Carcere, permessi urgenti con reclamo più facile di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2025 Giudicato illegittimo il termine di sole 24 ore per l’impugnazione. Colpito il diritto di difesa, nuovo limite di 15 giorni ma non vale per il pm. Contrasta con il diritto di difesa un termine di sole 24 ore a disposizione della persona detenuta per impugnare il diniego a una richiesta di permesso. Lo afferma la Corte costituzionale con la sentenza n. 78 depositata ieri e scritta da Francesco Viganò. Accolta la questione di legittimità sollevata dal tribunale di sorveglianza di Sassari. I fatti di causa - Nel caso oggetto del giudizio, il magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta di permesso avanzata da un detenuto per fare visita alla sorella, colpita da tumore. Il detenuto aveva proposto reclamo al tribunale di sorveglianza il giorno stesso in cui gli era stato notificato il provvedimento, riservandosi di formulare in seguito i motivi. Alcuni giorni più tardi il suo difensore aveva riproposto il reclamo, corredato dei motivi, dopo avere ottenuto copia della documentazione medica che il magistrato aveva acquisito d’ufficio. Il reclamo del difensore avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile perché presentato oltre il termine di ventiquattro ore dalla comunicazione del provvedimento, stabilito dall’articolo 30 bis della legge sull’ordinamento penitenziario. L’orientamento della Corte costituzionale - Per la Consulta si tratta di una previsione in netto conflitto con il diritto di difesa garantito dall’articolo 24 della Costituzione: in 24 ore è infatti difficile che una persona detenuta possa ottenere l’assistenza di un avvocato come pure praticamente impossibile è ottenere tutta la documentazione sulla quale il magistrato di sorveglianza ha fondato la sua decisione. La Corte ha poi compiuto un passo ulteriore sostituendo il termine di 24 ore con quello di 15 giorni, già previsto in via generale per ogni reclamo contro le decisioni che riguardano il detenuto dall’articolo 35 bis dell’ordinamento penitenziario. Resta ferma la possibilità per il legislatore di stabilire un termine differente, a condizione che il nuovo limite non si collochi in collisione con il diritto di difesa. Proprio la centralità del rispetto di quest’ultimo, nella riflessione della Corte, ha condotto invece a lasciare inalterato il termine di 24 ore per l’impugnazione da parte del pubblico ministero. “D’altra parte - sottolinea la sentenza - l’estensione del termine anche per il reclamo del pubblico ministero, nel caso opposto in cui l’istanza del detenuto sia accolta, determinerebbe la sospensione dell’esecuzione del provvedimento in pendenza dell’intero nuovo termine per l’impugnazione (...), quanto meno con riferimento ai permessi per eventi familiari di particolare gravità”. Con una evidente conseguenza negativa per la persona detenuta che vederebbe trascurate le ragioni di urgenza alla base della richiesta. Consulta: ecco perché 24 ore non bastano per presentare reclamo a un diniego di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2025 Quando un reclamo parte da dentro le mura del carcere, le ore scandiscono non solo il passare del tempo, ma il confine tra un diritto e la sua negazione. La sentenza numero 78/ 2025 della Corte costituzionale pone l’accento proprio su questa linea sottile: il termine di ventiquattro ore entro cui un detenuto può presentare reclamo contro il diniego di un permesso di necessità è risultato “troppo breve” per rispettare il diritto di difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione. La Corte ha così dichiarato incostituzionale il terzo comma dell’articolo 30-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, imponendo al legislatore di allargare da ventiquattro ore a quindici giorni il termine per proporre reclamo. Il caso che ha portato alla Corte costituzionale il problema nasce nel febbraio 2024, quando un detenuto - indicato negli atti come V. M. - chiede un permesso di necessità per far visita alla sorella, affetta da grave patologia tumorale con metastasi. La sorella, secondo il medico legale, non è in imminente pericolo di vita; il magistrato di sorveglianza, il 4 aprile 2024, respinge la richiesta. La notifica del diniego arriva a V. M. il 6 aprile. La legge (articolo 30- bis, comma 3), ora dichiarata incostituzionale, prevede che, entro ventiquattro ore dalla comunicazione, il detenuto può proporre reclamo al tribunale di sorveglianza. Così è avvenuto: lo stesso 6 aprile il detenuto, attraverso il difensore, deposita un reclamo senza motivi, riservandosi di fornirli in seguito. Nel frattempo, ottiene solo l’8 aprile copia degli atti (relazione del medico legale e note della Questura). Soltanto il 16 aprile, una volta in possesso dei documenti, il difensore presenta il reclamo motivato. Peccato che il termine delle ventiquattro ore fosse già scaduto: a norma dell’articolo impugnato, il tribunale di sorveglianza avrebbe dovuto dichiarare inammissibile qualsiasi reclamo presentato oltre il giorno successivo alla notifica del provvedimento. Non è la prima volta che la Corte costituzionale si trova di fronte a un problema simile. Già nella sentenza n. 113 del 2020 aveva dichiarato l’incostituzionalità del termine di ventiquattro ore per i permessi premio, ricordando che un termine così breve non consente né di consultare un avvocato, né di ottenere copie dei documenti fondamentali per motivare un reclamo conforme ai requisiti processuali. Nel caso dei permessi di necessità, l’urgenza appare ancora più accentuata: il detenuto invoca un motivo di carattere affettivo-emotivo, legato alla salute di un familiare. Ma, come osserva la Corte, proprio per questa ragione sarebbe ancora più necessario garantire un termine congruo, non comprimibile in ventiquattro ore, se si vuole evitare di rendere meramente formale la possibilità di reclamo. La Consulta ricorda che il diritto di difesa “in ogni stato e grado” comprende anche il tempo ragionevole per raccogliere le informazioni su cui basare le proprie ragioni. Per chi si trova ristretto in una cella, chiedere al carcere di ricevere in un giorno soltanto le carte su cui si fonda il diniego, consultarle con un avvocato e poi redigere un atto con motivazioni articolate rappresenta un’impresa quasi impossibile. A questo si aggiunge la pratica - sottolineata dalla giurisprudenza della Cassazione - secondo cui il reclamo deve contenere specifici motivi di fatto e di diritto, pena l’inammissibilità dell’impugnazione stessa. La vicenda del detenuto V. M. è esemplare: ha depositato reclamo il giorno stesso della notifica, ma senza motivarlo, rinviando a un secondo momento la spiegazione delle ragioni. Quando il difensore ha potuto svolgere l’istruttoria, erano già trascorsi dieci giorni: a norma della norma censurata, che non ammette integrazioni ex post, il tribunale avrebbe dovuto rigettare il reclamo. Il Tribunale di sorveglianza di Sassari, invece, ha deciso di sollevare la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che un termine così breve violasse non soltanto il diritto di difesa (articolo 24 Cost.), ma anche il principio di uguaglianza e ragionevolezza (articolo 3 Cost.), giacché per i permessi premio la Corte aveva già stabilito un termine di quindici giorni. Così, per evitare disparità tra permessi di diversa natura - benché diversi per finalità - il Tribunale ha chiesto alla Consulta di intervenire. La Corte costituzionale, nella camera di consiglio del 7 aprile 2025, concorda con il Tribunale di Sassari: il termine di ventiquattro ore, novello archetipo del “tempo sospeso”, è incompatibile con la Costituzione. Il ragionamento si sviluppa in due punti chiave. Innanzitutto, il termine perentorio di ventiquattro ore, senza possibilità di riserva dei motivi, impedisce di fatto all’interessato di articolare un reclamo effettivo. In secondo luogo, per chi è detenuto l’accesso agli atti - di norma custoditi nelle cancellerie - non è immediato: serve tempo aggiuntivo per richiederli, ottenerli e studiarli, magari con l’aiuto di un consulente tecnico o medico. Nel caso specifico, la sorella sofferente e la relazione del medico legale - depositata il 4 aprile e notificata solo l’8 aprile - erano elementi decisivi per il merito: ma erano sconosciuti all’istante fino agli ultimi giorni utili per l’impugnazione. Alla fine la Consulta ridefinisce il confine: dichiara incostituzionale l’articolo 30- bis, comma 3, nella parte in cui prevede che il detenuto debba proporre reclamo nel termine di ventiquattro ore, e stabilisce che, per garantire il pieno esercizio del diritto di difesa, il termine sia elevato a quindici giorni, “già previsto in via generale” dall’articolo 35- bis per ogni impugnazione contro decisioni delle autorità penitenziarie. Resta ferma la possibilità, scrivono i giudici, che il Parlamento introduca una disciplina diversa, purché adeguata ad assicurare il diritto di difesa. Ciò significa che il legislatore potrà, sulla scorta della sentenza, stabilire un termine più breve o più lungo, a condizione che sia “idoneo”. Nella stessa sentenza, però, la Corte ribadisce che il termine di ventiquattro ore perentorie rimane valido per il reclamo del pubblico ministero. Se si trasferisse anche al pm il termine di quindici giorni, si creerebbe un paradosso: in caso di accoglimento del permesso da parte del magistrato, sarebbe sospesa l’esecuzione del provvedimento fino al termine di impugnazione, con un effetto contrario alle ragioni di urgenza poste alla base del permesso di necessità. Così è il legislatore, e sinora è stato il magistrato di sorveglianza, che dovrà stabilire se bilanciare in modo diverso le esigenze. La sentenza avrà effetti immediati. Da un lato, i tribunali di sorveglianza in tutta Italia dovranno applicare il nuovo termine di quindici giorni per i reclami presentati dai detenuti respinti nella richiesta di permessi di necessità. Dall’altro, il Parlamento è chiamato a rivedere la disposizione di legge, definendo una misura che tenga conto della Corte, altrimenti rischia di incorrere in una nuova declaratoria di incostituzionalità. Il diritto di difesa non è uno slogan, è una concreta serie di garanzie, fra cui la possibilità di conoscere gli atti, riflettere, confrontarsi, scrivere un testo che risponda alle esigenze del giudice di sorveglianza. La Consulta, di fatto, costringe il legislatore a considerare che ogni volta che si tagliano i tempi, si rischia di tagliare anche la dignità Al Senato il decreto Sicurezza arriva e vola via. Con la fiducia di Eleonora Martini Il Manifesto, 4 giugno 2025 In Aula al Senato senza relatori, respinte le pregiudiziali e bypassate le commissioni. “Avete scambiato il Senato per una succursale di Palazzo Chigi?”, urla l’esponente dell’opposizione senza più parole di fronte al passaggio lampo imposto al Senato dal governo Meloni sul decreto Sicurezza. La domanda è retorica, la risposta viene da sé. Il testo arriva infatti all’ora di pranzo nelle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia e dopo neanche un’ora, interrotto l’esame e saltato a piè pari il voto del pur ridotto numero di emendamenti presentati dalle opposizioni, alle cinque della sera il provvedimento viene rimbalzato in Aula senza neppure il mandato al relatore. Inutili le proteste delle minoranze che tentano di “tutelare il potere legislativo” davanti “allo scippo istituzionale che non ha precedenti”, tacitate una volta di più dalla questione di fiducia posta dall’esecutivo, come era già accaduto alla Camera in prima lettura, per bocca del ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani (presente anche il titolare del Viminale Matteo Piantedosi). Il partito della premier avrebbe voluto schiacciare l’acceleratore ancora più forte, costi quel che costi, votare la fiducia già ieri sera. È già tanto quindi che sia slittato ad oggi il voto finale che, in anticipo netto rispetto alla data limite del 10 giugno, convertirà in legge il decreto 48 in vigore dall’11 aprile scorso. “Come opposizione ci siamo messi d’accordo per ridurre il numero di emendamenti in modo che fosse un numero gestibile dalle Commissioni congiunte - riferisce il dem Andrea Giorgis - 131 emendamenti sono pochissimi, e invece la maggioranza ci ha risposto che è un numero non gestibile mostrando la volontà politica di porre la fiducia e quindi di schiacciare il Parlamento”. “Non si vuole venire incontro nemmeno alle richieste più ragionevoli”, ha sottolineato il presidente del gruppo Misto Peppe De Cristofaro. “È un provvedimento liberticida che fa orrore - attacca il capogruppo di Avs - Attraverso la decretazione d’urgenza, impone al Paese la visione della sicurezza della destra, autoritaria e da Stato di polizia che colpevolizza chi dissente e manifesta, dove il cittadino è il nemico”. Un decreto che “invece di proteggere divide”, sottolinea pure Aurora Floridia, del Gruppo per le Autonomie. “La maggioranza abbia un sussulto di dignità e torni in commissione per discutere e votare gli emendamenti”, ha