Gli effetti del decreto Caivano di Alberto Gaino gliasinirivista.org, 30 giugno 2025 Il “decreto Caivano”, emanato a fine estate 2023 dall’attuale governo e successivamente convertito in legge come azione di “contrasto al disagio giovanile”, ha avuto l’effetto di un’impennata di arresti e detenzione in carcere: a febbraio 2024 (fonte Antigone) erano 426 i minorenni dietro le sbarre in Italia, quattordici mesi dopo sono diventati 611, di cui quasi la metà stranieri. Fra quest’ultimi numerosi sono i ragazzi giunti soli nel nostro paese e che, dopo il venir meno di tanti servizi di accoglienza e il loro inserimento nei centri per gli adulti, hanno sovente pagato le conseguenze della promiscuità. Se questi numeri sui minori sono stati inizialmente contenuti lo si deve all’impegno dei tribunali dei minori e delle procure della Repubblica nel mantenere il proprio orientamento sul carcere come extrema ratio pur nelle difficoltà sempre più stringenti con le nuove norme (decreti sicurezza inclusi) che prevedono ulteriori inasprimenti delle pene. Alcuni dati in controtendenza lo provano. Il primo, fornito dallo stesso Ministero della Giustizia per il primo scorcio del 2025: 3240 adolescenti messi alla prova, cioè avviati ad un percorso di riparazione senza dover ripassare o passare dal carcere. Le prospettive più pesanti si profilano per quanti abbiano compiuto la maggiore età il giorno dopo il loro compleanno: il trasferimento in una casa circondariale per adulti. Prima del “decreto Caivano” i neo diciottenni potevano restare nelle carceri minorili sino alla vigilia dei 25 anni. In un incontro al Centro studi per la pace Sereno Regis, risalente ormai ad un anno fa, il criminologo Franco Prina (autore di Gang giovanili edito da Il Mulino) puntualizzò che il provvedimento normativo più opportuno sarebbe stato quello di separare la fascia dei detenuti cosiddetti giovani adulti (18/25 anni) da tutti gli altri in istituti riservati loro per evitare la promiscuità anche con i quattordicenni finiti dietro le sbarre. La peggiore promiscuità è però quella cui il governo Meloni ha condannato i giovani adulti e per una volta se ne sono visti tutti gli effetti nel carcere Marassi di Genova: un diciottenne è stato rinchiuso con detenuti di un certo spessore criminale che lo hanno seviziato per due giorni senza che sia intervenuta la polizia penitenziaria; solo dopo 48 ore il ragazzo è stato trasferito in un ospedale e a quel punto è scoppiata la rivolta di altri detenuti per protestare contro il gravissimo atto di violenza. Per una volta si è squarciato il velo sulle conseguenze di questa grave scelta politica di chi ci governa. Ma, per lo più, i media non hanno collegato i fatti di Genova al “decreto Caivano”. C’era già stata nelle precedenti settimane la denuncia di Monica Gallo, per dieci anni garante delle persone private della libertà personale all’interno della Città di Torino, consegnata ad un pamphlet: Diciotto anni e un giorno, edito da Effetà e presentato all’ultimo Salone del libro. Gallo vi scrive: “In Italia, all’inizio del 2025, sono 5067 i giovani detenuti under 25 nelle carceri per adulti: mentre al 30 giugno 2023 erano 3274, oggi si verifica un incremento di quasi 1800 unità. Ad ottobre 2024 un detenuto su otto appartiene a questa fascia d’età, con uno sviluppo del 35 per cento rispetto all’anno precedente”. Gallo traccia prima il quadro generale delle conseguenze del decreto Caivano: “Il carcere dovrebbe essere un luogo di recupero, ma troppo spesso si trasforma in un limbo in cui l’assenza di opportunità alimenta la frustrazione. Le giornate scorrono tra l’inattività e la noia: senza stimoli, senza cure e prospettive concrete, il tempo diventa un nemico. Questo vuoto ha conseguenze devastanti. [….].” E poi: “Ho assistito alla morte di giovani detenuti, ragazzi che, in un contesto di sofferenza e privazione, hanno scelto di non continuare a percorrere il cammino oscuro e inesorabile della detenzione. Li ho visti morire con una corda al collo o aspirando il gas di una bomboletta o infilando la testa in un sacchetto di nylon [….]. L’assenza di alternative porta ad interiorizzare le dinamiche carcerarie. La violenza diventa linguaggio comune, la gerarchia fra detenuti stabilisce chi sopravvive e chi soccombe. I più giovani assorbono queste regole come le uniche possibili. In questo modo il carcere non solo non interrompe il ciclo della devianza, ma spesso lo rafforza”. Sembrano parole incomprensibili a chi non sappia nulla del carcere e ne abbia più di frequente sentito parlare in termini securitari. Monica Gallo ha avuto il coraggio di svelare il tabù più resistente dietro le sbarre: “Nei contesti più duri della detenzione, la frustrazione sessuale si trasforma in sopraffazione: giovani detenuti diventano bersagli di abusi, vittime di gerarchie interne spietate. L’omosessualità forzata, imposta da logiche di dominio e controllo, è una realtà taciuta, spesso nascosta sotto il velo del silenzio e della paura [….]”. Il “decreto Caivano” è stato a suo tempo presentato come “azione di contrasto al disagio giovanile”. Definirlo non lungimirante sarebbe generoso verso chi lo ha ideato e votato. Una ricerca torinese risalente al 2022, commissionata dal Garante torinese all’Università, fotografa i ragazzi che finiscono dietro le sbarre in città: per il 48 per cento sono giovani stranieri giunti soli in Italia, poco più della metà con un titolo di studio equivalente alla terza media, la gran parte è conosciuta dai servizi sociali e ne è stata disposta la detenzione in carcere per reati (scippi, furti, rapine) e condanne dai 3 ai 5 anni, senza che gli autori avessero precedenti penali. In Italia vivono 18304 ragazzi e ragazze (quest’ultime sono un’esigua minoranza) che in questo primo scorcio del 2025 sono entrati in contatto per la prima volta con i servizi sociali ministeriali diventando altrettanti fascicoli, nei quali vengono annotati i loro percorsi, se ci sono. In quel caso possono evolvere verso una vita normale (studio, lavoro) o più spesso, purtroppo, scivolare nella vera devianza. Ciò accade in particolare per chi vive in strada, privo di risorse. Investire nel loro recupero sarebbe lungimirante, anche se impopolare. Eppure…. L’Italia è il paese europeo che più registra i minori stranieri non accompagnati sbarcati sulle nostre coste o giunti dalle rotte dei Balcani. E ne “conserva” tanti, rimasti intrappolati qui a causa del Regolamento di Dublino fra gli stati membri dell’Unione Europea (per il cui smantellamento l’Italia non si è battuta negli anni scorsi, al di là di rumorose proteste). Non è raro che la conseguenza del loro peregrinare li porti ad essere anche un fascicolo aperto/chiuso in un cassetto di un ufficio dei servizi sociali per minori. In ogni caso, nei primi quattro mesi del 2025 oltre due terzi dei ragazzi presi in carico per la prima volta dai servizi ministeriali sono italiani. Queste proporzioni si riflettono anche per fasce di età, per quanto sia gli 873 quattordicenni di nazionalità italiana sia i 293 loro coetanei stranieri segnalati ai servizi del Ministero della Giustizia rappresentino un dato di cui tener conto. Dalle statistiche ministeriali emerge un’altra indicazione: a differenza del passato i minori stranieri considerati a rischio provengono sempre meno dai paesi dell’Est Europa (in gran parte diventati comunitari) ma dall’Africa (2492) e in particolare dal Marocco (880), Tunisia (706) ed Egitto (469). Tuttavia, l’elemento più importante è un altro ancora: dal 2007 i minori stranieri sono passati dai 2972 segnalati in quell’anno ai 5485 del 2016 (quando ci furono i maggiori sbarchi di minori non accompagnati) per scendere ai 5125 del 2024 nonostante tutte le difficoltà istituzionali dell’accoglienza e, naturalmente, del “decreto Caivano”. Possiamo essere autorizzati a pensare che il volontariato e le opportunità che offre suppliscano all’involuzione delle politiche governative. Ma è a questo scenario cui deve ridursi un Paese che si consideri civile grazie a minoranze attive spesso considerate ostili dal governo Meloni? Ministeri, 2 miliardi di tagli: più telecamere nelle carceri per avere meno turni di sorveglianza di Andrea Pira Il Messaggero, 30 giugno 2025 Parte il monitoraggio e la verifica della riduzione dei costi richiesta ai vari dicasteri. Le amministrazioni si mettono in linea: trasporti, mezzi e pasti tra i principali target. Più telecamere installate nelle carceri per avere meno turni di sorveglianza. Nelle tabelle dell’ultimo allegato alla Documenti di finanza pubblica l’intervento del ministero della Giustizia passa sotto la dicitura “Riorganizzazione dei servizi penitenziari per effetto della transizione tecnologica e digitale”. È una delle strategie adottate dal dicastero di via Arenula per stare in linea con l’indicazione del ministero dell’Economia di ridurre le spese. Nel 2025 il ministero guidato da Carlo Nordio dovrà contribuire con 114 milioni di euro a raggiungere 2 miliardi di risparmi richiesti dal Mef ai vari dicasteri. Le nuove regole di bilancio europee hanno indicato un tetto massimo entro il quale ogni anno la spesa dei diversi Stati membri dell’Ue può salire. Il conto delle entrate e delle uscite deve essere quindi meticoloso. La grande novità della spending review avviata dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non è quindi soltanto quella di indicare quanto occorre tagliare. Tabelle e schede, nelle oltre 500 pagine che fanno da compendio al Documento di finanza pubblica, servono infatti a monitorare il lavoro svolto finora e capire se tutti sono in linea. La Corte dei conti, nel giudizio di parificazione sul rendiconto dello Stato, ha dato atto che il percorso procede bene. Per gli obiettivi fissati nel 2022 senza troppi problemi, per quelli indicati nel 2023 qualche tensione nel raggiungere un risultato c’è, superata con l’intervento risolutore del Tesoro. Il ricorso alla tecnologia ha permesso lo scorso anno di risparmiare sui turni di servizio del personale circa 17 milioni rispetto al 2022. Sempre via Arenula ha via via sostituito con i buoni pasto il servizio mensa in 11 istituti penitenziari minorili su 17. Alla Difesa si lavora di fino. Tramite il ricorso ad accordi quadro triennali l’Esercito sta riducendo il costo medio dei pasti; la Marina militare sta lavorando sul contenimento dei costi delle manutenzioni, l’aeronautica tra gli altri settori lavora ai servizi di pulizia delle caserme. Altro capitolo di risparmio è la dismissione di circa 300 veicoli della forestale, la cui manutenzione non era più conveniente e che solo in parte sono stati sostituiti con nuovi mezzi. Al ministero delle Imprese la mannaia è calata sui fondi per il commercio equo e solidale. In via Veneto si è anche decisa una “ottimizzazione delle risorse” del fondo per la salvaguardia dei livelli occupazionali delle imprese in crisi. Ampio il numero di misure del Mef. Anche perché, come segnalato dalla Corte dei conti, via XX Settembre ha dovuto fare anche da supplente. Ad esempio la Guardia di Finanza sta portando al suo interno le operazioni di manutenzione di mezzi navali. Anche se su alcuni sistemi è stato necessario commissionare all’Università Federico II un studio tecnico per risolvere il problema di alcune operazioni che non è possibile eseguire internamente. L’Agenzia delle entrate sta rivedendo le spese nel settore della tecnologia, sposta gli uffici in altre sedi meno costose e sta centralizzando le varie procedure negoziali. Alla Farnesina una nota è d’obbligo: “Le riduzioni non potevano essere applicate su voci di spesa a carattere giuridicamente obbligatorio, come le spese di personale e i contributi a organismi internazionali”. Il ministero degli Esteri spiega quindi che una parte dei tagli ha riguardato la cooperazione allo sviluppo (nella parte dei canali multilaterali) e le attività di promozione dell’Italia. Nei vari capitoli di competenza del ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica la spending review ha toccato tra gli altri il finanziamento dei Caschi verdi, il programma sperimentale di tutela delle aree riconosciute dall’Unesco come di particolare pregio naturalistico; il funzionamento del comitato per la finanza ecosostenibile e il costo di noleggio di mezzi per interventi di controllo e prevenzione dell’inquinamento marino. Non mancano criticità segnalate dallo stesso Mase. La riduzione dei contributi per la tutela della biodiversità e del mare, potrebbero intaccare il raggiungimento degli obiettivi della strategia europea in materia. Quindi servirà un attento monitoraggio. È scontro tra Nordio e l’Anm sul Massimario della Cassazione di Davide Varì Il Dubbio, 30 giugno 2025 Il ministro della Giustizia contesta la relazione tecnica che critica il decreto Sicurezza e chiede chiarimenti sulla sua diffusione. L’Associazione nazionale magistrati replica duramente: “Increduli di fronte a un attacco a un lavoro giuridico pubblico e tecnico”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio si dice “incredulo” e chiede spiegazioni alla Corte di Cassazione. L’oggetto del contendere è una relazione dell’Ufficio del Massimario che demolisce il decreto Sicurezza voluto dal governo e già convertito in legge. Il documento, di natura tecnica, solleva una lunga serie di dubbi sul piano costituzionale e sostanziale. Ma per il guardasigilli, il problema è un altro: la diffusione del testo. La reazione del ministro non è piaciuta all’Associazione nazionale magistrati, che in una nota della Giunta esecutiva replica con parole dure: “Siamo increduli nell’apprendere che un magistrato con tanti anni di esperienza come il ministro Nordio abbia inteso acquisire informazioni sul regime di divulgazione delle relazioni dell’Ufficio del Massimario che sono pubbliche. Una relazione dell’Ufficio del Massimario non può essere letta come un atto politico, bensì come ciò che è: un contributo tecnico, proveniente da giuristi di indubbio spessore. La giurisprudenza si evolve proprio grazie a un confronto continuo e trasparente. Mettere in discussione questo meccanismo