Oltre la pena, l’università in carcere: strumento di rieducazione e scelta di civiltà di Luca Falbo lacnews24.it, 2 giugno 2025 Tra le aule detentive, libri e dispense si trasformano in strumenti per ritrovare se stessi, riscoprire aspirazioni sopite e costruire un domani diverso, al di là dei reticolati. La pena non può limitarsi a infliggere sofferenza: deve rieducare. Ecco perché portare lezioni, libri e docenti dietro le sbarre significa fare pienamente tesoro dell’articolo?27 della Costituzione, che riconosce alle pene una funzione rieducativa. In questo senso, l’università in carcere diventa una sorta di “laboratorio di rinascita”: non solo un percorso didattico, ma un processo di costruzione di identità alternative a quelle criminali. Qui, l’idea di studente si trasforma da mera etichetta a impegno esistenziale. L’università in carcere non cancella la colpa, ma offre un senso nuovo alla pena. Lo studio diventa una forma di libertà interiore: tra le aule detentive, libri e dispense si trasformano in strumenti per ritrovare se stessi, riscoprire aspirazioni sopite e costruire un domani diverso, al di là dei reticolati. È sorprendente scoprire che un detenuto, tra un’ora di lezione e l’altra, possa scrivere una tesi sui diritti umani, interrogarsi sul passato e progettare un futuro. Questo contrasto tra le restrizioni fisiche e l’espansione mentale è la vera essenza del progetto. Negare ai detenuti la possibilità di imparare sarebbe una sentenza doppia: già costretti a rinunciare alla libertà, troverebbero deteriorata anche la speranza. Studi internazionali rivelano che un detenuto che partecipa a programmi di istruzione superiore riduce il rischio di recidiva fino al 43% rispetto a chi non frequenta corsi accademici. Un dato che non è ancora abbastanza noto nel dibattito pubblico, ma che dovrebbe far riflettere: investire nell’università in carcere non è solo un atto di pietà, ma una decisione strategica per la sicurezza collettiva. Eppure, molti istituti penitenziari hanno avviato percorsi universitari grazie alla collaborazione tra atenei, associazioni e volontari, dimostrando come la formazione possa davvero trasformarsi in riscatto. In un carcere nel Sud Italia, in particolare a Lecce, ad esempio, un gruppo di detenuti ha costituito una “biblioteca vivente”: ognuno condivideva competenze acquisite in università passate o corsi online, traducendo testi, aiutando altri compagni a superare barriere linguistiche e creando un ambiente in cui l’apprendimento era collettivo e solidale. Questa esperienza mostra come spesso il sapere non sia solo trasmesso dai docenti, ma nasca dal confronto orizzontale tra pari. In un altro contesto, presso un carcere minorile del Centro Italia, un progetto pilota ha avviato corsi di psicologia e sociologia con l’obiettivo di far riflettere sui meccanismi di devianza e riabilitazione. I giovani detenuti hanno lavorato su casi di studio, simulazioni e role playing, acquisendo competenze critiche utili non solo per il proprio percorso educativo, ma anche per comprendere dinamiche sociali più ampie. Questa iniziativa ha alimentato il dibattito sul ruolo delle scienze umane nell’attivazione di percorsi di cambiamento personale. Un aspetto poco noto è l’esistenza di borse di studio specifiche dedicate all’università in carcere, finanziate da fondazioni private e da bandi europei. Queste borse coprono costi di trasporto, materiali didattici e, in alcuni casi, tutoraggio individualizzato. Tuttavia, il mancato coordinamento tra enti locali, regione e ministero della Giustizia fa sì che tali opportunità non raggiungano tutti i potenziali beneficiari. Creare reti stabili tra istituzioni è fondamentale per garantire la continuità dei corsi anche nei periodi di turnover del personale amministrativo. Accompagnare uno studente detenuto verso la laurea significa riconoscere la sua umanità. È credere che, nonostante gli errori, l’individuo conservi una riserva di potenzialità e competenze in grado di arricchire il tessuto sociale. Formare dietro le sbarre è un investimento sulla sicurezza collettiva: persone istruite commettono meno reati, reinserendosi con più facilità nella comunità. Chi ha vissuto il carcere sa bene che la riattivazione delle proprie capacità intellettive non è un dettaglio estetico, ma la scintilla che ravviva la speranza. Una testimonianza particolarmente toccante riguarda un ex detenuto laureatosi in storia contemporanea che, tornato in libertà, ha scelto di dedicarsi a progetti di mediazione culturale in centri per minori a rischio: un percorso che nessuno avrebbe immaginato alla luce della sua condanna. Le storie che emergono dai corridoi delle carceri sono la miglior prova del valore di questi progetti. Da chi ottiene risultati accademici lusinghieri a chi scopre passioni nascoste per la letteratura, la matematica o le scienze, ogni esperienza è un tassello di un mosaico più grande: la società che crede nel cambiamento. In un carcere del Nord, un giovane detenuto ha ottenuto il record di crediti universitari completati in un anno, mentre un altro, dopo anni senza leggere, ha scelto di seguire un corso di filosofia, scoprendo nel dialogo con Platone una chiave per reinterpretare il proprio passato. Un’ulteriore riflessione concerne il coinvolgimento delle famiglie: in alcuni istituti, i genitori dei detenuti partecipano a incontri con i docenti per comprendere i progressi formativi dei propri figli. Questo approccio facilita la trasmissione di un messaggio di speranza condivisa, in cui la riabilitazione non è un percorso solitario, ma un cammino che coinvolge anche legami affettivi esterni. L’effetto indiretto è la costruzione di un tessuto di solidarietà che travalica i confini delle celle. Il cammino non è privo di ostacoli: carenza di risorse, criticità logistiche e pregiudizi culturali rallentano il passo. Le statistiche nazionali rilevano che solo il 5% delle carceri italiane ha attivato corsi universitari riconosciuti, un dato che contrasta con la richiesta di ben il 30% dei detenuti interessati a proseguire il proprio percorso formativo. Per questo serve un impegno coordinato: dalle istituzioni centrali che finanziano borse di studio dedicate, agli atenei che strutturano programmi ad hoc, fino ai docenti e ai volontari che portano il sapere là dove serve di più. Un punto di vista originale riguarda l’utilizzo delle tecnologie digitali: mentre tradizionalmente le lezioni in carcere avvengono in presenza, diverse esperienze pilota hanno sperimentato lezioni online con piattaforme sicure, amplificando così l’offerta formativa e abbattendo le distanze geografiche. Un detenuto in Sardegna ha così potuto seguire un corso di ingegneria informatica tenuto da un docente di un ateneo del continente, partecipando a webinar e lavorando su progetti open source. Questi modelli futuribili ci mostrano come il carcere possa diventare un hub di innovazione educativa, non un luogo di esclusione. Infine, un aspetto spesso trascurato riguarda le certificate digitali e i MOOC (Massive Open Online Courses). In alcuni casi, grazie a partnership con piattaforme internazionali, i detenuti possono ottenere certificazioni che migliorano le loro opportunità occupazionali al termine della detenzione. La diffusione di tali strumenti richiede però una maggiore cooperazione tra enti accademici e piattaforme tecnologiche, nonché una formazione digitale preliminare per i partecipanti. La vera misura di un sistema penitenziario non è quanti ingressi registra, ma quante porte riesce a riaprire verso il futuro. L’università in carcere è un ponte di umanità: nessuno è solo ciò che ha fatto, ma può diventare anche ciò che sceglie di imparare. Parole liberate: oltre il muro del carcere di Duccio Parodi L’Unità, 2 giugno 2025 Le persone detenute scrivono per molti motivi e un unico bisogno: trovare ascolto. Ora c’è un premio dedicato a loro, la presentazione il 5 giugno nel carcere femminile di Taranto, il 6 nell’Ipm di Bari. Questo articolo è anche l’annuncio di due eventi che si svolgeranno, il primo, il 5 giugno nel carcere femminile di Taranto, il secondo, il 6 giugno nel carcere minorile di Bari, dove verrà presentato il progetto “Parole liberate: oltre il muro del carcere” promosso dal giornalista Michele De Lucia, dall’attore Riccardo Monopoli e dall’autore Duccio Parodi. Si tratta di un Premio riservato alle persone detenute alle quali viene proposto di essere co-autori di una canzone: la lirica vincitrice è poi affidata a un artista già affermato, affinché la metta in musica e la interpreti. Il 31 dicembre 2024 Elena Scaini ha liberato oltre il muro del carcere le sue parole, e il 3 marzo 2025 si è tolta la vita. Le persone detenute scrivono per molti motivi e un unico bisogno: trovare ascolto. Elena non aveva più motivi, non aveva più bisogno, nemmeno di sapere se avesse “vinto”. Restano le sue tre poesie, le parole che ci ha affidato. A qualcuno verrà in mente Carlo Levi e il suo “le parole sono pietre” e penserà che quelle di Elena questo siano, pietre, e come sempre nessuno ricorderà che, prima delle parole, prima delle pietre, sono le lacrime. E mentre il nuovo pontefice invita a “disarmare le parole” e benvenute siano queste, appunto, parole, sarebbe utile che seguissero le istruzioni su come farlo, questo disarmo, visto che le esortazioni alla tolleranza e le marce per la pace nel mondo non sono servite a granché. E se nei dieci anni trascorsi seminando bandi riservati ai detenuti abbiamo raccolto migliaia di parole, e contato i nomi di chi, come Elena, ha lanciato il proprio corpo disperato un po’ più in là dell’ultimo portone blindato lasciando a noi le istanze e i protocolli e le prassi pallide ma feroci che tanto ci assomigliano, abbiamo anche imparato che le parole da disarmare non sono quelle che vengono da dentro le mura, ma quelle di fuori, quelle della società civile che esulta in tribunale quando il giudice legge la sentenza più gradita, o che si sente defraudata quando la pena è inferiore al massimo e non soddisfa la sua esigenza di vendetta. Certo sarebbe ingiusto stigmatizzare chi prova il desiderio di infliggere un castigo a chi gli ha causato un dolore o una perdita, e sarebbe ridicolo oltre che ingiusto pensare di stravolgere un codice - quello penale, appunto - che di questo si occupa. E quanto “fare giustizia” fosse necessario lo aveva già compreso Hammurabi quasi quattromila anni fa; le sue leggi erano piuttosto semplici: occhio per occhio, dente per dente. Questo simpatico motto rimase in vita fino a quando Mosè con le stesse parole introdusse un diverso concetto, quello della riparazione. Il senso del suo “occhio per occhio” infatti non era “te ne cavo uno a te se tu me ne cavi uno a me” bensì “ti porto in tribunale e me lo paghi, l’occhio”, e seguiva un articolato tariffario. Questa legge appare severa perché infarcita di condanne a morte, ma si tratta di una severità pedagogica ché arrivare a sentenza era molto complicato, dato che se il voto degli anziani era unanime (segno che l’imputato non aveva nemmeno un amico), non si poteva condannare e in ogni caso era necessario almeno un testimone oculare, requisito difficile da soddisfare. Dopo Mosè si tornò alle esecuzioni facili e alle torture e si inventarono le prigioni, e ci vollero due millenni per arrivare a Beccaria; e a quel punto preferimmo Hammurabi. È proprio qui, nell’ambito della giustizia e della pena che una distorsione del significato ha trasformato le parole in armi: penitenziario per esempio significa confessore, non prigione, e questa torsione del significato diviene tortura del corpo, perché penitenziario non è più la persona che redime, ma il luogo dove la pena si infligge, parola che suggerisce percuoti, scaglia contro. Come “carcere”, dal latino “carcer”, recinto per le greggi, a sua volta derivato dall’aramaico “carcar”, seppellire, tumulare, perché i prigionieri in attesa di giudizio venivano calati nelle cisterne scavate nel terreno (vedi Giovanni Battista). Le parole che derivano da pena, quindi penitenziario, espiazione, pietà, penale, punire e punizione trovano la loro radice nel sanscrito “pu” ovvero purezza, pulizia. Castigare e castigo vengono dal latino “castus” anche qui puro, pulito. Dis-armate le parole, resta il senso di una redenzione (ri-comprare, ri-ammettere) attraverso gli strumenti della educazione del reo (vedi edificazione, costruzione della persona, non certo la rieducazione modello cinese) e non della distruzione afflittiva come richiede la vendetta. Il sentimento di vendetta, che comprensibilmente abita nelle vittime dei delitti e che ha originato le accezioni oppressive dei termini che indicano le prigioni (dal latino per “prendere con forza”, e anche “edera”) non può essere trasferito nella legge. Vorrei poter dire a Elena Scaini che ci ha insegnato qualcosa, che qualcosa di lei è rimasto. Non lo so cosa sia rimasto. Forse una canzone. Alemanno e Falbo scrivono a Mattarella: “Carceri sovraffollate, una piaga devastante” Il Tempo, 2 giugno 2025 Gianni Alemanno, già ministro e sindaco di Roma, e Fabio Falbo, detenuto al Braccio G8 di Rebibbia, scrivono una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della Festa della Repubblica. Il tema è il sovraffollamento delle carceri, una piaga devastante che mina anche il percorso di reinserimento nella società sancito dalla Costituzione. Signor Presidente, come persone detenute nel Carcere di Rebibbia abbiamo molto apprezzato il messaggio da lei inviato il 15 maggio scorso alla Coordinatrice dei Magistrati di sorveglianza, dott.ssa Monica Amirante, in cui ha richiamato “al pieno rispetto dei diritti dei detenuti”. Questo messaggio ha fatto seguito alle parole da Lei pronunciate in occasione della Festa della Polizia penitenziaria del 25 marzo scorso, in cui ha ricordato il “grave fenomeno del sovraffollamento” negli istituti penitenziari. Per questo motivo ci rivolgiamo a Lei per chiedere un ulteriore intervento a tutela dei diritti sanciti nell’Articolo 27 della Carta costituzionale, proprio in questo momento in