Le carceri italiane e il potere della cultura come strumento di rinascita di Ada Rizzo alessandria.today, 28 giugno 2025 Le condizioni delle carceri in Italia sono da tempo al centro di dibattiti e preoccupazioni: sovraffollamento, carenze strutturali, scarsità di risorse e un sistema che fatica a garantire una reale riabilitazione dei detenuti. Di fronte a queste sfide, si rende sempre più urgente trovare soluzioni innovative e sostenibili che possano favorire il recupero sociale e personale di chi si trova dietro le sbarre. Un esempio illuminante, già sperimentato con successo in Brasile, è il programma di “Remissione per la Lettura”: un’idea che potrebbe rappresentare un percorso virtuoso anche nel contesto italiano. In Brasile, dal 2012, alcuni istituti penitenziari hanno adottato un sistema che permette ai detenuti di ridurre la pena attraverso la lettura di libri e la produzione di recensioni. Questo approccio non solo favorisce l’alfabetizzazione, ma stimola anche il pensiero critico, l’autonomia e la motivazione al cambiamento. I partecipanti scelgono testi dalla biblioteca del carcere, li leggono e scrivono recensioni che attestino la loro comprensione e analisi. Per ogni libro recensito, la pena si riduce di un giorno, fino a 4,5 mesi all’anno. Una pratica che trasforma la lettura da semplice passatempo in uno strumento di riabilitazione attiva e partecipata. Se si cerca un parallelismo con l’Italia, si può notare che il sistema penitenziario spesso fatica a offrire ai detenuti opportunità di crescita culturale e sociale. La mancanza di programmi strutturati di educazione e riabilitazione culturale contribuisce al senso di marginalità e di esclusione che spesso accompagna la detenzione. Un modello come quello brasiliano potrebbe rappresentare una strategia efficace per promuovere l’alfabetizzazione, favorire l’autonomia e migliorare le prospettive di reinserimento. Inoltre, potrebbe contribuire a ridurre il senso di punizione come mera privazione, sostituendola con un percorso di crescita personale. Tuttavia, l’implementazione di un simile progetto in Italia richiederebbe attenzione a diversi aspetti: garantire l’accesso alle risorse, formare operatori capaci di valutare la situazione in modo costruttivo e adattare il modello alle specificità del nostro sistema penitenziario. È fondamentale anche coinvolgere le associazioni culturali e le istituzioni scolastiche, affinché la cultura possa diventare un ponte di speranza e di rinascita. L’esperienza brasiliana ci invita a riflettere sul ruolo della cultura come strumento di trasformazione sociale e personale. Potrebbe questa metodologia essere adottata anche nelle carceri italiane, contribuendo a creare un sistema più umano, inclusivo e orientato alla riabilitazione sociale? La sfida è grande, ma l’esempio di quel Paese dimostra che, con creatività e volontà, la cultura può diventare il primo passo verso una vita nuova, anche dietro le sbarre. Il saluto tra l’avvocato e il detenuto al 41 bis di Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane camerepenali.it, 28 giugno 2025 La spericolata segnalazione dei direttori delle carceri al consiglio distrettuali di disciplina forense. L’ennesima dimostrazione di come l’istituzione carceraria agisca sempre più con disumanità, calpestando e mortificando la dignità dei detenuti. L’ennesima segnalazione al consiglio distrettuale di disciplina forense di un avvocato colpevole, secondo il direttore del carcere sassarese di Bancali, di avere salutato il proprio assistito “con una stretta di mano e due baci sulle guance”, non solo esprime una diffusa ostilità, dinanzi ad ogni flebile e pur sporadico gesto di umanità, di chi, come la figura apicale del personale amministrativo penitenziario, dovrebbe invece improntare la propria condotta nel rispetto e secondo i valori espressi dalla nostra Costituzione; manifesta, anche, l’atavico pregiudizio, difficile da estirpare, secondo cui l’avvocato sia, al pari del proprio assistito, da identificare con il male rinchiuso nelle carceri, da contrapporre senza alcun discrimine, in una visione manichea, al bene rappresentato dall’apparato burocratico e di sicurezza delle prigioni. E così, nel segnalare da ultimo l’avv. Flavio Rossi Albertini, secondo una spericolata e arbitraria prassi già sperimentata in precedenza con gli avv.ti Maria Teresa Pintus, Barbara Amicarella (carcere di Bancali) e Piera Farina (carcere milanese di Opera), la direttrice del carcere, “tenuto conto della caratura criminale dei soggetti ristretti presso il reparto 41 bis di questo istituto ed il significato intrinseco che può avere tale saluto”, chiede al consiglio forense di disciplina “di valutare se il comportamento dell’avvocato sia deontologicamente corretto, anche al fine di dare le opportune indicazioni al personale di Polizia Penitenziaria che, con abnegazione e professionalità, assicura la vigilanza dei detenuti sottoposti al regime”. Già da queste battute traspare la reazionaria concezione ideologica del sistema carcerario, nonostante la chiara indicazione della Corte costituzionale con la decisione 18/2022. Un sistema che si basa su una “generale e insostenibile presunzione - già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 - di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”. L’idea, insomma, di una diversità morale tra chi opera per l’amministrazione e chi, invece, svolge la funzione insopprimibile di difensore del detenuto non è mai cessata, accoppiandosi bene con la mai sopita tendenza a confondere l’avvocato e l’assistito con il reato a quest’ultimo contestato. È proprio così che il diritto assume contorni magmatici, opachi, intrisi di una concezione tanto aberrante quanto accattivante: sei come chi, di volta in volta, difendi, ladro, stupratore, corrotto, mafioso. Quante volte assistiamo basiti a storie emblematiche di avvocati intercettati al telefono e negli studi legali, pedinati, sempre e comunque additati come potenziali conniventi, propaggine dei propri assistiti, protettori di nefandezze, rei, complici. Chi difende i ristretti in 41 bis lo sa bene che per accedere al colloquio difensivo dovrà lasciare la “Toga” fuori dal carcere e indossare i panni dell’accusato. Solo pochi fogli intonsi, da mostrare, prima dell’ingresso, agli agenti del GOM (Gruppo Operativo Mobile) cui è demandata la custodia di quelle sezioni, si possono portare con sé. Nessun appunto o atto processuale, sistematicamente violentati da un controllo capillare, senza rispetto per la segretezza e inviolabilità del rapporto difensivo. Potrà dotarsi esclusivamente di una penna Bic perché trasparente e inidonea a nascondere “pizzini”. Anche quando la persona ristretta è protetta da un vetro antiproiettile a tutta altezza, che la separa dal suo interlocutore, in un locale stretto, asfittico e di ferro - il cubo, dove si svolgono i colloqui - la porta alle spalle del difensore viene chiusa a chiave. Ci si arriva attraversando più cancelli, blindati ad ogni passaggio da grosse chiavi. Tutti i locali sono i medesimi dove si svolgono, una volta al mese e per un’ora, i colloqui con i familiari. Più telecamere sono puntate sull’incontro che, così assicurano, non può essere guardato, né ascoltato. Quando il difensore vorrà uscire dovrà bussare e attendere l’arrivo degli agenti. Tempi di attesa, a volte brevi, a volte no. Comunque, una coazione indebita che il difensore subisce, un tempo rubato alle sue occupazioni, al suo lavoro al suo impegno, alla sua libera scelta. Alla diffidenza verso il difensore, però, allo sguardo velato dal sospetto, nel caso in questione si aggiunge la volontà da sempre palesata di vedere le persone in 41 bis private dei più elementari diritti, strette in una morsa punitiva e di controllo totale sempre più sfaccettata e marcatamente irragionevole, poste sotto una lente distorta che vede il male e il marcio in ogni azione, anche la più ingenua, anche la più innocua, sottratte non solo al trattamento detentivo, alla relazione con educatori, psicologi, educatori, criminologi, alle attività ricreative, a veri spazi all’aperto, perfino alla luce del sole o alle lacrime della pioggia, ma anche a ogni conforto umano. In 41 bis ci sono persone che da trent’anni non stringono una mano; che non ricevono o fanno una carezza, né un abbraccio; che apprendono della morte dei loro cari restando soli nel silenzio; che vengono sanzionati con l’isolamento perfino se rivolgono un cenno di saluto incontrando un altro ristretto quando vengono “movimentati”, parola struggente che disegna icasticamente una voluta perdita di umanità. Ancor più in questi casi, il difensore non può rendersi complice di un imperativo deumanizzante, di una politica tesa all’annientamento del detenuto. Più di ogni altro deve esprimere con forza il rispetto dell’umanità di chi è ristretto e la tutela della dignità ad essa connaturata, respingere fermamente la logica ghettizzante che nutre il “diritto penale del nemico” e costruisce, per chi è al 41 bis, una morte del pensiero, dell’azione, dell’emozione, della speranza. Lo sanno bene gli avvocati, più volte, nel carcere di Sassari e di Milano-Opera, segnalati - ieri, come oggi - ai rispettivi consigli disciplinari da funzionari di uno Stato che ha smarrito la propria dignità, che rinnega il senso e il rispetto della propria umanità, pensando, così, di intimidire il difensore per costringerlo a rendersi complice attivo della disumanità imperante. Lo sa bene l’intera comunità degli avvocati come dimostra l’archiviazione disposta all’unanimità, in uno dei quattro casi citati, dal consiglio disciplinare territorialmente competente, dell’esposto trasmesso dal carcere di Sassari in quanto “non esiste nessuna disposizione violata, giacché non esiste norma, circolare o avviso” che possa stabilire “le regole da rispettare nel momento dei saluti tra detenuti e difensori, né tantomeno che vieti al difensore di salutare il proprio assistito con un bacio sulla guancia piuttosto che con una pacca sulla spalla”; né tale condotta appare “astrattamente idonea a ledere i principi generali di indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza previsti dall’art. 9 del Codice Deontologico”. Avvocato nel mirino per il saluto a Colpito. Processo all’umanità di Vito Cimiotta* L’Unità, 28 giugno 2025 Due baci sulla guancia. È bastato questo gesto, antico quanto il linguaggio umano, per generare un caso che ha dell’incredibile. Nel carcere di Bancali, a Sassari, l’avvocato Flavio Rossi Albertini - noto per la sua rigorosa attività di difesa dei diritti fondamentali, anche nei contesti più spinosi - ha salutato il proprio assistito Alfredo Cospito con un semplice, sobrio gesto di affetto. Non in segreto. Non di nascosto. Alla luce del giorno, in presenza della polizia penitenziaria. Eppure, quel gesto è stato ritenuto così sconveniente da meritare una segnalazione al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati da parte del direttore del carcere. Non una denuncia. Non un illecito penale. Ma una sanzione morale travestita da atto disciplinare. Come se riconoscere, anche solo per un istante, la dignità residua di un detenuto sottoposto al 41-bis fosse, di per sé, un atto sospetto. Nella nostra tradizione culturale, il saluto ha un valore che trascende la forma. È il gesto che inaugura la relazione, che afferma: “Tu esisti per me”. Quando tutto è privazione, isolamento, controllo, quel gesto - per quanto semplice - assume un significato profondo. Non è una concessione emotiva, ma una dichiarazione di principio: anche nella durezza della pena, la persona non cessa di esistere. Dire che “il saluto lo ha lasciato Dio” è un modo per denunciare l’inquietante deriva in cui persino i gesti minimi di riconoscimento umano vengono guardati con sospetto. Un saluto, in un carcere, può diventare sovversivo solo in un contesto in cui l’umanità è già stata esiliata. L’avvocato non è un burocrate del processo. È, costituzionalmente, un soggetto essenziale della giurisdizione, e come tale non può essere ridotto a ingranaggio freddo e impersonale. Difendere un imputato non significa approvare le sue idee, né assolvere i suoi atti. Significa garantire che anche il nemico dello Stato sia protetto dalle regole dello Stato. È in questo paradosso - che è anche la gloria del diritto - che si misura la civiltà giuridica di un Paese. Flavio Rossi Albertini ha semplicemente interpretato fino in fondo il suo ruolo: non quello dell’amico o del complice, ma quello dell’avvocato. E l’avvocato, quando agisce con umanità, rafforza - non indebolisce - lo Stato di diritto. La segnalazione all’Ordine appare più come una forma di censura morale che come un legittimo atto di vigilanza deontologica. È una sanzione simbolica rivolta a chi ha osato non disumanizzare il proprio assistito. A chi ha sfidato - con due baci - la liturgia del sospetto, il culto dell’impersonalità, la religione della distanza. Ma un ordinamento giuridico che ha paura del saluto, che reprime l’umanità, è un ordinamento che comincia a perdere sé stesso. Un saluto, quello del difensore, a chi, da dietro le sbarre, continua a interrogarsi sul senso della vita. La pena non cancella la dignità, né spegne l’umanità. Per il difensore, il compito non è solo giuridico, ma profondamente umano: riconoscere la persona oltre l’errore, l’uomo oltre il reato. Difendere è credere che ogni vita possa riscattarsi, che il diritto serva anche a ricostruire. In quell’incontro nasce una forma di speranza: fragile, ma autentica. Oggi non è sotto accusa un bacio. È sotto accusa l’idea che anche nel carcere, anche nel 41-bis, esista un confine che la durezza non deve superare: quello della disumanizzazione. Se oggi permettiamo che l’avvocato venga colpito per aver semplicemente salutato, domani accetteremo che la difesa stessa venga gradualmente neutralizzata, depotenziata, delegittimata. La Costituzione non impone all’avvocato di essere distante, indifferente, senz’anima. Gli impone di essere libero. E in uno Stato libero, due baci non dovrebbero far tremare nessuno. Semmai, dovrebbero ricordarci che il diritto - senza l’umanità - non è altro che un freddo strumento di potere. *Segretario Camera Penale di Marsala Reato di tortura, la risposta a Salvini: “Giù le mani da un simbolo di civiltà” di Simona Ciaramitaro collettiva.it, 28 giugno 2025 Il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, ha dichiarato che “serve circoscrivere il reato di tortura”. Ci si potrebbe chiedere se, a nostra insaputa, gli sia stato attribuito anche il dicastero dell’Interno, ma, nonostante ritornare al Viminale sia sempre stato il suo desiderio, non è così. Motivo per il quale in molti obiettano che, visto lo stato disastroso del trasporto pubblico italiano, Salvini farebbe meglio a occuparsi della materia alla quale è stato preposto, anziché occuparsi di altro. Oltre alle parole ci sono i fatti, perché in una conferenza stampa a Montecitorio la Lega ha presentato un ‘pacchetto carceri’ che prevede la dotazione di taser per i poliziotti penitenziari, l’assistenza processuale in caso di indagini a loro carico, una riduzione e una revisione del reato di tortura. Un’iniziativa salviniana, tanto che il ministro dei Trasporti ha voluto precisare che la polizia penitenziaria