significa minare il ruolo stesso della magistratura in uno Stato democratico”. La vicenda nasce dalla pubblicazione della relazione dell’Ufficio del Massimario, organo della Suprema Corte che supporta l’elaborazione giurisprudenziale. Il documento analizza nel dettaglio il decreto Sicurezza e ne evidenzia le numerose criticità: dalla mancanza dei requisiti di “straordinaria necessità e urgenza” al rischio di violazioni dei principi costituzionali, passando per norme considerate lesive della libertà di manifestazione e del diritto di sciopero. Nordio ha reagito ordinando al suo ministero di acquisire formalmente il documento e di verificare “l’ordinario regime di divulgazione”. Una mossa che ha scatenato le proteste dell’Anm, che ha difeso il ruolo e la legittimità dell’ufficio della Cassazione. Dietro lo scontro, c’è una frattura più profonda: il rapporto tra potere politico e potere giudiziario. Il governo accusa la magistratura di voler interferire con l’indirizzo legislativo, mentre le toghe denunciano tentativi di delegittimazione. La relazione della Cassazione, per quanto non abbia effetti vincolanti, potrebbe essere utilizzata in sede giuridica per eventuali ricorsi. Ma il suo scopo, precisano i magistrati, è solo quello di fornire elementi di riflessione sui possibili profili critici delle nuove norme. La preoccupazione di Nordio che un organo tecnico si trasformi in un attore politico è condivisa anche da esponenti della maggioranza, come Maurizio Gasparri (Forza Italia), che parla senza mezzi termini di “invasione di campo”. “Questa relazione - ha detto - è l’ennesima provocazione di un certo mondo giudiziario. Sono 130 pagine inutili che mostrano perché è urgente riformare la giustizia”. Nel merito, il documento della Cassazione è molto critico. Il decreto Sicurezza viene definito “eterogeneo nei contenuti”, privo di una reale urgenza e potenzialmente in contrasto con diversi articoli della Costituzione. In particolare, si evidenzia come il governo abbia trasformato un disegno di legge già in discussione parlamentare in un decreto-legge, senza che vi fossero motivazioni straordinarie. Un passaggio che, secondo la relazione, rischia di rendere invalida non solo la decretazione, ma anche la legge di conversione. Inoltre, vengono segnalati possibili profili di incostituzionalità legati alle nuove norme penali, che introducono aggravanti e nuove fattispecie legate al contesto delle manifestazioni, alla resistenza passiva, alla protesta sociale. Il documento ricorda che la discrezionalità del legislatore non può mai tradursi in arbitrio, e che le sanzioni penali devono sempre rispettare il principio di proporzionalità. Lo scontro tra Nordio e l’Anm riaccende le tensioni tra il governo e una parte della magistratura, già emerse in passato su altri fronti, dalla separazione delle carriere alla riforma del Csm. E potrebbe segnare un passaggio decisivo nel dibattito sul rapporto tra giustizia e politica. Intanto, la relazione del Massimario continuerà a circolare. E, con essa, le critiche di chi vede nel decreto Sicurezza un attacco alle libertà fondamentali, e di chi - come Nordio - teme che la magistratura stia alzando troppo la voce fuori dal suo ambito. Stragi di mafia Falcone e Borsellino “travisati” nel grande bluff del complottismo all’italiana di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2025 Le teorie complottiste che deformano la lettura di alcuni episodi chiave della storia italiana nascono a destra, in particolare nel clima ideologico del fascismo e del nazismo. Il primo a subire gli effetti di quest’arma politica fu Antonio Gramsci, durante un intervento in Parlamento contro la legge fascista che metteva al bando la massoneria. Nel corso del dibattito, Mussolini lo attaccò direttamente, accusando lui e giornali come L’Unità di essere finanziati da grandi gruppi capitalisti: i “poteri forti” che, nell’ombra, avrebbero cercato di sabotare la “rivoluzione fascista”. Oggi il quadro si è ribaltato. Dopo le destre, è da oltre venticinque anni che la sinistra non solo non riesce a contrastare certi deliri complottisti, ma finisce per legittimarli e sostenerli. Lo fa soprattutto alimentando tesi dietrologiche sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. È anche così che certi cortocircuiti prendono forma. Il deputato dem Giuseppe Provenzano, rispondendo al direttore de Il Dubbio, cita una frase attribuita a Paolo Borsellino che, purtroppo, non ha una fonte certa. Attenzione: una frase che Borsellino avrà forse davvero pronunciato, ma che non ha nulla a che vedere con tesi dietrologiche. Provenzano, nel tentativo di sostenere che è troppo riduttivo parlare degli appalti per spiegare il legame tra mafia e politica, cita così il giudice ucciso a via D’Amelio: “Mafia e politica sono due poteri che insistono sullo stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo!”. Sembra quasi voler evocare la trattativa Stato-mafia. Ma non è così. Basterebbe un solo documento per chiarirlo: l’ultima lettera scritta da Borsellino, il giorno stesso della strage, indirizzata a una professoressa. Il giudice spiega: “Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni), è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale”. E quali sono questi interessi? Borsellino li elenca con chiarezza: “Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio, principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici”. Involontariamente, Provenzano finisce per confermare ciò che intendeva negare: il ruolo centrale della spartizione degli appalti, che deve Cosa Nostra sta al vertice, con politici e multinazionali a ruota. “La centrale unica degli appalti con a capo Riina”, disse Giovanni Falcone alla Commissione Antimafia, nel 1991. È così che nascono le teorie del complotto: si isolano frasi o episodi fuori contesto, li si incolla ad altri eventi, si tirano in ballo dichiarazioni di pentiti mai riscontrate - e comunque allineate alla narrazione dei pm del momento - ed ecco servita la trama alternativa. A pensarci bene, questo schema era congeniale anche a Riina. Basta riascoltare quanto disse durante il processo sulle stragi continentali: parlò del Castello Utveggio come sede di un complotto dei servizi segreti, accennò all’aereo di Stato che sorvolò Capaci, quasi a voler far credere che si fosse trattato di un bombardamento. Ma Riina era lo stesso che rivendicava attentati e omicidi eccellenti usando sigle terroristiche, di sinistra o di destra a seconda dei tempi, oppure la “Falange Armata” per far ricadere il sospetto sulle istituzioni. La madre di tutta la dietrologia sulle stragi resta Sistemi Criminali, l’inchiesta firmata da Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia, all’epoca pm a Palermo. Archiviato nei primi anni Duemila, continua ancora oggi a circolare, a ispirare suggestioni giudiziarie e a riemergere ciclicamente in inchieste o ricostruzioni come quella della “pista nera”, rilanciata con insistenza dalla trasmissione Report. Con Sistemi Criminali la matrice politica delle stragi viene fatta risalire a un lavorìo pre-elettorale nel 1993, volto a costruire al Sud una sorta di “lega autonomista”. Un progetto mosso in ambienti poco raccomandabili: circoli massonici legati a Licio Gelli, soggetti sospettati di ‘ndrangheta e la vecchia rete di Avanguardia nazionale di Stefano Delle Chiaie, tornato oggi in auge. Un tentativo simile fu fatto in Sicilia con la lista “Sicilia Libera”, ispirata dietro le quinte da Leoluca Bagarella e composta in pubblico da ex assessori e consiglieri vicini ad ambienti mafiosi. In due occasioni, oggetto dell’inchiesta poi archiviata, si cercò un raccordo in un convegno a Lamezia, ma il progetto si fermò con la nascita di Forza Italia. Questo emerge dalle testimonianze di numerosi pentiti degli anni 90, che indicano il passaggio dall’autonomismo al sostegno a Berlusconi. Da qui l’ipotesi - mai provata - che Berlusconi abbia usato consapevolmente gli attentati mafiosi a fini politici, forse concordandoli o addirittura commissionandoli tramite intermediari. È, in fondo, l’ipotesi di eterno lavoro delle Procure di Firenze - dove si registra l’assoluta mancanza di prove in merito - e di Caltanissetta che, pur archiviando all’epoca la posizione di Berlusconi, si lascia aperte indagini su possibili “mandanti esterni a Cosa Nostra”. Indagini che ancora oggi sono in voga e lo saranno per sempre. A Palermo, Ingroia e Scarpinato hanno costruito con Sistemi Criminali un mosaico più complesso: la nuova versione della “vera storia d’Italia” rifiutata dai giudici del processo Andreotti. Si tratta della descrizione di una crisi di regime nella quale intervengono, in chiave politica, le diverse consorterie occulte e criminali che hanno segnato la storia nera del nostro Paese, naturalmente con una mafia siciliana ridotta a una semplice banda a disposizione di questo centro occulto. Il tutto a beneficio del nuovo protagonista della scena politica. Intrigante, una storia avvincente, ma complottismo puro: non c’è alcuna prova e i pm sono i primi a convenirne, chiedendo loro stessi l’archiviazione. Non se ne poteva cavar fuori un serial giudiziario in grado di reggere e, anche ammesso si fosse trovato un giudice disposto ad avallarlo, come scrisse magistralmente Massimo Bordin, “sarebbe sembrato un remake de La Piovra, che nel frattempo aveva chiuso i battenti anche per mancanza di pubblico”. Ma da lì nacque uno stralcio che diede vita al teorema “trattativa”: una ricostruzione che ha tentato di riscrivere la storia di un determinato periodo del nostro Paese. Ogni legittima scelta politica, ogni lotta tra correnti all’interno della Democrazia cristiana, atti amministrativi dell’allora Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria o del ministero della Giustizia, azioni investigative portate avanti dalle divise - in particolare dal reparto speciale dei Carabinieri (Ros) - vengono riletti sotto la lente “trattativista”. Un vero e proprio teorema che prende vari episodi, li decontestualizza, avanza sospetti e suggestioni, e li riunisce creando così una narrazione apparentemente scorrevole. Anche quella teoria è crollata miseramente. E allora che si fa? Si torna a Sistemi Criminali, versione gonfiata, con il M5S e il Partito democratico che ne pretendono l’inserimento nella Commissione Antimafia, guidata da Chiara Colosimo. Ritornano così la P2, le logge massoniche, gli eversivi neri, i servizi deviati con donne bionde e fisici da amazzone reclutate per le stragi. La mafia? Ridotta a semplice sfondo, al massimo qualche contadinotto manovrato dall’esterno. E Falcone e Borsellino? Non uccisi perché avevano capito come colpire duramente l’organizzazione mafiosa e i suoi complici politici ed economici, ma soltanto in quanto simboli da eliminare per ragioni oscure. Una narrazione che offusca la realtà e trasforma le vittime in pedine di teorie costruite più per compiacere certe visioni che per raccontare i fatti. D’altronde, lo stesso Giovanni Falcone, nel corso della sua vita - subendo anche critiche - ha più volte spiegato che per “terzo livello” non intendeva indicare l’esistenza di una dimensione superiore a quella della mafia militare e dei suoi capi, fatta di colletti bianchi in grado di muovere le fila. Lo ha spiegato anche durante un’audizione al Csm del 15 ottobre 1991, per difendersi proprio dalle accuse mosse tramite esposti a firma dell’avvocato Giuseppe Zupo, dell’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, dell’avvocato Alfredo Galasso e di Carmine Mancuso. Durante quell’audizione, resa pubblica dal Csm qualche anno fa, Giovanni Falcone ci tenne a chiarire che non solo ribadiva l’inesistenza del “terzo livello”, ma aggiunse che non parlarne non era affatto un favore alla classe politica. “Magari ci fosse un terzo livello!”, esclamò Falcone. “Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo!”, aggiunse. “Ma purtroppo non è così - disse amaramente Falcone -, perché abbiamo rapporti molto intensi, molto ramificati e molto complessi”. Ma allora, Giovanni Falcone, cosa intendeva in realtà per “terzo livello”? Lo ha spiegato benissimo sempre durante quell’audizione, e non c’entra assolutamente nulla con l’idea di una mafia eterodiretta. “Ci sono delitti - illustrò Falcone - che sono quei delitti per cui si è costituita l’organizzazione criminosa (contrabbando di tabacchi, traffico di stupefacenti, ecc.): questi delitti sono del primo livello - chiamiamoli così -, i delitti certi, quelli previsti” . Prosegue: “Poi abbiamo dei delitti eventuali, del secondo livello, cioè che non sono nella finalità dell’organizzazione in quanto tale, ma che vengono, volta per volta, consumati per garantire la prosecuzione dell’attività dell’organizzazione (vedi, per esempio, lo sgarro di un picciotto che provoca la sua uccisione e così via)”. E conclude: “Infine, abbiamo dei delitti che servono per tutelare l’organizzazione nel suo complesso. Ecco, quindi, il delitto di un magistrato, di un uomo politico, ecc. Questi delitti, che non sono né del primo livello, previsti, né del secondo livello, eventuali, li possiamo definire del terzo livello”. Ecco spiegato il concetto. Falcone, come Borsellino, non ha mai immaginato che esistesse una sorta di consiglio di amministrazione sovraordinato rispetto ai clan, capace di dettare le condizioni delle azioni criminali, quasi fosse una super Spectre. Al contrario, riteneva già Cosa Nostra un’organizzazione perfettamente piramidale, con un gruppo dirigente che contava al proprio interno intelligenze e professionalità tra le più disparate, ben inserite nel circuito politico- economico legale, assoggettate all’unico vincolo possibile: servire gli scopi dell’onorata società. Col caso Moro il complottismo divenne “arte”. Ma la verità è più semplice di Paolo Delgado Il Dubbio, 30 giugno 2025 Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro fanno parte della storia a vario titolo. Dovrebbero però essere assunti come oggetto di studio anche da un altro punto di vista: la trasformazione di un evento tragico ma sostanzialmente limpido e facilmente