cui le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, si stanno finalmente confrontando per individuare una proposta di legge in grado di porne rimedio alla piaga del sovraffollamento delle carceri italiane. Signor Presidente, per nostra diretta esperienza, Le possiamo testimoniare che questa piaga ha effetti devastanti non solo sulla vita quotidiana delle persone detenute, che passano le loro giornate in istituti di pena dove - secondo gli stessi dati del Ministero della Giustizia - vi è un sovraffollamento medio del 120,1%, con uno spazio nelle celle per ogni singola persona detenuta nettamente inferiore agli standard previsti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Quello che viene irrimediabilmente compromesso in questa situazione è anche la possibilità di costruire percorsi concreti di rieducazione e di reinserimento delle persone detenute. Lo squilibrio che con il sovraffollamento si genera tra il numero delle persone detenute e quello dei giudici e cancellieri dei Tribunali di Sorveglianza, degli educatori e degli psicologi presenti negli istituti di pena, nonché degli stessi Agenti di Polizia Penitenziaria, determina un costante ritardo e una sostanziale disattenzione nella valutazione delle condizioni che consentono alle persone detenute di accedere alle pene alternative previste dalla legge. Come ha recentemente sottolineato l’Avv. Fabio Pinelli, vecepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura: “Il sovraffollamento e la carenza di personale compromettono gravemente la possibilità di un rapporto diretto e continuo tra magistrato e detenuto.” È una spirale perversa che porta verso il completo collasso del sistema penitenziario: già oggi il delta tra uscite e nuovi ingressi fa crescere ogni anno il numero delle persone detenute di circa 13.000 unità, l’impossibilità di accedere alle pene alternative farà esplodere questi dati. Dobbiamo arrendere, noi che ci consideriamo la Patria del Diritto, una muova condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per tentare di porte rimedio? Signor Presidente, Le stiamo scrivendo alla vigilia del 2 giugno, Festa della Repubblica Italiana, il giorno in cui ricorre la promulgazione della nostra Carta costituzionale. Il primo fondamento per la rieducazione, prevista dall’art. 27 della Legge fondamentale, è il recupero della fiducia nelle Istituzioni e nei valori costituzionali da parte delle persone detenute. La sicurezza del cittadino non si garantisce negando i diritti delle persone detenute, ma combattendo la recidiva che cresce inevitabilmente in carceri sovraffollati e fatiscenti, dove nessun percorso di rieducazione può essere seriamente garantito. Non sono ragionamenti puramente di principio, perchè il numero di recidive in istituti dove i percorsi di rieducazione funzionano è nettamente inferiore a quello di altre strutture carcerarie che si limitano a tenere recluse le persone detenute. Il sovraffollamento non opprime solo i corpi delle persone detenute, ne schiaccia verso il basso la personalità, li spinge a subire i peggiori condizionamenti, aumenta la distanza e il risentimento verso le Istruzioni. Le chiediamo pertanto, come Custode della Costituzione, di sostenere la spinta che oggi sta crescendo nelle forze politiche e nel nostro Parlamento verso un intervento di clemenza, individuato in un incremento della librazione anticipata già prevista in caso di buona condotta. Sappiamo bene che lei non può intervenire direttamente nel processo di formazione delle leggi, ma crediamo che non Le manchino gli strumenti e l’autorevolezza per operare una moral suasion in grado di vincere perplessità e resistenze. La salutiamo con deferenza, ringraziandola ancora per l’attenzione e per la sensibilità che ha sempre dimostrato nei confronti della popolazione detenuta. Miracolo: Meloni si accorge che con le manette non si risolve nulla di Mattia Feltri huffingtonpost.it, 2 giugno 2025 La premier disarmata davanti all’omicidio di Martina Carbonaro: “Eppure le leggi le abbiamo fatte…”. Ma ancora, dopo aver inventato 62 nuovi reati in un paese che ne commette sempre meno, non è pronto il disarmo: Giulia Bongiorno propone di arrestare i dodicenni. La sciagura giuridica del femminicidio. L’omicidio di Martina Carbonaro lascia senza fiato la premier Giorgia Meloni come ha lasciato senza fiato ognuno di noi. Da Astana, capitale del Kazakistan, venerdì ha speso parole dolenti e smarrite: “Forse non riusciamo a capire quello che succede alle nuove generazioni”, su cui infuria un inspiegabile aumento di violenza e autolesionismo, dice. A parte l’assunto di partenza, basato su numeri insufficienti, probabilmente malintesi, sicuramente enfatizzati, e a parte la sciagurata mania di inventare emergenze dove non ce ne sono, i toni disarmati di Meloni sarebbero paradossalmente rassicuranti, se preludessero davvero a un disarmo. Confesso che non ho risposte, dice Meloni di Astana, perché le leggi le abbiamo fatte, dice, eppure… Si riferisce apertamente alla legge che mira all’introduzione del reato di femminicidio e presumibilmente alle leggi studiate dopo i casi di Caivano, per le quali è diventato più facile arrestare i minorenni e le pene previste, in caso di colpevolezza, più severe. Eppure… Abbiamo un governo non al corrente delle pagine a tonnellate riempite di studi - recenti, meno recenti e antichi - in cui si spiega al dettaglio che inasprire le pene non dissuade dal commettere reati. E invece la presidente del Consiglio e i signori ministri, fra cui giuristi di qualche rilievo, erano convinti di raddrizzare il mondo chiudendolo in cella. Noi qui lo abbiamo detto pressoché un miliardo di volte. L’Italia è un paese fra i più sicuri del pianeta, quello europeo in cui si commettono meno reati violenti, in cui gli omicidi calano costantemente da oltre un trentennio (1916 nel 1991, 319 nel 2024), sono in crescita soltanto le truffe, specialmente online, ma i carcerati continuano ad aumentare: quando si insediò l’attuale governo, nel settembre del ‘22, erano 55 mila e 800, adesso sono quasi 62 mila. I detenuti minorenni erano 392, adesso oltre seicento, quasi il doppio, moltissimi in attesa di giudizio. Le carceri minorili - una volta venivano qui a studiarle da tutto il mondo - sono andate in sovraffollamento, le tensioni si fanno quotidiane, le ribellioni frequenti, così si varano leggi per punire più duramente le ribellioni, col risultato che il sovraffollamento peggiora, le tensioni pure e avanti così. Poi ci si chiede dolenti che stia succedendo ai nostri ragazzi. È imbarazzante: le leggi le abbiamo fatte, eppure… In un ottimo pezzo che abbiamo pubblicato ieri, Alberto Gentili quantifica nello sproposito di sessantadue i nuovi reati introdotti dal governo. Poi però uno sciaguratissimo ragazzo uccide lo stesso Martina Carbonaro, e loro dicono: eppure le leggi le avevano fatte… (l’unico risultato, spiega sempre Gentili, sono buoni sondaggi di gradimento, perché l’intero paese ambisce a diventare un gigantesco penitenziario a cielo