svolge un mestiere “prezioso” fatto “in condizioni delicatissime”, come se gli fosse stato obiettato il contrario e questo fosse il punto della discussione. I punti sono ben altri, invece, come sostenuto dalla segretaria della Cgil nazionale Daniela Barbaresi, la quale, come prima cosa, ricorda che “avere introdotto il reato di tortura nel nostro ordinamento è segno intangibile di civiltà e democrazia e come tale va assolutamente mantenuto” e proprio per questo “va respinto ogni tentativo di abrogazione degli articoli che lo hanno previsto nel codice penale”. Dal ministro strumentalizzazione degli agenti di Polizia - Quindi la segretaria confederale della Cgil risponde indirettamente a Salvini, affermando che “suscita una profonda indignazione la giustificazione portata a sostegno della sua tesi con l’affermazione che il reato di tortura impedirebbe alle lavoratrici e ai lavoratori di polizia di svolgere il proprio lavoro, soprattutto per quanto riguarda il trattamento e la repressione di comportamenti del detenuto. A maggior ragione, dopo l’introduzione del reato di resistenza passiva in carcere, rappresenta un arretramento culturale, politico e giuridico”. Quanto emerge, invece, secondo Barbaresi è “un preoccupante e pericoloso uso del potere che una certa destra intende fare delle Forze di polizia, la cui tutela si deve poter realizzare attraverso la difesa dello Stato di diritto e non mettendo in discussione il reato di tortura. Il cittadino in qualsiasi condizione giuridica si trovi va tutelato nei suoi diritti fondamentali senza dover subire vessazioni e violenza”. Importante per la segretaria è ricordare che le lavoratrici e i lavoratori in divisa non hanno paura di una norma che serve a tutelare i diritti umani ma vogliono invece lavorare nel rispetto della democrazia, dei valori costituzionali e dei diritti inviolabili dell’uomo. “Quello che serve realmente ai lavoratori in divisa - prosegue - non è un intervento legislativo che cerca il consenso dell’opinione pubblica con una distorta visione della sicurezza in forma repressiva e che solletichi interessati propositi corporativi”. In quanto sindacalista, Barbaresi conclude affermando che “il sostegno alle Forze di polizia e a quelle armate dovrebbe concretizzarsi in ben altro. Serve un riconoscimento della loro capacità professionale attraverso risorse economiche destinate ai rinnovi contrattuali, formazione continua e permanente, investimenti per un piano assunzionale che implementi gli organici per garantire l’efficienza del servizio di sicurezza eliminando i turni di servizio massacranti, il rispetto dei contratti collettivi e una piena tutela dei loro diritti”. Sicuritarismo e propaganda - Una risposta alle dichiarazioni di Matteo Salvini l’abbiamo chiesta anche a chi è impegnato all’interno delle carceri sul fronte dell’associativismo, quindi a Simona Filippi, avvocata di Antigone che come associazione è sempre stata in prima linea sull’importanza dell’introduzione del reato di tortura: “Ritengo si tratti di mera propaganda politica, perché l’Italia ha introdotto questo reato poco tempo fa a causa di una condanna da parte della Ue con la famosa sentenza Cirino Renne secondo la quale il nostro Paese non stava rispettando pienamente accordi internazionali che implicavano anche questo passo”. Per Filippi è gravissima l’ipotesi di rivedere il reato di tortura. “I giudici fanno valutazioni molto attente quando devono giudicare questo reato e proprio di recente un processo celebrato a Reggio Emilia, si è concluso con una derubricazione del reato perché il giudice ha ritenuto che in quel caso gli agenti di Polizia penitenziaria non potessero essere condannati per quel reato. Questo significa che il reato esiste, ma esistono tribunali e giudici che ne danno l’applicazione secondo il caso specifico”. L’avvocata ribadisce che i poliziotti si difendono nelle aule di giustizia da quelle contestazioni e i giudici valutano a seconda delle circostanze, quindi modificare o eliminare il reato di tortura non ha senso “rispetto a quello che accade quotidianamente nei tribunali italiani, dove purtroppo i processi per tortura sono diversi”. Infine, aggiungiamo noi, colpisce il tempismo (che vanta precedenti) del ministro dei Trasporti, il quale ha pronunciato i suoi fermi propositi proprio alla vigilia della Giornata internazionale delle vittime di tortura, istituita dalle Nazioni unite per il 26 giugno e durante la quale, o in vista della quale, la cosiddetta buona grazia vorrebbe donne e uomini delle istituzioni pronunciare parole di condanna verso una pratica disumana. La nuova crociata di Salvini è circoscrivere il reato di tortura in Italia di Lucrezia Agliani ultimavoce.it, 28 giugno 2025 Alla vigilia della Giornata Internazionale per le Vittime di Tortura, che si celebra proprio il 26 giugno, la Lega ha presentato, con un agghiacciante tempismo, un pacchetto di proposte sulle carceri che ha scatenato un’immediata tempesta politica per il pericoloso obiettivo. Matteo Salvini ha infatti rivendicato di circoscrivere il reato di tortura. Ciò significa aprire la procedura per la modifica del reato di tortura, l’introduzione del taser per gli agenti della polizia penitenziaria e la garanzia del patrocinio legale gratuito per coloro che si trovano sotto inchiesta. Un progetto definito da Matteo Salvini come una necessaria azione di tutela verso chi lavora nelle carceri “in condizioni delicatissime”, ma che per le opposizioni rappresenta un pericoloso attacco ai diritti fondamentali. Le reazioni: opposizione in rivolta - Le dichiarazioni di Salvini hanno subito incontrato il muro dell’opposizione contro la volontà di circoscrivere il reato di tortura. La senatrice Ilaria Cucchi (AVS) ha denunciato l’iniziativa come “propaganda politica sulla pelle delle vittime”, citando direttamente il massacro nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. A lei si sono uniti esponenti del PD, del M5S e di Più Europa, denunciando un clima autoritario e un tentativo di scardinare tutele fondamentali. “Prima la tortura, poi la pena di morte?”, ha provocatoriamente chiesto Debora Serracchiani del Partito Democratico, mentre il senatore Alfredo Bazoli ha accusato la Lega di voler “liberalizzare la repressione”. Alla base della proposta leghista di circoscrivere il reato di tortura c’è l’idea di ridurre la pressione giudiziaria sugli agenti penitenziari. Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ha spiegato che “non è accettabile che un agente venga iscritto nel registro degli indagati senza verificare se esistano cause di giustificazione”. Il pacchetto prevede quindi non solo il gratuito patrocinio legale, ma anche una revisione del reato di tortura, considerato troppo vago e penalizzante per le forze dell’ordine. Secondo Ostellari, il taser, “se usato in modo regolamentato”, sarebbe uno strumento utile per ristabilire la sicurezza negli istituti penitenziari. Durante la conferenza alla Camera, Antonio Fellone, responsabile carceri della Lega, ha aggiunto un ulteriore elemento polemico sostenendo che “il 90% degli eventi critici nelle carceri coinvolge detenuti stranieri, in particolare nordafricani”, alimentando così la retorica e una narrazione sempre più xenofoba e allarmista. Un’affermazione che ha avuto il sapore di un attacco etnico e ha rilanciato la consueta retorica leghista del “mandiamoli a casa loro”. Un linguaggio che, secondo molti osservatori, tende a spostare il dibattito dalle reali condizioni del sistema penitenziario a un piano ideologico e identitario. La fragilità della legge sulla tortura e i timori del mondo giuridico - La legge italiana sul reato di tortura è entrata in vigore solo nel 2017, in ritardo rispetto alla gran parte degli Stati europei, dopo anni di resistenze soprattutto da parte dei partiti di destra. Nonostante la sua esistenza, il reato è raramente contestato nei procedimenti giudiziari per via delle numerose ambiguità interpretative. Per le associazioni per i diritti umani, tra cui Antigone, rappresenta comunque un presidio minimo e irrinunciabile. Il presidente Patrizio Gonnella ha ricordato come la tortura sia un crimine contro l’umanità sancito anche dalla nostra Costituzione. “Chi propone di modificarla - ha detto - si pone fuori dall’ordine costituzionale”. Non è la prima volta che Salvini tenta di portare avanti misure simili. Sei mesi fa aveva già cercato di introdurre uno scudo penale per le forze dell’ordine attraverso il ddl Sicurezza, successivamente trasformato in decreto e ad oggi in vigore. Ora rilancia la battaglia da Montecitorio, in un clima che sa di comizio permanente più che di riflessione istituzionale. La sala Salvadori, gremita di agenti, ha fatto da cornice a un discorso che ha puntato tutto sull’enfatizzazione del ruolo della polizia penitenziaria come vittima del sistema giudiziario e mediatico. Il tentativo di ridurre le garanzie giuridiche nel nome della sicurezza e di circoscrivere il reato di tortura rischia di creare un corto circuito pericoloso tra propaganda politica e diritti umani. Mentre le opposizioni promettono battaglia in Parlamento, resta il nodo di un sistema carcerario in crisi strutturale, che avrebbe bisogno prima di tutto di più risorse, personale e formazione. Più che di taser o di scudi penali, forse servirebbe una visione più ampia e meno strumentale del rapporto tra legalità, giustizia e umanità. Come ricorda Antigone, la volontà di compromettere e, in questo caso, circoscrivere il reato di tortura è un attacco estremamente pericoloso alla dignità e alla vita umana, che ancora una volta si vede privata della verità e asfaltata dall’impunità delle forze dell’ordine. Sebbene il diritto internazionale, le organizzazioni e le associazioni riconoscano il reato di tortura come qualcosa di effettivamente perseguibile e punibile, ad oggi in Italia la pratica della tortura esiste in maniera sistemica e quotidiana. La mossa politica di Salvini e del suo partito sono volti “semplicemente” a legittimare e riconoscere legalmente una serie di reati e abusi che già esistono e avvengono. Sebbene il reato di tortura sia arrivato nel 2017, dunque relativamente presto, a seguito di un iter legislativo contorto e complicato, si iniziò effettivamente a parlare del suo riconoscimento dal G8 di Genova del 2001, una delle pagine più buie della storia italiana, che ha macchiato di sangue intere generazioni - sia di quel tempo sia degli anni a venire. A seguito dei fatti della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, dopo la morte del giovane Carlo Giuliani in Piazza Alimonda, la Corte Europea dei diritti dell’uomo definì quegli episodi come vere e proprie torture, con l’aggravante dei depistaggi e insabbiamenti per coprire le responsabilità del corpo di Polizia. Successivamente, la Corte di Strasburgo si pronunciò sull’assenza del reato di tortura in Italia, riconoscendo che tutti gli abusi avevano maggiore possibilità di rimanere impuniti e di non essere perseguiti nel modo giusto dalla legge, così da annientare, per sempre, ogni lotta per la verità e la giustizia. La Cassazione boccia il decreto Sicurezza di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 giugno 2025 Caso “unico” nel suo genere per l’abuso della decretazione d’urgenza, il pacchetto Sicurezza del governo Meloni - trasferito tal quale dal ddl al decreto legge - è a rischio di incostituzionalità, nel metodo e nel merito. A sottoscriverlo, questa volta, è addirittura la Corte di Cassazione che dedica a questa specifica novità normativa - non proprio as usual - un apposito report. “La prassi parlamentare annovera due soli precedenti di trasposizione dei contenuti di un progetto di legge in discussione in Parlamento in un decreto-legge, a suo tempo in effetti censurati dalla dottrina costituzionalistica e, in ogni caso, nessuno dei due riguardava la materia penale”, scrive il Servizio penale dell’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte Suprema nella relazione 33 pubblicata il 23 giugno 2025. In 129 pagine mette a fuoco anche tutti i profili problematici e le manifeste criticità (qualcuna in più di quelle già molte volte segnalate) dell’”eterogeneo” contenuto dei 38 articoli del provvedimento governativo in vigore dal 12 aprile 2025. Pur dal carattere non vincolante, la relazione della Cassazione potrebbe costituire una solida base per eventuali ricorsi in Corte costituzionale. Citando le numerose associazioni di costituzionalisti, professori di diritto penale, magistrati (compresa l’Anm), giuspubblicisti (ad esempio, Articolo 21) e i tanti esperti auditi nelle commissioni parlamentari, nonché l’Osce e l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, il Massimario riporta “severe perplessità anzitutto sulla (in)sussistenza dei presupposti giustificativi per il ricorso alla decretazione d’urgenza, tanto più che neppure il governo proponente si era mai avvalso della facoltà, prevista dall’art. 72 Cost. e dai regolamenti parlamentari, di chiedere l’esame con procedura d’urgenza di quel disegno di legge”. “A ciò si aggiunge l’estrema disomogeneità dei contenuti”, si legge nella relazione, che “avrebbe richiesto un esame ed un voto separato sulle singole questioni”. Mentre “la conversione in legge li riunisce “a bordo” di un unico articolo”, in violazione della Costituzione (art. 72) laddove prevede l’analisi e il voto distinto per ciascun articolo. Il colpo di mano sul Parlamento potrà essere certificato, ricorda la Corta, in sede di “ricorso per conflitto di attribuzione da parte dei singoli parlamentari” (il primo è stato già proposto dal segretario di + Europa, Magi). Sul metodo, infine, la relazione ricorda che il decreto non è stato presentato alle Camere per la conversione in legge il giorno stesso, come invece obbliga l’art. 77 della Carta. Mancando dunque i presupposti costituzionali della decretazione d’urgenza, fa notare la Corte Suprema, si potrebbe determinare “l’invalidità della legge di conversione”. Quanto al merito, la Cassazione mette in guardia sul “rischio di colpire eccessivamente gruppi specifici, come minoranze etniche, migranti e rifugiati” e sulle potenziali “discriminazioni e violazioni di diritti umani”. Dalla disamina si evince l’estrema “incertezza applicativa” di alcune norme, per come sono state formulate le fattispecie di reato ma anche le aggravanti e gli aumenti di pena. in Molte parti del testo governativo i giudici riscontrano la possibile violazione dei principi costituzionali di “materialità”, “precisione e determinatezza”, “offensività”, “uguaglianza”, “autodeterminazione”, “ragionevolezza” e “libertà di manifestazione del pensiero”. Per esempio, nel caso di alcune aggravanti o sospensioni condizionali della pena che vengono applicate solo se il reato viene commesso in un determinato luogo (stazioni o convogli), da una persona in un determinato status (l’essere detenuto), o in un determinato contesto (“danneggiamento in occasione di manifestazioni”, che evidenzia il rischio - spiega la Corte - di considerare “disvalore” la “contestazione e il dissenso”). Discriminante è anche l’art. 15 che prevede l’esecuzione della pena negli Icam solo per le donne incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno (un giorno in più all’anagrafe del bimbo fa