Nordio: “Solo 32 carceri su 189 pronte per i colloqui intimi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2025 Nella risposta scritta all’interrogazione di Italia Viva, il Guardasigilli ammette il ritardo nel garantire il dritto all’affettività sancito dalla Consulta. Solo il 17 per cento degli istituti penitenziari italiani ha a disposizione uno spazio idoneo per i colloqui intimi, nonostante la Corte Costituzionale abbia sancito da più di un anno il diritto all’affettività in carcere. Su 189 penitenziari censiti, infatti, appena 32 hanno individuato un locale che garantisca riservatezza, dignità e sicurezza per consentire all’interno delle mura un incontro senza controllo visivo. Gli altri 157 hanno ammesso di non possedere alcuna stanza adatta: una fotografia impietosa dell’immobilismo amministrativo, mentre la Consulta e di conseguenza i Tribunali di Sorveglianza chiedono da tempo che quel diritto, riconosciuto come espressione della dignità umana, non resti soltanto una formula sulla carta. Questa realtà emerge con chiarezza dalla risposta che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha offerto all’interrogazione parlamentare del 14 febbraio scorso presentata dal deputato Roberto Giachetti di Italia Viva. Nella risposta firmata dal guardasigilli si racconta di gruppi di lavoro, protocolli e progetti pilota, ma al tempo stesso si scopre che gran parte degli impegni restano sospesi e, nonostante le generiche linee guida circolate qualche tempo fa, rimane sospesa la possibilità di ricavare stanze adatte. A dispetto delle promesse e dei monitoraggi, ancora oggi la maggioranza dei detenuti non può esercitare quel diritto alla relazione riconosciuto dalla Consulta. Meno di un istituto su cinque ha comunicato di poter mettere a disposizione una stanza “idonea”, ossia uno spazio che rispecchi i requisiti minimi di metratura, arredo e sicurezza. Gli edifici più moderni, con sezioni femminili strette in corridoi angusti, non hanno quasi mai spazio libero; quelli più vecchi, costruiti all’inizio del Novecento, spesso sono fatiscenti o organizzati intorno a cortili su cui si affacciano le celle. Non c’è dubbio che, nei corridoi ministeriali, si parli di “enormi diversità strutturali” fra le carceri: un problema reale, soprattutto quando il sovraffollamento ha raggiunto numeri critici. Ma tutto questo non può giustificare il ritardo. Il 28 marzo 2024, appena quattro giorni dopo la sentenza della Corte costituzionale, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha costituito un gruppo di studio multidisciplinare: al suo interno ha chiamato rappresentanti del ministero, del Garante dei diritti dei detenuti, magistrati di Sorveglianza, psicologi e architetti. Il loro compito era definire le modalità pratiche per rispettare il principio secondo cui, se non ci sono motivazioni concrete legate alla “pericolosità interna” o alle esigenze di ordine e disciplina, non si possono negare i colloqui intimi ai detenuti. Nel frattempo, come gesto simbolico e pratico, il Dap ha lanciato un progetto pilota chiamato “M.A.MA.”, acronimo di Moduli Affettività e Maternità. L’idea è di ricorrere a un edificio modulare prefabbricato in legno, costruito in gran parte dalla falegnameria interna al carcere di Viterbo, e montato nella sezione femminile di Rebibbia. Quel prototipo consente alle detenute con figli di incontrarli in uno spazio discreto e sicuro, ma finora nessun’altra casa circondariale ha chiesto di replicare l’esperimento. Non perché l’idea non piaccia, ma perché, nel silenzio dei bilanci, nessuno ha stanziato risorse precise. È in questo contesto di annunci rimasti a metà che assume ancora più valore la vicenda del detenuto di Parma, simbolo di una battaglia che ha attraversato due anni di carte bollate. A marzo 2024, quell’uomo - condannato per associazione mafiosa con metodo camorristico e con pena residua fino al 23 novembre 2026 - aveva chiesto alla direzione di Parma di poter svolgere i colloqui intimi con la moglie, senza l’occhio puntato della polizia penitenziaria. La direzione aveva risposto a inizio aprile, motivando il rifiuto con la “mancanza di spazi adeguati” e rimandando tutto alle future linee guida. Perché, si sosteneva, prima di autorizzare quel colloquio era necessario attendere l’emanazione di un regolamento ministeriale: una motivazione tanto generica da sembrare un rinvio voluto. Il 7 febbraio 2025, a quasi un anno dalla prima istanza, il Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, Elena Bianchi, ha accolto il reclamo proposto dall’avvocata Pina Di Credico. Nella sua ordinanza, Bianchi ha stabilito che la direzione di Parma dovesse individuare entro sessanta giorni un locale dove consentire i colloqui senza controllo visivo, perché mancavano ragioni interne per impedirlo. Il Dap, imbarazzato, ha presentato reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Bologna: a detta sua, il detenuto avrebbe rappresentato un pericolo per la sicurezza, giustificando il veto. Ma quelle motivazioni non hanno retto il confronto processuale: in tredici anni di detenzione, non c’era stata alcuna violazione del regolamento interno, e i programmi intramurari di reinserimento avevano dimostrato un reale percorso di distacco dal passato criminale. In più, le note della Dda di Napoli - citate dal Dap - non contenevano alcuna indagine in corso contro l’uomo; tutt’al più facevano riferimento a condanne ormai datate. Il 28 marzo 2025, il Tribunale di Bologna, presieduto dalla dottoressa Maria Letizia Venturini, ha depositato la sentenza che ha respinto in blocco il reclamo del Dap e della Procura di Reggio Emilia. Accogliendo l’arringa dell’avvocata Di Credico, il principio cardine ribadito in quelle dodici pagine è semplice: la pericolosità “esterna” (i legami con la criminalità fuori dal carcere) non può tradursi in limitazioni dentro alle mura. E il controllo visivo continuo, se non sorretto da un concreto rischio di ordine interno, costituisce una compressione ingiustificata della dignità personale. Non è bastato neppure il richiamo, opposto dal Dap, alla pericolosità sociale del detenuto: perché, ha scritto la giudice, quel concetto - così nebuloso - vale per i permessi premio, non per i colloqui coniugali. Una volta depositata la sentenza, il percorso del detenuto di Parma si è concluso. Forse per il mese di luglio, il carcere di Parma troverà una stanza apposita e per la prima volta dal lontano marzo 2024, quell’uomo potrà avere un rapporto intimo con la sua compagna. Diritto che negli altri Paesi d’Europa è garantito da decenni. Eppure, da noi, soltanto chi può contare su un giudice di Sorveglianza attento e su un avvocato capace riesce a far valere una norma costituzionale. Le parole del ministro Nordio, se pure sincere, convivono con un’assenza di date precise: non c’è un fondo straordinario approvato in Legge di Bilancio, e l’ispettorato del Dap non ha previsto verifiche in loco per scovare stanze nascoste o ambienti adattabili. Tutto resta sospeso nella nebulosa di promesse ministeriali che non trovano un capitolo di spesa, un cronoprogramma o un decreto specifico. Ecco allora che, a un anno dalla pronuncia della Consulta, l’immagine complessiva resta quella di un Paese che riconosce un diritto costituzionale, ma non lo traduce in stanze concrete. Decine di migliaia di detenuti continuano a incontrare i propri cari in spazi privi di privacy, mentre qualche realtà virtuosa si distingue come eccezione alla regola. A Roma Rebibbia mostra un modulo prefabbricato, realizzato in tempi rapidi e a basso costo; a Parma c’è un locale spuntato quasi per caso, dopo che un magistrato ha inciso come un bisturi su un’amministrazione pigra. Nel resto del Paese, però, molto rimane da fare: i colloqui affettivi non possono continuare a dipendere dalla buona volontà dei direttori o dal lavoro degli avvocati, ma devono essere garantiti come parte integrante della pena rieducativa. In attesa delle stanze necessarie per garantire il diritto, resta l’urgenza di allineare il dato tecnico con quello concreto: stanze idonee contro istituti sprovvisti e di abbattere il sovraffollamento anche per questo motivo. Perché, come ha scritto la Corte costituzionale, il carcere non può ridursi all’isolamento etereo; e perché, come ha ribadito il Tribunale di Sorveglianza di Bologna, l’affetto non è un optional, ma un presupposto di umanità che neppure una condanna può cancellare. La legge crea nuovi reati e così lo Stato continua a “fabbricare” detenuti di Guglielmo Starace L’Edicola del Sud, 3 giugno 2025 Il ventunesimo rapporto annuale di Antigone sulle condizioni di detenzione, presentato negli scorsi giorni, è opportunamente intitolato “Senza respiro”. Purtroppo il respiro manca non soltanto alle persone detenute, bensì a tutti coloro che incrociano le strade della loro esistenza con gli istituti destinati a privare le persone della libertà personale. La parola “carcere” ferma il respiro, l’idea delle mura rigide e invalicabili che ne segnano i confini consegna alle cittadine e ai cittadini l’idea di un mondo che separa - come se fosse possibile farlo - il male dal bene e che rassicura i buoni punendo, tenendoli da parte, i cattivi. Il pensiero alla privazione del bene più prezioso per una persona, ossia la libertà, spesso ancor prima che l’Autorità giudiziaria abbia sancito la sussistenza della sua penale responsabilità, colpisce dritto al cuore della sensibilità umana. Nessuno può sapere quanto potrà resistere “in apnea” una persona che trascorre una parte della sua vita dipendendo da altre persone, dopo avere perso il diritto a scegliere, a decidere e finanche a pensare. Il concetto diviene ancor più grave se si pensa alle modalità di espiazione della sofferenza, rese terribili dall’alto numero dei detenuti, dal basso numero dei detenenti e dalla proverbiale inefficienza delle strutture penitenziarie. Antigone ha potuto constatare “cosa significa un sistema penitenziario in crisi profonda di identità: corpi ammassati in celle chiuse, spazi inadeguati, tensione alle stelle, sofferenza generalizzata, condizioni igieniche e sanitarie inaccettabili, educatori stanchi, poliziotti in difficoltà, direttori provati, medici preoccupati, volontari a malapena tollerati”. Il problema diventa dramma se si pensa al fatto che le recenti riforme non potranno che aggravare la situazione facendo sprofondare ancor più il sistema. La creazione di nuove fattispecie di reato, anche endocarcerarie, come quella che punisce pesantemente chi si limita a esprimere anche passivamente il suo dissenso, significa che il carcere, anziché accompagnare la persona in un percorso di graduale reingresso nella compagine sociale provando a renderla migliore, paradossalmente fabbricherà altro carcere. Si entrerà in carcere per una fattispecie e se ne uscirà dopo tanti anni per altre fattispecie, anche di carattere omissivo. E nel frattempo la capienza diminuisce e la popolazione detenuta aumenta: ci dice Antigone che “in due anni la capienza effettiva è diminuita di 900 posti mentre i detenuti sono cresciuti di 5mila unità”. Con un sovraffollamento medio superiore al 133%, ci si ostina a creare nuovi reati, nuove ostatività e nuove piattaforme che portano a nuovi reati. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, al cosiddetto “decreto Caivano”, nato - come sempre - sull’onda emotiva di un gravissimo fatto di cronaca, per cui anche persone minorenni che abbiano riportato una sola denuncia per fatti accaduti all’interno o nelle immediate vicinanze di scuole, plessi scolastici, sedi universitarie, locali pubblici o aperti al pubblico, ovvero qualsivoglia esercizio in cui si somministrano o vendono - anche per asporto - alimenti o bevande, rischiano di subire la misura, emanata dal questore, del divieto di accesso agli stessi locali o ad esercizi analoghi, ovvero di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi locali o esercizi o delle scuole, plessi scolastici e sedi universitarie. L’eventuale violazione di questi divieti, così sfuggenti e incomprensibili per i destinatari, comporterà la realizzazione di una nuova fattispecie di reato punita con la reclusione. E continua la fabbrica del carcere. Le persone minorenni, invece di essere accompagnate nel percorso della crescita, si sentiranno dapprima escluse dalla società a mezzo dei divieti di mero stazionamento in certe zone dei centri urbani e poi addirittura scaraventate nel ghetto della detenzione. Il tutto per essere state attinte da una denuncia. Antigone ci dice che nove istituti penitenziari per minorenni su diciassette sono sovraffollati. Lo scorso anno ha il tristissimo record dei suicidi in carcere. Per evitare il susseguirsi dei suicidi delle persone divorate dall’ozio e dall’assenza della speranza, bisogna seriamente impegnarsi perché possano entrare in carcere meno persone possibile e soprattutto perché ne possano uscire di più di quelle che sono entrate. Occorrono coraggiose scelte emergenziali, come ad esempio quella della liberazione anticipata “speciale”, affiancate da scelte prospettiche per razionalizzare l’uso della massima misura cautelare e per evitare gli accessi al carcere per i condannati a una pena inferiore a quattro anni di reclusione, con un favor incondizionato per la detenzione domiciliare. Con risparmio di spese e di salute per tutti e con un tuffo in un Paese con un sistema giudiziario civile ed efficiente. Quella che manca davvero in Italia è la certezza di una pena “civile” di Paolo Doni L’Eco di Bergamo, 3 giugno 2025 C’è un che di truce in alcuni commenti sugli ultimi, gravissimi fatti di cronaca. Una retorica tra lo spaccone e il cinico che sembra aver ormai monopolizzato il discorso pubblico. E che propone ricette apparentemente lineari e semplici come soluzioni a problemi che ciclicamente deflagrano in tragedie e che richiederebbero un approccio ben più complesso, mediato innanzitutto dagli strumenti della legalità. La summa di questo atteggiamento è senz’altro il Decreto sicurezza recentemente approvato dalla Camera con il voto di fiducia (tocca ora al Senato). Un dispositivo che introduce 14 nuovi reati perseguibili penalmente. Tra questi vale la pena ricordare il reato di resistenza passiva in carcere, che introduce l’equivalenza tra la rivolta e la semplice disobbedienza, e il reato di blocco stradale anche per mezzo del proprio corpo, quindi senza barricate o apposizione di ostacoli. Facile intuire che il legislatore, messo di fronte agli episodi più “caldi” della cronaca, abbia cercato di escogitare delle nuove misure punitive in una visione di causa-effetto che poco ha a che spartire con la supposta efficacia delle stesse, molto invece con l’immediato consenso di una platea sempre più spinta all’esasperazione da un circo mediatico che si nutre di tragedie. Come ha acutamente osservato Marcello Sorgi su La Stampa, riguardo alla manifestazione di sabato contro il decreto sicurezza, “per ognuno di quelli che marciavano ce n’erano due o tre che silenziosamente nelle loro case approvano le nuove norme”. Se quindi il carcere, e più in generale l’esecuzione della pena, viene scambiato per una palestra di competizioni muscolari tra attori politici, appare ancora più sconfortante la solitudine che traspare dalle parole della presidente del Tribunale di sorveglianza di Brescia, Monica Cali. La prima linea di chi si prende in carico i condannati in tutta la Lombardia orientale è fatta da sette giudici, per un territorio di oltre tre milioni di abitanti, 3.679 misure alternative e 1.766 detenuti, con un organico rimasto drasticamente inadeguato anche sotto il profilo amministrativo: 27 addetti, 11 dei quali distaccati in altri uffici. La Sorveglianza è sempre stata la cenerentola degli uffici giudiziari. Ci si ricorda che esiste solo quando fallisce (tragicamente esemplare il caso di Milano, dove un detenuto in permesso di lavoro ha ucciso una collega e poi si è suicidato lanciandosi dal Duomo). Come ammette la presidente, questi episodi hanno un effetto devastante sull’opinione pubblica. Ma chi è chiamato a legiferare non può fermarsi alla superficie. Ha il dovere di analizzare i fatti prima di giudicarli: le misure alternative che vengono revocate per commissione del reato sono una su cento. Di contro, per chi intraprende percorsi virtuosi durante la detenzione, la recidiva si abbatte fino all’80%. Il dilemma tra consenso immediato e scelta razionale si gioca tutto su questa dicotomia. Si coglie qualche segnale controcorrente. Così si è espresso il presidente del Senato Ignazio La Russa, che nei giorni scorsi ha incontrato Roberto Giachetti e Rita Bernardini, che su fronti diversi, sono impegnati per promuovere una misura temporanea che aiuti ad alleggerire la pressione sulle carceri: “Sono convinto che accanto alla certezza della pena vi debba essere la certezza che la detenzione sia scontata in condizione di assoluta civiltà. E soprattutto, sono convinto si debba spezzare quella catena della recidiva che fa pensare a chi viene detenuto che non vi siano alternative”. Ma, dice La Russa, “a che servono sale cinema o corsi di musica se poi otto persone devono condividere quattro metri quadrati?”