spiegabile in un mistero. La torsione che porta la stragrande maggioranza delle persone a non credere in ciò che è squadernato di fronte ai loro occhi e a reputare invece credibili trame surreali, complicatissime, smentite da fatti e indagini, negate da chi su quel delitto ha lavorato seriamente: investigatori, magistrati, giudici. La verità si può riassumere in poche righe. Un’organizzazione rivoluzionaria armata decise di rapire uno dei massimi dirigenti della Dc nella convinzione che le masse operaie, soprattutto quelle legate al Pci, avrebbero plaudito al colpo inflitto a quello che le Br immaginavano fosse ‘il nemico di sempre’: la Dc. Fu un gesto di propaganda armata rivolto alla base del Pci. Nulla nei documenti delle Br che precedono il sequestro autorizza a pensare che Moro fosse stato scelto per silurare un ‘compromesso storico’ che era comunque destinato a naufragare in tempi brevi. Come dimostrano i verbali delle direzioni Dc desecretati una ventina d’anni fa. Il sequestro andò liscio non per una inesistente ‘geometrica potenza’ ma perché la scorta era del tutto impreparata. Seguiva ogni giorno lo stesso percorso. Era sostanzialmente disarmata. Fu colta alla sprovvista. Se diaboliche e potenti organizzazioni avessero orchestrato il rapimento avrebbero quanto meno fornito al commando armi moderne, al posto dei mitra tanti vetusti che tre su 4 si incepparono nel pieno della sparatoria. Le Br erano certe che lo Stato avrebbe trattato e non si erano preparate piani b. Commisero alcuni errori clamorosi, il principale dei quali fu rendere pubblica la prima lettera di Moro, che avrebbe dovuto restare segreta perché altro modo di avviare una trattativa non c’era. Moro ne era consapevole. Le Br, nella loro rozzezza politica, no. A rendere impossibile una trattativa alla luce del sole fu la posizione del Pci che in caso di mercanteggiamento avrebbe provocato la caduta del governo ed elezioni anticipate che, in quel momento, sarebbero probabilmente state vinte proprio dal ‘Partito della fermezza’, cioè proprio dal Pci. La scelta di uccidere l’ostaggio fu provocata dal rifiuto di concedere alle Br quel che chiedevano, ispirati dalla stessa logica di ‘propaganda armata’: un riconoscimento politico che li legittimasse come forza comunista agli occhi di quella stessa base del Pci che avevano sperato di conquistare con il clamoroso sequestro. Se l’intenzione fosse stata quella di eliminare l’uomo chiave dell’intesa Pci-Dc non si capisce bene perché l’omicidio non sia stato immediato e ancor meno si capisce la lunga (e molto per i rapitori molto pericolosa) dilazione decisa da Moretti dopo la ‘condanna a morte’. Questo hanno nella sostanza appurato tutti quelli che si sono occupati del principale delitto politico nella storia repubblicana inseguendo i fatti e non le fantasie. E tuttavia le fantasie in questioni, per quanto non credibili, illogiche, confuse e costruite sul nulla, hanno avuto facilmente la meglio nella fantasia popolare. Del delitto Moro si sa quasi tutto e se qualcosa è in ombra sono particolari di secondaria importanza, eventualmente taciuti per non coinvolgere fiancheggiatori mai scoperti. Passerà alla storia come una vicenda della quale non si sa quasi niente. Un capovolgimento della realtà totale e sconcertante perché in realtà del tutto ingiustificato. I volumi sui misteri del caso Moro riempirebbero una corposa libreria e si moltiplicano col passare del tempo. Confutarli uno per uno è in realtà impossibile senza avere a disposizione un trattato enciclopedico. Fatica di Sisifo, oltretutto: ogni volta che un presunto ‘mistero’ viene chiarito o che l’impianto di una fantasticata trama viene smantellato spuntano nuovi elementi, persino più fantasiosi ma tali comunque da far ripartire la giostra. Conviene pertanto chiedersi giustifichi l’universale fede in un complotto che non è solo indimostrato ma che è smentito da tutti i dati a disposizione, e non è che siano pochi. All’inizio c’era certamente una strategia politica: la dimostrazione che se il Pci non era mai arrivato al governo e anzi aveva subito negli anni 80 devastanti sconfitte la colpa era dei burattinai che avevano impedito la sua luminosa marcia verso il successo. La destra ha provato a rispondere, sciaguratamente e con anni di ritardo, sullo stesso terreno, inventando complotti di segno opposto. Ma questi interessi politici spiegano poco oggi, anche se vantano il notevole demerito di aver avviato la sarabanda. Di certo la follia complottista addensata sul caso Moro più che su qualsiasi altro ‘mistero’ è fortemente agevolata dalla tendenza italiana a diffidare sempre e comunque della verità ufficiale. Una sorta di mentalità opposta al rasoio di Occam ma universalmente diffusa che si ritiene astuta perché sospettosa sempre e a priori, convinta anzi che le cose non stiano mai come sembra: ‘Non crederete davvero che gli Usa siano arrivati sulla luna?’, ‘Come si può immaginare che gli americani non fossero al corrente dell’11 settembre o gli israeliani del 7 ottobre?’ e via fantasticando. Si aggiunge probabilmente un elemento inconfessabile e tuttavia presente: per molti è impossibile accettare l’idea che uno degli uomini più potenti d’Italia sia stata sequestrato e ucciso, incidendo a fondo sulla realtà italiana di quell’epoca, da un’organizzazione comunista stracciona, composta essenzialmente da operai. Deve per forza esserci qualcosa di molto più potente e strutturato dietro. In parte, forse, la favola dei grandi pupari ha anche una funzione di autoassoluzione, o la ha avuta a suo tempo. Lo Stato non trattò, o meglio trattò ma solo nei limiti concessi dal Pci, cioè permettendo un’offerta di molti soldi da parte del Vaticano con la copertura di Andreotti ma nulla di politico, per evitare una crisi di governo ed elezioni anticipate in una fase delicatissima. Se il sequestro Moro venisse correttamente inquadrato nella cornice storica dell’epoca, dunque nella fase difficilissima seguita alle elezioni senza vincitori del 1976 invece che in un favoleggiato armonioso abbraccio tra Dc e Pci, quella scelta apparirebbe logica. Ma, anni e decenni dopo quel momento cruciale per la storia della repubblica decisione di sacrificare Moro per evitare una crisi di governo sarebbe apparsa sproporzionata. Inconfessabile. Ciascuno di questi elementi ha concorso alla creazione della leggenda del complotto contro Moro. Negli ultimi 15 anni se ne è aggiunta un’altra: l’interpretazione dell’intera storia italiana, dalle bombe nere alle stragi mafiose, da piazza Fontana a Moro, da Bologna a Capaci e via D’Amelia come un’unica diabolica trama orchestrata da figure oscure a loro volte manovrate da un Licio Gelli al cui confronto Lucifero è un dilettante. E in questo racconto fuorviante, ispirato spesso da un antifascismo malinteso, l’uccisione di Aldo Moro non può che occupare la postazione più centrale. Fenomenologia del complottismo: perché le verità parallele avranno sempre i loro seguaci di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 30 giugno 2025 Verità nascoste, come ombre ostinate attraversano la Storia, parallele alle “versioni ufficiali” insinuano sospetti e paranoie. La forza del complottismo sta nella sua capacità ossessiva di trasformare ogni frammento della realtà in un indizio, ogni deviazione in una prova, ogni assenza in una traccia. Il successo delle narrazioni alternative non dipende da quanto siano verosimili, ma dalla capacità di influenzare l’immaginario collettivo. Nell’antica Roma, il complotto era parte integrante della vita politica. Le congiure strumenti di lotta per conquistare il potere, e la paranoia era considerata una forma di saggezza. Le accuse contro Catilina, gli intrighi di corte sotto Nerone, le purghe senatoriali testimoniano una cultura in cui il sospetto era non solo giustificato, ma necessario alla propria sopravvivenza. Nel Medioevo cristiano, la narrazione cospirazionista assume una dimensione apocalittica sull sfondo della religione. Il mondo è teatro di una battaglia cosmica tra Dio e il maligno, e ogni disordine sociale può essere ricondotto all’azione di agenti satanici. Eretici, streghe, lebbrosi, ebrei: tutti sono sospettati di tramare nell’ombra, spesso in combutta con il demonio. L’Inquisizione non si limitava a reprimere le eresie: mirava a svelare una trama, un’organizzazione nascosta, una cospirazione contro la Chiesa e l’ordine divino. La confessione forzata era pensata per portare alla luce un piano, e non solo un peccato. Con l’età moderna le teorie del complotto mutano forma, ma non funzione. La Rivoluzione francese segna un punto di svolta. Tra i contadini cattolici e gli strati popolari legati all’ancien régime si diffonde la convinzione che dietro l’esplosione rivoluzionaria si celi un complotto anticristiano e antimoniarchico, ordito da logge massoniche e società segrete. È in questo contesto che prende forma una delle figure cardine del moderno immaginario complottista: l’Illuminato, l’uomo di sapere che manipola i popoli dall’alto, il filosofo che cospira nell’ombra contro la tradizione. Autori apertamente reazionari come Barruel o de Maistre costruiscono in quegli anni una controstoria della Rivoluzione, in cui il Terrore non è la degenerazione della politica, ma il compimento naturale di un disegno occulto. Ma anche il regime giacobino vive nel sospetto di cospirazioni permanenti. La macchina del Terrore si alimenta della convinzione che la Repubblica sia minacciata da agenti interni: realisti, moderati, controrivoluzionari, compagni di viaggio che hanno tradito. Non la reazione a una minaccia concreta, ma la forma stessa del potere rivoluzionario, un dispositivo paranoico che giustifica l’eliminazione violenta di ogni presunto nemico del popolo. Probabilmente la teoria del complotto più tenace, che ancora oggi sparge indirettamente i suoi veleni, nasce con un falso documento redatto nei primi anni del Novecento dall’Ochrana, la polizia zarista. È il celebre Protocollo dei savi di sion: il testo finge di essere la trascrizione di una riunione segreta dell’élite ebraica mondiale, dove si discute il futuro asservimento dell’umanità. Diffusi a migliaia di copie in Europa e negli stati Uniti i Protocolli hanno un’influenza enorme nell’alimentare i pregiudizi antisemiti e sono fonte di ispirazione per il Reich hitleriano e gli orrori della Shoah. Il fatto che si tratti di un fake è irrilevante: la sua efficacia sta nel confermare ciò che molti vogliono credere. Umberto Eco ne Il cimitero di Praga, ha ricostruito la genesi e la fortuna dei Protocolli, mostrando come la ripetizione, la variazione e la circolarità siano gli strumenti centrali della narrazione complottista, una interpretazione del mondo che “non sopporta che le cose avvengano per caso”. Anche lo stalinismo ha agitato cospirazioni immaginarie per giustificare la persecuzione politica. Le grandi purghe degli anni Trenta, le confessioni pubbliche, i processi farsa di presunte spie, sabotatori e infiltrati nel partito, nell’esercito, tra gli intellettuali, la condanna a morte dei vari Zinov’ev, Kamenev, Bucharin battezzano un sistema che farà della paranoia di Stato l’elemento centrale per la conservazione del potere. Con l’avvento di Internet e dei social network, le narrazioni parallele subiscono una mutazione profonda. Non sono più diffuse da piccoli gruppi marginali, ma possono diventare virali e mainstream nel giro di qualche ora. Ogni grande evento - dall’11 settembre al cambiamento climatico, dalla pandemia alla guerra in Ucraina - genera in automatico una costellazione di contro-narrazioni. La velocità di diffusione, la disintermediazione, l’assenza di filtri rendono la rete un ambiente ideale per il moltiplicarsi di storie cospirative. QAnon, forse il fenomeno complottista più assurdo e al tempo stesso più pervasivo degli ultimi anni, è nato da un semplice forum e ha prodotto una mitologia che ha influenzato parte dell’elettorato statunitense, contribuendo al ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Le narrazioni parallele oggi non pretendono neppure più di essere credibili in senso stretto. Sono piuttosto dispositivi identitari: chi le condivide non cerca prove, ma appartenenza. Sostenere che la terra è piatta o che i vaccini contengono microchip non è solo un’opinione eccentrica ma un atto di fede. Ecco perché combattere il complottismo con le armi della razionalità è spesso inefficace e frustrante. Non si tratta di semplici errori di ragionamento o bias, ma di strutture simboliche, risposte emotive a un mondo che appare opaco e ingovernabile. Occorre allora non solo smontarle, ma capire cosa le rende desiderabili: la sete di significato, il bisogno di controllo, il rifiuto dell’impotenza. Forse, come suggeriva Eco, l’unico antidoto davvero efficace è una cultura della complessità, capace di riconoscere l’incertezza senza scivolare nel sospetto, e di proporre narrazioni pubbliche trasparenti ma non semplicistiche, che sappiano affrontare il dubbio senza trasformarlo in fobia. Prato. Il carcere fuori controllo: “Difficile anche garantire la sicurezza dei detenuti” di Maristella Carbonin La Nazione, 30 giugno 2025 L’analisi di Santoro (L’altro Diritto): “Sovraffollamento, poco personal. Bravo Tescaroli a metterci la lente, ma immagino altri casi come Prato”. “Quello che ha fatto il procuratore Tescaroli è importante: ha messo una lente sulla Dogaia e ne è emerso un caso eclatante. Ma credo che se altre procure lo seguissero in quest’azione, anche in altre carceri emergerebbero scenari simili”. Emilio Santoro, filosofo del Diritto e professore ordinario all’Università di Firenze, dipartimento di Scienze giuridiche, è presidente del comitato scientifico de L’Altro diritto, associazione di volontariato che si occupa di diritti delle persone “socialmente abbandonate”, in primo luogo detenuti e migranti. Dall’inchiesta della procura è emersa la situazione di un carcere fuori controllo. Cosa ne pensa? “La Dogaia ha problemi di sovraffollamento evidente, e un’assenza di direzione che va avanti da tempo. Ora c’è una nuova direttrice reggente