurezza quando bambini muoiono di fame e di sete a poche miglia dalle nostre coste? Qual è la sicurezza dove in ampie zone del Paese i commercianti sono strozzati dal pizzo? Del resto, lo stesso Ministro Nordio ha invitato le donne a nascondersi in chiesa o in farmacia se perseguitate da uomini violenti. Della serie, si arrangiassero… Sembra quasi che la parola sicurezza venga usata quando fa comodo, come uno slogan vuoto, abusata ed utilizzata come uno strumento contro: scioperare e bloccare la strada davanti ad una fabbrica che licenzia diventa reato. Ma crea più insicurezza licenziare o bloccare una strada? La sicurezza è altra cosa: è giustizia sociale, è coesione, è unità, è equità. È un quartiere illuminato, una scuola che funziona, un luogo di aggregazione aperto nelle periferie, un lavoro regolare. È cultura e istruzione. Che sicurezza è quella che reprime i giovani che manifestano per il diritto a un futuro, per il diritto a respirare un’aria pulita, a vivere su un pianeta sano? Anziché ascoltarli, questo Governo criminalizza il loro grido e li tratta come una minaccia. E che dire delle persone migranti trattenute nei CPR, luoghi di detenzione amministrativa, abbandonate in strutture che troppo spesso sono luoghi di abusi, di violazioni dei diritti umani, di disperazione. In quei luoghi, l’unico modo che resta per farsi ascoltare è il silenzio di uno sciopero della fame, disobbedire agli ordini impartiti. E questo Governo ha scelto di punire anche questo. Ma in quale Stato di diritto chi protesta pacificamente contro un’ingiustizia viene trattato come un criminale? C’è altro? Vorrei sottolineare poi un aspetto: il ruolo delle forze dell’ordine. La destra dice: noi siamo dalla loro parte (lasciando intuire o dicendo esplicitamente che noi saremmo contro). Questo non lo accetto. Continuare a mettere gente in carcere non è stare dalla parte della Polizia Penitenziaria, già fortemente sotto organico. Così come autorizzare il possesso di armi anche quando non sono in servizio non aiuta gli agenti. Soprattutto non va bene far crescere lo scontro sociale e chiedere alle Forze dell’Ordine di reprimerlo. Grave poi è ciò che è previsto nella norma relativamente ai servizi segreti: oltre a rendere obbligatoria la collaborazione, in deroga ai vincoli di riservatezza, dei soggetti (es. università e ospedali) tenuti a prestare collaborazione (in sostanza cedere dati e informazioni!), mette a regime disposizioni che prevedono che i servizi segreti possono essere autorizzati a compiere determinate azioni che normalmente costituirebbero un reato. Stiamo parlando di reati come la partecipazione ad associazioni sovversive, arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale e banda armata, direzione e organizzazione di associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico, istigazione a commettere delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità. Siamo sicuri che tutto ciò tratti di sicurezza? Ma soprattutto, di chi? Sicurezza e diritti sociali e di cittadinanza. L’8-9 prossimi si vota per i 5 referendum che hanno come oggetto queste tematiche. La Tv di Stato, che sulla carta dovrebbe essere un servizio pubblico, ha praticamente oscurato i referendum, mentre c’è chi, come il presidente del Senato Ignazio La Russa, si è vantato di aver fatto campagna per il non voto… È inaccettabile ma non stupisce. Parliamo di un Governo che fa continuamente ricorso alla fiducia oltre a varare continui decreti legge, mortificando il ruolo del Parlamento ed evitando il confronto democratico. Intorno ai Referendum si è creato un silenzio assordante, un vero soffocamento del dibattito pubblico. Quando il servizio pubblico radiotelevisivo - che dovrebbe essere luogo di informazione libera e plurale - viene ridotto a megafono del Governo, siamo evidentemente di fronte a una crisi profonda della democrazia. Ma anche qui, fa tutto parte dello stesso disegno: limitare la partecipazione, reprimere il dissenso. Ed è evidente che il miglior strumento per opporsi a tutto questo è votare. Esercitare un nostro diritto e dovere morale: il voto è il fulcro della democrazia, è la ragione che permette alla democrazia di esistere. La Repubblica Italiana è fondata sulla partecipazione, “la sovranità appartiene al popolo”. Eppure, con questo Governo, dove la seconda carica dello Stato invita esplicitamente a non presentarsi alle urne, votare sembra diventato un atto di resistenza. La destra che si appella alla “gente” vuole togliere alle persone la forza più importante che ognuno ha in democrazia: il voto. I referendum che si voteranno l’8 e il 9 parlano di diritti, lavoro, cittadinanza, futuro. Parlano del tipo di Paese che vogliamo costruire. Andare a votare è un gesto di responsabilità; è un modo per dire che la democrazia ci riguarda e, soprattutto, che la vogliamo. Tamar Pitch: “Il dl sicurezza è una legge fascista. Così criminalizzano dissenso e povertà” di Marika Ikonomu Il Domani, 5 giugno 2025 La professoressa di Filosofia del diritto all’università di Perugia, studiosa della questione criminale: “Un modo per acquisire consenso. Con la teoria della percezione si sterilizzano i territori”. Il decreto Sicurezza è legge, “una legge fascista”. La definisce così Tamar Pitch, professoressa di Filosofia del diritto all’università di Perugia, studiosa della questione criminale e del rapporto tra genere e diritto, e autrice de Il malinteso della vittima. “Da molti anni la politica agisce con pacchetti, leggi, decreti. Ora però si è oltrepassato il limite, perché questo è un provvedimento molto pericoloso”, dice Pitch, “un salto di qualità”. Cosa si intende per sicurezza? Oggi, per sicurezza si intende la messa al riparo dei e delle cittadine dal rischio di incorrere in reati da criminalità di strada. La retorica presenta la sicurezza come un diritto individuale: ciò che prima veniva chiamato ordine pubblico, così rinominato, si presta a rendere incontestabili le politiche che dovrebbero tutelarlo, giacché è difficile contestare un diritto. Poi si è andati oltre e si è iniziato a dire che ciò che conta non è tanto la sicurezza in sé, ma la sua percezione. Lo ha fatto Marco Minniti (ex ministro dell’Interno, ndr), ammettendo in un certo senso che, dunque, l’Italia è un paese “sicuro”, come del resto ben mostrano le statistiche sui reati. Come si produce la “percezione” di sicurezza? Sterilizzando il territorio pubblico, mandando via i cosiddetti indesiderabili, quelli che danno fastidio, o fanno paura. A chi? Se guardiamo bene le politiche di sicurezza, vediamo che esse sono indirizzate perlopiù a rassicurare un particolare tipo di soggetto: uomo, bianco, non ricco ma nemmeno troppo povero, certo non giovanissimo, visto che molte di queste politiche penalizzano i più giovani. Le figure della paura sono sempre le stesse: i “diversi”, i mendicanti, i migranti troppo visibili, i e le sex worker, quelli che lavano le macchine ai semafori o frugano nei cassonetti. Perché fenomeni sociali complessi vengono governati unicamente con lo strumento del codice penale? È un modo per acquisire consenso, si chiama populismo penale. Non è solo il governo italiano a servirsene, è una tendenza generalizzata in occidente dalla fine degli anni Ottanta a ora: le politiche neoliberali smantellano il welfare in nome della libertà individuale e all’insicurezza sociale che ne deriva rispondono con più reati, maggiori pene, detenzione amministrativa, daspo, eccetera. C’è chi ha parlato di un passaggio dal sociale al penale: questo è quello che è successo negli ultimi 40 anni. Ma con questo decreto legge si è andati oltre, come dicono molti magistrati/e, studiosi/e, avvocati/e. Questa è una legge fascista. Il dl colpisce alcune soggettività per chi sono, non per quello che fanno... Vengono criminalizzati dissenso e povertà, e chi non è come “noi”. Sono i capri espiatori. Di fronte a un ceto medio impoverito e infragilito, sembrano le risposte da dare. La deriva securitaria trasforma tutte e tutti in vittime potenziali. Perché parla del malinteso della vittima? Nel mio libro parlo dell’emergere della vittima come soggetto politico e come status ambito. Solo proclamandosi vittime di qualcuno o qualcosa si riesce oggi a essere riconosciuti come interlocutori politici. Si fa un uso e un abuso di questo statuto, di cui si servono poi anche le politiche di sicurezza. Chi sono le vittime? Tutti i bravi cittadini, potenziali vittime dei cattivi. Così si divide la popolazione e le persone “per bene” sono sempre a rischio di vittimizzazione da parte dei “per male”. Nota lo stesso approccio nel contrasto alla violenza di genere? Le politiche di sicurezza in generale, e quest’ultima legge non è certo diversa, sono politiche dirette perlopiù, come dicevo, alla sterilizzazione del territorio pubblico, con divieti, daspo, recinzioni, di fatto esclusione dei poveri e marginali dalle parti “pregiate” della città. Le donne subiscono una vittimizzazione doppia: per un verso, fin da piccole sono scoraggiate a circolare liberamente dove vogliono, per altro verso, come sappiamo, vengono minacciate, molestate, uccise dentro le sicure mura di casa, a scuola, al lavoro da partner ed ex, datori di lavoro, insegnanti e così via, piuttosto che da sconosciuti scuri di pelle in qualche angolo buio della città. Dicevamo un tempo, e lo diciamo anche oggi, che le città sicure le fanno le donne che le attraversano e le vivono. Non è con il nuovo reato di femminicidio, non è con l’ergastolo senza se e senza ma (o, come diceva Berlusconi, con un poliziotto accanto ad ogni bella, sic, donna), che si contrasta la violenza di genere ma con politiche che diano alle donne (ma direi a tutti/e) maggiori risorse economiche, sociali, culturali. In una ricerca del 2001, svolta con Carmine Ventimiglia, proprio questo emergeva: le donne che vivevano la città più liberamente erano quelle cui queste risorse mancavano meno. In conclusione, più sicurezza sociale, meno paura, più libertà. Per tutti e tutte. Sequestro preventivo: non irragionevole l’assenza di termini perentori di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2025 Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sentenza n. 20658 depositata ieri, ribadendo la differente natura delle misure cautelari reali rispetto a quelle personali. Non è irragionevole una disciplina che prevede soltanto per il bene “libertà personale” e non anche per il bene “patrimonio” la presenza di termini perentori, di fase e complessivi, che ne legittimano la limitazione prima della definitività di una pronuncia di condanna. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 20658 depositata oggi, dichiarando inammissibile la questione di costituzionalità proposta dal legale rappresentante di una azienda che aveva subito un sequestro preventivo finalizzato alla confisca disposto a seguito della contestazione del reato di dichiarazione fraudolenta. Il ricorrente sosteneva l’illegittimità degli articoli 321, co. 2, Cpp. 322-ter Cp., 12-bis, Dlgs 74/2000, in relazione agli articoli 6 Cedu, 3, 24, 27, 41 e 111 Cost. nella parte in cui non prevedono che la mancata celebrazione del processo secondo “tempi credibili” produca la caducazione della misura reale; o nella parte in cui non vengono inseriti (come per le misure cautelari personali o le misure patrimoniali di prevenzione antimafia) termini di fase o massimi entro i quali adottare un provvedimento definitivo (o, quantomeno, di primo grado), pena la decadenza del sequestro. La Suprema corte per prima cosa afferma che in tal modo si richiede alla Consulta una sentenza manipolativa con conseguente sostituzione alle competenze del Legislatore. Aggiunge poi che si non affrontano le ragioni che hanno indotto il legislatore, “con opzione insindacabile perché non irragionevole, a distinguere in disciplina (compresi, dunque, anche i termini) le misure cautelari personali e quelle reali”. E il discrimen risiede proprio sul piano della diversa tutela apprestata dall’ordinamento, rispettivamente, ai beni della libertà personale e della libertà patrimoniale. “Sono differenti, infatti - spiega la Cassazione -, i valori che l’ordinamento prende in considerazione: da un lato, l’inviolabilità della libertà personale, e, dall’altro, la libera disponibilità dei beni, che la legge ben può contemperare in funzione degli interessi collettivi che vengono ad essere coinvolti”. Ciò comporta, dunque, la possibilità di costruire differentemente il “potere” del giudice di adottare le misure e, conseguentemente, la tipologia del controllo in sede di gravame, con i naturali riverberi che da ciò scaturiscono sul piano della difesa che gli interessati possono sviluppare” (Corte cost., sent. n. 229/1994). Non vi è dunque alcuna irragionevolezza, prosegue la sentenza, in una disciplina che prevede la presenza di termini perentori solo per la libertà personale e non per il patrimonio. Del resto, aggiunge la Corte, mentre la caduta del vincolo reale comporta l’immediata restituzione del bene all’avente dritto, “la scadenza dei termini di durata massima della misura cautelare custodiale non impedisce che, perdurando le esigenze cautelari, l’indagato possa essere sottoposto ad un’altra misura, meno afflittiva ma comunque incidente sulla libertà personale. Dal che, un sistema che ammette forme di restrizione di questa libertà anche dopo la scadenza dei termini di durata massima della misura custodiale, così perpetrandosi un controllo sul soggetto destinatario che, invece, non sarebbe possibile alla scadenza di eventuali termini di durata massima della misura cautelare reale”. Emilia Romagna. Il 39% dei detenuti ha una diagnosi cronica (spesso psichica o comportamentale) ilpiacenza.it, 5 giugno 2025 Malattie croniche, disturbi psichici e comportamentali, rischio sovrappeso e obesità. Sono le principali patologie dei detenuti nelle carceri dell’Emilia-Romagna. Lo dicono i dati presentati oggi in Regione a Bologna, in Terza Torre, durante il convegno “Cure senza confini. Sfide e innovazioni in Sanità Penitenziaria”, un’occasione per i professionisti del settore di condividere esperienze, modelli e risultati, e di lanciare una sfida verso proposte innovative che possano migliorare la qualità della vita delle persone detenute. Un quadro clinico (nella scheda allegata i numeri della salute in carcere) che deve fare i conti anche con un crescente sovraffollamento, 128 detenuti ogni 100 posti disponibili. Bologna (164%), Ferrara (161%), Ravenna (159%) e Modena (153%) gli istituti penitenziari con i tassi di sovraffollamento più elevati. Tra i dati più rilevanti presentati questa mattina, quello relativo ai disturbi psichici e comportamentali: nelle carceri emiliano-romagnole ne soffre il 28,6% dei detenuti. A preoccupare anche il rischio sovrappeso e obesità: 48,3%, di cui 32,5% in sovrappeso e 15,8% obeso, contro il 43% in Italia. Inoltre, il 39,4% del totale dei detenuti in Emilia-Romagna presenta almeno una patologia cronica delle quattro individuate dall’Oms (malattie cardiovascolari, diabete mellito, malattie neoplastiche e respiratorie croniche). “Quest’anno - sottolineano gli assessori alle Politiche per la salute, Massimo Fabi, e al Welfare, Isabella Conti, intervenuti all’inizio dell’evento - la Regione Emilia-Romagna ha stanziato complessivamente oltre 18 milioni di euro per l’assistenza sanitaria in carcere: 10,8 milioni provenienti dal Fondo sanitario nazionale e 7,2 milioni di euro da quello regionale. Con un problema, non piccolo: le risorse nazionali destinate alla sanità penitenziaria sono immutate dal 2008, anno di trasferimento delle competenze, nonostante il rilevante aumento della popolazione detenute nelle carceri italiane e dell’Emilia-Romagna”. “C’è bisogno di garantire la salute e il benessere, e quindi la dignità stessa, delle persone detenute, che scontano condizioni di sovraffollamento non degne di una società civile - proseguono gli assessori -. Occorre però superare la visione riduttiva della sanità come mera risposta al bisogno biologico del detenuto, dell’urgenza dell’intervento: c’è bisogno di strutturare un sistema che porti alla garanzia della salute, secondo una prospettiva più ampia e di lungo respiro. É necessario, insomma, un nuovo modello culturale e organizzativo. L’innovazione in sanità penitenziaria rappresenta una sfida complessa e multilivello che richiede un approccio sistemico e interistituzionale”. Tanti gli interventi già in essere per migliorare le condizioni di vita dei detenuti: sul fronte sanità, quelli destinati a prevenzione, assistenza e cura della popolazione carceraria; per il welfare, tutte le azioni per favorire il reinserimento nella società; le attività culturali, a partire dai laboratori teatrali. E ancora: il lavoro, con tanti interventi formativi per l’inclusione socio-lavorativa degli adulti e le attività di orientamento, l’accompagnamento individuale e la formazione per i minori, fino all’istruzione, con i percorsi di alfabetizzazione ai diplomi tecnici, professionali o artistici a cura dell’Ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna. Genova. Tre giorni di sevizie a un detenuto 18enne dai compagni di cella: la causa della rivolta di Stefano Origone La Repubblica, 5 giugno 2025 La protesta scattata per solidarietà al giovane abusato e torturato senza che i poliziotti penitenziari se ne fossero accorti. Una film dell’orrore quello che ha vissuto un detenuto di appena 18 anni che sta scontando una pena per una rapina che ha innescato la rivolta di circa cento detenuti, che hanno preso possesso della seconda sezione del penitenziario, devastando le celle e anche le aule scolastiche (gli operatori sanitari, gli insegnanti e il personale amministrativo sono stati radunati in una stanza per motivi di sicurezza): una decina di loro sono saliti sul tetto dell’istituto e sul camminamento delle mura di cinta, ma sono scesi spontaneamente dopo aver denunciato le sevizie sul detenuto. Nei disordini, durati due ore e terminati verso le 15.30, sono rimasti feriti (in modo non grave) due agenti di custodia, trasportati in codice giallo all’ospedale Galliera, mentre altri due sono stati medicati sul posto. La protesta è stata “un atto di solidarietà”, secondo la Procura della Repubblica, per un “detenuto seviziato, asseritamente, da compagni di cella”. Gennarino De Fazio, segretario del sindacato di Polizia penitenziaria Uilpa, conferma che i detenuti “si sono spostati al piano terra e hanno vandalizzato i locali nell’intento di regolare i conti con altri reclusi che nei giorni scorsi avrebbero violentato un altro detenuto”. Le torture, perché è questo di che si tratta dal racconto fatto ai medici del pronto soccorso dal ragazzo, sono iniziate domenica, quando i tre, due egiziani e un altro italiano, l’hanno preso con forza e violentato. Ma non solo. Per tre giorni è stato anche colpito con vari oggetti sulle gambe e la schiena. Gli agenti di polizia penitenziaria nonostante i controlli che fanno da prassi tre volte al giorno in ogni cella non si sono accorti di nulla. Ispezioni sull’accuratezza delle quali verranno svolte delle indagini, perché