incalzato la vice presidente del M5S Alessandra Majorino suggerendo “un percorso lineare” e rinviare il confronto in Assemblea all’inizio della prossima settimana pur senza oltrepassare la data limite per la conversione in legge del decreto. La proposta però non è neppure stata presa in considerazione. A l’opposizione non è rimasto che riproporre in Aula tutti gli emendamenti che erano stati presentati alla Camera, e il numero è salito a 933. Inutili anche le pregiudiziali di costituzionalità presentate da Pd, M5S, Avs e Italia viva: tutte respinte, con 95 voti contrari e 61 a favore. “Superfluo nominare gli articoli della Costituzione che state trasgredendo con questo decreto, perché state compiendo un capolavoro di violazione “olistica”, diciamo così, dell’intera Carta”, riassume Scalfarotto (Iv). “Governare è legittimo ma la Costituzione non vi permette di comandare. E comandare senza limiti, come state facendo”, incalza Valeria Valente del Pd. “È un gravissimo abuso della decretazione d’urgenza al quale si somma da parte della maggioranza una mortificazione senza precedenti del ruolo e della funzione del Parlamento. È un modo di interpretare la democrazia assai poco democratico”, insistono tutti i partiti dell’opposizione. I senatori della maggioranza invece, con toni diversi a seconda della prossimità alla destra estrema, oscillano tra l’indicare “l’ostruzionismo” delle minoranze come la causa di una tale accelerazione e la necessità di nuove norme penali per “difendere le divise dalla violenza delle piazze”. “La pacchia è finita”, è lo slogan sempreverde che echeggia nell’Aula, declinato in tante forme quanti sono i nuovi nemici pubblici nell’era Meloni. Decreto sicurezza, record polverizzati: in 4 ore è già in Aula di Valentina Stella Il Dubbio, 4 giugno 2025 In Commissione gli emendamenti non sono neppure stati letti. Stamattina può arrivare il voto di fiducia. “Imperio intollerabile”, “forzatura gravissima”, “Parlamento come succursale di Palazzo Chigi”: sono solo alcune delle espressioni pronunciate ieri dalle opposizioni nell’Aula del Senato per descrivere quanto accaduto in merito al Dl sicurezza. In pratica il provvedimento, approvato la scorsa settimana alla Camera dei deputati dopo che il governo aveva posto la fiducia, è sbarcato ieri a Palazzo Madama in maniera alquanto singolare: le commissioni Affari costituzionali e Giustizia sono state convocate alle 13 per iniziare l’esame della legge di conversione del decreto; alle 15 è stato posto il termine per la presentazione degli emendamenti; alle 16 i commissari senatori sono stati riconvocati, si è preso atto che erano stati presentati 131 emendamenti e due ordini del giorno delle opposizioni, alle 17 il Dl è arrivato in Aula senza che fosse stato conferito il mandato al relatore e senza che fosse stata illustrata una sola proposta di modifica. Il presidente della Prima commissione, il meloniano Alberto Balboni, ha semplicemente dichiarato che, siccome occorre che il Dl venga convertito entro il 10 giugno, si è ritenuto di non procedere con l’esame del testo nelle due commissioni competenti. Le opposizioni avevano chiesto di discuterne fino a lunedì pomeriggio per poi portare la norma all’attenzione dell’emiciclo. Avs, Pd, M5S e Iv hanno poi presentato delle questioni pregiudiziali di costituzionalità. Tutte le richieste sono state respinte dall’Aula. La maggioranza non ha alcuna intenzione di riaprire la pratica. Approvare anche un solo emendamento significherebbe tornare alla Camera: previsione impossibile da accettare per l’Esecutivo e per i suoi “azionisti”. Come ormai noto, il Dl sicurezza altro non è che un copia- incolla quasi integrale del ddl sicurezza approvato alla Camera il 18 settembre 2024, che poi il governo ha deciso di trasformare appunto in un decreto legge, sollevando numerosi dubbi sulla sussistenza dei criteri di necessità e urgenza. Non solo: la maggioranza ha deciso di blindarne la conversione parlamentare, impedendo il dibattito e l’esame delle proposte di modifica avanzate dai partiti di minoranza. “Ci troviamo di fronte a un gravissimo abuso della decretazione d’urgenza al quale si somma, da parte della maggioranza, una mortificazione senza precedenti del ruolo e della funzione del Parlamento. Non abbiamo neanche potuto iniziare a trattare gli emendamenti perché la maggioranza ha ritenuto che comunque entro le 17 non fosse possibile concluderne l’esame”, ha detto il dem Andrea Giorgis, che ha definito il decreto sicurezza “un provvedimento vergognoso e illiberale”. “È un modo di interpretare la democrazia assai poco democratico”, ha aggiunto il presidente del gruppo Misto, ed esponente di Avs, Peppe De Cristofaro. “C’è una volontà politica precisa di schiacciare il Parlamento - ha rincarato la dose la senatrice del M5S Alessandra Maiorino - perché come opposizioni ci siamo messe d’accordo per 131 emendamenti, pochissimi, e ci hanno risposto che non è un numero di emendamenti gestibile”. Dalla maggioranza invece arriva una lettura opposta di quanto successo, con accuse alle opposizioni di fare ostruzionismo. Secondo il senatore di Fratelli d’Italia Marco Lisei, relatore con Erika Stefani (Lega) del provvedimento durante l’iter- lampo in commissione, “l’ostruzionismo sul decreto sicurezza è una vergogna della quale le opposizioni dovranno rispondere al Paese”. E ha aggiunto: “Avete presentato 933 emendamenti in Aula!”. Pensiero condiviso dal presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri: “Il decreto sicurezza entrò alla Camera nel febbraio 2024. Da allora c’è stato più di un anno di ostruzionismo delle sinistre tra Camera e Senato”. Per questa ragione, ha aggiunto Gasparri, “si è legittimamente fatto ricorso a un decreto, per far entrare in vigore con più rapidità, dopo più di un anno di ostruzionismo delle sinistre, norme a tutela della legalità, a difesa del popolo in divisa, a sostegno dei cittadini vittime di aggressioni, di occupazioni di casa e di altri reati. Quindi chi si lamenta delle procedure a cui si è fatto ricorso, ammetta che da più di un anno la sinistra e i grillini fanno ostruzionismo a favore di chi ferisce poliziotti e carabinieri, a sostegno di chi ha fatto della illegalità la propria ragione di vita”. Lo stesso ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, durante la conferenza stampa del 4 aprile disse: “Siccome l’approvazione normale” in Parlamento, con tre letture, del ddl sicurezza “si sarebbe prolungata, abbiamo pensato di dare una data certa per l’approvazione del provvedimento. Abbiamo detto: diamogli un tempo certo, sicuro”, assicurando comunque che non c’era “nessuna compressione della centralità del Parlamento”, in quanto “l’ultimo giudice” sarebbero state comunque le due Camere in sede di conversione. Ma allora ci si chiede: il Dl è stato concepito per superare le iniziative delle opposizioni o perché c’era necessità e urgenza? Probabilmente sarà la Corte costituzionale a deciderlo. Intanto, nel momento in cui scriviamo è in atto la discussione generale in Senato. Non è escluso che venga posta nella seduta notturna la fiducia che si potrebbe votare questa mattina. “Necessità e urgenza assenti, si rischia l’altolà della Consulta” di Errico Novi Il Dubbio, 4 giugno 2025 C’è il rischio che il decreto Sicurezza finisca nel nulla della stroncatura per incostituzionalità? “Sì, un rischio c’è, perché i requisiti di necessità e urgenza sono indicati, nella nostra Costituzione, in modo da non poter assimilare la Repubblica italiana al presidenzialismo francese, tanto per intenderci”. Mario Esposito, ordinario di Diritto costituzionale all’Università del Salento, aiuta il Dubbio a decifrare l’ombra che incombe sul provvedimento dei record. Il testo varato lo scorso 4 aprile in Consiglio dei ministri sta per essere definitivamente convertito in legge grazie alla procedura super- accelerata di Palazzo Madama, ma potrebbe essere viziato in radice da illegittimità costituzionale, e stroncato quindi dalla Consulta. Se ne parla almeno dalla conferenza stampa dello scorso 4 aprile, in cui il governo, nelle persone di Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, aveva illustrato le misure, trapiantate dall’omonimo disegno di legge (fermo all’epoca in Senato). Già due mesi fa si avanzarono, non solo da parte delle opposizioni, perplessità sui requisiti di straordinaria “necessità e urgenza” che consentono, a un Esecutivo, di legiferare. Ieri il pregiudizio è stato rilanciato dal Fatto quotidiano, che ha paventato una bocciatura della Corte costituzionale sulla base di un ragionamento piuttosto sensato: che si trattava di norme straordinariamente necessarie, “il governo avrebbe potuto dirlo 15 mesi prima, non lo ha fatto, certificando che non si trattava di misure urgenti. Questa, agli occhi della Corte, è una pistola fumante”. Ed è così? Davvero dei nuovi reati e delle nuove aggravanti potrebbero restare briciole, una volta che la legge di conversione sarà inviata, da qualche giudice, alla Consulta? Ebbene, il parere del professor Esposito è che sì, “la Corte potrebbe esprimersi negativamente sulla legittimità costituzionale delle nuove norme, tanto più che già in precedenza ha adottato un metro piuttosto stringente, nei casi di abuso della decretazione d’urgenza”. Certo, il dilemma è stato affrontato, ricorda il costituzionalista dell’Università del Salento, anche da una diversa angolatura: “In dottrina non sono mancate interpretazioni che hanno riconsiderato il senso della necessità e urgenza richieste all’articolo 77 della Carta. Si è osservato, per esempio, che all’articolo 94 viene precisato come la bocciatura, da parte di entrambe le Camere, di una proposta di legge presentata dal governo, non comporti l’obbligo di dimissioni. Perciò, è la considerazione successiva, visto che invece, al 77, si consente che l’Esecutivo adotti, “sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge”, ne deriverebbero due conseguenze: innanzitutto che, qualora il Parlamento non converta un certo decreto, il governo sarebbe costretto a dimettersi e in secondo luogo che proprio la responsabilità anche politica connaturata ai decreti legge consentirebbe all’Esecutivo di intendere la necessità e urgenza in riferimento non solo a eventi catastrofici o comunque imprevisti, ma anche alla volontà di attuare, in modo spedito, l’indirizzo politico”. In altre parole: secondo tale logica, il governo, con i decreti legge, si gioca tutto, e se va male, si dimette, ma proprio per questo avrebbe una certa libertà rispetto al contenuto del provvedimento. Interessante e arguta prospettiva. Il professor Esposito ne apprezza l’originalità, ma al contempo non nasconde il proprio sostanziale dissenso. “Bisogna guardare alla sottolineatura contenuta, sempre all’articolo 77, con l’espressione “in casi straordinari”: è evidentemente correlata al fatto che il governo si può impossessare solo eccezionalmente del potere legislativo. E perciò l’interpretazione secondo cui la “necessità” e la “urgenza” possano riguardare anche solo la volontà di attuare con sollecitudine l’indirizzo politico non sembra convincente”. Oltretutto, non possiamo trascurare il contenuto, nel caso del decreto sicurezza. Che non riguarda certo misure relative alla salvaguardia di aree che, per dire, con le temperature bollenti delle ultime estati, resterebbero esposte alla minaccia di improvvise valanghe, ma a diritti costituzionalmente garantiti. Dice infatti Esposito: “La materia è del tutto particolare. Si può pensare di ricadere nel caso della straordinaria necessità e urgenza qualora i limiti a libertà costituzionalmente garantite siano introdotti a fronte di clamorose sommosse, di rivolte che minacciano in maniera grave la sicurezza dello Stato. Ma qui si tratta di regole inerenti l’ordine pubblico e il diritto penale, cioè di questini che sono tipicamente sottoposte a riserva di legge e che richiedono una ponderazione particolare. È quanto hanno fatto notare associazioni come la Fondazione Magna Carta o Italiadecide, che si sino rivolte al governo e alla sua maggioranza con lettere garbatissime per segnalare l’opportunità di un dibattito il più approfondito possibile. All’articolo 72 quarto comma si ricorda che, per i provvedimenti in materia costituzionale, non è possibile ricorrere a una procedura legislativa abbreviata. Il testo deve essere cioè comunque discusso e votato in Aula. Nel caso dell’ex disegno di legge sicurezza si tratta, certo, di norme ordinarie, ma che incidono su diritti costituzionalmente garantiti. Serviva insomma la procedura normale, neppure quella abbreviata, di approvazione delle leggi in Parlamento. A maggior ragione la forma del decreto sembra inappropriata”. E quindi la Consulta potrebbe anche rilevare l’incostituzionalità di tutte quelle norme, contenute nel Dl sicurezza, per le quali la “necessità” e la “urgenza” risultassero insussistenti? Secondo Esposito, appunto, “sì, la Consulta potrebbe rilevare il vizio di legittimità. Né basta a rimuoverlo il fatto che il Parlamento abbia poi convertito in legge il provvedimento. È