e il suo arrivo si percepisce. Ma c’è un’assenza di personale drammatica. Lo abbiamo testato venerdì”. Cosa è successo? “Abbiamo provato a entrare in carcere con una nostra operatrice, ma non è stato possibile per tutti i piani della sezione di media sicurezza. Venerdì c’erano due agenti per piano: significa due agenti per 100 detenuti. Chiaro che la situazione è incontrollabile. E poi mettiamoci appunto il sovraffollamento, il caldo esagerato, la carenza di manutenzione della struttura. La situazione si esaspera. Pensiamo poi che il nuovo decreto sicurezza ha introdotto nuovi reati. Gli ingressi in carcere aumentano e il sovraffollamento diventa mastodontico: se prima nelle carceri i detenuti aumentavano di un migliaio all’anno, con il decreto sicurezza aumenteranno del triplo”. Tanti detenuti, poco personale. L’abbassamento del controllo, ma anche della sicurezza per i detenuti stessi, è quasi scontata... “Esatto. Poi emergono situazioni come quelle della Dogaia che, ripeto, immagino simili in molte altre carceri. A Sollicciano l’ingresso di sostanze stupefacenti è eclatante. Lì, ad esempio, so di detenuti che rinunciano al permesso. Il motivo? Preferiscono non uscire altrimenti sarebbero costretti da altri detenuti a portare la droga dentro. Significa che i detenuti non vengono messi in una situazione di sicurezza”. Tescaroli per la Dogaia ha parlato di “estrema difficoltà di assicurare la sicurezza passiva dei detenuti”... “Infatti, ed è così. Se c’è un luogo dove lo Stato deve avere un controllo totale è il carcere. Se i detenuti hanno paura e collaborano con chi magari chiede che sia portata dentro droga, o smartphone, è chiaro lo Stato ha perso il controllo del carcere. E comandano allora i più forti dentro il carcere. Nelle condizioni in cui è il carcere di Prato se i detenuti si rifiutassero di rientrare nelle celle in qualche momento, probabilmente non sarebbe nemmeno ‘reato’. L’ordine sarebbe illegittimo perché le complessive condizione di detenzione sono fuori regola”. Come opera l’associazione L’Altro diritto a Prato? “I nostri operatori, dai due a quattro, dipende dalle volte, entrano alla Dogaia ogni due settimane. Facciamo opera di consulenza giuridica. Aiutiamo soprattutto i detenuti a fare reclami, chiedere risarcimenti, accedere a misure alternative. Lavoriamo per avere i diritti sociali all’interno del carcere. Andiamo ‘su domanda’: sono i detenuti a chiedere l’incontro e ogni volta in media ne vediamo 15-20”. Ferrara. Detenuta trans violentata. La Garante: “Era disperata. Aveva chiesto di essere trasferita” di Diana Ligorio Il Domani, 30 giugno 2025 Aveva espresso più volte timori per la sua incolumità. Ilaria Cucchi: “Ci sono diritti che, per alcune persone, sembrano valere meno”. Una detenuta trans ha denunciato di essere stata violentata da quattro uomini all’interno del carcere di Ferrara. La denuncia è stata formalizzata il 24 giugno, quando la detenuta si è presentata in infermeria raccontando quanto subito. Subito dopo è stata trasferita all’ospedale Sant’Anna, dove è stato attivato il protocollo del “codice rosa”, riservato a vittime di violenza sessuale. L’aggressione, secondo quanto riportato da Il Resto del Carlino e confermato da fonti giudiziarie, sarebbe avvenuta nella sezione “protetti” dell’istituto penitenziario Arginone, dove si trovano oltre 40 persone considerate vulnerabili. In Procura è stato aperto un fascicolo, attualmente contro ignoti, e nel carcere è in corso un’indagine interna. Secondo quanto riferito dalla garante comunale dei detenuti, Manuela Macario, la detenuta aveva più volte espresso timori concreti per la propria incolumità sin dal suo arrivo, a fine marzo, quando era stata tradotta dal carcere di Reggio Emilia, unico istituto in Emilia -Romagna dotato di una sezione dedicata alle persone trans. “Aveva chiesto fin dal primo giorno di essere trasferita in un penitenziario più adatto, dove potesse sentirsi al sicuro - ha spiegato Macario -. La direttrice del carcere si era immediatamente attivata, ma la burocrazia carceraria è lenta e in questo caso si è rivelata tragicamente inefficace”. Già prima dell’aggressione, la detenuta aveva segnalato episodi di molestie nei corridoi. La garante racconta che “era disperata. Come si può collocare una donna transgender in una struttura maschile senza le adeguate tutele? È un fatto gravissimo che dimostra una preoccupante cecità istituzionale”. A mostrare preoccupazione è stato anche il garante regionale per i detenuti, Roberto Cavalieri. “Il problema di queste persone - ha detto all’Ansa - è che, essendo le carceri tutte piene, non riescono a collocarle in modo adeguato. Ci sono convivenze coatte molto pericolose”. Secondo il report “Senza Respiro” dell’associazione Antigone, attiva nella difesa dei diritti dei detenuti, delle “70 detenute trans presenti ad ottobre 2023, 64 erano all’interno delle sei sezioni esclusivamente riservate a donne trans (a Rebibbia NC, Napoli Secondigliano, Como, Belluno, Reggio Emilia e Ivrea). Le restanti erano detenute in carceri diverse, dove non c’era una sezione ad hoc”. La senatrice Ilaria Cucchi ha commentato la vicenda con un post sui social: “Questo è lo specchio più triste di un paese in cui denunciare non basta, dove lo stato non garantisce tutele, ma è sempre più sinonimo di carenze e ritardi. Ci sono diritti che, per alcune persone, sembrano valere meno”. Milano. Rems, c’è chi dice no: “Stop a nuove carceri per pazzi, inutile parcheggiare i delinquenti” di Andrea Gianni Il Giorno, 30 giugno 2025 Angelo Aparo, psicologo con 45 anni di lavoro tra San Vittore, Bollate e Opera: investire tempo e soldi sul recupero. “Il mio approccio? Frontale e schietto, pure aggressivo. Chiedo come hanno fatto a diventare uomini così”. Lo psicologo Angelo Aparo è entrato per la prima volta in un carcere, prendendo servizio a San Vittore fresco di studi, quando correva l’anno 1979. Quasi mezzo secolo di vita professionale trascorsa anche a Bollate e Opera, nel carcere minorile Beccaria di Milano, incontrando migliaia di detenuti: ragazzi finiti in cella per reati minori, tossicodipendenti, “colletti bianchi” degli anni di Tangentopoli, ergastolani con diversi omicidi alle spalle, persone condannate per associazione mafiosa. Aparo ha dato vita al Gruppo della Trasgressione, che punta al recupero dei detenuti attraverso l’auto-percezione delle responsabilità e la presa di coscienza dei reati commessi. “Invece di creare ‘carceri per pazzi’, nuovi posti nelle Rems per parcheggiarli - osserva - bisognerebbe investire tempo e denaro per fare in modo che un delinquente possa diventare un cittadino. Questa è la strada più lunga e difficile, ma va percorsa”. Aparo, rispetto alla fine degli anni 70 come ha visto cambiare le condizioni nelle carceri? “Un cambiamento macroscopico è legato all’origine geografica dei detenuti. Quando ho iniziato a lavorare provenivano in gran parte dal Sud Italia, mentre nel corso degli anni ha iniziato a entrare una quota sempre più rilevante di stranieri. Fino ai primi anni ‘90, inoltre, c’era un’enorme quantità di detenuti con l’Aids, nella maggior parte dei casi con dipendenza da eroina, che al loro ingresso, per le loro condizioni fisiche, apparivano come “morti che camminano”. Oggi, rispetto al passato, è molto più diffusa la cocaina. Quello che è rimasto invariato è il cronico sovraffollamento delle strutture”. Ha notato un aumento del disagio psichico? “Andrebbe fatta una distinzione fra problemi psichici conclamati e diagnosticati, riguardanti una minoranza di detenuti, e fragilità mentali che riguardano invece quasi tutte le persone che commettono dei reati, amplificate dalla vita nel penitenziario. Una malattia sociale, che diventa individuale. Il “rimedio” applicato è quello di distribuire psicofarmaci a tutto andare, anche a persone che non ne avrebbero bisogno, solo per garantire la quiete”. Quale strada bisognerebbe percorrere? “È fondamentale che il carcere non si riduca a un parcheggio dove meditare sugli errori commessi, per poi uscire peggiori di prima, ma bisogna agire, studiare e lavorare perché un delinquente diventi un cittadino. Servono investimenti, risorse, approcci innovativi”. Si sta investendo, secondo lei, in questa direzione? “Le carceri milanesi, pur con tutti i loro problemi, sono più avanti rispetto ad altre realtà d’Italia, con una miriade di iniziative, un volontariato molto presente. San Vittore è più problematico anche per ragioni strutturali: è una casa circondariale che ospita detenuti di passaggio, dove è molto più difficile pensare a dei progetti di ampio respiro. Quando un detenuto si suicida lo fa perché non vede un futuro davanti, una possibilità di svolta. Fino al 2023 potevo affermare, con un certo orgoglio professionale, che nessuno fra i detenuti seguiti da me aveva compiuto questo passo. Quell’anno si è tolto la vita Rosario Curcio (tra i condannati all’ergastolo per l’omicidio di Lea Garofalo, ndr), che qualche mese prima aveva smesso di frequentare il Gruppo della Trasgressione”. Qual è il suo approccio con i detenuti? “È diverso da quello di uno psicologo tradizionale. Mi rivolgo a loro in modo frontale e schietto, anche aggressivo. Non chiedo che reato hanno commesso, ma piuttosto di spiegarmi come hanno fatto a diventare uomini così. Li induco a parlare di quello che sentono. Le persone partecipano, si aprono, perché si sentono amate e rispettate”. Agrigento. Giustizia, nasce un osservatorio permanente sul carcere agrigentonotizie.it, 30 giugno 2025 A comporlo, fra gli altri, su iniziativa della camera penale, l’Ordine degli avvocati, la Procura e il tribunale. Un osservatorio permanente sui problemi del carcere: sarà istituito il 4 luglio a margine di un seminario in cui si discuterà del decreto sicurezza. L’iniziativa è della camera penale di Agrigento, presieduta dall’avvocato Ignazio Valenza. A firmare l’atto istitutivo anche l’Ordine degli avvocati, il presidente del tribunale, il procuratore della Repubblica, il magistrato dell’ufficio di sorveglianza, i presidenti dell’ufficio gip e dell’Associazione nazionale magistrati e i direttori del carcere e dell’ufficio esecuzione penale esterna. L’organismo si occuperà di tenere i fari accesi sui problemi legati alle carceri e alla popolazione detenuta. La firma sull’atto istitutivo sarà apposta a margine di un seminario, promosso dalla camera penale “Giuseppe Grillo” di Agrigento e coordinato dal presidente Valenza, al quale interverranno diversi operatori della giustizia agrigentina. Dopo i saluti del presidente del tribunale, Giuseppe Melisenda Giambertoni, del procuratore della Repubblica Giovanni Di Leo e del presidente dell’Ordine degli avvocati Vincenza Gaziano, interverranno: il presidente della sezione agrigentina dell’Anm Manfredi Coffari, il segretario della camera penale di Agrigento, Calogero Lo Giudice, il presidente dell’ufficio di sorveglianza di Caltanissetta, Walter Carlisi, e il direttore dell’ufficio esecuzione penale esterna Stefano Papa. Perugia. Incontro sul decreto sicurezza: “Costruito per creare ancora più caos nelle carceri” perugiatomorrow.it, 30 giugno 2025 Dure contestazioni da parte di giuristi, attivisti e garante dei detenuti: in Umbria preoccupano le ricadute sulle carceri e sui diritti civili: “Pene spropositate, renderanno le situazioni ancora più ingestibili”. Il nuovo decreto sicurezza approvato ad aprile dal Parlamento continua a suscitare forti polemiche, soprattutto per le sue ricadute penali e sociali. Ad alzare la voce è stato il garante regionale per i detenuti dell’Umbria, Giuseppe Caforio, intervenuto a Perugia nel corso di un incontro organizzato dalla Caritas e dall’associazione Antigone Umbria. “Il Parlamento ha cavalcato la questione sicurezza, reale e concreta, ma andando molto oltre”, ha dichiarato Caforio, criticando duramente il contenuto del provvedimento. Particolarmente contestata l’introduzione del reato di rivolta penitenziaria, che prevede pene fino a 18 anni di reclusione in caso di lesioni: una misura che Caforio ha definito “assolutamente spropositata”. Secondo il garante, questa norma rischia di inasprire ulteriormente una situazione già compromessa: “Le condizioni nelle carceri umbre sono esplosive, come dimostra la recente rivolta nel carcere di Terni”, ha evidenziato. Anche l’avvocata Caterina Martini, esperta di diritto processuale penale, ha criticato l’impianto del decreto, definendolo “l’ennesimo provvedimento emergenziale in materia di politica criminale”. Martini ha sottolineato le difficoltà applicative che attendono le autorità giudiziarie e di pubblica sicurezza, già fortemente oberate da carichi di lavoro crescenti. “Si rischia un cortocircuito sistemico, in cui le nuove norme generano un aggravio procedurale senza garantire maggiori tutele”, ha spiegato. Il provvedimento è stato bollato come “repressivo e penalizzante per le fasce più deboli della popolazione” anche da Nunzia Parra, rappresentante dell’associazione Avvocati di Strada, che assiste persone senza fissa dimora e in condizioni di marginalità. Parra ha denunciato l’inasprimento delle pene per comportamenti come l’accattonaggio o il blocco stradale, ricordando episodi recenti come la minaccia di denuncia agli operai metalmeccanici che avevano occupato pacificamente la tangenziale di Bologna durante una protesta sindacale. Secondo Parra, si tratta di un chiaro segnale di criminalizzazione del dissenso e del disagio sociale, mentre si continua a ignorare le cause strutturali della marginalizzazione e della tensione sociale. “Non è reprimendo chi protesta o chi vive in povertà che si costruisce sicurezza, ma investendo in inclusione, servizi e mediazione sociale”, ha concluso. Vercelli. “Lib(e)ri dentro-Licenza di leggere”: libri e filosofia alla casa circondariale La Sesia, 30 giugno 2025 Dal 1° luglio i detenuti saranno coinvolti in incontri con scrittori e conversazioni. “Lib(e)ri dentro-Licenza di leggere” è la consueta rassegna realizzata dal Comune di Vercelli e la casa circondariale per impiegare i detenuti durante la stagione estiva. Da tempo c’è