Carcere, quando il volontariato è una vocazione. Incontri con i protagonisti di Viola Mancuso gnewsonline.it, 29 giugno 2025 Ogni sabato incontriamo persone rilevanti del terzo settore, donne e uomini che hanno creato lavoro e formazione per i detenuti, promosso la cultura come esercizio di libertà, sfidato ostacoli burocratici, combattuto pregiudizi e stereotipi. Tra passato e presente, attraverso queste figure, è possibile riscrivere la storia del mondo penitenziario dalla Riforma Gozzini a oggi. Una nuova iniziativa per il carcere, mutuata da zone di guerra e di emergenze umanitarie, è quella proposta da Chiara Cacciani che, insieme alla figlia quindicenne Anna Federici, merita un posto tra i nuovi protagonisti dell’impegno in carcere, per creatività e per la scelta di affrontare con il gioco temi ostici, come stereotipi, solitudine e disagio. Giornalista professionista parmigiana, con esperienza nelle redazioni della Gazzetta di Parma e di Huffpost Italia, Chiara Cacciani si occupa di tematiche di genere, violenza sulle donne e giustizia riparativa. Impegnata nel volontariato e nelle battaglie per il rispetto dei diritti sociali, ha avviato un progetto, attraverso la Fondazione Munus, che mette al centro il gioco e la solidarietà. “La valigia di Marco e Anna”, un vero e proprio bagaglio, dal contenuto ricco e personalizzato, a supporto di comunità che vivono situazioni drammatiche: popolazioni terremotate, scuole in carcere, reparti pediatrici degli ospedali, centri di accoglienza e antiviolenza, zone di guerra e campi per rifugiati. Una valigia a più piani, come quelle utilizzate dalle estetiste, consegnata in tanti luoghi di solitudine e sofferenza. Quando è nata quest’idea? L’origine del progetto “La valigia di Marco e Anna” è legata a mio marito Marco (Marco Federici giornalista della Gazzetta di Parma ndr) scomparso nel 2013 a causa di un incidente stradale, quando nostra figlia Anna aveva due anni. Mio marito è stato testimone di tanti scenari di guerra e emergenza, come il sisma in Abruzzo, e per questo motivo un’associazione di Protezione Civile di Parma gli ha intitolato il nome della sede nel 2011. In memoria di Marco, ho pensato, insieme a mia figlia Anna, a come poter parlare del suo impegno donando, a chi vive in condizioni di forte disagio, giochi capaci di portare un sorriso e un po’ di normalità. Così, da un qualcosa di brutto, è nata l’idea della valigia che ridà un senso e una seconda possibilità in situazioni d’emergenza. Negli anni sono state consegnate circa una settantina di valigie in vari luoghi. Avete ricevuto sostegno dalla comunità e dalle imprese? Per sostenere il progetto è attivo un fondo familiare omonimo gestito da Munus Fondazione di Comunità di Parma. Fondamentale nella creazione di ogni bagaglio ludico dal contenuto personalizzato, è stato Simone Serrao, ex educatore e proprietario del negozio Orso Ludo, da cui sono stati presi i giochi utilizzati finora. Attraverso le donazioni della Barilla, abbiamo realizzato 10 valigie da destinare ai profughi di guerra al confine tra Polonia e Ungheria e l’avventura è proseguita ideando valigie per luoghi senza elettricità e in rifugi, come le zone alluvionate in Romagna o le zone dei Campi Flegrei. Per le scuole in ospedale abbiamo privilegiato giochi da interno, facilmente igienizzabili e per pochi giocatori alla volta. Insomma, ogni valigia è una vera e propria opera di ingegno, personalizzata e pensata in base al contesto, riempita di 30 giochi di società evoluti con i tempi attuali. Invece come è stata l’esperienza della consegna negli istituti penitenziari, coinvolgendo sua figlia minorenne in un contesto spesso etichettato e caratterizzato da narrazioni negative? Abbiamo pensato che le scuole in carcere fossero quelle più invisibili: così abbiamo iniziato dalle carceri minorili di Bari, Pontremoli, Bologna, Treviso, Torino, Acireale e Catania, dove nel primo incontro si insegnano i giochi affinché gli operatori possano proseguire, attraverso la valigia, in occasioni di maggiore conoscenza e per far vivere un tempo diverso ai reclusi. Sono convinta che il gioco sia, a tutte le età, un’occasione per rafforzare le relazioni e per dare un senso a giornate forzatamente lente. Per questo l’otto maggio siamo entrate per la prima volta in un istituto per adulti, quello di Genova Pontedecimo, e nel mese di giugno saremo in quello di Parma. La giornata nella casa circondariale di Genova è stata un’esperienza arricchente anche per mia figlia quattordicenne, nonostante le ansie legate alla tipologia di giocatori: infatti la mattina è stata dedicata al reparto femminile e nel pomeriggio la valigia è stata consegnata al reparto dei sex offender. Ma il clima è stato di festa e di senso di comunità, grazie alla direttrice Paola Penco, all’area educativa, ai volontari, al professore universitario Renzo Repetti, agli operatori del servizio civile e alla Polizia Penitenziaria. Si sono alternati momenti divertenti e commoventi e mi piace pensare che questi giochi possano essere utilizzati nei momenti di colloquio con i figli, per favorire il mantenimento delle relazioni familiari. Sarà dedicato anche uno speciale del Tg2 Dossier sulla potenza del gioco, con alcune riprese effettuate nel carcere di Genova Pontedecimo... Sì, la troupe ha ripreso i momenti di gioco condiviso. Una detenuta ha scritto sul mio diario “è stata esperienza fuori dal normale” per definire la mattinata trascorsa insieme e conclusasi con un buffet offerto dalla Cooperativa ‘Un’altra storia’. Credo che questo progetto possa essere replicato anche in altri istituti, portando con sé i valori della cooperazione, della pazienza e della sana competizione. Il gioco allena al rispetto delle regole e consente di evitare emozioni negative, come la rabbia e la tristezza, con la possibilità di autorizzare i detenuti a portare con sé in cella qualche gioco individuale. Qual è stato il gioco che ha particolarmente coinvolto i detenuti? Un gioco particolarmente apprezzato è stato quello che porta con sé gli stereotipi, con i volti umani da dover indovinare, un po’ come la teoria lombrosiana. Lo strumento del gioco, infatti, aumenta la creatività, pone alla pari e spezza le barriere, mettendo in discussione i propri ruoli. Alcuni giochi verranno messi a disposizione degli insegnanti, per aiutare gli stranieri nell’apprendimento della lingua italiana ed approfondire la cultura generale. Un utile bagaglio per tutta la comunità carceraria e per il ritorno in società. Le norme draconiane e la strada già scritta di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 29 giugno 2025 Come è naturale, la Corte di Cassazione dispone di un proprio ufficio studi. Quando intervengono novità normative o emergono problemi o divergenze nella giurisprudenza, esso approfondisce in modo sistematico il tema, così fornendo materiale per le decisioni dei giudici della Cassazione. La Corte di Cassazione è istituita con il grave compito di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”. Nel recente caso del c.d. decreto sicurezza, è stata prodotta la relazione n. 33 di quest’anno. Essa è particolarmente impegnativa, per due essenziali ragioni: perché si tratta di un testo vasto ed eterogeneo, che solo per ragioni di proposta politica è radunato sotto quel titolo, utile per la propaganda. Il titolo vero, infatti, è quello di “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario”. In secondo luogo, l’inusitato iter legislativo, che ha condotto alla sua approvazione, è stato accompagnato da numerosi e vivaci interventi critici, non solo di stampo prettamente politico sul suo contenuto, ma anche tecnico-giuridico da parte della dottrina costituzionalistica e penalistica, relativi proprio anche alle procedure adottate da governo e Parlamento per giungere all’esito finale della pubblicazione di quel testo sulla Gazzetta ufficiale e farlo entrare in vigore. Senza entrare qui nel dettaglio, ancora una volta il Parlamento è stato ridotto a luogo di ratifica, “senza tante storie”, nonostante la funzione legislativa per Costituzione appartenga al Parlamento e solo in casi di “straordinaria necessità e urgenze” il governo possa intervenire con decreto provvisorio da sottoporre all’approvazione parlamentare. Ma di questo si è già tante volte detto, senza esito. Tanto che, quando si pretende che per poter governare sia necessaria la riforma della Costituzione, non si capisce se il bersaglio sia la Costituzione scritta o quella, ruvida e spiccia, che ormai numerosi governi hanno da tempo costituito con la tolleranza dei Parlamenti. Anche questa volta, negli scritti e nelle audizioni svoltesi nelle Commissioni parlamentari, i giuristi, accademici, magistrati della Associazione nazionale magistrati, avvocati delle Camere penali, hanno svolto critiche forti ed argomentate, sul contenuto e sulle procedure adottate. Non stupisce quindi che la relazione dell’Ufficio studi, oltre ai riferimenti alla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, dia conto di consistenti critiche, così fornendo le necessarie informazioni ai giudici della Cassazione, libero ciascuno di loro di farne l’uso che crede corretto, ma tutti utilmente informati. Si rassegnino il governo e la maggioranza che lo sorregge: il mondo dei giuristi, nelle varie sue espressioni, ha svolto forti critiche lungo tutto l’arco della procedura che ha condotto alla approvazione della legge di conversione del decreto. Quel testo, nella forma dell’ordinario disegno di legge governativo, era già stato approvato dalla Camera ed era in avanzato stato di discussione al Senato, quando il governo ha battuto un pugno sul tavolo e lo ha trasformato in decreto-legge, destinato ad entrare in vigore il giorno successivo. La relazione esamina sia le modalità di approvazione della legge che è ora in vigore, sia il suo contenuto. Come si diceva numerose e diverse sono le nuove norme. Un aspetto particolare riguarda l’uso del decreto-legge in materia penale e il fatto che il testo, che contiene nuovi reati e pene più gravi di quelle già in vigore, sia entrato in vigore il giorno dopo la sua pubblicazione. In tal modo nemmeno la relativa finzione di conoscenza da parte dei consociati delle nuove norme penali viene esclusa, con non poca lesione di un principio fondamentale della responsabilità penale. Si conferma l’inclinazione ad affrontare ogni problema allargando l’area di ciò che è penalmente rilevante, con nuove ipotesi di reato e con più gravi pene. Inutilmente se ne constata la inefficacia. Tra le tante norme nuove, facendo esempi non potendole menzionare tutte nella loro varietà, vanno segnalate quelle che prevedono pena detentiva, anziché pecuniaria, per “l’impedimento della libera circolazione su strada ordinaria o ferrata ostruendo le stessa con il proprio corpo” e quella di assimilazione in rivolta nelle carceri della resistenza passiva all’esecuzione degli ordini alla violenza e alla minaccia. Con la prima si entra in pericolosa concorrenza con la libertà fondamentale di espressione del pensiero e in particolare della protesta sindacale e politica. Il corteo o lo stazionamento sulla sede stradale ne è una forma tradizionale, forse l’unica possibile ed efficace. Lo si è visto recentemente con il corteo di operai in sciopero a Bologna. Vero è che anche la Corte europea dei diritti umani, con riferimento all’esercizio di libertà sindacale nei cortei stradali ha ammesso sanzioni quando vi sia un blocco grave e importante. Ma la ragionevole considerazione delle caratteristiche del caso concreto dovrebbe essere permessa dal testo della legge e non invece, come è avvenuto, costringere a sperare nel buon senso di polizia che consiglia di chiudere un occhio o anche due. Ma l’immagine che il governo ha voluto dare di sé richiede d’essere draconiani, senza sfumature e aperture. E criticabile è anche la nuova norma che trasforma in resistenza penalmente rilevante la resistenza passiva da parte di detenuti nelle carceri, la disobbedienza. È irragionevole e pericoloso rendere per i detenuti disobbedienti egualmente rischiosa la resistenza passiva rispetto alle condotte violente o minacciose. Differenziare è giustificato ed anche utile, proprio al fine della gestione delle tensioni in carcere. Tornando alla relazione che è stata prodotta dall’ufficio della Cassazione, occorre considerare che si tratta essenzialmente di un articolato commento con il documentato resoconto dei qualificati commenti che il c. d. decreto sicurezza ha incontrato nel corso della sua approvazione. La ricaduta che essi potranno avere in sede di decisioni della Cassazione sarà da vedere. Per ora si dovrebbe apprezzare che i giudici deliberino e motivino le loro decisioni conoscendo gli argomenti sviluppati nel dibattito pubblico e non (solo) sotto la pressione e le pretese della propaganda governativa. Dopo la bocciatura della Cassazione, la Lega rilancia: “Ora un nuovo provvedimento” di Lorenzo Stasi L’Espresso, 29 giugno 2025 La nota del Carroccio: “Rafforzare ancora di più la sicurezza”. Il centrodestra critica la relazione degli ermellini. Nordio: “Incredulo”. Alla Lega non basta il decreto Sicurezza. E poco importa che la Cassazione ieri - 27 giugno - abbia bocciato nel metodo e nel merito, con un parere non vincolante, il pacchetto securitario voluto dal governo Meloni. Ora il Carroccio rilancia e, in una nota, scrive che “è fortemente auspicabile un nuovo provvedimento per rafforzare ancora di più la sicurezza, con particolare riferimento alla tutela delle Forze dell’Ordine. Difendere le divise significa difendere gli italiani”. Solo qualche giorno fa, in un convegno organizzato dalla Lega sul decreto Sicurezza, il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, aveva auspicato non tanto uno “scudo penale”, quanto una “tutela processuale” per gli agenti, per “non iscrivere più la gente nel registro degli indagati come se fosse una macchia, ma effettuare accertamenti necessari in tempi rapidi quando c’è la presenza di una causa di giustificazione. Cosa che avviene sempre nello svolgimento del vostro compito. Questo è quanto la Lega propone e vorremmo portare a termine nei prossimi mesi”. “L’altro obiettivo - ha continuato - sono gli strumenti: si è parlato tanto del taser nei nostri istituti e tanti sono contrari. Noi, invece, pensiamo che, disciplinato bene, lo strumento del taser possa essere uno strumento valido, a tutela vostra e dei detenuti stessi”. La posizione della Cassazione - Tornando al decreto Sicurezza, ieri - 27 giugno - è arrivato il parere della Cassazione che ha contestato la sussistenza di quei criteri di “necessità e urgenza” che sono alla base della scelta della decretazione d’urgenza al posto di un ordinario disegno di legge. Non c’è stato - si legge nella relazione di 129 pagine - “per unanime giudizio dei giuristi finora espressisi”, alcun “fatto nuovo configurabile come ‘casi straordinari di necessità e di urgenza’” tra “la discussione alle Camere del ddl sicurezza e la scelta di trasformarlo in un decreto legge dal medesimo contenuto”. E poi ci sono state le critiche di merito. Nella relazione si parla di “ipertrofia penalistica”, di “vocazione simbolica” e di un concetto di sicurezza “punitivo e repressivo, distante dal disegno costituzionale”. Le disposizioni che “determinano il trattamento sanzionatorio, in quanto destinate a incidere sulla libertà personale dei loro destinatari - si legge ancora -, devono ritenersi suscettibili di controllo” da parte della Corte per “gli eventuali vizi di manifesta irragionevolezza o di violazione del principio di proporzionalità dovendosi scongiurare il rischio di irrogazione di ‘una sanzione non proporzionata all’effettiva gravità del fatto’”. Il provvedimento, scrivono gli ermellini, può aprire “la strada a una possibile violazione di plurimi principi di costituzionalità in materia penale”. Il giudizio della Cassazione non è piaciuto agli esponenti del centrodestra e del governo. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è detto “incredulo” e ha annunciato di aver dato “mandato all’Ufficio di gabinetto del ministero di acquisire la relazione e di conoscerne l’ordinario regime di divulgazione”. Per il vicepresidente dei deputati di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, “il Massimario della Cassazione è il luogo della confusione. Nella lettura delle novità normative sottopone il dl sicurezza a giudizi che esulano dalla sua funzione - ha aggiunto -, confondendo volutamente la presunta illegittimità costituzionale con i pareri di autorevoli giuristi, condannando quindi senza averne il potere una legge voluta dal Parlamento e promulgata dal capo dello Stato”. Per Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia in Senato, “mentre si fa la riforma della giustizia, la Cassazione ci dà una motivazione in più per fare un cambiamento di regole. C’è un uso politico della giustizia, di cui si rende protagonista anche chi scrive questi pareri preventivi destinati soltanto a seminare confusione”. E il leghista Ostellari: “Sulla pronuncia della Cassazione, un punto è chiaro: non è vincolante. Noi andiamo avanti”. Sicurezza, la Lega sfida i giudici: “Nuovo testo per rafforzarla” di Lodovica Bulian Il Giornale, 29 giugno 2025 Il Carroccio rilancia dopo l’intervento della Cassazione e sollecita più tutele per le forze dell’ordine. Lo strumento: un altro decreto entro la fine dell’estate. Dopo la bocciatura del decreto Sicurezza da parte dell’ufficio del Massimario della Cassazione che in una relazione di 129 pagine ha criticato il provvedimento sia nel “metodo” che nel “merito”, la maggioranza rilancia. Non solo ribadisce la blindatura del decreto, considerato un pilastro del programma di governo, ma accelera. “È fortemente auspicabile un nuovo provvedimento per rafforzare ancora di più la sicurezza, con riferimento alla tutela delle forze dell’ordine. Difendere le divise significa difendere gli italiani”, si legge in una nota del Carroccio. Fonti di governo confermano che è allo studio un nuovo decreto, che potrebbe vedere la luce a cavallo dell’estate, che amplierebbe quell’ombrello legale sulle forze dell’ordine già introdotto con il dl sicurezza (che garantisce tutela legale ed economica agli agenti). Del resto la relazione del Massimario, viene spiegato, “non è vincolante”. Anzi, quel parere, non è un mistero - anche lo stesso Guardasigilli Nordio si è detto “incredulo” - è stato vissuto come “un’ingerenza”, L’obiettivo della maggioranza: stop all’iscrizione automatica nel registro degli indagati per gli agenti che fanno il proprio lavoro “una forzatura”, “un intervento a gamba tesa”. Non c’è alcuna intenzione di apportare correttivi al dl sicurezza appena approvato, come chiederebbe l’opposizione. Quel provvedimento viene considerato un “simbolo dell’azione del governo a tutela dei cittadini e delle forze dell’ordine”. E proprio nei confronti di queste ultime si vuole intervenire con il nuovo testo in cantiere, contenente un passo in più. L’obiettivo è correggere uno degli aspetti più difficili in cui si può imbattere chi indossa una divisa: l’automatismo dell’iscrizione nel registro degli indagati come atto dovuto a seguito di azioni compiute nell’adempimento del proprio dovere. Un tema tornato sotto i riflettori con l’omicidio di Carlo Legrottaglie, il brigadiere dei carabinieri di 59 anni ucciso da un malvivente in provincia di Brindisi. Erano stati indagati a poche ore dall’uccisione del collega, per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi, i due agenti che avevano rintracciato e ucciso in un conflitto a fuoco l’assassino di Legrottaglie. Un atto dovuto, aveva spiegato lo stesso legale. Ed è sempre così in questi casi, un passaggio tecnico necessario all’accertamento dei fatti, ma pesante dal punto di vista umano e professionale. Il decreto mira a eliminare l’automatismo, a evitare l’iscrizione come atto dovuto, prevedendo che prima vengano verificati gli eventi, e che, in presenza delle esimenti stabilite dal codice penale - la legittima difesa, lo stato di necessità e l’esercizio di un diritto o adempimento di un dovere, l’uso legittimo delle armi -, il poliziotto o il carabiniere coinvolto possano partecipare agli accertamenti, anche irripetibili, per stabilire la dinamica di quanto accaduto. Ma senza essere indagati. Lo ha spiegato anche lo stesso Nordio in Aula: “Pensiamo che, quando si è in presenza di una scriminante, si possa costruire una norma che consenta di partecipare a questo tipo di indagine senza essere iscritti nel registro degli indagati. Ovvero senza questo marchio di infamia che porta una serie di conseguenze negative”. Per l’azzurro Maurizo Gasparri “sulla sicurezza il centrodestra andrà avanti non solo difendendo le norme che ha varato, ma valutando ulteriori interventi a tutela delle forze armate e delle forze di polizia. Il Massimario della Cassazione - aggiunge - si è sbizzarrito con tesi francamente inaccettabili, dimostrando che l’uso politico della giustizia non attende più nemmeno le procure, ma viene esercitato anche in sede di analisi preventiva”. Un richiamo allo stato di diritto e ai limiti del potere di Alessandra Algostino Il Manifesto, 29 giugno 2025 Nel parere ormai noto sul decreto legge “sicurezza” si tratta delle norme costituzionali in materia di fonti del diritto, dei parametri costituzionali in tema di diritto penale, dei diritti costituzionali che connotano la forma di stato. Dopo il parere sul decreto legge “sicurezza”, di fronte ad un potere esecutivo che continua con protervia a ignorare la Costituzione, come il diritto dell’Unione europea e il diritto internazionale, la Corte di Cassazione ricorda i fondamentali, ricostruisce il quadro di limiti che presidiano la democrazia costituzionale e la garanzia dei diritti. Nel parere ormai noto sul decreto legge “sicurezza” si tratta delle norme costituzionali in materia di fonti del diritto, dei parametri costituzionali in tema di diritto penale, dei diritti costituzionali che connotano la forma di stato (in primis, diritto di riunione, libertà di manifestazione del pensiero, diritto di sciopero). Nella relazione che oggi il manifesto rende nota a proposito del Protocollo Italia-Albania, si ragiona di gerarchia delle fonti, del diritto di asilo costituzionale, di diritti fondamentali (libertà personale, diritto alla salute, diritto di difesa, rispetto della vita privata e familiare). È un richiamo allo stato di diritto costituzionale, all’essenza di una democrazia costituzionale, dove nessun potere è assoluto, dove governo - e parlamento - godono di una “discrezionalità limitata”, a tutela dei diritti di tutti. “Nelle forme e nei limiti della Costituzione” (articolo 1) riguarda tutti, nessuno escluso. Nella Costituzione sono i fondamenti che dovrebbero guidare l’azione politica, in negativo, come rispetto del limite, e in positivo, agendo per la sua attuazione. Ed è il caso di ricordare che ancora non abbiamo una legge sul diritto di asilo costituzionale, una inattuazione che ha portato a comprimere indebitamente quel diritto entro i più ristretti confini delle forme di protezione internazionale. C’è un passaggio importante nella relazione dell’ufficio della Cassazione sul Protocollo Italia-Albania, laddove si riparte proprio dal dettato dell’articolo 10, terzo comma, per sottolineare come la Costituzione riconosca un diritto di asilo “nel territorio della Repubblica”, con una formula chiara che non lascia spazio a finzioni e mistificazioni in ordine a delocalizzazioni ed esternalizzazioni. Una precisazione che a fronte dei rimpatri facili e delle restrizioni al diritto di asilo che imperversano anche a livello euro-unitario diverrà centrale per opporsi alla sua cancellazione. Torniamo alle relazioni del Massimario della Cassazione: la Costituzione vi appare nel ruolo di protagonista. Così deve essere. Ma la Costituzione compare come oggetto di gravi violazioni: si ragiona dei confini oltre i quali la democrazia, la nostra democrazia, conflittuale, pluralista e sociale, perde se stessa. Dopo dissenzienti, migranti e poveri, dopo le università, dopo i tribunali e le corti di appello “rosse”, anche la Cassazione - già “colpevole” per le pronunce sui centri in Albania - finirà nell’elenco sempre più lungo dei nemici? Almeno sino a quando - le nomine di Trump dei giudici della Corte suprema insegnano - riforme ad hoc non riusciranno a creare una magistratura docile, completamente dedita al compito di reprimere il dissenso e blindare le diseguaglianze sociali. Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri è il primo passo verso giudici al servizio del potere: crea le condizioni per un indebolimento e un assoggettamento della magistratura all’esecutivo. I puntuali rilievi ricostruiti nei pareri sono un grido di allarme. E non è una questione che riguarda solo il ruolo della magistratura e i rapporti tra giudiziario ed esecutivo, ma la tenuta dello spazio democratico di tutte e tutti. Ripartiamo dalla Costituzione, con i pareri della Corte Suprema in mano, e seguendo i passi dei metalmeccanici sulla tangenziale di Bologna, primi bersagli del decreto sicurezza. Piantedosi: “Cassazione troppo ideologica contro il decreto Sicurezza” di Francesco Malfetano La Stampa, 29 giugno 2025 Il ministro dell’Interno: “Mi sfugge quali principi costituzionali siano violati. Circoscrivere il reato di tortura come vuole Salvini? Sì, in un quadro di legalità”. “Mi sembra un esercizio connotato da una forte impostazione ideologica”. Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno ed ex prefetto, difende a spada tratta il “suo” dl Sicurezza, attaccato dalla Cassazione con un collage di interventi pubblicati all’interno del massimario della Corte. “Mi sfugge quali principi della Costituzione violerebbe” spiega rispondendo alle “diverse criticità” segnalate, prima di non dirsi contrario (“In una cornice di legalità”) all’idea di circoscrivere il reato di tortura avanzata dal vicepremier Matteo Salvini. Ministro, ha letto la relazione della Corte Costituzionale? Che valutazione ne dà? Viene contestato anche il carattere di necessità e urgenza del decreto... “Non ho avuto tempo di leggere la relazione ma, da come è stata diffusa, mi sembra un esercizio connotato da una forte impostazione ideologica più che da considerazioni di puro diritto. Mi risulta difficile immaginare l’incompatibilità con la nostra Carta costituzionale di norme, tra le altre, tese a proteggere cittadini e Forze di polizia dalle violenze che vengono compiute nelle manifestazioni, oppure tutelare le persone che hanno la necessità e l’urgenza di recarsi a lavoro o in ospedale per esigenze di soccorso. Quanto poi alla scelta della decretazione d’urgenza, se il giudizio sulla legittimità costituzionale fosse limitato all’opinione dell’ufficio del Massimario della Cassazione, allora sì che avrei il timore di vivere in un Paese che ha perduto i fondamentali riferimenti degli equilibri costituzionali tra i poteri. Sono certo che, allorquando le questioni in argomento dovessero essere sollevate in veri e propri procedimenti giudiziari, saranno ben altre le valutazioni che verranno espresse”. Si contesta, ad esempio, la norma che consente agli agenti sotto copertura di dirigere associazioni eversive senza incorrere in responsabilità penale. Non si rischia di tornare a dinamiche oscure per la storia repubblicana? “Il nostro Paese è caratterizzato per avere Forze di polizia e Agenzie di intelligence a cui tutti, nel mondo, riconoscono il merito di averci evitato attentati terroristici e derive eversive. Io mantengo la più totale fiducia in loro e la più totale contrapposizione, viceversa, verso le organizzazioni realmente eversive e terroristiche che questa norma vuole contribuire a combattere”. Rispetto alla possibilità di detenzione per le madri incinte o con figli sotto l’anno di età, la Cassazione parla di “violazione dei principi costituzionali” ... “È una delle stranezze che rilevo: la norma affida ai giudici la valutazione del caso concreto secondo parametri che tengono conto proprio delle esigenze di protezione del minore. Mi sfugge quale principio costituzionale violerebbe”. Il vicepremier Salvini ha proposto di “circoscrivere” il reato di tortura e di dotare la polizia penitenziaria di taser. Non le sembra una forzatura? “Io sono sempre molto d’accordo sull’esigenza di tutelare gli agenti e di dotarli di tutti i possibili strumenti utili per proteggere i cittadini e se stessi, sempre nell’ambito di una cornice di legalità. Anche gli appartenenti alle Forze di polizia sono titolari di diritti umani e, a giudicare dai dati riguardanti i ferimenti e le violenze subite in occasioni di manifestazioni pubbliche o in altre situazioni operative, credo che bisognerebbe preoccuparsi di loro quantomeno al pari di tutti i cittadini”. Oggi (ieri, ndr) in Ungheria si tiene il Pride in opposizione al divieto imposto da Orbàn. Ci saranno vari esponenti italiani di opposizione, a nessuno del centrodestra. Come mai? “Non so per gli altri, ma per quanto mi riguarda ho preferito venire nella mia Irpinia per partecipare a un importante convegno sulla figura dello statista Aldo Moro”. Dalla Libia sono ripresi gli sbarchi e oggi (ieri) sono stati recuperati altri due cadaveri. Rispetto al 2024 i numeri sono in crescita: il modello italiano, tra accordi con i Paesi di partenza e il Protocollo Albania, sta funzionando? “La Libia sta vivendo un momento difficile ma gli sbarchi nel nostro Paese sono ampiamente al di sotto del 50% rispetto al 2023, primo anno in cui il nostro Governo è stato al lavoro anche su questo dossier. Segno anche questo che il nostro lavoro sta funzionando pure in momenti di grande complessità”. È in arrivo in Cdm lunedì anche un decreto Flussi. Di che quote parliamo? Ci sarà l’attesa revisione dei criteri? “È un decreto i cui contenuti di dettaglio sono ancora in discussione in queste ore ma con il quale il Governo proseguirà nella sua ferma determinazione di consentire canali legali di ingresso soprattutto a beneficio di importanti settori della nostra economia. È uno dei pilastri della nostra azione insieme al fermo contrasto agli ingressi gestiti da veri e propri trafficanti di essere umani”. Dopo le tensioni in Medio Oriente, l’Italia ha innalzato il livello di allerta su obiettivi sensibili. Ci sono segnali di minacce terroristiche? “Viviamo un momento di grande e rinnovata attenzione ma non credo ci siano presupposti per diffondere allarmismo. Tra gli elementi di fiducia c’è proprio il lavoro delle nostre Forze di polizia e delle Agenzie di intelligence a cui prima le facevo riferimento”. La procura della Corte penale internazionale contesta all’Italia la mancata collaborazione nel caso Almasri, sostenendo che il rilascio e il rimpatrio dell’ufficiale libico abbiano impedito alla Corte di esercitare le sue funzioni. Può chiarire quale sia stato il ruolo del Viminale? Come risponde alle osservazioni? “Ho risposto dettagliatamente sul caso ben quattro volte in Parlamento. In quelle circostanze credo di aver delineato in termini chiari le ragioni di tutela dell’interesse nazionale e di protezione dei cittadini italiani. Mi consenta per brevità di rinviarla alla lettura di quanto detto in quelle occasioni, che confermo integralmente”. Ciriani: “Avanti sulla giustizia fino al referendum. Sicuri che gli italiani staranno con noi” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 29 giugno 2025 Il ministro per i Rapporti con il Parlamento (FdI): premierato, sì ad alcune modifiche. Luca Ciriani, di Fratelli d’Italia, ministro per i Rapporti con il Parlamento: gli italiani fanno spesso fatica ad arrivare a fine mese e voi proponete la settimana corta - dal lunedì al giovedì - per i parlamentari a stipendio invariato. Una mossa harakiri? “Ma assolutamente no, non è nemmeno una mossa”. E cosa è? “Era un’ipotesi, fatta a margine della conferenza dei capigruppo, per capire se collocare le interpellanze urgenti, non sempre ma ogni tanto, il giovedì sera, così da dare più importanza alle istanze dei parlamentari e favorire la partecipazione di ministri e deputati. Ma senza modificare il calendario della Camera. Non era certo un modo per lavorare meno. Al contrario”. In che senso lavorare di più? “Ci sarà da lavorare moltissimo nelle prossime settimane. Abbiamo ben cinque nuovi decreti da convertire in legge, pena la decadenza, alcuni massimo entro Ferragosto. Quindi posso già dire che perlomeno fino all’8 agosto lavoreremo a pieno ritmo, senza defezioni o perdite di tempo”. E le riforme, di cui si era discusso se inserire nel calendario di luglio che fine hanno fatto? Dimenticate? “Il premierato per noi è fondante, a settembre riprenderanno i lavori. Quella di portarlo in Aula a luglio era un’ipotesi, ma è praticamente impossibile per la mole di provvedimenti. Ed è vero, molti sono decreti”. Appunto, sembra si vada avanti solo a colpi di decreto. Non si rischia un Parlamento passacarte? “Purtroppo è un’esigenza, perché bisogna decidere sempre più in fretta per rispondere ai bisogni del Paese, e il mezzo più veloce ed efficace è spesso il decreto. Ne abbiamo varati in linea con i governi precedenti, quindi è vero che si dovrebbero studiare procedure più efficienti. Per esempio il fatto che si debbano attendere 24 ore prima di votare una volta posta la fiducia - e questo solo alla Camera - è antistorico, ma i regolamenti parlamentari non sono competenza del governo”. Anche il decreto Sicurezza ha creato problemi, la Cassazione non ha apprezzato. “Il ministro Nordio aveva chiesto di acquisire il parere dato dalla Cassazione. Lo studieremo, ma certo non ci rimangiamo nulla. Quello era un provvedimento esaminato per un anno dal Parlamento, dibattuto a lungo, poi trasformato in decreto perché appunto i cittadini si aspettano risposte in tempi rapidi. E noi lo abbiamo fatto”. Resta il fatto che le riforme che avete annunciato come imminenti sembrano non più una priorità, o almeno non sembrano affatto centrali. “Non è così: sulla giustizia stiamo andando avanti, dopo aver concesso un anno di discussioni e valutazioni all’opposizione che ha fatto solo ostruzionismo, e contiamo di approvare entro metà luglio la riforma in seconda lettura al Senato, per poi affrontare le due letture confermative e approvarla definitivamente entro l’anno”. Con referendum confermativo? “Certo, ci sarà il referendum confermativo ritengo nel 2026, e siamo sicuri che gli italiani saranno dalla nostra parte. Ovvero da quella di chi si batte davvero per una magistratura meno politicizzata, più indipendente, e più lontana dai giochi di potere. Non sono pochi i magistrati che sono favorevoli a separazione delle carriere e alla divisione del Csm”. Sul premierato invece si procede molto lentamente. Che problemi ci sono realmente? “È una materia estremamente complessa, perché tocca i meccanismi di funzionamento del governo e dei poteri connessi, si capisce che serve la massima riflessione. Non l’abbiamo affatto abbandonata, e non è escluso che alla Camera ci possa essere qualche piccolo correttivo che non ne stravolga l’impianto”. Ma è vero che la riforma potrebbe slittare a fine legislatura e non entrare in vigore, visto che sarà richiesto sicuramente un referendum confermativo che andrebbe svolto in quella successiva? “Noi speriamo che sia già votata e confermata dal referendum in questa legislatura. Ma certo una riforma così importante ha bisogno di più tempo di altre, vogliamo fare bene le cose”. Se la riforma non fosse pronta, cambierebbe comunque anche la legge elettorale? “Se fosse pronta sicuramente, ma credo che vada messa comunque mano alla legge elettorale, perché è necessario, anche mantenendo