proprio quella legge, evidentemente, a trascinare in sé il possibile vizio di incostituzionalità”. Tanto rumore per nulla? Si può solo aggiungere, alle osservazioni del costituzionalista, che non siamo di fronte a conseguenze tutto sommato sopportabili, ma che rischiamo anzi di assistere a limitazioni gravi, nei confronti di cittadini liberi come di detenuti, e che neppure una stroncatura della Consulta potrà risanare quelle ferite. Ma non sembra che il governo si sia posto il problema di eventuali risarcimenti da riconoscere in caso di flop. Dai rave al blocco stradale, dalla canapa light alle occupazioni: 28 nuovi reati per decreto di Paolo Frosina Il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2025 Solo il decreto Sicurezza ha introdotto 22 nuove fattispecie penali scavalcando il Parlamento: il contrario delle depenalizzazioni promesse da Nordio a inizio mandato. Undici nuovi reati e 11 aggravanti, totale 22. È il numero “ufficiale” di modifiche alla legge penale introdotte dal decreto Sicurezza, il provvedimento-bandiera approvato a inizio aprile in Consiglio dei ministri. Un profluvio di nuove fattispecie che si va ad aggiungere alle altre sei contenute in decreti legge precedenti, per un totale complessivo di ben 28 interventi in materia penale realizzati dal governo Meloni scavalcando il Parlamento. Il dato, contenuto nel dossier del Servizio studi del Senato - dove il testo è arrivato martedì per un passaggio-lampo - mostra ancora una volta il contrasto plateale tra le politiche del centrodestra e le promesse di depenalizzazione fatte a inizio mandato dal ministro della Giustizia Carlo Nordio: finora infatti, come ha ricordato il Consiglio superiore della magistratura nel suo parere al dl Sicurezza, il governo ha cancellato un solo e unico reato, l’abuso d’ufficio. L’introduzione di nuovi illeciti penali per decreto legge, peraltro, è una pratica considerata borderline dal punto di vista costituzionale: oltre alla compressione del ruolo delle Camere su una materia così delicata, infatti, c’è il tema dell’assenza di garanzie per i cittadini, dato che il decreto entra per sua natura in vigore il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale, senza il termine ordinario di due settimane (vacatio legis) previsto per permettere a tutti la conoscenza delle modifiche. Così è stato con il decreto Sicurezza: da un giorno all’altro, precisamente dall’11 al 12 aprile, nell’ordinamento sono comparsi 11 nuovi comportamenti che costituiscono reato. All’articolo 1, elenca il dossier, ci sono la “detenzione e diffusione di materiale con finalità di terrorismo” (punite con il carcere da due a sei anni) e la “distribuzione, diffusione e pubblicizzazione di materiale contenente istruzioni per la preparazione di esplosivi” (da sei mesi a quattro anni); all’articolo 2 una nuova contravvenzione per chi noleggia autoveicoli con troppa “leggerezza” a potenziali terroristi, che rischia l’arresto fino a tre mesi. All’articolo 10 c’è il nuovo reato contro le occupazioni abusive (e pazienza se nel codice ce ne sono già tre): “Occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui”, da due a sette anni. All’articolo 14 ecco il delitto di blocco stradale: carcere da sei mesi a due anni per chi “impedisce la libera circolazione su strada ostruendo la stessa con il proprio corpo, se il fatto è commesso da più persone riunite”. All’articolo 16 invece si punisce da due a sei anni l’“organizzazione, induzione, costrizione e favoreggiamento dell’accattonaggio”. ?All’articolo 18 c’è la stretta sulla cannabis “light” (quella priva di effetto stupefacente), che a sua volta prende la forma di un nuovo reato: chi viola il “divieto di importazione, cessione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, spedizione e consegna delle infiorescenze” rischierà le stesse pene previste per il traffico di droga. All’articolo 20 ecco le “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni”, punite fino a 16 anni a seconda della gravità; all’articolo 24 la norma “anti-Ultima generazione”, che prevede la reclusione fino a 18 mesi per il “deturpamento e imbrattamento di cose altrui, commesso su beni mobili o immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche, con la precipua finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione alla quale appartengono”. All’articolo 26, infine, c’è il delitto di rivolta in carcere, che punisce anche gli atti di resistenza passiva (fino a sei anni per i partecipanti, fino a dieci per i promotori) affiancato all’articolo 27 dal reato “gemello” riferito ai centri di trattenimento o accoglienza per migranti. Poi ci sono le 11 aggravanti: tra le altre, l’aumento di pena previsto per il reato “commesso all’interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane” e la cosiddetta norma “anti-no Ponte”, che aggrava la resistenza a pubblico ufficiale se commessa “al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture”. Ma nel dossier del Senato si ricordano anche tutti i precedenti in cui il governo ha modificato le norme penali con provvedimenti d’urgenza, a partire dall’ormai leggendario “reato di rave party” (all’anagrafe “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”) infilato nel primo decreto legge del governo, a ottobre 2022. Ma non solo: in seguito è arrivato il reato di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (decreto Cutro), quello di lesioni al personale sanitario (decreto anti-aggressioni), l’aggravante per l’incendio boschivo “commesso con abuso di poteri o violazione di propri doveri o per trarne profitto” (decreto Incendi), e il “trasferimento fraudolento di valori realizzato con finalità di elusione delle disposizioni in materia di documentazione antimafia” (decreto Pnrr-quater). Per finire con il “peculato per distrazione”, introdotto la scorsa estate nel decreto Carceri per “salvare” la punibilità del pubblico ufficiale che sperpera soldi pubblici, condotta che rischiava di essere depenalizzata con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Se parlassero gli archivi di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 4 giugno 2025 La scelta contestatissima di volere a tutti i costi inquadrare nel decreto sicurezza come un reato penale “anche le condotte di resistenza passiva” è insensata. “Con questo gesto sto scuotendo le fondamenta dell’Impero britannico”. Mette i brividi rivedere oggi il video in bianco e nero del 6 aprile 1930 nel quale Gandhi, dopo una marcia di ventiquattro giorni partita con 78 seguaci da Ahmedabad (a nord di Bombay) e conclusa con un fiume umano di decine di migliaia di partecipanti nel villaggio costiero di Dandi, afferra un pugno di fango salato dicendo quella frase destinata a diventare celeberrima: “I am shaking the foundations of the British Empire”. Più ancora che quel gesto con cui pacificamente rivendicava il diritto a violar la legge che imponeva il monopolio inglese sul sale indiano vietando agli indiani, avviati 17 anni dopo all’indipendenza, ogni possibilità di procurarselo da soli, colpisce nei filmati d’epoca la stupidità della reazione dei soldati e dei poliziotti dell’allora Re Giorgio V e del premier Ramsay MacDonald. Che dopo avere sbattuto in galera Gandhi per sedizione, manganellarono forsennatamente i manifestanti (una scelta rovinosa agli occhi della pubblica opinione mondiale) ligi all’ordine del Mahatma: resistenza passiva. Gli inglesi picchiano? “Lasciatevi picchiare”. Winston Churchill, tra i leader allora emergenti dei Tory, rideva nel 1931 di quell’avvocato nato nel Gujarat che si era fatto le ossa in Sudafrica: “È allarmante e nauseante vedere il signor Gandhi, un sedizioso avvocato del Middle Temple, atteggiarsi a fachiro di un tipo ben noto in Oriente, che sale mezzo nudo i gradini del palazzo del viceré...” Anni dopo, rabbioso, dovrà riconoscere che la “marcia del sale” inflisse “un’umiliazione e una sfida tali mai viste da quando gli inglesi misero piede sul suolo asiatico”. Ora, è probabile che Matteo Salvini, iscritto alla facoltà di Storia della Statale di Milano per 16 anni di cui 12 fuori corso (ci scherzò sopra pure lui: “Arriverà prima la Padania libera della mia laurea”) non abbia mai sentito parlare della “Salt march”. Più probabile ancora che la sinistra nostrana non trovi in tempi brevi un Mahatma. Ma la scelta contestatissima di volere a tutti i costi inquadrare nel decreto sicurezza come un reato “anche le condotte di resistenza passiva” è insensata. Tanto più da parte di quella Lega che nel ‘96 strillò indignatissima in difesa di Roberto Maroni che si era opposto “passivamente” (ma non troppo, se l’accusarono d’aver morso un agente) a una perquisizione in via Bellerio. Che seccatura, gli archivi. Sicurezza. Il Governo del manganello di Sergio Segio Il Manifesto, 4 giugno 2025 Il decreto Piantedosi, che ha già ottenuto il voto di fiducia della Camera, è stato definito “fascistissimo” a rimarcarne intenti ed effetti che superano persino il codice Rocco. Mitridatizzati da un ventennio di enfatizzazione della “sicurezza”, sorretta dalla retorica bipartisan di una “cultura della legalità” declinata in chiave di ordine pubblico e di populismo penale, rischiamo infatti di non cogliere appieno l’involuzione autoritaria imposta dall’attuale governo. A differenza dei precedenti (utilmente riepilogati da Livio Pepino: Maroni, 23 febbraio 2009, n. 11; Minniti, 17 febbraio 2017 n. 13 e 20 febbraio 2017, n. 14; Salvini, 4 ottobre 2018, n. 113 e 14 giugno 2019, n. 53; Lamorgese, 21 ottobre 2020, n. 130), l’attuale decreto sicurezza (11 aprile 2025, n. 48), ora al Senato, si inscrive con maggiore coerenza ed evidenza in un progetto di forzatura costituzionale e della democrazia. L’attenzione mediatica e i rilievi critici si sono maggiormente appuntati sull’introduzione di nuove fattispecie di reato (14) e aggravanti (9) e sugli aumenti di pena di cui al Capo I (Disposizioni per la prevenzione e il contrasto del terrorismo e della criminalità organizzata) e del Capo II (Disposizioni in materia di sicurezza urbana), trascurando quanto disposto dal Capo III (Misure in materia di tutela del personale delle forze di polizia e delle forze armate). Queste maggiori tutele si tradurranno in pene aumentate della metà nei casi di violenza, minacce o resistenza nei confronti dei pubblici ufficiali per arrivare addirittura a 16 anni di carcere nel caso di lesioni. Non meno eloquenti e preoccupanti sono le prerogative concesse: la copertura delle spese legali nel caso (in verità assai raro) un agente venisse processato per fatti di servizio e la facoltà di portare fuori servizio senza licenza un’arma diversa da quella di ordinanza. È poi significativo che siano inserite in questo Capo anche misure relative alle carceri e ai centri di trattenimento per i migranti, la cui ratio è di punire in misura abnorme qualsiasi protesta e diventa massima di fronte alle Disposizioni per il potenziamento dell’attività di informazione per la sicurezza (art. 31). Nella formulazione dell’originario disegno di legge vi era persino l’obbligo per le pubbliche amministrazioni, e in particolare per le università, di collaborare con i servizi segreti e di fornire loro informazioni. Non meno allarmanti sono le misure, rimaste nel testo trasferito nell’attuale decreto, che consentono non solo l’infiltrazione di agenti all’interno di associazioni con finalità di terrorismo ed eversione, ma la stessa promozione e organizzazione di tali associazioni, con la garanzia che le identità fittizie di copertura potranno essere mantenute anche in sede processuale. Quanto sia pericolosa e potenzialmente estensibile tale norma ce lo mostra, ad esempio, la vicenda di Potere al popolo di Napoli - per inciso, si tratta di un partito politico democratico e non un gruppo sovversivo - che ha recentemente denunciato la presenza di un poliziotto infiltrato in incognito tra le proprie fila. Alla repressione generalizzata e al “diritto penale del nemico” rivolto alle “classi pericolose”, ovvero a ecoattivisti, dissidenti politici, occupanti di case per bisogno, utilizzatori di cannabis per diletto o per mestiere, lavoratori in lotta, studenti contestatori, madri in carcere, migranti, poveri e marginali in genere, si accompagnano insomma la più classica impunità per le illegalità in divisa e una nuova strategia della tensione, a loro volta funzionali a un processo di fascistissimo irrigidimento liberticida. Contro cui è però forte e crescente la reazione dal basso, come mostra la grande manifestazione a Roma del 31 maggio e il partecipato digiuno a staffetta in corso. I processi mediatici e lo smantellamento della giustizia vera di Pino Corrias vanityfair.it, 4 giugno 2025 In tv, sui giornali e sui social spopola il delitto di Garlasco. Nel frattempo, il ministro Carlo Nordio porta avanti le sue riforme. Mentre sullo schermo collettivo lampeggiano le luci stroboscopiche del caso di Garlasco con effetti stordenti su di noi sollecitati a partecipare da mesi al selvaggio tribunale delle illazioni pubbliche, delle verità controverse, degli