. Forse una crepa si è aperta. Se non parli, niente risarcimento: negato il diritto al silenzio di Simona Musco Il Dubbio, 3 giugno 2025 Se non parli, niente risarcimento, anche dopo cinque anni e mezzo di ingiusta detenzione. È questa, in buona sostanza, la tesi della procura generale di Milano, che si è opposta, assieme al ministero delle Finanze, al riconoscimento di 670mila euro di risarcimento chiesti dal 56enne Diego Barba per aver trascorso oltre 2mila giorni in carcere. Una pena nella pena, dal momento che per 10 mesi Barba è rimasto dietro le sbarre nonostante fossero scaduti i termini. E a ciò bisogna aggiungere i 213 giorni ulteriori con l’obbligo di firma e divieto di ingresso a Desio dove abitava con la famiglia. L’accusa a suo carico era gravissima: Barba era finito in galera per l’omicidio di Paolo Vivacqua, il “Berlusconi di Ravanusa”, rottamaio siciliano trapiantato in Brianza, ucciso a Desio il 14 novembre 2011. Omicidio che Barba non ha ordinato, come stabilito dopo ben sette processi. La lunga e complessa vicenda giudiziaria ebbe inizio il 2 dicembre 2015, quando la Corte d’Assise di Monza condannò Barba e Santino La Rocca a 23 anni di carcere, ritenendo quest’ultimo il tramite tra il mandante - Barba - e gli esecutori materiali del delitto, Antonino Giarrana e Antonino Radaelli, ai quali fu inflitta la pena dell’ergastolo. La condanna venne confermata in appello e poi, dopo un annullamento con rinvio, di nuovo nell’appello bis. Ma la vicenda non era terminata: una volta tornata in Cassazione, infatti, il processo tornò indietro per un appello ter, che si concluse il 19 febbraio 2021 con l’assoluzione di Barba e La Rocca per non aver commesso il fatto. E dopo oltre dieci anni dai fatti e sei anni di processi, a mettere la parola fine ci ha pensato la Corte di Cassazione, che nel 2022 ha respinto come inammissibile il ricorso presentato dalla Procura generale di Milano, scongiurando un ulteriore processo. I giudici di legittimità hanno rilevato numerose lacune e contraddizioni nella ricostruzione accusatoria, soprattutto, dal momento che il ruolo dei due era stato evinto tramite dichiarazioni de relato giudicate poco attendibili e contraddittorie, soprattutto perché mescolavano elementi di due diversi omicidi, mentre il presunto movente economico legato alla relazione tra Barba e l’ex moglie della vittima è stato ritenuto debole e privo di riscontri oggettivi. Insomma, gli elementi a loro carico erano troppo deboli, incerti o contraddittori, dal momento che le accuse si basavano su dichiarazioni indirette, intercettazioni ambigue e dati di traffico telefonico non univoci. Ma tutto ciò per la procura generale non basta: uno degli argomenti usati per chiedere il rigetto è proprio il silenzio di Barba. “Ma le cose non sono andate esattamente così - spiega al Dubbio Gianluca Orlando, difensore di Barba insieme a Manuela Cacciuttolo -. Noi seguiamo la sua posizione sin dal primo momento, cioè dall’interrogatorio di garanzia. In quella fase lui diede subito delle indicazioni e successivamente venne sentito di nuovo, ma senza che fossero ancora disponibili le carte dell’indagine. Lui spiegò tutto, ma quell’interrogatorio fu ritenuto dalla procura come un tentativo di depistaggio. A quel punto, strategicamente, decidemmo di non farlo più rispondere direttamente, ma solo rendendo dichiarazioni spontanee, praticamente in ogni udienza. Quindi direi che non si tratta affatto di “non collaborazione”. Era una strategia difensiva ben chiara. Ciononostante, sia per la procura generale sia per il ministero quel silenzio sarebbe un elemento negativo, sulla base di una giurisprudenza ormai ampiamente superata dalla Cassazione. Su un punto, però, sono d’accordo con la difesa: quei 10 mesi in carcere oltre i termini di custodia cautelare, riconosciuta alla difesa dopo aver presentato ricorso al Riesame. Il resto delle argomentazioni della procura generale, invece, convince poco Orlando. La norma di riferimento in materia è l’articolo 314 del codice di procedura penale, che riconosce il diritto a un’equa riparazione a chi sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile - per insussistenza del fatto, per non averlo commesso, o perché non costituisce reato - qualora non abbia contribuito alla custodia cautelare con dolo o colpa grave. La ratio della disposizione è garantire tutela nei casi in cui una misura cautelare si riveli infondata. A modificare in modo rilevante l’interpretazione della norma è intervenuto il decreto Legislativo n. 188 dell’8 novembre 2021. In particolare, l’articolo 4, comma 1, lettera b), ha introdotto una specificazione: “L’esercizio da parte dell’imputato della facoltà di cui all’articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione”. In sostanza, chi sceglie di non rispondere non perde per questo il diritto all’indennizzo. Il principio è stato ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 20657 del 27 maggio 2022, destinata a costituire un punto di riferimento sul valore del silenzio difensivo nei procedimenti per ingiusta detenzione. I giudici di legittimità hanno chiarito che, per escludere il diritto alla riparazione, il dolo o la colpa grave devono emergere da comportamenti concreti che abbiano causato direttamente la restrizione della libertà personale. In passato, la giurisprudenza - come testimoniato dalla sentenza n. 24439 del 2018 - aveva talvolta considerato la scelta di non rispondere come indice di colpa grave, soprattutto laddove un contributo chiarificatore dell’indagato avrebbe potuto modificare l’interpretazione degli elementi indiziari. Ma tale orientamento, osserva oggi la Cassazione, è superato. La riforma del 2021, infatti, recependo la direttiva Ue 2016/ 343 sulla presunzione d’innocenza, ha escluso che la scelta difensiva di non rispondere possa avere rilievo ai fini della riparazione per l’ingiusta detenzione. Un concetto che l’impugnazione della procura generale di Milano, però, non sembra tenere in considerazione. La palla, ora, torna ai giudici della quinta sezione penale della Corte di Appello di Milano, dove gli avvocati di Barba hanno ribadito le ragioni della richiesta di risarcimento. Il tutto mentre anche La Rocca ha ottenuto un risarcimento danni per ingiusta detenzione, pari a 241mila euro, la metà del massimo previsto per legge. In quel procedimento, il ministero non si è costituito, così come la procura generale ha scelto di non proporre impugnazione. La Rocca ha impugnato la decisione per chiedere di più. E ora anche Barba attende risposte. La giustizia dei mostri: Garlasco e l’accusa “per suggestione” di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 3 giugno 2025 In un’Italia sempre più sfiduciata verso i magistrati, il processo mediatico oscura ormai le sentenze. Che cosa sta succedendo nella giustizia italiana, se i genitori di Chiara Poggi, cioè i buoni, cioè le vittime, sono costretti a mostrare in tv la borsetta della figlia, in loro possesso, per smontare la diceria su uno “strano” furto dell’oggetto? Il fenomeno è particolare e del tutto inedito. Che gli italiani in gran parte non abbiano molta fiducia nella giustizia e nei magistrati è ormai cosa nota, e da tempo. Più recente è la messa in discussione delle sentenze, soprattutto nei grandi casi che scuotono l’opinione pubblica, da quello sulla morte di Yara Gambirasio fino alla strage di Erba e all’omicidio di Garlasco. Massimo Bossetti, condannato per Yara, Rosa e Olindo, responsabili della strage di Erba, e Alberto Stasi, l’assassino di Chiara Poggi secondo i giudici, si sono sempre proclamati innocenti, estranei ai fatti. E ci sono state trasmissioni tv, e fior di giornalisti, avvocati e opinionisti vari che, nel nome del garantismo, e di un sacrosanto principio che risale ai tempi del codice giustinianeo che recita “in dubio pro reo”, hanno, per l’appunto, preferito coltivare il dubbio. Perché è più rischioso tenere un innocente in carcere che non un colpevole fuori. Queste sono le regole dello Stato di diritto. Ma fino a questo punto stiamo parlando di minoranze. Che forse avranno influenzato altre piccole minoranze e seminato incertezze in quel piccolo mondo fatto soprattutto di avvocati e di intellettuali e sul piano politico nel mondo liberal di Forza Italia. Ma hanno probabilmente lasciato la gran parte dei cittadini all’eterna superficiale convinzione che chi viene arrestato “qualcosa avrà fatto”. Qualcosa sta cambiando, da quando è comparsa sulla scena una sorta di “Garlasco due-la vendetta”, una nuova indagine della procura di Pavia in collaborazione con i carabinieri di Milano. La direzione imboccata però non è quella del garantismo, ma al contrario quella della moltiplicazione dei “mostri”. La logica di questa nuova ondata di sfiducia nella giustizia, è molto più sostanziale che formale. Se c’è un nuovo, o più nuovi indagati, allora quello vecchio era innocente. E si mescolano i soggetti. In pochi avevano protestato, quando Alberto Stasi nel 2015 era stato condannato in via definitiva a 16 anni di carcere, per quell’anomalo intervento della Cassazione che, dopo la doppia assoluzione del primo e secondo grado, aveva fatto di nuovo celebrare l’appello fino a attenere la condanna dell’imputato. Perché “anomalo”, benché legittimo? Perché la sentenza della cassazione aveva basato i sei motivi di censura solo sulla logicità della motivazione con cui Stasi era stato assolto. E due anni dopo una riforma approvata dal parlamento impedirà quella possibilità sulla doppia assoluzione. Ora si stracciano le vesti in tanti. E anche quelli che ignorano l’esistenza della “doppia conforme”, strillano sui social e in varie televisioni l’innocenza di Alberto Stasi, pronti a rimettere in discussione tutto, anche quegli indizi molto concreti che, se pur non hanno raggiunto la forma di prova della “pistola fumante”, non possono essere cancellati. Ma il centro dell’attenzione ormai non è più neppure Alberto Stasi. Perché i “mostri” ormai sono tanti. Non siamo certi che stia giovando all’inchiesta il fatto che la procura di Pavia, subentrata a quella di Vigevano che condusse le indagini nel 2007, all’epoca del delitto, stia indagando Andrea Sempio in concorso con Stasi e con altri. E presenti la scena del delitto, la villetta di via Pascoli a Garlasco, quanto mai affollata. Quasi come se ci fosse stata una sorta di spedizione punitiva di massa per uccidere Chiara Poggi. E neanche giova l’attività frenetica degli avvocati Gilda Bocellari e Antonio De Rensis, difensori di Stasi, finalizzata a togliere il loro assistito dal luogo del delitto, collocandovi altre persone. Ci mette del suo anche un altro avvocato, il legale di Sempio, Massimo Lovati, che “sogna”, così dice lui, un sicario mandato da persone potenti che avrebbero a che fare con fatti che però accadranno nel 2014, sette anni dopo l’omicidio di Chiara. È così che si cerca di rimettere in discussione tutto, come se si fosse tornati indietro di 18 anni. Ogni giorno “spunta” qualcosa, illazioni, sospetti, insinuazioni. E ogni cittadino di Garlasco ha la tentazione di trasformarsi in “supertestimone”, compresi quelli che hanno saputo qualcosa da qualcuno che naturalmente nel frattempo non c’è più. Le due famiglie di congiunti, i Poggi, e i Cappa con le famose gemelle, diventano protagoniste di una soap di provincia capace di stimolare le più maliziose pruderie. Un articolo di Repubblica del peggior giornalismo guardone, lancia insinuazioni pesanti sulla stessa vittima. Così ora tutti si stanno esercitando sulla borsetta “sparita”, piuttosto che sul fatto che Chiara avesse due cellulari, cosa molto sospetta, e che nella telefonata con un’amica lasciasse intendere di avere due spasimanti e non solo uno. Chissà se questa sarabanda di magistrati, avvocati e giornalisti si sta rendendo conto del danno prodotto. Non c’è alcun garantismo nei confronti di Stasi, di cui non sappiamo se sia innocente o colpevole, e, se si va avanti così, forse non lo sapremo mai. Non aiutano neppure lui, così come danneggiano Andrea Sempio e le gemelle e gli altri, tutti questi veleni che “spuntano” e che qualcuno vuol far spuntare. Riescono solo, nella moltiplicazione dei “mostri”, a portare sempre più indietro la giustizia e lo Stato di diritto. Le idi di maggio dell’Antimafia di Gery Palazzotto Il Foglio, 3 giugno 2025 L’antimafia dei Giusti commemora le stragi con fatwa, ditini alzati e distinguo. Mentre si moltiplicano le voci allineate e i silenzi imposti. E Fiammetta Borsellino chiede: “Scusate, e la verità?”