aperto, finché naturalmente ci finiscono gli altri). Purtroppo non sembra il preludio a un ravvedimento. Intervistata dal Corriere della Sera, la presidente leghista della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, ha una soluzione pronta: abbassare da quattordici a dodici anni l’età imputabile. Geniale. Arrestare, arrestare sempre di più, sempre più ragazzi, sempre più giovani, ora anche i bambini. E poi: “Eppure…”. Un’ottusità politica senza fine, buona la rima con crudeltà, fondata sull’assunto che i social generano violenza, e l’onorevole Bongiorno lo dice così, senza indicare quale studio scientifico abbia dimostrato una correlazione fra incremento della violenza e tempo trascorso sui social. E infatti è uno studio che non esiste. Noi stiamo sempre più sui social, i reati violenti diminuiscono, semmai aumenta l’odio in rete - ed è un altro discorso - però per Bongiorno vanno proibiti gli smartphone e ammanettati i bambini. Nel frattempo ottanta giuriste, su poco più di un centinaio che insegnano nelle università italiane, firmano un appello per dichiarare inutile e inapplicabile la legge sul femminicidio (leggete qui la bella intervista a Milli Virgilio di Federica Olivo), ma è come se nessuno se ne fosse accorto. Il governo va avanti. Prevede che il femminicidio sia sempre punibile con l’ergastolo. Cioè, durante una lite un uomo colpisce una donna che, cadendo, picchia la testa e muore: ergastolo. Un altro uomo la sequestra, la porta in cantina, la tortura una settimana e poi la ammazza: ergastolo. Tutto uguale. Quindi inapplicabile. È la solita illusione della vendetta che travolge la necessità della giustizia. Il prossimo passo sarà il patibolo “Decreto Sicurezza troppo timido? Questo è solo l’inizio…” di Fabio Dragoni La Verità, 2 giugno 2025 Il sottosegretario leghista Nicola Molteni: “Estenderemo lo sgombero lampo alle seconde case. La sinistra contesta perché è allergica alla polizia”. 14 nuovi reati e 9 aggravanti in più. Il deputato dell’opposizione Bobo Giachetti riassume il Decreto sicurezza appena approvato alla camera con il tormentone di Giorgio Bracardi: “In galera!”. Sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, se vuole replicare ne ha facoltà… “A fine 2023 il governo presenta tre disegni di legge sulla sicurezza dopo un confronto con i rappresentanti sindacali delle forze di polizia. Un mosaico organico e strutturale di proposte che poi diventano decreto e che rivendico con orgoglio. Un risultato storico fondamentale. Potranno ad esempio essere messe bodycam sulle divise dei poliziotti. E se qualcuno di loro andrà a processo, lo Stato li aiuterà anticipando le spese legali fino a 10.000 euro. Una proposta di legge che si arena nel percorso di approvazione fra Camera e Senato causa dissapori nella maggioranza. Quindi il governo la trasforma in decreto legge immediatamente esecutivo. Scelta già azzardata in campo penale. Da approvarsi senza emendamenti e con la fiducia. Altre critiche non infondate dell’opposizione... “Ho partecipato ad oltre cento sedute di commissione fra Camera e Senato”. E le danno atto di questo… “E non mi è mai capitato di vedere un testo normativo così approfondito e studiato. La verità? La sinistra è allergica alla sicurezza. Ed alle forze di polizia. Se vivi nei loft delle Ztl non sai più quello che accade in periferia. Affrontare il tema della sicurezza vuol dire difendere i più fragili. Ecco perché alla fine il governo ha accelerato”. Maggioranza accusata anche di non aver di fatto partecipato al dibattito finale. Non sapevate come difendere il provvedimento. Dice l’opposizione... “Io invece ho visto un’opposizione senza idee ed argomenti. Balbettante e mai dalla parte delle nostre forze dell’ordine, accusate addirittura dal consiglio di Europa di profilare i cittadini in base a motivazioni razziali”. Spedite le madri in galera con i loro bambini: una barbarie! Altra accusa dell’opposizione... “Io credo che sia vergognoso ciò che fanno alcune borseggiatrici. Le cosiddette Lady Scippo. Usano la gravidanza come scudo per garantirsi l’impunità. È una battaglia della Lega da sempre. Abbiamo casi documentati di donne con 11 figli e 30 reati in fedina. Teoricamente 150 anni di galera. In pratica neppure un giorno di carcere”. Ci sanno fare con le scappatoie legali... “Col ministro Piantedosi, ci siamo dati l’obiettivo di alzare il livello di sicurezza nelle stazioni e nelle metropolitane. Sono il biglietto da visita di una città. Frequentate da pendolari, lavoratori, turisti, pensionati e studenti. Abbiamo rafforzato i controlli militari - con l’operazione “strade sicure” - ed i presidi Polfer. Per le borseggiatrici in gravidanza il differimento dell’esecuzione della pena prima era obbligatorio. Ora invece il magistrato farà una valutazione. E se ci sarà una recidiva di comportamenti, la donna non va in galera, ma nelle Icam: istituti a custodia attenuata per le detenute madri. Accanto a questo, quello che io chiamo “daspo anti maranza”. Divieto di accesso in stazione per chi si è reso protagonista di condotte violente”. Fissati con quella che viene un po’ altezzosamente definita microcriminalità. Ma quando questa ti tocca è macro-criminalità... “Per me tutto ciò che attenta alla libertà, alla proprietà ed alla vita è criminalità. La sinistra parla di “percezione di insicurezza”. È ridicolo. C’è la sicurezza e l’insicurezza. Altro che insicurezza percepita!”. Siete un governo autoritario perché impedirete le proteste in strada con la scusa del blocco alla circolazione! “Falso! Non c’è nessuna repressione del dissenso, ma solo della criminalità. L’anno scorso ci sono state 12.300 manifestazioni, il 20% in più rispetto all’anno prima. Ma in quelle 12.300 manifestazioni abbiamo registrato il 127% in più di atti di violenza e di aggressione nei confronti delle forze di polizia. Il messaggio qual è?”. Qual è? “Che manifestare, dissentire e protestare è sacrosanto. Ma la manifestazione del pensiero non può diventare guerriglia urbana. Quanto ai blocchi stradali, non c’è un diritto più importante dell’altro. C’è il diritto a manifestare secondo le regole e le prescrizioni di legge. Ma non puoi impedire ad un altro cittadino di arrivare puntuale al lavoro. O addirittura ad un’ambulanza di circolare”. Parliamo di “ladri di case”. Per dirla alla Mario Giordano. Decreto timido? “Io dico invece: “Game over”. La proprietà privata torna sacra con il reato di occupazione abusiva di immobile destinato a domicilio altrui. Articolo 634-bis del Codice penale. Fino a sette anni di carcere. Novità storica e rivoluzionaria. Grazie alla procedura accelerata, la polizia giudiziaria potrà immediatamente intervenire e sgomberare l’immobile in 24 ore. Cosa già avvenuta, peraltro. Io lo chiamo sgombero turbo. Sia chiaro. Si può ulteriormente migliorare la norma? Certo! Estendendo lo sgombero lampo anche alle abitazioni che non sono prima casa. Abbiamo infatti presentato come Lega già un emendamento ed anche una proposta di legge. Il decreto sicurezza non è un punto di