indizi mai del tutto veri, mai del tutto falsi, dei colpevoli dell’omicidio di Chiara Poggi che diventano innocenti e viceversa, dei testimoni che ricordano e poi dimenticano, delle impronte che compaiono e scompaiono, procede in parallelo lo smantellamento della Giustizia. Quella vera. Quella che va riformando il ministro Carlo Nordio, ex magistrato in perenne rotta di collisione con l’intera magistratura italiana. Alla quale concede poco o nulla per accelerare i processi, emergenza storica dei nostri tribunali. Poco o nulla per aumentare gli organici e l’efficienza delle procedure, comprese quelle telematiche, due volte introdotte, due volte fallite. Mentre ne offre di nuove per limitarne l’azione penale specialmente contro i reati dei colletti bianchi. Trattandola più da sopruso che da risorsa. Più da interferenza della sfera privata che da tutela della vita pubblica. Si è cominciato con l’abolizione dell’abuso di ufficio, la restrizione dell’applicazione del reato di traffico di influenze, i condoni per i reati fiscali, tutti delitti tipici della pubblica amministrazione e della politica, vittime i cittadini senza potere, senza cordate, senza santi in paradiso, titolari del miracolo delle raccomandazioni. Si è voluto introdurre la limitazione a 45 giorni delle intercettazioni telefoniche e ambientali, con proroghe contingentate, salvo che per reati di mafia, terrorismo, omicidi. Sempre ignorando l’allarme dei magistrati - da Nicola Gratteri a tutti i procuratori antimafia - che si sono affannati a spiegare che tante inchieste partono da reati piccoli e solo nel corso delle indagini intercettano quelli grandi: da una truffa al racket, da un furto a un traffico di droga, da un “postino” a un boss, magari con tempi di investigazione lunghissimi, com’è capitato nel più clamoroso degli ultimi arresti, quello di Matteo Messina Denaro. Arresti che oggi sono decisi da un solo giudice, su richiesta del pubblico ministero, domani da un collegio di tre. Con un preavviso di 5 giorni all’indagato “per evitare l’effetto dirompente sulla vita delle persone - come recita la relazione del ministro - di un intervento cautelare senza possibilità di difesa preventiva”. Non calcolando in quanti avranno il tempo di sottrarsi all’arresto, inquinare le prove, costruirsi un alibi, magari compiendo altri reati. Tutti alleggerimenti ai poteri di investigazione dei magistrati per i reati che riguardano le classi dirigenti. Con nuove norme che limiteranno le cronache giudiziarie dei giornalisti, il divieto di pubblicare le ordinanze di custodia cautelare, salvo “riassumerle” a discrezione del cronista, ignorando il rischio di imprecisioni, forzature, errori. Destinati, anche loro, a trasformare la giustizia nel ricorrente teatro mediatico pieno di equivoci ed emozioni. Vuoto di verità. Pescara. Colpito con il taser in questura muore per arresto cardiaco in ospedale Il Dubbio, 4 giugno 2025 Un 30enne è morto a Pescara, in ospedale al Santo spirito, per un arresto cardiaco. Il ragazzo sarebbe stato portato ieri mattina alle 11 in questura, sempre a Pescara, perché coinvolto poco prima in un alterco in strada, per aver opposto resistenza a pubblico ufficiale, motivo per cui sarebbe stato necessario l’uso del taser. Una volta condotto nelle camere d’attesa per compiere gli atti di polizia giudiziaria, il 30enne ha accusato un malore ed è stato dapprima soccorso sul posto dal 118 e poi trasportato in ospedale per le manovre di rianimazione che non sono bastate per impedire il decesso. Sulla vicenda sono in corso indagini dirette dalla Procura della Repubblica di Pescara delegate alla Squadra Mobile. Secondo gli inquirenti, al momento non è emersa una correlazione accertata tra l’utilizzo del taser e l’arresto cardiaco. Si attendono gli esiti dell’autopsia. Avellino. Il detenuto in stato vegetativo trasferito al centro Don Gnocchi di Paola Iandolo ottopagine.it, 4 giugno 2025 Il 27 giugno inizierà il processo per i dieci imputati accusati di tentato omicidio. Paolo Piccolo, il 26enne picchiato è stato trasferito nel centro di riabilitazione Don Gnocchi di Sant’Angelo dei Lombardi, specifico per le sue condizioni di salute. i familiari il 22 maggio scorso hanno organizzato una protesta civile davanti all’ospedale Moscati di Avellino, per chiedere cure adeguate per il loro congiunto ridotto in fin di vita e che versa, ormai da mesi, in uno stato vegetativo all’ospedale Moscati di Avellino. Affianco ai familiari di Piccolo, anche Carlo Mele e il legale della famiglia, Costantino Ciardiello. La ricostruzione - Massacrato la sera del 24 ottobre nel carcere di Bellizzi Irpino da un gruppo di dieci detenuti, Paolo era rimasto per mesi immobile in un letto dell’Ospedale Moscati di Avellino. Le strutture riabilitative interpellate avevano dato risposte negative per mancanza di posti liberi. Poi si sono susseguiti gli appelli pubblici e finalmente l’atteso trasferimento. Intanto La Procura di Avellino ha chiesto ed ottenuto il giudizio immediato. Il processo inizierà il prossimo 27 giugno per i dieci imputati. Le accuse - I dieci detenuti accusati di aver preso parte al pestaggio di Piccolo rispondono di tentato omicidio aggravato dalla crudeltà, resistenza a pubblico ufficiale e sequestro di persona. Alla luce degli interrogatori di garanzia e anche dalle valutazioni sulla gravità indiziaria da parte dei giudici del Tribunale del Riesame, il rito immediato nei confronti degli indagati oggetto della misura cautelare è stato accolto dal Gip. L’indagine è stata coordinata dal pm Luigi Iglio e dallo stesso Procuratore Domenico Airoma. Torino. 36 anni fa l’incendio nel carcere delle Vallette, la tragedia che costò la vita a undici donne di Carlo Antonio Di Vece torinocronaca.it, 4 giugno 2025 Le vittime furono nove detenute e due agenti di custodia. A causare le fiamme il rogo di trecento materassi altamente infiammabili. Ivana, Rosa, Paola, Lauretta, Lidia, Morsula, Ediita, Beatrice e Radica. Questi i nomi delle nove detenute che, il 3 giugno 1989, persero tragicamente la vita nell’incendio della sezione femminile del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, soffocate dai fumi tossici presenti nel settore. Insieme alle ristrette, anche Rosetta e Maria Grazia, due agenti di custodia, morirono nel drammatico incidente. A distanza di 36 anni dalla tragedia, il ricordo delle 11 donne è ancora vivo, nella speranza che gli incidenti nelle carceri italiani diminuiscano, infatti sono ben 31 quelli accaduti a partire dal 2025 ad oggi. L’incendio scoppiò intorno alle 22.30 di quel tragico giorno, e fu innescato dal rogo di 300 materassi presenti nella struttura, piazzati sotto le finestre della sezione, che erano destinati alle celle, come rimpiazzo di quelli precedenti. L’alta infiammabilità degli strapunti, e il conseguente rilascio di fumi altamente tossici contenenti acido cianidrico e acido cloridrico, fu fatale per le nove detenute e le due guardie. Le undici vittime, infatti, persero la vita in pochissimi minuti, stordite e soffocate a causa delle esalazioni. Per scampare all’incendio, alcune detenute cercarono di chiedere aiuto nella sezione maschile, attraverso l’utilizzo di segnali luminosi, ma per le 11 donne non ci fu nulla da fare. A contribuire alla tragedia l’arrivo in ritardo dei soccorsi sul luogo dell’accaduto e soprattutto la mancanza di un piano antincendio, in una struttura che era stata inaugurata solo da un anno, nata per sostituire Le Nuove, in funzione fino al 1988. Accortezze che avrebbero potuto salvare la vita ad 11 donne. Nel processo condotto per far luce sull’accaduto, portato avanti dall’impegno dell’avvocato delle detenute Bianca Guidetti Serra, non fu attribuita nessuna responsabilità per l’incidente. Le due agenti furono riconosciute dal Ministero dell’Interno come “Vittima del Dovere” e insignite della Medaglia d’Oro al Valor Civile alla Memoria. Dopo l’accaduto, inoltre, alcune detenute furono ritrasferite nel carcere de Le Nuove, in un momento non facile per il penitenziario, poiché all’interno erano presenti i ristretti semiliberi. Reggio Calabria. Primo storico incontro tra la Garante dei detenuti e i sindacati della Penitenziaria di Elisa Barresi ilreggino.it, 4 giugno 2025 Un vertice inedito per costruire un sistema penitenziario più equo, trasparente e rispettoso dei diritti di tutti guardando alle emergenze e le richieste che arrivano da “dentro le mura”. Per la prima volta in Calabria, si è tenuto un incontro ufficiale tra la Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, avvocato Giovanna Russo, e le sigle sindacali della Polizia Penitenziaria. L’incontro ha segnato l’inizio di un dialogo costruttivo volto a migliorare le condizioni di lavoro degli agenti e la tutela dei diritti dei detenuti. Durante la riunione, le parti hanno concordato sulla necessità di redigere un documento e un tavolo permanente, che fissi obiettivi comuni per garantire sicurezza, trasparenza e rispetto all’interno degli istituti penitenziari. L’avvocato Russo ha sottolineato l’importanza di rendere le carceri una “casa di vetro”, dove l’operato della Polizia Penitenziaria sia visibile e valorizzato, promuovendo un dialogo leale e istituzionale. Un incontro, che segna l’inizio di una collaborazione, uno start per un percorso che vuole innovare e rinnovare la giustizia dentro le mura. I sindacati hanno espresso apprezzamento per l’iniziativa, riconoscendo l’importanza di un confronto continuo per affrontare le criticità del sistema penitenziario e migliorare la qualità della vita sia dei detenuti che del personale. L’incontro rappresenta un passo significativo verso la costruzione di un modello virtuoso di welfare penitenziario, basato sulla collaborazione e sul rispetto reciproco. “Sì, sicuramente uno start - ha detto la Russo - ma anche la prosecuzione di quello che è stato un percorso già avviato nel Comune di Reggio Calabria, grazie alla brillante collaborazione dei sindacati della Polizia Penitenziaria. E sento di ringraziare il SINAP, il SUP, l’OSA, la UIL e l’USP, perché non hanno mai mancato di dare sostegno e supporto con la loro politica di correttezza, tanto comunicativa quanto di lettura del sistema penitenziario e delle difficoltà che ci sono, in un’ottica costruttiva di rendere efficaci tanto i criteri di sicurezza entro i quali il trattamento deve essere garantito, seguendo quelli che sono i principi costituzionali di umanizzazione della pena. Ripeto, sono felice. Felice perché la prosecuzione di un cammino vuol dire che è stata tracciata da concretezza, dove si sono condivisi sicuramente intenti e progettualità. E su questo vi terremo sicuramente aggiornati”. Quali saranno, dopo le criticità emerse da questo tavolo, i primi punti su cui vi vedrete coinvolti entrambi a lavorare per migliorare questo sistema? “Sicuramente l’osservanza di quelle che possono essere le criticità quotidiane con le quali impatta il Corpo, comunque coloro che in prima linea sono schierati a tutela e difesa delle persone private della libertà personale. Per questo ufficio non è altro che un punto di osservazione privilegiato, perché abbiamo sempre detto che, lì dove gli agenti - comunque tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria - sta bene, vive bene nel proprio ambiente di lavoro, offre maggiori garanzie a supporto della qualità della vita della persona detenuta, intercettando quali sono e possono essere appunto le peculiarità della vita dei più fragili”. Del sindacato Sinappe, il Vice segretario regionale Daniela Iriti ha confermato che “Abbiamo colto con vero gradimento questo invito della Garante, per l’istituzione di un tavolo tecnico che tratti del mondo penitenziario, un mondo che ha bisogno di attenzione per le problematiche e le criticità che sta attraversando. Siamo molto soddisfatti. Conoscevamo già la dottoressa Giovanna Russo nella sua veste di garante comunale e avevamo già avviato un percorso che ha dato risultati davvero notevoli, come per esempio la chiusura del reparto di osservazione psichiatrica nel plesso San Pietro. Oggi credo sia un inizio importante per l’istituzione di un tavolo tecnico con una visione lungimirante su quella che può essere una risoluzione anche per il mondo penitenziario. Cioè, non vedere più in contrapposizione due mondi, ma cercare di capire come si intersecano le dinamiche tra personale e il mondo prettamente detentivo. Ringraziamo la Garante e cogliamo l’occasione per questa opportunità che ci ha dato. La riteniamo non solo lungimirante, come dicevo prima, ma anche innovativa, perché è la prima volta che viene data questa attenzione al personale e soprattutto alle sigle sindacali, che ovviamente hanno a cuore il benessere del personale. E se il personale sta bene, il carcere funziona meglio. Speriamo di continuare su un percorso virtuoso che porti a risultati importanti, in un buon modo in cui, come definiamo noi poliziotti penitenziari, siamo un po’ come i funamboli: sempre in equilibrio tra sicurezza e trattamento”. Per il Sinappe erano presenti il segretario regionale Fabio Viglianti