infatti l’accesso in carcere di scrittori per la presentazione dei loro testi. Quest’anno si aggiunge un’interessante novità: “Conversazioni filosofiche”. Dal 1° luglio, a cadenza settimanale, Paolo Pulcina sarà affiancato da due docenti esperte in argomento, Daniela Vommaro e Alice Tomasso. Tutto nasce dalla lettura del libro “Nuove lezioni di filosofia” presentato dall’autore Antonio Rinaldis accompagnato, nel ruolo di facilitatore, proprio da Pulcina. Dall’interesse suscitato sul contributo, che può essere trovato nella filosofia per la comprensione di molte questioni che riguardano l’uomo, in un gruppo di detenuti alunni del corso per geometri, sono scaturiti interrogativi e la richiesta di continuare gli incontri per gli approfondimenti. C’è subito stato il “via libera” dall’Area trattamento del carcere, guidata da Valeria Climaco, con il placet del direttore dell’istituto, Giovanni Rempiccia, in accordo con la dirigente del Settore cultura del Comune, Margherita Crosio, e la responsabile della biblioteca civica, Alessandra Cesare. “Climaco, in questi giorni, sta infine definendo il programma completo per sottrarre le sezioni detentive al silenzio estivo legato al termine dell’anno scolastico e alla sospensione di molte attività di formazione professionale”, fanno sapere dal Comune. Pavia. Una palestra per i carcerati, nuovo progetto del Rotary La Provincia Pavese, 30 giugno 2025 Nuovi spazi per i detenuti a Torre del Gallo con macchinari ginnici per favorirne la salute mentale. Un progetto del Rotary Club Distretto 2050 con il gruppo Longobardo e club proponente Ticinum in collaborazione con il Club Terre Viscontee. Per i prossimi due anni, i club si faranno carico di appoggiare la struttura penitenziaria per la tutela della salute di quei detenuti Atsm acronimo che indica la necessità di tutela della salute mentale. Detenuti presenti anche a Pavia nel reparto protetti. La direzione del carcere ha identificato all’interno della struttura uno spazio per accogliere questa tipologia di detenuti. È appena stato aperto uno spazio dedicato con attrezzature (tappeti, macchinari, cyclettes) atti a stimolare un’educazione psico-motoria. All’inaugurazione erano presenti la direttrice Stefania Mussio, la direzione sanitaria e agenti di custodia. “Ringraziamo Anna Bruni del Rotary per il suo costante impegno, questi servizi sono importanti” ha spiegato Mussio. “Siamo l’unico distretto in Italia ad avere una commissione che si occupa di carceri e per questo va ringraziata Anna Bruni per il suo impegno - ha aggiunto il governatore di zona del Rotary. In passato abbiamo lavorato a progetti differenti come l’installazione di fumetti nei corridoi per rendere più allegro un posto infelice. Io nostro obiettivo è affievolire il tempo e le giornate di queste persone e solo con questi progetti ciò è possibile”. Assieme a Gatti erano presenti anche Francesco Gallotti, Giorgio Prina, Adriano Sora e Arturo Zancan. Contributo anche dei giovani del Rotary con Nicolò Fiocca. “La palestra è un proseguo di tutte le nostre missioni che vuole affiancare i carcerati in un percorso continuo e quotidiano nel rispetto dei valori della Costituzione italiana” ha aggiunto la promotrice del progetto Anna Bruni. Spoleto(Pg). Il CESP-Rete delle scuole ristrette al Festival dei Due Mondi di Anna Grazia Stammati* tecnicadellascuola.it, 30 giugno 2025 Nel decimo anniversario della partecipazione del CESP- Rete delle scuole ristrette al Festival dei Due Mondi di Spoleto, il 2 e 3 luglio si svolgerà, presso la Casa di Reclusione di Maiano-Spoleto e presso Palazzo Mauri-Biblioteca Comunale “Giosuè Carducci” della città, la X Giornata Nazionale del Mondo che non c’è. Lo storico appuntamento (inserito nel prestigioso Programma del Festival dei Due Mondi- Progetti Speciali) si aprirà, il 2 luglio, con la partecipazione dei/delle docenti della Rete allo spettacolo “Senza Titolo. Manifesto del carcere Futurista”, per la regia di Giorgio Flamini, con i detenuti attori, cantanti, danzatori, drammaturghi, scenografi, costumisti della Compagnia #SIneNOmine, presso la Casa di reclusione di Maiano-Spoleto. Senza titolo abbraccia la complessità del contesto carcerario, e la messa in scena si immerge in più dimensioni: la realtà e il sogno, la costrizione e la libertà, la pena e la trasformazione, il pregiudizio e l’inclusione, sviluppando tre sequenze di dialoghi sul testo di Rinnegato, (detenuto da 32 anni). R. ci trasporta in un ring linguistico, in un tribunale mentale, in uno spazio dove la realtà si dissolve, i ruoli sono mutevoli, rappresentati da oggetti che incarnano sia armi che difese, e i personaggi si trovano in un eterno scambio di ruoli e prospettive. Il 3 luglio, presso la Biblioteca Comunale “Giosuè Carducci”, nel Palazzo Mauri di Spoleto, si svolgerà il seminario Cultura & Carcere “Dell’Inferno e Delle Utopie nel mondo della liquidità”, che si pone in continuità con lo spettacolo della Compagnia #SIneNOmine. La giornata sarà divisa in due parti: nella prima, dopo i saluti istituzionali, si partirà da una riflessione del sociologo Zygmunt Bauman ripresa dal libro Modus vivendi “In un momento in cui le forme sociali non riescono più a conservare a lungo la loro forma, si scompongono e si sciolgono più in fretta del tempo necessario a fargliene assumere una”, quale forma e spazio occupa oggi il carcere nella società e quale è il suo futuro? Al seminario parteciperanno istituzioni di livello nazionale e regionale/territoriale e, tra i relatori, si segnala il Presidente Emerito della Corte Costituzionale, già Ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Nella seconda parte saranno istituiti due Tavoli “operativi”: uno riguarderà il progetto Biblioteche innovative in carcere e la costruzione di una Rete in Umbria per attivarlo. Il progetto di biblioteche innovative in ambito penitenziario - collegate in rete con le biblioteche del territorio, delle Scuole e delle Università, strutturate per diventare poli culturali, oltre che per sviluppare nuove professionalità è nato nella Casa Circondariale di Rebibbia a Roma, dalla collaborazione tra Luisa Marquardt (Università Roma Tre) e Anna Grazia Stammati (docente a Rebibbia, Presidente CESP). Condiviso dai/dalle docenti della Rete delle scuole ristrette, si basa su quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario e dal DPR 230 del 2000 e costituisce uno degli obiettivi del Programma nazionale 2022-2024 (“Innovazione sociale dei servizi di reinserimento delle persone in esecuzione penale: cultura, sviluppo e coesione sociale”) di Cassa delle Ammende, con cui si intende percorrere nuove strade di collaborazione interistituzionale e rafforzare i servizi per il reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale. L’altro Tavolo di discussione Misure alternative, art. 21 e semilibertà, esaminerà gli strumenti previsti dall’ordinamento penitenziario per favorire il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati e per alleggerire la pressione esistente negli istituti, derivante dal sovraffollamento. Il carcere, infatti, non è l’unica forma di esecuzione di una pena e non dovrebbe essere neanche la principale. I dati riportati da Antigone sulla funzione deflattiva delle Misure alternative rispetto alla popolazione detenuta e la riduzione della recidiva, ci indicano, però, che queste tendono a procedere spesso lungo binari paralleli (quasi sempre in salita), ovvero i numeri della popolazione detenuta aumentano, in relazione all’applicazione delle Misure. L’unica eccezione registrata si è avuta tra il 2010 e il 2015, in seguito alla dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento delle carceri nel 2010, e della sentenza Torreggiani, del 2013, che ha dichiarato illegale il sistema penitenziario italiano: poi, dal 2015 si è tornati all’aumento delle presenze in carcere. Ciononostante, il dato relativo alle revoche delle Misure alternative, soprattutto se consideriamo le revoche per la commissione di nuovi reati (pari allo 0,71%), permette di sostenere con forza l’idea della funzione di riduzione della recidiva in caso di condanna scontata in misura alternativa anziché in carcere. Alle due giornate parteciperanno ex detenuti, oggi liberi, che in questi anni hanno seguito i percorsi del CESP- Rete delle scuole ristrette e, una volta usciti, da uomini liberi si sono reinseriti (o lo stanno facendo) e seguono i docenti della Rete, testimoni diretti che “il trattamento penitenziario non può prescindere dallo sviluppo culturale e che il reinserimento sociale delle persone in esecuzione penale è procedimento complesso che richiede una risposta multidimensionale e non è possibile senza un cambiamento culturale intra ed extra murale ( da “Lettera al CESP e alla Rete al Salone Internazionale del Libro di Torino”- Sonia Specchia- Direttore dell’Ufficio II del DAP, già Segretario Generale della Cassa delle Ammende). *Presidente CESP Il green piace a chi ha meno. Ma la sostenibilità è un lusso per pochi di Francesco Sellari Il Dubbio, 30 giugno 2025 Dall’indagine Acli-Iref sulla sostenibilità tra le famiglie emerge che i giovani guidano il cambiamento ovunque ma i nuclei in difficoltà sono quelli più sensibili. Il monito degli esperti: “È la lotta a un sistema che crea disparità: la vita sana non sia un lusso per ricchi”. L’ambiente è la questione cruciale del futuro. Le famiglie italiane lo hanno capito e provano a tradurre questa consapevolezza in comportamenti conseguenti. E tra i più convinti e attivi, ci sono, sorprendentemente, i nuclei più poveri. Questo lo scenario che emerge dalla ricerca Acli-Iref (Istituto di ricerche educative e formative) presentata nel volume Abitare un mondo sostenibile (Rubettino). Lo studio si basa sui dati raccolti tramite un questionario web somministrato a un campione di 1.052 famiglie, rappresentativo della popolazione italiana. I risultati ci dicono che tre quarti delle famiglie hanno parlato di sostenibilità a casa. Ben sette famiglie su dieci condividono l’affermazione che “la sostenibilità è uno stile di vita da attuare sempre, a prescindere”. I negazionisti del cambiamento climatico? Una “componente assai trascurabile” si legge a commento dei dati. Se dalle opinioni passiamo alle azioni, scopriamo che quasi tutte (97,6%) fanno la raccolta differenziata mentre la lotta a sprechi e consumi inutili (di energia, acqua, alimenti o plastica) accomuna nove famiglie su dieci. Simile è l’impegno (86%) per riparare computer e elettrodomestici danneggiati. Meno diffuse, ma con percentuali significative, le scelte di un mezzo di trasporto alternativo all’auto privata (66,5%) o l’autoproduzione di beni (come ortaggi e conserve) o energia (48%). Più di un quarto delle famiglie dichiara di partecipare a gruppi di volontariato: dai gruppi di acquisto solidale a quelli per la pulizia delle aree verdi. Secondo Matteo Colleoni, ordinario di Sociologia dell’ambiente e del territorio all’Università di Milano Bicocca, “queste ricerche possono essere penalizzate dallo scarto tra quel che uno fa e quel che dice di fare. In questo caso il rischio è minore. Perché c’è una forte relazione tra atteggiamenti e comportamenti. Prima di chiedere delle abitudini quotidiane la ricerca indaga la postura degli intervistati rispetto a valori quali la consapevolezza del limite, l’importanza della tutela dell’ambiente. Capire come le famiglie si collocano rispetto a questi valori che fanno da substrato ad atteggiamenti e comportamenti rende l’esercizio conoscitivo più solido”. La ricerca, inoltre, interroga le famiglie sul problema delle risorse: non soltanto come sono distribuite oggi, ma come possano essere preservate per chi verrà dopo di noi. Preoccupazione assente fino a poche generazioni fa, oggi è invece molto sentita. “Per la metà del campione essere sostenibili significa tutelare le risorse per le generazioni future”, spiega infatti Federica Volpi, politologa, curatrice della ricerca e collaboratrice dell’Iref. Partendo dalle scelte quotidiane, lo studio individua tre tipologie di famiglie. Il gruppo più consistente - la metà - è costituito da famiglie eco-realiste che provano a coniugare sostenibilità e praticità. Le famiglie eco-minimali (poco meno del 15%) si limitano invece alle attività a cui sono in un certo senso obbligate (come la raccolta differenziata). Il resto, un terzo abbondante, sono le famiglie eco-radicali, ovvero più impegnate per uno stile di vita a basso impatto. Analizzando questi gruppi attraverso la lente dello status socio economico emerge un dato contro-intuitivo. “Tra le famiglie più vulnerabili i nuclei eco-radicali sono il 44%, nove punti in più rispetto alla media rilevata su tutto il campione. Sono famiglie che lamentano il costo troppo elevato di alcune scelte che vorrebbero ulteriormente attuare e diffondere”. Le famiglie più povere, quindi, fanno convintamente la loro parte per la transizione ecologica ma i costi elevati le frenano dal fare di più. “È come se in questi stili di vita - prosegue la Volpi - individuassero una forma di autodifesa: la possibilità di fronteggiare le difficoltà economiche, ma anche un modo per incidere su un sistema che genera profonde disuguaglianze. Al contrario, si direbbe che i ceti più benestanti percepiscano questi comportamenti come limitanti delle proprie capacità di spesa”. “Per noi l’ecologia integrale è un riferimento” dice Raffaella Dispenza, vicepresidente delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) che hanno deciso di promuovere lo studio. “Noi siamo una rete di welfare di comunità: molte famiglie in difficoltà frequentano i nostri spazi, usufruiscono dei nostri servizi. Sono le stesse famiglie che, come dimostra questa ricerca, esprimono un desiderio di occuparsi della transizione ecologica”. Conclusione? “La sostenibilità non deve essere un lusso solo per chi se la può permettere. Ma per sfruttare questa consapevolezza, creatasi anche grazie ai movimenti giovanili, servono politiche eque, per la casa, i trasporti, la qualità della vita nelle città, che assecondino il desiderio di trasformazione di chi ha