arrivo ma di partenza”. Dal giusto processo all’ossessione securitaria: la giustizia penale tra poteri, garanzie e involuzioni di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 2 giugno 2025 Il passaggio da un modello processuale a un altro implica inevitabilmente, al di là di altre variabili minori, una ridistribuzione del potere processuale. Per convincersi di questo fatto, basti pensare dove si collocava il pubblico ministero nel sistema inquisitorio: a fianco al giudice. Addirittura nel processo pretorile, la figura del giudice accorpava dentro in sé la figura del pubblico ministero. In dibattimento si era costretti a fare una specie di fictio per cui c’era l’avvocato che faceva le sue conclusioni e poi tanto il pretore decideva. Oggi l’Aula di udienza rappresenta la nuova distribuzione del potere processuale, come previsto dalla disposizione di attuazione del Cpp (art. 143), almeno nella fase dibattimentale, nella quale sostanzialmente si forma la prova durante la cross examination. Quindi il passaggio da un sistema inquisitorio a un sistema accusatorio ha toccato i poteri: quelli del giudice, del pm e ha ampliato le garanzie difensive. Si pensi che solo nel 1955, per effetto dell’entrata in azione della Corte costituzionale, le norme di garanzia costituzionale, tipo l’inviolabilità del diritto di difesa, hanno trovato un riconoscimento attraverso il passaggio da nullità relative a nullità assolute. Toccare il potere delle parti non è un fatto indolore ed è chiaro che chi si vede sottratto un potere che fino all’altro giorno aveva esercitato, si oppone, fa resistenza ai progetti di riforma. Si consideri altresì un altro dato: il processo penale si è dovuto misurare prima con il terrorismo interno e poi con la criminalità organizzata. Naturalmente certe norme di garanzia sono state ritenute ostative rispetto alla possibilità di accertare quei fatti complessi: una cosa è un omicidio, altra cosa sono quei fenomeni. Poi l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ha cambiato radicalmente quelli che erano gli assetti di potere all’interno del processo: la difesa è diventata più forte. Il che non vuol dire che ciò sia andato a scapito necessariamente del pubblico ministero, ma certamente l’intervento di un giudice terzo ha riequilibrato i poteri all’interno del processo. Quindi quando il codice dell’88 è nato, noi abbiamo registrato delle forti resistenze. Una sorda resistenza, in alcuni casi anche palese come quella del giudice Marcello Maddalena. Ci sono stati cultori della materia, professori, politici e quant’altro che hanno avuto una serie di difficoltà a varare norme che si ponevano in contrasto con una cultura che se non era inquisitoria pura, certamente era di tipo inquisitorio cosiddetto garantito. E su queste resistenze sorde poi è sopravvenuta la strage di Capaci, e questo ha determinato tranquillamente da parte della politica la necessità di ritenere che il codice non fosse adeguato a risolvere i problemi della criminalità. Pertanto il modello si è involuto, questa involuzione è sostanzialmente continuata: cioè quel modello accusatorio che avevamo concepito, che era stato concepito progressivamente, ha visto un’attrazione anteriore verso la fase dell’indagine, un rafforzamento dei poteri della polizia giudiziaria e del pubblico ministero. E naturalmente tutto questo ha alterato quelle che erano le garanzie e quella che era la struttura processuale, il potere dentro il processo. Poi per una volontà di riequilibrio si è approvato l’articolo 111 della Costituzione, il giusto processo. Ma le lancette dell’orologio non tornano mai indietro. E naturalmente cosa è successo? Si è fatta una riforma, ma essa non poteva non tener conto di ciò che nel frattempo si era determinato e quindi non si è ritornati al modello accusatorio caratterizzato dalla centralità del dibattimento. Si è cercato di trovare un nuovo equilibrio fra indagini del pubblico ministero e polizia giudiziaria; il controllo del giudice è stato molto blando. E la centralità del dibattimento in qualche modo si è persa. Il sistema ha cercato un suo riequilibrio che naturalmente ha portato a rafforzare le indagini preliminari, ha riformato la fase dell’impugnazione successiva, ma non ha toccato il cuore del dibattimento perché non si è ritenuto di rafforzare il concetto di oralità, pensando di privilegiare il concetto del contraddittorio. Oggi si cerca in tutti i modi di ritornare un po’ nei vari progetti: quello del Lapec, la riforma che è allo studio della Commissione Mura del ministero della Giustizia, la riforma dell’Isola di San Giorgio delle Camere Penali. Tutte cercano di ripristinare la logica dell’oralità nel contraddittorio. Naturalmente lo fanno correggendo alcune norme che difettano di vere e proprie sanzioni. Si cerca di ridimensionare i poteri del giudice del dibattimento. Perché ancora non si riesce? Non si riesce perché chi ha un potere cerca di mantenerlo. Ci sono oggettivamente delle forti resistenze a ritornare su quel modello processuale perché lo si ritiene in qualche modo inadeguato rispetto ai fenomeni della criminalità terroristica internazionale e interna, domestica e, da ultimo, anche rispetto alle esigenze securitarie che stanno determinando l’approvazione del pacchetto sicurezza, la quale sta originando un’ulteriore anticipazione del momento dell’accertamento dei fatti nel rapporto fra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Per cui la classe politica l’unica cosa che riesce in qualche modo a fare sono interventi frammentari che correggono alcune piccole patologie. Si consideri l’interrogatorio anticipato voluto da Nordio e il limite delle intercettazioni a 45 giorni. Si è intervenuti poi abrogando l’abuso d’ufficio. Sono interventi in qualche modo spot che però anche loro devono tener conto del contesto generale, si pensi al femminicidio. Ulteriore binario: la criminalità minorile con l’incremento delle fattispecie incriminatrici e l’inasprimento delle pene. Tutto questo con ricadute sul sistema penitenziario. L’ideologia del governo, della sua maggioranza non è in grado di suggerire ipotesi particolarmente garantiste che non siano quelle in qualche modo estemporanee e marginali dei singoli parlamentari che fanno parte delle forze di governo e i quali riescono, come dire, a erodere alcune patologie del sistema. In altri casi devono arrivare la Corte di Giustizia Europea e la Corte Costituzionale per ripristinare alcune garanzie. Pertanto, attualmente, una riforma complessiva del sistema processuale a favore di un sistema accusatorio puro non è possibile, non ci sono gli spazi, manca la convergenza di maggioranza e opposizione. Indubbiamente la separazione delle carriere metterà in moto, se si realizzerà e dovrebbe realizzarsi, delle dinamiche: in attesa di conoscere bene quale sarà il ruolo del pubblico ministero, il giudice potrà considerarsi terzo nella dialettica fra difesa e accusa. Certamente la riforma del dibattimento e delle garanzie dibattimentali fisserebbero bene i compiti