e il Vice segretario regionale Daniela Iiriti, per il Sappe erano presenti il segretario provinciale Franco Denisi e la segretaria locale Giusy Scordo, per l’Osapp erano presenti il segretario regionale Maurizio Policaro e il segretario locale Silvio Policaro, per la UIL penitenziaria era presente il segretario locale Giancarlo Patamia, per l’Uspp era presente il segretario locale Massimo Musarella. Vicenza. Il carcere cerca volontari, parte il corso di formazione di Claudia Milani Vicenzi ilgiornaledivicenza.it, 4 giugno 2025 Un altro progetto punta a trovare nuovi spazi per i detenuti in permesso con le famiglie. Quattro incontri: un’opportunità formativa “per poter agire in modo più consapevole e quindi incisivo”. Il carcere Del Papa, che secondo l’ultimo rapporto di Antigone a fine aprile contava 357 detenuti (un sovraffollamento ormai cronico visto che la capienza sarebbe di 276) ha bisogno di volontari. Ecco dunque che sta per partire un percorso formativo rivolto sia a chi già dedica del tempo ai detenuti sia a chi vorrebbe farlo in futuro. Un servizio all’interno della struttura ma non solo: anche nella grande rete che agisce all’esterno. A promuoverlo il cappellano don Gigi Maistrello, con la collaborazione della garante dei detenuti Angela Barbaglio e il magistrato di sorveglianza Michele Bianchi. Il programma del corso - Quatto incontri serali che si terranno in seminario (centro Onisto) nel mese di luglio, con cadenza settimanale. Si comincia il 7 alle 20 con “Il carcere: anello decisivo della giustizia”. Il garante approfondirà il tema della “detenzione carceraria” e di come si colloca all’interno di tutto il sistema giudiziario. Il 14 Bianchi affronterà invece il capitolo “Le misure alternative al carcere”. “In uno stato civile, le condanne non prevedono esclusivamente il carcere, - considerano i promotori - ma tutta una serie di provvedimenti alternativi. Nella stessa serata, presentazione di un sogno: la giustizia riparativa”. Il 21 luglio si parlerà di “come relazionarci con i detenuti?” con Livio Dalla Verde, psichiatra; Andrea Nicolin, ispettore carcerario e il cappellano don Gigi Maistrello. Obiettivo sarà quello di rispondere a una domanda molto importante: “Qual è il giusto approccio con un detenuto per una relazione che diventi positiva?” Infine lunedì 28 l’appuntamento sarà dedicato alla conoscenza delle esperienze di volontariato esistenti e a nuove prospettive (Lembo del Mantello, Progetto Jonathan, Papa Giovanni, CSI, Patronato, Servizio Email, San Vincenzo, Coop. Gabbiano, Coop. Elica). La presentazione del nuovo progetto - Sarà infatti presentato il nuovo progetto “Permessi” con la testimonianza dell’associazione “Piccoli Passi” di Padova. “Insieme alla diocesi - ha considerato il cappellano - siamo alla ricerca di una casa per ospitare i detenuti in permesso, accompagnati da volontari adeguatamente formati. Un lavoro che già facciamo. C’è però la necessità di incrementare il servizio. I permessi, per i detenuti, sono fondamentali, perché consentono loro di mantenere i contatti con le famiglie, con le mogli, con i figli”.Le quattro serate del corso in programma nel mese di luglio sono gratuite ma per ragioni organizzative è necessario mandare una mail di adesione a luigimaistrello28@gmail.com. Locri (Rc). Il carcere tra speranza e inclusione di Viola Mancuso gnewsonline.it, 4 giugno 2025 La Casa circondariale di Locri ha ospitato un intenso momento di preghiera e riflessione ecumenica, rivolto alla popolazione detenuta. L’incontro, promosso dal cappellano don Crescenzo Demizio con il sostegno dell’area educativa e della Polizia Penitenziaria, ha visto la partecipazione di rappresentanti di diverse confessioni religiose, a testimonianza di un cammino condiviso di fede e umanità. Tra i presenti, don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, il monaco ortodosso del Monastero di San Giovanni Theristis di Bivongi e padre Enzo Chiodo, delegato diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso. La direttrice del carcere, Valentina Galati, ha espresso gratitudine al Vescovo di Locri Francesco Oliva e a tutti gli intervenuti, sottolineando il valore dell’incontro interreligioso come strumento per infondere speranza nelle fragilità della vita carceraria. “Le fedi - ha dichiarato - aiutano a trasformare il dolore in possibilità di rinascita”. Al centro della riflessione, il messaggio di speranza veicolato da padre Enzo Chiodo che ha illustrato l’icona della Resurrezione cara alle chiese orientali: Cristo che scende agli inferi per liberare i prigionieri. “Dio entra nella nostra fragilità per liberarci” ha detto, invitando i presenti a chiedere con insistenza il dono della pace interiore e a vivere il carcere come una comunità o come una famiglia. Don Grimaldi ha richiamato l’impegno della Chiesa per i detenuti, citando l’esempio di Papa Francesco che ogni Giovedì Santo si è recato per la lavanda dei piedi in un carcere, ed esortando a vivere il tempo della detenzione come occasione di vera libertà interiore, lontano dal passato e aperto al futuro. Don Crescenzo ha ricordato la pluralità religiosa e personale dei detenuti a Locri, lodando il clima di comunione anche con la Chiesa ortodossa. “Ciò che conta è la vicinanza” ha affermato “riconoscendoci tutti fratelli dell’unico Padre”. Il momento si è concluso con una preghiera in lingua rumena sulla Resurrezione e con il Padre Nostro recitato insieme. In cappella, alcune candele accese dai detenuti hanno simboleggiato la luce che resiste anche dietro le sbarre: “Oltre le tenebre, restiamo figli della Luce.” In questa stessa prospettiva di speranza e rinascita si inserisce il progetto 8×1000 “PRO.ME - Profeti di speranza, mendicanti di riconciliazione”, promosso dalla Caritas Diocesana di Locri-Gerace. L’iniziativa testimonia un impegno costante della Caritas nel valorizzare percorsi rieducativi e di inclusione sociale per i detenuti del territorio. Dal 2024 ha, infatti, attivato un laboratorio di confezionamento di saponi all’interno del carcere e grazie al progetto, alcune aziende esterne, tra cui il porto di Roccella Ionica, hanno assunto detenuti per offrire loro la possibilità di apprendere un mestiere e acquisire competenze concrete. Un chiaro segnale di come sia possibile trasformare la vita di chi ha vissuto l’esperienza carceraria, offrendo reali opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. Lecce. “Quartetti dal Carcere”: quando il Dolore diventa Speranza di Valentina Casilli salentonews.com, 4 giugno 2025 Un viaggio intimo e vibrante ha preso vita sabato scorso sul palco delle Manifatture Knos, in uno spettacolo musicale che ha saputo fondere in maniera raffinata e profonda composizioni originali per quartetto d’archi, movimento scenico e parole. Il risultato è stato un’esperienza immersiva, capace di toccare corde emotive sottili e universali. Lo spettacolo, ideato e diretto dal giovane regista e musicista Andrea Scardigno, si configura come un racconto di autentici momenti di vita: una crisi, una lotta, una resa. Il pubblico è stato accompagnato in questo percorso da una scrittura musicale intensa, eseguita dal vivo da un quartetto d’archi che ha saputo evocare fragilità e slanci interiori, tensioni e aperture. A dare corpo e dinamismo alla narrazione, le coreografie firmate da Chiara Scardigno, che con sensibilità e precisione hanno trasformato lo spazio scenico in un territorio espressivo dove il gesto diventa parola, la danza si fa carne del racconto. I corpi, in costante dialogo con la musica e il testo, hanno esplorato le sfumature della vulnerabilità umana, la fatica del risollevarsi, il desiderio tenace di non soccombere. Ogni elemento - suono, movimento, parola - si intreccia con l’altro senza mai sovrapporsi, mantenendo un equilibrio narrativo e sensoriale che rende lo spettacolo un esempio potente di arte interdisciplinare. Il messaggio che ne emerge è forte nella sua delicatezza: esiste una possibilità, fragile ma ostinata, di trasformare il dolore in forma e speranza. In un tempo in cui le crisi sembrano moltiplicarsi, lo spettacolo di Andrea e Chiara Scardigno offre uno spazio poetico e coraggioso per restare, riflettere e - forse - ricominciare. Lucca. Studente e reporter: “Nel carcere non si vive. Si resiste soltanto” di Lorenzo Solaini* La Nazione, 4 giugno 2025 Lorenzo Solaini, alunno della 5^H dello Scientifico, racconta le voci dei detenuti dopo l’esperienza vissuta con il progetto scolastico “Dietro le sbarre”. Nel carcere non si vive. Si resiste - affermano i detenuti -. Il tempo qui non è scandito da orologi, ma da sbarre che si chiudono, chiavi che girano, e passi pesanti che risuonano nei corridoi come tamburi di guerra. Chi sta fuori si immagina la galera come un luogo di punizione, rieducazione, recupero. Ma chi è dentro sa che è solo un luogo dove finiscono quelli che hanno fatto qualcosa di troppo”. Dentro, le storie non si raccontano con vergogna. Si sputano. Senza retorica. Senza filtri. C’è Dario, il nome è di fantasia, che descrive l’istante in cui ha fatto il primo furto. Nessun tremore. Nessun rimorso. Solo necessità, per acquistare droga. Giosuè invece ha raccontato delle sue truffe con lo stesso tono con cui si parla di un lavoro d’ufficio. C’è chi ha fatto tutto per i soldi, o per la droga. Altri per abitudine. Alcuni, semplicemente, perché non sapevano fare nient’altro. Ma c’è anche Tomislav che ha spacciato e rubato quando aveva 17 anni e poi ha lasciato il Paese. Adesso a 40 anni è dovuto rientrare per conoscere la figlia e sconta la pena di vent’anni prima: “Sono cambiato - ha detto -. Ho sbagliato in adolescenza, ma adesso sono cambiato, ma prima o poi le colpe si pagano e le condanne arrivano, ti inseguono, prima solo nei rimpianti e nella vergogna ma poi arrivano vere e schiette anche nella vita”. Poi c’è Andrea, altro nome di fantasia, che è finito dentro per aver maltrattato una donna, la sua donna, e dice: “Ora capisco. Qua dentro ho tutto il tempo per riflettere sui miei errori. Le donne vanno trattate bene, al nostro pari”. La colpa, qui dentro, è materia quotidiana. Non pesa più. È come una seconda pelle. Ci si convive. In certi casi, il carcere è l’unico posto dove queste persone hanno un letto sicuro. Un pasto caldo. Un’identità. Fuori erano nessuno. C’è Marco che racconta: “Io entro ed esco dal carcere da quando avevo 18 anni, oggi ne ho 44. Ormai mi sento a casa. Fino a qualche mese fa quando uscivo andavo da mamma che mi accoglieva e mi voleva bene, nonostante tutto. Ma adesso mamma è morta. Dove andrò? Cosa farò? Meglio stare in carcere dove ormai ho i miei amici, la mia nuova famiglia”. Molti non si sentono criminali. E quando parli con loro, ti rendi conto che quello che per il resto del mondo è ‘una scelta sbagliata’, per loro era l’unica strada possibile. Qualcuno prova ancora rabbia. Altri, solo rassegnazione. Ci sono occhi che ti fissano come se volessero sfidarti a giudicarli. Altri che ti evitano lo sguardo, come se l’ultima cosa che gli resta fosse la vergogna. Quando raccontano le loro storie, lo fanno con una lucidità feroce. Niente lacrime. Pochi ‘mi dispiace’. Solo i fatti. Come sono andati. Con precisione chirurgica. E una sincerità che fa male, perché non cerca redenzione. Solo memoria. E allora ti chiedi: chi può davvero capire cosa succede dentro, se non c’è mai stato? Chi può parlare di giustizia da una poltrona, mentre qualcuno la giustizia l’ha vista solo come un’altra forma di punizione? Dentro si sente tutto più forte: il silenzio, la rabbia, il tempo. Si convive con l’errore come con un parente stretto. Si dorme male, si sogna peggio. Si impara a mentire, ma soprattutto a stare zitti. Perché qui ogni parola può costare qualcosa. Eppure, in mezzo a tutto questo, qualcuno ci prova. A leggere, a studiare, a smettere. Ma non lo dicono a voce alta. Perché qui, sperare è un lusso. Queste sono voci raccolte nella casa circondariale di Lucca. Voci che non dimentichi. Perché il carcere, alla fine, non è un posto. È una condizione. *Studente della 5^H del Liceo scientifico Barsanti e Matteucci Genova. Sport e riabilitazione sociale, la voglia di riscatto dei detenuti di Marassi alla ViviCittà di Emanuela Mortari genova24.it, 4 giugno 2025 Una giornata di sport all’interno della Casa circondariale con l’iniziativa della Uisp. I detenuti: “Una volta usciti purtroppo resta il marchio, dateci una possibilità”. “Mi piace correre, allenarmi, è divertente, lo facevo anche in Senegal” Moussa Thiam è di poche parole, ma gli occhi dicono tutto. Ha appena vinto una gara podistica speciale, tre giri nel carcere di Marassi con una piccola deviazione anche fuori dalle mura della casa circondariale: è la Vivicittà Porte Aperte, iniziativa storica dell’Uisp nazionale che a Genova è organizzata dal 2012 con qualche stop a causa della pandemia. “Nella vita ho fatto solo il buttafuori, ora lavoro qui, in cucina”. Il qui è il carcere di Marassi dove Moussa Thiam è detenuto. Quindici i partecipanti tra coloro che sono vicini a terminare la pena e sono coinvolti in