meno risorse”. Pride, fine vita e aborto: gli Orbán d’Italia minano i diritti civili di Stefano Iannaccone Il Domani, 30 giugno 2025 Il gelo, nei confronti dei Pride prima quello di Roma e poi l’altro di Budapest, è la fotografia del pensiero governo italiano nei confronti dei diritti Lgbtiqa+. Giorgia Meloni, solitamente loquace, ha seguito in silenzio la decisione dell’omologo ungherese, Viktor Orbán, di vietare il Pride. Un’imposizione che non è passata inosservata, a più livelli, poi travolta dall’onda arcobaleno nella capitale dell’Ungheria. La destra italiana vive la mobilitazione arcobaleno con un certo fastidio. Basti pensare alle uscite di Roberto Vannacci, vicesegretario della Lega. Al netto delle dichiarazioni, ci sono i fatti: nel 2023 l’esecutivo ha fatto emanare, attraverso il Viminale, la circolare per vietare ai sindaci la registrazione nei documenti comunali dei figli di coppie omogenitoriali. E ancora: c’è l’assalto in corso della destra di Meloni al fine vita con una legge, ancora in forma di bozza, che sembra andare in direzione opposta a un ampliamento dei diritti civili. Il progetto di restaurazione sui diritti è partito con riforme già varate, in testa quelle sulla gestazione per altri e sulla cannabis light, colpita e affondata dal decreto Sicurezza. Sullo sfondo l’antica tentazione di limitare l’aborto con interventi mirati, senza toccare la legge. Certo, la strategia è quella di affidare ai parlamentari i temi eticamente sensibili per non mettere il cappello governativo su iniziative molto delicate per l’opinione pubblica. Ma la regia politica resta chiara. “Meloni toglie un diritto alla volta e costruisce mattone per mattone un carcere invisibile dove gli italiani hanno sempre meno libertà”, dice a Domani il deputato di +Europa, Riccardo Magi. La storica giornata di Budapest segna comunque uno spartiacque. Il premier ungherese, che ha inizialmente subito in silenzio la marea arrivata nella capitale del suo paese, ha definito la manifestazione “una vergogna, uno spettacolo ripugnante”, scagliandosi contro la Commissione europea, rea di aver difeso il diritto a manifestare e contrastare le discriminazioni. “L’Europa è la patria dello stato di diritto, della libertà e della democrazia”, ha fatto però notare la deputata di Alleanza verdi-sinistra, Elisabetta Piccolotti, lanciando una sfida: “Se a Orbán non piace raggiunga qualcuna tra le sue democrature preferite”. Gli echi di Budapest si sono sentiti anche a Roma. I buoni uffici di Meloni con Orbán sono storia nota. Frequentano famiglie politiche diverse in Ue, ma hanno affinità note, oltre alla reciproca simpatia. Dentro Fratelli d’Italia è stato mandato in avanscoperta il ministro del Pnrr, Tommaso Foti, in un’intervista alla Stampa, si è limitato a dire: “La libertà di manifestare va sempre garantita”. Agli atti resta un immobilismo nel contrasto all’omotransfobia. Al Senato c’è il disegno di legge presentato da Ivan Scalfarotto, di Italia viva, che di certo non ha trovato una corsia privilegiata nei calendari parlamentari. Anzi. Il tema dei diritti tira in ballo il dibattito sul fine vita. Dopo le sollecitazioni della Corte costituzionale, con due diverse sentenze, il parlamento ha iniziato a mettere mano alla questione. Solo che la destra va verso un restringimento delle possibilità di scelta. Al momento si tratta solo di una bozza, ma viene innanzitutto tagliato fuori il sistema sanitario nazionale dalle prestazioni ed è allo studio un comitato ad hoc che è il pivot di un meccanismo farraginoso: sembra una risposta pro-forma alla richiesta della Consulta sulla legiferazione sul fine vita che una volontà di dare risposte ai cittadini sul suicidio medicalmente assistito. “Piuttosto che un comitato etico scelto da Palazzo Chigi e l’obbligo delle cure palliative, meglio nessuna legge”, osserva Magi. La pietra angolare della battaglia della destra è stata quella sull’interruzione volontaria della gravidanza. Lo scorso anno, al termine del G7 in Italia, era sparito il riferimento al diritto all’aborto sicuro e legale. La motivazione ufficiale non è mai stata resa nota, restano i sospetti su una manina dei meloniani di palazzo Chigi. Una delle sicurezze è che in Italia esiste il problema degli obiettori che complicano l’accesso all’aborto, mentre la destra sostiene i gruppi cosiddetti pro-vita. E se sull’aborto, ci si muove in maniera sotterranea, sulla gestazione per altri la sfida è stata condotta a viso aperto. La destra ha approvato la legge che introduce il reato universale per la maternità surrogata, che la destra etichetta come “utero in affitto”. Nessun confronto sul merito, nonostante sul tema ci fossero posizioni diverse anche nel centrosinistra. L’importante era marcare il territorio, nel segno della restaurazione. Migranti. La geografia della morte disegnata dagli accordi Ue di Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2025 Uno studio indica che l’accordo Ue-Turchia non ha ridotto gli arrivi irregolari, ma li ha solo dirottati. Dati e testimonianze di violenza delegata. Uno studio rivela come le politiche migratorie europee, in particolare l’accordo del 2016 tra l’Ue e la Turchia, abbiano contribuito a un aumento dei decessi nel Mediterraneo, spingendo i flussi migratori su rotte più pericolose e aggravando la vulnerabilità dei migranti a torture e violenze sistematiche, come quelle raccontate nei recenti report si Sos Humanity e Medici Senza Frontiere. La ricerca pubblicata sulla rivista Humanities and Social Sciences Communications dalla Scuola Imt Alti Studi Lucca, condotta da Massimo Riccaboni e Irene Tafani, indica che l’accordo UE-Turchia non ha ridotto gli arrivi irregolari. Al contrario ha spinto i flussi verso la rotta più mortale, quella del Mediterraneo centrale. In base ai dati ufficiali di Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, i ricercatori hanno calcolato che tra aprile e dicembre 2016 circa duemila migranti che avrebbero utilizzato la rotta del Mediterraneo orientale sono stati deviati verso il Mediterraneo centrale, portando a un aumento netto dei decessi che la ricerca attribuisce direttamente all’accordo, dopo il quale il tasso di mortalità lungo la rotta del Mediterraneo centrale è quasi raddoppiato. Secondo gli autori, senza un coordinamento più ampio gli accordi bilaterali possono semplicemente spostare i flussi. “I decisori politici dovrebbero resistere alla tentazione di celebrare il calo degli arrivi in Grecia senza riconoscere che queste persone non hanno rinunciato alla migrazione. Stanno semplicemente trovando alternative più rischiose nelle acque libiche”, sono le parole di Riccaboni. Gli ultimi dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), aggiornati al 21 giugno, riportano che almeno 255 persone sono morte e 284 risultano disperse sulla rotta del Mediterraneo centrale dall’inizio dell’anno. Ma non solo di questo si tratta. Mentre la Grecia annuncia di voler collaborare coi libici per arginare le partenze dei migranti e l’Ue ha appena rinnovato per altri due anni e 52 milioni di euro il mandato della ‘Missione europea di assistenza alla gestione integrata delle frontiere in Libia’ (Eubam Libia), arrivano a 11.129 i migranti intercettati in mare e riportati indietro dalla cosiddetta guardia costiera libica: 9.589 uomini, 1.026 donne, 369 minori e 145 con dati di genere sconosciuti. Nonostante le sentenze, anche dell’Italia, abbiano definitivamente delegittimato il ruolo delle vedette libiche, dichiarando che un’operazione di soccorso in mare non possa concludersi in un luogo dove le persone rischiano la vita, i recenti scontri e l’instabilità del Governo di unità nazionale tripolino hanno solo rilanciato la convinzione degli Stati Ue a rafforzare accordi e siglarne di nuovi. Con Tripoli, Bengasi, o chiunque si imponga come interlocutore nella regione. ?Che nel Mediterraneo centrale si muoia ben prima di aver visto il mare lo ricordano, ancora una volta, i rapporti di organizzazioni come Medici Senza Frontiere (“Disumani”) e Sos Humanity (“Borders of (In)humanity”), che dettagliano le violenze sistematiche subite dai migranti, in particolare in Libia e Tunisia. Secondo Sos Humanity, le testimonianze raccolte da 64 sopravvissuti a bordo della nave Humanity 1 tra ottobre 2022 e agosto 2024 rivelano le conseguenze delle politiche europee che affidano il controllo delle frontiere a paesi terzi. In Libia, i sopravvissuti hanno quasi universalmente denunciato detenzioni arbitrarie in condizioni disumane: fame, mancanza di cure mediche e esecuzioni sommarie. Molti sono stati venduti come schiavi, anche agli stessi trafficanti di esseri umani, anche attraverso il confine tunisino. “Quella notte, nella prigione di Ghout al-Shaal, hanno chiesto 1.500 dollari a ciascuno di noi, ma nessuno ha pagato. Non riuscivamo a capire se fossimo stati venduti o meno”, racconta una testimonianza. “La mattina dopo le guardie ci hanno venduto alla milizia responsabile della prigione di Bir al-Ghanam, dove l’importo richiesto è salito a 2.500 dollari”. Ancora: “Avevamo un piatto di pasta per una dozzina di persone. Tutti avevano fame, molta fame. Dovevamo mangiare lentamente… C’erano persone che morivano in prigione. Morivano di fame, di malattia, morivano marcendo”. Nemmeno i minori vengono risparmiati: “I libici hanno preso il mio bambino e l’hanno gettato a terra. Ho urlato e pianto e quando l’ho ripreso, la sua faccia era coperta di sangue”. Immancabili le violenze sessuali: “Molte donne, molte ragazze, le rapiscono e fanno tutto quello che vogliono. Molte hanno gravidanze indesiderate e sviluppano problemi mentali”. Una donna incinta ha raccontato di essere stata portata a Tripoli: “Mi hanno drogata, così dormivo sempre. Queste droghe colpiscono anche il bambino, ed è come avere un aborto… La seconda volta che sono stata imprigionata, avevo già il mio bambino. Ho chiesto acqua per lui, tante volte, ma non mi hanno dato nulla. Mi hanno solo picchiato e violentato. Mi hanno eiaculato addosso mentre tenevo in braccio il mio bambino”. Molte donne raccontano la riduzione in schiavitù: “Ho pagato un trafficante per lasciare il Mali, per proteggere mia figlia (dalle mutilazioni genitali)… in Libia mi ha venduta a un altro uomo: sono stata costretta a vivere e lavorare per lui. Mi violentava continuamente”. Anche in Tunisia, Paese col quale l’Ue ha recentemente siglato un memorandum, la situazione dei diritti umani è peggiorata. I sopravvissuti riferiscono di cure mediche negate, sfruttamento finanziario, riduzione in schiavitù e discriminazioni sistematiche. “Anche quando vai al negozio i tunisini fanno finta di chiacchierare con i loro fratelli o sorelle, non ti guardano, arriva un altro tunisino e viene servito, e tu sei ignorato”. C’è chi viene abbandonato nel deserto, dove i migranti vengono portati forzatamente, al confine con la Libia o l’Algeria, a volte morendo. Un rifugiato dal Sudan: “37 donne che sono state violentate lì”. Medici senza frontiere riferisce che delle 40 pazienti assistite tra il 2023 e il 2025, l’80% ha raccontato di aver subito uno o più episodi di violenza sessuale. Alcuni subiscono la “falanga”, forma di tortura che consiste nell’infliggere traumi ai piedi. “In Bangladesh mi sono indebitato per pagarmi delle cure mediche… Quando sono arrivato in Libia sono stato segregato per un mese dai trafficanti, mi hanno torturato continuamente. Mi picchiavano su tutto il corpo, mi hanno colpito continuamente sotto i piedi per ottenere un riscatto dalla mia famiglia”. Poi, il mare. Le barche sovraffollate e non idonee alla traversata. Prive di cibo, acqua ed equipaggiamento di sicurezza. Molti hanno assistito all’affogamento dei loro compagni di viaggio. I pattugliatori delle guardie costiere libica e tunisina sono direttamente coinvolti in pull-back violenti: pestaggi, spari, violenze sessuali, affondamenti intenzionali di imbarcazioni e persone lasciate annegare. “Tre giovani uomini si sono gettati in mare a causa delle gravi percosse subite. La guardia costiera libica li ha lasciati morire davanti ai nostri occhi, maledicendoli mentre annegavano: “E’ più facile per noi e per loro”, si dicevano l’un l’altro”. Come ormai raccontano i video girati dagli equipaggi umanitari, minacciati a loro volta, i libici non hanno remore ad aprire il fuoco. Episodi che interrogano direttamente le autorità europee, a tutti gli effetti committenti dell’attività in mare di libici e tunisini, accusate di facilitare deliberatamente le intercettazioni in mare e i conseguenti respingimenti. L’eredità è nei corpi di chi è riuscito a raggiungere altre sponde. Msf gestisce a Palermo un progetto per l’assistenza e la riabilitazione delle persone sopravvissute a torture e violenze, in collaborazione con l’Università e il Policlinico Paolo Giaccone. Tra le persone assistite dal servizio, il 67 per cento presenta sintomi di stress post-traumatico associato a tratti ansiosi e depressivi, presumibilmente riconducibili a traumi e violenze subite. Molti riportano dolore cronico, esiti di fratture, disturbi digestivi e neurologici. I sintomi psicologici possono essere invalidanti, causando pensieri intrusivi e ricordi traumatici, con conseguente isolamento e sfiducia. Come spiegato da una psicologa di Msf, il percorso terapeutico mira a trasformare i flashback e i pensieri intrusivi in ricordi, creando uno spazio sicuro per la persona sopravvissuta alla tortura. Ma la condizione giuridica dei migranti, sempre più precaria in Italia come nel resto d’Europa, aggrava ulteriormente la sofferenza, ostacolando l’accesso ai servizi essenziali e la stabilità sociale ed economica che resta un miraggio anche per la maggioranza di coloro che ottengono la protezione internazionale. Migranti. Protocollo Italia-Albania, la Cassazione elenca le incongruenze in 48 pagine di Eleonora Camilli La Stampa, 30 giugno 2025 Possibile contrasto con l’articolo 3 della Costituzione: parlare generalmente di “migranti”, ingenera “una complessiva disparità di trattamento tra gli stranieri da condurre in Italia e i migranti da trasferire in Albania”. Ancora