l’attuale sistema parlamentare, dare comunque una maggioranza stabile a chi viene eletto. Quindi un meccanismo con premio di maggioranza sarebbe fondamentale, col premierato ma anche senza”. Invece sul terzo mandato la spaccatura è stata profonda nel centrodestra. “È una questione molto seria, perché l’elezione diretta implica un bilanciamento nei poteri. Noi eravamo pronti a discutere, ma la bocciatura dell’emendamento ha di fatto chiuso la questione. Non si dividerà certo la coalizione per questo”. Dovrete comunque redistribuire le candidature nelle Regioni. È possibile un rinvio del voto? “Non credo proprio serva un rinvio, peraltro lo chiede solo la Campania. Si vota quando è previsto, in autunno. Sul riequilibrio, con o senza terzo mandato il problema lo abbiamo presente da tempo: è ovvio che negli ultimi anni i rapporti di forza tra partiti sono cambiati e un riequilibrio nei confronti di FdI è nelle cose”. Maruotti (Anm): “Deriva pericolosa, è in atto una delegittimazione totale” di Conchita Sannino La Repubblica, 29 giugno 2025 Il segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati: “Le forze dell’ordine vanno tutelate nello svolgimento dei loro compiti, ma non deve essere una tutela demagogica”. “Ormai anche la Suprema Corte è stabilmente nel loro mirino”. Scuote la testa Rocco Maruotti, segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. Esponente di Area, pm a Rieti, è la toga progressista al fianco di Cesare Parodi, di Magistratura indipendente, il torinese e moderato presidente dell’Anm. Non di rado, i due parlano lingue diverse, nelle stesse battaglie. “Ma questo - sorride Maruotti - è invece uno di quei casi in cui siamo molto compatti e consapevoli dei rischi”. Segretario Maruotti, Nordio è incredulo, la Cassazione esonda? “Ad essere increduli sono solo i magistrati italiani nel vedere che un ministro, che è un ex pm, abbia inteso acquisire informazioni sul regime di divulgazione delle relazioni dell’ufficio del Massimario che sono notoriamente pubbliche”. Non sapeva fossero online? “Sembra di no. Non stupisce più, invece, che una relazione del Massimario, contributo tecnico, venga letto come un atto politico. È assurdo, ma rientra nel progetto di delegittimazione che ormai non risparmia neppure la Suprema Corte”. Il procuratore Cantone ha detto a Repubblica che vi sono ormai serie “difficoltà” nella lotta al crimine e ha definito alcune norme della legge Sicurezza “non da paese liberale”. Lei vede, come alcuni giuristi rilevano, rischi di regressione democratica? “La repressione del dissenso, l’insofferenza diffusa verso gli organismi di controllo, il mancato riconoscimento del ruolo di istituzioni sovranazionali, vedi la Corte Penale internazionale, sono segnali che non rasserenano. Ma almeno fino a quando in Italia potremo contare su magistrati liberi, non ci sarà questo rischio”. Fu tra i primi a criticare iter e norme del dl Sicurezza: quali aspetti sarebbero di dubbia legittimità? “Non pochi. La norma che amplia l’operatività dei Servizi segreti, consentendo loro di creare persino gruppi eversivi, i nuovi reati di rivolta carceraria e resistenza passiva, il divieto di vendita della cannabis light. E poi ci sono vizi di manifesta irragionevolezza, si colpiscono minoranze etniche, si creano potenziali discriminazioni e violazioni dei diritti umani. Alcune norme sono già all’attenzione della Consulta. Staremo a vedere”. E ora la Lega rilancia lo scudo per le divise: cosa ne pensa? “Le forze dell’ordine meritano di essere tutelate nello svolgimento dei loro delicati compiti, ma deve trattarsi di una tutela effettiva e non demagogica come quella che sento annunciare. Ed è rischioso, ancora una volta, alimentare la falsa narrazione di un conflitto tra magistratura e forze dell’ordine”. A giorni, anche il Senato approverà il ddl sulla separazione delle carriere. Nordio insiste: una risposta “al mercimonio” nomine... “Ma se il mercimonio delle nomine è esistito e ha riguardato tutti i magistrati, allora dobbiamo ritenere che ne sappia qualcosa anche l’ex procuratore aggiunto Nordio? Altrimenti sarebbe l’unica eccezione. In realtà, il ministro usa questo trito argomento per imporre la revisione costituzionale più grave e pericolosa della storia repubblicana. Una riforma il cui unico obiettivo è quello di indebolire il Csm e ledere l’autonomia dei magistrati”. Tuttavia, nell’ultimo comitato in Anm, in un documento vi impegnate a contrastare le degenerazioni correntizie... “Alt, quel documento non è solo la presa d’atto delle cadute che hanno caratterizzato una certa stagione e hanno prodotto effetti deplorevoli, ma è soprattutto un documento che guarda al futuro e indica un percorso di trasparenza intrapreso da anni e che si vuole portare avanti caparbiamente”. Vi preparate al referendum? “Sì, parlando con i cittadini, uno ad uno. Moltiplicheremo gli eventi pubblici, daremo la parola a società civile, Università, tanti evidenziano i rischi di assoggettamento delle Procure al potere politico. Ci preoccupa l’uso dei casi di cronaca giudiziaria per delegittimare la magistratura, cercando di fare credere agli italiani che le carceri sono piene di innocenti. Tutto questo è pericoloso, erode il legame dei cittadini con le istituzioni”. Qual è l’obiettivo ultimo, per lei? “Intaccare la Costituzione, lì dove la Carta sancisce, invece, che i magistrati sono indipendenti da ogni altro potere. E sono questi principi ad aver assicurato fino ad oggi l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge”. Prato. Carcere senza controllo: entra di tutto, 4 suicidi, scabbia e agenti indagati di Giorgio Bernardini e Antonella Mollica Corriere Fiorentino, 29 giugno 2025 Operazione della Procura con 300 uomini delle forze dell’ordine. Tescaroli: “Illegalità diffusa”. Perquisiti 127 detenuti, poliziotti accusati di corruzione: chiudevano un occhio dietro compenso: “Qua i poliziotti sono a libro paga”. Telefoni cellulari di ultima generazione, microtelefoni, smartwatch e persino un router per collegarsi a internet. E poi dosi di cocaina e hashish che viaggiavano nascoste nelle parti intime dei familiari che andavano ai colloqui, all’interno di cibo e indumenti. È bastato un anno di indagini coordinate dalla Procura di Prato, guidata da meno di un anno da Luca Tescaroli, per aprire il vaso di Pandora del carcere. Il blitz in carcere - Sabato mattina all’alba è scattato un blitz senza precedenti che ha visto l’impiego di più di trecento uomini tra agenti della penitenziaria (compreso il Gom, il gruppo che si occupa dei detenuti sottoposti al 41 bis, il carcere duro), polizia, carabinieri e guardia di finanza. “Nel carcere di Prato, che conta 576 detenuti, più della metà stranieri, c’è un massiccio tasso di illegalità, la difficoltà a garantire la sicurezza dei detenuti, oltre che una grande insufficienza di personale”, le parole del procuratore Tescaroli. Fuori dal carcere forze dell’ordine schierate in assetto antisommossa pronti a intervenire in caso di necessità, mentre nelle celle scattavano le perquisizioni. Nel mirino il reparto alta sicurezza - con i suoi 111 detenuti, quasi tutti dentro per reati di mafia - e media sicurezza. Sono stati 127 i detenuti perquisiti, 27 quelli indagati. “Le guardie sono a libro paga” - È stato un colloquio captato all’interno del carcere tra un detenuto siciliano ospite dell’alta sicurezza e il figlio a dare il via alle indagini della Procura di Prato un anno fa. “Qua possiamo telefonare tranquillamente, le guardie sono a libro paga - aveva confidato l’uomo - siamo liberi anche tre o quattro ore”. Erano partiti così i controlli per delineare il perimetro di quella libertà di cui sembravano godere detenuti che, per il loro profilo criminale sono un gradino sotto il 41 bis, il carcere duro. Grazie a un’apparecchiatura che consente di intercettare il traffico telefonico gli inquirenti sono riusciti a fare il censimento dei cellulari clandestini che si trovavano nelle celle, scoprendo così che quasi tutti erano utilizzati in modalità “citofono” per contattare quasi esclusivamente i familiari. Lo scorso 11 gennaio è scattato il primo tempo dell’operazione: sono stati perquisiti 104 detenuti dell’alta sicurezza e sequestrati 10 smartphone. Lo scorso settembre due agenti non in servizio nel carcere hanno recuperato dei palloni nel carcere. Una volta aperti hanno trovato cinque smartphone e un microtelefono. Altre volte i pacchi venivano lanciati con le fionde e poi recuperati da detenuti o dai lavoranti che hanno maggiore libertà di spostamento all’interno del carcere. Venivano poi nascosti in doppi fondi creati nelle pentole, nei frigoriferi, nei sanitari del bagno, sotto i wc, nei piedi dei tavoli o nei muri delle celle dove venivano create intercapedini poi murate con la calce (ieri sono stati trovati tutti gli arnesi da lavoro). I pacchi spediti dai familiari non venivano controllati nell’apposito ufficio (e dove è risultato non funzionare il laser scanner). Anche la droga arrivava con lo stesso sistema: dentro le suole delle scarpe, tra i biscotti, dentro il ragù o nella confezione di datteri. Sotto accusa sono finiti sei agenti della polizia penitenziaria accusati di corruzione. Avrebbero preso soldi dai detenuti per fare passare i telefoni e avrebbero anche fatto finta di non vedere i detenuti sorpresi al telefono. Tra gli indagati c’è anche un’addetta alle pulizie nell’infermeria del carcere sorpresa con due dosi di cocaina nascoste in un pacchetto di sigarette. In casa della donna è stato trovato un piccolo telefono cellulare nuovo e le confezioni di alcune schede sim associate a utenze di cittadini del Bangladesh. Si sta ora indagando per scoprire i contatti che la donna aveva con i detenuti. L’aggressione al killer delle escort - In parallelo a questa inchiesta, c’è anche quella sull’aggressione a Vasile Frumuzache, reo confesso dei delitti di Ana Maria Andrei e Denisa Maria Adas, detenuto nel carcere di Prato. La guardia giurata rumena di 32 anni fu aggredita da un detenuto, lo scorso 6 giugno, poco dopo il suo ingresso in cella. È la ricostruzione della procura di Prato che indaga con l’accusa di rifiuto di atti d’ufficio e lesioni colpose due vice ispettori e un agente della polizia penitenziaria che erano in servizio tra il 5 e il 6 giugno a La Dogaia. I tre poliziotti - un 40enne di Belvedere Marittimo (Cosenza), un 45enne di Napoli e un 24enne originario di Caserta - saranno interrogati in Procura nei prossimi giorni. Il carcere senza controllo - Dentro la Dogaia, la parola “controllo” è sempre stata in bilico. L’ultima inchiesta, più che rivelarlo, l’ha confermato: per soldi - molti o pochi, dipende dai punti di vista - tutto entra (telefoni e droga) ed esce (ordini). Del resto le condizioni generali di detenzione che caratterizzano in negativo il Paese paiono trovare a Prato una tra le rappresentazioni più cupe. L’istituto contava la scorsa notte 576 detenuti, metà dei quali stranieri. Sette sezioni, altrettanti “gironi dell’inferno”. Chi varca il cancello con uno sguardo non solo giudiziario, vede molto altro: una struttura in apnea, schiacciata tra emergenze quotidiane e assenza di una guida stabile. Il carcere non ha infatti un direttore titolare da mesi e i segni di questo vuoto si vedono ovunque. Suicidi e autolesionismo - I sindacati della polizia penitenziaria denunciano da tempo un organico sotto di quasi un terzo: solo 270 agenti ruotano sui turni, contro i 360 previsti. “È il minimo sindacale - dicono - per garantire ordine, sicurezza, e a tratti neppure quello”. Un allarme che in queste ore suona ancor più sinistro. La tensione è palpabile. L’anno scorso, per effetto di questo caos, si sono registrati oltre 200 casi di autolesionismo, un’aggressione a un magistrato di sorveglianza e 4 suicidi tra i detenuti. Dopo i numerosi casi di suicidio, a febbraio, la città si è stretta attorno alla questione con un Consiglio comunale straordinario. Hanno partecipato magistrati, medici Asl, volontari e associazioni. Il tentativo era quello di discutere a voce alta ciò che da troppo tempo si sussurra: la Dogaia è al limite. “Mancano medici, psicologi, assistenti sociali. Manca la comunicazione tra l’area sanitaria e quella penitenziaria. Mancano tutte le figure che servono alla risocializzazione. In compenso - dice Margherita Michelini, garante dei detenuti del Comune - ci sono cimici, scarafaggi, scabbia, e il cibo è spesso scadente”. Torino. Detenuto psichiatrico “curato” con l’isolamento disciplinare di Massimiliano Nerozzi Corriere di Torino, 29 giugno 2025 Studenti di Giurisprudenza e Psicologia (con l’associazione Strali) “scrivono” il reclamo alla Sorveglianza. Dalle parole (e dallo studio) ai fatti, ovvero un reclamo davanti al magistrato di Sorveglianza a favore di un detenuto: la casa circondariale che lo ospita risulterebbe - questa la contestazione - “non aver mai affrontato la sua problematica psichiatrica”, ma di aver “ritenuto di “risolvere il problema” della gestione umana e sanitaria del ricorrente attraverso lunghi periodi di isolamento disciplinare”. Alla formulazione del reclamo hanno contribuito studentesse e studenti dei dipartimenti di Giurisprudenza e Psicologia dell’università di Torino, nell’ambito del workshop “A mente libera”, arrivato alla sua seconda edizione. Ragazze e ragazzi - coordinati dai docenti del corso, gli avvocati Benedetta Perego ed Emanuele Ficara - hanno infatti lavorato a questo caso concreto, sullo sfondo dell’allarmante ondata suicidaria che negli ultimi anni ha travolto le carceri italiane. Ben consci che questa tragedia non possa risolversi solo con strumenti di riduzione del sovraffollamento, che pure tardano ad arrivare, ma anche con una tutela sanitaria adeguata per le eventuali patologie mentali che affliggano chi sia incarcerato, ovvero, quando questo non sia possibile, con la sua immediata scarcerazione. Per questo, l’associazione Strali, in collaborazione con la cattedra di Diritto penitenziario della professoressa Giulia Mantovani, ha dunque selezionato questo caso strategico, per mancanza di cure della malattia mentale e per una complessiva detenzione in condizioni inumane e degradanti. Il progetto si è così concretizzato nel predisporre un’istanza in base all’articolo 35 ter della legge sull’ordinamento penitenziario, che prevede rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati. L’azione legale, di fronte a una norma che attualmente prevede un risarcimento in casi di sovraffollamento, persegue il tentativo strategico di ampliare l’oggetto di tutela dello stesso rimedio risarcitorio anche ai casi di malasanità in carcere. Approfondendo il caso, gli studenti si sono confrontati con atti e documenti che attesterebbero effettivamente un episodio emblematico di totale incuria delle esigenze sanitarie di un giovane detenuto, con aggravamento delle sue condizioni da più punti di vista nell’apparente disinteresse delle autorità coinvolte. Ovvero, “una lesione dei suoi diritti fondamentali”. Gorizia. Il triestino morto in carcere è deceduto per overdose di benzodiazepina e metadone triesteprima.it, 29 giugno 2025 Presentato un esposto per chiedere di fare chiarezza sul perché le sostanze erano riuscite ad entrare in carcere. Il giovane triestino detenuto nel carcere di Gorizia morto lo scorso primo maggio è deceduto a causa di una overdose di metadone e benzodiazepine. A darne notizia è Il Piccolo. Denis Battistuti Maganuco aveva 30 anni. In carcere c’era finito dopo il furto di farmaci avvenuto la sera del 28 aprile fuori da una farmacia di Staranzano. Il giovane era stato arrestato dai carabinieri mentre si trovava assieme ad un amico di 22 anni. Maganuco era tossicodipendente. A chiedere l’autopsia post mortem era stato l’avvocato Massimo Scrascia che ha poi presentato un esposto per chiedere chiarezza sul perché quelle sostanze siano riuscite ad entrare in carcere. Come anche spiegato nell’annuale relazione al parlamento sulle droghe in Italia, il problema della tossicodipendenza tra detenuti coinvolge un numero altissimo di persone. Ferrara. Orrore in carcere, stuprata una detenuta trans di Nicola Bianchi Il Resto del Carlino, 29 giugno 2025 La denuncia di una 40enne italiana: “Erano in quattro”. La struttura non ha una sezione dedicata. Oggi nelle carceri italiane sono circa 80 le persone transgender ristrette. La denuncia è terribile e, se confermata dalle indagini, spalancherebbe uno squarcio ancora più devastante sulle carceri italiane, sovraffollate, violente, pronte in ogni momento a esplodere. Ferrara, Arginone, carcere di massima sicurezza, quasi 400 detenuti stipati tra caldo torrido e cemento armato. C’è una denuncia, contro ignoti, che porta la firma di una detenuta transgender poco più che quarantenne di nazionalità italiana che racconta di essere stata stuprata da altri detenuti (“erano in quattro”) in una cella della quarta sezione, quella per ‘protetti’ dove sono ospitate oltre 40 persone. A Ferrara era arrivata alla fine di marzo, trasferita dal carcere di Reggio Emilia, dove esiste una apposita sezione per transgender a differenza dell’Arginone. “Questa detenuta - spiega la Garante comunale, Manuela Macario - perché si sente donna a tutti gli effetti, aveva fin da subito chiesto di essere spostata da Ferrara, in un penitenziario per transgender perché qui temeva di essere violentata. Ne parlò fin dal primo giorno con me, con il Garante regionale e con la direttrice dell’Arginone la quale aveva fatto immediata richiesta di trasferimento”. Ma, tre mesi più tardi, ancora nulla. Per via della lentezza burocratica, in particolare legata alle vicende carcerarie, dove un detenuto per ricevere un pacco fermo in portineria spesso deve attendere mesi. “Era disperata - continua Macario -, aveva già segnalato di essere stata palpeggiata nei corridoi dell’istituto, era in pericolo. Come è stato possibile metterla in un istituto di soli uomini e non adeguato alle sue esigenze? Una vergogna, un fatto gravissimo, segno di grande cecità e ignoranza delle istituzioni”. Il 24 giugno la detenuta si è presentata nell’infermeria del carcere trovando il coraggio di denunciare il presunto abuso “subito da quattro persone”, poi l’immediato accompagnamento al pronto soccorso dell’ospedale Sant’Anna dove è stato attivato il cosiddetto codice rosa, protocollo riservato a donne, bambini e persone discriminate vittime di violenza sessuale. All’Arginone è stata subito aperta un’indagine interna, sono state controllate le telecamere a circuito chiuso e sentite alcune persone. In Procura è stata aperto un fascicolo, al momento contro ignoti. La vittima ora è guardata a vista dai poliziotti della Penitenziaria: durante la doccia, chiusa a chiave nella sua cella quando gli altri sono liberi (e viceversa), scortata durante i pasti “per preservare - spiegano fonti interne del carcere - la sua incolumità”. “Nel nostro penitenziario - sottolinea ancora Macario - ha trovato grande attenzione fin dai primi giorni, dalla direttrice ai sanitari al resto dello staff, tutti consapevoli della situazione, la chiamavano al femminile utilizzando ogni accortezza”. Oggi, nelle carceri italiane sono circa 80 le persone transgender ristrette. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, associazione che si occupa della tutela dei diritti dei detenuti, le persone trans subiscono discriminazioni e sono ancora considerate un’”eccezione” del sistema. Lecce. Nata in carcere, ha bisogno di una casa. “Aiutatela a non finire in Comunità” di Ilaria Marinaci Corriere del Mezzogiorno, 29 giugno 2025 La madre detenuta a Lecce, la piccola di tre anni è stata affidata agli zii. “Cerchiamo urgentemente una casa in affitto per Nina e la sua famiglia”. L’appello corre sui social. A lanciarlo l’associazione Fermenti Lattici, che da anni lavora nel carcere Borgo San Nicola di Lecce con progetti a sostegno delle famiglie dei detenuti. Qui, due anni fa, comincia questa storia: Antonietta Rosato, Cecilia Maffei e Marianna Caretto, le tre educatrici dell’associazione, conoscono Nina (un nome di fantasia), che aveva solo pochi mesi quando è entrata nella sezione femminile con la mamma. Secondo la legge, infatti, una madre detenuta può decidere di tenere con sé il proprio figlio fino al compimento dei tre anni di età in ambienti separati della sezione: stanze più ampie, curate, colorate, con culle e fasciatoio. Nel 2024, in Italia, erano 23 le madri in regime detentivo con i loro 26 bambini, secondo l’Osservatorio Antigone. Nina era l’unica a Lecce. Il solo mondo che conosceva, dentro quelle mura. “Grazie alla collaborazione con la direzione del carcere e i servizi sociali del Comune di Lecce, abbiamo iscritto Nina - ricorda Rosato prima al nido e poi alla materna, incaricandoci noi stesse di accompagnarla e andare a riprenderla”. È iniziata così la sua scoperta del mondo fuori. “La tenevamo in tutte le occasioni possibili: l’abbiamo portata a giocare nelle biblioteche pubbliche, ad assistere a spettacoli teatrali, al mare per la prima volta, a trascorrere le feste con le nostre famiglie. La sua mamma non voleva che a Natale o a Pasqua stesse in carcere. Tutto reso possibile grazie alla fiducia avuta dalla direzione carceraria”, sottolinea Rosato. Lo scorso ottobre, Nina ha compiuto tre anni. Di norma, avrebbe dovuto separarsi dalla madre quasi dalla sera alla mattina ed essere affidata agli zii, che già avevano con loro le sue tre sorelle. Ma proprio la sua storia ha ispirato il progetto Prima Persona Plurale di Fermenti Lattici, finanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, che ha permesso a madre e figlia di allungare i tempi di separazione e di avviare un percorso di preparazione con la famiglia affidataria e i servizi sociali di Squinzano, dove risiedevano gli zii. “La mamma e la famiglia - spiega l’educatrice - sono stati seguiti dalle psicologhe dell’associazione Psifia e noi abbiamo accompagnato gradualmente Nina dagli zii che non conosceva e dalle sorelle che vedeva solo nei colloqui. La prima notte che hanno dormito insieme è stata durante un viaggio a Napoli, previsto per famiglie inserite in questo tipo di progetti”. Ora che Nina vive serena con gli zii e le sorelle, va a trovare la mamma periodicamente e le educatrici continuano a seguire tutto il nucleo familiare, per una serie di circostanze, è sorta la necessità di dover trovar loro una nuova casa. Ma, nel Salento, le case da affittare per residenzialità sono una chimera, surclassate dagli affitti brevi turistici. “Per non rischiare che le bambine siano separate e messe in comunità e sia reso vano il percorso fatto finora per tutelarle, è urgente - l’appello di Fermenti Lattici - trovare a Lecce o paesi vicini una casa per mantenere questa famiglia unita”. L’affitto mensile di 500-600 euro e la caparra sono garantiti dal Comune di Squinzano che ha in carico i minori. Ma serve la buona volontà di chiunque possa aiutare questa famiglia. Nina, le sue sorelle e gli zii meritano di restare insieme (per contatti utili, cellulare 3404722974). Brescia. Carcere, il bilancio amaro della Garante Ravagnani: “In dieci anni nulla è cambiato” bresciatoday.it, 29 giugno 2025 Passaggio di testimone alla professoressa Arianna Carminati: sarà lei la nuova Garante per i diritti delle persone private della libertà. “Pare proprio che anche gli ultimi dieci anni siano trascorsi invano”. È un bilancio denso di preoccupazione e amarezza quello tracciato da Luisa Ravagnani, che dopo un decennio lascia l’incarico di Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia. Un ruolo ricoperto con dedizione e spirito critico, che ha permesso di tenere accesi i riflettori su un sistema penitenziario che, secondo Ravagnani, resta in gran parte “fermo ai problemi di sempre”. La nuova garante, eletta il 27 giugno con ampia maggioranza dal Consiglio Comunale, è la professoressa Arianna Carminati, costituzionalista dell’Università degli Studi di Brescia. Docente di Fascia I dal 2021 e direttrice della Scuola di specializzazione per le professioni legali, Carminati prenderà servizio dal 1° settembre di quest’anno anche come docente ordinaria di diritto costituzionale e pubblico dell’Unibs. Un profilo accademico di primo piano che subentra in una fase complessa, con le carceri bresciane in sofferenza cronica per sovraffollamento e carenza strutturale. Un decennio difficile - È netta Ravagnani, nella sua relazione conclusiva. “Già a partire dal 2016 - ricorda - i dati relativi alla popolazione penitenziaria italiana ricominciarono a seguire il trend accrescitivo di sovraffollamento, interrotto solamente dalla grave pandemia Covid degli anni 2020-21”. Il quadro descritto rievoca le condizioni che portarono alle condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2013. Un ritorno al passato, insomma, aggravato da scelte politiche recenti: “All’orizzonte, non pare di vedere nulla che possa far immaginare un cambiamento di rotta, anzi, sembrerebbe palesarsi solo la possibilità di peggioramento anche a seguito delle verosimili conseguenze negative che avrà nel breve periodo l’applicazione del DL sicurezza”. Il confronto tra i numeri è impietoso: dai 52.164 detenuti del 2015 (comunque superiori alla capienza regolamentare), si è passati ai 62.445 del 30 aprile 2025, a fronte di soli 51.292 posti disponibili. Una realtà che ha spinto persino i giudici olandesi a chiedere “garanzie sulle condizioni delle carceri italiane” prima di autorizzare un trasferimento. Brescia: sovraffollamento, problemi strutturali e di salute - Il carcere cittadino Nerio Fischione ospita oggi 363 persone, contro una capienza regolamentare di 182 posti. A Verziano le presenze sono 111, per una disponibilità di 71 posti. Numeri che confermano come Brescia continui ad essere una delle province più in sofferenza. “La situazione strutturale che ad ogni occasione viene descritta dalla stampa nazionale come una fra le più preoccupanti e disastrose del Paese” è aggravata da una promessa mai mantenuta: la costruzione del nuovo carcere, annunciata già nel 2015, e ancora oggi in fase di stallo. “Con tristezza, devo dare quindi conto che ha avuto ragione quella parte della politica cittadina che mi rispose dicendo che si sarebbe trattato del solito e ormai noto fuoco di paglia”. A rendere ancora più fosco il quadro, l’aumento esponenziale dei suicidi in carcere. Ravagnani sottolinea come le condizioni detentive abbiano “pesantemente influenzato” il fenomeno, seppure non possano esserne considerate l’unica causa. Grave anche l’utilizzo diffuso di psicofarmaci, talvolta somministrati - denuncia - “non solo con finalità terapeutiche-sanitarie, ma di sedazione collettiva e pacificazione delle sezioni”. Secondo i dati citati, circa 15 mila detenuti - il 20% del totale - assumono regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Una pratica che, a detta della Garante uscente, si sta cronicizzando, anche per la difficoltà a gestire adeguatamente la crescente presenza di persone con fragilità psichiche. Detenzione e marginalità: donne, stranieri, tossicodipendenti - La relazione affronta anche le problematiche legate alle detenute, spesso “portatrici di vulnerabilità specifiche per la gestione delle quali il carcere non nasce predisposto”. Ravagnani evidenzia la necessità di attenzione di genere e interculturale, soprattutto per le numerose straniere, molte delle quali vittime di tratta, dipendenze o precedenti di abuso. Criticità anche nella gestione degli stranieri in carcere. “Non possiamo certo risolvere tutto con l’idea di rimandarli nei Paesi d’origine”, afferma la Garante, denunciando l’inerzia nell’applicazione delle decisioni quadro europee del 2010 che permetterebbero il trasferimento per motivi di reinserimento. Un barlume nel territorio - In un sistema nazionale “immobile”, è a Brescia che Ravagnani intravede qualche segnale positivo. “Il terzo settore risulta essere elemento vitale per tentare di rendere più funzionale il tempo della pena inframuraria”. Realtà associative, cooperative sociali e imprese locali - grazie anche a un protocollo siglato nel 2019 - hanno dato vita a percorsi di reinserimento e opportunità lavorative per i detenuti. Tuttavia, ammonisce Ravagnani, “non si può certo immaginare che tali sinergie riescano a trovare una risposta efficace a problemi che richiedono interventi centralizzati e certamente politici”. Ora il testimone passa ad Arianna Carminati, docente di Diritto costituzionale e figura di spicco dell’Università di Brescia. Direttrice della Scuola di specializzazione per le professioni legali e membro di diversi gruppi di ricerca - il Collegio dei docenti del Dottorato di ricerca “Diritti, Persona, Innovazione e Mercato”, il gruppo di lavoro dell’HUB Global Health UniBS dell’Alleanza Unita, l’Osservatorio di Biodiritto dell’Unibs, a sua volta parte della Rete Nazionale del Diritto Gentile - la professoressa si troverà a guidare l’ufficio in uno dei momenti più complessi per la realtà carceraria locale. La sua nomina, salutata con favore da ampia parte del Consiglio comunale, rappresenta un segnale di continuità istituzionale ma anche la speranza di una nuova stagione di impegno per i diritti delle persone private della libertà. “Ogni giorno di inerzia, 24 ore di sofferenza” - “Ogni giorno speso nell’inerzia di decisioni che non riescono a trovare la giusta forza per portare a risultati concreti, corrisponde a 24 ore di sofferenza in più per le persone che sono costrette a vivere in celle inidonee”. È forse questa la frase che meglio riassume lo spirito con cui Luisa Ravagnani tira le fila del suo mandato: una denuncia civile più che un atto d’addio. Una chiamata alla responsabilità collettiva verso un sistema che troppo spesso dimentica che la sua missione è rieducare, non solo punire. Nel passaggio tra passato e futuro, l’auspicio è che la nuova Garante possa operare in un clima di ascolto e collaborazione istituzionale, capace di affrontare le sfide - ormai note - con strumenti nuovi, e con quella determinazione che ha contraddistinto Ravagnani nei suoi dieci anni di mandato. Cuneo. C’è un panificio nato nel carcere che vuole diventare un modello in tutta Italia di Tania Mauri cibotoday.it, 29 giugno 2025 Si chiama Panatè Impresa Carceraria il progetto di inclusione professionale che porta pinsa e pane dentro le carceri italiane. L’obiettivo? Servire la ristorazione col minimo spreco. In Italia ci sono progetti che usano la produzione di pane come strumento di reinserimento lavorativo per i detenuti. Spesso gestiti da cooperative sociali, permettono loro di acquisire competenze nel campo della panificazione e di ottenere un contratto di lavoro, aiutandoli così a reintegrarsi nella società. Un esempio è Panatè srl società benefit, nata nel carcere di Cuneo, dove si produce pane artigianale con il nome “Panatè Impresa carceraria”, un gioco di parole che evidenzia l’intento di creare materie prime genuine con un modello di impresa sostenibile. Diminuire la recidiva, imparare a fare il pane - “Panatè è un progetto di inclusione sociale nato nel 2023. Abbiamo iniziato dalla Casa Circondariale di Cuneo ma poi abbiamo aperto laboratori di panificazione artigianali all’interno di istituti penitenziari in altre città con l’obiettivo di produrre prodotti di altissima qualità per il mercato B2B (horeca, foodservice, catering, travel). In Italia esiste un enorme problema legato alla recidiva (il 70% dei detenuti finita la pena ritorna in carcere, questa percentuale scende al 2% tra i detenuti impegnati in attività lavorative credibili e professionalizzanti durante il periodo detentivo) e crediamo fortemente che solo con il lavoro si possa garantire la possibilità di un cambiamento che consenta quindi di contenere il fenomeno della recidiva con effetti positivi per l’intera collettività. Noi vogliamo essere promotori di un cambiamento” ci spiega Davide Danni, presidente della società. Oggi sono attivi quattro laboratori: tre nelle carceri di Cuneo, Fossano e Torino e uno nel Comune di Magliano Alpi, dove lavorano 40 persone di cui 20 detenuti, tutti regolarmente assunti con contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali. Il progetto è ambizioso perché ha l’obiettivo di sviluppare il modello a livello nazionale. “Abbiamo in pipeline l’apertura di quattro nuovi laboratori tra Liguria, Piemonte e Veneto nei prossimi sei mesi. Tutto questo è possibile grazie a una rete sociale sul territorio che coinvolge altre cooperative già attive in loco a cui forniamo tutti gli skill tecnici e organizzativi per avviare in autonomia il laboratorio produttivo, garantendo loro il mercato all’intera produzione” prosegue Danni. “Questo permette scalabilità al modello ma soprattutto fare attività di advocacy che è fondamentale per avviare quel processo di cambiamento necessario per attirare imprese nelle carceri e creare posti di lavoro per i detenuti, vero strumento per abbattere la recidiva. I detenuti sono selezionati dalle strutture dell’amministrazione penitenziaria preposte e ci vengono proposti per i colloqui conoscitivi e di assunzione; pertanto fin da questa prima fase di inserimento si genera la consapevolezza di iniziare a fare parte di un percorso diverso dalla classica formazione fine a sé stessa, ma di essere potenzialmente parte di una squadra e quindi di un progetto di lavoro vero. Inizia quindi l’inserimento dove, il coinvolgimento e il senso di appartenenza e di apporto al risultato collettivo, sono subito evidenti e percepiti innescando un vero e proprio percorso di cambiamento personale ed umano” ribadisce Danni. I loro sono prodotti semplici e genuini, ma fatti bene. Grazie alla conservazione a freddo (vengono abbattuti e congelati), garantiscono alta qualità e una facilità d’uso che è anche il punto di forza del loro successo e consente di crescere costantemente nei volumi generando e riscontrando un enorme interesse da parte degli operatori della ristorazione attenti anche all’impatto sociale. Le basi pronte garantiscono risultati costanti con un impiego minimo di manodopera in cucina. Hanno iniziato con il pane - multicereali, semola, integrale e ciabatta - preparati con una selezione di grani pregiati e ingredienti naturali così da preservarne profumi e sapori per più giorni, dalla consistenza morbida e dalla crosta croccante. Si sono poi dedicati alla focaccia, rettangolare e tonda, dalla crosta dorata e profumata e l’interno soffice e arioso, pensata per essere mangiata in purezza ma anche per esaltare diversi abbinamenti con farciture semplici o ricercate. Il loro prodotto di punta è la pinsa romana, fatta con un impasto ad alta idratazione, anche nella versione integrale, doppia lievitazione e una lunga cottura che garantiscono fragranza, croccantezza e leggerezza al prodotto. In pochi minuti in forno viene rigenerato dal cliente con la possibilità di esprimere tutta la sua fantasia per le farciture o i topping. Sia pane che pinsa sono ideali per cucine prive di forni professionali e consentono alle piccole attività di offrire proposte di qualità artigianale con minima infrastruttura e formazione. Grazie alla gestione flessibile delle porzioni e all’assenza di avanzi, si riducono al minimo gli sprechi, garantendo efficienza e sostenibilità. Oggi la pinsa è distribuita da dodici distributori nazionali e due esteri, oltre a numerosi gruppi internazionali diretti. “Questi prodotti si possono trovare, per esempio, nei locali di Baladin in Italia e di Mondofood. Crediamo che insieme si possa essere davvero attori e protagonisti di un cambiamento collettivo di cui potrà beneficiare l’intera collettività” conclude Danni. Roma. Made in Jail: la storia della Onlus che vende magliette realizzate dai detenuti di