un percorso di riabilitazione personale e sociale. Hanno corso insieme a trenta podisti provenienti dall’esterno (Maratoneti del Tigullio; Gruppo città di Genova; Zena Runners; Team 42195 rappresentato da Emma Quaglia; Atletica Vallescrivia; Team XIX). La manifestazione è inserita nell’ambito del patto di sussidiarietà Vasi Comunicanti, con contributo di Regione Liguria e Cassa delle Ammende. Sul podio, insieme al vincitore, Mehdi Fennoni e Adil El Ghanioui. Anche loro storie difficili, ma anche tantissima voglia di rivalsa che i detenuti affidano a chi, per un giorno, li può ascoltare grazie a questa giornata, completata da un quadrangolare di calcio a cinque promosso grazie a Cdm Futsal a cui hanno partecipato due squadre interne, una formazione della stessa Cdm e una di avvocati, risultata poi vincitrice. Dalle celle che danno sul campetto tanto tifo: “Forza Marassi!” l’incitamento più gettonato. Cdm Futsal svolge un corso di calcio a 5 all’interno del carcere di Marassi dal settembre 2023. Lo sport come momento di condivisione tra il mondo esterno e ‘Marassi’ nell’ottica di creare una sempre più maggiore integrazione tra la città di Genova e la realtà carceraria e coloro che sono in attesa della fine della pena è lo scopo della manifestazione. “Poter correre fuori dalle mura del carcere, anche solo per qualche minuto, ti fa sentire bene, è un’esperienza magnifica, ti senti un’altra persona” racconta Adil che intende dare una svolta alla sua vita una volta uscito. Tra i ragazzi che hanno attaccato il numero di partecipazione sulla maglietta c’è consapevolezza che una volta fuori non sarà facile. “Lo stigma resta e ci sono ancora tanti pregiudizi nei nostri confronti. Chi esce e non ha un lavoro è difficile che lo trovi e allora l’unica ad accoglierti a braccia aperte è la strada” racconta chi per recidiva è rientrato in carcere. “Anche avere una famiglia che ti sostiene nelle fasi successive all’uscita da qui è importante. Chi è solo spesso non ce la fa”. Parole di realismo e che confermano le statistiche: chi viene inserito in una realtà lavorativa prima di uscire dal carcere ha una recidiva del 2%, tra chi non ha un lavoro si impenna tra il 60 e il 70%. Secondo i dati del Cnel, in Italia il 33% dei detenuti risulta coinvolto in attività lavorative (19.153 impiegati nel 2023), ma solamente l’1% di essi è impiegato presso imprese private e il 4% presso cooperative sociali. La stragrande maggioranza, pari all’85%, lavora alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria (talvolta solo per poche ore al giorno o al mese). Fra i detenuti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, l’82,5% svolge servizi d’istituto. La mancata offerta di opportunità lavorative per i detenuti priva lo Stato di un ritorno sul Prodotto Interno Lordo fino a 480 milioni di euro. La direttrice del carcere di Marassi Tullia Ardito conferma: “Sono molti, almeno un centinaio, i detenuti che lavorano all’interno della struttura genovese, tra i 15 e i 20 invece quelli con la formula dell’articolo 21, ossia lavoro esterno, esclusi coloro che sono in regime di semi-libertà”. All’interno del carcere di Marassi ci sono attività come la falegnameria gestita da una cooperativa sociale e presto riaprirà il panificio. “Il problema è che non riusciamo a raggiungerli tutti ? racconta a margine dell’iniziativa Uisp ? vogliamo essere di stimolo, è chiaro che il sovraffollamento non aiuta. Sarebbe bello offrire loro qualcosa di più. La giornata di oggi ci dimostra che è possibile un confronto con la città ed è una testimonianza importante del percorso fatto dai detenuti, non importa la distanza che li separa dalla fine della pena”. Tra gli articoli 21 c’è chi è avviato al mestiere del fabbro, chi a fare l’idraulico “anche se per le persone spesso resti un delinquente e tante volte c’è la paura di uscire proprio per non voler affrontare questo pregiudizio” raccontano i detenuti che confermano l’estremo bisogno di supporto psicologico per chi è in carcere e anche un bisogno di socialità per evitare il senso di paranoia e spaesamento una volta usciti. Anche l’Uisp lavora costantemente nel carcere attraverso il progetto Vasi Comunicanti: attività di yoga, ginnastica, corsi di basket e pallamano. Mariano Passeri è il coordinatore: “Organizziamo anche un corso di arbitri abilitante per i tornei Uisp per poi consentire ai detenuti di finalizzarlo una volta usciti. Abbiamo anche lavorato nelle carceri di Chiavari e nella sezione maschile di Pontedecimo. Siamo contenti per il risultato di oggi, con tantissime persone da fuori che hanno partecipato all’iniziativa insieme ai detenuti. C’è stata grande partecipazione da parte anche dei funzionari e soprattutto del vice direttore della polizia penitenziaria, che ha anche partecipato attivamente correndo. Una sinergia ritrovata dopo il periodo del Covid che ci ha visto dover ripartire praticamente da zero con questo momento così importante. Quest’anno abbiamo scritto una pagina importante di quelle che sono le relazioni e le attività che, come Uisp, da anni portiamo avanti all’interno della casa circondariale di Marassi. Ringrazio Cdm Futsal, che oltre a fare un lavoro prestigioso durante l’anno, ci aiuta nella gestione della ViviCittà quindi direi una vittoria, un punto di ripartenza. Il prossimo anno sicuramente potremo ancora andare a puntellare questa iniziativa aggiungendo magari anche un percorso con le scuole, portando sempre un po’ più avanti l’asticella. Perché è giusto che le persone che stanno vivendo un momento di difficoltà abbiano attraverso attività esterne, soprattutto attraverso lo sport, la possibilità di rimettersi in gioco e di iniziare, già dentro, un percorso che li vedrà, una volta usciti, riprendersi in mano la propria vita, darsi nuovi stimoli e migliorare sicuramente le loro condizioni”. “Il progetto Vasi Comunicanti va proprio in questa direzione ? conferma Manuela Facco, settore Politiche Sociali, Terzo Settore, Immigrazione e Pari Opportunità Progettazione, integrazione servizi e risorse della Regione Liguria nel momento della premiazione ? l’obiettivo è proprio di aumentare questi momenti di condivisione per preparare il detenuto alla prospettiva dell’esterno. Stiamo cercando di coinvolgere sempre di più tutte le comunità territoriali”. Il programma si sviluppa su tre anni, con un finanziamento di un milione e 800 mila euro (600mila euro per ogni annualità) assegnato alla Liguria dalla Cassa delle Ammende, accompagnato con un co-finanziamento di 540 mila euro da parte della Regione. L’evento Vivicittà Porte Aperte è stato organizzato non solo grazie alla disponibilità di molti associati Uisp, tra podisti e staff, ma anche grazie alla collaborazione della direzione, del personale del carcere di Marassi e della polizia penitenziaria. Roma. L’AIGA e i detenuti: a Rebibbia lo sport come veicolo di reinserimento Il Riformista, 4 giugno 2025 Il calcio come veicolo concreto di solidarietà, di inclusione e di speranza. È con questo spirito che lo scorso 30 maggio, presso il carcere di Rebibbia Nuovo Complesso, è andata in scena la partita tra la Sezione di Roma dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati e una rappresentativa di detenuti dell’istituto penitenziario. L’iniziativa si è svolta nell’ambito del progetto “Gioco di squadra”, nato dall’attività dell’Osservatorio Nazionale sulle Carceri (Onac) dell’AIGA patrocinato dalla S.S. Lazio. La partita disputata a Rebibbia rientra in una serie di gare in diversi istituti penitenziari della regione, come voluto da Elisabetta Cucciniello, referente dell’ONAC del Lazio, e da Fabiola Rossi, coordinatrice regionale di AIGA Lazio. Fine ultimo è quello di sottolineare la funzione rieducativa della pena attraverso la promozione del valore dello sport come potente veicolo di dialogo, di reinserimento, di rispetto delle regole. In questo contesto, lo sport, come sottolineato dallo stesso ministro della Giustizia Nordio, “ricopre un ruolo essenziale ai fini della rieducazione” e può offrire ai detenuti l’opportunità di vivere un momento di normalità e di relazione con l’esterno. A rappresentare la Sezione di Roma di AIGA erano presenti il presidente Giulia Guagliardi, la referente ONAC regionale, Elisabetta Cucciniello, il segretario Giulia Tomassini, il tesoriere Anna Napoli, il consigliere Marta Cavallo. In campo, per la squadra degli avvocati, sono scesi: Giuseppe Murone, Marco Gabriele, Andrea Fatiga, Damiano Francesco Pujia, Ettore Colelli Riano, Filippo Napoli, Francesco Comandini, Gianmarco Lettieri, Giuseppe Azzaro, Mario Ceravolo, Mattia Ceravolo e Simone Savino. A sottolineare il senso più profondo della giornata, le parole del capitano della squadra dei detenuti: “Giocare con persone che vengono dall’esterno è come aprire una finestra a metà”. Ha preso parte all’iniziativa anche il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Prof. Stefano Anastasia, che ha voluto testimoniare, con la sua presenza, l’importanza di attività che possano aprire spazi di umanità e crescita all’interno degli istituti di pena. “Un ringraziamento speciale - affermano i vertici di AIGA e ONAC - va al Direttore del carcere, dottoressa Mascolo, e al Direttore Sportivo della SS Lazio, Angelo Fabiani, che ha donato all’Istituto 4 palloni da calcio ufficiali e una maglietta autografata dai giocatori biancocelesti. Un grazie anche alla Errebian, che ha realizzato le divise della nostra squadra e che ha creduto in nel valore di questo progetto”. Fabiani ha ricordato l’importanza della diffusione fra la popolazione reclusa dei principi che sottendono alla cultura sportiva e ha ricordato l’impegno sociale della S.S. Lazio tramite l’accordo di collaborazione firmato con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel 2024, finalizzato a coinvolgere i detenuti nello svolgimento di attività sportive e, insieme, a migliorare la socializzazione all’interno degli istituti. Trieste. Presentazione libro “44 Quarantaquattro 44. La consapevolezza dei diritti in carcere” di Enrico Sbriglia Ristretti Orizzonti, 4 giugno 2025 Il 18 giugno, presso il Circolo della Stampa di Trieste, Corso Italia, n. 13, alle 17:30, l’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste presenterà il libro, di cui ho curato l’edizione, 44 Quarantaquattro 44- La consapevolezza dei diritti in carcere. L’esito di una ricerca, condotta in quattro carceri, Trieste, Gorizia, Pesaro e Modena, probabilmente la prima in Europa, con la quale si chiede alle stesse persone detenute di descrivere quali e cosa siano i diritti umani, politici, civili...in due dei quattro istituti vi erano state, precedentemente, delle rivolte violente, con la morte di detenuti. La ricerca è stata finanziata dalla benemerita Fondazione Casali, comprendendo l’importanza civile di realizzarla. Nell’immagine il libro, su di esso la Costituzione e sulla stessa gli antichi “ferri”, che serravano i polsi dei prigionieri, di lato a sinistra il mio libro “Captivi”. Presentatore e discussant il Presidente del Circolo, giornalista sempre attento al tema della legalità, Pierluigi Sabatti, gli interventi del Vicepresidente dell’Osservatorio, Prof. Emerito Roberto E. Kostoris, dei componenti, Prof. Pierpaolo Martucci e Avv. Soraya Pedone, che mi hanno donato intelligenza e sensibilità nella realizzazione di questa testimonianza di impegno civile, il cui solo fine è quello di fare conoscere, perché non si dica “non sapevo”. Vi aspettiamo con amicizia. Referendum. Un passo avanti e due indietro di Vincenzo Vita Il Manifesto, 4 giugno 2025 Se si scrutano con certosina pazienza i dati resi dallo storico Osservatorio di Pavia sulla copertura radiotelevisiva dei referendum, forse si potrebbe trarne qualche auspicio favorevole. Intendiamoci. Siamo a livelli percentuali solo appena più alti di quelli in precedenza pubblicati dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (9 aprile-10 maggio 2025). Qualcosa, insomma è migliorato. Pochissimo, però. Ma davvero un’inezia, anche se la collocazione negli ultimi giorni sulla Rete 1 del servizio pubblico delle tribune certamente si è rivelato utile. Vanno persino decorosamente in generale proprio le tribune, che potrebbero -se ripensate adeguatamente- riacquisire ruolo e centralità. In fondo, non sono teoricamente contenitori così diversi dai talk. Basterebbe riscriverne struttura e sintassi. Si manterrebbe la par condicio, ma attraverso un filo di discorso narrativo e legato all’attualità. Da anni lo si propone, ma scalfire gli apparati consolidati è arduo. Del resto, la Rai difficilmente ragiona nei termini di un’azienda competitiva, lasciando ormai - con l’eccezione di Report, Presa Diretta, Il cavallo e la torre, Petrolio e poco più - all’universo privato le trasmissioni di maggiore coinvolgimento emozionale. Se qualche cifra migliora, la sostanza rimane negativa. Ciò che è mancato clamorosamente è l’approfondimento sui temi evocati dai cinque quesiti referendari. In tale consultazione ha maggiore importanza la spiegazione dei testi, liberandoli dall’inevitabile stile