guai per il governo sulla legittimità del protocollo Italia-Albania. A sollevare dubbi sull’operazione di deportazione dei migranti irregolari in suolo albanese è la Corte di Cassazione che in una lunga relazione, di 48 pagine, raccoglie i principali pareri sul tema e parla di possibili incompatibilità non solo con il diritto internazionale, e in particolare con la direttiva europea in materia di rimpatri, ma anche con la Costituzione italiana. Nelle osservazioni, stilate dall’ufficio del massimario e del ruolo si sottolinea innanzitutto “un possibile contrasto con l’articolo 3 primo comma della Costituzione”, nella parte in cui il protocollo, omettendo di individuare con precisione la categoria di persone a cui si riferisce ma parlando generalmente di “migranti”, ingenera “una complessiva disparità di trattamento tra gli stranieri da condurre in Italia e i migranti da trasferire in Albania”. Non solo, ma gli esperti della Cassazione parlano anche di non aderenza ad altre norme della Costituzione: l’articolo 10 che tutela il diritto d’asilo, l’articolo 13 sull’inviolabilità della libertà personale e l’articolo 24 sul diritto alla difesa. L’accordo stretto tra Giorgia Meloni ed Edi Rama non assicurerebbe, dunque, ai migranti alcuni diritti fissati nella nostra carta costituzionale, tra cui quello alla salute tutelato dall’articolo 32. Nel documento si sottolinea per esempio che nello stabilire, in caso di esigenze sanitarie alle quali le autorità italiane non possono far fronte “la collaborazione con le autorità albanesi responsabili delle medesime strutture per assicurare le cure mediche indispensabili e indifferibili ai migranti ivi trattenuti”, questo “può comportare un grave pregiudizio per il diritto alla salute dei migranti, atteso che il livello di assistenza sanitaria albanese non è comparabile con quello italiano”. Allo stesso tempo, il protocollo sembra non rispettare il diritto alla difesa: “La previsione relativa alla partecipazione dell’avvocato del migrante dall’aula in cui si trova il giudice, e non dal luogo in cui si trova il suo assistito, rappresenta una disposizione fortemente derogatoria rispetto a quanto stabilito per l’udienza di convalida”si legge nella relazione. Molti dubbi ci sono anche rispetto a una corretta applicazione del diritto europeo, dal momento che l’accordo è tra uno stato membro e un paese extra Ue. In particolare, sottolinea la Cassazione, “il sistema europeo comune d’asilo ha una dimensione squisitamente territoriale” e in un paese terzo potrebbero non esserci le stesse garanzie e gli stessi standard per l’applicazione delle leggi. Problematico è, inoltre, il trattenimento in frontiera che deve essere sempre l’estrema ratio e deve prevedere una possibile alternativa. Infine vengono rilevati alcuni punti di contrasto con le normative internazionali. “Il sistema di dislocazione extra territoriale istituito dal protocollo presenta evidenti punti di frizione con gli obblighi internazionali in materia di diritti umani e dei richiedenti asilo” si legge. La relazione molto critica sulle misure del governo ha sollevato diverse polemiche. “Mentre in Europa l’approccio del governo Meloni al contrasto dell’immigrazione irregolare viene adottato come modello di riferimento, in Italia alcuni organi giurisdizionali sembrano più impegnati a ostacolarne l’azione”, osserva il ministro per gli Affari europei, Tommaso Foti, che prosegue: “Avviso ai naviganti, ai fiancheggiatori e ai complici: il governo Meloni andrà avanti nella lotta all’immigrazione irregolare, forte anche del consenso che la sua posizione registra in Europa, oltre che tra gli italiani”. Per il presidente dei senatori di Forza Italia, Maurizio Gasparri, “evidentemente l’avanzare delle riforme della giustizia determina reazioni incommentabili da parte di alcuni settori che vorrebbero conservare un potere che ha la pretesa di sostituirsi alla democrazia e al Parlamento, violando la separazione dei poteri”. Dall’opposizione Angelo Bonelli di Avs parla di un “governo che si sente al di sopra della legge”. “È la seconda tegola, dopo i rilievi sul decreto sicurezza - dice. È inaccettabile”. Per Riccardo Magi, segretario di +Europa, “il governo è allo sbando costituzionale”. Migranti. Dopo il decreto Sicurezza la Cassazione critica anche il protocollo Italia-Albania Il Dubbio, 30 giugno 2025 La relazione del Massimario della Cassazione solleva rilievi sui due provvedimenti. La maggioranza attacca la magistratura, mentre le opposizioni denunciano l’ennesimo attacco allo Stato di diritto. Non si placa il conflitto tra governo e magistratura. Dopo le critiche dell’Ufficio del Massimario della Cassazione al decreto Sicurezza, è ora il protocollo Italia-Albania sui migranti a finire sotto la lente dei giudici. E la reazione della maggioranza è immediata, compatta e durissima. Il primo a intervenire è il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che in un’intervista a La Stampa liquida la relazione della Cassazione come “un esercizio connotato da una forte impostazione ideologica”. “Mi sfugge quali principi costituzionali violerebbe il decreto”, attacca il titolare del Viminale, riferendosi alla norma voluta da Fratelli d’Italia che prevede l’intervento immediato delle forze dell’ordine in caso di occupazione abusiva di immobili. “Se davvero la legittimità costituzionale dipendesse dall’opinione di un ufficio tecnico della Cassazione, allora sì che dovremmo preoccuparci della tenuta dell’equilibrio tra i poteri dello Stato”. Il governo non intende fare marcia indietro, anzi rilancia. Piantedosi annuncia l’arrivo imminente in Consiglio dei ministri del nuovo decreto flussi triennale, che dovrebbe regolare l’ingresso di circa mezzo milione di lavoratori extracomunitari dal 2026 al 2028. “Vogliamo aprire canali legali per chi arriva in Italia per lavorare, contrastando allo stesso tempo i trafficanti di esseri umani”, spiega il ministro. Nel frattempo, il vicepremier Matteo Salvini torna a proporre una stretta sul reato di tortura e l’introduzione del taser per la polizia penitenziaria. Piantedosi apre: “Sono sempre favorevole a strumenti che aiutino le forze dell’ordine a proteggere sé stesse e i cittadini, ovviamente nel rispetto della legalità”. Ma le parole più dure arrivano dai capigruppo della maggioranza. Per Galeazzo Bignami, deputato di Fratelli d’Italia, “le toghe rosse colpiscono ancora”. In un video pubblicato sui social, denuncia: “La Cassazione critica la norma sullo sgombero immediato degli occupanti abusivi. Secondo loro, bisogna preoccuparsi del disagio sociale di chi occupa casa, non dei cittadini che l’hanno comprata con sacrifici. È un ribaltamento della realtà”. Sulla stessa linea Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato: “Se ai magistrati del Massimario non piacciono le leggi approvate dal Parlamento, allora si facciano occupare le case loro. Ci troviamo davanti a una pericolosa invasione di campo”. Anche Lucio Malan, capogruppo FdI a Palazzo Madama, punta il dito contro la magistratura: “Preoccupati per chi occupa, non per chi ha subito un furto della propria casa. È assurdo che si dia voce a chi viola la legge, anziché difendere i cittadini perbene”. Le critiche dell’ufficio del Massimario però non si limitano al decreto Sicurezza. Nelle ultime ore è emerso un nuovo documento che solleva pesanti dubbi di costituzionalità anche sul protocollo siglato tra Italia e Albania per il trattenimento di migranti. Secondo la Cassazione, l’intesa potrebbe violare la Costituzione, il diritto internazionale e quello europeo. A sinistra, le opposizioni colgono l’occasione per denunciare l’ennesimo attacco del governo alle istituzioni di garanzia. “Dopo la Corte dei Conti e la Corte Costituzionale, ora si prova a delegittimare anche la Cassazione”, accusa Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato. “Questo governo ha smarrito il senso stesso dello Stato di diritto. L’indipendenza della magistratura non può essere messa in discussione solo perché non condivide le scelte del potere esecutivo”. Peppe De Cristofaro, di Alleanza Verdi e Sinistra, denuncia una deriva repressiva: “Il decreto Sicurezza è già al limite della costituzionalità, e ora si parla di scudi penali per la polizia, di limitare i diritti, di criminalizzare il dissenso. La destra vuole trasformare l’Italia in uno Stato di polizia. Dobbiamo fermarli”. Nel mirino dell’opposizione anche la gestione del protocollo con l’Albania. I parlamentari del M5S nelle commissioni Affari Costituzionali parlano di “fallimento totale”. “Dopo un anno di annunci, in Albania sono state trasferite solo poche decine di migranti, a fronte di oltre 250 mila sbarchi. Il tutto costando agli italiani circa un miliardo di euro”. Secondo Angelo Bonelli, portavoce di Avs, “la destra vuole smantellare tutti i contrappesi costituzionali. Intanto attacca i giudici, criminalizza le manifestazioni, perseguita chi dissente. Il messaggio è chiaro: chi non si allinea è un nemico”. La maggioranza, però, non arretra. Riccardo De Corato, vicepresidente della commissione Affari Costituzionali, rivendica il diritto del potere politico di decidere su migranti e sicurezza. “È il Parlamento che fa le leggi, non la Cassazione. I giudici possono esprimere opinioni, ma la valutazione sulla costituzionalità spetta solo alla Corte Costituzionale, non a un ufficio tecnico”. Se tutti provassimo vergogna sarebbe già una rivoluzione di Maurizio Maggiani La Stampa, 30 giugno 2025 Gli orrori del nostro tempo esigono una presa di coscienza collettiva. Provo vergogna, questo è il sentimento che mi domina, provo vergogna per me, per quello che sono. Provo vergogna alzandomi ogni mattino di buon’ora e scoprendomi ancora vivo, in discreta salute, pronto a nutrirmi con abbondanza il corpo e lo spirito di buoni cibi e buone intenzioni intanto che il primo notiziario del mattino mi comunica che nulla di quello che sono, che faccio, che penso, che progetto ha nel frattempo spostato di un solo millimetro il bilancio dell’orrore quotidiano in favore della vita, di una sola vita. Lo so, potrei alleggerire il carico della mia pena cominciando col vergognarmi di essere europeo munito di regolare e convalidato passaporto dell’Unione; non mi costerebbe niente vergognarmi della vigliaccheria, dell’ignavia, della nullità di ciò che dell’Unione ne resta, mi basterebbe ricordare che da quando la guerra di Gaza si è fatta massacro, carneficina, strage di innocenti, esercizio di sadismo istituzionalizzato, interviene con ferma viltà suggerendo al governo israeliano “moderazione”, con il savoir faire del distinto signore che assiste a uno stupro per strada e con garbo invita alla moderazione lo stupratore. Visto che a suo tempo fui convinto da Enrico Berlinguer a sentirmi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato, mi costerebbe poco e niente vergognarmi del suo segretario generale, Mark Rutte, questa fervida imitazione del dottor Stranamore, al pari del dottore vilmente ossequioso con il comandante in capo. Trump detta la linea all’Europa - Quel tale Trump, fiero del suo chimico priapismo senescente, che detta all’Unione la legge del più grosso, il più forte è altrove e segue l’antico insegnamento di Sun Tzu secondo cui l’unico esercito alla fine vittorioso è quello che non ha mai combattuto, e cosa volete che mi costi vergognarmi di come l’Unione gli mostri le terga inaugurando una nuova era di diplomazia fallocratica. Per non dire della vergogna di vedermi la crème del progressismo europeo sfilare in composta processione al Pride di Budapest per porre i loro corpi a barriera protettiva del sacrosanto diritto di manifestare della comunità Lgbtq+; questo senza che mai sia passato loro per la testa di porre i loro corpi a difesa del sacrosanto diritto ad esistere del popolo ucraino. Un fatto che non sarebbe passato inosservato agli occhi del mondo che aspira a una pace giusta e duratura il tappeto di illustri corpi steso sull’asfalto davanti ai carri armati russi; e se per disgrazia ci fosse capitato il morto quale morte sarebbe stata più gloriosa, più santa, più affine all’imperativo di pace e giustizia? No, tutto troppo facile, inequivocabilmente auto assolutorio. È di me che devo portare vergogna, perché tutto l’orrore de mondo è me che chiama, e a me che chiede e impone una risposta, a chi pensa di essere umano passabilmente intatto nella sua umanità. La domanda è, sei disposto a vivere nella vergogna? Sei disposto a spalmare la marmellata nella tua fetta di pane mattutino sapendo che in quel momento c’è un bambino sotto tiro di un militare in servizio attivo nell’esercito di un paese a regime democratico, almeno a prima vista, solo perché sta tentando di conquistarsi un pezzo di pane? E non è neppure questa la domanda più imbarazzante, che è un’altra e definitiva, sei capace di vivere nel tempo dell’odio, dell’odio come sistema di governo, come utensile per le relazioni, l’odio come religione, l’odio come gioco di società? Il diritto di sopravvivere all’orrore - L’odio per l’umano e per ogni altro essere che si oppone al dominio, il dominio che è un dono di Dio, sacrosanto diritto di disporre a piacere di tutto ciò che sia rivendibile a maggior valore, sia un metallo, un’anima, una vita. L’odio che è un dono degli elettori al loro governo, il patrimonio d’odio consegnato dagli elettori americani al loro presidente è di devastante grandezza, ma leggetevi il decreto legge Sicurezza e constaterete quanto ne sia enfio, odio per il difforme, per il disturbatore della quiete ministeriale, per lo straniero, per il prigioniero, per chi mette in dubbio l’ordine governativamente stabilito. Che diritto ho io di sopravvivere a tutto ciò, di salvarmi la pelle campando sulla mia vergogna? Io non sono stato addestrato a vivere questo tempo e in questo modo, non sono stato educato alla viltà, e solo la viltà è la risorsa che mi occorre per sopravvivere. “Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio” questa è la voce di Antigone, e Antigone che non conosceva la viltà è finita sepolta viva. Verrà il tempo del