. Accadde che qualche crepa si allargò nelle mura candide dell’Alto Santuario, la Fondazione Falcone, retta dalla Grande Sorella Maria. Persino l’inginocchiatoio sociale sul quale tutte le più importanti cariche dello stato avevano reso omaggio al ricordo del giudice assassinato, ma più ancora alla solennità barocca di un’antimafia “buona”, quella della verità rivelata, scricchiolò. Venne il giorno in cui si decise di portare indietro di dieci minuti le lancette della memoria in modo da rendere più comodo il ricordo tra i “giusti”, gli allineati, tutti assiepati sotto le fronde dell’Albero Falcone, prima che arrivassero i guastatori, giovani ossessionati nientedimeno che dalla verità: insomma il minuto di silenzio si celebrò alle 17.48 anziché alle 17.58, l’ora esatta della strage. Per spegnere le insulse polemiche - che volete che siano dieci minuti più o dieci minuti meno - si immolò persino l’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso che disse che era colpa sua perché si era confuso con tutta quella gente, tutti quei ricordi, tutto quel sole e aveva bruciato i tempi con la lettura dell’elenco delle vittime. Insomma Maria Falcone non c’entrava niente e neanche col pensiero si poteva andare a un’ipotesi minimamente diversa. Nel frattempo i social media manager dell’Alto Santuario smanettavano con i loro polpastrelli benedetti per bannare Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dall’account Facebook della Fondazione perché il suo post “proveniva da un profilo con pochi follower, per questa ragione è apparso non attendibile”. Fu così che venne rivelato un nuovo postulato della dottrina delle Scienze Perfette dell’Antimafia: il valore di un’opinione pesa in funzione del carico di consenso che c’è dietro, non del suo contenuto. Che Salvatore Borsellino fosse un’anima controversa del “fronte alternativo”, Agende Rosse e compagnia bella, e che in passato avesse sposato idee dissonanti rispetto ai figli di Paolo e al loro avvocato, era noto a tutti, tranne forse ai social media manager della Fondazione che lo avevano scambiato per un troll tipo TurboSalvo42. Ma restava il mistero di cosa avesse mai scritto su quella santissima pagina di Facebook. Dopo approfondita e ponderata indagine si scoprì che trattavasi di una disonorante critica verso la Fondazione che aveva detto che Pietro Grasso aveva fatto parte del pool antimafia: “Spero non siano queste le informazioni che date al Museo del Presente”, era stato il suo commento. Violentissimo e al limite dell’indecenza, com’era evidente. Insomma ci fu gran lavoro quel giorno nei reparti tecnologici dell’Alto Santuario, tanto da non aver trovato il tempo di aggiornare il sito ufficiale della Fondazione in cui l’ultima “news” risale al 27 ottobre 2023. Accadde che le commemorazioni si identificarono con le “idi di maggio”, non solo per la perenne continua ricorrente lite tra parenti dell’uno e dell’altro giudice, ma per la minaccia incombente di disordini spesso causati da una sbagliata gestione dell’ordine pubblico. Due anni fa, studenti, sindacalisti, attivisti sociali furono manganellati violentemente dalle forze dell’ordine (molte forze, poco ordine) perché non graditi al cospetto della Santa Antimafia. Erano armati solo di uno striscione “Non siete Stato voi, ma siete stati voi” e questo bastò per farli passare per pericolosi criminali. Accadde che sbirciando attraverso la crepa del muro dell’Alto Santuario realizzammo la cruciale importanza della crepa stessa e di quelle mura. Se mai si fosse ipotizzata un’unità nel fronte antimafia era nell’Alto Santuario che essa trovava un suo punto di crisi. Quando, nel 2015, decise di portare i resti di Giovanni Falcone dal cimitero di Sant’Orsola alla chiesa di San Domenico dove riposano i “siciliani illustri”, la sorella Maria compì un atto esplicito di divisione. Dalla famiglia Morvillo, separando il fratello dall’amata moglie Francesca, e dai “siciliani qualunque” giustificandosi con la seguente dichiarazione: “La traslazione delle spoglie di mio fratello Giovanni è un’azione coerente con gli obiettivi della Fondazione, cioè privilegiare la dimensione pubblica del magistrato”. Stesso metodo dei social media manager di cui sopra: la certificazione di attendibilità veniva rilasciata direttamente dall’Alto Santuario, come se Giovanni Falcone per avere il timbro di “illustre” avesse dovuto riposare da solo, lontano da sua moglie. Accadde comunque che alzammo le spalle: che ne potevamo sapere noi “siciliani qualunque”? Che dubbi avremmo mai potuto sollevare dinanzi a una Fondazione che si è fatta museo con tre sedi (Palermo, Bressanone, Roma), che ha aperto un “American corner” in collaborazione con l’ambasciata degli Stati Uniti, che ha inaugurato una sede a Malta? Chi avrebbe fatto questa figura da barbone? Accadde che la fatwa di Maria Falcone colpì anche un mahatma dell’antimafia fondamentalista. Dopo le polemiche per i fatidici dieci minuti dell’Albero Falcone, Leoluca Orlando, che si era unito al coro dei contestatori, venne additato come “uno dei peggiori nemici istituzionali di Giovanni Falcone” ricordando implicitamente a tutti i “non illustri” che la lotta a Cosa nostra riguarda solo chi ha la Compostela rilasciata dall’Alto Santuario. E omettendo che la storia di Falcone e Orlando - complessa, dolorosa - va letta tutta, con attenzione, e che la ragione politica (estremamente soggettiva per definizione) può essere detestabile ma non può essere stravolta. Non ce n’era bisogno, ma anche quella volta avemmo conferma che la presunzione con cui una parte dell’Antimafia si era incoronata “ufficiale” faceva il paio con una certa benevolenza nei confronti del potere dominante. Infatti fu con Orlando fuori dai giochi che ci si consentì di bacchettarlo come se fosse un moccioso rompicoglioni: “A lui, e solo a lui, chiediamo almeno per una volta - con rispetto ma con fermezza - un silenzio totale. Un silenzio dignitoso. Un silenzio dovuto. La memoria non si difende con l’applausometro”. Scritto dalla Fondazione che difendeva gli applausi dai fischi spostando le lancette dell’orologio di una strage. Accadde che a fronte di questo ambaradan di accuse, polemiche, distinguo, ditini alzati e teste chine Fiammetta Borsellino chiese: “Scusate, e la verità?”. Poi, appena udibile nel vociare delle adunate commemoranti, aggiunse: “Non c’è altro modo di onorare questi uomini, servitori dello Stato, se non con la ricerca della verità. Purtroppo al paese è mancata l’opportunità di crescere nella luce”. Se la verità è la luce, il suo contrario non è il buio. Ma l’oblio. Perché al buio ci si abitua, l’anima come l’occhio si adatta, magari per mera questione di sopravvivenza. L’oblio è diverso. Segna l’allontanamento del pensiero, dei sentimenti, col conseguente riverbero sugli affetti. Dalle stragi Falcone e Borsellino all’omicidio di Piersanti Mattarella, è stato come se ci trovassimo in un enorme magazzino stracolmo di cose, affollato e disordinato dove si cerca e non si trova. Ma si sa che nulla manca. E la frustrazione nel sapere di essere lì dove le cose ci sono ma giacciono nascoste da altre, è cresciuta col passare del tempo giacché non è solo dal falso che chi cerca la verità deve difendersi. Ma deve vedersela con le altre, contrastanti, verità che stanno lì proprio per fare il loro lavoro di schermo, di paravento, di cortina fumogena o, peggio ancora, di trappola delle buone intenzioni. Per l’eccidio di via D’Amelio, ad esempio, è certificato che il depistaggio ci fu. I finti “pentiti” ebbero tutti nome e cognome. I magistrati e i poliziotti che li crearono, gestirono e difesero, furono tutti prosciolti e, la maggior parte, addirittura promossi. Gli unici colpevoli furono identificati in due defunti: l’ex capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e l’ex capo della Procura della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Per gli altri, un bel liberi tutti. Accadde che più di una pista nera apparve e svanì, creando illusioni e delusioni equamente ripartite tra le tifoserie giudiziarie. Riguardo alla strage Falcone ci vollero due anni per scrivere l’ennesimo capitolo di indagine che ipotizzava un coinvolgimento del fondatore di “Avanguardia nazionale” Stefano Delle Chiaie. Poi tutti insieme, sostituti procuratori di Caltanissetta e sostituti procuratori nazionali, si convinsero che l’ipotesi non aveva appigli solidi e la lasciarono cadere. Quindi ufficialmente non ci furono esponenti dell’eversione nera a organizzare l’assassinio di Falcone e degli uomini della scorta. Il che non significa che il quadro accertato sinora in sede giudiziaria sia completo in modo da potersi affidare, in un grottesco rito consolatorio, alla considerazione che fu solo mafia. Molti collaboratori di giustizia infatti riferirono della presenza di uomini sconosciuti alle riunioni preparatorie della strage. E sconosciuti in quel contesto significava non mafiosi. Del resto lì, davanti al tritolo, nessuno chiedeva un documento, un codice fiscale: ci stava chi ci stava e più non domandare. Anche per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, avvenuto il 6 gennaio 1980, ci fu una pista nera che apparve e svanì. Falcone ci lavorò sodo e segnò più volte sulle sue agende la parola “Volo”. Era il cognome dell’estremista di destra, incidentalmente anche preside di scuola, Alberto Stefano Volo, che parlava del coinvolgimento del killer nero Giusva Fioravanti nell’agguato al fratello dell’attuale presidente della Repubblica. L’inchiesta si moltiplicò nei secoli dei secoli togliendo di mezzo la pista terroristica e facendo emergere a ondate decennali il ruolo della mafia. L’ultima marea, qualche mese fa, portò a galla due possibili sicari di Cosa nostra (i componenti della Cupola sono stati comunque condannati come mandanti) e la domanda delle domande: fu solo mafia? Una sola certezza: fu un delitto politico-mafioso, con quel che ne consegue. Accadde che con ricorrenza più o meno quinquennale, generalmente intorno a maggio, il cinema ripropose sullo schermo varie forme di rievocazioni e/o ricostruzioni e/o riletture delle stragi con annessi e connessi. Ci fu di tutto, dall’eroismo del pentito di mafia che decide di vuotare il sacco all’analisi ingegneristica degli attentati, dal caldo delle estati all’Asinara al gelo degli occhi dei trucidi esecutori. Ultimo prodotto fu il film “Giovanni e Francesca - Una storia d’amore e di mafia” di Ricky Tognazzi e Simona Izzo che nel loro repertorio ampio e variegato spaziavano incolpevolmente dalla cronaca nera all’apostrofo rosa. Accadde al contempo che mentre fecero scalpore i dieci minuti di anticipo della commemorazione della strage di Capaci, nessuno si accorse del cruciale passo indietro del Teatro Massimo, sempre in quel 23 maggio che infiniti casini addusse all’Alto Santuario. Il Massimo, una delle fondazioni lirico-sinfoniche più prestigiose d’Italia con una grande tradizione di impegno civile - quattro opere originali sulla lotta alla mafia prodotte negli ultimi anni e una stagione, quella del 2022, interamente dedicata dall’allora sovrintendente Francesco Giambrone al trentennale delle stragi - aveva in programma un concerto delle formazioni giovanili, ragazzi che suonano molto bene e che costano molto poco, intitolato pensate un po’ “In memoria”. All’ultimo momento lo spettacolo fu annullato. Risultato: per la prima volta il più grande teatro d’opera d’Italia rimase fuori dalla celebrazione di una memoria collettiva o meglio scelse di non fare, di non dire, di non esserci: nel giorno del ricordo della strage Falcone, a Palermo mica a Disneyland, nel luogo simbolo del riscatto sociale. Dal momento che nessuno se ne accorse, si diffusero a mezza voce e in modo carbonaro due ipotesi. La prima: la città, che già si ricordava a stento dell’Albero Falcone una volta all’anno, era ormai distratta in modo patologico. La seconda: di quello spettacolo probabilmente non gliene fregava niente a nessuno, primi tra tutti gli organizzatori. Accadde che i due club “amici di Giovanni” e “Paolo mi disse” si infoltirono di soci. Tutti prevalentemente con un libro in uscita o con una candidatura in pentola o con un armadio stracolmo (il difetto degli scheletri è che non soggiacciono alla regola del cambio stagione). In una terra dominata per anni, oltre che dalla mafia, da un’antimafia pubblicitaria che ragionava per spot e slogan e che riproponeva sempre le illusioni di una resistenza immaginaria, qualcuno avrebbe dovuto azzardarsi a ipotizzare una moratoria delle messe cantate a uso propagandistico. I club dei fan servivano solo per migliorare le piattaforme del merchandising. Quello che mancava erano le idee. E i giovani che le idee se le facevano venire, avevano solo le loro gambe sulle quali farle camminare, nonostante altre gambe tendessero sgambetti a ogni passo. Trentatré anni fa a Palermo il movimento dei lenzuoli bianchi nacque da un volantino, altro che social, e funzionò. Forse perché c’era un contesto drammaticamente forte, forse perché i circuiti analogici della coscienza civile non risentivano di certe vacuità della partecipazione digitale: allora per esserci bisognava esserci e basta, niente clic e like. Oggi la rarefazione dell’emergenza mafiosa, che c’è ma non si vede, che trasuda ma non allaga, alimenta gli inganni. Illude che tutto sia passato, che i simboli servano solo a dare una lucidatina all’argenteria della memoria. E che il semplice esercizio del ricordare, una o due volte all’anno, ci assolva dalla nostra disattenzione quotidiana. Accadde che ci dimenticammo a cosa serviva l’arte: a ricordarci non chi siamo, ma chi diventeremo. Questo accadde alle idi di maggio. Detenuti, più tempo per presentare reclamo contro il diniego di un permesso Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2025 La Corte costituzionale, sentenza numero 78 depositata oggi, ha sostituto il termine di 24 ore con quello più lungo di quindici giorni, già previsto in via generale per ogni reclamo. Viola il diritto di difesa del detenuto il termine di ventiquattro ore attualmente a disposizione del detenuto per proporre reclamo contro il provvedimento del giudice che gli abbia negato un permesso nel caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente, o di altro evento familiare di particolare gravità. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza numero 78, depositata oggi, con la quale ha ritenuto fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Sassari. Nel caso oggetto del giudizio principale, il Magistrato di sorveglianza aveva respinto la richiesta di permesso avanzata da un detenuto per fare visita alla sorella, affetta da tumore. Il detenuto aveva proposto reclamo al Tribunale di sorveglianza il giorno stesso in cui gli era stato notificato il provvedimento, riservandosi di formulare in seguito i motivi. Alcuni giorni più tardi il suo difensore aveva reiterato il reclamo, corredato dei motivi, dopo avere ottenuto copia della documentazione medica che il Magistrato aveva acquisito d’ufficio. Il reclamo del difensore avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile perché presentato oltre il termine di ventiquattro ore dalla comunicazione del provvedimento, stabilito dall’articolo 30-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Tuttavia, il Tribunale di sorveglianza ha sollevato la questione di legittimità costituzionale ora decisa dalla Consulta, dubitando della compatibilità di un termine così breve con l’articolo 24 della Costituzione, che tutela il diritto di difesa. Come anticipato, la Corte ha ritenuto fondata la questione, osservando che in sole ventiquattro ore il detenuto non è in grado né di ottenere l’assistenza tecnica di un difensore, né di procurarsi copia di tutti i documenti sui quali si basa il provvedimento impugnato, e la cui conoscenza è indispensabile per poter adeguatamente motivare il reclamo. Così come era già accaduto in una sentenza precedente (la numero 113 del 2020) in relazione ai permessi premio, la Corte ha sostituito, per il detenuto, il termine di ventiquattro ore con quello di quindici giorni, già previsto in via generale per ogni reclamo contro le decisioni che riguardano il detenuto dall’articolo 35-bis dell’ordinamento penitenziario. La Consulta ha dunque dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 30-bis, terzo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui prevede che il provvedimento relativo ai permessi di cui all’art. 30 è soggetto a reclamo, da parte del detenuto, entro ventiquattro ore dalla sua comunicazione, anziché entro quindici giorni”. Resta ferma la possibilità per il legislatore di stabilire un diverso termine, purché idoneo ad assicurare il pieno esplicarsi del diritto di difesa. Mandato d’Arresto Europeo, senza verifiche sulle carceri consegna bloccata ansa.it, 3 giugno 2025 Nessuna consegna se mancano controlli approfonditi sulle condizioni di detenzione nello Stato richiedente. È questo il principio riaffermato dalla Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 14191/2025, depositata il 10 aprile, ha accolto il ricorso di un cittadino ungherese opponendosi al suo trasferimento in Ungheria per l’esecuzione di una condanna a due anni di reclusione per spaccio di stupefacenti. La Corte di appello di Messina aveva autorizzato la consegna sulla base di un mandato di arresto europeo, ma senza acquisire informazioni puntuali sulla situazione nelle carceri