leguleio e burocratico di cui sono permeati. Si sente la mancanza di quell’opera di divulgazione che pure nei palinsesti qua e là si rintraccia. Se è vero che i referendum costituiscono un potere previsto e sancito dalla Costituzione repubblicana, il dibattito pubblico richiede un impegno particolare. Mancano poche ore al voto dell’8 e 9 giugno, è vero. Ma la fantasia e la creatività - quando si vuole - salvano anche le situazioni compromesse. Perché non dedicare una rilevante parte della programmazione di domani e venerdì ai referendum? Una maratona utile a fornire strumenti cognitivi alle cittadine e ai cittadini. Altrimenti, i confronti sembrano atti dovuti, buoni solo per non prendere multe salate dall’Agcom. La moral suasion riguarda pure le emittenti private, persino meno attente della Rai. Quanto ai dati, non è lecito che le percentuali e i minutaggi sulle coperture referendarie non abbiano una cadenza regolare e tempestiva. Senza i dati aggiornati viene meno il diritto di critica e di proposta. Nelle ultime giornate si sono esibite personalità del governo e delle istituzioni, a cominciare da Giorgia Meloni, sulle diverse sfumature del non voto. A parte il grottesco della battuta infelice sull’andata al seggio senza ritirare le schede, c’è da sottolineare che il voto è un dovere, soprattutto per chi ha una collocazione di potere e rappresenta quote di società. Astensionismi, fuga dalle urne e qualunquismi sono iniettati dall’alto, secondo una tendenza reazionaria in corso e cui non sfugge l’Italia. Per aggiungere un’ulteriore proposta: si rendano note le tabelle sia dell’Agcom sia dell’Osservatorio di Pavia. Già oggi. Altrimenti è troppo tardi. Infine, in base alle stesse disposizioni dell’Autorità, si vigili sul comportamento dei social e degli influencer. Oltre che sul silenzio elettorale. L’articolo 10 della legge 28 del febbraio 2000 (par condicio) attribuisce facoltà di intervento diretto all’Agcom. Ci si attende un’azione coerente con le sue medesime dichiarazioni impegnative da parte del presidente Giacomo Lasorella. E, analogamente, si auspica una presa di posizione da parte della stessa presidente della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai Barbara Floridia. Attenzione. Inerzia e silenzio sono colpevoli e non c’è indulgenza plenaria che tenga. I referendum non hanno bisogno di sceneggiate istituzionali di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 4 giugno 2025 Con tutti i condizionamenti esistenti, spetta agli elettori e ai loro rappresentanti eletti cercare di sventare i più o meno sottili tentativi di restringimento della democrazia. Anche se in democrazia si presenteranno altre opportunità, meglio cominciare già dalla occasione offerta dagli imminenti referendum dell’8 e 9 giugno. Il referendum costituzionale non ha quorum. Pertanto, la sua validità non dipende dalla percentuale di votanti, dalla partecipazione al voto della maggioranza assoluta degli aventi diritto. I costituenti ritennero che, dopo due letture del testo in entrambe le camere a distanza di almeno tre mesi, gli elettori avessero/avrebbero acquisito informazioni sufficienti per esprimere, o no, il loro voto. Parlamentari, uomini e donne di partito, associazioni e, non da ultimo, i mezzi di comunicazione di massa, oggi aggiungeremmo le reti, i social, sarebbero stati in grado di suscitare abbastanza interesse e di spiegare l’importanza del voto spingendo alla partecipazione. Opportuno e giusto che gli elettori interessati, informati, partecipanti venissero poi premiati. Chi vota conta e decide se approvare o respingere la revisione costituzionale. Possiamo legittimamente sostenere che almeno una parte degli elettori che non si è recata alle urne lo ha fatto consapevolmente affidando l’esito ai partecipanti. Sulle spalle dei promotori - L’articolo 75 della Costituzione stabilisce che il referendum, richiesto per abrogare, in maniera “totale o parziale”, “una legge o un atto avente valore di legge”, è valido “se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto”. L’onere della diffusione dell’informazione sul quesito referendario e sulle conseguenze dell’abrogazione, ma soprattutto l’arduo compito di convincere la maggioranza assoluta dell’elettorato italiano a partecipare al voto, viene posto interamente sulle spalle dei promotori. Sono loro che debbono trovare le modalità operative e le argomentazioni mobilitanti per sconfiggere coloro che, fra furbizia e opportunismo, si esprimono a favore dell’astensione dal voto. La furbizia consiste nel trarre vantaggio dall’astensionismo “cronico” già abbastanza elevato che, imprevedibile e non previsto dai costituenti, conferisce un notevole, immeritato, vantaggio iniziale a chi mira a impedire il raggiungimento del quorum. Sanno che a quorum conseguito perderebbero. Opportunisticamente fanno leva su e sfruttano disinteresse e disinformazione che non sono le migliori qualità degli elettorati in democrazia. Meglio se le autorità istituzionali, come il presidente del Senato, non si ponessero alla testa degli astensionisti (ma non sopravvalutiamo il loro seguito). Quanto all’annuncio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si recherà al seggio, ma non voterà, non è soltanto uno spettacolo mediatico, una sceneggiata, che verrà coronata da un più o meno grande numero di foto e di riprese televisive. In attesa di saperne di più, che cosa farà Meloni in quel seggio, oltre a intralciare le operazioni di voto (nel qual caso diventa auspicabile, procedere al suo sgombero), è un modo di deridere chi ha impegnato parte del suo tempo e delle sue energie? Certo non di dare dignità alla politica, di assumersi qualche doverosa responsabilità istituzionali, di riconquistare credibilità anche per gli strumenti, come per l’appunto il referendum, di democrazia diretta. Intenzionalmente, nell’annunciato comportamento di Meloni non c’è nulla di tutto questo. Piuttosto, si rivela una concezione di democrazia nella quale ridurre comunque il potere degli elettori. Questa concezione si è già manifestata nella forte propensione ad abolire il ballottaggio per le elezioni municipali e regionali, e ha raggiunto il suo culmine nel disegno di legge costituzionale per l’elezione popolare del presidente del Consiglio, il cosiddetto “premierato” (pienamente suscettibile di referendum costituzionale) senza che si sappia con quali specifici meccanismi elettorali procedervi. Con tutti i condizionamenti esistenti, spetta agli elettori e ai loro rappresentanti eletti cercare di sventare i più o meno sottili tentativi di restringimento della democrazia. Anche se in democrazia si presenteranno altre opportunità, meglio cominciare già dalla occasione offerta dagli imminenti referendum dell’8 e 9 giugno. *Accademico dei Lincei Una terza via per i referendum di Antonio Polito Corriere della Sera, 4 giugno 2025 Tutte le posizioni sono legittime. Ma la premier ha scelto la via di fuga. Bisogna però intervenire su uno strumento in crisi. Immaginiamo per un attimo che gli italiani decidano in massa di seguire l’indicazione della loro presidente del Consiglio. Che quindi domenica si mettano in fila ai seggi, salutino presidenti e scrutatori, forniscano il documento d’identità e poi voltino le spalle rifiutando le cinque schede referendarie. Sarebbe serio? Sembreremmo un popolo vagamente schizofrenico. Basterebbe insomma prendere in parola Giorgia Meloni per capire che stavolta non va presa in parola. E questo non è mai un buon risultato per un primo ministro. Naturalmente l’appello all’astensione, checché ne dicano i promotori dei referendum, è perfettamente legittimo. La Costituzione definisce sì il voto un “dovere civico”, ma la legge non sanziona chi non vota: è dunque un “dovere”, ma non un “obbligo”. Inoltre, astenersi può anche essere un modo di esprimere il proprio orientamento. È infatti la Costituzione stessa a fissare un quorum elevato affinché la consultazione sia valida (il 50% più uno degli aventi diritto); con ciò accettando implicitamente che ci si possa opporre ai quesiti referendari anche non recandosi alle urne. La “ratio” di questa norma è peraltro molto democratica: i “padri fondatori”, cui di solito si riconosce il merito di aver scritto “la Costituzione più bella del mondo”, erano infatti consapevoli del rischio che una minoranza di cittadini potesse cancellare una legge votata dalla maggioranza del Parlamento, che rappresenta tutti gli italiani. E così lo impedirono. D’altra parte, in questa stessa tornata referendaria anche numerosi dirigenti del Pd hanno annunciato che rifiuteranno al seggio le schede dei quesiti che non condividono. E in passato hanno fatto appello all’astensione su singoli referendum icone della sinistra come Sergio Cofferati o premier in carica come Matteo Renzi. Non è dunque questo il problema. Il problema è che da ormai trent’anni i cittadini, alcuni consapevolmente e molti per ignavia, si rifiutano di decidere con un sì o con un no su materie complesse e quesiti multipli, spesso poco comprensibili (con l’unica rilevante eccezione del no al nucleare e del sì all’acqua pubblica, quorum raggiunto nel 2011). Gli astensionisti possono vantare anche qualche ragione. Per esempio: nel caso dei tre referendum sul Jobs Act di domenica prossima, a parte la stranezza che fu il Pd a varare quella legge e ora è il Pd a volerla abrogare, è dubbio che sia saggio tornare a norme del mercato del lavoro di un tempo che non c’è più. Oggi mancano i lavoratori più che le offerte di lavoro, e i rischi di licenziamenti arbitrari da sanare con l’obbligo del reintegro si sono di conseguenza molto ridotti. Per questo cala la disoccupazione e anche la percentuale di contratti a tempo determinato (dal 17% al 13% in tre anni): perché le imprese tendono piuttosto a trattenere i loro dipendenti. I licenziamenti dei cosiddetti “precari” sono diminuiti di un quarto rispetto a prima del Jobs Act. Allo stesso tempo, paradossalmente, tornare a una norma del passato sul numero di anni necessari per chiedere la cittadinanza può risultare invece una proposta proiettata nel futuro. Il limite dei cinque anni che uno dei referendum vuole reintrodurre al posto dei dieci attuali (diventano poi anche tredici per i ritardi burocratici nella concessione), è infatti esistito in Italia per ottant’anni, perfino durante il fascismo; ma è oggi la soluzione più diffusa in Europa per facilitare l’integrazione degli stranieri. I quali comunque devono farne richiesta, conoscere la nostra lingua, pagare le tasse, dimostrare un reddito minimo e una fedina penale pulita. Questi giudizi sui diversi quesiti sono ovviamente opinioni di chi scrive, dunque opinabili per definizione. Ma dimostrano che si possono trovare buone e cattive ragioni in ciascuno dei referendum. Non a caso anche l’opposizione è divisa tra chi darà un solo sì, chi due, chi quattro e chi cinque. Nella sua funzione istituzionale, la premier Meloni avrebbe perciò dovuto scegliere una di queste due strade. O tenersi completamente fuori dalla battaglia referendaria, che tra l’altro non riguarda il governo, e lasciare al libero gioco democratico di determinarne il risultato. Oppure, vestendo i panni del leader politico, intervenire per indirizzare il comportamento degli elettori, anche a favore dell’astensione, ma argomentando però su ogni singola materia perché è favorevole o contraria; per esempio difendendo le regole sul mercato del lavoro che hanno favorito l’occupazione, come ha notato Ferruccio de Bortoli. In questo modo avrebbe contribuito al dibattito democratico, e così indirettamente all’affluenza. Optando per un “ci vado ma non voto”, Giorgia Meloni evita certo di ripetere il clamoroso errore politico di Bettino Craxi, che invitò gli elettori ad andare al mare nel 1991, e invece quelli andarono alle urne. Ma viene anche meno al precetto evangelico che richiede sincerità e coerenza: “Il vostro dire sia sì sì, no no, il di più è del maligno”. Ci sarebbe poi una terza via che maggioranza e opposizione potrebbero seguire insieme per riparare alla crisi di questo importante strumento di democrazia diretta. La facilità con cui oggi si raccolgono le firme online spinge infatti a usarli per campagne di mobilitazione politica a basso costo, anche se destinate fin dal principio a non fare il quorum. Il rimedio sarebbe alzare il numero delle firme e abbassare il quorum. Una proposta esiste da tempo: fissarlo alla metà più uno dei votanti alle precedenti elezioni politiche, sterilizzando così l’astensionismo da apatia e ridando credibilità alla competizione. Ma chi vuole davvero salvarli i referendum? Senza testo né accordo, altro giro a vuoto sul fine vita. E spunta l’ipotesi di un giudice tutelare di Francesca Spasiano Il Dubbio, 4 giugno 2025 Ancora una fumata nera nel Comitato ristretto del Senato: se ne riparla la settimana prossima. Bazoli (Pd) abbandona la riunione: “Basta teatrino”. E Fratelli d’Italia rilancia sul ruolo del servizio sanitario nazionale. Il testo che non c’è sul fine vita galleggia ancora nel mare increspato del Comitato ristretto