Matteo Torrioli romatoday.it, 29 giugno 2025 Attiva da 36 anni, dal 2001 gestisce un immobile confiscato alla criminalità su via Tuscolana. Trentasei anni di attività. Dalle carceri di Rebibbia fino alle fiere con uno scopo ben preciso: insegnare agli ex detenuti un lavoro. Made in Jail resiste nonostante il covid e la crisi economica. “La pandemia ci ha messo in ginocchio ma non molliamo” racconta a RomaToday Silvio Palermo, il fondatore di quella che, a tutti gli effetti, è una vera e propria casa di moda. Una onlus che si autofinanzia dalla vendita dei suoi prodotti, magliette e felpe disegnate da detenuti con slogan e claim sulla vita carceraria. Quando era molto giovane, Silvio Palermo entrava prima in Autonomia operaia per arrivare, poi, nelle organizzazioni clandestine armate. Una strada che lo condurrà alla galera negli anni ‘80. “Lì - racconta a RomaToday - c’è stata dall’81 all’83 l’esperienza della dissociazione politica per l’uscita dalla lotta armata”. Ad appena 21 anni Silvio è in carcere con l’accusa di banda armata, associazione sovversiva ed altri reati strumentali, come il possesso di armi ed esplosivi. Sconta la sua pena insieme ad altri detenuti politici, tenuti separati dagli altri: “Lo facevano per ragioni di sicurezza, avevano paura che potessimo politicizzarli”. Silvio aveva una zia che disegnava modelli per abiti di alta moda. “Quando eravamo in carcere, grazie al rapporto umano che si era instaurato con il direttore del penitenziario, avevamo cominciato a stampare delle magliette con vari slogan, come “meglio libero” o “salvate le balene ma salvate anche noi”, pensato per prendere in giro Green Peace. Le metteva in vendita Il Manifesto con una fascetta e con il nostro marchio, un uccello origami. Dietro le magliette avevamo scritto i nomi di battesimo di 59 detenuti politici e con la loro vendita ci siamo pagati metà del processo del 7 aprile”, ovvero quello contro membri e presunti simpatizzanti di Autonomia operaria. Tutte le maglie, inizialmente, venivano prodotte dentro il carcere. Uscito di galera, Silvio cominciò ad insegnare nelle carceri minorili serigrafia, spiegando ai giovani detenuti come sfruttare la propria creatività ed apprendere un lavoro che potesse tenerli lontano dai guai. “Del resto - spiega - quando esci dal carcere hai l’interdizione dai pubblici uffici. È difficile così parlare di recupero. Il nostro, purtroppo, è un Paese di ipocriti perché una volta scontata la pena non è giusto rimanere, a vita, ex detenuti”. Dal gioco al lavoro - Vendere delle magliette dedicate alla vita carceraria era nato per gioco e, poi, è diventato un lavoro. “Il terzo settore ce lo siamo inventati in carcere, già nell’83 parlavamo di impresa sociale. Una cosa, però, che senza i capitali è difficile da attuare”. A Rebibbia, durante la reclusione, “facevamo corsi e seminari. Quando sono uscito, una mia amica riuscì a farmi conoscere Arbore e fece arrivare le nostre magliette a Quelli della notte”. Made in Jail ha girato tutta Roma con i propri punti vendita. “All’inizio stavamo a Torre Maura, poi in via Emanuele Filiberto, a piazza Vittorio, per quattro anni. Poi Montesacro, Tufello, Vigne Nuove. Nel ‘99 ci siamo spostati in un locale confiscato alla criminalità organizzata su via Tuscolana 695” dove si trova ancora oggi la onlus. Qui, oltre che nelle carceri di Rebibbia e Regina Coeli, il sodalizio lavora insieme a persone detenute ed ex detenute per offrire loro una seconda opportunità di vita. Un percorso partito nel 1988 e che non si è mai interrotto. L’incontro con Oliviero Toscani - La vera forza di Made in Jail era quella di partecipare a fiere ed eventi. “Nel ‘94 ci venne a trovare, a piazza Navona, Oliviero Toscani e rimase molto colpito dal nostro lavoro. È venuto anche a trovarci dove stampavamo le magliette insieme a Paolo Landi, direttore della comunicazione di Benetton. Per tre mesi ho fatto avanti e indietro tra Roma e Fabrica, dove c’era la sede creativa di Benetton gestita da Oliverio” racconta ancora Silvio. C’era l’idea di fare dei corner Benetton legata ai prodotti di Made in Jail. “Poi lo scandalo del lavoro minorile in Turchia, che Benetton affidava a terzi, fece saltare tutto: saremmo rimasti bruciati”. Tra i sostenitori c’erano anche la figlia di Totò, Liliana de Curtis, e la nipote Elena: “Totò mi ha salvato quando stavo in carcere, i suoi film ci facevano ridere e dimenticare la nostra situazione. Sono stato a casa sua diverse volte e per me è ancora oggi una delle figure più importanti della mia vita”. “Dal punto di vista commerciale siamo un fallimento - ammette - ci conoscono in tanti ma ci comprano in pochi. Dal punto di vista umano, invece, se un domani una persona che ha partecipato ai nostri corsi apre una serigrafia per noi è una vittoria. Da quando abbiamo avviato questa attività avremo avuto un centinaio di persone. Tante, purtroppo, sono tornate a delinquere, specialmente quelle invischiate con problemi di droga”. Un locale in centro - Made in Jail è autofinanziata, tranne per i corsi lavorativi con detenuti che godono di finanziamenti pubblici. “È al centro di Roma che girano i soldi, è così da sempre - sottolinea Silvio - se avessimo avuto un punto vendita al centro della città nei primi anni della nostra attività ci saremmo mangiati marchi importanti perché le nostre magliette erano e sono belle, di qualità, e assolutamente originali”. Il sogno, però, di un locale nuovo non è tramontato. “Abbiamo chiesto all’assessorato al Patrimonio di Roma un locale in una posizione centrale - spiega Silvio - visto che siamo una onlus potremmo beneficiare dell’abbattimento di un 20% del canone. Anche l’immobile che utilizziamo attualmente lo gestiamo in autonomia, senza aiuti. Serve, però, vendere di più e portare sempre più ragazzi fuori dalle celle per fare esperienze lavorative”. Si sta ancora cercando il locale giusto ma la speranza è che, alla fine, il Comune riesca a dare uno spazio a questa realtà che vuole semplicemente proseguire la sua opera. Come ogni “casa di moda” che si rispetti, Made in Jail vende anche sul web: “Dopo le fiere alle quali partecipiamo in tanti ci vengono a cercare online per acquistare i nostri prodotti o per consigliargli ad amici. La qualità, lo ripeto, paga. Ci piacerebbe partecipare a più eventi ma i costi per gli stand, spesso, sono proibitivi. Ad esempio, saremo alla sagra della porchetta di Ariccia perché ci ospitano gratis”. Perché, alla fine, l’obiettivo è quello “di trasmettere un lavoro a persone che hanno sbagliato e che cercano di farsi una nuova vita”. Cagliari. Un’estate meno torrida per detenuti e agenti grazie a una donazione di Domus de Luna di Luigi Alfonso vita.it, 29 giugno 2025 La Fondazione cagliaritana ha consegnato 250 torrette refrigeranti alla Casa circondariale “Ettore Scalas”, nell’ambito del progetto Alimentis sostenuto dalla Fondazione di Sardegna e dalla Regione Sardegna. L’anno scorso nelle celle furono registrate temperature sino ai 44 gradi centigradi. Duecentocinquanta torrette refrigeranti sono state consegnate dalla Fondazione Domus de Luna alla Casa circondariale “Ettore Scalas” di Cagliari-Uta, per offrire un po’ di sollievo ai detenuti nei mesi più caldi. L’iniziativa si inserisce nelle attività del progetto Alimentis, sostenuto dalla Fondazione di Sardegna e dalla Regione Sardegna, con il contributo dell’impresa Trony. Si tratta di una risposta concreta del Terzo settore isolano e del mondo delle imprese, alla luce dell’allarme scattato la scorsa estate quando, nelle celle del carcere di Uta, furono registrate temperature insopportabili. Al punto che dovette intervenire energicamente la Garante per le persone private della libertà personale della Regione Sardegna, Irene Testa: durante un sopralluogo nella struttura alle porte di Cagliari, il termometro raggiunse i 44 gradi centigradi. Questa soluzione consentirà anche al personale di Polizia penitenziaria di lavorare in condizioni più umane. “Ringrazio Domus de Luna, Trony e il Consorzio Alimentis perché, attraverso questa donazione, i nostri detenuti possono cercare di vivere un’estate meno torrida”, sottolinea Pietro Borruto, nuovo direttore della Casa circondariale. “Io ho assunto l’incarico da pochi mesi, ma Domus de Luna collabora con noi da diversi anni: il nostro obiettivo primario è dare ristoro non solo alla popolazione detenuta, ma più in generale a quanti vivono e lavorano all’interno dell’Istituto”. “Abbiamo consegnato una torretta per ogni cella, per cercare di rinfrescare un po’ l’atmosfera e fare in modo che l’estate in arrivo sia un po’ meno torrida e gli animi siano più sereni”, commenta Ugo Bressanello, fondatore di Domus de Luna. “È una delle iniziative che abbiamo messo in piedi grazie alla collaborazione esistente con il nuovo direttore e il suo staff. Siamo grati a chi ha consegnato le torrette, cioè Jumbo Trony, e a chi le ha pagate, cioè il consorzio Alimentis. È un gesto semplice ma importante, che parla di dignità e attenzione alle persone, anche nei luoghi dove talvolta si è portati a dimenticare la solidarietà. Il caldo può diventare insopportabile dentro una cella. Proviamo ad evitare che gli animi si riscaldino e la reclusione diventi ancora più difficile da sopportare”. Padova. Psicologia e giustizia a confronto, il convegno nazionale sul disagio giovanile primapadova.it, 29 giugno 2025 Un fenomeno complesso, legato a disagio psicologico, povertà educativa e bisogno di appartenenza, al centro del convegno “Adolescenti e violenza: tra Psicologia e Giustizia”. Aumentano in Italia e in Veneto gli episodi di violenza tra adolescenti, spesso agiti in gruppo e rilanciati sui social. Un fenomeno complesso, legato a disagio psicologico, povertà educativa e bisogno di appartenenza, al centro del convegno “Adolescenti e violenza: tra Psicologia e Giustizia”, promosso dall’Ordine degli Psicologi del Veneto a Padova (foto di copertina da Facebook). Psicologia e giustizia a confronto: a Padova il convegno sul disagio giovanile - Durante l’incontro, esperti da tutta Italia, psicologi, neuropsichiatri e operatori della giustizia minorile, hanno riflettuto sulla necessità di un approccio integrato, capace di leggere le radici profonde della devianza giovanile e di costruire risposte educative efficaci. È emersa l’importanza della collaborazione tra scuola, famiglie, servizi e giustizia, con particolare attenzione alla prevenzione e al recupero. Adolescenti e violenza: tra Psicologia e Giustizia - Si è discusso di baby gang, cyberbullismo, fragilità familiari e dei cambiamenti nei profili dei minori autori di reato, sempre più spesso adolescenti italiani provenienti da famiglie presenti ma deboli sul piano educativo. Tra i temi centrali anche la “Messa alla Prova”, intesa come opportunità rieducativa alternativa alla condanna, e la giustizia riparativa come strumento per ricostruire legami sociali. Gli esperti hanno sottolineato il ruolo cruciale della “comunità educante” e la necessità di non arrendersi di fronte al disagio, ma di saper intercettare le risorse dei ragazzi e offrire loro strumenti concreti per ricostruire il proprio futuro. Modena. “Crescere Nonostante”: in carcere per formare genitori detenuti, agenti, educatori gruppoceis.it, 29 giugno 2025 Sono mesi intensi e significativi per il progetto “Crescere Nonostante”, promosso da CEIS A.R.T.E. finanziato nell’ambito del bando “Liberi di Crescere” e dedicato al sostegno dei minori con genitori detenuti attraverso percorsi educativi e di inclusione sociale. Le attività si sono progressivamente ampliate, dai seminari alla presa in carico territoriale, ai gruppi di sostegno per i genitori, fino ai laboratori di arte-terapia realizzati sia a Modena sia a Bologna. Un’attenzione particolare è stata rivolta alla formazione, rivolta sia al personale della polizia penitenziaria che agli educatori. Gli incontri con gli agenti hanno affrontato tematiche fondamentali, come l’abuso di sostanze e la prevenzione, con l’obiettivo di fornire strumenti utili per il lavoro quotidiano e promuovere un approccio più consapevole e relazionale. Parallelamente, si è sviluppato un importante percorso sull’educazione alla genitorialità in carcere, rivolto sia ai detenuti che agli agenti, reso possibile dalla collaborazione con il Provveditorato regionale e con l’Area pedagogica degli istituti penitenziari. Si tratta di un impegno condiviso, che mira a riconoscere e sostenere il ruolo educativo dei genitori detenuti, nonostante le evidenti difficoltà legate al contesto detentivo, e alla collaborazione necessaria da parte di chi negli istituti di pena svolge il proprio lavoro. Lara Raguzzoni, psicologa e direttrice della comunità La Torre: “A Modena abbiamo incontrato le educatrici del carcere, a Bologna il confronto ha coinvolto anche agenti e operatori del sistema giudiziario minorile. Sono momenti di dialogo aperto in cui approfondiamo gli effetti delle sostanze e si risponde a domande che aiutano chi lavora in carcere a gestire situazioni potenzialmente critiche. Porto anche la voce dei ragazzi che arrivano in comunità: spesso sono smarriti, segnati dall’esperienza in carcere, dove la carenza di personale limita le possibilità di colloqui e relazioni con educatori. Vivono un sistema fondato su regole rigide, paura e diffidenza, molto lontano dai valori che proviamo a trasmettere: fiducia, responsabilità, visione. È un passaggio difficile per loro. Quello che mi ha colpito di più, però, è la condizione in cui si trovano a operare gli stessi agenti: pochi, spesso demotivati, consapevoli di non riuscire a fare quanto vorrebbero. Sentire il loro disagio raccontato con onestà e partecipazione, sia dagli agenti che dagli educatori, lascia un segno profondo”. Francesca Borriello e Lucia De Benedetti, educatrici, seguono sia i gruppi con i genitori detenuti che la formazione per il personale penitenziario: “Abbiamo iniziato al Sant’Anna di Modena ad aprile e, da giugno, siamo attive anche a Bologna. I percorsi con i genitori prevedono un incontro settimanale per due anni. Attualmente lavoriamo con gruppi di 6-7 partecipanti, per un totale di circa 20 persone tra i due istituti. Gli incontri si svolgono negli spazi dell’Area pedagogica, affrontando temi particolarmente sentiti: permessi, colloqui con i figli, il significato della paternità e come esercitarla in un contesto in cui gli strumenti sono pochi, a volte nulli”. “Cerchiamo anche di costruire insieme materiali - scritti, video - che i padri possano consegnare ai propri figli. L’obiettivo, sempre, è migliorare il benessere dei bambini, ma anche quello degli adulti. Alcuni ci dicono: ‘Se non avessimo i nostri figli fuori, cui pensare e dedicarci, non potremmo sopportare la realtà qui dentro e non sappiamo cosa ci potrebbe capitare…’. Il lavoro, tuttavia, non è esente da ostacoli. Ci confrontiamo spesso con difficoltà organizzative - aggiungono Borriello e De Benedetti - legate alla carenza di personale che possa supportare le attività in carcere. Ai gruppi di sostegno per i detenuti affianchiamo un percorso di formazione per gli agenti penitenziari, articolato in quattro incontri annuali. A Modena, al momento, abbiamo coinvolto educatori e psicologi; a Bologna è già iniziato il lavoro diretto con gli agenti. I contenuti sono coerenti nei due percorsi, pur adattandosi ai diversi ruoli: parliamo sempre di genitorialità e dell’importanza di mantenere vivi i legami affettivi. E la collaborazione degli agenti può fare davvero la differenza”. Davide Nora, responsabile CEIS per il progetto, riassume la situazione attuale: “Abbiamo sottoscritto accordi triennali con UEPE Modena (Ufficio esecuzione penale esterna) e ULEPE Bologna (Ufficio inter-distrettuale) per la segnalazione e presa in carico dei nuclei con genitori in esecuzione esterna della pena. Il provveditorato ha supportato nella realizzazione dei percorsi di formazione interna agli istituti penitenziari e i comandanti di Polizia Penitenziaria (dott. Bertini per Modena e dott.ssa Nudo per Bologna) hanno manifestato una grande sensibilità rispetto ai temi proposti. Tale condizione ha permesso la realizzazione di due moduli formativi per ogni Istituto; partecipazione e interesse hanno poi stimolato confronti e dibattiti profondi. Le prese in carico territoriali dei minori, a fronte anche del lavoro capillare di tutti i partner, ha fatto registrare una forte accelerazione delle attività educative rivolte ai ragazzi destinatari del progetto. Ad oggi, mi sento di dire, siamo riusciti a creare la struttura portante dell’insieme del progetto con attività programmate e interventi specializzati sia nei contesti detentivi che territoriali. I servizi invianti, entrati anche loro nei processi di individuazione e presa in carico, si pongono come nodo determinante della rete attraverso un coinvolgimento costante e un monitoraggio frequente delle azioni proposte. Segno che le finalità del progetto garantiscono risposte concrete ai bisogni del target di riferimento e si integrano in modo sostanziale ai progetti personalizzati già esistenti. In questi mesi la sperimentazione del Protocollo di presa in carico e l’analisi dei bisogni dei destinatari, siano essi genitori o minori, sta facendo emergere l’efficienza e l’efficacia dell’agire quotidiano da parte degli operatori. Ad oggi, infatti, per ogni minore e/o nucleo preso in carico, viene garantito un pacchetto di azioni a disposizione delle persone coinvolte: uscite coi minori, supporto psicologico, gruppi di sostengo alla genitorialità, laboratori di arte-terapia e l’opportunità di utilizzare una dote educativa dedicata ad ogni minore”. Gorgona (Li). Quando il carcere diventa palcoscenico e la cultura diventa rinascita di Eva Ricevuto buonenotizie.it, 29 giugno 2025 A largo di Livorno, nell’isola-carcere della Gorgona, si accende una nuova luce: quella del