la differenza). Come lo è distinguere tra i pubblici ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza nei reati di resistenza o violenza: “disparità di trattamento”. Sempre in materia di ordine pubblico, il via libera a usare armi diverse da quelle d’ordinanza senza licenza non ha - attesta la relazione - alcun “plausibile ratio politico-criminale”. Nel caso delle rivolte in carcere e nei Cpr, “il precetto non fa alcun riferimento alla “legittimità” degli ordini impartiti per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza”, oltre a violare il “principio di proporzionalità” nell’eventuale uso di resistenza passiva. E poi ancora: la norma che punisce le occupazioni abusive presenta “eccessiva indeterminatezza”, è “di difficile configurabilità”, e non prevede alcuna possibile “forma di impugnazione”. Preoccupa particolarmente - “l’intervento più significativo e, per certi aspetti, più controverso” del dl - l’estensione dello scudo penale per gli 007 che creano o dirigono gruppi eversivi o terroristici “a fini preventivi”. E la “vera e propria fattispecie di volontà” che, in materia di terrorismo, sanziona “indistintamente comportamenti di carattere divulgativo” e attentati reali alla pubblica incolumità. Infine, last but not least, il divieto alla commercializzazione della cannabis (art. 18) “sembra impedire la libera circolazione di una merce all’interno dell’Ue in spregio al principio del mutuo riconoscimento e in rilevato difetto di esigenze imperative, non essendovi evidenze scientifiche che provino che le infiorescenze di canapa e i derivati di varietà di canapa con un contenuto di Thc inferiore allo 0,3% siano una minaccia per la sicurezza e la salute pubblica”. Decreto sicurezza, no della Cassazione. L’opposizione: “Bene”. Nordio: “Incredulo” di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 28 giugno 2025 La Suprema Corte: non c’era l’urgenza, dubbi di costituzionalità nel merito e nel metodo. In 129 pagine di relazione l’ufficio del Massimario della Cassazione ha sollevato critiche al decreto sicurezza del governo approvato il 4 giugno. Tante critiche, che colpiscono al cuore il provvedimento e sollevano i dubbi di costituzionalità. Si punta il dito, in particolare, contro “la decretazione di urgenza”, “le norme troppe eterogenee” e le “sanzioni sproporzionate”. Per la precisione: “È un provvedimento che apre la strada a una possibile violazione di plurimi principi di costituzionalità in materia penale”, scrive la Cassazione. E questa violazione viene segnalata nei punti fondanti del decreto, i più contestati. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: “Sono incredulo, ho dato mandato all’Ufficio di Gabinetto del ministero di acquisire la relazione e di conoscerne l’ordinario regime di divulgazione”. Per la Cassazione ci sono problemi con i reati in materia di contrasto al terrorismo e una questione sull’ampliamento dei poteri dei servizi segreti. Biasimo per “la logica securitaria delle norme contro il dissenso” e per i reati introdotti per punire i cosiddetti “blocchi stradali” utilizzati in manifestazioni di protesta come “strumento di disobbedienza civile”. Molto delicato il passaggio che dalle opposizioni è stato definito da subito “norma anti Gandhi” contenuto nel pacchetto carceri del decreto, prevede la repressione della resistenza passiva dei detenuti. Secondo il Massimario della Cassazione con questa norma si arriverebbe al paradosso di punire in carcere anche i detenuti che rifiutano il cibo o non vogliono usufruire dell’ora d’aria. Ancora: le norme contro la canapa vengono considerate “lesive della libera iniziativa economica senza evidenza scientifica” e le norme sulle detenute madri contenute nel decreto vengono bocciate in toto. “L’articolo 15 del titolo III del decreto rende facoltativo - e non più obbligatorio - il rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate in stato di gravidanza o madri di figli di età inferiore ad un anno”, rilevando quindi “la presenza di deviazioni da un diritto penale del fatto, inteso come fatto offensivo di un bene giuridico a favore di un diritto penale d’autore”. Le opposizioni esultano, la maggioranza non lesina critiche. “Il Massimario della Cassazione è il luogo della confusione” dice Fabio Rampelli, vicepresidente dei deputati di FdI. E aggiunge: “Nella lettura delle novità normative sottopone il dl sicurezza a giudizi che esulano dalla sua funzione, confondendo volutamente la presunta illegittimità costituzionale con i pareri di autorevoli giuristi, condannando quindi senza averne il potere una legge voluta dal Parlamento e promulgata dal Capo dello Stato”. Per Debora Serracchiani del Pd il decreto è “un calderone di norme eterogenee e vaghe. La sicurezza si fa con leggi serie, non con la propaganda”. Angelo Bonelli, uno dei leader di Avs, rilancia: “Con questo decreto si criminalizza il dissenso”. E dal M5S dicono che è “le opposizioni questo lo hanno denunciato senza sosta”. Riccardo Magi di +Europa: “La Cassazione conferma che questo decreto è una schifezza”, per Enrico Borghi di Italia viva “è una bocciatura”. Maurizio Gasparri, presidente dei senatori di Forza Italia: “Mentre si fa la riforma della giustizia, la Cassazione ci dà una motivazione in più per fare un cambiamento di regole. C’è un uso politico della giustizia, di cui si rende protagonista anche chi scrive questi pareri preventivi destinati soltanto a seminare confusione”. E il senatore leghista Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia: “Sulla pronuncia della Cassazione, un punto è chiaro: non è vincolante. Noi andiamo avanti”. Il Decreto sicurezza contrario alla Costituzione di Gaetano Azzariti La Stampa, 28 giugno 2025 Una morte annunciata quella del decreto sicurezza (ora convertito nella legge n. 80 del 2025). Dovremmo aspettare i giudizi della Consulta, ma è sin d’ora evidente che la caparbia volontà della maggioranza politica in materia di politiche di ordine pubblico cadrà di fronte alle palesi incostituzionalità delle norme che si sono volute introdurre a forza e contro ogni evidenza nel nostro ordinamento. Già durante la discussione parlamentare gli esperti auditi avevano avvisato delle numerose criticità costituzionali di molte delle misure che si volevano adottare, poi i magistrati e il CSM, ora la Corte di Cassazione. Persino il Capo dello Stato ha segnalato palesi incostituzionalità della prima versione del testo in discussione. Il Governo per tutta risposta ha peggiorato la situazione affiancando a previsioni palesemente irragionevoli nel merito uno strappo nella forma. Per evitare ogni discussione in Parlamento ha trasformato un “disegno di legge” in “decreto legge” senza alcun rispetto: a) per l’organo della rappresentanza che è stato esautorato; b) per la Costituzione che esclude si possa adottare una misura d’urgenza come il decreto del Governo senza motivazione alcuna o con motivazioni meramente “apodittiche”; c) per la giurisprudenza della Corte costituzionale che impedisce di utilizzare i decreti per regolare una pluralità di materie. Insomma, uno sfregio alla Costituzione oltre che al buon senso. Ma allora perché queste forzature? Due le possibili risposte, non so quale sia la meno inquietante. La prima è l’insipienza di una classe dirigente a digiuno di cultura costituzionale e convinta che la politica debba prevalere sul diritto. Lo scopo perseguito - l’ordine pubblico come priorità - giustifica qualunque mezzo. In fondo, che le ragioni del diritto siano in questo momento ben poco considerate dai poteri costituiti è un fatto assai diffuso basta guardare all’arroganza dei nuovi governati, da Tramp a Netanyahu. La seconda possibile ragione è ancor più allarmante. Non si tratta tanto di non aver sufficiente cultura costituzionale e consapevolezza giuridica di quel che si sta facendo, ma al contrario di un ricercato tentativo di cambiare registro. Contro la Costituzione e i suoi principi per provare volutamente a cambiare regime. Operando in via di fatto, anziché con riforme del testo costituzionale, con forzature volute contro i giudici, contro le opinioni dei giuristi, o almeno della maggior parte di essi. In fondo le continue polemiche nei confronti delle sentenze che non sono gradite (il caso Albania non è che la punta emergente di un profondo iceberg) appaiono sintomatiche di una volontà di scontro. Quando domani, come ormai appare inevitabile, la Consulta sarà chiamata a sindacare le misure più manifestatamente incostituzionali del “decreto sicurezza” e le farà cadere una ad una, come reagirà il Governo e l’attuale maggioranza? Urlerà ai giudici comunisti? Rivendicherà la superiorità della politica sul diritto? Proverà a rilanciare con altre misure ancor più irragionevoli e contra constitutionem? Credo che sia giunto il momento di fermarsi e tornare a prendere sul serio il diritto come limite del potere. Un’agenda tutta sulla sicurezza e la scure della Cassazione di Lina Palmerini Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2025 L’agenda internazionale da sola non basta. Per quanto Meloni abbia puntato molto sul palcoscenico dei grandi summit con o senza Trump, sa che in autunno dovrà mettere carne al fuoco nell’agenda nazionale. Finora, infatti, il bilancio lascia spazi in bianco. Di misure concrete c’è stato il taglio strutturale del cuneo fiscale che però non ha aiutato a recuperare del tutto i salari reali, per il resto il lavoro fatto fin qui si inserisce soprattutto nel filone dei temi identitari. E, quindi, immigrazione e tutto il capitolo su sicurezza e legalità. Si era cominciato con il contrasto ai rave party, si è finito con un Dl sicurezza su cui ieri è calato il giudizio pesantissimo dell’Ufficio Massimario della Cassazione. In particolare, si parla di rischi di incostituzionalità per l’assenza di necessità e urgenza, l’eterogeneità delle norme e la sproporzionalità delle pene. Si vedrà se davvero entrerà nel mirino della Consulta ma dal punto di vista politico, il Governo Meloni ha seguito il mainstream della nuova destra che ha spostato l’asse della contrapposizione con la sinistra sui temi culturali e dei valori, più che sulle ricette economiche. Anzi, proprio sul fronte della finanza pubblica c’è un certo allineamento con quello che è stato il “faro” del centro-sinistra, ossia la disciplina di bilancio. Con il ministro Giorgetti, l’Italia si è collocata in quel sentiero virtuoso che era il fiore all’occhiello dei Governi Prodi. E pure il taglio del cuneo fu battezzato dal secondo Esecutivo Prodi per poi essere ripreso da Draghi. E allora dove collocare la netta linea di demarcazione? Sull’identità culturale, appunto. Sui diritti omosessuali, sul free speech, sull’eutanasia o sulla cittadinanza agli stranieri oltre che “coprire” tutta la fascia legalitaria con nuovi reati. Resta, così, una grande attesa sull’agenda economica che dovrebbe essere il piatto forte per prepararsi alla sfida delle politiche. Fin qui, come si diceva, sono stati messi in sicurezza i conti, in vista di allargare i cordoni della borsa in campagna elettorale. Forse. Già perché la prudenza finanziaria è stata dettata anche dalla grande incertezza geopolitica - e sui dazi - che ha tenuto in stand by la promessa riforma delle aliquote Irpef, da sempre la vera scommessa del centro-destra. L’autunno ripartirà con questa esigenza: riempire gli spazi dei dossier economici. Intanto c’è la certezza che alcune riforme, come il regionalismo differenziato o il premierato, non saranno più le bandiere che erano state alzate per la campagna elettorale del 2022 e, poi, delle europee di un anno fa. Ed è in questo vuoto ancora da colmare che dovrebbe mettere radici il progetto dell’opposizione. L’unica certezza è l’arbitrio del potere di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 28 giugno 2025 La strada è segnata, il decreto sicurezza non potrà che approdare davanti alla Corte costituzionale, con ottime possibilità di essere bocciato. Ma basterà? Il cittadino somalo che l’altra notte è stato arrestato perché aveva disegnato Gesù e la Madonna sul muro della Cassazione probabilmente non lo saprà mai. Ma quando la polizia lo ha portato via, anche perché il decreto sicurezza prevede adesso un’aggravante a carico di chi imbratta un immobile pubblico “con la finalità di ledere l’onore, il prestigio o il decoro dell’istituzione” (un accusatore zelante potrebbe sostenere che quell’uomo volesse offendere i giudici terreni, insinuando che l’unica giustizia è quella divina), proprio i magistrati della Cassazione, dentro il romano “palazzaccio” imbrattato, avevano già demolito da cima a fondo il decreto sicurezza. Gli ermellini non sono magistrati impulsivi né poco prudenti. Eppure hanno scagliato una bomba contro la legge più rappresentativa del governo Meloni, quel decreto che è il vero programma politico della destra italiana al potere. Una legge, hanno scritto, smaccatamente contraria ai principi costituzionali, sia nel metodo - un disegno di legge trasformato in decreto eterogeneo e senza alcuna urgenza - che nel merito. Richiamando le critiche che praticamente chiunque abbia letto il decreto sicurezza ha già recapitato al governo, dall’Onu all’Ocse a centinaia di giuristi, la Cassazione ha trovato una mezza dozzina di possibili incostituzionalità, dalle pene irragionevoli e sproporzionate alla violazione delle libertà di pensiero e riunione. L’elenco è lungo e può sintetizzarsi così: nella sua ansia di colpire le marginalità e i potenziali avversari politici, il governo non si è preoccupato di definire con chiarezza i nuovi reati e le nuove aggravanti, ma ha costruito una categoria di presunti colpevoli. È quella che i giuristi chiamano la responsabilità penale d’autore: ti punisco non per quello che fai ma per quello che sei. Da sempre la porta d’accesso allo stato autoritario. La strada è dunque segnata, il decreto sicurezza non potrà che approdare davanti alla Corte costituzionale, con ottime possibilità di essere bocciato. Ma basterà? L’Italia non è l’America di Trump e la nostra Corte suprema offre garanzie di indipendenza. Eppure non è solo negli Usa che il contenimento giudiziario del potere politico, quando questo abbatte leggi e principi fondamentali, sta cominciando a mostrare la corda. Perché i capi che si appellano al popolo hanno ormai una capacità di costruire verità alternative non solo ai fatti ma anche alle stesse regole condivise. Del resto quelle regole trovano lontana origine nelle consuetudini e quando le consuetudini cambiano così vistosamente e spudoratamente senza che nulla lo impedisca, il gioco è quasi fatto. Bisogna tenere gli occhi molto aperti anche nel nostro paese. Il fatto che il governo abbia deciso di riprendere i trasferimenti dei migranti dai Cpr italiani al campo di concentramento albanese, malgrado proprio la Cassazione avesse rinviato la decisione alla Corte di giustizia europea, è un esibito disprezzo delle indicazioni dei giudici. Peggio ancora i rimpatri effettuati verso l’Egitto direttamente dall’Albania, espressamente vietati dal diritto dell’Unione europea eppure compiuti ugualmente e giustificati dal Viminale, una volta scoperto e affidandosi a fonti anonime, con il fatto che tanto il governo albanese è d’accordo. Meloni e Piantedosi stanno studiando Trump. Il