ungheresi, nonostante le criticità già segnalate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura in un rapporto recente. Una mancanza ritenuta decisiva dalla Suprema Corte, che ha ricordato come, in questi casi, sia obbligatorio effettuare una verifica individuale e circostanziata, anche richiedendo chiarimenti specifici allo Stato emittente, per escludere il rischio di trattamenti degradanti o contrari alla dignità umana. Secondo i giudici di legittimità, l’autorità italiana non può limitarsi a valutazioni di carattere generale sulle condizioni carcerarie, ma deve approfondire la posizione concreta della persona da consegnare, alla luce anche della giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Alla luce di queste considerazioni, la Cassazione ha annullato il provvedimento di consegna, disponendo il rinvio per un nuovo esame che dovrà tenere conto delle condizioni effettive di detenzione previste per l’interessato. Una decisione che riafferma il ruolo di garanzia dei diritti fondamentali anche all’interno della cooperazione giudiziaria europea. Sicilia. “Redivivus”, il progetto di riciclo artistico nelle carceri minorili di Giampiero Cinelli thewatcherpost.it, 3 giugno 2025 Mani & Mente e Corepla, il Consorzio Nazionale per la Raccolta, il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica, insieme per un progetto di riciclo artistico da svolgere negli istituti penitenziari minorili e negli uffici di servizio sociale per i minorenni della Sicilia. L’iniziativa si chiama “Redivivus” e ha anche tra i suoi fini trasmettere l’importanza del riutilizzo della plastica e di altri materiali di scarto. “Abbiamo scelto questo nome perché anche il latino ci riconduce alla rinascita, nel nostro caso non getteremo fra i rifiuti il materiale cosiddetto di scarto come le bottiglie di plastica, ma al contrario lo riporteremo ad una seconda vita”, dice Mani & Mente in una nota. Redivivus sarà suddiviso in 8 corsi che prevedono il riciclo delle bottiglie di plastica trasparente, da trasformare in oggetti d’arte e artigianato. In programma poi la creazione di copie di quadri d’autore. I corsisti inizieranno il percorso con una lezione sull’importanza del riciclo della plastica e avranno modo di capire l’importanza del consorzio Corepla in questa impresa, assai ardua, del recupero, riciclo e riutilizzo della plastica, fattori da divulgare e far recepire. Messaggio a cui Mani & Mente si associa. La seconda fase prevede la pulitura, il taglio e la manipolazione della plastica. I ragazzi creeranno un fiore, per cominciare a familiarizzare sul taglio delle bottiglie, sull’uso dei colori ad acqua che si utilizzano per la pittura su plastica, le miscelazioni e quindi la creazione di altre tonalità, l’assemblaggio delle parti dipinte per creare un fiore. La terza fase sarà la più impegnativa poiché sarà la realizzazione di copie di quadri d’autore, da scegliere tra Klimt, Van Gogh, Kandinsky, Mondrian etc. Le opere verranno quindi poste in un mosaico e incorniciate. La plastica attraverso un macchinario artigianale e con il calore verrà appiattita, per essere poi tagliata andando a creare delle tessere da numerare e dipingere, quindi da assemblarle per realizzare il quadro d’autore. La finalità saranno due: realizzare l’esposizione di tutti i quadri realizzati nei vari I.P.M. e U.S.S.M., in luoghi da concordare e con la presenza di una giuria che decreterà una classifica delle opere. L’altro obbiettivo sarà poter esporre i quadri negli stand di Corepla durante l’Ecomondo nell’edizione di novembre 2025. Il corso prevede la cooperazione di tutti i ragazzi che parteciperanno, mirando a creare una sinergia da cui potranno trarre beneficio e imparando a creare collaborando, in un gruppo di lavoro che si rispetta reciprocamente. Le altre importanti finalità del corso sono educare al rispetto dell’ambiente, trasmettere i valori del lavoro manuale, artigianale e artistico, far conoscere l’arte e gli artisti da cui i corsisti saranno ispirati per la creazione dei quadri; inoltre riaccendere o far sviluppare ai ragazzi la creatività attraverso l’arte come metodo riabilitativo e far scoprire loro che anche una bottiglia di plastica destinata a diventare rifiuto, può invece trasformarsi in un fiore, perché per Mani & Mente “se non abbandoni recuperi”. Le carceri minorili in Sicilia sono 4: Malaspina di Palermo, Bicocca di Catania, Acireale e Caltanissetta. Anche Gli U.S.S.M. sono 4, nelle stesse città. In ogni istituto minorile l’attività verrà svolta in 60 ore, (da concordare giorni e orari) in favore di un numero di giovani da stabilire con i referenti dell’istituto penitenziario, per ogni U.S.S.M. il corso verrà svolto in 30 ore. Il tempo previsto per lo svolgimento di tutti i corsi sarà di circa 8 mesi. “Il riciclo non è solo una scelta tecnica, è una scelta culturale - ha dichiarato Giovanni Cassuti, Presidente di Corepla -. È credere che ciò che sembra finito possa ancora dare qualcosa. Con Redivivus vogliamo costruire un ponte tra sostenibilità ambientale e inclusione sociale. Perché la plastica può rinascere, certo, ma possono rinascere anche le persone - se diamo loro ascolto, opportunità, strumenti. Questo progetto dimostra che la bellezza, anche in luoghi difficili, può diventare motore di cambiamento e dignità collettiva”. Il progetto pilota, presentato il 29 maggio all’Assemblea Regionale Siciliana, coinvolge istituzioni, operatori sociali e giovani in un cammino condiviso fatto di crescita, responsabilità e speranza. Ma soprattutto, insegna il valore del lavoro comunitario: ogni laboratorio è uno spazio dove si impara a collaborare, a condividere, a costruire insieme qualcosa che prima non c’era. Le opere saranno esposte in una mostra per raccontare a tutta la cittadinanza la forza dell’inclusione e della rieducazione sociale e far comprendere la possibilità di una seconda vita, dove anche il rifiuto può rinascere in qualcosa di bello e significativo e ogni risorsa può essere valorizzata per il bene comune. “La Sicilia - conclude Cassuti - è una terra a cui Corepla è legata da tempo, con cui dialoga, collabora, cresce. Non solo per le sfide ambientali che affronta con coraggio, ma per l’energia, la bellezza e la dignità con cui interpreta ogni progetto di cambiamento. È una terra che non si arrende. Che guarda avanti. Che sa trasformare la complessità in possibilità”. Teramo. Morto in carcere per una overdose da cocaina e benzodiazepine certastampa.it, 3 giugno 2025 Michele Venda, 42 anni, è morto nel carcere di Castrogno il 28 febbraio scorso per un’overdose di cocaina e benzodiazepine. Lo ha stabilito l’autopsia disposta dalla Procura, che riaccende i riflettori sull’emergenza droghe negli istituti penitenziari. Venda, affetto da gravi patologie cardiache, psichiatriche e neurologiche, era stato dichiarato incompatibile con il regime carcerario. Il tribunale di sorveglianza dell’Aquila ne aveva disposto il trasferimento in una struttura sanitaria a Pineto. Ma il trasferimento non è mai avvenuto. Il detenuto divideva la cella con Domenico Di Rocco, 46 anni, trovato morto poche settimane dopo. Per quella seconda morte sono ora indagati un medico e due infermieri. Nel 2025, sono già quattro i decessi registrati nel carcere teramano, mentre continuano sequestri di droga e inchieste sulle falle nei controlli. La tragedia di Castrogno non è un caso isolato, ma il sintomo di un sistema penitenziario al collasso. Milano. San Vittore, ritorna d’attualità ipotesi di uno spostamento del carcere fuori dal centro di Andrea Gussoni mitomorrow.it, 3 giugno 2025 L’ipotesi di spostare San Vittore è emersa più volte nel dibattito cittadino, ma spesso ha incontrato resistenze legate al timore di speculazioni immobiliari sull’area oggi occupata dal carcere, in zona Aquileia-Papiniano. Il sindaco di Milano Beppe Sala ha rilanciato la proposta di trasferire il carcere di San Vittore in una nuova sede fuori dal centro cittadino, per affrontare il problema del sovraffollamento e garantire condizioni più dignitose ai detenuti. Ne ha parlato venerdì mattina a margine di un convegno sul sistema carcerario, all’indomani della pubblicazione del nuovo rapporto dell’associazione Antigone sulle carceri italiane. San Vittore, le parole di Sala - “Il vero problema è San Vittore”, ha dichiarato Sala, sottolineando come le altre strutture detentive milanesi siano considerate tra le migliori a livello nazionale. “Capisco che sia comodo per avvocati e volontari, ma non si può pensare di andare avanti con un carcere così sovrappopolato e con servizi non dignitosi”, ha aggiunto. L’ipotesi di spostare il carcere è emersa più volte nel dibattito cittadino, ma spesso ha incontrato resistenze legate al timore di speculazioni immobiliari sull’area oggi occupata dal carcere, in zona Aquileia-Papiniano. “Molti criticano senza aver mai visto davvero San Vittore. Io ci sono stato, e le condizioni attuali non sono accettabili”, ha sottolineato il sindaco. San Vittore, reazioni - Non sono mancate le reazioni. Alessandro Giungi, consigliere comunale del Partito Democratico, ha espresso contrarietà alla proposta, riconoscendo le buone intenzioni ma difendendo il valore simbolico e pratico della presenza del carcere in città. “Chi lo frequenta quotidianamente conosce l’importanza di mantenerlo in centro”, ha detto. Per Giungi, il carcere rappresenta anche una lente d’ingrandimento sulle criticità del sistema penitenziario italiano: “Chiuderlo abbasserebbe l’attenzione pubblica sulle condizioni delle carceri”. San Vittore, numeri - Il rapporto Antigone conferma come il carcere più sovraffollato d’Italia, con un indice del 220% al 30 aprile. Seguono Foggia (212%), Lucca (205%) e Brescia Canton Mombello (201%). La sezione femminile di San Vittore è nona nella classifica nazionale con un affollamento del 189%. A livello nazionale, il tasso medio di sovraffollamento è del 133%, considerando anche gli spazi non disponibili per inagibilità. In totale, i detenuti in Italia sono 62.445 a fronte di una capienza di 51.280 posti. Siena. Le Università: “Rispettare il regime aperto nel carcere” radiosienatv.it, 3 giugno 2025 Oggi, la Casa di Reclusione di San Gimignano è l’istituto penitenziario italiano con la più alta percentuale di persone detenute iscritte all’Università; nell’ultima sessione di aprile, tre di loro hanno brillantemente conseguito la laurea. I Rettori dell’Università di Siena e dell’Università per Stranieri di Siena, insieme ai rispettivi delegati per il Polo universitario penitenziario, hanno indirizzato una lettera formale alla Direzione della Casa di Reclusione di San Gimignano, trasmettendola per conoscenza anche ai Ministri della Giustizia e dell’Università, nonché al Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, per chiedere il ripristino del regime custodiale aperto, in attuazione dell’ “Accordo di collaborazione per la gestione del Campus Universitario per studenti detenuti”, sottoscritto a dicembre del 2023. Tale richiesta nasce a seguito dell’emanazione di una circolare, diffusa lo scorso 27 febbraio dalla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che impone, in tutti gli istituti appartenenti al circuito dell’alta sicurezza - come quello di San Gimignano - l’applicazione indiscriminata e generalizzata del “regime custodiale chiuso”. In base al quale, si legge nella missiva, “i detenuti devono rimanere serrati all’interno delle loro celle (sarebbe improprio continuare a chiamarle “camere di pernottamento”) per non meno di sedici ore al giorno, senza minimamente considerare che le sezioni maggiormente interessate da eventi suicidari sono quelle a custodia chiusa, con 64 casi nel 2024 (pari al 77,11 per cento)”. Una misura definita nella lettera come un “castigo nel castigo, disumano per i detenuti, peggiorativo delle condizioni lavorative degli operatori penitenziari e controproducente sul piano della sicurezza sociale”. Nella lettera congiunta dei due Atenei senesi si sottolinea, inoltre, che il regime custodiale chiuso non debba trovare applicazione all’interno del “Campus universitario per studenti detenuti istituito presso la Casa di Reclusione di San Gimignano”, poiché ciò comporterebbe la violazione dell’accordo istitutivo del campus penitenziario il quale, all’art. 5, espressamente stabilisce che “il regime che viene adottato è quello aperto”, così come ribadito dallo stesso Regolamento interno della Casa di reclusione di San Gimignano - approvato anche dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - che all’art. 27 bis ha disciplinato in dettaglio il regime aperto all’interno delle due sezioni che costituiscono il Campus universitario. In definitiva, nella lettera le Università esprimono profonda preoccupazione per il rischio che l’indebita applicazione del regime custodiale chiuso possa compromettere un’esperienza pilota d’eccellenza, che - si legge - “ha prodotto risultati in parte insperati e di cui siamo orgogliosi. Oggi, la Casa di Reclusione di San Gimignano è l’istituto penitenziario italiano con la più alta percentuale di persone detenute iscritte all’Università; nell’ultima sessione di aprile, tre di loro hanno brillantemente conseguito la laurea, ferma restando la piena consapevolezza che i frutti più preziosi delle attività svolte dall’Università e da tutto il personale dell’Istituto (Direzione, Educatori e Polizia penitenziaria) sono “invisibili”, non direttamente misurabili in dati numerici o statistici”. Ferrara. Il futuro dell’informazione. Media, politici e giustizia: “Cronaca, regole chiare” Il Resto del Carlino, 3 giugno 2025 Il convegno in Comune con giornalisti, il senatore Balboni e l’avvocato Anselmo. La proposta: “Un protocollo”. Longhi (Procura): “Ma senza danni alle indagini”. “Questa giornata è stata l’occasione per lanciare l’idea e tentare di istituire un protocollo che ponga regole chiare e corrette nella cronaca giudiziaria in città, tra magistrati, giornalisti e avvocati”. Questo il primo riscontro del seminario-convegno che si è tenuto nella sala consiliare del Comune, nell’ambito dei 130 anni dell’Associazione stampa Ferrara (AsFe). Un confronto tra politici, magistrati, avvocati e giornalisti. “Si tratta - spiegano dall’associazione - di un protocollo già adottato a Milano tra tribunale, procura, ordine avvocati e giornalisti, già testato in passato a Napoli: un accordo che possa consentire più completezza nell’informazione, dare più strumenti ai giornalisti per poter accedere agli atti fondamentali, quali ordinanze e documenti di provvedimenti non più coperti da segreto, e soprattutto nel rispetto della presunzione di innocenza e della tutela delle persone indagate”. Nel corso dei lavori, si è dibattuto sulle cosiddette leggi “bavaglio”, facendo il punto sullo stato dell’informazione giudiziaria dopo l’introduzione delle leggi che si sono susseguite in oltre vent’anni, l’ultima delle quali - approvata dal governo Meloni - contempla il divieto di pubblicazione delle ordinanze che limita il diritto-dovere di cronaca. “Leggi bavaglio? - così il senatore Alberto Balboni, tra i relatori - Non c’è nessuna legge bavaglio, il diritto di cronaca è salvaguardato perché valore costituzionale e in attuazione ai principi, ricordo, oltre il diritto di cronaca c’è anche quello alla riservatezza e la presunzione di non colpevolezza, sancita dalla direttiva europea cui ci siamo allineati e diventata presunzione di innocenza”. Per Fabio Anselmo, avvocato ferrarese, “qualsiasi legge che limita il diritto di cronaca e la libertà di stampa è una legge bavaglio, quale che ne sia il motivo”. Chiaro, conclude, “che bisogna avere rispetto del segreto investigativo, ma questo e i depositari del segreto investigativo sono