il ragazzo ogni volta veniva minacciato di non parlare e nascosto nel bagno dai suoi aguzzini. Fino a quando gli altri detenuti hanno detto basta a questo silenzio e hanno deciso di mettere in atto una protesta-denuncia. Una sommossa nella casa circondariale diretta da Tullia Ardito che avrebbe potuto innescare tentativi di evasione. Per questo, mentre la penitenziaria chiedeva rinforzi da altre carceri e sedava la rivolta tentando una mediazione con i detenuti più violenti, il carcere è stato circondato da decine di poliziotti in tenuta anti sommossa del Reparto Mobile e della Questura, dai carabinieri del Nucleo radiomobile del reparto operativo specializzati in questo tipo di interventi e anche dai militari della guardia di finanza, mentre i vigili hanno chiuso diverse strade per chiudere ogni via di fuga in caso di emergenza. Le forze dell’ordine sono rimaste anche fuori sul piazzale pronte a intervenire nel caso in cui la situazione fosse degenerata. A Marassi sono arrivati anche i vigili del fuoco, l’automedica del 118 e quattro ambulanze, assieme al direttore del 118, Paolo Frisoni. Intorno alle 15.30 la situazione è rientrata, con i reclusi che sono ritornati nelle celle e i tre accusati di stupro trasferiti per ragioni di sicurezza in un altro istituto: l’intervento in massa delle forze di polizia, spiegano dalla questura, è stato reso necessario in primis per garantire la sicurezza del perimetro e per evitare eventuali tentativi di fuga (che non si sono registrati). Le misure di sicurezza, hanno imposto la chiusura di via del Faggio, corso De Stefanis in direzione centro e piazzale Marassi. Tutto ciò ha provocato disagi alla circolazione, con le auto dirette verso Marassi incolonnate già da Borgo Incrociati. Genova. Mi domando: non c’erano alternative al carcere per un ragazzo di 18 anni? da Doriano Saracino* goodmorninggenova.org, 5 giugno 2025 Domata la rivolta del carcere di Genova. Un episodio che ancora una volta fa emergere la situazione drammatica dei penitenziari italiani e in particolare quello genovese. Emergono particolari drammatici della violenza subita dal ragazzo di 18 anni e dalla resa dei conti che avrebbe di conseguenza provocato la rivolta. Abbiamo sentito il Garante dei detenuti della Regione Liguria che ci ha rilasciato il seguente commento che riportiamo integralmente. La domanda che mi faccio è se non si possano trovare alternative al carcere per un ragazzo di 18 anni. Non so se il ragazzo ha compiuto il reato quando era minorenne, e quindi trasferito dal carcere dei minori a quello degli adulti al compimento dei 18 anni, oppure se il reato sia stato commesso già maggiorenne. Dovremmo pensare ad un trattamento intensificato per i giovani, dove ci sia un trattamento, con il coinvolgimento in attività, con la presenza di figure educative molto forti, che non possono essere solo i funzionari giuridico pedagogici, che Oggi hanno un ruolo ormai molto diverso da quello degli educatori. Un’altra cosa su cui, a mio avviso, occorre riflettere è sul fatto che questo ragazzo era in una cella da sei persone e che queste celle chiuse per venti ore al giorno diventano il posto dove può maturare qualsiasi cosa all’insaputa di chi il carcere lo dirige, cioè la direzione e la polizia penitenziaria e le altre figure che lavorano nel penitenziario. Occorre che si ripensi a questo aspetto perché sicurezza non è soltanto tenere le celle chiuse. Sicurezza non è soltanto aumentare le pene per chi compie un gesto come le rivolte in carcere. Oggi se la rivolta non è diventata una tragedia è perché qualcuno della Polizia Penitenziaria ha attivato che cosa? La capacità di ascolto, di mediazione, di dialogo, queste capacità che sono fondamentali e che andrebbero utilizzate sempre. *Garante dei detenuti Regione Liguria Pescara. Riccardo era stato picchiato: “A cosa serviva il taser?” di Mario Di Vito Il Manifesto, 5 giugno 2025 Tre indagati per lesioni aggravate. Il trentenne preso a colpi di bastone in testa. La polizia lo ha trovato già ferito. Da diversi anni era in cura al Centro di salute mentale e a quello per le dipendenze. Il padre: “Potevano chiamare il 118 per un Tso”. Salvini spietato: “Le pistole elettriche salvano vite”. Quando, poco dopo le 11 del mattino di martedì, la volante della polizia con due agenti a bordo è arrivata in Strada Piana, nel quartiere periferico di San Donato a Pescara, Riccardo Zappone era stato appena picchiato. Perdeva sangue dalla testa. Forse, dicono alcuni testimoni, aveva cercato di derubare un passante. Di sicuro era stato preso a bastonate da tre persone, ora iscritte nel registro degli indagati per lesioni personali aggravate. È in questa situazione, comunque, che il trentenne avrebbe avuto una crisi tale che per i due poliziotti - “esperti”, sostengono dalla questura - “è stato necessario usare il taser”. Se siano state le botte o la scarica elettrica a causare l’infarto che lo ha colto in questura poco dopo ancora non si può dire. Potrebbe essere d’aiuto l’autopsia effettuata ieri, ma difficilmente arriverà una risposta chiara, perché in questi casi trovare un nesso causale è quasi impossibile. Gli ultimi precedenti di persone decedute dopo essere state colpite con il dissuasore elettrico parlano in maniera tragicamente chiara: gli esami medici non sono mai risolutivi. E qui, come recitano gli atti firmati dal sostituto procuratore Gennaro Varone, è anche ritenuta “presumibile l’intossicazione da cocaina”, un’altra possibile causa dell’arresto cardiaco. Zappone, da diversi anni, era in cura al Centro di salute mentale e al Servizio per le dipendenze di Chieti con una doppia diagnosi: una di problemi psichiatrici - per i quali gli venivano somministrati degli antipsicotici a cadenza mensile - e una di tossicodipendenza. Chi lo conosceva lo descrive come una persona di certo problematica ma non pericolosa: era stato sottoposto già in più occasioni a trattamento sanitario obbligatorio, altre volte era bastato un colloquio con la sua psichiatra per convincerlo a ricoverarsi, senza che fosse necessario l’uso della forza. Alto e molto magro, di aspetto debilitato e oggetto poco prima di un violento pestaggio, viene quasi naturale da chiedersi per quale motivo martedì mattina si sia reso necessario l’uso di uno storditore per rendere Zappone inoffensivo. Lo stabiliranno le indagini affidate alla squadra mobile, che però per ora non sfiorano gli agenti e sono concentrate sulla fase precedente al loro intervento, tutta immortalata dalle telecamere pubbliche presenti sulla via, grazie alle quali è stato possibile trovare due dei tre indagati (il primo era stato identificato già martedì). “Riccardo non aveva problemi cardiologici e poi soprattutto mi domando: che motivo c’era di arrestarlo se le forze dell’ordine lo conoscevano bene e sapevano chi fosse e che tipo di patologia avesse? Non era opportuno che fosse chiamato il 118 e ordinato il ricovero in trattamento sanitario obbligatorio come era stato fatto le altre volte? Era davvero necessario utilizzare quella pistola elettrica?”, ha detto in un’intervista al quotidiano il Centro Andrea Varone, il padre della vittima. La questione del taser è centrale: le controindicazioni mediche sono note, Amnesty International ha parlato spesso di questo strumento che si è dimostrato dannoso ovunque nel mondo sia stato sin qui utilizzato da parte delle forze dell’ordine, la Cassazione, con una sentenza del 2019, lo ha descritto come “arma comune da sparo sicuramente idonea a recare danno alla persona”. Il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo, pescarese, conclude così: “La responsabilità di questa morte non ricade solo sulla destra ma è stata bipartisan: la sperimentazione del taser è cominciata nel 2014 con il governo Renzi e fu rilanciata nel 2018 su iniziativa di Salvini con il governo Conte 1. Nel 2020 l’adozione della pistola elettronica è stata confermata dal governo Conte 2 in cui c’erano Pd e Sinistra italiana con Leu. La gravità di quella scelta sta nel fatto che la pericolosità della pistola elettronica era già nota quando è stata adottata”. Salvini replica con un’ode al taser, come se fosse uno strumento salvavita e non un’arma letale: “Le forze dell’ordine non lo usano per gioco, lo usano quando ce n’è bisogno: ha salvato centinaia di vite e prevenuto migliaia di reati. Quindi o vogliamo mettere in discussione la libertà di azione delle forze dell’ordine e sciogliamo polizia e carabinieri e viviamo nell’anarchia. O altrimenti andiamo avanti su quello che è una maggiore sicurezza, che è necessaria”. Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi, intervenuto ieri mattina a Sky Tg24, pure ha difeso la pistola elettrica (“È un’alternativa a strumenti molto più offensivi come le armi da fuoco”) ma almeno, a differenza del vicepremier, è riuscito a non dimenticarsi che in questa storia c’è una vittima: “Andranno sviluppati tutti gli accertamenti perché è interesse anche nostro capire se ci sia una correlazione con l’uso del taser qualche minuto prima”. Alla fine, oltre le indagini e le domande ancora prive di risposta, resta un’immagine sola: quella di un trentenne come tanti altri. Un morto di sicurezza come troppi altri. Viterbo. Caso Sharaf: il Csm censura la pm che archiviò l’esposto sulle violenze in carcere di Damiano Aliprandi e Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 5 giugno 2025 Quanto accaduto nel carcere di Viterbo nell’estate del 2018, fra cui poi la morte del 21enne egiziano Hassan Sharaf, ha determinato questa settimana la condanna alla censura da parte della Sezione disciplinare del Csm della pm romana Eliana Dolce, all’epoca in servizio presso la Procura della cittadina dell’Alto Lazio. La vicenda riguardava la ‘gestione’ di un esposto che segnalava violenze sui detenuti nel carcere viterbese da parte degli agenti della polizia penitenziaria. Nel mirino, in particolare, la scelta iniziale della magistrata di iscrivere questo esposto a modello 45 e quindi come fatto non costituente notizia di reato. L’esposto, firmato da alcuni reclusi tra cui Sharaf, era stato inviato in Procura dal Garante regionale dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa. Nel documento si denunciavano, anche con le foto di lividi e ferite, abusi e percosse sui detenuti da parte della polizia penitenziaria. Inoltre, si faceva riferimento alle circostanze della morte di un recluso, tale Andrea Di Mino. Sharaf, arrivato minorenne in Italia su un barcone, a luglio del 2017 era stato trasferito da Regina Coeli al penitenziario di Viterbo per scontare un residuo pena fino al 9 settembre 2018. Il 23 luglio 2018, a fronte del ritrovamento di un cellulare e di medicinali proibiti nella sua cella, era stato sanzionato con quindici giorni di isolamento senza essere, verrà accertato in seguito, visitato preventivamente. Dopo appena due ore in isolamento, Sharaf decideva di impiccarsi con un asciugamano legato alla finestra della cella. Entrato in coma, morirà a distanza di una settimana. Effettuata l’iscrizione a modello 45, nell’autunno del 2021 la pm aveva scelto di archiviare l’esposto con una motivazione, come ha scritto il Csm, “meramente apparente”. Per la sezione disciplinare del Csm fu una iniziativa “particolarmente grave” perché le persone offese erano soggetti vulnerabili - detenuti affidati alla custodia dello Stato - e l’esposto proveniva da un organo istituzionale come il Garante. Circostanze analoghe, va ricordato, avevano già portato all’apertura di una inchiesta sui pestaggi all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. A cambiare il corso degli eventi era stato il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma, Antonio Mura, adesso capo ufficio legislativo di via Arenula, che nel 2021 dispose l’avocazione del procedimento. A far scattare l’avocazione era stata la denuncia dell’avvocato Michele Andreano, difensore della madre di Sharaf, in cui segnalava alcuni aspetti mai valorizzati in precedenza, come ad esempio la non certificazione di idoneità all’isolamento. La Procura generale aveva inoltre evidenziato anche diverse circostanze meritevoli di autonome verifiche. In un colloquio con il Garante Anastasìa, Sharaf, prima di morire, aveva affermato di aver paura per la sua vita. All’avvocata Simona Filippi, invece, aveva raccontato di essere stato picchiato dagli agenti penitenziari, mostrando lividi in più punti del corpo. A seguito dell’avocazione si era scoperta anche una anomalia “tecnica”: Sharaf avrebbe dovuto trovarsi in un carcere minorile, non in quello degli adulti. Il provvedimento del tribunale dei minorenni non era però mai stato eseguito. Sul fronte processuale, ad aprile dello scorso anno è stato disposto il rinvio a giudizio del medico Roberto Monarca, ex responsabile del reparto di medicina protetta, con l’accusa di omicidio colposo. Contro di lui si sono costituiti parti civili la madre, la sorella e il cugino di Sharaf. È in corso il dibattimento per omicidio colposo in concorso contro l’agente Massimo Riccio, responsabile della sezione isolamento, e la dottoressa dell’infermeria Elena Ninashvili. Si sta, infine, svolgendo l’appello contro l’assoluzione di Pierpaolo D’Andria, ex direttore del carcere, assolto in primo grado dall’accusa di omicidio colposo e condannato per omissione di atti d’ufficio a due mesi e venti giorni, con pena sospesa. La Procura generale ha contestato il mancato trasferimento di Sharaf in un istituto minorile, ritenendolo un fattore determinante nel rischio suicidario. Per il gip, invece, l’evento non era prevedibile. Sono stati assolti dall’accusa di omissione di atti d’ufficio il comandante della polizia penitenziaria Daniele Bologna e l’agente capo matricola Luca Floris. Un altro filone riguarda due agenti accusati di abuso di mezzi di correzione: avrebbero colpito Sharaf con schiaffi violenti, facendogli sbattere la testa contro il muro, lasciando chiusa la cella senza prestare soccorso per circa mezz’ora, nonostante mostrasse evidenti segni di agitazione. Tornando comunque al disciplinare, la censura nei confronti della pm Dolce ha fissato un principio di responsabilità per chi avrebbe sottovalutato un esposto proveniente da un organo di garanzia. Una decisione, quella del Csm, che crea però un precedente, andando a sindacare l’attività giurisdizionale del singolo magistrato. In sede penale sia la pm Dolce e sia l’allora procuratore di Viterbo Paolo Auriemma furono assolti dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. La Procura di Perugia, diretta da Raffaele Cantone, aveva ritenuto non dimostrabile un nesso causale tra le omissioni contestate e la morte di Sharaf. Torino. Sconcerto per i tagli alla scuola in carcere di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 5 giugno 2025 Vasta protesta degli operatori - Si chiudono due sezioni del Liceo interno nel penitenziario torinese “Lorusso e Cutugno”, duro colpo alla rieducazione dei detenuti. “Se non aggiustate la scuola, la camorra vincerà sempre, perché la camorra ha paura della scuola”. Questa chiara e forte affermazione di un capo camorrista, ora collaboratore di giustizia, basta a far cogliere la gravità della decisione di chiudere nel penitenziario torinese “Lorusso e Cutugno” le prime due classi della sezione carceraria del Primo Liceo Artistico, a causa del taglio dei finanziamenti resi noti nei giorni scorsi dal ministero dell’Istruzione e del Merito e a cascata dall’Ufficio Scolastico regionale del Piemonte. A ricordare le parole dell’ex camorrista è fra’ Beppe Giunti, francescano, volontario al “Lorusso e Cutugno” nella sezione Collaboratori di Giustizia che, come molti altri formatori e operatori impegnati nel penitenziario delle Vallette, ha reagito con sgomento alla notizia della soppressione del percorso di studio che riguarderebbe, oltre al biennio del Liceo Artistico (taglio che compromette, come sottolineano gli insegnanti, anche il resto del percorso attivo dal 2013, senza contare che gli studenti delle classi dei primi due anni sono composte in maggioranza da studenti stranieri e/o italiani con un basso livello di scolarizzazione”) pure altre offerte formative presenti nel carcere. E cioè l’Istituto d’Istruzione superiore Plana (nel penitenziario delle Vallette dal 1953) e l’Istituto superiore Giulio. Il Liceo Artistico ha attivato significative collaborazioni con importanti istituzioni culturali cittadine, i due Istituti garantiscono, coi loro percorsi professionali, una concreta opportunità di reinserimento in società dei detenuti studenti attraverso il lavoro, contribuendo ad abbattere dispersione scolastica e, soprattutto, la recidiva - ossia il ritorno a delinquere dopo essere stati detenuti. Lo evidenzia anche Maria Teresa Pichetto, già docente di Storia del Pensiero politico presso la facoltà di Scienze politiche dell’Ateneo torinese e tra i fondatori del Polo Universitario per detenuti nel carcere torinese, il primo aperto in Italia e autrice del libro “Se la cultura entra in carcere” (Ed. Effatà). Perché occorre la scuola. Secondo Pichetto “i tagli nei percorsi scolastici al ‘Lorusso e Cutugno’ sono una decisione sbagliata. Innanzi tutto dal punto di vista giuridico perché va contro l’articolo 27 della Costituzione che stabilisce che lo scopo della pena è la rieducazione del detenuto, e poi per le conseguenze sociali perché solo la cultura, lo studio e il lavoro facilitano il reinserimento dei ristretti”. A rafforzare l’incomprensibilità di questa decisione parlano chiaro i dati: nei penitenziari della Penisola dove i ristretti frequentano corsi di studio e/o formazione professionale la recidiva, che in Italia si attesta attorno al 70%, cala “miracolosamente” al 10% (al 2% per coloro che hanno ottenuto in carcere un inserimento lavorativo) e allo 0% per coloro che conseguono una laurea dietro le sbarre come succede a Torino. “Ogni detenuto costa allo Stato italiano circa 137 euro al giorno” prosegue fra’ Giunti “con la recidiva al 70% sette detenuti su dieci quando escono commettono nuovamente reati, tornano in detenzione e costano nuovamente 137 euro al giorno. Dati che parlano da soli e smentiscono i luoghi comuni tipo ‘noi paghiamo per quelli là, che stiano dentro chiusi, con quello che ci costano’: ma proviamo a considerare che dietro le sbarre l’unico diritto della persona che viene ristretta è ovviamente quello della libertà. Tutti gli altri diritti non possono essere sospesi o impediti tra cui il diritto all’istruzione, oltre quello alla salute, alla affettività, al culto religioso. In carcere il cittadino rimane tale, giustamente ristretto nella libertà. E ogni euro che serve in carcere a sviluppare la scuola è un investimento per il bene comune, per la legalità, per la lotta alle mafie. Ogni euro tolto alla scuola in carcere è un regalo all’illegalità e incrementa i reati. Se le risorse scarseggiano si faccia una scala di valori, una graduatoria di scelte. Qualche grande opera in meno, molta scuola in più, sia in carcere che fuori”. Politica fuori strada. Anche Monica Cristina Gallo, garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Torino, non ha