giudice e il peso del dubbio di Fiorella Giusberti Il Riformista, 28 giugno 2025 Nel processo penale, il giudizio deve fondarsi su una convinzione “oltre ogni ragionevole dubbio”. È una formula nota, perfino solenne. Eppure, il suo significato resta sorprendentemente vago. Cosa distingue un dubbio qualunque da un dubbio ragionevole? E perché questa distinzione è così centrale per la giustizia? Il ragionevole dubbio rappresenta una soglia. Non si tratta di eliminare ogni incertezza, ma di valutare se, sulla base delle prove disponibili, una persona razionale possa ritenere fondata l’ipotesi della colpevolezza. È una soglia logica e conoscitiva, non un criterio matematico: non si calcola, si giustifica. In questo senso, non è soltanto una garanzia per l’imputato, ma una protezione per il sistema stesso, che riconosce i propri limiti di conoscenza e si impegna a non trasformare la probabilità in certezza arbitraria. Il diritto penale si trova sempre a giudicare fatti del passato, ricostruiti attraverso prove frammentarie e spesso incerte. Testimonianze, perizie, riscontri oggettivi: nessun elemento è di per sé definitivo. Anche la prova scientifica, come il DNA, non restituisce una verità totale. Indica, al massimo, una presenza o un contatto. Sta al giudice integrare i dati e costruire una narrazione coerente. Ma proprio questa costruzione non può fondarsi su un modello deduttivo, come una dimostrazione matematica: è un ragionamento induttivo, che parte da dati incompleti per giungere a una conclusione probabilistica. Il ragionamento giuridico, a differenza di quello deduttivo, non offre certezze. Non parte da premesse assolute per arrivare a conclusioni necessarie, ma da ipotesi che devono essere continuamente confrontate con i fatti. Si tratta, in fondo, di costruire scenari verosimili più che verità assolute, accettando che il punto d’arrivo sarà sempre un atto di sintesi, inevitabilmente esposto a margini d’errore. Può accadere che, nel valutare un insieme di elementi, si dia rilievo solo a quelli che confermano ciò che si pensa già: è un atteggiamento spontaneo ma fuorviante, noto come bias di conferma. Altre volte, le prime informazioni ricevute finiscono per influenzare in modo sproporzionato il giudizio complessivo: un effetto chiamato ancoraggio. Persino l’ordine in cui i dati vengono presentati può alterare la percezione di rilevanza, generando il cosiddetto effetto ordine. Tutti questi meccanismi, studiati dalla psicologia cognitiva, sono esempi di bias cognitivi: deviazioni sistematiche dal ragionamento razionale, che emergono proprio perché la mente umana tende a semplificare per decidere con efficienza. In ambito giudiziario, poi, la pressione emotiva, il contesto sociale, le aspettative culturali esercitano un’influenza reale, spesso sottile. Anche i giudici più esperti devono fare i conti con limiti attentivi e interpretativi. In questo senso, il concetto di ragionevole dubbio assume un ruolo di bilanciamento: non elimina il rischio di errore, ma lo riconosce, e impone di contenerlo. Il ragionevole dubbio ha infatti una doppia funzione protettiva. Da un lato tutela l’imputato dal pericolo di una condanna non pienamente giustificata: ricorda che, in assenza di elementi realmente convincenti, la libertà deve prevalere. Dall’altro lato protegge anche il giudice dal rischio di un’eccessiva fiducia nelle proprie conclusioni. È una forma di attenzione critica, che impone di interrogarsi non solo sull’esito della decisione, ma sulla qualità del percorso argomentativo che la sostiene. C’è un ulteriore aspetto che contribuisce a definire la qualità di una decisione giudiziaria: la possibilità di sottoporre a verifica l’ipotesi su cui si fonda. Una tesi accusatoria non dovrebbe essere ritenuta valida solo perché coerente o articolata, ma perché ha resistito a tentativi credibili di confutazione. In termini più generali, si tratta di chiedersi: può questa ipotesi essere smentita dai fatti? È possibile metterla alla prova attraverso il contraddittorio, il confronto con versioni alternative, o il vaglio critico delle prove? Questo principio, noto in filosofia della scienza come falsificabilità, è stato proposto da Karl Popper come criterio per distinguere le affermazioni scientifiche da quelle dogmatiche. Trasposto nel contesto giuridico, rafforza il senso stesso del ragionevole dubbio: non basta che una narrazione sia plausibile, è necessario che sia sopravvissuta alla prova della confutazione. Una tesi che non può essere falsificata, cioè messa alla prova, non è più giuridica, ma ideologica. Il ragionevole dubbio opera anche in questa direzione: non basta che una versione dei fatti sia plausibile, è necessario che sia sopravvissuta al vaglio critico. È, in questo senso, uno strumento di qualità cognitiva: non misura solo la forza di una convinzione, ma anche il rigore del percorso che la fonda. La giustizia non si basa su verità assolute, ma su verità che possiamo giustificare pubblicamente. Il diritto chiede di giudicare, ma la psicologia ricorda che giudicare è un atto cognitivo, esposto a limiti, errori e pressioni. Per questo la decisione giusta non è quella che elimina ogni dubbio, ma quella che sa distinguere i dubbi infondati da quelli ragionevoli. Nel processo, la verità è sempre una costruzione: solida quanto basta per sostenere una decisione, fragile quanto serve per restare umana. Il ragionevole dubbio non è allora un ostacolo da superare, ma una condizione di legittimità. Nel crepuscolo della probabilità, ciò che conta non è eliminare ogni ombra, ma sapere dove finiscono le luci della ragione e comincia il rischio dell’errore. E fermarsi prima. Carriere separate, così la “rivoluzione” di Nordio rischia di saltare di Valentina Stella Il Dubbio, 28 giugno 2025 Tempi troppo stretti per integrare la riforma con le norme attuative: il futuro Csm può restare in mano alle correnti. C’è il rischio che la modifica costituzionale per la separazione delle carriere si trasformi in una riforma inutile? La domanda non sembra oziosa, se si parte dal presupposto che uno degli obiettivi principali del legislatore è rinnovare il Csm con il metodo del sorteggio e se, contemporaneamente, si analizzano nel dettaglio le tempistiche di approvazione della riforma. Quello che sappiamo di certo al momento è che il ddl Nordio concluderà la fase di prima deliberazione con l’approvazione al Senato entro il mese di luglio. A settembre tornerà di nuovo alla Camera, a cui seguirà un ultimo ritorno a Palazzo Madama. Se è vero che ai fini della seconda deliberazione si passa direttamente alla votazione finale senza esaminare gli articoli (non sono ammessi emendamenti, questioni pregiudiziali e sospensive, né richieste di stralcio, né ordini del giorno), è altrettanto vero che se governo e maggioranza non vogliono allungare troppo i tempi, devono riuscire a chiudere l’iter parlamentare prima che inizi la discussione sulla legge di Bilancio. Altrimenti si rischia di arrivare al voto finale a gennaio 2026. Il che significherebbe, procedure alla mano, procrastinare il referendum dalla data auspicabile di inizio primavera all’inizio della stagione estiva. Ipotesi che creerebbe diversi problemi a Nordio e Meloni, a partire dal dissolversi sempre più profondo dell’effetto “luna di miele”: più ci si avvicina al rinnovo del Parlamento, più la vittoria referendaria è a rischio per un calo fisiologico dei consensi nei confronti dell’Esecutivo e, di conseguenza, rispetto a qualsiasi riforma ad esso associata. Ma il timore più grande che s’intravede dietro il possibile allungamento dei tempi, risiede appunto nel mancato raggiungimento dell’obiettivo principale che si è prefissato chi, questa modifica costituzionale, l’ha pensata e scritta: scegliere i nuovi componenti dei due futuri Csm con il sorteggio, l’unico modo, secondo Nordio, per superare le degenerazioni correntizie. E però, per fare questo non basta vincere il referendum: occorre scrivere le norme ordinarie attuative entro un anno dall’entrata in vigore della modifica costituzionale, altrimenti continueranno ad osservarsi le norme precedenti (basta leggere quanto riportato all’articolo 8 del disegno di legge, relativo alle “Disposizioni transitorie”). Partendo dal presupposto che l’attuale Csm scade il 24 gennaio 2027 - salvo ipotesi di prorogatio pure verificatesi in passato (quando ad esempio erano stati eletti i membri togati ma non quelli laici) -, che le elezioni per il suo rinnovo hanno luogo entro tre mesi dallo scadere del precedente Consiglio e che la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della convocazione dei rispettivi corpi elettorali avviene almeno 40 giorni prima delle elezioni, diventa davvero difficile immaginare che si possano scrivere le norme attuative in tempi utili. D’altronde bisogna considerare che andrà rimaneggiata interamente la legge istitutiva dell’organo di governo autonomo dei magistrati. A ciò si aggiunge la circostanza per cui, secondo fonti di via Arenula, al momento al ministero non sarebbe in atto un lavoro preparatorio di scrittura di questa disciplina ordinaria attuativa. Se dunque accadesse questo, ossia se il futuro Csm venisse eletto con il metodo attuale, ci si troverebbe davanti a una sconfitta pesantissima per il guardasigilli, per la premier e per tutta la coalizione di centrodestra: non si concretizzerebbe il cuore della riforma, e cioè la sottrazione delle elezioni alle logiche di potere dei gruppi associativi dell’Anm. A proposito del sindacato delle toghe: che ruolo potrebbe giocare nella elaborazione delle norme attuative? Ufficialmente non esiste una presa di posizione: sarebbe come ammettere che si perde la partita referendaria e al momento, tra l’altro, non alberga cupo pessimismo tra le toghe. Da parte sua, il Guardasigilli più volte ha ribadito ai magistrati guidati da Cesare Parodi la disponibilità a lavorare insieme su questo punto. Pure fonti interne all’Anm fanno sapere che ci sarebbe la volontà di collaborare proficuamente alla stesura delle leggi di attuazione - “pur di non farci buttare il sale sulla ferita” ci dice in particolare un esponente di una corrente moderata il dubbio è però che proprio il Governo, dopo l’eventuale vittoria del referendum, possa ritirare la mano tesa verso la magistratura: “in base a come vinceranno - se vinceranno - Nordio potrebbe rimangiarsi la parola, non sarebbe la prima volta” ci dice un’altra toga. C’è anche un altro aspetto da considerare, ci spiega un altro magistrato: “Qualora una parte dell’Anm fosse d’accordo a collaborare con la scrittura dei decreti attuativi un’altra parte potrebbe accusarla di collaborazionismo con quel nemico che ha portato a casa una delle riforme più invise alla magistratura”. Insomma il quadro appare complicato e pieno di incognite. Tutto dipenderà dal clima che si verrà a creare nei prossimi mesi e da come andrà a finire il referendum. A sentire tutte le parti in causa - politica, magistratura, avvocatura - assisteremo a scontri ancora maggiori e più aspri di quelli a cui abbiamo assistito fino a questo momento. Non si faranno sconti a nessuno, essendo troppo alta la posta in gioco. Stragi del 1993: l’esposto di Mori può “seppellire” l’indagine infinita di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 28 giugno 2025 Da 20 anni si riapre ciclicamente: accuse di eversione, soliti nomi, ma non si arriva mai a una verità giudiziaria definitiva. Finalmente, con l’esposto presentato dal generale Mori per rivelazione di segreti d’ufficio, qualcuno spezza il clima di omertà, politica e giornalistica, che da vent’anni avvolge le inchieste penali e politiche, e siamo alla quinta, sulle stragi del 1993. Sono le bombe della fase finale di vita dei corleonesi, che aggredirono luoghi artistici di Roma, Milano e Firenze. In quest’ultima città, che ha avuto il maggior numero di morti, dieci in totale, si è radicata l’inchiesta. Che ha preso l’impronta dell’antimafia, sotto la guida del procuratore aggiunto Luca Tescaroli, che pareva aver seguito un certo fascicolo processuale fin da Caltanissetta, dopo le fallimentari inchieste “Oceano” e “Sistemi criminali” che avevano sposato un’unica pista di indagine. Quella politica: le stragi del 1993, cui veniva aggiunta quella fallita dello stadio Olimpico del 1994, avevano una sola finalità, quella di far trionfare alle elezioni Forza Italia e il suo leader Silvio Berlusconi. Proprio lui sarebbe stato, insieme al fido scudiero Marcello Dell’Utri, l’ispiratore e l’organizzatore delle stragi. Che sarebbero cessate il giorno della vittoria elettorale, il 28 marzo 1994. Ecco perché nel pacchetto completo dell’inchiesta occorre inserire anche il mancato assalto all’Olimpico, per arrivare a dimostrare che le bombe si fermarono in quanto l’obiettivo era stato raggiunto. E poco importa il fatto che il “pentito” più credibile, Gaspare Spatuzza, come riferito dall’ex procuratore antimafia Pietro Grasso, che lo aveva interrogato e in seguito riferito in un’intervista, avesse affermato che la Cosa Nostra delle stragi si era fermata in quanto sconfitta. Proprio dagli uomini del generale Mario Mori, lo stesso che ha in seguito, e per circa vent’anni, trascorso il suo tempo nella veste di imputato. Una vendetta della storia, che alla fine, dopo tre processi e tra assoluzioni, lo ha visto inserito, un anno fa, nel teorema dell’inchiesta più surreale, quella contro Berlusconi e Dell’Utri. Quattro volta aperta e quattro volte archiviata su richiesta degli stessi pm, da Caltanissetta a Firenze. Il procuratore Tescaroli ci è invecchiato, su quei fascicoli. La prima volta aveva 27 anni. Oggi è procuratore di Prato, ma un anno fa, prima di approdare nella cittadina toscana, aveva ottenuto dal ministero e dal Csm una proroga proprio per poter continuare le indagini sulle stragi. Un’inchiesta che si alimenta da sola, come una fisarmonica che suona la propria melodia aprendosi e socchiudendosi. Ma senza terminare mai. E siamo alla quinta volta. Prima era “spuntato” (il verbo preferito dei finti cronisti d’inchiesta) il gelataio Baiardo con la sua foto farlocca su Berlusconi, il generale Delfino e il boss Graviano. Puntate su puntate, da Massimo Giletti. Con il giornalista ripetutamente interrogato dai pm di Firenze, infine la trasmissione chiusa con anticipo e la convocazione del presidente di La7 Urbano Cairo. Finita la stagione del gelataio e le sue fandonie, ecco che “spunta” un’altra novità. La procura fiorentina guidata dai due Luca, Tescaroli e Turco (quello amato da Matteo Renzi, per le indagini sui genitori e su Open) sottopone a indagini l’ex collega Ilda Boccassini per false dichiarazioni al pm, per non aver rivelato il nome della fonte del suo amico giornalista Giuseppe D’Avanzo su uno scoop del 1994. Che aveva a che fare, inutile dirlo, di nuovo con Silvio Berlusconi. Ovvio che l’inchiesta non si potesse archiviare, a quel punto, con tanta selvaggina nel carniere. Anzi, invece di chiudere si rilancia. Quando? Subito dopo il momento in cui vengono rese pubbliche le motivazioni con cui Marcello Dell’Utri, il generale Mori e gli altri imputati del processo “Trattativa” sono stati clamorosamente assolti. Quasi per una reazione pavloviana, ecco scattare l’informazione di garanzia e l’invito a comparire