gli organi della magistratura, sono le procure, ma tentare di limitare, di censurare e di confinare il libero esercizio in qualsiasi modo della libertà di stampa è ideologicamente dannoso”. Per Pasquale Longobucco, dell’Osservatorio deontologico Camere penali, “questi incontri sono benvenuti perché cercano di dare il focus di ognuna delle parti del ‘processo’, parti attive in quello che è il sistema giustizia in generale, compreso il processo mediatico. Ci sono punti in comune, altri non condivisi, ma l’importante è il confronto”. Una cosa ha messo però tutti d’accordo, “il processo mediatico non può trasformarsi, come spesso accade, in gogna mediatica”. Per Niccolò Bellettati, consigliere Ordine avvocati, “il punto in comune è quello su come veicolare informazioni, conoscenze nei processi”. Il sostituto procuratore Stefano Longhi, si è soffermato sui rapporti che i magistrati debbono tenere con giornalisti: “La procura non è un ufficio stampa - risponde perentorio - forse dovrebbe dotarsi di ufficio stampa, ma non tutte ne hanno avuta disponibilità (in passato prima delle nuove norme, ndr), anche perché oggi dovrebbe essere solo il procuratore capo a tenere i rapporti con i media”. Del resto, ha aggiunto, “nella stragrande maggioranza dei casi, la divulgazione di notizie riservate è un danno per l’indagine dei pm stessi” e spesso, erroneamente, “viene contestato siano loro a violare questo segreto, passando sotto banco atti”, quando invece i soggetti interessati sono tanti. Rimini. Suicidi in carcere, uno spettacolo per riflettere: “Sbarre di solitudine” altarimini.it, 3 giugno 2025 Avvocati, magistrati e docenti in scena per raccontare il lato umano della detenzione. Giovedì 5 giugno alle ore 17, presso la Sala degli Arazzi del Museo della Città, in via Luigi Tonini 1, si terrà la rappresentazione teatrale “Sbarre di solitudine” della compagnia Attori & Convenuti di Firenze. La compagnia, composta da avvocati, notai, magistrati e docenti universitari della Facoltà di Giurisprudenza, si dedica da anni alla realizzazione di spettacoli sui diritti umani. La rappresentazione affronta il tema dei suicidi in carcere, offrendo uno sguardo psicologico sulle conseguenze della detenzione, sia dal punto di vista del detenuto sia da quello degli agenti di polizia penitenziaria. Una donna all’interno della sua cella e un agente di custodia dalla sua spoglia stanzetta della caserma descrivono le pieghe più intime del loro animo e le ragioni che possono condurre un detenuto e una guardia a compiere il gesto estremo. L’obiettivo è stimolare una riflessione approfondita sulle condizioni di vita nei penitenziari e sulla necessità di interventi concreti. L’evento è organizzato dalla Camera Penale di Rimini in collaborazione con l’Osservatorio Legalità della Provincia di Rimini, l’Ordine degli Avvocati di Rimini, il Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Rimini e gode del patrocinio del Comune di Rimini. Lo spettacolo si inserisce in un percorso di riflessione e attività condivise sul tema carcerario nel territorio riminese e italiano. L’ingresso è libero fino a esaurimento posti. Rimini. Contro il dl Sicurezza e per i diritti dei detenuti: protesta pacifica in piazza Cavour altarimini.it, 3 giugno 2025 Flashmob dei Radicali Rimini e dell’associazione Coscioni. L’associazione Radicali Rimini “Piergiorgio Welby” era presente il 2 giugno, in piazza Cavour a Rimini insieme alla cellula locale dell’associazione Luca Coscioni per tenere un flashmob parallelo alle celebrazioni della festa della Repubblica. La manifestazione silenziosa aveva il fine di contestare la conversione in legge del dl Sicurezza appena approvato alla Camera dei Deputati e già in discussione al Senato. “Riteniamo infatti” dicono gli organizzatori “che la quasi totalità dei contenuti del provvedimento sia di stampo antidemocratico e spinga il diritto italiano a scivolare in una torsione oppressiva e autoritaria che non ha precedenti nella storia della Repubblica. Altro obiettivo era quello di sensibilizzare i celebranti e la popolazione sullo stato di illegalità in cui versano le carceri italiane, spesso destinazione di persone povere, emarginate e con difficoltà sociali trattabili con pratiche del tutto diverse dal diritto penale: in particolar modo ci preme ricordare l’alto tasso di suicidi nelle celle (34 morti volontarie nella prima metà del 2025), la penuria di attività trattamentali negli istituti e l’allarme destato dall’abolizione del differimento automatico della pena per le madri condannate con figli in tenera età: punto del dl Sicurezza che porterà ad un aumento dei bambini detenuti senza alcuna colpa. Chiediamo anche alle istituzioni locali di unirsi a noi nella richiesta di calendarizzazione del ddl Giachetti per la liberazione anticipata speciale, da approvare come provvedimento deflattivo alla base di qualsiasi riforma della giustizia che venga intrapresa.” Bologna. “Il migliore dei mondi possibili” interpretato dai detenuti Corriere di Bologna, 3 giugno 2025 La Casa Circondariale “Rocco D’Amato” da domani a venerdì 6 accoglierà lo spettacolo con i partecipanti del corso di formazione nei mestieri del teatro dello stesso istituto (domani e giovedì 5 ore 16.30, venerdì ore 10.30, info teatrodellargine.org). Al centro, un’aula scolastica, luogo di disciplina, di regole. Ma cosa accadrebbe se quel luogo si trasformasse in teatro? Complice di Voltaire, ogni ora scolastica diventa il punto di partenza per raccontare un pezzo di storia di quel romanzo filosofico, tra cadute e risalite, dogmi infranti e sogni ancora più infranti. Il Candido attraversa guerre, terremoti, ingiustizie. Qui, lo si fa dentro quattro mura, ribaltando il senso dell’ottimismo con ironia feroce. La scuola si fa metafora della vita e viceversa. Molte le domande, mettendo in mezzo il destino, l’ingiustizia, l’ottimismo, la libertà. E questo è davvero il migliore dei mondi possibili? Con la drammaturgia di Mattia De Luca, la regia di Giulia Franzaresi, la scenografia di Nicola Bruschi, il coordinamento di Micaela Casalboni, il lavoro è nell’ambito di “PerAspera ad Astra - Come raffigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”, progetto nazionale ideato da Compagnia della Fortezza, curato a Bologna da Teatro dell’Argine. Ferrara. “Vivicittà” in carcere: Iliass Aouani e Detenuti Uniti per lo Sport di Mario Tosatti Il Resto del Carlino, 3 giugno 2025 Ospite d’eccezione Iliass Aouani, che nei mesi scorsi ha conquistato il titolo europeo di maratona. Un’atleta allenato dal ferrarese Massimo Magnani. Vivicittà, ‘la corsa più grande al Mondo’ in carcere con il campione europeo Iliass Aouani. All’interno delle mura della casa circondariale ‘Costantino Satta’ di Ferrara, si è tenuto nei giorni scorsi l’appuntamento sportivo e d’integrazione del ‘Vivicittà in carcere’ nell’ambito del progetto sociale, promosso da Uisp Ferrara e patrocinato dal Comune di Ferrara. Presenti Maria Martone, direttrice della casa circondariale di Ferrara, Cristina Coletti, assessore alle politiche sociosanitarie del Comune di Ferrara, Eleonora Banzi, presidente Uisp comitato di Ferrara, Paolo Calvano, consigliere regionale che ha anche corso. Gli oltre trenta detenuti del penitenziario e atleti del podismo ferrarese sono stati impegnati in una mattinata di attività sportiva. Alla giornata hanno partecipato alcuni tesserati del podismo ferrarese. Ospite d’eccezione Iliass Aouani, che nei mesi scorsi ha conquistato il titolo europeo di maratona. Un’atleta allenato dal ferrarese Massimo Magnani. Nel dettaglio dell’evento si è svolta all’interno del perimetro interno della casa circondariale, i partecipanti hanno effettuato quattro giri per complessivi 3,2 km, con proclamazione del vincitore e podio. Il più veloce è stato Francesco Teri, precedendo Vasily Polkovnikov e Asiruwa Aigbedo. Al termine le premiazioni. L’assessore Coletti ha voluto ribadire che: “Un appuntamento che si conferma negli anni e siamo soddisfatti in quanto come amministrazione comunale da tempo abbiamo intrapreso con la casa circondariale diversi progetti sociali e ludici atti al percorso riabilitativo dei detenuti”. La direttrice della casa circondariale Martone spiega: “Un progetto che permette di seguire un percorso riabilitativo dei detenuti della struttura, lo sport è indubbiamente uno strumento che permette la condivisione di sani principi e rispetto reciproco”. La presidente Uisp comitato Ferrara Banzi ha aggiunto: “Si tratta di un progetto che da anni sosteniamo, in quanto crediamo fortemente nella promozione dello sport tra i detenuti. Un’ideale ponte tra carcere e il nostro territorio”. Nuoro. Esercizi spirituali in carcere, Padre Manunza: insegnano a vivere meglio di Roberta Barbi vaticannews.va, 3 giugno 2025 L’idea è stata del cappellano della casa circondariale del capoluogo sardo che ha coinvolto i gesuiti di Cagliari nell’iniziativa. Gli esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola, racconta padre Manunza, “sono il modo di Dio di farci trovare la felicità e la salvezza”. Un percorso spirituale “di iniziazione e discernimento”: questi sono gli esercizi spirituali ignaziani. Un modo per dialogare personalmente con il Signore e riconoscerlo presente ed operante nelle nostre vite. Lo sa bene padre Carlo Manunza, il gesuita che si è offerto di proporli alle persone detenute nella casa circondariale di Nuoro, accogliendo la richiesta del cappellano. “Definendo gli esercizi con le parole di Sant’Ignazio - racconta ai media vaticani - questi sono un cammino per consentire a Dio di mettere ordine nella nostra vita, così da poterlo meglio lodare e servire”. La fede in carcere - Non era la prima volta che il padre gesuita entrava in carcere, anche se la sua ultima esperienza risaliva a 20 anni fa nelle Filippine: “Anche se ormai i problemi di sovraffollamento delle carceri italiane sono simili”, osserva con amarezza, nell’istituto di pena ha trovato una fede nascosta, sepolta dalle vicende della vita, ma viva e capace di dare speranza: “Dedicando tempo alla preghiera personale, questa fede è tornata a splendere - è la sua testimonianza - anche in un ambiente difficile come il carcere, è tornata a dare dignità e soprattutto a esercitare il proprio potere trasformante, il potere di illuminare la notte”. Promuovere la preghiera personale - In un carcere immaginiamo sia più facile proporre momenti di preghiera comunitaria - a partire dalla celebrazione della Santa Messa o dalla catechesi - perché è il modo più immediato di entrare nella lode, ma allora come fare con gli esercizi spirituali? “È bastato proporre l’obiettivo che ci ponevamo - sorride padre Carlo - ricordare che cambiare la propria vita è possibile e offrire un metodo che permettesse a Dio di rendere questo cambiamento concreto”. Ovviamente c’è stato bisogno di tempo, pazienza e flessibilità da parte delle guide: “E anche di molto ascolto - ribadisce - ma d’altronde il compito di una guida è proprio questo”. Riscoprire la dimensione spirituale della propria vita - I risultati trasformativi nelle vite dei ristretti, padre Carlo e il suo team li hanno toccati con mano: “Dio non si fa vincere in generosità - spiega - ci siamo riusciti perché abbiamo dato una testimonianza concreta, fatta di gesti e di saper attendere i frutti, di adattarsi, senza privare gli altri della ricchezza a volte impegnativa degli esercizi spirituali, ma d’altra parte senza farla sembrare un muro insormontabile”. Un bilancio positivo, insomma, e un’esperienza, quella di Nuoro, che potrebbe essere replicata in altre carceri d’Italia: “Riconoscere ‘beati i poveri’ è fonte di salvezza e di felicità vera - conclude il gesuita - da cui nulla può separarci”. Roma. Porte aperte con Vivicittà per le detenute di Rebibbia: il valore sociale dello sport di Ivano Maiorella* Corriere della Sera, 3 giugno 2025 La manifestazione della Uisp fa tappa a Roma. Una ventina di appuntamenti nelle carceri di tutta Italia come messaggio di speranza. Una giornata vissuta all’interno della casa circondariale femminile Germana Stefanini di Roma Rebibbia può avere molti significati. Il valore sociale dello sport è pratica di vita con gli altri, inclusione, rispetto. Perché la convivenza è fatta di regole. Dopo aver coinvolto una ventina di carceri in tutta Italia, Vivicittà - Porte Aperte e il suo messaggio di speranza fanno tappa qui: un chilometro e mezzo con un percorso di quattrocento metri da ripetere quattro volte. È il pomeriggio di mercoledì 28 maggio, il caldo è soffocante e gli organizzatori e le organizzatrici dell’Uisp Roma sono al lavoro da ore. All’improvviso il viale di partenza-arrivo ricavato all’interno dell’Istituto (foto di Miriam Palma) si anima con una cinquantina di persone chiassose. E fatichi a riconoscere le donne interne al carcere e le atlete venuti da fuori. Qualche minuto di riscaldamento muscolare e poi tutte allineate per il via. E tra i significati di manifestazioni come queste, da ricercare nelle frontiere sociali e non sempre immediati da afferrare, c’è il valore del corpo, con tante donne dalle varie provenienze che ballano sulle note della hit albanese Te Ka Lali Shpirt. Il testo è quasi intraducibile in italiano. Ma il linguaggio del corpo non ha bisogno di traduttori. Fabiana taglia per prima il traguardo, poi c’è Viorica, terza Federica. Man mano arrivano tutte le altre, spalla a spalla con le atlete di fuori. Per tutte c’è la medaglia dal valore altissimo, quello della partecipazione, ma quando Fabiana riceve la coppa della prima arrivata scatta la ola. In tante chiedono una fotografia, segno che questa è proprio una giornata speciale, da incorniciare. E non smettono di danzare, muoversi, festeggiare: sanno che tra qualche minuto torneranno in cella. E a forza di ascoltare Te Ka Lali Shpirt, ti accorgi che forse qualche significato ce l’hanno anche le parole di questo rap ipnotico: “Lali ha te nello spirito, Lali ha te nell’anima, Lali ha il tuo cuore, oh quanto ti ama”. Apparentemente lontane dal significato di questa giornata di sport sociale, ma vicinissime a te, che ormai balli insieme al gruppo. Il significato c’è, bisogna cercare in profondità. Senza fermarsi alle apparenze. *Uisp Dal carcere al palco. Geniattori e detenuti: il riscatto è in scena di Alessandro Salemi Il Giorno, 3 giugno 2025 Compagnia teatrale e reclusi regalano emozioni al Teatro Parioli di Roma. Successo al concorso nazionale Maurizio Costanzo: “Traguardo incredibile”. Le associazioni culturali di Monza vivono un momento di grande slancio. Dopo l’arresto forzato della pandemia, la città ha riscoperto l’entusiasmo, la partecipazione e il valore del fare cultura. Un’energia che si tocca con mano nei numeri e nei fatti: sono 193 le realtà culturali iscritte all’albo comunale. Anche il sostegno pubblico ha imboccato la via della crescita: nel 2024 il Comune ha stanziato 178.297 euro di contributi, di cui 31.535 tramite bando, mentre per il 2025 si prevede un ulteriore balzo a 217.250 euro, con 35.000 euro distribuiti via bando. Ma oltre le cifre, a parlare è soprattutto la qualità dei progetti che le associazioni sanno generare. Un esempio eclatante è arrivato il 20 maggio, quando sul palco del Teatro Parioli di Roma è risuonata forte la voce di Monza. La compagnia teatrale Geniattori, insieme ai detenuti del carcere di Monza, ha conquistato la prima edizione del Premio “Maurizio Costanzo”, riconoscimento nazionale per il miglior progetto teatrale realizzato all’interno degli istituti penitenziari italiani. Una vittoria che ha il sapore dell’impresa. Nati quasi per gioco, nove anni fa, tra i banchi della scuola dell’infanzia Sant’Anna del quartiere San Donato, i Geniattori sono riusciti a trasformare