dubbi sulla inopportunità del cancellare corsi di studio per i ristretti: “la probabile non attivazione dei prossimi percorsi scolastici al ‘Lorusso e Cutugno’ preoccupa e fa riflettere su come scuola e carcere non rappresentano delle priorità per l’attuale Governo. E il Liceo è un’eccellenza dedicata a persone detenute che necessitano di percorsi mirati di risocializzazione, in questo modo si annulla istruzione e cura”. L.V. è un ex detenuto del “Lorusso e Cutugno”, ex allievo del Primo Liceo Artistico dove ha conseguito la maturità: lo abbiamo incontrato al Centro di Ascolto della Caritas “Le Due Tuniche” dove presta servizio come volontario. “Credo che tagliare i fondi alle istituzioni scolastiche in carcere sia anticostituzionale perché la scuola, quando sei dietro le sbarre, è davvero un tempo ben speso dove ritorni umano, riscopri le tue passioni di ragazzo come è capitato a me con la pittura e il disegno. La scuola in carcere ha una funzione catartica perché ti distoglie dal vuoto delle ore passate in cella dove il rischio è di rimuginare sulle tue disgrazie o peggio. Nel tempo che ho trascorso sui banchi e con i pennelli ho avuto modo di stringere rapporti con i compagni di classe nel rispetto reciproco, con insegnanti davvero motivati a trasmetterci la passione per l’arte e lo studio: abbiamo lavorato anche per la comunità carceraria dipingendo le sale colloqui e rendendole più vivibili, abbiamo collaborato ad un progetto con il Museo Egizio che ci ha dato l’occasione di confrontarci con il mondo ‘fuori’ come se fossimo allievi ‘liberi’. La scuola mi ha fatto rinascere e anche ora che sono libero dipingo e, come in carcere, nelle tele viene fuori la parte migliore di me. Per tanti di noi ristretti la scuola è stata un’ancora per aggrapparci alla vita e voltare pagina: cancellare questa opportunità per risparmiare sulla rieducazione è un abominio”. Protesta insegnanti. Stefano Cappello, insegnante di religione e delegato arcivescovile per l’insegnamento della Religione cattolica della diocesi, ha partecipato alla manifestazione di protesta contro i tagli all’istruzione in carcere che si è tenuta nei giorni scorsi davanti ai cancelli del “Lorusso e Cutugno”. “Eravamo in tanti: professori, sindacalisti, volontari che prestano servizio in carcere, rappresentanti di associazioni e liberi cittadini. Volevamo essere vicini ai colleghi che rischiano di perdere il posto di lavoro, ai detenuti che senza scuola perdono il diritto allo studio. Abbiamo espresso la preoccupazione che senza scuola aumenta la reiterazione della pena e non c’è presente né futuro soprattutto per chi è recluso e più fragile come gli stranieri. Inoltre come rappresentante degli insegnanti di religione ho richiamato l’attenzione che insegnare religione sempre - a maggior ragione dietro le sbarre - è a servizio dell’uomo così come Gesù ha insegnato. Insegnare in carcere vuol dire abitare uno spazio difficile, ma che fa parte del tessuto sociale del territorio. La scuola in carcere è innanzitutto una faccenda di giustizia prima che di carità, ma spesso in cella e tra i banchi si incontra la grazia del Signore in azione, che fa rifiorire le vite. Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Fermo. Mons. Trasarti, l’impegno per un carcere diverso Guglielmo Gallone e Michele Raviart vaticannews.va, 5 giugno 2025 In occasione del festival della Comunicazione delle Paoline e dei Paolini, sono stati consegnati una serie di libri ai detenuti della Casa di reclusione di Fermo La testimonianza del vescovo emerito e oggi cappellano di Fermo. Il ponte con le scuole. È il tredicesimo anno consecutivo in cui, in occasione del festival della Comunicazione delle Paoline e dei Paolini, vengono consegnati una serie di libri ai detenuti delle carceri italiane. Un gesto di vicinanza che ben si sposa con il tema al centro di questo appuntamento annuale: “accendiamo la speranza” perché “una diversa comunicazione è possibile”. L’incontro con i detenuti - Proprio all’insegna di un festival in cui si cerca di valorizzare le diverse comunità locali e condividere con mitezza la speranza cristiana, questa mattina si sono recati alla casa di reclusione di Fermo don Roberto Ponti, superiore provinciale della Società San Paolo, suor Gabriella Collesei, superiora provinciale delle Figlie di San Paolo, monsignor Rocco Pennacchio, arcivescovo di Fermo, e monsignor Armando Trasarti, vescovo emerito di Fano-Fossombrone-Cagli-Pergola, cappellano della Casa di reclusione. “Il carcere deve diventare luogo della città - ha detto ai microfoni di Radio Vaticana monsignor Trasarti che, in quanto cappellano, coi detenuti ha un rapporto quotidiano - in questo senso, l’impegno della nostra regione è unico e credo di sapere cosa lo rende speciale: tutti gli istituti di pena delle Marche sono diretti da giovani donne. Loro hanno il dono della maternità, della sensibilità. Il risultato è evidente: dove ci sono le donne, tutto va meglio”. Una necessità ancor più impellente, ribadisce monsignor Trasarti, “in una realtà multietnica come quella marchigiana e alle prese con una crisi economica complessa che, ancor più col Covid-19, ha lasciato indietro i più deboli. Fra tutti, il settore calzaturiero, fiore all’occhiello della nostra terra, è stato fortemente danneggiato: i marchi più famosi hanno resistito, ma quelli più piccoli no. E, con essi, i dipendenti, i fornitori, quindi le famiglie. Da questo disagio nascono spesso gli atti più efferati, come testimoniato dal fatto che la maggior parte dei reclusi nelle nostre carceri sono locali e non stranieri. I più fragili mi sembrano essere in particolare i padri divorziati: non dobbiamo mai dimenticarci di loro”. Voce agli ultimi - Proprio di carcere si è parlato questa mattina all’evento del Festival della comunicazione dal titolo “Comunicare per esistere”, svoltosi in piazza del Popolo a Fermo, cui hanno partecipato Angelica Malvatani, Serena Stoico, direttrice di Altra Chiave News, e la psicologa Azzurra Galli, ma soprattutto due giovani detenuti che si sono fatti portatori di testimonianze toccanti, menzionando ad esempio la “dimensione di famiglia nel carcere di Fermo che mi sta aiutando a cambiare: ora sono pronto a fare la vita che voglio fare”, oppure l’impegno “in questo carcere così accogliente e che permette di aspirare davvero alla libertà, specie perché ho un bambino di tre anni e mezzo che ho visto crescere solo per cinque mesi”. Il rapporto con le scuole - Con questo spirito vengono spesso accolti gli studenti del fermano in visita alla casa di reclusione. Un’esperienza sociale e intergenerazionale promossa e raccontata in particolare dall’iniziativa editoriale Altra Chiave News. Nel numero dedicato all’incontro tra le scuole e il mondo del carcere, dal titolo “La luce in fondo al tunnel”, si leggono storie come quella di Giuseppe, che racconta una vita segnata da una grave malattia fin dall’infanzia e da scelte sbagliate, ma anche dal desiderio sincero di cambiamento e dall’amore per i suoi figli, che oggi non può vedere. Oppure come quella di Angelo, che in una lettera scrive del lutto vissuto da un agente del carcere e riflette sulla propria famiglia lontana, sul dolore delle separazioni, sul valore dei ricordi e sulla speranza di ricominciare. Ci sono poi le parole di chi, come Paco e Federico, scrive sul magazine per ricordare che “l’amore non si blocca con una porta blindata o con le sbarre” e che anche dietro le ferite più profonde può accendersi una scintilla di umanità. E ancora, l’incontro toccante vissuto dai detenuti nella Domenica delle Palme, quando due vescovi hanno celebrato la messa all’interno del carcere, portando un messaggio forte e limpido di perdono e di presenza: “Non siamo soli”. Un ponte sociale e generazionale - “È così che cerchiamo di lavorare sui pregiudizi verso il mondo del carcere - ha raccontato ai media vaticani Angelica Malvatani che, oltre ad essere giornalista e direttore responsabile de “L’Altra Chiave News”, è anche insegnante -, i giovani hanno un’immagine distorta del carcere: quando invece li portiamo qui, incontrano persone normali e sincere, si confrontano con loro, soprattutto si estraniano dalla quotidianità spegnendo il cellulare e calandosi in un’altra realtà. E i risultati sono davvero straordinari: i nostri ragazzi cambiano la loro percezione delle carceri, di coloro che troppo spesso considerano diverso e scartato, si emozionano, vengono toccati nel cuore. Lo testimonia il fatto che queste esperienze continuano nel tempo”. Comunicare per esistere, dunque. Per non essere dimenticati. Per avere una nuova opportunità, anche e soprattutto quando tutto, intorno, sembra vacillare. Pontremoli (Ms). Le ragazze dell’Ipm e un futuro diverso grazie a don Giovanni di Tommaso Giani Corriere Fiorentino, 5 giugno 2025 Per la prima volta in vita mia arrivo a Pontremoli, ultima propaggine di Toscana che a guardare la cartina sembra quasi un corpo estraneo, incuneata e incastonata com’è fra Liguria ed Emilia. Il paese di 7 mila abitanti, centro nevralgico della Lunigiana, è noto ai più per motivi di viabilità e per essere la casa di Zucchero Fornaciari. Ad accendere il mio interesse invece è uno dei suoi edifici meno appariscenti, il carcere minorile: al suo interno vi abitano 19 detenute minorenni in arrivo da tutta Italia, visto che nel nostro Paese di penitenziari per ragazze al di sotto dei 18 anni ce ne sono appena due, uno a Roma e l’altro per l’appunto a Pontremoli. “Hai visto che disastro? Ancora una volta hanno chiuso la ferrovia per Parma”, fa quasi per