del giudice, rafforzerebbero la dialettica processuale. *Giurista Quando gli avvocati finiscono alla sbarra. Chi difende i garanti del giusto processo? di Simona Musco Il Dubbio, 2 giugno 2025 Se si volesse davvero misurare lo stato di salute della giustizia in Italia bisognerebbe guardare gli ostacoli che incontrano gli avvocati nel fare il proprio lavoro. E pensare all’insegnamento di Piero Calamandrei: “Dove si scredita l’avvocatura, colpita per prima è la dignità dei magistrati, e resa assai più difficile ed angosciosa la loro missione di giustizia”. Il caso che ha coinvolto Alessia Pontenani, difensore di Alessia Pifferi, la madre condannata all’ergastolo per aver lasciato morire di stenti la figlia Diana, di soli 18 mesi, è solo uno dei tanti cortocircuiti giudiziari che impattano sul diritto di difesa. Secondo il pm Francesco De Tommasi, quello ordito da Pontenani e altre cinque persone sarebbe stato in “piano precostituito” per indurre la giustizia a credere che Pifferi fosse affetta da un grave deficit mentale. Un cast di professionisti - psicologhe, consulenti e l’avvocata difensore - avrebbero dunque manipolato la realtà clinica della loro assistita con l’obiettivo di evitare la condanna più pesante. E per questo, oltre a Pontenani, rischiano il processo il consulente psichiatrico Marco Garbarini, le psicologhe del carcere di San Vittore Paola Guerzoni e Letizia Marazzi e due specialiste esterne, Federica Martinetti e Maria Fiorella Gazale. I reati ipotizzati sono favoreggiamento, falso ideologico, falsa testimonianza e falso commesso da incaricati di pubblico servizio. A muovere l’accusa lo stesso pm che ha ottenuto la condanna di Pifferi durante il processo di primo grado. E la sua scelta di aprire un’indagine parallela ha spinto la coassegnataria del fascicolo su Pifferi, Rosaria Stagnaro, all’oscuro di tutto, a lasciare il processo. Tutto ruota attorno a un test: il Wais, utilizzato per misurare il quoziente intellettivo. Secondo le carte dell’accusa, sarebbe stato somministrato a Pifferi in modo irregolare, senza alcuna autorizzazione, e poi utilizzato per redigere una relazione che attribuiva alla donna un QI di 40 - una soglia che, di fatto, colloca il soggetto in un’area di deficit cognitivo grave. Secondo De Tommasi, quel documento - firmato dalle psicologhe del carcere - avrebbe “stravolto” il quadro clinico di Pifferi, una donna che, al suo ingresso in carcere, appariva a suo dire “lucida” e senza alcuna patologia psichiatrica pregressa. Per la procura, si sarebbe trattato di un disegno per creare artificiosamente le condizioni per invocare una parziale incapacità di intendere e volere. L’avvocata Pontenani ha sempre respinto ogni accusa. “Non farò alcun passo indietro - aveva dichiarato al Dubbio -. Io faccio l’avvocato. Loro fanno le psicologhe. Non abbiamo alcun tornaconto”. Ma ora rischia il processo per aver, secondo l’accusa, “concorso” moralmente e materialmente nella stesura di relazioni false, atte a costruire una realtà clinica funzionale alla linea difensiva. La notizia dell’indagine era deflagrata con un tempismo tanto preciso quanto scomodo: proprio nella giornata dedicata all’”avvocato in pericolo”, celebrato dall’avvocatura per sensibilizzare sulle pressioni subite da chi svolge la funzione difensiva. E ha suscitato una dura reazione da parte del Foro milanese. “L’avviso di garanzia ricevuto a mezzo stampa è un fatto grave, rectius: inaccettabile”, avevano scritto in un comunicato congiunto Antonino La Lumia, presidente del Coa di Milano, e Valentina Alberta, presidente della Camera Penale meneghina. “Non si comprende la necessità di ipotizzare un reato di falso in capo a un difensore che ha utilizzato un documento ufficiale del carcere per formulare le proprie richieste di prova”. Il sospetto, per molti colleghi, è che l’indagine sia nata anche come pressione indiretta sulla difesa, un messaggio neanche troppo implicito: fare un passo indietro. “La funzione difensiva non deve essere mai in pericolo”, hanno dichiarato in più sedi. La Camera penale di Milano, poco dopo la diffusione della notizia dell’indagine, era poi intervenuta proclamando l’astensione, un gesto simbolico a difesa non solo della collega, ma anche del diritto di difesa in generale, della serenità del processo e dell’imputato che lo subisce. “Il diritto di difesa e di esercizio del diritto alla prova nel processo sono stati pericolosamente intaccati dalla condotta del pubblico ministero il quale, anziché contestare la prova nel processo, ha usato impropriamente il suo potere investigativo, rischiando di intimidire difensore, personale sanitario, consulenti, periti e, in ultima analisi, i giudici che, ne siamo certi, non consentiranno ingerenze - si leggeva in una nota -. Tuttavia, crediamo che debba esserci una compatta reazione contro condotte al di fuori delle regole del sistema processuale ed invitiamo i dirigenti degli uffici giudiziari a confrontarci con gli avvocati penalisti sui temi posti nella delibera”. Nella delibera della Camera penale venivano evidenziate alcune circostanze, partire dall’avviso di garanzia “a mezzo stampa”. Il decreto di perquisizione nei confronti delle psicologhe coindagate, infatti, è stato diffuso tra i giornalisti prima della notifica all’avvocata, “avvenuta diverse ore dopo (insieme ad una inusuale memoria del pubblico ministero a se stesso, che è stata oggetto di successiva “narrazione” giornalistica) con modalità del tutto eccentriche (all’interno del Palazzo di Giustizia ove l’avvocato Pontenani si trovava per lo svolgimento della propria attività professionale ad opera della polizia penitenziaria delegata alle indagini)”. E in questo caso, il segreto istruttorio è stato brutalmente violato, assieme alla presunzione d’innocenza, creando i presupposti per il processo mediatico. “La diffusione e pubblicizzazione di atti dell’indagine mira, come denunciamo ormai da tempo, a rafforzare impropriamente la fondatezza dell’ipotesi investigativa e, nel caso di specie, spiega, in modo dirompente, i suoi effetti anche sul processo in corso”, avevano aggiungo i penalisti. Secondo cui “il complessivo comportamento tenuto dalla procura altera quello che dovrebbe essere l’intangibile equilibrio tra accusa e difesa nell’esercizio del giusto processo. Da “armi pari” il passo ad “armi incrociate” (da una parte verso l’altra) è tanto breve quanto pericoloso: tale passaggio non avverrà mai con il silenzio o l’accondiscendenza della Camera Penale di Milano”. Silenzio, parla il giudice: la voce della difesa sotto attacco di Valentina Stella Il Dubbio, 2 giugno 2025 Da Roma a Crotone, passando per Milano, sempre più frequenti i casi in cui gli avvocati vengono interrotti in udienza. “L’invadenza del giudice è certo la prima ragione della fisionomia anomala che l’esame condotto dalle parti assume nella prassi italiana” scriveva il professore avvocato Ennio Amodio nella sua presentazione al libro di Francis Wellmann “L’Arte della cross examination”, a cura di Giuseppe Frigo (Giuffrè, Milano, 