teatro. Qui, detenuti e attori si ritrovano fianco a fianco nello stesso luogo, trasformando la reclusione in un’opportunità di espressione e riscatto umano. Dal 29 giugno al 1 luglio il carcere diventerà un palcoscenico e i detenuti si trasformeranno in attori: andrà in scena “Il Teatro del Mare”, un progetto ideato e diretto da Gianfranco Pedullà, regista teatrale che è sempre stato attivo nel portare il teatro dietro le sbarre. Il progetto vuole unire arte e speranza, e farci riflettere sul significato profondo della seconda opportunità. Ma come può un palcoscenico trasformare una prigione in uno spazio di libertà e di incontro? Qual è il potere del teatro nel restituire voce e dignità a chi è stato isolato dal mondo? Immersa nel blu del Tirreno, l’Isola di Gorgona custodisce da sempre una realtà unica nel suo genere: una casa di reclusione circondata da una natura incontaminata. Quest’estate, tra il 29 giugno e il 1° luglio 2025, le mura del carcere diventeranno un teatro a cielo aperto per la prima nazionale di “La Città Invisibile”, nuova creazione del progetto “Il Teatro del Mare” ideato e diretto da Gianfranco Pedullà e realizzato in collaborazione con la Compagnia Teatro d’Arte Popolare. Lo spettacolo segna il proseguimento di un percorso cominciato nel 2020 e consolidato da titoli come Ulisse, Metamorfosi e Una Tempesta, la “Trilogia del Mare” che ha portato oltre tremila spettatori a scoprire le repliche tra le antiche mura dell’isola. Ora la nuova sfida, ispirata a Le città invisibili di Italo Calvino e alle suggestioni dei Tarocchi, vedrà ancora una volta protagonisti i detenuti, chiamati a lavorare su sogni, paure, memorie e desideri. Un viaggio poetico tra identità e rinascita che invita a riflettere sulla potenza dell’arte come strumento di cambiamento. Dall’inizio del progetto, sostenuto da Regione Toscana, Comune di Lastra a Signa, PRAP di Firenze e Teatro delle Arti, sono stati molti gli spettatori coinvolti tra l’isola e le tournée a Roma, Piombino, Follonica e Firenze. Premiato nel 2020 anche con il riconoscimento CATARSI dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro per Ulisse, il Teatro del Mare continua a portare sul palcoscenico l’esperienza di chi vive la reclusione, offrendo strumenti di reintegrazione e un nuovo sguardo sulla libertà. Uno spazio di libertà e di incontro - Dopo il debutto estivo, il progetto sbarcherà anche alla rassegna nazionale di teatro in carcere Destini Incrociati - Le città visibili, in programma tra Firenze, Livorno e la stessa Gorgona dal 24 al 27 settembre 2025. La rassegna, giunta all’undicesima edizione e promossa da Ministero della Cultura, Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere e Regione Toscana, sarà un momento di incontro tra esperienze nate dietro le sbarre, tra cui proprio il laboratorio di Gorgona, oggi tra le esperienze più significative a livello nazionale. Ma “La Città Invisibile” non è solo uno spettacolo: è anche un progetto che unisce arte e speranza, e ci invita a riflettere sul significato profondo della seconda opportunità, come abbiamo già analizzato nel nostro approfondimento sul teatro sociale. È un’occasione per chiedersi come possa un palcoscenico trasformare una prigione in uno spazio di libertà e di incontro. Mostrando anche come le forme teatrali tradizionali riescano a coinvolgere e ispirare anche i più giovani. Nella solitudine di un’isola remota, le voci dei detenuti riempiono il vuoto con la loro umanità, il loro bisogno di esprimersi e di sentirsi ascoltati. La pratica teatrale diventa così una forma di riscatto, un modo per restituire dignità a chi è stato a lungo invisibile, separato dal mondo. Qui, dietro le sbarre, le parole di Calvino tornano a vivere nel presente, intrecciandosi alle storie di uomini che hanno scelto di mettersi in gioco. Il teatro ci mostra ancora una volta quanto l’arte possa abbattere le distanze e restituire voce a chi, per troppo tempo, non ha potuto averla. Fuochi, storie e coscienza. Così nasce il nostro senso di giustizia di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2025 Al cuore della nostra capacità di cooperare, di costruire istituzioni, di fidarci degli altri, c’è qualcosa che precede il diritto e la politica e che sostiene la vita sociale ed economica come una infrastruttura invisibile: è il nostro senso di giustizia. L’antropologo Christopher Boehm esplora l’origine di questa infrastruttura e delle nostre capacità morali nella parte finale del suo “Moral Origins. The Evolution of Virtue, Altruism, and Shame” (2012). Alla base del suo resoconto sta l’idea secondo cui la morale non è solo un portato dei nostri geni, ma anche un prodotto culturale, frutto di un apprendimento continuo che si sviluppa nel tempo e nello spazio sociale e che viene passato alle generazioni successive attraverso vari meccanismi di trasmissione intergenerazionale. Boehm parte da una constatazione fondamentale: nelle piccole società di cacciatori-raccoglitori, la sopravvivenza dipendeva dalla capacità di fare le cose insieme, di fidarsi gli uni degli altri, di cooperare. Anche ad una scala ridotta, però, la cooperazione tra soggetti non geneticamente correlati è sempre fragile perché vulnerabile al problema dell’opportunismo. Basta infatti l’azione anche di pochi free-riders, di soggetti, cioè, che godono dei benefici degli sforzi degli altri membri del gruppo senza però fare la loro parte, a mettere in crisi la dinamica di cooperazione. Per ridurre tale rischio, le prime piccole società hanno iniziato a sviluppare meccanismi di controllo volti a scoraggiare i comportamenti antisociali, fondati sul biasimo e l’esclusione. Tuttavia, questi meccanismi non bastano da soli se la loro funzione non viene interiorizzata attraverso l’adesione ad un codice morale. L’apprendimento morale era essenziale per mantenere la coesione del gruppo e reprimere i comportamenti egoistici. Un apprendimento che si basava e si basa ancora oggi non solo sui processi cognitivi, ma anche su quelli emotivi. Associare certi comportamenti a certe emozioni è ciò che rende possibile l’apprendimento e l’interiorizzazione delle norme morali, fin da bambini. Uno degli aspetti più affascinanti del resoconto di Boehm è la sua analisi del ruolo delle narrazioni orali nella trasmissione dei valori. Le storie - miti, aneddoti, racconti di vita - non servono solo a intrattenere, ma aiutano a plasmare il comportamento dei più giovani. Attraverso le storie, infatti, i membri del gruppo imparano cosa è giusto e cosa è sbagliato, quali caratteristiche possiede un modello da seguire e quali invece un trasgressore. E questo avviene anche grazie all’anticipazione dei destini differenti che aspettano i personaggi delle storie: gli eroi verranno lodati, onorati e ricordati mentre i traditori verranno puniti, umiliati e presto dimenticati. “Il racconto è un mezzo potente- scrive ancora Boehm - per trasmettere le norme morali. Attraverso le storie, i bambini apprendono chi sono gli eroi e i malvagi, e le conseguenze dei comportamenti morali e immorali” (p. 230). A sostegno di questa tesi egli cita numerosi casi di popoli come gli Ju/’hoansi del Kalahari, i Mbuti del Congo e i Navajo, dove le storie di trasgressori puniti o di individui virtuosi premiati vengono usate per rafforzare l’efficacia delle norme condivise. In queste società, la narrazione non è un’attività marginale, ma un dispositivo pedagogico centrale nella vita della comunità e nell’educazione dei giovani. Un esempio emblematico è quello dei Kung, dove i racconti attorno al fuoco includono spesso episodi di “arroganza punita” o “generosità ricompensata”. Questi racconti insegnano l’importanza del rispetto delle norme, ma lo fanno suscitando emozioni morali forti e vivide come l’indignazione e l’ammirazione, emozioni che facilitano l’apprendimento delle norme e la loro interiorizzazione. La selezione sociale e l’evoluzione della coscienza - Ma quale meccanismo ha guidato lo sviluppo e la trasmissione intergenerazionale di certe norme e non di altre? Boehm propone una teoria originale, quella della “selezione sociale”. In ambienti dove la reputazione conta, essere percepiti come altruisti e cooperativi aumenta le probabilità di sopravvivenza. Al contrario, i free riders - coloro che approfittano senza contribuire - vengono puniti o esclusi. “La selezione sociale favoriva gli individui che interiorizzavano le norme del gruppo e di cui ci si poteva fidare affinché si comportassero in modo prosociale anche quando non osservati”, scrive l’antropologo. Questa pressione evolutiva ha portato all’emersione di una coscienza morale, alla capacità, cioè, di anticipare il giudizio altrui e di regolare il proprio comportamento in base a norme informali e condivise. Scrive Adam Smith nella sua Teoria dei Sentimenti Morali, a proposito dell’interiorizzazione delle norme: “Come non possiamo sempre essere soddisfatti solo di essere ammirati, a meno che non siamo allo stesso tempo persuasi di essere a un certo grado degni di ammirazione, così non possiamo sempre esser soddisfatti solo di esser creduti, a meno che non siamo nello stesso tempo consapevoli di esser davvero degni di credito. Come il desiderio di lode e quello dell’esser degni di lode, per quanto molto simili, sono tuttavia due desideri distinti e separati, così il desiderio di esser creduti e quello di esser degni di credito, per quanto anch’essi molto simili, sono allo stesso modo desideri distinti e separati”. Non vogliamo solo essere lodati, noi vogliamo soprattutto, ci dice Smith, sapere di essere degni di quella lode. La vergogna, in questo contesto, diventa un meccanismo adattivo. Scrive Boehm: “La vergogna è una sanzione interna particolarmente efficace, spesso più potente della punizione esterna nel regolare il comportamento” (p. 231). Non si tratta di una coscienza innata, ma sviluppata e rinforzata attraverso l’interazione sociale. È il risultato di un processo di apprendimento intergenerazionale, in cui le emozioni morali vengono coltivate e rafforzate nel tempo. Il ruolo delle emozioni sociali - Le emozioni, lo dicevamo, giocano un ruolo centrale nell’apprendimento morale. Boehm distingue in particolare tra vergogna e colpa, sottolineando che nelle società egalitarie la vergogna è più rilevante, perché legata al giudizio del gruppo. La colpa, invece, è più individualizzata e tipica di società più complesse. “Nelle società di piccola scala [small scale societies], la vergogna è più funzionale socialmente rispetto al senso di colpa, perché riflette direttamente la disapprovazione del gruppo” (p. 232). L’apprendimento morale, dunque, non è solo cognitivo, ma profondamente affettivo. I bambini imparano a comportarsi bene non solo perché capiscono il funzionamento delle regole, ma perché apprendono a sentire emotivamente le conseguenze del loro comportamento. Questo approccio è pienamente coerente con la psicologia evoluzionistica contemporanea, secondo cui molte emozioni umane si sono evolute per risolvere problemi ricorrenti nella vita sociale dei nostri antenati. Secondo Leda Cosmides e John Tooby (The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture. Oxford University Press, 1992) per esempio, la vergogna si sarebbe evoluta come un meccanismo per minimizzare i danni reputazionali in caso di trasgressione. Quando un individuo viola una norma, la vergogna lo induce a ritirarsi, a evitare lo sguardo altrui, a mostrarsi pentito: tutti segnali che servono a placare l’indignazione del gruppo e a prevenire l’esclusione sociale. Paul Gilbert ha descritto la vergogna come una “emozione di subordinazione”, utile per mantenere la coesione in gruppi gerarchici o egalitari (“What is shame? Some core issues and controversies”. In Gilber, P., Andrews, B., (eds.) Shame: Interpersonal behavior, psychopathology, and culture. Oxford University Press, 1998). Boehm, in linea con questa visione, osserva che nelle società di piccola scala la vergogna è spesso più efficace della punizione fisica, proprio perché agisce dall’interno Il ruolo dell’orgoglio, nella sua forma “autentica”, distinta dall’arroganza, è stato analizzato tra gli altri da Jessica Tracy e Richard Robins come un’emozione che si è evoluta perché segnalare lo status acquisito attraverso comportamenti prosociali. In molte società tradizionali, come tra i Kung o i Hadza, l’orgoglio per la generosità o per la competenza nella caccia non è ostentato, ma riconosciuto dal gruppo attraverso narrazioni e rituali. Nel loro recente reportage video “Sopravvivere nella savana con gli ultimi uomini della pietra” i ragazzi di “Progetto Happiness” Giuseppe Bertuccio d’Angelo, Nicola Guaita e Davide Fantuzzi seguono un gruppo di Hadza della Tanzania in una battuta di caccia al babbuino. Alla sera mentre intorno ad un fuoco arrostiscono e condividono la preda, discutono di cos’è per loro la felicità. “Proteggere le donne e i bambini significa proteggere il cuore del villaggio e mantenerne l’armonia - dice il membro più anziano del gruppo. Se riusciamo a farlo allora possiamo dire di essere felici”. “La mia gioia più grande è vedere i giovani crescere forti, pronti a diventare cacciatori - afferma invece il cacciatore più esperto del gruppo - Questo è ciò che mi riempie di gioia” (https://youtu.be/igI9QKW0bQ8?). La felicità deriva dall’orgoglio di poter mantenere la pace e dare da che vivere agli altri membri del villaggio e allo stesso tempo dalla soddisfazione di poter tramandare conoscenze e competenze ai giovani che a loro volta dovranno fare lo stesso con le generazioni successive. Questo tipo di orgoglio rafforza la motivazione a rispettare le norme morali, perché porta a benefici reputazionali e relazionali. Come osserva Boehm, i cacciatori che condividono la carne non solo evitano la disapprovazione, ma diventano modelli morali per gli altri. L’indignazione è l’emozione che si attiva quando osserviamo una violazione delle norme da parte di altri. Secondo Jonathan Haidt l’indignazione è una risposta intuitiva che serve a proteggere il tessuto morale della comunità. È ciò che sta alla base della cosiddetta “punizione altruistica”: l’atto di punire un trasgressore anche a costo personale pur non ottenendo nessun beneficio diretto, ma solo per affermare un principio di giustizia (“The emotional dog and its rational tail: A social intuitionist approach to moral judgment”. Psychological Review 108(4), pp. 814-834, 2001). Boehm descrive numerosi casi nei quali quando un individuo mette in pericolo la coesione del gruppo l’indignazione collettiva porta a forme di ostracismo, ridicolizzazione o persino esecuzioni rituali, come tra gli Aché del Paraguay o gli Yanomami dell’Amazonia. Empatia: la base dell’apprendimento morale - Secondo alcuni scienziati evoluzionisti, tra cui il primatologo Frans de Waal (Primates and Philosophers: How Morality Evolved. Princeton University Press, 2006). e lo psicologo di Cambridge Simon Baron-Cohen (The Science of Evil: On Empathy and the Origins of Cruelty. Basic Books, 2011) il nostro senso di giustizia si è evoluto grazie all’esistenza di processi neurocognitivi specifici ed in particolare grazie alla nostra capacità di empatizzare con gli altri. La capacità di percepire e condividere le emozioni altrui è ciò che rende possibile la regolazione morale fin da un’età estremamente precoce. Boehm osserva che, in molte società tradizionali, i bambini apprendono le norme morali non attraverso punizioni, ma attraverso l’osservazione delle emozioni altrui e la partecipazione empatica alla vita comunitaria. Questo è coerente con gli studi di Michael Tomasello (Why We Cooperate. MIT Press, 2009) secondo cui l’apprendimento morale nei bambini umani si basa su interazioni cooperative e sulla cosiddetta “intenzionalità congiunta”. Le intuizioni di Boehm sulla nascita e lo sviluppo del nostro senso morale e del desiderio di giustizia hanno implicazioni profonde per il presente. In un mondo globalizzato, dove le reti sociali sono frammentate e le istituzioni educative in crisi, l’apprendimento del comportamento morale e la sua trasmissione sono sempre più incerti. Chi educa oggi alla cooperazione, alla responsabilità, alla giustizia? Di quali esempi possono beneficiare i bambini e i giovani nella fase del loro sviluppo morale? Scrivevo qualche tempo fa che “Attraverso l’emulazione dei comportamenti di persone di grande esperienza e degne di ammirazione (vecchi e saggi) e, al contempo, disponibili alla condivisione di quanto appreso (gentili), i bambini acquisiscono importanti conoscenze su fatti e fenomeni anche senza averne fatto esperienza diretta. Queste stesse figure, poi, sono quelle che rafforzano l’adesione alle norme sociali - sii gentile, aiuta gli altri, non mentire - attraverso l’esercizio della loro approvazione che i bambini ricevono ogni qual volta si conformano a questi precetti. È in questo momento che iniziamo a costruire quel bene prezioso che ognuno di noi cerca di coltivare e difendere e che chiamiamo ‘reputazione’” (Altruismo ben temperato e razionalità del ‘noi’, Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2022). Dove sono oggi questi “Vecchi saggi gentili”? Trovare una risposta a questa esigenza è ormai diventato urgente perché quando l’apprendimento morale si interrompe, si sgretola anche il legame che ci tiene insieme come società. In questo senso, la morale non è un lusso, ma una condizione di possibilità per la fiducia e la cooperazione, per quell’infrastruttura immateriale e invisibile su cui si fonda la nostra vita in comune. Una risorsa che non è data una volta per tutte, ma che continuamente sviluppiamo e rafforziamo in un processo di evoluzione collettiva. Il senso di giustizia non si eredita ma si insegna. In un tempo di crisi della fiducia e di polarizzazione sociale, riscoprire le radici evolutive e culturali della nostra morale