al Senato. Dove si procede per piccoli passi, una fumata nera dietro l’altra, alla ricerca di un punto di partenza, prima che di un approdo. L’obiettivo dichiarato dalla maggioranza è arrivare in Aula il 17 luglio con un disegno di legge “condiviso”. Ma il tempo stringe, e un accordo, di fatto, è lontano: sia con le opposizioni, sia dentro il centrodestra. Ovvero tra i due relatori della legge, Pierantonio Zanettin di Forza Italia e Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia. Ancora oggi, la riunione a Palazzo Madama si è conclusa con un nulla di fatto, tra le proteste del dem Alfredo Bazoli, che ha abbandonato in anticipo il Comitato delle commissioni Affari sociali e Giustizia lamentando l’ennesima “finta” discussione a vuoto. “È un teatrino”, dice il senatore del Pd raggiunto al telefono. Un modo per tergiversare e “nascondere l’incapacità del centrodestra di prendere una direzione di marcia chiara”. Come dimostrerebbe anche il fatto che all’incontro era presente un solo esponente della maggioranza, Erika Stefani della Lega. Oltre ai relatori e al presidente della decima commissione, il meloniano Francesco Zaffini. Segno della “trascuratezza” con cui il centrodestra affronta il tema, commenta Bazoli, che parla di “vergogna infinita e senza confini”. Questo non vuol dire che non si presenterà alla nuova riunione in programma per la prossima settimana: l’ultima chance, forse, per un testo base dopo cinque mesi di stallo. Gli unici punti fermi, discussi anche oggi, sono gli stessi dello scorso marzo, quando sul tavolo è arrivata la bozza composta da due articoli: il primo ribadisce che il diritto alla vita è inviolabile e indisponibile, l’altro aggiunge un percorso di cure palliative come requisito di accesso al suicidio assistito. Resta l’obiezione di chi teme che tali cure non potranno essere garantite nello stesso modo a tutti i pazienti e in tutta Italia e che non possano essere un trattamento obbligatorio. Ma soprattutto c’è il tema posto da Fratelli d’Italia, che vorrebbe escludere il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale dai percorsi di fine vita. In che modo? Con l’escamotage filtrato oggi: un’ipotesi di “mediazione” che affiderebbe al giudice tutelare la decisione caso per caso, una volta acquisito il parere del comitato medico-scientifico. “Aprire il fine vita al tema dell’obiezione di coscienza è un tema veramente complicato, come abbiamo visto già la 194, apre scenari non appetibili, non democratici, non civili. Uno non è che deve fare il turismo della morte”, dice Zaffini a margine della riunione. “Bisogna trovare una via diversa”. Una di queste potrebbe essere la possibilità posta sul tavolo da Ignazio Zullo, che interpellato dal Dubbio spiega in che termini dovrebbe intervenire il giudice tutelare. “Si poneva la questione - dice il senatore di FdI -, se non fosse prudente che a fornire l’aiuto al suicidio possa essere anche una persona laica”: un familiare, ad esempio, ma non un medico. Il giudice subentrerebbe quando ciò non è possibile, “per impegnare professionalità mediche o sanitarie”. Ad ogni modo si tratta “di un ragionamento, non di una decisione”, precisa Zullo. Il quale nega che il centrodestra voglia bloccare la legge: “Si sta lavorando - dice -, altrimenti non avremmo lavorato”. Quello sul Ssn resta comunque un rebus complicato: il rischio è di privatizzare l’accesso al fine vita, pagando un medico perché fornisca l’aiuto a morire. Come sottolinea anche Bazoli, autore del testo sul fine vita naufragato nella scorsa legislatura dopo la caduta del governo, per il quale l’idea di affidare la decisione a un giudice sarebbe un “errore di grammatica”: la legge ha senso se delega a un organo competente la supervisione - argomenta il dem - diversamente non avremmo alcuna garanzia e uniformità di trattamento. Senza considerare che è la Corte Costituzionale, con la sentenza 242 del 2019 sul caso Cappato/Dj Fabo (che ha in parte legalizzato l’accesso al suicidio assistito) a prevedere il ruolo del servizio sanitario nazionale. Nel campo delle opposizioni, a parlare di “ennesimo teatrino della destra sulla pelle dei malati” è anche il senatore di Alleanza Verdi e Sinistra Tino Magni. Mentre la senatrice del M5S Mariolina Castellone ribadisce che da parte del Movimento “c’è tutta la disponibilità a lavorare insieme per dare una legge sul fine vita al Paese”. “Sui nodi oggetto di discussione la nostra posizione è chiara: il percorso del fine vita deve essere gestito nel Servizio sanitario nazionale e non si può inserire l’obbligo di trattamento in percorsi di cure palliative. La maggioranza non trovi alibi”, dice l’esponente pentastellata. Come evolverà la discussione lo scopriremo presto. Ma a muoversi non c’è soltanto il Parlamento. In attesa che la Consulta decida sulla legge della Regione Toscana impugnata dal governo, giovedì l’Associazione Luca Coscioni depositerà presso la Corte di Cassazione la proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia sul modello di Olanda, Belgio, Lussemburgo e Spagna. Si chiamano a raccolta i cittadini, come pensa di fare anche Macron in Francia con un referendum. Il tutto mentre la questione, in Italia, resta in mano ai tribunali: proprio domani, a Firenze, si aprirà dinanzi al gup il processo nei confronti di Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese dell’Associazione Coscioni per aver accompagnato Massimiliano in Svizzera nel 2022. Una disobbedienza civile per la quale rischiano da 5 a 12 anni di carcere Migranti con figli minori, non è favoreggiamento di Emilio Minervini Il Dubbio, 4 giugno 2025 La Corte Ue ribalta le accuse a carico di una donna che aveva cercato di portare con sé due bambine in fuga. “Il cittadino di un paese terzo che entra illegalmente nell’Unione europea non può essere sanzionato per favoreggiamento dell’ingresso illegale per il solo fatto di essere accompagnato dal figlio minorenne”. Ha deciso così la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza C- 460/ 23. La parola spetta ora ai giudici del Tribunale di Bologna, che dovranno decidere rispettando l’interpretazione della Corte. Ventisette agosto 2019, Bologna, il sole batte sulla rovente pista di atterraggio dell’aeroporto Guglielmo Marconi. Una donna, accompagnata dalla figlia di 8 anni e dalla nipote di 13, scende lentamente la scaletta dell’aereo che da Casablanca le ha condotte al capoluogo emiliano. Arrivata allo sportello di frontiera per i non residenti Ue la donna viene arrestata. I passaporti senegalesi presentati alla frontiera sono falsi. O. B. (queste le iniziali della donna, il cui nome era stato inizialmente reso noto) viene arrestata con l’accusa di favoreggiamento all’ingresso illegale di due minori, reato punito ai sensi dell’articolo 12 del Tui (Testo unico sull’immigrazione) con la reclusione da 2 a 6 anni. Le vengono inoltre contestate le aggravanti d’utilizzo di servizi internazionali di trasporto o documenti falsi, che le avrebbero comportato un aumento della pena fino a un totale di 15 anni di reclusione. O. B. dichiara di essere fuggita dal Congo a causa delle minacce di morte subite da lei e dalla sua famiglia da parte dell’ex compagno. Temendo per la sua sicurezza, quella della figlia e della nipote, affidatale a seguito della morte della madre di quest’ultima, decide di lasciare il Paese e portare con sé le due bambine. Poco tempo dopo O. B. presenta una domanda di protezione internazionale. Su istanza della difesa di O. B., il Tribunale di Bologna solleva la questione di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 63 del 10 marzo 2022, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 12 comma 3 lett. d) del D. lgs. 25 luglio 1998 n. 286, limitatamente alle parole “o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti”, stabilendo l’illegittimità delle aggravanti contestate a O. B. per violazione del principio di proporzionalità della pena. A seguito della pronuncia della Consulta, il Tribunale di Bologna accoglie l’istanza di rinvio pregiudiziale, avanzata dalla difesa dell’imputata, sottoponendo così allo scrutinio della Corte di giustizia dell’Unione europea la condotta di O. B., chiedendo se la stessa possa rientrare nella fattispecie di comportamenti illeciti di favoreggiamento dell’ingresso illegale, ai sensi della Direttiva 2002/ 90/ Ce, e possa essere perseguita penalmente. Ieri la corte ha risposto in senso negativo. La decisione dei giudici del Lussemburgo stabilisce che “la condotta di una persona che, in violazione del regime di attraversamento delle frontiere, fa entrare nel territorio di uno Stato membro minori cittadini di paesi terzi che l’accompagnano e di cui è effettivamente affidataria, non rientra nei comportamenti illeciti di favoreggiamento dell’ingresso illegale ai sensi del diritto dell’Unione”. La condotta in esame costituisce infatti l’esercizio della responsabilità della persona nei confronti dei minori, in virtù del legame genitoriale e dell’affidamento effettivo degli stessi. Un’interpretazione in senso contrario pregiudicherebbe il diritto al rispetto della vita familiare e dei diritti fondamentali del minore, sanciti rispettivamente dagli articoli 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. “La Corte risponde, in secondo luogo, che il diritto dell’Unione osta a una normativa nazionale che sanziona penalmente tale condotta”. La portata dell’illecito di favoreggiamento all’ingresso illegale, secondo la definizione del diritto dell’Ue, non può essere estesa dai singoli Stati membri con l’inclusione di comportamenti non previsti nella definizione, l’eventuale estensione sarebbe in violazione della Carta. Il rinvio pregiudiziale ha permesso ai giudici del Tribunale di Bologna d’interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione. La decisione della Corte però non risolve la controversia nazionale, non discende come un deus ex machina sullo scranno del giudice, esautorandolo del suo potere giudicante. Sarà il giudice nazionale, alla luce dell’interpretazione offerta dalla Corte e in conformità di questa, a dover risolvere la causa. La decisione vincola allo stesso modo gli altri giudici nazionali cui venga sottoposta una controversia simile. La decisione della Corte costituisce un importante precedente e mette in discussione l’impianto normativo del Facilitors’ Package, l’insieme di norme composto dalla Direttiva 2002/ 90/ Ce e dalla Decisione Quadro 2002/ 946/ Gai, che offrono la definizione del reato di favoreggiamento dell’ingresso, transito e soggiorno illegale e fornisce orientamenti sulle sanzioni applicabili. Impianto che potrebbe essere oggetto di una profonda revisione. Migranti. Gjader, lo rimpatriano anche se è vulnerabile. Parte l’esposto di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 giugno 2025 La denuncia dell’avvocato dell’uomo e di due deputate Pd. Quando lo hanno deportato nel Cpr di Gjader aveva subito manifestato problemi psichiatrici. Dieci giorni più tardi, il 19 maggio scorso, ha ingoiato dei pezzi di vetro “in segno di protesta”. Così il suo avvocato Gennaro Santoro ha chiesto una visita per certificare “l’idoneità alla vita in comunità ristretta”, ovvero l’esame medico necessario ad autorizzare il trattenimento. Dopo vari ritardi burocratici la Commissione presieduta dall’Usmaf - gli Uffici di sanità marittima, aerea e di frontiera che fanno capo al ministero della Salute - ha finalmente stabilito che si trattava di un soggetto a rischio. Là dentro non doveva stare. Siamo al 28 maggio ma il giorno precedente il 32enne algerino, arrivato in Italia da minorenne, era già stato imbarcato su un aereo: dopo uno scalo a Roma lo hanno riportato ad Algeri. “Le autorità mi hanno informato di dove si trovasse il mio assistito solo dieci giorni dopo la prima richiesta, a rimpatrio avvenuto - afferma Santoro - Un’azione illegittima, dal momento che questa persona viveva una evidente condizione di vulnerabilità, come poi è stato effettivamente comprovato dalle autorità sanitarie”. Il caso è finito al centro di un’interrogazione parlamentare depositata ieri dalle deputate Rachele Scarpa e Debora Serracchiani, del Partito democratico. Nel testo viene sottolineato come nei primi 40 giorni della seconda fase del protocollo, quella che da fine marzo ha esteso i centri ai migranti “irregolari”, ben 16 persone siano state dichiarate inidonee al trattenimento per ragioni sanitarie. Nello stesso periodo nel Cpr si sono contati 2,7 eventi critici ogni 24 ore. Segno che all’interno la situazione si è rapidamente deteriorata, avvicinandosi a quelle terribili delle strutture di detenzione amministrativa presenti sul territorio italiano. Adesso l’avvocato Santoro sta preparando un’azione legale con cui chiederà il risarcimento danni e il visto di reingresso per l’uomo. Nei prossimi giorni, intanto, diventerà più chiaro cosa ha intenzione di fare il governo con i trattenimenti oltre Adriatico. La scorsa settimana il rinvio alla Corte di giustizia Ue della Cassazione ha, di fatto, affondato anche la seconda fase del protocollo Meloni-Rama.