nei confronti dell’ex capo dei Ros e del Sisde. Mica noccioline: il generale è indagato per strage, associazione mafiosa ed eversione dell’ordine pubblico. In quanto, “pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva… gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni”. E qui si sfiora il ridicolo, perché le “plurime anticipazioni” sarebbero consistite, una nella segnalazione di un possibile attentato alla torre di Pisa, e l’altra nel possibile verificarsi di “attentati al nord”. Questa è l’indagine fiorentina su Mario Mori. Ma ci sono due aspetti molto seri, che non vanno trascurati. Il primo è che questi nuovo filone consente all’inchiesta più surreale che sia mai apparsa sullo scenario delle indagini su teorema, di non chiudersi mai. Il secondo è che la gravità delle accuse comporta la possibilità di intercettare, quindi di tenere un faro acceso sui comportamenti quotidiani di colui che, come ha detto lui stesso, non ha avuto la colpa di farsi ammazzare come Falcone e Borsellino, oppure, aggiungiamo noi, di togliere il disturbo come Silvio Berlusconi. Si arriva così al consueto gioco di specchi dell’antimafia militante. Ti indago, ti intercetto, poi qualcuno passa e intercettazioni a qualche trasmissione o quotidiani, sempre gli stessi, che le pubblicano. Il che consente al mondo politico in salsa grillina, ovunque collocato, nei Cinque stelle o Avs o Pd, di presentare interrogazioni, fare casino nella Commissione Antimafia, sollevare polveroni. E mantenere ancora aperta, per la quinta volta, l’inchiesta di Firenze. Ma forse quel mondo militante ha sottovalutato il fatto che un vertice dell’Arma può avere più frecce al proprio arco rispetto a un imprenditore brianzolo, per quanto di grande successo, come è stato Silvio Berlusconi. Così questo esposto, la cui copia è stata inviata anche al ministro Nordio, al Csm e al procurare generale presso la Cassazione, può essere davvero il sassolino nell’ingranaggio del gioco di specchi e rompere il meccanismo, e chiudere i conti con i teoremi una volta per tutte. Puglia. Detenuti a scuola di agribusiness di Ilaria Dioguardi vita.it, 28 giugno 2025 La Fondazione Its Academy Puglia Agribusiness School, d’intesa con il ministero della Giustizia, dal prossimo ottobre attiva percorsi della durata di due anni per formare tecnici superiori nel settore agribusiness. Destinatari le persone che stanno terminando di scontare la pena negli istituti pugliesi. Un progetto che coniuga formazione tecnica, responsabilizzazione individuale e contrasto alla recidiva. È realizzato dalla Fondazione Its Academy Puglia Agribusiness School che ha sottoscritto un protocollo d’intesa con le istituzioni del ministero della Giustizia. Dal prossimo ottobre saranno attivati percorsi formativi per i detenuti, di durata biennale per un totale di 2mila ore, riconosciuti a livello europeo, al termine dei quali verrà rilasciato il titolo di tecnico superiore. “I corsi si focalizzeranno su figure professionali richieste dal sistema produttivo, in particolare nel settore agribusiness”, dice Vito Amatulli, delegato del presidente della fondazione Francesco Casillo per questo progetto. Un titolo di quinto livello con 13 percorsi formativi - “L’idea è nata quando l’Its ha deciso di avviare 13 percorsi per quanto concerne le annualità in corso e poi anche per le successive. “Ci siamo detti: “Perché non coinvolgiamo quelle fasce di popolazione che sono in questo momento ristrette?” In questi percorsi, c’è spazio non solo per gli studenti diplomati, ma anche per i laureati e per quanti hanno deciso di cambiare i loro percorsi di studi, dall’universitario al tecnico superiore”, continua Amatulli. Agricoltura di precisione - Il titolo di tecnico superiore, indicato nel quadro comune europeo come di quinto livello (cioè superiore al diploma ordinario delle scuole superiori ma inferiore alla laurea), “consente a tutti gli iscritti che conseguono il diploma di poter nuovamente accedere alle università o di andare direttamente nel mondo del lavoro, attraverso le aziende che hanno sponsorizzato gli interventi formativi che sono stati operati”. Formazione nell’ultimo periodo della pena - La Fondazione Its Academy Puglia Agribusiness School offrirà la possibilità a coloro che stanno scontando un fine pena di poter unire questo periodo in carcere con una formazione, che permetta loro un inserimento all’interno dello stesso settore per il quale hanno conseguito o conseguiranno il titolo. “Il titolo di tecnico superiore, oltre a essere immediatamente spendibile sul mercato del lavoro, consente l’accesso a concorsi pubblici con punteggio aggiuntivo, il riconoscimento di crediti formativi in ambito universitario e la validità del biennio ai fini previdenziali”, spiega Amatulli. “Il numero di persone che saranno individuate, che devono possedere il diploma di secondo grado, dipende da quanti saranno coloro i quali, attualmente ristretti, vorranno partecipare alla selezione, che partirà a breve. Tutti quelli che aderiranno a questa possibilità che viene loro concessa avranno l’opportunità di poter frequentare i corsi, sia con la formazione in aula, sia con la formazione aziendale”. Le carceri coinvolte sono in Puglia “e c’è una valutazione in corso da parte di Carlo Berdini, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria per Puglia e Basilicata, per coinvolgere anche gli istituti di pena della Basilicata”. Fase in aula, visite aziendali e affiancamento - Tra le possibilità che sono offerte, i candidati sceglieranno autonomamente quale percorso seguire, che si dividerà in tre momenti fondamentali. “Il primo, quello più importante, è la fase in aula nella quale acquisiranno le nozioni fondamentali che fanno parte del repertorio tipico del tecnico superiore. In secondo luogo, si svolgerà la parte più vicina alle esperienze prima dello stage, si tratta delle visite aziendali che, in misura minore rispetto al consueto, sono previste per dare alle persone un’idea del collocamento che li attende quando matureranno il titolo finale e, quindi, si avvicineranno al percorso lavorativo vero e proprio. L’ultima parte del percorso formativo”, prosegue Amatulli, “sarà l’affiancamento in azienda e sarà finalizzato all’acquisizione delle competenze professionali per poter affrontare il lavoro di tecnico superiore”. Formarsi per restare o per lavorare in Europa - “Tutti i corsi che sono organizzati dagli istituti tecnologici e superiori in generale sono realizzati sulla scorta delle necessità che le aziende del territorio comunicano all’Its stesso”. Amatulli continua dicendo che “gli studenti vengono formati, con una preparazione di base eccellente, per i ruoli per i quali le stesse aziende sono alla ricerca di personale. Il senso di appartenenza e, nello stesso tempo, anche di vicinanza agli impegni lavorativi consentirà a chiunque o di poter assumere direttamente il ruolo in azienda, oppure di arricchire il proprio curriculum personale e decidere di utilizzare conoscenze, abilità e competenze dove ritengono più opportuno: il titolo è valido in tutta Europa”. Offerta di ruoli e competenze che mancano in Italia - Una delle motivazioni che ha spinto il presidente Casillo a dare vita a questo progetto, d’intesa con il ministero della Giustizia, “è l’esigenza di riprendere queste persone che hanno sbagliato un percorso e che ha l’obiettivo di liberare le risorse, le capacità che sono presenti in queste persone per restituirle al mondo produttivo, che necessita di ruoli e competenze che sono in questo momento deficitari”. Napoli. Agente della Polizia penitenziaria suicida nel carcere di Secondigliano Il Mattino, 28 giugno 2025 L’uomo stava per andare in pensione. Dramma nel carcere di Secondigliano, a Napoli, dove un agente della polizia penitenziaria di 59 anni si è tolto la vita sparandosi con la sua pistola di ordinanza nel parcheggio. Il poliziotto, che doveva entrare in servizio nell’istituto penitenziario alle 12, lascia la moglie e due figli. “Siamo addolorati per questa tragedia: non conosciamo ancora i motivi del gesto. Era molto apprezzato dai colleghi e dai superiori per la sua abnegazione al lavoro. Il sindacato esprime profonda vicinanza alla famiglia dell’agente deceduto”, commentano Giuseppe Moretti e Ciro Auricchio, presidente e segretario regionale dell’Uspp che aggiungono: “non riusciamo a spiegarci come un collega che stava per andare in pensione possa avere commesso un gesto simile”. Palermo. Detenuto, 70 anni, chiedeva da mesi di potersi operare: ha perso un occhio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 giugno 2025 Un detenuto settantenne della casa circondariale Pagliarelli di Palermo ha perso la vista a un occhio mentre attendeva un intervento di cataratta. A sollevare il caso è Pino Apprendi, garante dei detenuti del capoluogo siciliano, che definisce la situazione “intollerabile” e denuncia come “ogni patologia, qui, rischia di diventare irreversibile”. All’inizio del 2024, il settantenne detenuto di Pagliarelli viene visitato per la prima volta: un’oculista rivela una cataratta degenerata da tempo, che richiede un intervento tempestivo. Passano poi tre mesi: a metà maggio, il medico del carcere conferma la gravità della situazione e ribadisce l’urgenza dell’operazione. Due mesi più tardi, a luglio, arriva un nuovo riscontro interno che non lascia dubbi: occorre intervenire senza indugi. Eppure, nonostante le diagnosi ripetute, la pratica resta ferma. Ad agosto l’uomo viene inviato a un controllo all’ex Imi di Palermo, ma da quel momento si apre un buco nero che durerà nove mesi. Solo il 17 maggio 2025, dunque a quasi un anno dall’ultimo accertamento esterno, il detenuto torna a essere visitato all’interno della casa circondariale: nel frattempo ha già perso la vista di un occhio e comincia a vedere sfuocato anche nell’altro. Soltanto a valle delle sollecitazioni del garante Pino Apprendi si sbloccano le procedure, ma l’intervento - programmato solo dopo ulteriori disguidi - è stato fissato con un’ulteriore attesa di diciotto mesi a partire da febbraio scorso. “Il paradosso è che un cittadino libero, con lo stesso problema, otterrebbe in poche settimane una visita e l’operazione”, osserva Apprendi. “In carcere non hai via d’uscita: non puoi rivolgerti a strutture convenzionate per tua scelta. Sei legato alle inefficienze del sistema interno”. La carenza di personale, l’accumulo di pratiche, i tempi biblici delle autorizzazioni: dietro ogni sbarra, sottolinea il garante, si annida il rischio che un semplice intervento diventi cronico e, in casi estremi, letale. Al Pagliarelli sono oggi circa 1.400 i detenuti-pazienti affidati a un’area sanitaria interna che opera senza strumenti e con risorse insufficienti. Non è un episodio isolato. In tutta Italia, le visite specialistiche e gli interventi chirurgici in carcere procedono a rilento: liste d’attesa lunghissime, trasferimenti disorganizzati e lentezze burocratiche che mettono a repentaglio la salute dei reclusi. E quando un trattamento viene programmato, spesso arriva troppo tardi. Servono più risorse, personale dedicato, protocolli snelli e una maggiore apertura verso strutture esterne. Salvare la vista - o la vita - di un 70enne non dovrebbe essere un’eccezione, ma la regola. Il caso di C. L. non è soltanto la storia di un uomo che non vede più da un occhio, ma il simbolo di un sistema sanitario carcerario paralizzato. Fino a quando le garanzie costituzionali varieranno in base al luogo di cura, dietro le sbarre resteranno pazienti di serie B, condannati non solo per i reati commessi, ma anche dalle lentezze di una burocrazia che non cura adeguatamente i reclusi. Vigevano (Pv). Venti lettere dal carcere con l’elenco delle criticità di Umberto Zanichelli Il Giorno, 28 giugno 2025 Un’altra denuncia sulle condizioni dei detenuti del carcere di Vigevano: una ventina di lettere destinate al magistrato di sorveglianza, ai Garante dei detenuti, al ministero della Giustizia, all’Ats e a diversi enti e associazioni che tutelano i diritti dei reclusi. Lo segnala la onlus “Quei Bravi Ragazzi Family”. “Dopo la prima lettera collettiva - fa sapere l’associazione - ci sono state iniziative di altri detenuti che ne hanno confermato individualmente i contenuti, evidenziando le molte criticità e invitando a un’accurata verifica della situazione. Dare voce a chi non ne ha è un atto di civiltà”. L’elenco di ciò che non funziona comprende la mancanza di accesso a opportunità di lavoro; l’assenza di arredi essenziali; le condizioni igieniche, tanto è stato presentato un esposto in Procura. La più forte criticità resta il sovraffollamento: il carcere è stato pensato per 226 detenuti ma ne ospita 360 Non va meglio per la Polizia penitenziaria, costretta a far fronte alla carenza di organico: 200 agenti in servizio contro i 315 previsti e quindi turni più lunghi per le aggressioni più frequenti. Intanto sono sempre più insistenti le voci sulla chiusura della sezione femminile con il trasferimento delle detenute in altre strutture oltre al fatto che lo scopo sarebbe la creazione di una sezione destinata al 41-bis, il regime con celle controllate 24 ore su 24 e tempi ridotti per l’aria e le visite. Brescia. Arianna Carminati è la nuova Garante comunale dei detenuti giornaledibrescia.it, 28 giugno 2025 Professoressa in Diritto costituzionale all’UniBs, succede a Luisa Ravagnani: “Le auguro di ricevere lo stesso sostegno di cui ho potuto godere io”. Il Comune di Brescia ha una nuova Garante dei detenuti. Arianna Carminati, con l’elezione nel Consiglio di ieri, succede ufficialmente a Luisa Ravagnani. Dal 2021 è professoressa di prima fascia in Diritto costituzionale nel dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Brescia. Dal prossimo primo settembre prenderà servizio come professoressa ordinaria in Diritto costituzionale e pubblico nella stessa università. Attualmente è docente responsabile dell’insegnamento di Diritto costituzionale primo nel corso di laurea magistrale in Giurisprudenza, e dell’insegnamento di Tutela della salute e organizzazione sanitaria nel corso di laurea magistrale in Scienze giuridiche dell’innovazione, sempre in UniBs. Direttrice della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università degli studi, è anche componente del Collegio dei docenti del dottorato di ricerca “Diritti, persona, innovazione e mercato”. È inoltre membro dell’Hub global health UniBs dell’Alleanza unita e dell’Osservatorio di biodiritto dell’Università degli studi di Brescia, che fa parte della Rete nazionale del diritto gentile. La Garante uscente, Luisa Ravagnani, ha rivolto un augurio di buon lavoro a Carminati, rivolgendo globalmente un appello a continuare ad “offrire lo stesso sostegno di cui ho potuto godere io, con l’auspicio che la rete a supporto dell’esecuzione penale a Brescia diventi sempre più forte ed efficace”. Qui in calce è disponibile la sua ultima relazione in versione integrale. Verona. Lavora il 16% dei detenuti. “La media nazionale è pari al 6,4” di Beatrice Branca Corriere di Verona, 28 giugno 2025 L’incontro sulla rieducazione. In carcere parte un’attività produttiva di asciugamani. Elastici per Calzedonia, un ordine da un’altra azienda di 20mila shopper bag, ovvero le borse giganti in stoffa, e altri