può aiutarci a ricostruire quel tessuto invisibile che tiene insieme le società. Perché, come ci ricorda Boehm “getting by requires getting along”. Ce la faremo solo camminando insieme. L’amministrazione condivisa è un laboratorio di innovazione di Barbara L. Boschetti* Avvenire, 29 giugno 2025 Il futuro prossimo delle politiche pubbliche è condiviso. Ha bisogno, cioè, di strumenti e luoghi (anche virtuali) di condivisione; di strumenti e luoghi per la messa in comune di idee, punti di vista, pratiche, saperi. Proprio questa forma di condivisione - ad un tempo, progettuale, esperienziale e sapienziale - è, infatti, capace di dare vita ad una intelligenza e innovazione sociale che è essenziale per il design delle politiche pubbliche del prossimo futuro. Una forma di made in Italy in cui le comunità e gli ecosistemi urbani, con tutti i loro attori, si mettono in gioco per il bene comune. Una condivisione profondamente civica, capace di sfidare la partecipazione democratica ben oltre quella, più tradizionale, della legittimazione del potere, tanto politico-istituzionale, quanto amministrativo. La buona salute delle democrazie deve oggi essere misurata, infatti, anche sul piano dell’intelligenza e della innovazione sociale. Questi strumenti e luoghi di intelligenza e innovazione sociale sono una delle novità più interessanti di questo tempo, nonostante il, e forse a motivo del, dominio dell’intelligenza artificiale e dell’innovazione tecnologica. Per rappresentarne l’importanza e la portata basteranno pochi esempi. Il primo viene dall’Unione europea e va sotto il nome di Conferenza per il futuro dell’Europa (Conference for the future of Europe, Cofoe): si tratta di un vero e proprio esperimento di design politico distribuito, durato oltre un anno, sul futuro dell’Unione europea e delle politiche pubbliche europee, che, guarda caso, porta il nome di conferenza, a indicarne la sostanza dialogica, di messa in comune di idee, punti di vista e saperi. Un esperimento che potrebbe dare vita a una nuova ingegneria democratico-istituzionale, capace di dare voce e ascolto complementare ai tradizionali percorsi di partecipazione democratica. Una esperienza simile è quella tentata a livello internazionale nell’ambito delle Nazioni Unite e che va sotto il nome di Summit on the Future: anche qui una modalità innovativa di dare vita ad una intelligenza e ad una innovazione su larga scala, mettendo a confronto diversi attori - istituzionali e sociali, profit e non profit. Il tema è, ancora una volta, il design del futuro, del futuro delle politiche pubbliche. Venendo più vicino a noi, e proprio guardando all’esperienza italiana, l’esempio obbligato è senz’altro quello della c.d. amministrazione condivisa. Sotto questa etichetta fortunata - nata dalla prassi vivifica delle comunità, dei territori, degli ecosistemi urbani, ma fatta propria dal legislatore (il riferimento principale è l’art. 55 del Codice del Terzo Settore) - confluiscono L’amministrazione condivisa è un laboratorio di innovazione un largo spettro di strumenti e di luoghi condivisi, pensati, cioè, per il design e l’attuazione concreta delle politiche pubbliche in modalità condivisa. È proprio questo il valore aggiunto e tratto distintivo dell’amministrazione condivisa (come bene emerge dall’analisi sul campo: si veda, B. Boschetti (a cura di), Verso un laboratorio dell’amministrazione condivisa. Primi risultati di una ricerca multidisciplinare, Quaderni Terzjus, Giappichelli Editore, 2024). Un punto di svolta epocale perché porta - ad un tempo - le politiche pubbliche fuori da una logica meramente performativa (e di costo pubblico) e l’interesse generale fuori dall’area di esclusiva pertinenza della pubblica amministrazione. Un punto di svolta che oggi, proprio grazie al Codice del Terzo Settore e all’intervento coraggioso della Corte costituzionale (tra tutte, la sentenza n. 131/2020) riguarda, in modo ordinario, tutti gli ambiti di politica pubblica in cui il Terzo Settore opera (la lista di ambiti, già lunghissima, è in continua espansione): ad esempio, sanità, lotta ai cambiamenti climatici, promozione dei fattori ESG e della cultura digitale. L’amministrazione condivisa, per esprimersi nella pienezza del suo potenziale, ha bisogno di strumenti e luoghi. Strumenti come la co-programmazione, la co-progettazione, l’accreditamento, le convenzioni, le partnership pubblico-privato (che possono prendere la forma negoziale di una concessione o quella organizzativa di una società consortile), attraverso cui dare vita a sinergie concrete tra diversi attori del territorio alle diverse scale in cui le politiche pubbliche prendono forma, aprendo ad un bisogno di nuove soluzioni (ad esempio, per valutazione di impatto o per la fattibilità economico-finanziaria), ma anche di nuovi saperi (ad esempio, capacità progettuali, di facilitazione dei processi di design comunitario, di selezione e replicabilità delle buone pratiche), di nuovi modelli organizzativi e, certamente, di un vero e proprio cambiamento culturale in tutti gli attori coinvolti (per un approfondimento sia consentito rinviare a B. Boschetti, a cura di, L’amministrazione condivisa come laboratorio di innovazione. Appunti e indicazioni per il futuro prossimo delle politiche pubbliche, Quaderni Terzjus, 2025, disponibile on-line). L’amministrazione condivisa richiede, inoltre, anche luoghi: luoghi, o, meglio, contesti spazio-temporali, per la messa in condivisione di idee, punti di vista, soluzioni, capitale umano e finanziario, infrastrutture informative, organizzative e digitali, sapere e saperi. Il diritto, dando forma ai procedimenti e processi decisionali, plasma molti di questi luoghi, di questi spazi/temporali. È interessante notare, però, che proprio la logica della condivisione sollecita la creazione di sempre nuovi luoghi condivisi: tavoli permanenti (come nell’esperienza di Brescia e ora nella legislazione di molte regioni italiane), iter informali di confronto tra i diversi attori (che scorrono in parallelo ai procedimenti amministrativi), piattaforme digitali di condivisione di esperienze di amministrazione condivisa (come previsto dalla legislazione umbra), infrastrutture per la regia delle esperienze di amministrazione condivisa, hub digitali per la condivisione di sapere e saperi. L’amministrazione condivisa è, insomma, un vero e proprio laboratorio di innovazione sociale corale, dal quale nulla e nessuno può essere lasciato fuori, tantomeno gli attori del mondo profit. *Professore Ordinario di Diritto amministrativo presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Classe di cittadinanza: così la scuola isola i nuovi italiani di Flavia Bevilacqua e Matilda Ferraris Il Domani, 29 giugno 2025 Il numero di studenti con cittadinanza non italiana è in costante aumento, ma l’integrazione scolastica è affidata all’iniziativa dei singoli istituti. L’isolamento delle classi con stranieri. Al numero 85 di via Bixio all’Esquilino, quartiere del centro di Roma, c’è un istituto comprensivo di medie ed elementari conosciuto in città per la composizione delle sue classi. Si tratta dell’istituto Daniele Manin di cui fa parte la scuola di Donato, che nel 2005 era stata definita la più multietnica d’Italia, con bambini di oltre 80 nazionalità diverse. La scuola è tra le partecipanti al progetto “il Multiforme”, a cui aderiscono vari istituti di Roma centro per rispondere a bisogni di inclusione, educazione alle emozioni e sostegno alla genitorialità. L’obiettivo è contrastare l’isolamento e lo svantaggio scolastico, ma è faticoso riuscire a portare avanti l’integrazione dei ragazzi da soli. “Ci sono genitori che mandano i loro figli qui proprio perché vogliono che diventino cittadini del mondo - dice Giuliana, maestra alla scuola primaria dell’I.C. Manin - però poi gli stessi non vogliono che i loro figli rimangano indietro. Hanno paura che non gli venga garantita “un’istruzione di altissimo livello”, ed è il motivo per cui poi abbiamo un basso tasso di iscrizioni dalle elementari alle medie. È molto complicato per la scuola combinare tutto”. I minori stranieri nella scuola italiana sono sempre di più, confermano i dati. Secondo le ultime statistiche ufficiali, nell’anno scolastico 2022/2023 gli alunni con cittadinanza non italiana erano 914.860, pari all’11,2 per cento del totale (circa uno su dieci studenti), con un incremento del 4,9 per cento rispetto all’anno precedente. Non tutti però hanno difficoltà linguistiche: molti sono nati in Italia o vi risiedono da anni. Si tratta delle cosiddette seconde generazioni, che rappresentano il 65,4 per cento degli alunni stranieri. Il restante 34,6 per cento appartiene invece alla “prima generazione”, ovvero studenti nati all’estero. Non esistono direttive nazionali in grado di gestire e favorire l’integrazione di questi studenti. La possibilità di offrire un percorso interno inclusivo dipende dalla volontà dei singoli istituti, ma solo alcuni riescono a inseguire fondi e partecipare a bandi pubblici. Molti altri no. I progetti e le scuole - Uno dei fattori che alimentano la segregazione scolastica è la distribuzione abitativa: nelle grandi città, le famiglie tendono a raggrupparsi per background economici e sociali simili tra periferie e centro. Ma oltre alla distribuzione abitativa un altro elemento chiave è la tendenza di famiglie italiane con maggiori risorse economiche e culturali a scegliere scuole percepite come più “di qualità”, evitando quelle con un’alta presenza di studenti stranieri o provenienti da contesti economicamente più fragili, spiega Valentina Paniccià, referente dell’impresa sociale Con i Bambini per il bando “Vicini di Scuola”, un’altra iniziativa che mira a migliorare la qualità dell’educazione nelle scuole primarie e secondarie di primo grado in contesti urbani e sociali complessi: con un investimento di oltre 12,4 milioni di euro, il bando ha finanziato 23 progetti e coinvolgendo circa 9mila studenti con storie migratorie. La segregazione così finisce per avere implicazioni profonde. sulla qualità dell’istruzione e sull’inclusione sociale. “In sostanza, la famiglia da cui provieni finisce per pesare molto sulla qualità della tua esperienza scolastica, che invece dovrebbe essere assolutamente equa e non discriminante”, dice Paniccià. Spesso poi le scuole con una forte concentrazione di studenti stranieri non hanno le risorse nemmeno per partecipare a bandi, perché per farlo bisogna saper scrivere i progetti, e questa attività non è retribuita. Dunque nessun progetto di cittadinanza attiva, niente mediatori culturali, nessun sostegno psicologico. Cosa fa la scuola - I finanziamenti non vengono sempre garantiti, perché in Italia al momento non sono attivi investimenti strutturali e statali su attività di inclusione degli studenti con storie di migrazione. A novembre 2024, per cercare di garantire una minima integrazione, il ministero dell’Istruzione ha annunciato lo stanziamento di 12,8 milioni di euro. Ma i fondi previsti servono a coprire solo poche ore settimanali di corsi di italiano, spesso lasciati all’organizzazione delle singole scuole. Dal 2025/2026 potranno essere assegnati docenti di italiano alle classi in cui almeno il 20 per cento degli studenti è straniero appena arrivato in Italia o non possiede un livello A2. Ma le classi che hanno uno o due soli studenti stranieri non italofoni: per loro non esiste alcun aiuto strutturato. Il problema è stato sollevato in più occasioni: è stata presentata una proposta per rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia, così che i bambini non italofoni potessero iniziare a familiarizzare con la lingua prima della primaria. La proposta però è stata bocciata. L’assenza di un piano nazionale strutturato lascia molto potere discrezionale ai dirigenti scolastici, con risultati estremamente variabili. Alcuni istituti attivano progetti per potenziare l’orario scolastico e facilitare l’apprendimento dell’italiano, altri scelgono di separare temporaneamente gli studenti per nazionalità o livello linguistico, con il rischio però di creare un altro livello di segregazione. “E così anche le scuole più insospettabili per ovviare al problema del ritardo del programma pensano di dividere in classi di italiani e classi di stranieri, contribuendo ad aumentare il divario ancora e di più”, conclude Castellani. Migranti. Nella relazione della Cassazione tutte le falle del progetto Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 giugno 2025 Oltre ai problemi con il diritto europeo, emergono possibili profili di incostituzionalità. Dopo quella sul decreto sicurezza, un’altra relazione del massimario mette in dubbio le leggi bandiera del governo Meloni. C’è un’altra relazione dell’Ufficio massimario e ruolo della Cassazione che non piacerà al governo: riguarda il protocollo Italia-Albania. A differenza di quella sul decreto sicurezza, su cui ieri è continuata la polemica politica, è stata redatta dal servizio civile, non dal penale. È datata 18 giugno ma non è finita sulla pagina web della Corte. Si può però trovare su Italgiure, la banca dati di “norme, giurisprudenza e bibliografia” della Cassazione. In queste ore sta circolando tra i giuristi e il manifesto ha potuto visionarla. Non si tratta di un documento segreto, anzi si sarebbe potuto trovare sul sito degli ermellini, con i tre dello stesso tipo pubblicati nel 2025. Se non fosse stato deciso di tenerlo riservato. Le 48 pagine tracciano una dettagliata anatomia giuridica di tutte le questioni che ruotano intorno ai centri di Shengjin e Gjader. Il punto di partenza è la legge di conversione del decreto che a fine marzo ha esteso l’uso delle strutture, inizialmente riservate ai richiedenti asilo mai entrati in Italia, ai migranti “irregolari” già presenti sul territorio nazionale. Ma lo studio affronta anche i nodi della stessa legge di ratifica del protocollo. Chiariamolo subito: non si tratta di un provvedimento che vincola i giudici della Corte, ma di una raccolta dei principali pareri della dottrina, l’insieme di elaborazioni teoriche che gli studiosi del diritto esprimono sulle questioni legali. Di fronte a novità normative, soprattutto se di grande rilevanza come il decreto sicurezza o il protocollo con Tirana, l’ufficio del massimario le riunisce a favore dei consiglieri della Cassazione, affinché abbiano una mappa con cui orientarsi. In particolare sui punti critici, rispetto ai quali esistono interpretazioni contrastanti. Le criticità relative al progetto Albania sono tante: la dottrina “ha espresso numerosi dubbi di compatibilità con la Costituzione e con il Diritto internazionale”, si legge nel testo. La cosa interessante è che riguardano molte più questioni di quelle sollevate finora dai giudici, siano di Tribunale civile, Corte d’appello o Cassazione. Quest’ultima il 29 maggio scorso ha chiesto alla Corte di giustizia Ue di chiarire se il trasferimento dei migranti “irregolari” in un paese terzo sia compatibile con la direttiva rimpatri e, in caso di risposta affermativa, se la permanenza oltre Adriatico di chi chiede asilo a Gjader rispetti la direttiva procedure. Tra il protocollo Albania e il diritto europeo c’è una relazione complicata, zeppa di contraddizioni e buchi neri: trattandosi di un inedito assoluto, in attesa che si consolidi una giurisprudenza delle corti superiori, i dubbi superano le certezze. Ad ogni modo secondo alcuni giuristi è possibile che in linea di principio siano compatibili (anche se al prezzo di forti incoerenze su vari elementi concreti). Invece la dottrina maggioritaria, si legge nella relazione, sostiene che “il Sistema europeo comune di asilo ha una dimensione squisitamente territoriale” e per questo fare domanda di protezione nel territorio di un paese terzo crea discriminazioni, riducendo le tutele previste dalle direttive. Un esempio su tutti: oltre Adriatico mancano misure alternative al trattenimento, fatto che si traduce nella detenzione generalizzata dei richiedenti vietata dalle norme Ue. Prima ancora dei risvolti europei, però, c’è un piano che i diversi tribunali non hanno ancora esplorato: il rapporto tra protocollo e Costituzione. La relazione sottolinea diversi punti di attrito potenziali, su cui in futuro potrebbe essere necessario l’intervento della Consulta. Rispetto all’articolo 3, uguaglianza davanti alla legge, perché il protocollo parla genericamente di “migranti” senza definire precisamente chi va trasferito in Albania: crea così una disparità di trattamento tra gli stranieri. Tale specificazione non è presente neanche nella legge di ratifica, si trova solo nelle procedure operative standard del Viminale e ciò può violare la riserva di legge dell’articolo 10 Costituzione, sul diritto di asilo. Che lì è formulato in modo particolarmente estensivo e prevede una serie di garanzie che il protocollo rischia di violare: il riferimento al “territorio della Repubblica” giustificherebbe il diritto dello straniero ad accedere nel territorio dello Stato, mentre Gjader si trova in un altro paese. Ulteriori problemi possono sorgere rispetto all’articolo 13, inviolabilità della libertà personale, perché quando terminano gli effetti del titolo di trattenimento è materialmente impossibile rimettere subito la persona in libertà. L’attesa del trasporto in Italia crea una detenzione sine titulo, che può durare ore o addirittura giorni. C’è poi la questione del diritto di difesa, articolo 24, che oltre Adriatico è fortemente compromesso (per le modalità dell’udienza di convalida da remoto e le difficoltà a incontrare gli avvocati). Su questo pesa anche la riduzione dei tempi per il ricorso, abbattuti ad appena una settimana per tutte le procedure che riguardano Gjader. La relazione si concentra poi su un altro tema di dubbia legittimità che, nonostante le sollecitazioni dei legali dei migranti, non è ancora stato affrontato dai giudici. È quello della selezione dei cittadini stranieri da deportare in Albania: la dottrina sottolinea la mancanza di disposizioni di legge che stabiliscano in modo tassativo i presupposti per il trasferimento. Non è nemmeno prevista l’adozione di un provvedimento scritto e motivato. Si configura così una discrezionalità amministrativa in materia di libertà personale che può violare il dettato della Costituzione. Analoga carenza esiste pure per gli spostamenti tra i Cpr nazionali, a differenza di quelli tra i penitenziari, ma diventa molto più grave se in mezzo c’è un altro Stato. Dove sono a rischio anche le garanzie del diritto alla salute e alla tutela della vita familiare e privata. Insomma le contraddizioni tra protocollo Albania e fonti sovraordinate (nazionali o europee) che emergono dalla relazione sono molto più numerose di quelle vagliate finora dai tribunali. La scontro tra governo e magistratura - o meglio: tra pretesa di arbitrio del potere esecutivo e garanzie dei diritti fondamentali - è soltanto all’inizio. Migranti. L’allarme dei medici: “I Cpr mettono a rischio la vita” di Andrea Capocci Il Manifesto, 29 giugno 2025 Salute nei CPR Appello della Federazione Nazionale degli Ordini. Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) devono essere chiusi perché “sono sistematicamente e profondamente patogeni e mettono a rischio la salute e la vita delle persone che vi vengono detenute”. La posizione e la citazione sono della Società italiana di medicina delle migrazioni e ieri l’appello è stato accolto anche dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo). Secondo i medici che si occupano della salute dei migranti la natura stessa dei Cpr impedisce di rispettare il giuramento di Ippocrate che impegna ogni professionista: “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario”. Per questo, da giorni circola il loro appello a concludere l’esperienza dei Cpr e la richiesta che sia tutta la classe medica nel suo complesso a prendere posizione e a non collaborare con politiche sull’immigrazione che calpestano il diritto universale alla salute. L’appello è stato supportato da medici da sempre in prima linea nella salvaguardia della dignità di chi attraversa le frontiere come la medica legale dell’università di Milano Cristina Cattaneo, l’esponente di Medicina democratica Vittorio Agnoletto, l’igienista Gavino Maciocco, la presidente e la responsabile medica di Medici Senza Frontiere Monica Minardi e Chiara Montaldo. Oltre alla chiusura dei centri, i medici della migrazione chiedono che “si dichiari che nessun professionista della salute (…) possa fornire e tantomeno essere costretto a fornire le proprie prestazioni professionali in tali luoghi funzionalmente alla loro operatività (ad esempio tramite la sottoscrizione di valutazioni di idoneità alla reclusione nei Cpr, richieste dalle autorità di polizia) in Italia e all’estero, in quanto privi delle tutele essenziali per le persone detenute e contrari all’etica professionale della cura”. La federazione degli ordini dei medici, che riunisce tutti i professionisti attivi in Italia, venerdì ha accolto e rilanciato l’appello. Non farà piacere al governo il sostegno del massimo organo di rappresentanza della classe medica a un documento che non fa sconti alle attuali politiche migratorie. “Nella sostanza lo condividiamo” spiega al manifesto il presidente della Fnomceo Filippo Anelli. “Registriamo il malessere dei colleghi che vivono in prima persona queste situazioni e vorremmo che il problema dei diritti fosse maggiormente rappresentato. Non mi riferisco solo alle migrazioni, vale anche in ambito penitenziario: sarebbe utile una raccolta sistematica dei dati in questi contesti”. Esercitare la professione medica secondo deontologia oggi può mettere in conflitto con la legge? “Diciamo che l’organizzazione di questi luoghi di detenzione ostacola il soddisfacimento dei diritti”. Non aiuta nemmeno il contesto geopolitico. Con l’arretramento evidente del diritto internazionale, anche diritti fondamentali come quello alla salute valgono o meno a seconda dell’appartenenza nazionale e dell’orientamento politico del governo di turno. “Siamo preoccupati” conferma Anelli. “Il prossimo 10 luglio incontreremo a Roma i rappresentanti dei medici di Germania, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia. Insieme, chiederemo alla Commissione Europea non pensare solo a difendere i confini dell’Europa, ma anche il suo welfare”. Il piano di riarmo rischia infatti di sottrarre risorse economiche allo stato sociale. “Se per le spese militari passeremo da 45 a 145 miliardi, significa che per le armi spenderemo più che per la sanità (oggi il fondo sanitario nazionale è poco al di sotto dei 140 miliardi di euro, ndr). Per questo chiederemo che la difesa dei diritti sociali come la sanità pubblica non sia compressa dai vincoli di bilancio”. Droghe. Rischi sanitari e danni neurologici, ma in Italia la “droga del palloncino” rimane legale di Giulio Cavalli Il Domani, 29 giugno 2025 Dalla Francia al Portogallo, dalla Svezia alla Germania, è ora vietata la vendita ai minorenni, i governi hanno riconosciuto la pericolosità del protossido d’azoto e sono intervenuti. Il gas, incolore e con un sapore dolciastro, è usato da decenni in ambito medico, come anestetico lieve in odontoiatria e traumatologia. In Italia si è diffuso tra i giovani come droga euforica. Per raccontare questa storia si potrebbe partire da un paesino del cremasco. A Pandino qualche giorno fa il comandante della polizia locale e il sindaco hanno lanciato un appello pubblico dopo il ritrovamento di lattine sospette contenenti protossido d’azoto, comunemente noto come “gas esilarante” o “droga dei palloncini”. I giovani le utilizzavano per inalare il gas tramite palloncini, inseguendo brevi euforie e risate. In un video diffuso alla cittadinanza, il sindaco Piergiacomo Bonaventi e il comandante della Polizia locale Giuseppe Cantoni hanno denunciato i rischi del consumo ricreativo: perdita di coscienza, carenza di ossigeno, danni neurologici. Eppure quello di Pandino non è un caso isolato. È solo uno dei pochissimi comuni italiani ad aver tentato una risposta pubblica davanti a un fenomeno che nel resto d’Europa è già riconosciuto come una minaccia sanitaria. I numeri in Europa - In Francia, il 14 per cento dei giovani adulti tra i 18 e i 29 anni ha provato il gas almeno una volta. Nei Paesi Bassi lo ha usato il 14,5 per cento dei diciottenni e diciannovenni, e il governo è intervenuto con un divieto totale per uso ricreativo. Nel Regno Unito la percentuale tocca l’8,7 per cento tra i 16 e i 24 anni: anche lì il protossido è stato inserito tra le “droghe di classe C”, vietandone possesso e vendita per inalazione. In Danimarca, le segnalazioni ai centri antiveleni sono quadruplicate in sei anni. In Irlanda, un’indagine del 2021 ha rilevato che oltre il 23 per cento dei giovani che fanno uso di droghe aveva provato il gas. Le misure legislative si sono moltiplicate: dalla Francia al Portogallo, dalla Svezia fino alla Germania, dove in diversi Länder è ora vietata la vendita ai minorenni, i governi hanno riconosciuto la pericolosità del fenomeno e sono intervenuti. Anche l’Unione europea ha autorizzato nuove etichette obbligatorie di rischio, con la dicitura: “provoca danni al sistema nervoso in caso di esposizione prolungata”. Il gas, incolore e con un sapore dolciastro, è usato da decenni in ambito medico come anestetico lieve in odontoiatria e traumatologia. È anche impiegato nell’industria alimentare come propellente, identificato dalla sigla E942. E proprio da qui, dai sifoni per la panna montata o dalle bombole vendute online, passa oggi gran parte del mercato ricreativo. Basta una cartuccia da pochi grammi per ottenere, a meno di un euro, qualche minuto di euforia. Il problema è che questi effetti, per quanto rapidi, hanno un prezzo altissimo. La neurotossicità del gas è documentata. L’inalazione ripetuta inattiva la vitamina B12 e può portare a danni permanenti al midollo spinale, con sintomi che vanno dalle parestesie all’atassia fino alla paralisi. La degenerazione subacuta combinata del midollo spinale, un tempo rara, è ormai una diagnosi sempre più frequente tra giovani consumatori abituali. A questo si aggiungono i rischi immediati: ustioni da congelamento, disorientamento, perdita di coscienza, incidenti stradali. In Francia, il 92 per cento dei casi registrati nel 2023 riguardava consumatori abituali, spesso intossicati da bombole di grande formato. Il cuore del problema, in Italia, è che tutto questo è legale. Il protossido non è classificato tra le sostanze stupefacenti. Non c’è alcun divieto esplicito alla vendita per uso ricreativo. Nessuna norma vieta l’acquisto da parte di minori. Le cartucce sono vendute liberamente nei supermercati, le bombole online, anche con marketing diretto a un pubblico giovane. Le forze dell’ordine, anche volendo, non possono agire: non esistono i presupposti giuridici. E così non si registrano sequestri sistematici, non esistono indagini specifiche, e nemmeno una banca dati sugli accessi al pronto soccorso legati all’inalazione di N?O. Il risultato è un cortocircuito istituzionale. Il Sistema di allerta precoce ha recepito l’allarme lanciato dall’Emcdda, ma la relazione annuale al parlamento sulle tossicodipendenze del 2023 non dedica una riga ai danni sanitari o ai consumi interni. Mancano finanziamenti per studi clinici, mancano segnalazioni obbligatorie, manca persino un divieto simbolico. I pochi dati disponibili arrivano dalle cronache locali o da studi europei. Nessuna camera parlamentare ha mai discusso una riforma. Nel resto d’Europa il percorso è stato chiaro: rilevazione, allarme, intervento. In Italia si è scelto l’opposto: ignorare, minimizzare, tacere. Nessun ministro della Salute ha mai affrontato pubblicamente la questione. Nessun assessore regionale ha inserito il tema in un piano sanitario. Il risultato è un paese che si scopre impreparato, vulnerabile, e potenzialmente attrattivo per un mercato che altrove viene chiuso. Come già accaduto per i cannabinoidi sintetici o i popper, l’Italia rischia di diventare rifugio normativo per un commercio che altrove è vietato. La lotta alla droga non è una promessa da sventolare sui social e in campagna elettorale. Lo studio delle sostanze stupefacenti e della loro tossicità richiede studio, competenze, ascolto, lasciando da parte i citofoni suonati in diretta social o le dichiarazioni sensazionalistiche. Nel frattempo, i ragazzi continuano a ridere, convinti che una sostanza venduta al supermercato non possa fare male. E le istituzioni, in silenzio, li lasciano giocare con una tossina invisibile. Finché non sarà troppo tardi. Caso Almasri, il procuratore della Cpi: “L’Italia ha favorito la Libia e ha violato la cooperazione internazionale” di Enrica Riera Il Domani, 29 giugno 2025 Nell’ambito dell’inchiesta aperta presso la Corte penale internazionale sulla vicenda del rimpatrio del torturatore libico, interviene l’ufficio del procuratore. Che con una relazione di quattordici pagine chiede nuovamente ai giudici di effettuare “una constatazione formale di inadempienza contro lo Stato italiano e di deferire la questione all’assemblea degli Stati parti o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. È un documento di quattordici pagine in cui l’accusa - nella persona del giudice Nazhat Shameen Khan - mette nero su bianco le sue precisazioni rispetto alle osservazioni che l’Italia ha depositato presso la Corte penale internazionale ad aprile scorso sul caso Almasri. E cioè sulla vicenda del torturatore libico rimpatriato su un volo di Stato all’inizio dell’anno e per cui la Cpi ha aperto un fascicolo volto ad accertare le responsabilità dello Stato. “Oltre tre mesi dopo il rilascio di Almasri l’Italia solleva per la prima volta l’esistenza di una presunta richiesta di estradizione concorrente da parte della Libia. Ma la documentazione fornita dall’Italia non include alcun mandato d’arresto presumibilmente emesso dalle autorità libiche”, scrive la procura bacchettando il governo i cui esponenti - la premier Giorgia Meloni, i ministri Nordio e Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano - sono indagati a Roma per la stessa vicenda con le accuse di favoreggiamento e peculato. Non solo l’Italia ha applicato “erroneamente l’articolo 90 dello Statuto di Roma”, ma ha anche, secondo quanto scrive l’accusa nel documento diretto alla Corte, fatto dell’altro. “Avendo ricevuto due richieste concorrenti su Almasri (quella della Libia, presumibilmente, e quella della Cpi, ndr) non ha dato seguito a nessuna delle due: Almasri - si legge nelle quattordici pagine - non è stato consegnato alla Corte né è stato estradato (e arrestato) in Libia al suo ritorno. Invece, è stato rilasciato e trasferito in piena libertà a Tripoli, dove è stato accolto da una folla festante”. Italia “inadempiente” - Ma perché l’Italia sarebbe venuta meno agli obblighi derivanti dallo Statuto di Roma? Le ragioni addotte nelle sue osservazioni sono diverse e l’accusa del caso Almasri le ripercorre (e smonta) punto per punto. “L’Italia sostiene di non essere venuta meno agli obblighi previsti dallo Statuto perché in primo luogo, nell’esercizio dei suoi poteri giudiziari autonomi e indipendenti, la Corte d’Appello di Roma ha ordinato la scarcerazione di Almasri per presunti errori procedurali commessi dalla Polizia italiana al momento del suo arresto. In secondo luogo, il ministro della Giustizia non ha potuto rimediare al presunto errore procedurale (un mero errore tipografico) trasmettendo la documentazione pertinente alla (e come richiesto dalla) procura generale di Roma a causa della presunta richiesta di estradizione libica concorrente e delle presunte incongruenze all’interno del mandato di arresto della Cpi; in terzo luogo, il ministro dell’Interno ha ordinato autonomamente l’espulsione di Almasri dal territorio italiano in quanto si trattava della misura “più rapida” per garantire la sicurezza nazionale”. Tuttavia, come detto, per l’accusa qualcosa non quadra. Anzitutto “presunte carenze nelle procedure legali nazionali (o interpretazione delle stesse), non possono essere sollevate come scudo per proteggere uno Stato parte dal suo obbligo di cooperare con la Corte, o per compromettere qualsiasi richiesta di inadempienza - si legge nel documento. L’Italia ha indubbiamente omesso di dare attuazione alla richiesta della Camera di arresto e consegna di Almasri”. Ma poi “se è vero che il governo italiano - continua l’accusa - non poteva interferire con la valutazione di un organo giudiziario indipendente, l’ordine della Corte d’Appello di rilasciare il libico si basa su un’interpretazione errata della legge numero 237/2012: l’arresto effettuato dalla Polizia Giudiziaria di Torino sulla base di una nota Interpol, dopo che l’Italia aveva ricevuto le richieste attraverso il canale diplomatico stabilito, era legittimo e non era viziato da alcun errore procedurale”. Una contestazione viene fatta, inoltre, anche al ministro della Giustizia Nordio che, sempre secondo l’accusa, “avrebbe dovuto limitarsi a eseguire la richiesta trasmettendola al procuratore generale, considerato che in questi casi non si parla di sua discrezionalità”. In definitiva, “il ministro avrebbe potuto e dovuto rimediare ai presunti errori procedurali”. Il mistero del Falcon - Altro punto messo nero su bianco è un’osservazione ben precisa. Perché “l’Italia non ha consultato la Cpi?”. Certo, continua l’accusa “lo Stato ha riconosciuto di non aver consultato la Corte ma le argomentazioni addotte per giustificarsi capovolgono la logica della cooperazione internazionale prevista dallo Statuto di Roma”. Poi, si torna sulla presunta estradizione richiesta dalla Libia: “In ogni caso, l’Italia non aveva discrezionalità, avrebbe dovuto rimettersi alla Cpi: era una questione che spettava alla Corte”. La conclusione è che il governo abbia “raggiunto le sue conclusioni su premesse giuridicamente e fattualmente errate, favorendo le richieste della Libia e non eseguendo quelle della Cpi”. In ultimo l’accusa sottolinea che l’Italia nelle sue osservazioni di aprile “dimentichi” di spiegare “l’utilizzo del Falcon 900 per il rimpatrio”. Perché l’uso? “Del resto - si legge ancora - non si richiedeva il trasferimento di Almasri in Libia ma esclusivamente la sua espulsione dal territorio italiano”. Per tutti questi motivi “le osservazioni dell’Italia non forniscono alcuna spiegazione valida per la mancata collaborazione, l’esecuzione delle richieste di cooperazione della Corte e l’adempimento degli obblighi dello Statuto”. È così dunque che l’accusa chiede nuovamente alla Cpi di effettuare “una constatazione formale di inadempienza contro l’Italia e di deferire la questione all’assemblea degli Stati parti o al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. Iran. Uccise 71 persone nell’attacco israeliano sul carcere di Evin reuters.com, 29 giugno 2025 L’attacco israeliano di lunedì contro il carcere di Evin a Teheran, durante la guerra dei 12 giorni con l’Iran, ha ucciso 71 persone. Lo ha riferito la magistratura iraniana. “Secondo le statistiche ufficiali, 71 persone sono state uccise nell’attacco al carcere di Evin”, ha dichiarato il portavoce della magistratura Asghar Jahangir. Al momento dei raid erano detenuti nel carcere esponenti dell’opposizione e prigionieri stranieri o con doppia cittadinanza. Secondo il portavoce, citato da Mehr, tra le vittime figurano personale amministrativo del carcere, soldati di leva, detenuti, familiari di detenuti che erano in visita o si erano recati per seguire questioni legali e residenti locali che vivono nelle vicinanze del carcere. “Tragicamente, tra quei vicini, alcuni sono stati martirizzati”, ha aggiunto.