giudizio, se ad aprire il Grande Libro degli umani destini non sarà Iddio in persona, ci penserà la Storia. E la Storia non dimentica, non perdona, mai, e a differenza del Dio tende più alla vendetta che alla giustizia, del resto è farina del nostro sacco. Quando sarà aperto il Libro al paragrafo che mi compete, che cosa troverò mai per coprirmi le vergogne? Forse i miei bei discorsi, le mie buone intenzioni, le mie offerte votive, il mio otto per mille, il mio voto? Mi si chiederà come ho saputo oppormi all’odio e io che farò, una conferenza sulla convivenza? Non si risponde all’odio con le belle parole, ma con il pensiero, e il pensiero o si fa corpo o non è che foglia di fico per nascondere le vergogne. Dove ho posto il mio corpo perché il mio pensiero si facesse azione capace di incidere sulle sorti anche di un solo umano? In quale piaga, in quale cratere di missile, in quale sopruso, in quale menzogna? Isaia, Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova, e io dov’ero? Dove sono le ali del mio pensiero perché facciano barriera al malvagio? Ah, io ero nel mio giardino. Da parecchie notti converso con un riccio che ha messo casa sotto la macchia di alloro. Lo ha scoperto il gatto Palmiro e ne è nata una discussione che lo ha punto sul vivo; ha imparato a lasciar perdere e ora della sua presenza non gliene importa più niente. A me no, a me interessa, interessa conversare, che non vuol dire parlare, non conosciamo io e lui le nostre rispettive lingue, come non sappiamo praticamente niente di tutto il resto che ci riguardi. Ma conversiamo; conversare, dal latino conversari, trovarsi assieme. Ecco, ci troviamo assieme, sul tardi, quando la luna sta calando e lui ha già condotto la sua caccia al cibo, con un certo successo a constatare la taglia. Io me ne sto seduto sul ceppo del defunto gelso, lui tra le rose a due passi. Ovviamente non abbiamo niente da dirci, ma abbiamo deciso di trovarci assieme, il perché è un mistero che non mi importa di sondare. Abbiamo evidentemente le nostre buone ragioni per non contendere, quello che è chiaro è che è possibile, è salutare, è conveniente, il nostro ritrovarci mi appare come la conferma quotidiana di un patto, e confermarci è molto importante, al suo cospetto io non ho niente di cui vergognarmi e lui altrettanto. È un po’ come se tra noi due fosse nata una nazione, una microscopica alleanza di esseri liberi e responsabili. La nazione e la vergogna secondo Marx - E allora mi viene alla mente ciò che ebbe da dire Karl Marx in fatto di nazione e di vergogna, parole che mi suonano come un’inaspettata, singolarissima speranza. Cito per esteso così l’Economist magari se le copia e ci fa uno dei suoi mirabili editoriali. Karl Marx ad Arnold Ruge, marzo 1843. Io viaggio in Olanda. In base ai giornali locali e francesi, la Germania (e qui potete sostituire con chi vi pare, persino con l’attuale sistema liberaldemocratico) è caduta nel fango e vi sprofonda sempre di più. Le assicuro che, benché privi di orgoglio nazionale, si sente lo stesso la vergogna nazionale, specie in Olanda… La nuova scuola è pur servita a qualcosa: l’abito di gala del liberalismo è caduto, e il più ripugnante dispotismo è esibito agli occhi di tutto il mondo in tutta la sua nudità. Pure questa è una rivelazione, benché a rovescio. È una verità che almeno c’insegna la vacuità del nostro patriottismo, la mostruosità del nostro Stato, e a coprirci il viso. Lei mi scruterà sorridendo e mi chiederà: “cosa si è guadagnato con ciò? Mica per vergogna si fa rivoluzione”. Rispondo: “la vergogna è già una rivoluzione; La vergogna è una sorta di ira contro di sé. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccar il balzo. Lo Stato è una cosa troppo seria per farne un’arlecchinata. Una nave carica di matti spinta dal vento potrebbe forse veleggiar a lungo; ma essa andrebbe comunque verso il suo destino, proprio perché i pazzi non ci crederebbero. Questo destino è la rivoluzione che ci sovrasta. Piccoli leader e grande propaganda: spendere in armi non rafforza l’Europa di Elsa Fornero La Stampa, 30 giugno 2025 L’accordo Nato ha l’aria di una scappatoia. E anche il debito comune va restituito. Uno degli aspetti più irritanti di questo periodo travagliato e caotico è una narrazione delle tragedie naturali e umane che le trasforma magicamente in grandi opportunità. È successo con il Covid che doveva farci diventare tutti più buoni e ci ha resi invece più bellicosi; con la crisi energetica che ci ha fatto “scoprire” le energie alternative ma anche sottovalutare i costi della transizione, portandoci così a mettere in dubbio l’utilità del Green Deal. Sta succedendo con il moltiplicarsi delle guerre che ci svela i “benefici del riarmo” e il “bello” dell’investimento in sicurezza per difendere la nostra prosperità occidentale, peraltro in periodo in cui, paradossalmente, essa è messa in crisi forse più dai cambiamenti interni, come l’assottigliarsi delle giovani generazioni, che non dalle minacce di nemici veri o presunti. E gli esempi potrebbero continuare. In mancanza di statisti in grado di progettare il futuro e mettere le basi affinché non soltanto la prosperità materiale (già a rischio per fasce crescenti della popolazione a causa del minor ruolo del lavoro nei processi produttivi) ma anche i valori dell’Occidente liberaldemocratico possano sopravvivere, rafforzarsi e magari “contagiare” positivamente altre aree del mondo, ne accettiamo passivamente lo svilimento, persino il dileggio. Si è fatta strada l’idea che tali valori - nati in Europa dal sogno dei fondatori di unire la crescita economica basata sulla libertà nei mercati e sulla cooperazione internazionale ai valori dell’inclusione (parola diventata quasi blasfema), del dialogo e della solidarietà - abbiano finito con il rappresentare un ostacolo, e persino il sovvertimento delle virtù “nazionali” che, in nome della supremazia dei più forti, pongono ai singoli Paesi l’obbiettivo di “ri-diventare grandi”, sintetizzato negli Stati Uniti dalla sigla Maga (“Make America Great Again). Il mondo deve così accontentarsi di piccoli leader contenti di mettere pezze all’ultima (soltanto per data) “disgrazia globale”, peraltro spesso favorita, se non direttamente provocata, dalla loro stessa inadeguatezza e propensi a rifugiarsi in discorsi intrisi di propaganda e lontani dalla verità. Discorsi altisonanti, dove la retorica sostituisce l’incerta evidenza empirica, come mostra la vicenda del “formidabile” bombardamento dei siti nucleari iraniani da parte degli Stati Uniti (forse mai i fatti sono stati incerti come in quest’epoca di un diluvio di dati e di fact checking in cui ciascuno cerca soprattutto la verifica di ciò in cui crede, per fede o per convenienza). Non dev’essere stato soltanto il caldo anomalo di questi giorni, per esempio, ad avere spinto il segretario della Nato a imbarazzanti elogi a Trump, inviati riservatamente e resi pubblici dallo stesso presidente americano, a cui non è parso vero di poter ripristinare la sua popolarità dopo le cadute causate non tanto dalle deportazioni di immigrati irregolari, dai dissidi con i giudici o con il governatore della Fed (uno dei pochi che ha mantenuto compostezza anche dopo essere stato definito “stupido” dal presidente) ma soprattutto dalla performance sempre più incerta dell’economia americana e della sua moneta. Oltre agli omaggi impropri al potente di turno, non mancano i “miracoli”. Dobbiamo portare la spesa per la difesa dall’attuale 1,5 al 5 per cento del Pil entro il 2035? Un punto di Pil vale circa 22 miliardi; in “valore corrente”, e quindi senza contare gli aumenti futuri di Pil e prezzi, i 3,5 punti mancanti ammontano a circa 77 miliardi, un aumento da raggiungere gradualmente che però andrà poi mantenuto nel tempo. Nessun problema, afferma sicura Meloni, secondo la quale “non un euro sarà sottratto ai cittadini”, mentre il ministro Giorgetti, questa volta senza scuotere la testa, si limita a dichiarare che l’aumento non partirà prima del 2027, memore del detto di Keynes secondo il quale “nel lungo periodo saremo tutti morti” (o almeno, aggiungiamo noi, nel lungo periodo i governi cambiano). Non sono un’esperta di geopolitica e cerco di non essere faziosa ma ho un’età sufficiente per comprendere alcune cose di buon senso (che sono poi i fondamentali dell’economia). E allora è lecito chiedersi se l’accordo Nato non sia una scappatoia. Forse tutti hanno firmato ma pensando che, anche senza l’esplicita clausola di flessibilità voluta dalla Spagna, ci saranno vari modi per alleggerire o aggirare l’impegno senza penalizzazioni; a cominciare dai metodi contabili - un trasferimento di spese già in essere da un capitolo, per esempio, dagli “Interni”, a un altro, la “Difesa”. Per di più, tutti sanno che impegnare un governo futuro a una certa spesa non ha valore cogente, perché il futuro governo potrebbe sempre disconoscere l’accordo (anche in questo Trump è un formidabile maestro). E quindi la convinzione è che l’accordo sia poco o punto vincolante; non si capisce perché, allora, dovrebbe spaventare i nemici veri o presunti. Oppure si pensa davvero a un accordo vincolante e allora non c’è santo che tenga: a dispetto di quanto affermato dalla premier a qualcosa gli italiani dovranno per forza rinunciare. La lista degli “sprechi” è stata fatta molte volte ma nessuno è mai riuscito veramente a tagliarli, perché anche dietro gli sprechi ci sono soldi indirizzati a qualcuno, che ovviamente protesta se gli sono sottratti. E poi perché il 5 per cento del Pil? Non conta forse l’efficacia militare della spesa più che la sua percentuale? Si dirà che tutto questo è il prezzo da pagare per la “sicurezza”, la deterrenza di attacchi “nemici”. In fondo gli europei, e non solo, non sono contenti di dover pagare i sistemi di allarme delle loro case e sicuramente preferirebbero non doverlo fare; lo stesso può valere per la difesa nazionale. Ma allora perché non dirlo apertamente? Perché non trattare i cittadini da adulti? E, soprattutto, perché non farlo in un’ottica dichiaratamente europea? Ha senso chiedere “debito comune europeo” (che comunque andrà restituito) per piani nazionali di difesa? E come spiegare ai giovani questa ennesima occasione perduta verso un’Unione più unita e forte nei suoi valori? Siria. Migliaia di vittime di tortura attendono cure e giustizia di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2025 Sono passati sei mesi dalla caduta di Assad, ma ce ne vorrà un numero infinitamente superiore perché queste persone possano riprendersi. Venerdì scorso, in occasione della Giornata internazionale per le vittime della tortura, Amnesty International ha ricordato la sofferenza immane di migliaia di persone sopravvissute alle violenze nei centri di detenzione in Siria, soprattutto la prigione militare di Saydnaya. Sono passati sei mesi dalla caduta del governo di Bashar al-Assad, ma ce ne vorrà un numero infinitamente superiore perché queste persone possano riprendersi dalle conseguenze fisiche e psicologiche, soprattutto se verranno meno le cure e il sostegno alla loro lotta per la giustizia: obblighi giuridici per le autorità di Damasco ma anche morali per i governi, cui Amnesty International chiede di finanziare i programmi dedicati alle persone sopravvissute alla tortura, in particolare quelli di salute mentale e psicologica. In una recente Dichiarazione costituzionale, il governo siriano ha vietato la tortura, ha specificato che non vi saranno limiti di prescrizione per le indagini e i processi e ha istituito una Commissione per la giustizia di transizione. A maggio il ministro dell’Interno ha promesso ad Amnesty International che le prigioni più tristemente note per le torture che vi si praticavano, come la già citata Saydnaya e la famigerata sezione Palestina, non saranno più usate come centri di detenzione. In quell’occasione, Amnesty International ha incontrato anche persone sopravvissute alla tortura e loro associazioni, così come quelle per la ricerca delle persone scomparse: tutte hanno sottolineato l’importanza di una loro partecipazione concreta alle iniziative per la giustizia, la riparazione e il sostegno fisico e psicologico. ?Tubercolosi, problemi agli occhi, danni permanenti alle articolazioni, fratture mai ricomposte, denti rotti sono tra le principali conseguenze fisiche delle torture e del successivo diniego di cure mediche, cui va aggiunto quello che potremmo chiamare uno stress collettivo post-traumatico. In un paese alle prese con mille problemi e con un sistema sanitario completamente da ricostruire, per curare queste persone occorrono programmi dedicati, personale specializzato e finanziamenti. Ma poco dopo la caduta del governo di Assad, l’8 dicembre 2024, sono iniziati i tagli dell’amministrazione Trump ai fondi alla cooperazione internazionale. Questi tagli hanno colpito, tra le tante, proprio l’Associazione dei detenuti e degli scomparsi di Saydnaya. Le persone cercano di fare collette per un intervento operatorio indifferibile o una risonanza magnetica urgente, ma non bastano mai. Molte famiglie si sono impoverite a causa del sistema, gestito da persone vicine all’ex governo, che estorceva somme esorbitanti per fornire notizie sui parenti scomparsi od ottenere una rapida scarcerazione, cose mai avvenute. Dopo anni e anni trascorsi in scantinati bui, inoltre, migliaia di persone hanno problemi alla vista. Chi si prenderà cura di loro? Chiudo con le parole di Ahmed Helmi, una persona sopravvissuta a Saydnaya incontrata da Amnesty International: “C’è stato un periodo della nostra vita in cui siamo stati cancellati dalla faccia della terra, oscurati dietro il sole e sottoposti a orrori. Quel luogo e quel tempo resteranno sempre una macchia nera, che crescerà finché non riusciremo a darle un senso. E potrà averlo solo se servirà per fare in modo che i nostri figli non vivano mai ciò che abbiamo vissuto noi. Il senso di ciò che abbiamo attraversato sta solo nella sua non ripetizione. Se non possiamo garantirla, allora tutto ciò non ha alcun significato”. *Portavoce di Amnesty International Italia