prodotti di sartoria per Falconeri, Gucci e altre maison. Tutta quella merce passa per la casa circondariale di Montorio dove 25 detenuti (13 donne e 12 uomini) lavorano con le macchine da cucire. Ci sono poi altre sette donne impegnate nella produzione delle marmellate e per la loro preparazione viene utilizzate la frutta scartata dai grossisti, ma ancora in buone condizioni e di qualità. Altri 9 detenuti sono impegnati invece nei prodotti da forno con la cooperativa Panta Rei. Poi ci sono altri 3 che con Reverse lavorano nella falegnameria, ma presto il laboratorio verrà ampliato e ci saranno ulteriori posti di lavoro. Sempre negli spazi della casa circondariale, arriverà inoltre a breve la realizzazione di asciugamani monouso per le catene d’alberghi. L’accordo è già siglato, mancano solo le macchine per partire con questa nuova produzione che darà un impiego ad altri detenuti. Le attività sopra elencate però non bastano e l’idea è quella di cercare di convincere sempre più imprenditori a dare un’opportunità di lavoro ai detenuti. Per farlo la Camera Penale di Verona ha organizzato ieri il convegno “Investire nella Rieducazione”, accolto dalla direttrice del carcere Marigrazia Bregoli. “L’avvocatura non può solo protestare ma deve anche proporre e come Camera Penale - dice il presidente della sezione locale Paolo Mastropasqua - vogliamo creare un ponte tra il carcere e le aziende, due mondi che non si parlano molto”. Questo perché, secondo i dati del Cnel- Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, solo il 2% di chi è in carcere e trova un lavoro torna poi a delinquere. Oggi sono 630 i detenuti a Montorio: quasi il doppio rispetto alle 335 persone previste dalla struttura. Di queste solo una piccola parte lavora. Dati alla mano, Vincenzo Semeraro, coordinatore dell’Ufficio di Sorveglianza di Verona riporta che in Veneto la media dei detenuti occupati, anche a Verona, è pari al 16%: piccola, ma decisamente più alta rispetto alla media nazionale del 6,4%. Un dato più positivo anche grazie al progetto di inserimento lavorativo avviato dalla Regione negli ultimi anni con l’agenzia Lavoro Veneto. Su 267 profili in 165 hanno ricevuto un voucher per formarsi e nel Veronese i detenuti hanno sviluppato le loro competenze in particolare nella manutenzione del verde e nella logistica. “Con il progetto Carceri della Regione c’è dal 2023 uno sportello del lavoro in ogni istituto - dice Semeraro -. Sono attivi percorsi formativi da 160 ore per 218 detenuti, 124 tirocini e ci sono 30 assunti”. “Fare impresa nel carcere è possibile - aggiunge Rosella Santoro, provveditore dell’amministrazione penitenziaria Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige -. A Montorio ci sono tanti spazi vuoti dove le imprese possono allestire una parte della produzione senza pagare il locale. L’ostacolo sono le tempistiche, visto che ci possono volere tra i due e i tre mesi per avviare un percorso di lavoro a un detenuto. Gli imprenditori che lo hanno fatto sono però rimasti contenti e non sono più tornati indietro”. Tra le attività è stato portato l’esempio di Quid, realtà che opera nel settore moda da circa 10 anni e che dà una prospettiva di vita a chi è dietro le sbarre. “Abbiamo dato lavoro nel tempo a 150 persone - racconta Anna Fiscale, fondatrice del progetto. Chi è stato assunto in carcere ed è rimasto a Verona, una volta uscito, ha poi continuato nel nostro laboratorio ad Avesa”. Cremona. Detenuti al lavoro, l’appello alle categorie imprenditoriali di Massimo Schettino laprovinciacr.it, 28 giugno 2025 Di cento detenuti che durante la pena hanno potuto beneficiare di un inserimento professionale solo 2 tornano a delinquere. Un tasso di recidiva che, viceversa, balza al 70% fra quanti non hanno avuto tale opportunità. I dati, raccolti a livello nazionale dal Cnel, “confermano lo strumento del lavoro come il più efficace per perseguire efficacemente l’obiettivo della sicurezza sociale”. Lo sottolinea l’assessora alle Politiche Sociali e Fragilità, Marina Della Giovanna, aggiungendo però che “sono troppo pochi i detenuti della Casa circondariale di Cremona che lavorano anche se è proprio attraverso il lavoro, dentro e fuori dal carcere, che possono cominciare un percorso che renda il tempo della pena non solo afflittivo ma anche un’occasione per percorrere una nuova strada lontana dalla delinquenza”. Questi gli ultimi numeri del progetto Re-Start, promosso dal Comune di Cremona, finanziato da Regione Lombardia con fondi europei e prossimo alla conclusione della quarta edizione: nel 2023 sono stati 16 i percorsi di presa in carico lavorativa, di cui 11 sono sfociati in assunzioni a tempo determinato, due in assunzioni a tempo indeterminato. I rimanenti tre si sono fermati al tirocinio. Nel 2024 undici percorsi, tutti cominciati con un tirocinio, di cui 6 trasformati in assunzione a tempo determinato e 2 in assunzione a tempo indeterminato. In generale, due terzi circa dei percorsi avvengono nel settore no-profit. Oltre a questi, poi ci sono percorsi lavorativi gestiti in prima persona dalla stessa amministrazione carceraria. Insomma la strada c’è ed è efficace, occorre allargarla. Per questo motivo il lavoro delle istituzioni in questo mandato amministrativo ha cambiato focus e si sta concentrando proprio su questo tema. “Un incontro operativo - spiega Della Giovanna - si terrà il prossimo giovedì 3 luglio presso il carcere, la cui collaborazione è naturalmente indispensabile per consentire che, una volta raccolte le esigenze del mondo produttivo ed individuati i candidati più adatti, questi ottengano poi le autorizzazioni necessarie”. Nei mesi scorsi infatti è ripresa l’attività del Tavolo di lavoro interistituzionale permanente sull’esecuzione penale che durante questo mandato viene coordinato dall’assessora Della Giovanna. Un lavoro che è partito proprio dalla presentazione del lavoro di presa in carico di queste persone che “l’ampio ed eterogeneo partenariato del progetto Re-Start - sottolinea Della Giovanna -, da diversi anni porta avanti, attraverso la sinergia tra pubblico e privato, sul territorio e all’interno del carcere. Si tratta di progettualità finalizzate al recupero e al reinserimento socio-lavorativo; interventi di supporto e accompagnamento delle situazioni più fragili, ad esempio nel campo delle dipendenze e del disagio psichico; progetti di accoglienza abitativa temporanea; attività di informazione e sensibilizzazione della comunità sulle tematiche dell’inclusione delle persone in esecuzione penale e delle condizioni della detenzione”. Tre gli incontri svolti finora: il 6 febbraio, 20 marzo e 8 maggio. “Mentre nel precedente mandato - spiega Della Giovanna - i lavori del Tavolo, promosso dalla presidenza del Consiglio comunale, si erano concentrati quasi esclusivamente sulla situazione della Casa Circondariale, l’attuale amministrazione ha proposto, trovando condivisione da parte di tutti, di estenderne il focus all’intero ambito dell’esecuzione penale, comprendente tutte le persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria: non solo, dunque, i detenuti di Cà del Ferro (che secondo gli ultimi dati disponibili sono all’incirca 540, ben oltre la capienza della struttura), ma anche tutti quegli autori di reato che sono sottoposti a misure alternative alla detenzione (le persone attualmente in carico a Uepe sul territorio provinciale risultano essere all’incirca mille). E dal confronto tra i partecipanti è emersa chiaramente la necessità di concentrare gli sforzi sul potenziamento degli interventi correlati alla sfera lavorativa con l’obiettivo di creare per queste persone occasioni di riabilitazione”. Ecco perché all’incontro di maggio sono stati invitati i rappresentanti dell’Associazione Industriali, di Apindustria, Cna, Confcommercio, Confartigianato, Confcooperative, Confesercenti e delle tre organizzazioni sindacali confederali. “È emersa - racconta Della Giovanna - la loro disponibilità a collaborare per mettere a disposizione di queste persone più opportunità di tirocini e lavoro, e di conseguenza più occasioni di riscatto rispetto alle condotte passate in funzione di prevenire le recidive. Abbiamo dato nuovo slancio ai lavori del Tavolo, i cui partecipanti hanno convenuto sulla necessità di agire per restituire significato alla finalità rieducativa della pena. Fare giustizia significa dare un’altra possibilità ed è attraverso il lavoro che si costruiscono occasioni di riscatto. Come sa bene chi è quotidianamente impegnato a costruire percorsi di reinserimento socio-lavorativo, è fondamentale tessere connessioni e reti incisive non solto con il privato sociale, ma anche con le realtà datoriali del territorio. Ci siamo dunque adoperati in questo senso e la risposta è stata molto positiva; adesso si tratta di dare insieme concretezza alla disponibilità espressa”. Venezia. Carcere, caldo insopportabile: in arrivo altri 50 ventilatori di Marta Artico La Nuova Venezia, 28 giugno 2025 Lo scorso anno il Patriarcato di Venezia aveva donato condizionatori ai detenuti. Nei giorni scorsi un altro sopralluogo del cappellano, don Massimo Cadamuro. Più ventilatori per il carcere. Se chi vive in città e non ha l’aria condizionata può rifugiarsi nei centri commerciali, sotto un albero o trovare un luogo fresco dove riuscire a respirare, la stessa cosa non vale per le persone che si trovano in carcere. Come ogni anno l’afa è arrivata puntuale, alla stessa stregua dell’umido e del caldo insopportabile, per i detenuti della casa circondariale di Santa Maria Maggiore. Nelle celle condivise, le temperature sono roventi, tanto che l’anno passato qualcuno le aveva definite “l’inferno dantesco”. E non tutti possono permettersi un ventilatore. Giovedì il cappellano del carcere, don Massimo Cadamuro, assieme agli agenti e agli addetti ai lavori, ha effettuato un sopralluogo, per capire quanti ventilatori servirebbero e in quanti sono senza in questo momento in cui ce n’è un stremo bisogno. Sempre l’anno scorso, un donatore ne aveva regalati una cinquantina, altri trenta erano stati donati dal Patriarcato, per alleviare le giornate bollenti dei detenuti, un atto di carità accolto con grande gratitudine. Quest’anno si replicherà, perché ne servono almeno altri cinquanta. Anche perché l’utilizzo a palla porta al loro veloce deperimento e al fatto che spesso si rompono o si surriscaldano smettendo di funzionare. Quello di refrigerare le celle, in ogni caso, è un tema all’ordine del giorno, che si riproporrà tutta l’estate. Non più di qualche mese fa, i cappellani delle carceri del Triveneto - riuniti al Centro Pastorale di Zelarino insieme all’arcivescovo di Gorizia Carlo Maria Redaelli, incaricato per la pastorale penitenziaria del Triveneto -, preoccupati per l’allarmante numero dei suicidi e per la gravità della situazione di sovraffollamento, comune a tutti gli istituti del territorio, avevano rinnovato in modo unanime l’appello alla comunità ecclesiale e civile e alle istituzioni perché fossero messe in atto tutte le strategie possibili, con risorse umane ed economiche e soluzioni giuridiche alternative, per fronteggiare in modo adeguato e duraturo la crisi attuale. I cappellani avevano rilanciato le parole e l’invito di Papa Francesco affinché “si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria così che la vita sia sempre degna di essere vissuta”. Lunedì nel carcere maschile l’Usl 3 Serenissima e la direzione dell’Istituto penitenziario tracceranno un bilancio delle attività intraprese insieme a favore delle persone detenute. Empoli. Soli tra la gente. Detenuti e attori ne parlano a teatro di Ylenia Cecchetti La Nazione, 28 giugno 2025 Uno spettacolo corale, potente e attuale, capace di dare voce a un’emozione silenziosa ma diffusa del nostro tempo: la solitudine. Lunedì al Teatro del Popolo di Castelfiorentino andrà in scena “Solo me ne vo”, per la regia di Maria Teresa Delogu, atto conclusivo del laboratorio teatrale della stagione 2024/2025 curato da Delogu per conto di Giallo Mare Minimal Teatro. Un lavoro frutto di un percorso profondo e fuori dall’ordinario: sul palco, infatti, saliranno anche alcuni detenuti, protagonisti di un’esperienza artistica e umana che ha oltrepassato le sbarre per farsi parola, gesto, presenza scenica. Attraverso monologhi, frammenti corali e scene di gruppo, lo spettacolo dà forma a un sentimento che troppo spesso resta nascosto: la solitudine non come eccezione, ma come condizione trasversale. Nei giovani e negli anziani, nelle famiglie e nelle carceri, nei quartieri rumorosi e nelle case silenziose. La solitudine avvertita come sconnessione dagli altri, come distanza. Quella percepita da coloro, insomma, che pur essendo parte di un contesto se ne sentono estranei. “Solo me ne vo è un viaggio emotivo e culturale tra gli estremi della solitudine contemporanea, dagli Hikikomori agli amici a noleggio, fatto utilizzando uno sguardo denso ma mai pesante, che alterna ironia, riflessione, leggerezza, pensiero - spiega Delogu -. In un mondo dove Giappone e Inghilterra hanno istituito un Ministero della Solitudine, lo spettacolo ci pone una domanda urgente: e noi, cosa possiamo fare? Voci diverse si uniscono per raccontare una realtà comune. Perché forse la solitudine non tutti la avvertono come problema, ma ci riguarda tutti, come individui e come comunità e, forse, insieme possiamo darle voce”. I protagonisti saranno i 24 allievi del corso del Teatro del Popolo con alcuni detenuti della Casa Circondariale Le Sughere di Livorno, grazie alla collaborazione con il progetto “Teatro Galeotto”, che porta il teatro dentro e fuori le mura carcerarie. Ingresso libero fino a esaurimento posti. Per informazioni telefonare allo 0571 81629 o scrivere a info@giallomare.it. Sondrio. “Uno sguardo da dentro”, la mostra fotografica che porta il carcere tra la gente primalavaltellina.it, 28 giugno 2025 Realizzata dai detenuti della Casa Circondariale di Sondrio, la mostra fotografica “Uno sguardo da dentro” verrà inaugurata il 1° luglio a Palazzo Pretorio: un progetto di formazione e reinserimento sociale promosso da Enaip con il sostegno di Fondazione Pro Valtellina. Il 1° luglio, alle ore 17.30, verrà inaugurata presso le sale espositive di Palazzo Pretorio la mostra fotografica dal titolo “Uno sguardo da dentro - il carcere raccontato attraverso gli scatti dei detenuti”. La mostra è il risultato finale di un laboratorio di fotografia finanziato da Fondazione Pro Valtellina e realizzato da Fondazione Enaip Lombardia - sede di Morbegno - in collaborazione con la Casa Circondariale di Sondrio e svoltosi all’interno dell’istituto penitenziario nell’anno 2024. Alla realizzazione del corso hanno partecipato sei detenuti, coordinati e istruiti dal fotografo professionista Domiziano Lisignoli; la finalità del progetto infatti era proprio quella di esprimere il vissuto dell’esperienza detentiva attraverso le capacità tecniche del mezzo fotografico, in particolare i detenuti hanno scelto alcuni momenti significativi della vita penitenziaria, ad esempio i momenti di socialità, di cura del sé, di rito religioso, i momenti di colloquio con i propri familiari e in generale scene di vita quotidiana nel contesto detentivo. La prima mostra è stata realizzata all’interno della Casa