2009). Si tratta di un tema a cui abbiamo dedicato negli anni molta attenzione. “Difesa interrotta”: è sotto questa espressione, infatti, che abbiamo raccolto le tante segnalazioni arrivate dagli avvocati su esami e controesami indebitamente interrotti dai giudici. Valerio Spigarelli, past president dell’Unione Camere Penali Italiane, ci disse, tra l’altro, in una lunga intervista riguardante proprio questa patologia: “La prima ragione delle degenerazioni è la cultura sulla prova che i giudici hanno ereditato dal codice inquisitorio. Questa cultura inquisitoria sulla prova è sopravvissuta al mutamento del codice”. Come vedremo in altro pezzo su questo speciale il laboratorio LA.P.E.C. (Laboratorio Permanente Esame e Controesame), fondato da Ettore Randazzo e composto da avvocati, docenti e magistrati, ha elaborato una proposta di legge per rivedere l’attuale sistema, anche prevedendo sanzioni processuali qualora non fossero rispettate le regole previste per una adeguata cross examination. Marche. Inclusione sociale e previdenza. Un protocollo per i detenuti di Marina Verdenelli Il Resto del Carlino, 2 giugno 2025 Un protocollo per promuovere l’inclusione sociale e migliorare l’accesso ai servizi previdenziali e assistenziali per le persone detenute nelle strutture penitenziarie delle Marche. È stato siglato giovedì negli uffici regionali dell’Inps, ad Ancona. A sottoscrivere l’accordo c’erano più parti: Emanuela Zambataro, direttrice Inps Marche, Silvio Di Gregorio, provveditore interregionale dell’Amministrazione Penitenziaria Emilia Romagna-Marche, Ernesto Napolillo, direttore generale Detenuti e Trattamento Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Simone Breccia, direttore Caritas Ancona-Osimo e Giorgio Magnanelli della Conferenza Regionale Volontariato e Giustizia. Zambarato ha sottolineato come la scelta è conseguente all’impegno assunto da Inps di promuovere in maniera proattiva la conoscenza e l’esigibilità dei diritti previdenziali per tutti i cittadini, specie quelli più fragili come i detenuti, attraverso il progetto “Inps in rete per l’inclusione”. Ruolo di facilitare in questo Mariano Cingolani presidente di Amamel, l’associazione medico legale delle Marche. Nella sottoscrizione del protocollo Inps Marche ha assunto un ruolo di pioniere: si tratta infatti del primo esempio di accordo con una amministrazione penitenziaria e con il quale si ipotizza la possibilità per il detenuto di usufruire di una consulenza diretta da parte di un operatore dell’Inps accedendo, tramite un pc dell’amministrazione penitenziaria, a una consulenza previdenziale via web, previa compilazione di una richiesta. Il ruolo di Caritas e della Conferenza regionale volontariato e giustizia si esplicherà sia nell’assistere al colloquio il detenuto che ne faccia espressa richiesta sia nell’interfacciarsi con le sedi Inps per la soluzione di problematiche previdenziali di vario genere. Treviso. Una giornata in carcere per gli studenti del Pio X International trevisotoday.it, 2 giugno 2025 I ragazzi sono entrati in Casa circondariale, dove hanno potuto confrontarsi con i detenuti che frequentano la scuola in carcere. Dopo il dialogo e la conoscenza reciproca, i giovani del Pio X hanno anche tenuto una lezione in inglese incentrata sulla simulazione di un colloquio di lavoro. Anche quest’anno, il Collegio vescovile Pio X rinnova il progetto di consapevolezza e incontro con le persone detenute nella casa circondariale di Treviso. Gli studenti dell’ultimo anno dell’International Baccalaureate Diploma Programme (Ibdp) del Collegio Pio X hanno, in primo luogo, nelle settimane scorse, incontrato in classe il cappellano del carcere di Santa Bona, don Pietro Zardo, per poi intraprendere una corrispondenza epistolare con gli allievi della scuola in carcere, gestita dal Cpia Manzi, terminata con l’incontro all’interno dell’istituto di reclusione. “Dalle lettere - spiega il preside del Pio X International, Moreno Caronello - è emersa molta umanità: speranza, progetti, impegno, ansie, vite che devono iniziare contrapposte a vite che sono in sospeso o in stand-by”. Il tema del progetto di quest’anno era il “Lavoro”. Dopo la dovuta preparazione, i ragazzi sono entrati, dunque, in carcere. L’incontro con gli studenti detenuti si è svolto in due momenti, il primo dei quali, dedicato alla conoscenza reciproca e la condivisione di storie personali. Uno dei passaggi più significativi, raccontano gli studenti, è stato il confronto sull’idea di libertà: così i detenuti hanno meditato sul senso del tempo di detenzione, che dà ancora più valore alla libertà. In carcere - la riflessione dei giovani - hanno scoperto la libertà della propria mente, che deve essere trattata con la stessa responsabilità della libertà del proprio corpo. Prendersi cura della libertà della mente rende possibile avere un obiettivo e aiuta a trovare la motivazione per raggiungerlo. La scuola, sia in carcere che al Pio X, è una palestra essenziale dove esercitare la libertà della mente e coltivarne la grande responsabilità che ne deriva. Durante la visita, c’è stato il tempo per contemplare i dipinti realizzati dai detenuti, poi, in una seconda parte dell’incontro, gli allievi del Pio X hanno proposto una lezione di inglese incentrata sul colloquio di lavoro: dopo aver simulato un colloquio in inglese e in italiano, gli studenti delle due scuole si sono divisi in gruppi più piccoli per alternarsi nei ruoli di datore di lavoro e lavoratore, potendo chiedere le consuete domande che vengono poste nei contesti lavorativi e riuscendo a far emergere vissuti e speranze nel futuro, a volte diversi, ma ricchi delle stesse emozioni. “Un’esperienza - ha concluso Caronello - che ha insegnato a studenti, e anche a noi insegnanti, a guardare sempre a quello che ci accomuna con speranza e voglia di prendersene cura, pur essendo attenti alle differenze delle rispettive scelte di vita, alle quali nessuno si sottrae”. Monza. In carcere i detenuti produrranno musica, grazie a Piffer primamonza.it, 2 giugno 2025 Un nuovo progetto, “Free for music”, attivato al Sanquirico per permettere ai detenuti di produrre canzoni. Il riscatto di Piffer dopo il “licenziamento”. D’ora in poi la musica si produrrà anche in carcere: un’etichetta discografica entrerà al Sanquirico di Monza. Dopo le polemiche per il suo “licenziamento” dalla Cooperativa per cui lavorava per il reinserimento dei detenuti per via del taglio di risorse, il consigliere di Civicamente Paolo Piffer non si è arreso e ha lanciato un nuovo progetto legato al Sanquirico che già promette di fare scuola. “Dopo una lunga e necessaria gestazione questo venerdì comincerà il progetto Free For Music, un laboratorio emotivo-musicale rivolto ai detenuti a Monza”, ha annunciato Piffer. Il progetto, accolto dalla direttrice Cosima Buccoliero, vede la collaborazione con l’etichetta discografica Orangle Records, diretta da Christian Cambareri. La produzione di musica - In pratica, in carcere arriverà una vera e propria sala di registrazione