un’idea semplice - raccogliere fondi per sistemare il cortile scolastico -, in un’avventura straordinaria. Dalle prime recite amatoriali alla fondazione dell’associazione nel 2016, fino al riconoscimento come associazione di promozione sociale, il gruppo ha saputo crescere con umiltà e dedizione. Ma soprattutto con l’idea di un teatro come strumento di cura e umanità. E così è stato. Lo spettacolo “Senza parole”, andato in scena a Monza l’11 febbraio al Teatro Binario 7 e poi replicato nella capitale, è il frutto di un laboratorio teatrale attivo dal novembre 2023 nel carcere di Monza. Tredici detenuti-attori hanno portato sul palco il racconto della loro quotidianità, tra lavoro, attese, sogni e silenzi, in una narrazione tutta gesti, musica e suggestioni. Undici quadri, ciascuno dedicato a un momento della giornata e a un’emozione dominante: la gioia del mattino, il risveglio del pomeriggio, la malinconia della notte. L’idea nasce da Francesca Conforti, che ha dato forma al progetto teatrale partendo da un lungo lavoro di ascolto con i detenuti. “Un viaggio interiore condiviso - racconta il direttore artistico dei Geniattori, Mauro Sironi -. Il testo è nato dai loro vissuti ed è stato pensato per il carcere. La giuria ha premiato proprio l’originalità, la forza della sceneggiatura, il suo radicamento nel contesto”. La giuria, composta dai figli di Maurizio Costanzo - Camilla, Saverio e Gabriele - insieme al regista Pino Strabioli e all’attore Valerio Mastandrea, ha scelto lo spettacolo dei Geniattori tra 26 progetti. “Ancora non ci credo - commenta Sironi -. A novembre abbiamo partecipato al bando, poi la notizia della finale, e infine la vittoria. È più grande di noi”. La platea capitolina è stata piena di volti noti del mondo dello spettacolo: da Maria De Filippi a Giobbe Covatta, da Massimo Giletti a Rita Dalla Chiesa, Barbara Palombelli, Myrta Merlino, Aurelio De Laurentiis. Il riconoscimento del tanto lavoro dietro le quinte e di un grande successo umano, prima ancora che artistico. “La lezione di papà Maurizio: umiltà e rispetto del lavoro” di Monica Mosca Il Giornale, 3 giugno 2025 La figlia del conduttore Camilla Costanzo ha istituito un premio teatrale per i detenuti: “Ha sempre avuto a cuore il tema delle carceri”. “Mi piace pensare che sia stato papà a illuminarmi in questa avventura, a indicarmi la strada e a suggerirmi cosa fare. Io ci credo, lo sento sempre vicino, la sua presenza è per me costante, quasi concreta”. A raccontare è Camilla Costanzo, figlia del compianto Maurizio, scomparso nel febbraio 2023. È stata lei a volere, ideare e realizzare con successo la prima edizione del “Premio Maurizio Costanzo nelle Carceri”, portato in scena al Parioli di Roma dai detenuti della Casa Circondariale Sanquirico di Monza. Uno spettacolo scritto e recitato dai carcerati, l’epilogo di un lungo lavoro dietro le sbarre, che per una sera ha restituito dignità e speranza a chi spesso è dimenticato. Una finestra di riscatto su un mondo difficile che Camilla Costanzo ha voluto aprire nella memoria del padre, primo giornalista che della condizione dei detenuti e delle guardie carcerarie si occupò con passione, realizzando addirittura un reality dentro Rebibbia, trasmesso da Italia 1 vent’anni fa. Camilla, prima del premio avete fondato un’Associazione nel nome di vostro padre... “Dopo circa un anno che papà non c’era più, i miei fratelli Saverio, Gabriele e io abbiamo pensato che fosse giunto il momento: portare avanti il suo nome in un ambito di cui siamo certi che sarebbe stato felice. Ci hanno proposto di ricostruire il suo studio privato all’interno del teatro che ha sempre ospitato il suo show, e che ora si chiama Parioli-Costanzo. È nata così la sede dell’Associazione. Papà attribuiva agli oggetti un valore incredibile, per lui era come se avessero un’anima, gli piaceva ad esempio moltissimo collezionare tartarughe di ogni tipo: diceva che erano lente come lui, ma sapevano andare lontano; ne abbiamo ancora centinaia. E in ufficio teneva un sacco di altre cose, ricordi, fotografie, libri e ci sembrava terribile chiudere tutto in un magazzino. Alcune delle sue tartarughe le ho regalate ora ai detenuti che hanno partecipato allo spettacolo e anche agli agenti di Polizia penitenziaria”. L’idea del Premio com’è nata? Ha subito pensato al mondo delle carceri? “A papà il tema delle prigioni e le condizioni dei detenuti stavano particolarmente a cuore. Riteneva che fosse importante riuscire a mettersi nei loro panni, capirne le angosce, le speranze, anche i sogni, a prescindere dai reati che avessero commesso. A lui interessava la condizione umana. Questa sua battaglia per i diritti dei carcerati l’ho sentita molto vicina e ho voluto accendere una luce, aprire una nuova strada. Abbiamo siglato un accordo con il ministero di Giustizia e con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che ci hanno molto aiutato, poi istituito una giuria presieduta dal regista Pino Strabioli e immaginato un premio teatrale che coinvolgesse i detenuti in qualità di attori, seppur dilettanti. La potenza della recitazione in carcere è fortissima, salvifica”. Avete esteso l’invito a partecipare a tutte le carceri italiane. In Italia ci sono 191 istituti, con 150 laboratori teatrali e 120 compagnie... “È stato impegnativo, ci abbiamo lavorato un anno. Ma la soddisfazione, quella non si riesce a raccontare e ripaga di ogni sforzo. Abbiamo ricevuto 26 copioni e la giuria ha scelto quello dell’istituto penitenziario di Monza: si intitola Senza parole. A guidare i detenuti è stata la compagnia dei Geniattori, genitori di bambini dell’asilo e anche attori, sotto la regia di Mauro Sironi. Lo spettacolo porta in scena undici quadri, tutti momenti di vita vissuta dietro le sbarre: dalla foto segnaletica scattata quando entrano in carcere, al caffè con gli altri reclusi, e poi i colloqui con i parenti, la palestra e anche l’uscita di prigione. È una rappresentazione emotivamente forte, ma a tratti anche divertente, perché tutto è raccontato con grazia e leggerezza”. Che sensazione ha provato quando la serata è finita e i detenuti sono tornati in carcere? “Avevamo tutti il cuore un po’ spezzato. Alla fine, mentre posavamo per le fotografie, sapevamo che ci dovevamo salutare: noi rientravamo a casa, loro invece rientravano in prigione. Hanno avuto un giorno e mezzo di libertà, sono partiti in pullman da Monza alle 5 del mattino, hanno provato a teatro tutto il pomeriggio e la mattina dopo sono ripartiti. Ci siamo messi nei loro panni, ecco, ed è stato potente: insieme siamo saliti fino alle stelle e poi siamo tornati giù, con i piedi per terra. Ciò che spero dopo questa prima edizione è che ci sia un’onda lunga, che l’attenzione sulle carceri rimanga accesa. È una grande tristezza che la società si dimentichi di queste persone che, seppur senz’altro colpevoli, stanno rinchiuse, private della libertà: sono comunque esseri umani”. Suo padre si è molto speso per chi aveva bisogno, in particolare per gli ultimi, per i più umili. È vero che si considerava anche lui tra gli umili? “Non so come si considerasse, ma posso dire che certamente era umile. Nonostante tutto ciò che ha realizzato sul lavoro, papà non si è mai sentito arrivato. Quando ad esempio gli offrivano una nuova collaborazione, anche se era piccola ne era felice, quasi stupito: ha sempre accettato qualunque nuovo impegno, non ha mai detto di no. È rimasto tutta la vita quel ragazzino che inventava la telecronaca del Giro d’Italia nel salotto di casa, tirando i tappi di bottiglia con le dita. Le racconto un piccolo aneddoto: un anno prima che morisse, un settimanale gli propose una rubrica. Noi figli lo vedevamo a pranzo tutti i giovedì e ogni volta ci diceva: Vi rendete conto? Un giornale così importante. Io gli rispondevo: Ma papà, sei tu importante! Non c’era verso, era talmente contento È un esempio del grande amore e anche del grandissimo rispetto che aveva per il lavoro”. Rispetto per il lavoro che ha tramandato anche a voi figli... “Sì, penso di poterlo dire anche a nome dei miei fratelli: sul lavoro papà ci ha insegnato tutto. Credo ad esempio che non ci sia nessuno più puntuale di noi in tutta Italia! È un modo di vivere, una disciplina necessaria. Anche Maria (De Filippi, ndr) in questo è uguale identica a lui. Noi figli siamo però più affamati di vita, abbiamo famiglie, figli. Chiedevamo a papà: non ti va di andare al mare, di riposarti, ma niente, per lui il lavoro era tutto. Quando da bambini andavamo a casa sua nel weekend, lui lavorava nel suo studio e per tenerci impegnati ci metteva davanti alla Tv. Aveva una collezione infinita di VHS con i film del suo cuore, Totò prima di tutto, ma anche quelli di Monicelli: li conoscevamo a memoria. Era un padre sempre al lavoro, non un padre assente. Poi, quando è diventato nonno, è stato invece super presente”. Oltre al “Premio Maurizio Costanzo nelle Carceri”, so che sta ragionando di concretizzare anche un altro tema molto caro a suo padre... “Papà voleva aprire a Roma le balere per gli anziani. Era uno dei suoi ultimi progetti e io lo trovo bellissimo. I grandi vecchi sono sempre di più, e sempre più soli. So che papà era in contatto con il Comune di Roma per sistemare alcuni locali dismessi e trasformarli in balere. Questo tema è il primo cui avevo pensato, prima ancora delle carceri. Poi, a proposito di rispetto per il lavoro, ho deciso di concentrare l’energia su un progetto per volta, per poterlo seguire seriamente. Quindi certo, l’Associazione Maurizio Costanzo si impegnerà anche per gli anziani: per ora, con il direttore commerciale del Parioli Fabrizio Musumeci abbiamo l’idea di portare il teatro nelle Rsa”. L’ex bandito Giovanni Farina si racconta: i rapimenti, il carcere, la poesia di Andrea Massidda La Nuova Sardegna, 3 giugno 2025 Ripercorrere la sua vita è come attraversare una terra di confine tra infanzia e latitanza, tra la Sardegna aspra della sua famiglia di pastori e la Toscana diffidente che negli anni Cinquanta guardava i sardi come stranieri. Per Giovanni Farina, che Wikipedia descrive come “criminale, poeta e scrittore italiano” nato a Tempio Pausania nel 1950, le montagne tra Firenze e Prato, dove da bambino aiutava suo padre con le pecore, furono probabilmente il primo carcere immaginario. Poi vennero quelli veri, con una condanna a Fine Pena Mai per sequestri di persona. “In realtà - precisa lui stesso, ora che ha regolato tutti i conti con la giustizia - sono stato dentro per 40 anni, 35 dei quali passati in regime di massima sicurezza”. Eppure, tra una sentenza e l’altra, tra una fuga in Venezuela e un arresto a Sidney, tra il 41 bis e i processi, qualcosa ha continuato a muoversi: una parola, una poesia, una memoria. Lo stesso Giuseppe Soffiantini, l’imprenditore sequestrato dall’Anonima nel 1997, arrivò a pubblicare alcune sue opere in versi. “Pensare che fecero di tutto affinché mi accusasse del suo rapimento - commenta bofonchiando - ma lui disse sempre che io non c’entravo nulla. Era un galantuomo, Soffiantini, altroché”. Giovanni Farina, una curiosità prima di iniziare la nostra chiacchierata: lei sogna in sardo o in italiano? “Io ho sempre sognato in sardo. È la mia lingua madre, anche se l’ho imparata in Toscana. E quando parlo in sardo perdo totalmente gli altri accenti”. In tutti questi anni di carcere per lei la poesia è stata una compagna di viaggio, un rifugio, oppure un modo per fare i conti con quello che le è successo? “Facendo di mestiere il pastore sono per forza di cose un autodidatta, ma io ho sempre avuto la passione per la poesia e in generale per la letteratura. Poi in carcere, con tutto il tempo che avevo a disposizione, mi sono cimentato a scrivere. Ed è stato anche un modo per comunicare con l’esterno. Ora è una mia ragione di vita”. Quando prendeva carta e penna a chi pensava di rivolgersi? A se stesso, ai compagni, a qualcuno lontano, magari immaginario? “In primo luogo alle persone a cui volevo bene che non potevo vedere. Poi mi rivolgevo a tutti quelli che mi tenevano in carcere da innocente. Comunque ho scoperto che tra i miei lettori ci sono molti intellettuali. In tutti gli istituti di pena in cui sono stato mi sono sempre battuto perché si facesse istruzione. È importante”. Scrivere significa anche ricordare. Ma la memoria può essere una ferita, a volte una condanna che si aggiunge a quella del tribunale... “I miei ricordi erano per mia moglie e per mia figlia che ho visto pochissimo: ora è grande e vive negli Stati Uniti. Insomma, mentre scrivevo pensavo ai miei giorni felici”. Nei suoi libri ritorna spesso il tema dell’identità sarda e di quel pregiudizio che ha accompagnato tanti pastori arrivati dall’isola in Toscana. Lei l’ha provato sulla sua pelle? Ha mai avuto la sensazione di essere giudicato, prima ancora che per quello che aveva fatto, per il solo fatto di essere “sardo”? “Inizialmente eravamo considerati stranieri. Ma con il tempo anche i toscani hanno riconosciuto che i sardi, grandi lavoratori, hanno salvato un’economia che stava scomparendo”. Ha sentito della polemica nata dalle parole di Roberto Saviano sulla criminalità sarda? “Sì, ma io Saviano non lo considero proprio: secondo me è sopravvalutato. Ho vissuto con persone che lui ha calunniato, e come uomo non mi piace affatto: scrive utilizzando i verbali della polizia”. C’è chi dice che un ergastolano non dovrebbe più avere voce. Lei invece ha scritto libri, poesie, riflessioni. Cosa risponde a queste persone? “Che prima di giudicare gli altri dovrebbero giudicare se stesse e fare un bilancio”. Lei ha scritto un libro sui femminicidi. Che idea si è fatto di questo fenomeno? “Intanto che non è certo un’emergenza attuale. E poi che le donne sono spesso vittime dello Stato. Pensi alla poetessa francese Olympe de Gouges, che per il suo femminismo venne ghigliottinata. O alle giornaliste fatte morire di fame in Tunisia. O al delitto d’onore vigente in Italia sino a pochi anni fa. Detto questo, io sono cresciuto con quattro donne in casa e so bene quanto valgono”. Se oggi potesse decidere cosa far restare di lei - al di là dei reati e delle condanne - cosa le piacerebbe che restasse? “Le poesie”. Si sente più Graziano Mesina o più Gavino Ledda? “Nessuno dei due. Ma “Padre padrone” mi è piaciuto molto. Per concludere, se dovesse scegliere una sola parola per raccontare la sua vita, quale sarebbe? “Ora non saprei. Ma posso dirle che io nella mia vita ho sempre lottato, anche davanti alle avversità”. “Sto nel chill”, “ti ho blastato”, “troppo cringe”. E chi è “sigma”? di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci Corriere della Sera, 3 giugno 2025 Viaggio nello slang dei giovani di oggi (dove il babbo è un nabbo). Inglesismi, influenze arabeggianti, gergo di strada: un gruppo di 14-15-16enni ha guidato il Corriere tra i neologismi dei ragazzi di oggi. E gli adulti non possono giudicare, perché negli anni 80 usavano “sfitinzia”, “cbcr” e “saccagnare”. “L’outfit drippa” (drip: stiloso). “Flexo le mie scarpe” (flexare: ostentare). “Droppami la foto” (condividimela). “Fai al fly” (al volo, sbrigati). “Sono nel prime” (al top). “È una pick me assurda” (fa di tutto per attirare attenzione dei ragazzi). “Oggi sto nel chill, la prof non interroga” (chillarsela, gran bella condizione). “La prof fa un compito a sorpresa, che sgravo” (insopportabile). Comandamento per gli adulti/genitori: non giudicate. Non ve lo potete permettere. Primo: per spiegare che un affare ha un volume di 5 mila euro, qualcuno di voi dice che “cuba 5 k” (frase d’una bruttezza rara, da orticaria). Ma soprattutto, se siete stati adolescenti a Milano negli anni Ottanta, molto probabilmente assorbivate come spugne inconsapevoli il