Circondariale di Sondrio il 24 novembre 2024 e ha previsto la presenza delle Autorità locali, dopodiché la stessa si è svolta anche negli spazi del Centro formativo Enaip di Morbegno, ora, con il patrocinio del Comune di Sondrio, l’intento è quello di poter estendere all’intera cittadinanza la possibilità di prendere visione di quanto realizzato. Durante la giornata dell’inaugurazione saranno presenti il Direttore, Ylenia Santantonio, e il Comandante, Mattia Bonanno, della Casa Circondariale, il professionista che ha condotto il laboratorio, Domiziano Lisignoli, e rappresentanti di Fondazione Enaip, i quali introdurranno e spiegheranno ciò che è stato realizzato durante il laboratorio. In seguito all’evento di inaugurazione sarà possibile fruire della mostra presso Palazzo Pretorio dalle ore 9 alle ore 12 e dalle ore 14.30 alle ore 16.30 fino al giorno 10 luglio. “Fondazione Pro Valtellina è da sempre vicina al sociale, alle fragilità, a chi in un momento della propria esistenza ha particolarmente bisogno. Dare voce a chi non ha voce far tornare a sognare chi crede d’aver perduto la propria vita. Il carcere è emarginazione, sofferenza, disagio. Ricordiamoci sempre che esistono persone che vanno aiutate, il nostro contributo va proprio in questa direzione, essere al fianco di chi ha bisogno. Ringraziamo Enaip, la casa Circondariale di Sondrio, il Direttore il Comandante e tutto il personale per questa bella collaborazione” dichiara Marco Dell’Acqua presidente Fondazione Pro Valtellina e membro Commissione Centrale di Beneficenza Fondazione Cariplo. “Come Amministrazione comunale abbiamo apprezzato molto questa iniziativa e siamo ben lieti di garantire il nostro contributo offrendo i nostri spazi a questa iniziativa decisamente formativa e significativa per la forte valenza educativa e riabilitativa - afferma l’assessore alla Cultura, Educazione e Istruzione Marcella Fratta -. L’esperienza detentiva deve offrire occasioni di miglioramento e favorire l’inclusione facilitando il reinserimento nella vita sociale”. Bryan Pace e Andrea Donegà, rispettivamente formatore Enaip e tutor del corso Direttore Enaip Morbegno, commentano: “Questa mostra non è solo un insieme di fotografie stupende ma è un’esperienza da vivere perché dietro ogni quadro ci sono le storie delle persone. Per noi, sicuramente, è stato un percorso importante dal punto di vista professionale e, soprattutto, un momento di crescita umana. La mostra, partita dal carcere e passata per le aule di Enaip, ora viene messa a disposizione del territorio e della cittadinanza - e per questo ringraziamo molto il Sindaco e l’Assessore del Comune di Sondrio - proprio per proseguire il suo impegno civico per cui è nata, ovvero quello di ricordare che il carcere deve essere un luogo dove scontare la pena ma, soprattutto, il luogo dove ci sia il diritto di immaginare un futuro possibile. E immaginare il futuro alimenta la speranza che è ciò che tiene viva la persona, ovunque si trovi. Ecco, fare tutto ciò con dei corsi professionalizzanti che possano dare la possibilità alle persone di acquisire delle competenze da spendere nel mondo del lavoro, una volta fuori, diventa un modo per riconciliarsi con la società, preparandosi a rientrarvi a pieno titolo, e un aiuto a trovare un’occupazione. Perché il lavoro, oltre a dare dignità alla persona, abbatte il rischio di recidiva garantendo il diritto di riprendersi in mano la propria vita. La formazione assume quindi un grande valore pedagogico e sociale, un impegno che, come Enaip, proseguiremo. Ringraziamo molto la Fondazione Pro Valtellina e mi unisco ai ringraziamenti al Direttore del carcere, al Comandante e gli agenti della Polizia Penitenziaria, al Funzionario giuridico-pedagogico dott.ssa Angie Ignazzi e a tutto il personale. La mostra è a disposizione anche di tutte le scuole che lo richiederanno”. Domiziano Lisignoli, fotografo professionista e docente del corso, oltre che formatore di Enaip, dichiara: “È stata un’esperienza importante che mi ha permesso di entrare in contatto con una realtà poco conosciuta. Il rapporto con i detenuti è stato da subito costruttivo, hanno partecipato in modo attivo alle lezioni iniziali dedicate alla tecnica acquisendo velocemente le competenze necessarie per affrontare la fase pratica. Sono pienamente soddisfatto della loro risposta sia sul piano tecnico che sul piano estetico, perché hanno dimostrato di saper esprimere con la fotocamera il loro sentire più intimo, regalandoci, con questi scatti, il loro punto di vista: lo sguardo da dentro”. Verona. “Musica è Libertà”: un laboratorio artistico e musicale nel carcere doceducational.it, 28 giugno 2025 Nel settembre 2024, un team di soci Doc Educational ha dato il via al progetto “Musica è Libertà” all’interno della casa circondariale di Montorio (Verona). Il gruppo, coordinato da Alberto Ferraro (attore e pedagogista teatrale), è formato da Walter Tiraboschi (direttore del Teatro Piroscafo di Bergamo e con oltre 15 anni di esperienza teatrale in ambito carcerario), Marino Vettoretti (esperto di scrittura musicale) e Tommy Kuti (rapper e socio Doc Music). Il laboratorio ha coinvolto 25 giovani che hanno iniziato un percorso di espressione e condivisione attraverso la musica e il teatro. In oltre 180 ore di incontri bisettimanali, i partecipanti hanno scritto e composto brani originali, prevalentemente nella scena trap, un linguaggio diretto e autentico di denuncia e riscatto. Il 12 dicembre sono stati presentati cinque brani in un primo momento di restituzione pubblica, toccando temi profondi come il legame familiare, l’amore e la paternità vissuta a distanza. Il 20 giugno si è tenuto uno spettacolo finale, arricchito da un monologo scritto da uno dei partecipanti, che ha raccontato un episodio di speranza vissuto durante la traversata del Mediterraneo. Preziosa la collaborazione con i giovani musicisti del progetto 16-24 Urban della Scuola di Musica del Garda, che hanno rielaborato le basi musicali, trasformandole in arrangiamenti originali e inediti, donando al progetto una forte qualità artistica. Grazie al sostegno di Doc Educational e della Fondazione Centro Studi Doc, “Musica è Libertà” ha creato uno spazio di espressione e condivisione molto apprezzato, aprendo ora la strada a una possibile estensione in altre carceri per portare arte e umanità anche in altri contesti. “No ai comizi perché turbano i turisti”. Ordinanza nel Salento, scoppia la bufera di Antonio Della Rocca Corriere del Mezzogiorno, 28 giugno 2025 Niente comizi, volantinaggi e affissioni a carattere politico: a Specchia, uno dei borghi più belli d’Italia che si trova nel sud Salento, scoppia la bufera per l’ordinanza firmata dalla sindaca Anna Laura Remigi in vigore fino al 30 settembre. Secondo la sindaca potrebbero “ingenerare false informazioni o confusioni che potrebbero arrecare danno all’attività di fruizione turistica e all’immagine del paese”. L’ex sindaco Lia: “Come nel Ventennio”. Niente comizi, volantinaggi, affissioni elettorali, esposizioni al pubblico di materiale dal contenuto politico, insomma nulla che possa “ingenerare false informazioni o confusioni che potrebbero arrecare danno all’attività di fruizione turistica e all’immagine del paese”: l’ordine della sindaca di Specchia, Anna Laura Remigi, sta creando una ridda di polemiche. Ma anche uno strisciante dissenso mordace che sembra trarre ispirazione dagli epici dissidi raccontati nella storica pellicola “Don Camillo e l’onorevole Peppone”. Era la seconda metà degli anni 40 quando la politica animava la piazza di Brescello. Allora come ora la politica sembra confermare lo stesso potenziale divisivo, ma in un contesto geografico pur sempre provinciale, molto distante dai campi levigati della Pianura Padana. La politica. Perché in autunno i pugliesi sono chiamati alle urne per le elezioni regionali. C’è fermento, dunque, a Specchia, paesino senza tempo di un’altra periferia, anch’essa piana, ma appena ondulata dalle dolci serre salentine. Ma più che per il voto, c’è tensione per la discussa ordinanza sindacale. Antonio Lia, politico di lungo corso con militanza democristiana, sindaco di Specchia per 28 anni, tra il 1975 e il 2008, parlamentare per tre legislature, dal 1987 al 1996, non si dà pace: “Combatteremo questa ordinanza con tutte le nostre forze. Un’iniziativa così antidemocratica qui non si era mai vista se non nel Ventennio, per cui già da stasera (ieri sera per chi legge, ndr) parleremo delle iniziative da intraprendere durante una riunione convocata dalla minoranza consiliare. La sindaca vorrebbe impedire la libertà di espressione e questo non lo possiamo permettere. Lei, però, ha invitato qui Luca Casarini che parlerà di Mediterraneo e diritti umani. Un attivista noto per essere stato ai vertici del movimento no - global. Lei che intende trattare i diritti umani, la legalità, come mai invita questo personaggio e nel contempo vieta un diritto fondamentale come l’espressione del libero pensiero?”. Si va consumando, quindi, l’inedita diatriba tra Anna Laura Remigi e una frangia, a quanto pare non proprio sparuta, di suoi concittadini che nel provvedimento sindacale ravvisano persino una matrice censoria di stampo draconiano. “Considerato che il Comune di Specchia fa parte dei Borghi più belli d’Italia, nonché è stato riconosciuto come uno dei gioielli d’Italia”, è scritto nell’ordinanza, “e per tutelare la pace sociale e la tranquillità dei turisti, dal 29 giugno al 30 settembre, il centro storico è interdetto a qualsiasi genere di comizi o manifestazioni politiche”. I detrattori ironizzano: “Tolte le vie e le piazze inibite, nel nostro piccolo borgo non resta altro spazio in cui organizzare manifestazioni politiche”. Le disposizioni sono minuziose: si può fare attività politica a non meno di 200 metri in linea d’aria dalla zona vietata. E non manca la previsione sanzionatoria che richiama l’articolo 650 del Codice penale: “Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro”. Silenzio, dunque. Per la politica ci sarà tempo ad estate conclusa. Migranti. Altri 15 a Gjader: il Governo tira dritto e ignora i giudici di Michele Gambirasi Il Manifesto, 28 giugno 2025 Nonostante il rinvio alla Corte di giustizia Ue, Meloni e Piantedosi proseguono i trasferimenti. Ma i centri rimangono semivuoti. Il governo ha intenzione di tirare dritto e non vuole far affondare il progetto Albania, benché barcollante, a costo di qualsiasi forzatura. Nel tardo pomeriggio di giovedì quindici nuove persone sono state trasferite nel centro di Gjader, nonostante la Cassazione con una sentenza dello scorso 29 maggio avesse sollevato nuovi dubbi di legittimità sulle operazioni, rinviando due cause alla Corte di giustizia europea. Gli ermellini dubitano che il Cpr di Gjader sia compatibile con la Direttiva rimpatri e la Direttiva accoglienza: nonostante valga la giurisdizione italiana quello rimane territorio albanese, per cui va considerato come un “paese terzo”, da cui non è possibile effettuare rimpatri e fa dubitare della legittimità dei trasferimenti degli “irregolari”. Inoltre quando un migrante fa domanda d’asilo deve rimanere sul territorio di un paese membro dell’unione. In base al provvedimento, è molto difficile che ora un giudice italiano convalidi la detenzione in Albania quando un migrante detenuto farà richiesta di asilo da Gjader: tutto, a rigor di logica, si sarebbe dovuto fermare in attesa del pronunciamento europeo. “La prosecuzione dei trasferimenti, in spregio a questo pronunciamento, denota un livello di ostinazione politica che ignora consapevolmente le evidenze giuridiche: un segnale preoccupante rispetto allo stato di diritto e alla tenuta del principio di legalità nell’azione di governo” ha commentato il Tavolo asilo e immigrazione (Tai). È l’ultima di una serie di forzature del progetto, a partire dalla stessa costruzione dei centri, nati per procedure accelerate di frontiera per migranti provenienti da “paesi sicuri” non ancora arrivati in Italia. Dopo i primi rinvii alla Corte di giustizia, l’esecutivo ha aggirato i provvedimenti rendendoli Cpr per “irregolari” con un decreto di aprile. Poi ha forzato di nuovo la mano, rimpatriando cinque persone direttamente dall’Albania lo scorso 9 maggio, cosa vietata dalle norme Ue. Giovedì infine l’ultimo affondo, ignorando il provvedimento della Cassazione. Quello cui probabilmente puntano Meloni e Piantedosi è che nessuna delle persone trasferite faccia domanda d’asilo, rinviando quindi il caso alla Corte d’appello di Roma che ha adottato il dispositivo. La speranza è invece che tutto si risolva davanti ad un giudice di pace, competente quando sono scaduti i termini del trattenimento o nel caso di un riesame. Questi ultimi finora hanno confermato i trattenimenti con maggiore frequenza. Il Viminale non ha dato la notizia degli ultimi trasferimenti, che è arrivata attraverso media albanesi, e non ha rilasciato alcuna dichiarazione in merito. Di recente inoltre ha disposto l’ampliamento del centro da 48 a 96 posti, eppure questo continua a essere riempito nemmeno per metà: con gli ultimi quindici arrivati le presenze, infatti, sono arrivate al massimo a 42. Indice del fatto che nell’ostinazione di portare avanti la campagna l’esecutivo ha difficoltà a trovare anche le persone con cui riempire Gjader. In totale le persone transitate per l’Albania sono ora 119, secondo i calcoli della deputata Pd Scarpa. “Il governo va avanti per la sua strada, deportando persone e ignorando deliberatamente le pronunce dei giudici, in quello che è evidentemente ormai interpretato dall’esecutivo come un mero braccio di ferro con la legge, tutto a spese dei contribuenti italiani, giocato sulla pelle di poche persone deportate solo per ragioni di propaganda” ha detto ieri Scarpa, che poi ha aggiunto: “Non mi sorprenderei se nei prossimi giorni si tentassero altri rimpatri illegali, solo per aumentare le percentuali che il ministro Piantedosi ha disperato bisogno di sbandierare in diretta e che Meloni ha disperato bisogno di portare in Europa”. Se operazioni come quella del 9 maggio dovessero ripetersi, ha avvertito ieri il Tai, l’Italia si candiderebbe a “laboratorio di un diritto materiale che precede il diritto formale, mettendo alle corde lo stesso metodo legislativo dell’Unione”. Critiche sono arrivate anche da Riccardo Magi di +Europa, che ha definito gli ultimi trasferimenti “una vera e propria prepotenza del governo Meloni, che invece dovrebbe chiudere questi centri inumani e fuori dal diritto”. Migranti. I corridoi umanitari sono pezzi di pace dentro la guerra di Marco Impagliazzo Avvenire, 28 giugno 2025 L’esperienza dei canali attivati grazie all’impegno della Chiesa, delle associazioni e delle istituzioni nelle aree a rischio ci dice che una risposta degna a chi fugge dai conflitti è possibile. I volti dei 71 rifugiati giunti mercoledì a Fiumicino dalla Libia con i corridoi umanitari sono diversi da coloro arrivati in questi anni dal Libano, dall’Africa o dal Pakistan: pieni di gioia come tutti gli altri, ma segnati da un’acuta sofferenza in più. La Libia è un luogo atroce dove le vite dei profughi sono appese a un filo: alla volontà di un capo milizia o di uno qualunque dei loro aguzzini, come spesso documentato anche da Avvenire. Sono