e i detenuti appassionati di musica o curiosi di mettersi in gioco potranno registrare canzoni che verranno poi prodotte e vendute sulle piattaforme. “La recidiva è spesso legata all’assenza di opportunità di crescita e inclusione. La musica, grazie alla sua forza espressiva e aggregativa, può rappresentare un potente strumento di rieducazione e reintegrazione - ha spiegato Piffer - Free For Music non è un semplice laboratorio musicale ma un’opportunità concreta di riscatto per chi sta scontando una pena. La musica diventa cosi un ponte tra il passato e il futuro, tra l’errore e la rinascita, tra il carcere e la società”. “I ragazzi verranno iscritti alla Siae e oltre a una parte rieducativa, c’è anche un risvolto di un’opportunità concreta per loro”, ha aggiunto Piffer. Pesaro. Tre studentesse dividono il palco con i detenuti di Marco D’Errico Il Resto del Carlino, 2 giugno 2025 Occhi lucidi, tra il pubblico, quando si è chiuso il sipario, per quelle parole di ringraziamento pronunciate dai detenuti. Parole di riconoscenza, per quella dignità di persone che dietro le sbarre vale oro. Applausi e strette di mano, per uno spettacolo riuscitissimo, che ha divertito e stupito, per la bravura degli attori. Attori e attrici, meglio dire, perché al fianco dei ristretti c’erano anche tre studentesse dell’Istituto Donati, classe quarta dell’indirizzo tecnico. “Una preziosa osmosi tra scuola e carcere - ha sottolineato la prof. Alessandra Di Giuseppe, dirigente scolastica del Donati - frutto di un percorso di educazione alla legalità realizzato grazie alla passione e all’impegno delle persone coinvolte”. Ma torniamo all’inizio. Sara Mei, docente di Lettere al Donati, in un anno di lavoro in carcere ha fuso due esilaranti commedie di Georges Feydeau, “A me gli occhi”, e “La pulce nell’orecchio”, aggiungendo una commedia dialettale delle nostre parti (si tratta delle quinta rappresentazione dello spettacolo, che ha avuto inizio nel 2019). La storia racconta di un domestico di una ricca famiglia, che sfrutta il magnetismo e l’ipnosi per suggestionare il padrone, opponendosi al suo matrimonio e creando così scene bizzarre e divertenti. Le scenografie, arricchite con dipinti, sono state create e allestite dai detenuti. Molto ricercati i costumi e accurata la caratterizzazione dei personaggi. Personaggi che hanno saputo interpretare il ruolo con naturalezza, come fossero veri professionisti. In tutto 16 attori, tra cui le studentesse Rachele Cardinetti, Martina Brunetti e Giada Licci, che hanno incantato il pubblico. In platea, il prefetto, Emanuela Saveria Greco, il sindaco di Fossombrone, Massimo Berloni, il direttore del penitenziario, Daniela Minelli, il comandante della polizia penitenziaria, Loredana Napoli, i responsabili dell’Area trattamentale, gli educatori Maurizio Proietti e Angela Rutigliano, la dirigente scolastica Alessandra Di Giuseppe, e diversi docenti. Al termine, ogni attore ha ricevuto un attestato dalle mani della dirigente scolastica e del prefetto. Sottraiamo i bambini dalla fabbrica dell’odio di Raffaella Romagnolo La Stampa, 2 giugno 2025 Che uomini, che donne saranno i bambini di Gaza? Il ragazzino denutrito ritratto qualche giorno fa sul giornale, i polsi, le gambe, la cassa toracica oscenamente ossuti. Che ne sarà della bambina che in un breve video ho visto aggirarsi in controluce tra fiamme e macerie, sola, irrimediabilmente sola. Trenta secondi di strazio. Che vita avranno i bambini che sopravvivranno a questa guerra? Penso ai vivi, auspicabilmente vivi. Ma pensare ai vivi significa onorare i morti, perché pietà e civiltà cominciano proprio dal seppellire i propri cari. Non lo dice solo il poeta, ma il nostro vivere quotidiano fatto di riti come accompagnare chi abbiamo amato e non c’è più. Prima i morti, quindi. L’Unicef parla di 1.309 bambini uccisi dal 18 marzo 2025, cioè dalla fine del cessate il fuoco. Milletrecento in poco più di due mesi. Non oso immaginare dall’inizio della guerra. Dovremo sforzarci di essere il più precisi possibile. Pensare ai vivi significa, anche, restituire ai morti nome, spazio, voce. I bambini sono sempre le prime vittime. Lo storico Bruno Maida ha dedicato anni a studiare infanzia e guerra nel Novecento, cercate i suoi libri. Vittime mute, i bambini, solo i grandi hanno parola. Creature più deboli, e quindi più esposte al rischio di perdere la vita per le ferite, la fame e le malattie. Vittime perché la guerra, che si mangia tutto lo spazio del vivere civile, li schiaccia in un angolo e si mangia anche il loro. La scuola di colpo perde vocazione, cambia funzione e si trasforma nel posto giusto per acquartierarci un esercito, nasconderci un commando o ammassare dei profughi. Quella bombardata a Gaza City pochi giorni fa era diventata rifugio da colpire di notte, quando la gente prova a dormire. La guerra non ammette giardinetti, giostrine, campi da calcio, neppure la spiaggia dei bagni in mare e dei giochi sulla sabbia. E l’infanzia sparisce. Le immagini che filtrano (niente giornalisti vivi a Gaza, i morti forse 200), i frammenti che fanno il giro delle televisioni mostrano bambini che reggono pentole vuote e cercano di procurarsi il cibo, cioè fanno il mestiere degli adulti. Bambini che spingono carretti e reggono scatoloni, badano a sé stessi o a altre creature, bastano a sé stessi come i grandi. E vittime resteranno persino se questa guerra dovesse per miracolo finire domani, perché i bambini restano vittime nel tempo della ricostruzione, che è il tempo della conta dei morti, delle famiglie decimate, smembrate, cioè degli orfani e degli orfanotrofi. Che vita adulta sarà quella di chi non ha avuto l’infanzia? Ricostruire è anche ricostruirsi e temo mancherà loro qualche pezzo, come una mutilazione dello spirito. Una parte che, se ricresce, ricresce male, fa male. Ogni conflitto armato fabbrica odio e lo mette da parte per le generazioni a venire. Durata e intensità sono direttamente proporzionali alla ferocia. In Europa ci sono voluti decenni per uscire da quella mostruosa fabbrica d’odio che è stata la Seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista. Oggi siamo Erasmus e nativi europei, ma io ricordo i più vecchi fremere all’accento del papa tedesco. La pace si costruisce da bambini, così ci dicono ai corsi di aggiornamento per insegnanti. Credo però che la pace si possa costruire anche dai bambini. Interrompere lo scandaloso andirivieni di proposte senza esito e mettere sul tavolo, come punto di partenza condiviso e indiscutibile, la loro protezione. Penso alla parola con cui il nuovo papa si è annunciato al mondo: disarmante. Proteggere i bambini è un argomento disarmante. Non è retorica, e non è solo l’istinto di conservazione della specie che ci intenerisce davanti ai cuccioli. Proteggere i bambini è politica, nel senso che costruisce il futuro. Garantire l’infanzia ai bambini di Gaza è un gesto concreto per fermare la fabbrica dell’odio. Che, diversamente, tormenterà senza scampo palestinesi, israeliani, noi, e altri figli, nipoti.