lessico paninaro del “Drive-in”, meridionalismi assortiti, una spruzzata di dialettismi: e il vostro linguaggio era un minestrone di togo, sfitinzia, troooppo giusto, cucadòr, lumare, cattare, saccagnare, libidine, ameba, sgamo e così via. (Precisazione: in neretto troverete vocaboli ed espressioni del linguaggio giovanile attuale; in corsivo le parole dei giovani negli anni Ottanta-Novanta). Quel che oggi è l’ormai abusato maranza, trent’anni fa galleggiava fra tamarro, truzzo e zarro (fino a tabozzo). Ciò che adesso è nabbo, prima era babbo (spesso di minchia). Per voi era zanzare, o scavallare, ciò che ora è pullappare. Arrivando al macchiettistico, qualcuno davanti a una ragazza carina molto giovane esclamava cbcr (cresci bene che ripasso); oggi invece va l’acronimo yolo: “Lo faccio o non lo faccio? Yolo” (you only live once, una specie di carpe diem). Il palo negli anni Ottanta era il milione (gamba 100, mezza gamba 50); ora dare palo significa rifiutare un corteggiamento: il respinto si ritrova desolato e friendzonato (in zona amici, escluso da possibilità sessual-sentimentali). Sondaggio nella lingua contemporanea dei giovani milanesi. Il Corriere ha chiesto aiuto a un gruppo di 14/15/16enni (grazie a Ludovica, Anita, Yassin, Vittoria, Mattia, Asia, Amine, Drif). Hanno esaminato il loro linguaggio. Ci hanno fornito una lista di vocaboli ed espressioni che lo identificano. Una lingua è una città che brulica di vita. La metamorfosi è continua. Parole nuove germogliano, vengono prese in prestito, si diffondono. Alcune durano poco, altre resistono, o transitano dal gergo al parlato diffuso: così è accaduto, in epoche diverse, per spoilerare, spaccare, ci sta, stare/andare in para, sballo, tanta roba, non (c’)ho sbatti, limonare. Un romano, trent’anni fa, non avrebbe capito che quello strano verbo agli agrumi era sinonimo di pomiciare. Mentre il romanesco scialla ha spaccato anche a Milano: secondo un articolo della Treccani, “potrebbe derivare da inshallah, formula ritualizzata di saluto e devozione islamica”. Il filo arabeggiante conduce a uno dei “quartieri” più vitali della nuova lingua di Milano, il territorio in cui si parla di denaro: qui gli influssi s’accavallano, soprattutto nelle periferie. Denaro può essere la grana (milanesismo storico), i piccioli (meridionalismo, con sfumatura di gergo criminale), la kitcha e la moula (origine rap da Francia e dagli Stati Uniti), la plata (dallo spagnolo, rilanciato dalle serie su Pablo Escobar), il floos o flus (dall’arabo “fulus”). Analogo grappolo di termini ruota intorno ai modi di chiamarsi tra amici: amo/vita/bro/fra/frate (da romanesco, inglese, napoletano gomorresco). Per descrivere la lingua attuale può essere utile recuperare un’indagine del passato. Nel 1992 il grande glottologo e linguista Emanele Banfi pubblicò i risultati di un’indagine nelle scuole sul lessico dei 15/16enni a Milano. La tabella riassuntiva racconta che il vocabolario comprendeva 50 parole dal “sexualese” (ciulare, cuccare, bernarda, slinguare, mandrillo...), 28 romanismi/meridionalismi (bambascione, gnocca/o...), 24 cultismi (parole prese dalla lingua colta come mollusco per pigro, rabbino per spilorcio, primitivo per rozzo), 20 milanesismi (barbone, baluba, bigolo, sleppa, sberla, pirla...), una ventina di termini dal mondo della droga (sconvolto, schizzato, scoppiato, fuso...) e - elemento chiave - soltanto 5 anglismi: fly down (per stai calmo), skin, stress, trend, trip. Oggi, passati tre decenni, tutte le categorie sono in ritirata, oppresse dalla valanga degli anglismi che traboccano da potenti centrali di irradiamento linguistico come le serie Tv, i social, i video giochi, la musica. Parole spartiacque: i boomer sono impietosamente cringe. Adulti/genitori: gente imbarazzante, piuttosto ridicola. Imbambolata se sente dire: snitch (spione), shippare, ovvero desiderare che due persone si mettano insieme (“quei due li shippo troppo”), la mia crush (la mia cotta), non keppare (non fare scherzi), ti ho blastato (distrutto), hai lo swag (ti vesti con stile), G (da gangsta, poi fratello), Gg (good game, bravo), sei la mia bff (best friend forever), quella é una catfish (dai video bella, di persona diversa). Un pezzo di questa lingua non è deep (profonda) dunque sparirà; qualcosa resterà. Sono gli insondabili, meravigliosi meccanismi della creatività del linguaggio: tutto check (tutto a posto). In trappola: i nuovi manicomi di Ludovica Jona* Il Manifesto, 3 giugno 2025 Pochi mesi di detenzione domiciliare per droga si sono trasformati in segregazione a vita per un sessantenne rinchiuso nelle strutture convenzionate del Lazio. Un affare per i privati. “Vivo nella residenza di Colle Cesarano. Sono entrato sano e ora mi trovo così angosciato e disamorato da lasciarmi andare. Sono anni che vengo sbattuto da una struttura all’altra. La libertà è diventata un’utopia. In passato ho commesso qualche errore ma ora non ho più nulla a che fare con gli stupefacenti: che motivo ho di continuare a soffrire, apprezzando le cose belle della vita?”. Così Paolo (nome di fantasia) scriveva due anni fa al suo giudice tutelare, dopo che la detenzione domiciliare di 8 mesi per piccoli reati legati alla droga si è trasformata in segregazione nel circuito di residenze psichiatriche convenzionate con la regione Lazio. “Non voglio finire la mia vita in una Rsa e morirci - scriveva con una calligrafia regolare - ho ancora molte energie e non voglio annientarmi così. La vita è bella e io voglio viverla: non ricordarla, ma viverla”. Quando abbiamo conosciuto Paolo, a marzo, siamo andati a trovarlo nella Rsa della provincia di Roma dove, nonostante le sue suppliche, è stato poi trasferito. Lo abbiamo invitato a pranzo in un ristorante poco distante dalla struttura ma la dirigenza ci ha negato il permesso perché l’amministratore di sostegno si è opposto, senza fornire spiegazioni. “Paolo non ha pendenze penali, tuttavia il giudice tutelare su istanza di una delle residenze in cui ha dimorato lo ha affidato a un amministratore di sostegno”, spiega l’avvocato Daniele Ingarrica che è stato suo legale nel periodo della detenzione domiciliare. Tutte e tre le strutture (residenze psichiatriche e Rsa) dove Paolo ha risieduto in quasi un decennio facevano capo al gruppo Sage, acquistato nel 2021 dalla multinazionale francese delle case di riposo Clariane (ex Korian), che nel Lazio possiede quasi 2mila posti letto per anziani (circa 1.500), pazienti psichiatrici e disabili. I posti letto per pazienti psichiatrici convenzionati con la regione Lazio fruttano alle società che li detengono rette mensili di circa 4.500 euro al mese. Nel Lazio queste residenze assorbono circa il 70% del budget per la salute mentale (a livello nazionale la percentuale è del 50%) secondo Daniela Pezzi, che è stata l’ultima presidente della consulta regionale sul tema (fino all’abrogazione di questa figura indipendente nel 2022). “Le liste d’attesa per la riabilitazione psichiatrica sono spesso lunghe e l’unica ragione per cui un paziente viene mantenuto in cura è la sua esigenza clinica” commenta Clariane. Tuttavia, in una relazione del settembre 2021 redatta su carta intestata della residenza psichiatrica Colle Cesarano (200 posti letto in provincia di Roma) leggiamo che Paolo è “stabile sul piano clinico”, non ha più dipendenze dalla droga, si relaziona bene con gli operatori, è regolare nel prendere la terapia e la sua diagnosi “psicosi non ben specificata” provoca disabilità “lievi”. Tuttavia, lo psichiatra e i due psicologi che firmano il documento affermano che le ragioni per cui non può vivere all’esterno siano “la situazione economica” e “l’assenza di una rete di supporto esterna”. Addirittura definiscono lo struggente desiderio di libertà di Paolo un “ostacolo alla relazione terapeutica”. Il Centro di salute mentale pubblico (Csm) cui Paolo fa riferimento ha allegato per anni relazioni come questa, contenute in un documento dal titolo “Progetto terapeutico riabilitativo personalizzato” (Ptrp), alla richiesta di rinnovare il finanziamento regionale per la sua permanenza in struttura. “Esiste una quota di persone residenti in strutture psichiatriche residenziali la cui dimissione viene continuamente posticipata, non perché le loro condizioni cliniche e il loro livello di funzionamento sociale non consentano una vita indipendente, ma perché i servizi pubblici di salute mentale non hanno le risorse per garantire a tutti i progetti di vita indipendente assistita”, spiega Antonio Maone, psichiatra che da anni si occupa del tema dell’assistenza residenziale a Roma. Questo percorso avviato da strutture private e validato dal Csm non è accettabile per Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà personale nel Lazio: “Qualsiasi intervento di sostegno alle fragilità deve essere orientato all’autonomia della persona e, se non in casi eccezionali, di effettiva e totale non autosufficienza. Non può tradursi in una istituzionalizzazione sine die, né il vincolo economico può diventare tale da prevedere una sistematica istituzionalizzazione dei non abbienti: bisogna lavorare a soluzioni abitative in gruppi appartamento sostenuti dai servizi sociali territoriali”. I gruppi appartamento nel Lazio sono poco diffusi: dei 10 Dipartimenti di salute mentale (Dsm) cui abbiamo chiesto il numero dei pazienti beneficiari attraverso istanze di accesso agli atti, solo 6 hanno risposto fornendo il numero di 301 potenziali beneficiari complessivi (35 nella Asl Rm 1, 113 della Rm 2, 33 nella Rm 3, 49 nella Rm 4, 44 nella Rm 6 e 27 a Rieti). Al contrario, il budget regionale per le strutture psichiatriche è in crescita: si è passati dai 69 milioni di euro del 2019 agli 86,5 milioni per il 2024. A questi si aggiunge la spesa per le case di cura per anziani dove vengono mandati pazienti psichiatrici, anche giovani, se non ci sono altre soluzioni. A giugno 2024 chi scrive ha chiesto, tramite istanze di accesso agli atti (Foia), alle 16 società proprietarie di strutture psichiatriche nella regione Lazio con oltre venti posti letto il numero e l’età dei pazienti che risiedono nelle loro residenze da oltre due anni e la pianta organica del personale. Le tre società acquisite dalla multinazionale francese, Geress Srl e Lob Srl (ex gruppo Sage) e Italian Hospital Group, si sono rifiutate di fornire i dati nonostante il difensore civico regionale glielo avesse ordinato. Dopo il nostro ricorso al Tar, a dicembre i giudici amministrativi hanno confermato l’obbligo per le società di inviarci le piante organiche del personale (ma non il numero di anni durante i quali i pazienti sono rimasti in queste strutture, che quindi rimarrà segreto). Ad oggi solo Geress Srl e Italian Hospital Group hanno fornito, se pur in ritardo rispetto alla richiesta del Tar, la pianta organica, mentre Lob Srl non l’ha ancora inviata. La documentazione ricevuta risulta conforme ai requisiti minimi regionali per il personale, tuttavia Massimiliano Rizzuto, responsabile della sanità per la Cgil Lazio, sottolinea che le piante organiche spesso non riflettono le condizioni reali: “Vi sono indicate anche persone che sono in malattia da un anno, senza che sia stato inserito un sostituto” perché “i controlli dei Csm sono molto rari”. Inoltre, “se un infermiere viene usato per fare un lavoro di reception resta indicato come infermiere”. E ancora: “Le difficoltà economiche e normative stanno abbrutendo i lavoratori e la qualità dell’assistenza ai pazienti si abbassa”. Il sindacalista sottolinea come nel Lazio l’assistenza psichiatrica e quella agli anziani le fanno quasi tutte i privati “che hanno come obiettivo gli affari”, così “hanno ottenuto una forza politica enorme”. *Questa inchiesta è stata realizzata con il supporto di #IJ4EU e Journalismfund Europe Referendum. La nuova legge sulla cittadinanza è una riforma a metà: completiamola di Gianpiero Dalla Zuanna Avvenire, 3 giugno 2025 A seguito di vari interventi legislativi e delle imponenti emigrazioni susseguitisi a partire dall’Unità d’Italia, le persone con cittadinanza italiana si sono moltiplicate a dismisura, grazie a un’interpretazione estensiva del principio dello ius sanguinis (diritto di sangue). Fino alla mezzanotte (ora di Roma…) del 27 marzo 2025, chiunque poteva dimostrare di avere un antenato emigrato dall’Italia dopo l’Unità, per legge era cittadino italiano. Per vedersi riconosciuto questo diritto, poteva far domanda all’Ufficio Anagrafe del Comune di provenienza del suo antenato, al Consolato italiano nel suo stato di residenza, o alla Corte d’Appello della regione di provenienza del suo antenato. Di conseguenza, per la legge, fino al 27 marzo del 2025 i cittadini italiani “potenziali” erano un numero incalcolabile, probabilmente centinaia di milioni, ossia tutti i discendenti dei più di venti milioni di emigranti che hanno lasciato l’Italia dal 1861 a oggi, restando poi stabilmente all’estero. Il Parlamento italiano ha convertito in legge un decreto del Governo che - a partire dalle domande presentate dopo il 27 marzo 2025 - prevede che il diritto di cittadinanza si trasmetta solo per due generazioni, con una possibile estensione alla terza solo per figli minori. Questo significa che sarà considerato cittadino italiano alla nascita solo chi ha almeno un genitore o al massimo un nonno italiano. Lo ius sanguinis oltre la seconda generazione non sarà più possibile, se non in casi specifici e ristretti, definiti dalla legge. Questa legge potrebbe apparire come una drastica riduzione di diritti: di fatto, milioni di persone, in tutto il mondo, da un giorno all’altro, sono state private della cittadinanza italiana. Tuttavia, la questione va rovesciata: era lo ius sanguinis precedentemente in vigore ad essere irragionevole, mentre la nuova normativa è molto più vicina al significato autentico che dovrebbe essere attribuito alla cittadinanza. La realtà dei fatti e l’analisi socio-demografica mostrano che quando una emigrazione si consolida, i legami con il paese di origine, rapidamente, si indeboliscono. Come sta accadendo oggi in Italia, i figli degli immigrati si identificano rapidamente con il paese ospite. I nipoti degli immigrati quasi sempre non parlano nemmeno la lingua del paese da cui provengono i loro nonni, e sono del tutto simili - per stile di vita, mentalità, gusti… - ai loro coetanei autoctoni. Se ammettiamo che la cittadinanza dovrebbe coincidere con l’appartenenza stabile e attiva a una comunità, la nuova legge sembra quindi aver posto un limite ragionevole. Un’ulteriore questione si pone per i paesi democratici, inclusa l’Italia, dove “la sovranità appartiene al popolo”. È irragionevole dare diritto di voto (attivo e passivo) a persone che con l’Italia non hanno nulla a che fare: già oggi gli iscritti all’Anagrafe Italiana Residenti Estero (Aire) sono 6,5 milioni, ma potenzialmente - se la legge non fosse cambiata - avrebbero potuto diventare decine di milioni, superiori anche nel numero ai 55 milioni di residenti in Italia con diritto di voto. Ad esempio, questi 6,5 milioni di (potenziali) elettori oggi contribuiscono a innalzare il quorum necessario per la validità dei referendum. Questa nuova legge, quindi, sembra essere un primo passo nella giusta direzione, per far coincidere pragmaticamente cittadini de jure e cittadini de facto. Sarebbero tuttavia necessari altri passi per superare normative sulla cittadinanza, rese anacronistiche dalla storia effettiva dei movimenti migratori dell’Italia contemporanea. In primo luogo, si potrebbero allargare le maglie della nuova legge, creando corsie privilegiate per l’ottenimento della cittadinanza da parte di discendenti italiani oltre la seconda generazione, perché vi sono casi di