scusarsi don Giovanni dandomi il benvenuto alla stazione diventata da un po’ di tempo (a causa dei lavori sul tratto appenninico) capolinea obbligato dei treni da La Spezia. “Dal 2020 oltre che della parrocchia mi occupo anche del carcere minorile femminile, come cappellano”, racconta don Giovanni. Infatti non a caso ho scelto di rivolgermi a lui per cercare di capire se, dopo l’estate, una squadra giovanile di calcio della zona potrebbe insieme a me darsi da fare in un progetto di volontariato all’interno dell’istituto penale. Di fronte alla mia proposta pervenutagli telefonicamente un paio di settimane fa, Giovanni si è mostrato subito disponibile e interessato: nel giro di pochi giorni mi ha organizzato un colloquio con la direttrice del carcere minorile femminile. Tanti tasselli vanno ancora trovati e messi al loro posto, per trasformare in realtà il mio desiderio da educatore di giovani calciatori; ma intanto il primo incontro con la direzione è stato positivo. E poi camminare per le vie di Pontremoli insieme a don Giovanni è un’esperienza che già di per sé vale il tempo di un viaggio. Il prete del paese a dispetto dei suoi 60 anni ha ancora la tempra di un ragazzo scapigliato. Mentre mi guida fra trattorie, chiese, castelli e pasticcerie, non riusciamo a fare venti passi senza che qualcuno lo saluti. Per gli studenti del liceo il don è il loro professore di religione, per i negozianti è il cliente più affezionato, per gli operai in pausa pranzo un amico con cui scambiare battute di spirito senza il minimo imbarazzo, per gli anziani una guida spirituale nonché punto di riferimento della comunità paesana. E poi ci sono le “bimbe” dell’istituto penale minorile, a cui Giovanni vuole un bene dell’anima andandole a trovare spesso e volentieri. Anche dietro le sbarre il sacerdote di Pontremoli è un’istituzione: gli agenti lo salutano calorosamente, e anche le ragazze chiedono sempre di lui. Una di loro la incontriamo, io e Giovanni, fuori dal carcere insieme ad altre studentesse: “Alcune ragazze hanno il permesso del giudice di uscire la mattina per frequentare il liceo qui in paese, tornando in carcere per pranzo”, mi spiega il mio cicerone pontremolese: “Quello in cui io cerco di impegnarmi per queste ragazze è proprio il loro legame con il paese di Pontremoli, che al momento dell’inizio della carcerazione è un luogo sconosciuto. Queste giovani detenute d’altronde arrivano da città lontane. Però poi grazie alla presenza dei volontari in carcere e a qualche attività che il giudice autorizza in esterna, diverse di queste ragazze iniziano a sentire questo posto come casa, e alla fine della pena mi chiedono di aiutarle a stabilirsi qui”. Ad alcune ragazze uscite dal carcere negli ultimi anni don Giovanni ha trovato un primo alloggio a casa di famiglie di parrocchiani, mentre per altre si è dato da fare per aiutarle a trovare un lavoro. “Vedi quella ragazza che sta servendo ai tavoli laggiù in fondo?”, richiama la mia attenzione il prete più rock della Lunigiana mentre siamo seduti a un tavolo da due in una trattoria del centro: “È una ragazza che ho conosciuto in carcere. Anche lei ha scelto di fermarsi qui dopo il fine pena”. Pontremoli per me, amore a prima vista. Cinema. Il film “Fuori” torna in carcere: la proiezione con le detenute a Rebibbia Lisa Ginzburg Avvenire, 5 giugno 2025 Applaudito nelle sale, il film di Martone è stato accolto con commozione dalle compagne della protagonista, scrittrice-detenuta. Una di loro ha detto al regista: “Non mi sono mai sentita giudicata”. Vite solcate dal segno di un ossimoro, come fu per la scrittrice Goliarda Sapienza che dichiarò di essersi sentita più che mai libera quando fu in prigione, nel carcere romano di Rebibbia. Accadde nell’anno 1980, per causa di un furto di gioielli che la scrittrice siciliana aveva sottratto a un’amica molto ricca nel quartiere dove lei stessa anche abitava, i Parioli. La detenzione fu breve, ma di tale intensità la temperie umana che Goliarda Sapienza in carcere avvertì e respirò, di tale forza le relazioni stabilite con le altre detenute, da segnarla per sempre e ispirarle molti ragionamenti e scritture. Di quel “dentro”, una volta fuori, portò con sé la nostalgia. Di quel “fuori” (la vita mondana di salotti di abbienti pseudo- intellettuali, vacui nella sicumera delle loro certezze, opinioni, sterile formulazione di continui giudizi su tutto), una volta conosciuto il “dentro” del carcere, le furono chiare la pochezza, l’inutile superficialità. Fuori è azzeccatissimo titolo del film che Mario Martone, supportato dalla solida collaborazione della moglie e sodale Ippolita Di Majo, ha scritto e realizzato a partire dai due libri che Goliarda Sapienza dedicò a quel capitolo della sua esistenza (L’Università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, entrambi pubblicati in vita, al contrario dell’ignorato e perciò postumo L’arte della gioia). Dopo la selezione al Festival di Cannes come unica pellicola italiana, e a una settimana dall’uscita (con superba accoglienza) nelle sale, il film Fuori (prodotto da Indigo e The Apartment) giorni fa ha avuto una proiezione “dentro”, nello stesso carcere di Rebibbia dove tante scene sono state girate, e dove Mario Martone e l’attrice protagonista Valeria Golino lo hanno rivisto insieme a un gruppo di detenute, varie delle quali “personagge” del film come interpreti di sé stesse. Circa quaranta donne, alcune rispetto al momento delle riprese nel frattempo uscite, altre trasferite in altro carcere. “Grazie per come vi siete regalate, spero che questa visione sia un briciolo di giustizia; che possiate sentirvi fuori, come noi” dice in un intenso videomessaggio Matilda De Angelis (coprotagonista del film con Golino e con la cantante Elodie). “Il cinema è un gioco, e noi lo abbiamo giocato insieme” aggiunge Martone rivolto alle preziose spettatrici che compongono questo pubblico, per tanti versi il più importante: la loro reazione è riscontro primario, prova di verità (e di finzione) di una trama tratta dal mondo della letteratura ma le cui componenti di denuncia sociale e politica sono diverse, e sottilmente interconnesse. Il regista ricorda il primo sopralluogo, quando venne a Rebibbia accompagnato da Francesca Tricarico, fondatrice de “Le donne del muro alto”, compagnia teatrale che riunisce detenute ed ex detenute (di nuovo, il nodo/ snodo è il medesimo: il dentro, il fuori, il fuori come indelebile memoria del dentro). La sorpresa, a quella prima visita, di trovare lungo i vialetti di accesso fiori, piante, aiuole ben curate; pensare che quel verde andasse reciso, perché mostrare un carcere sede di tanta cura di bellezza sarebbe parso un controsenso. Capire che invece no, ogni singolo fiore andava custodito, per rispetto del luogo, e dello sguardo amorevole che la stessa Goliarda Sapienza sulla bellezza sempre ha saputo posare. C’è emozione nella sala del carcere in attesa che cominci il film: brusii, brevi risate, occhi umidi, voci di queste donne che si apprestano a rivedersi sullo schermo, curiose di come sia stato rappresentato quel “den-tro”, il loro “dentro”, e un “fuori” che di quel dentro porta l’impronta di nostalgia. Affetto e molto calore al ritrovare il regista che le ha dirette e ancora prima le ha guardate, ascoltate, seguite, intuite una per una, come persone. Mutuo riconoscersi, al di là di ogni cinepresa, o filtro, o schermo. Piacere di ritrovarsi, “quanto ci siamo divertiti”, ricordo di una complicità che ancora a distanza di tempo è familiarità, il legame che crea l’essersi osservati senza veli, avere condiviso momenti la cui intensità rievocata si avverte nell’aria, tangibile. Promesse di intensità che la proiezione non solo mantiene: oltrepassa. Guardato dentro, qui, a Rebibbia, il film produce un effetto moltiplicato. Fuori visto “dentro” colpisce di più ancora: amplificata la sua forza di racconto capace di spaziare con uguale nitidezza lungo la verticalità del tempo (continuo movimento di flashback tra il prima del dentro in prigione e il poi della vita “fuori”), e l’orizzontalità degli spazi, il dentro del carcere, piano terra dove le prigioniere s’incontrano e intessono la trama densa e intricata dei loro rapporti, e piano di sopra, il corridoio dietro le cui sbarre in una delle scene più potenti del film in tante scandiscono il “F-U-O-R-I” di allarme e protesta dopo il tentato suicidio di Barbara, una delle due detenute cui Goliarda Sapienza più si legherà in amicizia una volta uscita di galera - una volta “fuori”. “Facciamo finta che siamo ancora là” dice nel film Roberta, l’altra ex detenuta che la scrittrice Goliarda molto frequenta dopo la prigionia, e che tanto vorrebbe proteggere dalle insidie del “fuori” (tempeste degli anni Ottanta: l’eroina, la lotta armata). Il ricordo del “dentro” è ossessione ambivalente, ricordo inseguito ma anche rifuggito - a certi messaggi nella segreteria telefonica di Roberta, Goliarda Sapienza non risponde, nella vana speranza e forse nell’inconfessato desiderio di accantonare quel conturbante capitolo della vita. Qui invece, nel vedere il film “dentro”, in prigione, nulla è per finta: nessuno straniamento, nel buio osservando le reazioni di donne che di questo universo carcerario conoscono ogni sfumatura, il significato più autentico. A proiezione conclusa, l’emozione è ancora più forte. Chi l’ha provata riascoltando la “battitura”, il suono prodotto dalle sbarre colpite con forza per richiamare l’attenzione contro ingiustizie o tragedie che si succedono “dentro”. Chi si è commossa pensando alla potenza delle amicizie nate in prigione e alla difficoltà di mantenerle una volta uscite fuori. Chi, come Valeria Golino e Mario Martone, presagisce e dice la nostalgia che avranno di loro, interpreti e spettatrici capaci di una qualità di empatia e di sorellanza che nessuna finzione né fantasia può arrivare a disegnare. Una volta di più, nozione dell’intensità che si vive “dentro”. Abitati da una sensazione di mancanza da rendere monito morale a immergersi nel “fuori” rappresentato dalle vite altrui, vite che non sono la nostra. Nel bellissimo finale del film, l’imperativo a continuare, per la scrittrice Goliarda Sapienza, sta racchiuso in una valigia gonfia di corrispondenze epistolari tra carcerate e i loro cari. Raccontare, tramandare: far vivere, e così sopravvivere. C’è chi ragiona in senso più ampio ancora: una detenuta messicana si alza e legge a Mario Martone e a noi che siamo in sala una poesia composta pochi mesi fa. “In che posto puoi salvare le azioni di un essere umano? Se non è qui, se non è in posti di tanta sofferenza? La divisa dell’umanità e del rispetto reciproco cancelleranno il freddo e il buio delle sbarre tra le une e le altre. Solo lì avrà vinto il coraggio di far diventare il carcere un posto di dignità e onore”. E altri versi, di un’autenticità che strappa il cuore, e un lungo appaluso. “Grazie soprattutto di aver saputo ascoltare”, si sente dire il regista prima dei saluti. Tutti andiamo via commossi; torniamo “fuori”, nel sole pieno dell’estate che incomincia, in animo la sensazione nitida che il fuori sia piuttosto dentro. Dentro il carcere: come Goliarda Sapienza pensava, e come dichiarò nell’intervista fattale da Enzo Biagi e riproposta durante i titoli di coda del film di Martone. Lui che in questa così intensa proiezione del suo film dentro il carcere di Rebibbia ha ricevuto da una detenuta il complimento più alto, per un artista: “Mai un momento, nel vedere il tuo film, mi sono sentita giudicata”. La controriforma dei manicomi: le mani della destra sulla Legge Basaglia di Filippo Sensi Il Domani, 5 giugno 2025 Nel burocratico lavoro delle commissioni del Senato, rimasto per ora ancora nell’ombra, si rischia in queste ore di rinnegare la legge 180 e di muovere molti, pericolosi passi indietro dai tempi di Franco Basaglia. Dal 1978 l’Italia è stata e finora è rimasta un esempio internazionale nella capacità di superare quei luoghi di dolore e ignominia che erano i manicomi e di immaginare un modo degno e umano di declinare la questione della salute mentale. Purtroppo potrebbe non essere più così. Un disegno di legge della maggioranza, calato come una mannaia su una discussione aperta e plurale che mirava a rilanciare nel solco della 180 alcuni punti ancora inevasi della riforma del 1978, viene discusso in questi giorni con una sospetta velocità. Al centro della controriforma della destra tre punti molto pericolosi, non solo perché sfigurano l’impianto complessivo della Basaglia, ma perché tornano a criminalizzare i pazienti e a umiliarli nella loro umanità. Il ritorno delle strutture manicomiali nella forma di microstrutture diffuse, meglio se private, dove nascondere e rinchiudere i pazienti; dei manicomietti che, nel disegno di Fratelli d’Italia, parcellizzeranno e sostituiranno, resuscitandone l’orrore, i lugubri luoghi di detenzione dei matti che Basaglia smontò e superò con la sua opera di ricerca e cura. L’allungamento dei tempi dei TSO, dei trattamenti sanitari obbligatori, strumento di extrema ratio che diventerebbe una sorta di generico da banco da ammannire con estrema facilità e per una durata di tempo sempre più estesa come fosse una soluzione, una custodia mascherata da cura. E, invece, devono rimanere una triste, rara emergenza. La codificazione e la tolleranza nei confronti della contenzione meccanica, dei pazienti legati al letto e lasciati lì per ore, addirittura giorni o settimane, contravvenendo alla ormai universale consapevolezza che non si tratta in alcun modo di un presidio sanitario, ma di una forma di gravissima violazione, degradante, della dignità delle persone, che in alcuni casi ha portato a gravissime conseguenze, perfino alla morte. Già viviamo in una notte normativa per cui non siamo in grado di sapere quanto e dove e per quanto tempo vengano legati i pazienti di salute mentale. E, solo su questo aspetto, quello della disponibilità, accessibilità e omogeneità dei dati, bisognerebbe fare un passo avanti, in un paese che voglia dirsi civile, via da mappe a macchia di leopardo, buchi neri del diritto. Se passasse il disegno di legge della destra, la contenzione avrebbe piena cittadinanza tra gli strumenti utilizzati per fare fronte a una crisi psichiatrica. Non sarebbe soltanto il tradimento della legge Basaglia, ma l’istituzionalizzazione di una forma di tortura, che farebbe dell’Italia una democrazia dimidiata, dove - come avviene per le nostre carceri sovraffollate o per i CPR - i diritti delle persone contano meno, valgono meno, respirano meno. Evidentemente non basta, non può bastare la battaglia parlamentare che sul disegno di legge 1179 l’opposizione sta facendo e farà in aula: solo mobilitando la consapevolezza più diffusa della società civile, dell’informazione, della comunità terapeutica in un dibattito appassionato, competente e urgente si può fermare questa controriforma che ripristina il principio concentrazionario del manicomio, usa il TSO come fosse un farmaco da banco, e lega le persone a un lettino di contenzione, come ai tempi dello Spielberg. Questo il pericolo che intendiamo contrastare con la stessa determinazione che portò Franco Basaglia, neo nominato direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia nel lontano 1961, a rifiutarsi di siglare il librone delle contenzioni che gli portava l’ispettore capo del manicomio: “E mi no firmo”, e io non firmo, rispose, trasformando un gesto di routine in una rivoluzione in quattro parole. Più di 60 anni dopo quel rifiuto e a quasi 50 dalla approvazione della 180, non possiamo consentire che l’Italia torni indietro sulla salute mentale, sui diritti, sul rispetto delle persone. Tso, Consulta: norma parzialmente illegittima. Più diritti per i pazienti di Antonio Alizzi Il Dubbio, 5 giugno 2025 Per la Corte è necessario informare il soggetto e farlo ascoltare da un giudice prima della convalida del trattamento. La Consulta, con la sentenza n. 76 del 2025, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’articolo 35 della legge 833/1978, nella parte in cui non prevede che il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio, meglio conosciuto come Tso, venga comunicato in maniera tempestiva alla persona interessata, senza disporre l’obbligo di audizione da parte del giudice tutelare prima della convalida e senza notifica dell’ordinanza motivata di convalida. Il giudizio di legittimità costituzionale è stato sollevato dalla Corte di Cassazione - sezione civile - nel corso di una controversia promossa da una donna sottoposta a Tso a Caltanissetta. I giudici della Consulta hanno rilevato come la normativa vigente non garantisse adeguate tutele procedurali, evidenziando che “nella normativa vigente, il sindaco e il giudice tutelare comunicherebbero tra loro, ma nessuno dei due comunicherebbe con il paziente”. La donna, tramite il suo difensore di fiducia, aveva presentato opposizione lamentando di non aver ricevuto alcuna notifica, di non essere stata ascoltata dal giudice e di non avere avuto strumenti effettivi per difendersi. La Cassazione, valutando il ricorso, aveva posto in evidenza una serie di gravi lacune nel procedimento, affermando che “la mancata audizione della persona da parte del giudice tutelare prima della convalida rende il controllo giudiziale meramente formale”. E ancora: “Non si comprende come una persona in stato di alterazione psichica possa tempestivamente opporsi”, si legge, “se non viene informata del suo status giuridico e delle ragioni per cui le si parano dinnanzi i vigili urbani per portarla in ospedale”. Secondo la Corte costituzionale, la disciplina del Tso, così com’è stata formulata, violerebbe una serie di principi costituzionali fondamentali, in particolare gli articoli 13 (libertà personale), 24 (diritto alla difesa), 32 (diritto alla salute) e 111 (giusto processo). Nel testo, i giudici sottolineano che “il trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera è una misura coattiva che incide sulla libertà fisica. Ne deriva l’applicazione congiunta delle garanzie di cui agli articoli 13 e 32 della Costituzione”. La Corte aggiunge: “L’interessato, pur se affetto da alterazione psichica, conserva la titolarità dei diritti costituzionali e deve essere messo in condizione di esercitare un ricorso effettivo”. Il giudice tutelare, ha sottolineato la Consulta, “non può procedere alla convalida senza aver ascoltato direttamente la persona sottoposta al trattamento, che altrimenti subirebbe una restrizione della libertà personale priva di reale verifica giudiziale”. La Corte ha anche richiamato il “rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura”, il quale già nel 2023 aveva espresso preoccupazione per prassi italiane ritenute troppo automatizzate e non partecipate. Nella motivazione si legge anche che “il diritto di ricevere comunicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale non è inficiato dalla condizione di alterazione psichica in cui versa la persona sottoposta a trattamento sanitario coattivo”. Per la Corte, il mancato coinvolgimento diretto della persona interessata viola il diritto di agire