persone che - effettivamente - hanno mantenuto un forte legame con l’Italia. Ad esempio, per i discendenti degli italiani si potrebbe prevedere l’acquisizione della cittadinanza dopo un periodo contenuto (2-3 anni) di residenza continuativa, di studio e di lavoro nel nostro paese. In secondo luogo, andrebbe affrontata seriamente la questione della cittadinanza per i nuovi italiani. Gli attuali 4,5 milioni di stranieri oggi residenti in Italia, per chiedere di diventare cittadini debbono risiedere continuativamente per dieci anni nel nostro Paese (più una media di tre anni di iter burocratico…), oltre a dover - giustamente - dimostrare di avere un alloggio, un lavoro e di non aver commesso reati. Particolarmente critica è la situazione dei minori stranieri nati in Italia o qui giunti in tenera età, che si sentono italiani, ma quando entrano nell’adolescenza “scoprono” di non esserlo, e debbono subire anche restrizioni pratiche, ad esempio non essendo liberi di circolare nell’Unione Europea. Da un punto di vista della democrazia, questi 4,5 milioni di cittadini vivono in un paradosso: contribuiscono a determinare alcune cifre elettorali, calcolate sui residenti, come il numero di eletti nelle assemblee amministrative e legislative (Consigli Comunali, Parlamento…), ma non possono eleggere i loro rappresentanti, né essere eletti. Un po’ come accadeva, fino al 1946, per le donne. L’abbassamento da dieci a cinque anni dei tempi di residenza necessari per poter far domanda di cittadinanza allineerebbe l’Italia ad altri paesi, come la Francia e la Germania. Il referendum dell’8 e 9 giugno è un’occasione per modernizzare anche questo aspetto della normativa. Il conteggio dei residenti Aire, assieme alla crescente disaffezione al voto, renderà complesso raggiungere il quorum, ma vale la pena provarci. Migranti. Sorpresa: tornano a crescere gli sbarchi in Italia. Il picco a maggio di Simone Marcer Avvenire, 3 giugno 2025 I dati del Viminale, secondo il cruscotto statistico: 2.028 persone in più arrivate nei primi 5 mesi del 2025. Continuano allarmi e Sos in mare. Oim: 233 morti da inizio anno nel Mediterraneo centrale. Almeno 233 persone sono morte e 225 risultano disperse sulla rotta del Mediterraneo Centrale dall’inizio dell’anno al 31 maggio. Lo rende noto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) in Libia nel suo ultimo aggiornamento pubblicato su “X”. Nello stesso periodo, precisa l’agenzia dell’Onu, i migranti intercettati in mare e riportati in Libia sono stati 9.585, di cui 8.147 uomini, 960 donne, 333 minori e 145 di cui non si conoscono i dati di genere. Lo scorso anno sono state invece 2.452 le morti documentate nel Mar Mediterraneo. “Una tragedia inaccettabile e prevenibile. Dietro ogni numero c’è un essere umano, qualcuno per cui questa perdita è devastante”, ha ricordato Ugochi Daniels, Vice Direttrice Generale per le Operazioni dell’Oim. Attualmente ci sono ventuno persone “disperse” ormai da una settimana nel Mediterraneo Occidentale, e la speranza di trovarle vive si riduce ogni giorno di più. La segnalazione di Alarm Phone è per un’imbarcazione partita il 26 maggio da Algeria e diretta Spagna: “Non abbiamo più notizie di loro e temiamo un altro naufragio invisibile su questa rotta mortale” afferma Alarm Phone, che riferisce di aver perso i contatti. Dopo la segnalazione iniziale non sono giunte ulteriori notizie sull’imbarcazione. I dati del Ministero dell’Interno mostrano peraltro a sorpresa una ripresa e un aumento degli sbarchi che, con 22.844 migranti arrivati in Italia in cinque mesi, hanno superato il dato relativo allo stesso periodo del 2024 (20.816 migranti). Sbarchi che hanno avuto un picco il mese scorso: 7.051 arrivi in maggio, contro 4.976 del maggio 2024. Le giornate in particolare i cui si sono registrati arrivi in massa sono quelle del 1-2 maggio (670 e 534 persone), 11-13 maggio (505, 337 e 408 persone), 17-18 maggio (393 e 483 migranti) e il 20-21 dello stesso mese (541 e 379). Arrivi che sono continuati fino alla scorsa settimana, con migranti soccorsi nel canale di Sicilia e sbarcati nell’Agrigentino, e altri arrivi anche nel sud della Sardegna. Rimane invece nettamente inferiore il confronto con i numeri del 2023, che fece registrare 157.651 sbarchi in un anno. Nel maggio di quell’anno gli sbarchi furono 8.154, circa 1.100 in più di quelli del mese scorso. Tra le nazionalità dei migranti, la percentuale maggiore è quella di persone del Bangladesh (34%), poi c’è un 16% di eritrei, mentre egiziani e pachistani rappresentano il 10% ciascuno degli arrivi del 2025. Per quanto riguarda invece i minori non accompagnati, nei primi cinque mesi dell’anno ne sono arrivati 3.839. Anche in questo caso si tratta di un numero che indicherebbe comunque una crescita, proporzionalmente, rispetto allo stesso periodo del 2024, che fece registrare un numero complessivo di 8.043 minori arrivati nel corso dell’anno. Migranti. “Nessun reato per il genitore che entra illegalmente in Europa con i figli minori” Il Dubbio, 3 giugno 2025 La Corte di Giustizia risponde al Tribunale di Bologna: non è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ma esercizio della responsabilità familiare. Un cittadino di un Paese terzo che attraversa illegalmente le frontiere dell’Unione europea insieme ai propri figli minorenni non può essere sanzionato penalmente per favoreggiamento dell’ingresso illegale. Lo ha stabilito la Corte di Giustizia dell’Unione europea, rispondendo a un rinvio pregiudiziale formulato dal Tribunale di Bologna. La pronuncia fa riferimento a un caso del 2019, quando una donna, cittadina di un Paese extra-Ue, fu fermata all’aeroporto di Bologna insieme alla figlia e alla nipote minorenni. Tutte e tre erano arrivate con passaporti falsi, e la donna fu arrestata con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La migrante dichiarò di essere fuggita dal proprio Paese per gravi minacce ricevute dall’ex compagno e di aver portato con sé le due minori, di cui era effettivamente affidataria, per proteggerle da pericoli concreti. Nel motivare la propria decisione, la Corte del Lussemburgo ha stabilito che accompagnare minori a cui si è affidatari non costituisce reato, ma esercizio della responsabilità familiare, tutelata dagli articoli 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Una diversa interpretazione, ha scritto la Corte, implicherebbe un’ingiustificata compressione del diritto alla vita familiare e dei diritti del minore. La Corte ha aggiunto che anche il diritto d’asilo impone una protezione, poiché una persona che ha fatto richiesta di protezione internazionale non può essere considerata irregolare finché la sua domanda non è stata esaminata in primo grado. Di conseguenza, né lei né i minori che la accompagnano possono essere perseguiti penalmente per il solo ingresso illegale. La sentenza chiarisce anche che gli Stati membri non possono ampliare arbitrariamente la definizione di reato di favoreggiamento oltre quanto previsto dal diritto dell’Unione. Qualsiasi norma nazionale che preveda una sanzione penale in casi simili è in contrasto con il diritto europeo. Svizzera. Pene a vita, condizionale dopo 17 anni Corriere del Ticino, 3 giugno 2025 In futuro, una persona condannata alla prigione a vita dovrà trascorrere almeno 17 anni in carcere, invece di 15 come adesso, prima di poter beneficiare di una liberazione con la condizionale. È quanto prevede una modifica del Codice penale adottata dal Consiglio degli Stati. Nel corso dell’esame di questo, progetto, il plenum ha poi stabilito che le nuove disposizioni devono valere anche per chi sta già scontando una pena detentiva a vita. Una minoranza, invece, voleva che la modifica del Codice penale si applicasse solo alle persone condannate dopo l’entrata in vigore delle nuove disposizioni. A suo avviso, i carcerati che si sono comportati bene per molto tempo non dovrebbero essere penalizzati con ulteriori anni di carcere. Il dossier torna al Nazionale. Venezuela. Il compagno di cella di Trentini: “Quel carcere è un inferno, fatelo liberare subito” di Giuliano Foschini La Repubblica, 3 giugno 2025 David Guilleme, infermiere americano, è stato arrestato a Caracas durante una vacanza “Io e Alberto ostaggi del regime”. David Guilleme, 30 anni, infermiere americano, fu preso a Cucuta, confine con la Colombia, mentre provava a entrare in Venezuela. Era con la sua fidanzata, volevano passare tre settimane di vacanze. E invece furono bloccati, incappucciati e portati in una prigione. “Uno dei comandanti del reggimento è venuto da me e mi ha messo il piede in testa. Mi ha detto: Benvenuto in Venezuela. Benvenuto all’inferno!”. David Guilleme è l’ultimo testimone della vita di Alberto Trentini. Lo ha incontrato in una cella di Rodeo One, la prigione dei servizi segreti dove da 200 giorni Trentini è rinchiuso. La prigione da cui l’Italia spera di poterlo tirare fuori: ci sono state una serie di aperture nelle scorse settimane quando è stato concesso ad Alberto di chiamare casa. Ma la libertà, l’unica cosa che conta, è ancora troppo lontana. David come sta? “Ora bene. Anche se non riesco ancora a rendermi conto di quello che è successo: doveva essere soltanto una vacanza e invece è stato davvero l’inferno”. Quando ha visto Alberto per l’ultima volta? “Era stato arrestato da circa un mese. Stava in una cella accanto alla mia e da dietro le sbarre riuscivamo a scambiare ogni tanto qualche parola. Alberto parlava un ottimo inglese”. Cosa le ha detto? “Che era diretto a Caracas, che è stato fermato a un posto di blocco e alla fine è stato arrestato. Lui e il suo autista erano completamente all’oscuro del motivo per cui erano in quella prigione. Non avevano ricevuto alcuna spiegazione sulla loro detenzione”. Come stava Alberto? “Le condizioni in prigioni sono pessime, ma si assicurano di darci da mangiare e di darci le medicine necessarie, anche se dobbiamo letteralmente litigare con loro. Alberto era nel blocco B, dove per fortuna non ci sono stati episodi di violenza. In quello C, dove io sono stato, c’era stata una protesta: le guardie sono venute in tenute antisommossa, hanno spruzzato spray al peperoncino e poi hanno cominciato a picchiare”. Perché, secondo lei, siete stati arrestati? “Eravamo ostaggi. E non prigionieri. Arrestano le persone soltanto per fini politici. Lo hanno fatto con me. Ed è successo ad Alberto”. Di cosa parlavate con lui? “Mi diceva che voleva tornare dalla sua famiglia. Che gli mancano i suoi cari, che era preoccupato per il loro stato di salute. Non si può restare a lungo in quelle carceri senza avere dei danni: per questo l’Italia deve fare tutto il possibile per fare tornare Alberto a casa il più presto possibile. Voglio sentirlo da libero”. Stati Uniti. Presunti colpevoli: la polizia raccoglie il Dna dei bimbi migranti di Marina Catucci Il Manifesto, 3 giugno 2025 La Customs and Border Protection (Cbp) ha effettuato dei tamponi per prelevare il Dna di bambini migranti di appena 4 anni fermati al confine, in modo da caricare i loro dati genetici in un database gestito dall’Fbi che potrà così rintracciarli in caso, da adulti, dovessero commettere un crimine. I documenti in cui si parla di questa prassi sono stati rilasciati in sordina dalla US Customs and Border Protection all’inizio di quest’anno, e offrono lo sguardo più dettagliato raccolto fino ad oggi sulla portata del programma di raccolta del Dna per mano del Cbp, rivelando quanto profondamente la sorveglianza biometrica del governo si spinge nelle vite dei bambini migranti, alcuni dei quali, prima ancora di imparare a leggere o ad allacciarsi le scarpe, hanno il proprio Dna già conservato in un sistema costruito per i condannati per reati sessuali e crimini violenti. Secondo il Dipartimento di Giustizia questa attività di raccolta del Dna fornisce “una valutazione del pericolo” che un migrante potenzialmente “rappresenta per il pubblico”, e aiuterà a risolvere i crimini che potrebbero essere commessi in futuro, una valutazione che sembra venire direttamente da Minority Report. Gli esperti di privacy temono che il materiale genetico dei bambini venga conservato a tempo indeterminato e senza un’adeguata protezione, e che possa essere utilizzato per una profilazione più estesa. I dati mostrano che, da ottobre 2020 alla fine del 2024, il Cbp ha effettuato tamponi su un numero di persone compreso tra 829.000 e 2,8 milioni. Il numero include ben 133.539 bambini e adolescenti. I campioni di Dna vengono registrati nel Combined Dna Index System, Codis, un database gestito dall’Fbi, che elabora il Dna e ne conserva i profili genetici. Il Codis, una rete di database forensi pensata per i criminali, che viene utilizzato dalle forze dell’ordine statali e federali, per confrontare il Dna raccolto dalle scene del crimine o dalle condanne e identificare i sospettati. I migranti solitamente hanno paura di rifiutare il prelievo del Dna, ha dichiarato Stevie Glaberson, direttore del Centro per la ricerca e la difesa della facoltà di legge della Georgetown University di Washington, sollevando dubbi sulla legalità del consenso fornito. “Le persone a cui viene prelevato il Dna la vivono in due modi - ha affermato Glaberson - Secondo la nostra ricerca, o non sono consapevoli di ciò che sta accadendo, o hanno troppa paura per opporsi”. La Cbp è una forza dell’ordine federale che risponde al dipartimento per la Sicurezza nazionale come l’Ice, la polizia migratoria che non opera solo al confine: recentemente i suoi agenti sono entrati nel tribunale per l’immigrazione di Manhattan e hanno effettuato numerosi arresti, coinvolgendo immigrati e osservatori. Un reporter di un portale di news locale, The City, che si trovava sul posto durante un raid, ha parlato di circa due dozzine di agenti in borghese con la faccia mascherata, che sorvegliavano l’atrio di un tribunale di Lower Manhattan, dove gli immigrati si recano per i controlli con l’Immigration and Customs Enforcement e per gli appuntamenti di routine con i servizi per la cittadinanza e l’immigrazione. Sempre a New York, alcuni attivisti per i diritti dei migranti presenti in un secondo tribunale per l’immigrazione hanno descritto altri arresti simili: dopo aver saputo di un movimento sospetto di agenti dell’Ice, verso sera un centinaio di attivisti si è radunato fuori dal tribunale e ha cercato di bloccare i furgoni pieni di immigrati detenuti che venivano portati via dall’edificio. A quel punto sono arrivate decine di agenti della polizia di New York per arrestare i manifestanti, con l’aiuto di una quarantina di agenti federali mascherati. Nel gruppo di arresti è rientrato anche quello di un pastore protestante del Queens. Questo tipo di arresti a New York City, e in tutto il Paese, rappresenta un giro di vite senza precedenti che colpisce i migranti che tentano di seguire le procedure legali e si presentano alle udienze. Ad aggravare il tutto è il fatto che questo accada in quella che storicamente è una città santuario, dove la collaborazione delle autorità cittadine o statali con gli agenti dell’immigrazione è limitata a casi gravi e specifici, per coltivare la fiducia con la popolazione migrante locale e fare in modo che non abbia timore di rivolgersi alle autorità. Pochi giorni fa, la segretaria dell’Homeland Security Noem ha pubblicato online una sorta di lista di proscrizione (poi rimossa) che elencava le amministrazioni santuario degli Stati Uniti, includendo anche alcune che non lo sono, come la città di San Diego. “Sospettiamo verrà usato come ulteriore strategia intimidatoria per minacciare i fondi federali su cui la città fa affidamento” ha sostenuto, come riporta The New Republic, la procuratrice locale Heather Ferbert.