in giudizio, il principio del contraddittorio e la natura stessa della tutela giurisdizionale. Inoltre, i giudici costituzionali hanno dichiarato, in via consequenziale, l’illegittimità del quarto comma della stessa norma nella parte in cui non garantisce la comunicazione della proroga del trattamento. La pronuncia avrà effetto immediato su tutti i procedimenti in corso e quelli futuri. I sindaci, in qualità di autorità sanitarie locali, dovranno garantire che il provvedimento sia notificato alla persona o al suo legale rappresentante. I giudici tutelari saranno obbligati quindi ad ascoltare l’interessato prima di convalidare il trattamento. La mancata osservanza di tali garanzie potrà determinare l’illegittimità del Tso. Infine, la sentenza impone anche un ripensamento sistemico: “Il trattamento sanitario coattivo deve operare quale extrema ratio, nell’osservanza del principio del minor sacrificio necessario, desumibile dall’articolo 13 della Costituzione”. Il legislatore è dunque chiamato a intervenire con urgenza per adeguare il testo normativo al nuovo orientamento costituzionale. Senza dimenticare la tutela della persona umana. Migranti. Albania, il ministro dell’Interno Piantedosi dà i numeri di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 giugno 2025 Su 100 deportati: 32 rimpatriati e 36 liberati dai giudici. Ma i conti non tornano. Intanto martedì la Corte d’appello di Roma ha ordinato di riportare indietro un richiedente asilo. Dopo la legge che ha esteso l’uso dei centri di Gjader ai migranti “irregolari” già trattenuti in Italia “sono state trasferite circa 100 persone, 32 sono state rimpatriate, 36 liberate da decisioni della magistratura”. Lo ha detto ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aggiungendo che “il 45-50% delle persone trattenute, senza l’intervento dei giudici, sono state rimpatriate”. I conti non tornano perché dalle informazioni e dai documenti acquisiti durante le ispezioni dal Tavolo asilo e immigrazione (Tai) e dalla deputata del Partito democratico Rachele Scarpa è emerso che solo nei primi 40 giorni 16 cittadini stranieri sono stati riportati in Italia per ragioni sanitarie. Erano incompatibili con la detenzione in Albania per ragioni di salute. È possibile che il ministro abbia sommato i pareri dei medici a quelli dei magistrati, ma il punto è un altro: in ogni caso il tasso di rimpatrio corrisponde a quello medio dai Cpr italiani. Considerando che le persone vengono rimandate nel paese di origine passando sempre dall’Italia - nemmeno il governo Meloni si è spinto a fare altrimenti perché avrebbe violato in maniera ancora più esplicita il diritto Ue - il senso di tutta l’operazione rimane comunque oscuro. In ogni caso su questa seconda fase pesa il rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea da parte della Cassazione. La decisione è della scorsa settimana e apre la strada al rientro di tutti i reclusi. Nel Cpr, in base ai numeri del ministro, dovrebbero essere poco meno di quaranta. L’ultimo è stato riportato in Italia nelle scorse ore dopo che la Corte d’appello di Roma, con una decisione dell’altro ieri, non ha convalidato la detenzione oltre Adriatico. Esito che dovrebbe essere comune a tutte le richieste che arriveranno all’organo giudiziario di secondo grado e probabilmente anche a quelle davanti ai giudici di pace della capitale. Almeno il governo ha qualcosa per cui esultare: ieri la commissione Affari Esteri dell’europarlamento ha bocciato degli emendamenti contrari al progetto Albania. Dove tira il vento della politica, in Italia e in Europa, è evidente. Resta da vedere fino a quando terranno quei diritti fondamentali che erano stati codificati proprio per evitare l’arbitrio delle autorità di turno nei confronti delle persone. Soprattutto quelle più svantaggiate e soprattutto quelle appartenenti a minoranze o di origine straniera. La sentenza storica sul caso Kinsa: la solidarietà non è reato di Giulio Cavalli Il Domani, 5 giugno 2025 Per la giustizia italiana O.B. era una trafficante di esseri umani. Aveva usato documenti falsi per mettere in salvo sua figlia e sua nipote, fuggendo dalla Repubblica Democratica del Congo, dove era stata minacciata di morte. Il reato contestato è favoreggiamento dell’immigrazione. Dopo sei anni la Corte le dà ragione. Il 3 giugno 2025 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha pronunciato una sentenza destinata a fare scuola: aiutare un minore affidato alla propria tutela a entrare nell’Unione europea per chiedere protezione internazionale non costituisce favoreggiamento dell’immigrazione illegale. Lo ha stabilito la Corte nella causa C-460/23 Kinsa, che nasce da una vicenda cominciata quasi sei anni fa all’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna. Il 27 agosto 2019, su un volo Royal Air Maroc proveniente da Casablanca, c’è una donna congolese con due bambine: sua figlia di 9 anni e la nipote tredicenne, affidatale dopo la morte della sorella. Durante il controllo passaporti, i documenti risultano falsi. La donna, O. B., viene arrestata. Da quel momento comincia il “caso Kinsa”, diventato simbolo della criminalizzazione della solidarietà e del paradosso legislativo europeo sui reati di favoreggiamento. Come ha spiegato fin dall’inizio l’avvocata di O. B., Francesca Cancellaro, “la disciplina europea lascia agli Stati la possibilità di prevedere clausole umanitarie, ma il nostro ordinamento le rende inapplicabili per chi aiuta all’ingresso”. In altre parole: la legge italiana punisce anche chi agisce spinto da legami familiari, solidarietà o urgenza di protezione, se l’aiuto avviene prima del superamento della frontiera. Il Tribunale di Bologna ha deciso allora di sollevare il caso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per verificare la compatibilità del “facilitators package” europeo e del correlato articolo 12 del Testo Unico Immigrazione con la Carta dei diritti fondamentali dell’UE. La risposta arrivata ora dalla Corte è netta: “Quando un cittadino di un Paese terzo entra irregolarmente nell’Ue accompagnato da un minore affidato alla sua tutela, il suo comportamento non può essere considerato favoreggiamento dell’immigrazione illegale” ha spiegato il presidente della Corte di Giustizia, Koen Lenaerts. La Corte stabilisce che il genitore o il tutore assume “un obbligo legato alla propria responsabilità personale nei confronti del bambino”, in coerenza con il diritto alla vita familiare e il superiore interesse del minore sanciti dalla Carta UE. Finché non viene presa una decisione sulla domanda di protezione, il richiedente asilo - e chi lo accompagna - non può essere considerato in posizione irregolare né sottoposto a sanzioni penali per l’ingresso. La svolta - Secondo l’avvocata Cancellaro, “è un primo passo per mettere in discussione l’intero impianto europeo e italiano di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Le norme che criminalizzano queste condotte devono essere disapplicate ogni volta che si parla di aiuto a minori”. Il caso di O. B. è solo uno dei tanti prodotti di un impianto giuridico europeo che da vent’anni - con la direttiva 2002/90/CE - consente agli Stati di perseguire penalmente anche condotte di soccorso, senza richiedere che vi sia scopo di lucro. La legge punisce il semplice atto di aiuto al passaggio della frontiera, persino se finalizzato alla richiesta di asilo. La componente umanitaria, di fatto, non esiste nelle norme applicate. “È la prima volta che il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare viene valutato in questi termini”, ha sottolineato l’avvocata Cancellaro. La portata della pronuncia, però, potrebbe avere ricadute ampie. Secondo i dati dell’Arci Porco Rosso, nel solo 2024 in Italia 106 migranti sono stati arrestati con l’accusa di aver facilitato l’ingresso illegale. La vicenda Kinsa esplode proprio mentre le istituzioni europee stanno riscrivendo il facilitators package, rinegoziando l’intero sistema delle norme penali sull’immigrazione irregolare. La tensione tra il potere legislativo europeo - che spinge su accordi securitari e respingimenti - e la magistratura che richiama ai diritti fondamentali è ormai evidente. “Quando poi la parola passa ai giudici e si confrontano le leggi fondamentali, i nodi vengono al pettine”, ha scritto efficacemente l’Ansa. Anche l’eurodeputata Cecilia Strada ha commentato che “i principi del diritto internazionale non sono alla mercé dei desiderata politici dei singoli governi. La direttiva del 2002 nasce da storture vergognose: l’assenza della componente di lucro e la mancata esenzione obbligatoria per l’assistenza umanitaria dimostrano la volontà politica di criminalizzare chi presta aiuto”. O.B. e sua figlia restano ancora intrappolate nella lentezza della giustizia: congelate da quasi sei anni in attesa di un giudizio che oggi finalmente conosce un primo esito. La nipote, nel frattempo diventata maggiorenne, era fuggita dal centro d’accoglienza pochi giorni dopo l’arresto della zia. Tre vite sospese. Tre vite entrate nel cortocircuito di leggi scritte per blindare le frontiere e punire chi tenta di aggirarle anche per sopravvivere. Il reato di solidarietà che per anni ha dominato il diritto penale europeo riceve ora una prima incrinatura formale. Ma resta ancora tutto il sistema. La sentenza Kinsa è il primo varco. Gli Stati membri ora sono costretti a fare i conti con una giurisprudenza che ricorda all’Europa - davanti a ogni frontiera - che il diritto alla protezione, all’asilo e all’unità familiare prevale sui codici repressivi.