trattati come merce di scambio su cui guadagnare: vengono picchiati, torturati davanti ai cellulari per estorcere denaro ai loro parenti. Ci si rallegra che questa evacuazione dalla Libia non sia la prima negli ultimi due anni: soprattutto donne e bambini, coloro che soffrono di più, vittime di violenze indicibili. Con la fattiva collaborazione dei Ministeri dell’Interno e degli Esteri e dell’Unhcr si è aperta la via per questi speciali corridoi definiti “evacuazioni umanitarie”, sotto la responsabilità di Sant’Egidio e altre organizzazioni. I corridoi umanitari, nati da un’intuizione di Sant’Egidio a fine 2015, sono operativi dal 2016 e hanno già portato in Italia e in altri Paesi europei oltre diecimila rifugiati, in sinergia con la Federazione delle Chiese evangeliche, la Chiesa Valdese, la Cei attraverso la Caritas e negli ultimi anni anche l’Arci. Si tratta soprattutto di siriani, eritrei, somali, sudanesi e afghani, costretti a lasciare i loro Paesi a causa delle guerre che li hanno travolti. La Siria è stata in conflitto dal 2011 e oggi è sulla via di una difficile rinascita anche a causa degli scontri in atto nella regione (Libano, Gaza, Iran...) e della difficile ricostruzione della convivenza tra popolazioni e religioni diverse. Recentemente, l’attacco terroristico alla chiesa di Sant’Elias a Damasco ha provocato oltre venti morti in una comunità cristiana già ridotta di numero. Poi c’è l’Afghanistan abbandonato a sé stesso e da cui moltissimi continuano a fuggire, spesso via Pakistan o Iran dove il conflitto attuale li ha intrappolati. Moltissime le richieste che giungono a Sant’Egidio e agli altri promotori per salvare vite in pericolo. Ci si chiede quale sia il futuro di queste terre così martoriate e piegate sotto i colpi di una violenza che non sembra terminare. Un popolo dolente, alla ricerca di un rifugio, chiede accoglienza e integrazione nelle nostre società europee. Un discorso a parte meritano i palestinesi che escono con il contagocce da Gaza per essere ricoverati negli ospedali italiani perché in genere feriti, o comunque accolti per le loro drammatiche condizioni. L’Italia è il Paese occidentale che ne ospita di più, circa un migliaio, grazie al paziente negoziato del Ministero degli Esteri con le autorità israeliane. I corridoi umanitari sono una risposta alle guerre che colpiscono i popoli aumentando enormemente il numero dei profughi e dei rifugiati. Una risposta legale e sicura per tutti - per chi fugge e per chi accoglie - con un processo di integrazione garantito all’origine. Si tratta dunque di una risposta pacifica in un mondo violento, una resistenza concreta ai due mali della guerra e dell’inaccoglienza che, intrecciati fra loro, producono drammi umani e sociali incalcolabili. I corridoi dimostrano invece che tutto è possibile: è possibile essere accolti senza spaventare nessuno; è possibile trovare una nuova casa; è possibile trovare rifugio dalla guerra ed è possibile integrarsi senza sconvolgere nessuno ma salvando vite. I corridoi sono pezzi di pace in un mondo di guerre, quella risposta “disarmata e disarmante” di cui ha parlato papa Leone. Un modo umano e intelligente per reagire concretamente al male con il bene. Questo progetto, nato dalla società civile e dalla collaborazione tra comunità, Chiese e istituzioni, ha tenuto viva nella coscienza collettiva una sensibilità solidale e accogliente, ma ha anche liberato tante energie positive. Bisogna ripartire da qui per dare una risposta più umana a chi è in cerca di un futuro migliore. È anche una risposta economicamente conveniente per chi accoglie, che ha solo da guadagnare dalla capacità di resilienza e dalla voglia di ricominciare di chi è accolto. Migranti. Bamba Diop come “Io capitano” di Chiara Daina Corriere della Sera, 28 giugno 2025 Dal Senegal all’odissea nel deserto, e ora chef in un casale marchigiano. Bamba Diop è arrivato in Italia a 16 anni su un barcone, solo. Oggi ne ha 24 e comanda come chef la cucina di un casale marchigiano, dopo essersi formato come pasticciere con lo stellato Enrico Mazzaroni. “Il mio sogno? Aprire una scuola in Senegal. Per evitare ad altri l’incubo che ho vissuto io”. “Se sei nero, pensano che fai il lavapiatti. E invece sono lo chef del ristorante”. Bamba è originario del Senegal, ha 24 anni e una forza interiore luminosa, forgiata da un passato duro e difficile. “Quando un nuovo collaboratore, o un cliente se capita, entrano in cucina e scoprono che il capocuoco di un agriturismo italiano è un ragazzo giovane e di colore quasi non ci credono”, dice in un misto di stupore e fierezza non ostentata dei sacrifici che ha fatto per indossare quel grande cappello bianco. Bamba Diop è arrivato in Italia su un barcone quando era appena un sedicenne. Senza niente e nessuno. Dopo un viaggio drammatico, come quello intrapreso dai protagonisti del film Io Capitano e da una marea di altri migranti in cerca di futuro. L’appuntamento per l’intervista è fissato nel suo giorno di riposo. Ha gli occhi sorridenti, che sembrano spensierati. Il suo forte è il tiramisù: “Gli ingredienti sono gli stessi, ma se lo assaggi fai ‘wow!’”, assicura. Da gennaio lavora in un antico casale vicino a San Benedetto del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno. “Mi hanno offerto un contratto a tempo indeterminato da capo chef e un appartamento per me e mia moglie, oggi è lei a occuparsi della preparazione di dolci e gelati. Ci siamo sposati l’anno scorso, è senegalese come me. Prima, invece, ho lavorato per quasi tre anni come pasticcere in un ristorante stellato”. Quello dello chef Enrico Mazzaroni, sull’Appennino marchigiano. Bamba lo aveva incontrato a un’iniziativa di volontariato alla mensa della Caritas di San Benedetto del Tronto, dove andava tutte le mattine a preparare i pasti mentre di sera frequentava l’istituto alberghiero. “Mi ha visto ai fornelli e mi ha detto ‘tu sei bravo’. Ha voluto assistere al mio esame orale di maturità, in cui ho parlato di dieta mediterranea, della fame che ha patito la popolazione nelle guerre mondiali e di quella che ho sofferto io durante il mio viaggio dall’Africa all’Italia. Dopo il diploma, Mazzaroni mi ha proposto di entrare a far parte del suo staff di cuochi”. Bamba sforna olive ascolane e altri manicaretti della gastronomia marchigiana ma se gli domandi qual è il suo piatto preferito risponde “la pasta al pomodoro”. Per il futuro coltiva un altro sogno: “Tornare nel mio Paese per aprire una scuola elementare per i bambini più svantaggiati”, confida. Gli chiedo perché. “Non voglio che facciano la fatica che ho dovuto fare io per studiare. Percorrevo ogni giorno a piedi sette chilometri, all’andata e al ritorno, per raggiungere la scuola e a 13 anni sono stato costretto ad abbandonarla. L’iscrizione alle superiori era troppo costosa e così ho iniziato ad aiutare mia madre in casa: andavo a prendere il pane, cucinavo, lavavo i piatti e al pomeriggio giocavo a pallone”. Ripete che gli manca molto la sua famiglia. “Mio padre è venuto a mancare due settimane fa. Sono cresciuto sotto lo stesso tetto con lui, la sua prima moglie, che per me è stata come una zia, mia madre e otto fratelli nati dai due matrimoni. Ogni mese riesco a mandare a casa 350-400 euro e ogni tanto invio soldi anche agli amici che ne hanno bisogno”. Quella di Bamba è una storia di integrazione di successo come, per fortuna, ce ne sono tante altre. Ma i germogli che crescono di solito non fanno rumore. “Siamo in tanti a partire ma in pochi hanno un sogno da realizzare. Per non mollare e farti coraggio non devi mai scordarti la ragione per cui sei fuggito dalla tua terra. Io l’ho fatto per dare una mano alla mia famiglia. Non avevamo la luce a casa, mio padre aveva perso il lavoro perché era malato. Non puoi rischiare di morire e poi, una volta qui, perdere tempo o lasciarti coinvolgere in situazioni di degrado”. Riavvolgiamo il nastro indietro e torniamo al 2017. Una notte di novembre, a soli 16 anni, Bamba scappa da casa con l’amico di uno dei suoi fratelli, all’insaputa dei genitori. “Vieni in Europa con me, mi disse Modou. Lui aveva 25 anni, parlava solo Wolof, la lingua principale del Senegal, non sapeva il francese mentre io sì, il francese serviva per farsi capire - racconta - e chiedere aiuto alla gente dei Paesi africani che avremmo attraversato. Non ho soldi gli ho risposto, ma lui mi ha detto di non preoccuparmi, che ci avrebbe pensato lui a me. Il mio unico obiettivo era guadagnare soldi per far uscire dalla povertà la mia famiglia”. Bamba abita a Thies, a 70 chilometri dalla capitale Dakar. Con sé porta uno zainetto con dentro una maglietta e un paio di pantaloncini, nient’altro. “Non avevo idea - continua - di quanto ci avremmo impiegato, ma non più di un giorno pensavo. Non conoscevo l’Europa e nemmeno l’Italia, non avevo la tv, né il cellulare, avevo sentito solo parlare di Inter e Milan. Io e Modou ci siamo accordati nel pomeriggio al campo di calcio e alle due e quaranta di notte siamo partiti a piedi per raggiungere la stazione degli autobus”. Con la prima corriera arrivano fino alla frontiera con il Mali. Poi inizia un’odissea di fatica, paura e sofferenza, durata oltre sette mesi. I due amici salgono a bordo di furgoni, auto, altri bus e quando non ci sono mezzi di fortuna camminano per settimane intere. Ogni tanto fanno dei lavoretti per racimolare qualche spicciolo, ma ricorda lui, “quando non avevamo niente la gente nei villaggi ci offriva acqua e cibo, in Africa - dice Bamba - è una cosa normale aiutarsi a vicenda. Dormivamo lungo la strada e solo due volte siamo stati ospitati nelle case. Lungo il percorso abbiamo incontrato altri uomini, donne e bambini diretti come noi in Europa e abbiamo formato un gruppo”. Dopo aver varcato i confini con il Burkina Faso e la Nigeria, si spingono fino al deserto libico e Modou non ce la fa: “I soldi erano finiti, lui aveva mal di pancia, si è accasciato ed è morto. Erano le cinque di un sabato pomeriggio. Lo abbiamo dovuto lasciare lì, sulla sabbia. Nel tragitto trovi tanti cadaveri. Come dei pugni nello stomaco, fai i conti con un dolore e una rabbia che non pensavi avresti mai vissuto, ma devi resistere, non puoi tornare indietro. Non lo avrei mai fatto, avevo paura di morire anche io o che mio padre mi avrebbe sgridato per essermene andato via di nascosto e non mi avrebbe mai più voluto”. Bamba resta bloccato a Tripoli per quasi un mese. “Per giorni non ho mangiato. Poi un uomo senegalese mi ha portato a casa sua. Faceva il mediatore con gli scafisti, procurava i migranti da trasportare con i barconi in Italia. Ogni 20 persone che consegnava due non pagavano la traversata, ma solo la tariffa per la mediazione. A me non ha chiesto nemmeno quella e mi sono imbarcato gratis. In mezzo al mare non sentivo più la fame e la sete. Siamo stati salvati dalla Guardia costiera italiana che ci ha scortati fino a Lampedusa”. Dopo un paio di settimane escogita il modo di scappare dal centro di accoglienza dell’isola e si ritrova in stazione a Milano. “Avevo bisogno di lavorare, ma i connazionali mi dissero che era dura e cara la vita lì e che avrei avuto più chance a Pescara, dove vive una grande comunità senegalese. Uno di loro, allora, mi comprò un biglietto del treno diretto in questa città ma il controllore mi fece scendere a San Benedetto del Tronto perché il biglietto, in realtà, era stato pagato fino ad Ancona”. Qui si mette a vendere accendini e braccialetti in spiaggia e quando i carabinieri lo fermano e provvedono a inserirlo nel percorso di accoglienza per minori stranieri non accompagnati. “Mi hanno affidato a una casa famiglia senegalese, dove sono rimasto per otto mesi, cioè fino a quando ho compiuto 18 anni. Dopodiché la Caritas mi ha messo a disposizione un alloggio, che ho condiviso con altri quattro ragazzi africani”. Nel frattempo Bamba consegue la licenza media in due anni anziché tre e prende il diploma di alberghiero. Nei weekend, intanto, fa pratica come aiuto cuoco in un locale. Da lì in poi continua a fare strada. “Sono grato all’Italia e in particolare alla Caritas - riprende - per avermi dato l’opportunità di completare i miei studi, per avermi garantito un alloggio quando non potevo permettermelo e messo nelle condizioni di avere un lavoro. Con i soldi che guadagno ho consentito alla mia famiglia di realizzare l’impianto elettrico in casa, di comprare le medicine, avere cibo a sufficienza e mandare a scuola le mie sorelle”. Bamba in questi otto anni è tornato in Senegal due volte per far visita ai suoi cari. Ma se famiglia, nel senso più ampio del termine, include anche i legami con gli amici che non ti abbandonano nel momento del bisogno, allora Bamba ne ha costruita una anche in Italia: “Ringrazio con il cuore le persone che mi hanno sostenuto nella preparazione degli esami a scuola, quando ho dovuto prendere decisioni difficili e quando semplicemente mi dimostrano affetto invitandomi a casa loro”. Alla domanda se rifarebbe quel terribile viaggio la risposta è secca: “Mai e poi mai, neanche se mi pagassero un miliardo di euro. Ho avuto tanta paura, ho sofferto la fame e la sete come non avrei mai immaginato, ho visto tante persone morire. Un incubo che mi porterò dietro per sempre”. Quell’orrida gerarchia tra le vittime di guerra di Chiara Saraceno La Stampa, 28 giugno 2025 L’asimmetria tra le vittime dei confitti in corso sta diventando sempre più insopportabile, aumentando, se possibile, l’insopportabilità di massacri che sembrano non avere fine. Riguarda le vittime non viste dei conflitti che stanno (ancora, fino a quando?) nelle periferie del mondo, di cui poco si vede e si racconta. Ma riguarda anche i conflitti, le guerre, che invece occupano i giornali, le televisioni, gli incontri internazionali, tutti i giorni. È speculare alla diversa legittimazione data alle parti in conflitto in base a criteri che ormai poco hanno a che fare con il diritto internazionale, per cui non solo l’aggressione a un paese, o gli atti terroristici, ma la stessa violazione dei diritti umani viene o meno riconosciuta e condannata a seconda di chi la compie. Si possono impunemente stanare i propri nemici dovunque si trovino, anche a costo di fare vittime innocenti, come è successo nei raid israeliani sul Libano e negli omicidi “mirati” di leader politici, generali, o scienziati che spesso hanno coinvolto le intere loro famiglie, inclusi i bambini, evidentemente considerati puro “bagaglio appresso” dei loro congiunti. Si possono anche utilizzare due pesi e due misure nel valutare vittime e aggressori a seconda del caso. Perciò Netanyahu può senza arrossire denunciare il bombardamento iraniano di un ospedale israeliano (in risposta all’attacco israeliano) come crimine contro l’umanità, mentre continua a far bombardare ospedali, scuole, file per il cibo (quando consente che un po’ di cibo entri), a Gaza come atti necessari per sconfiggere Hamas. L’orrore dell’attacco di Hamas il 7 ottobre viene replicato all’infinito nei bombardamenti quotidiani su persone, inclusi bambini, inermi, nell’obbligarli continuamente a spostarsi perché nessun posto ormai è sicuro, nell’affamarli lentamente, senza che i paesi che si definiscono culla della civiltà, inclusa l’Italia, ritengano opportuno una condanna non solo a parole. Che sia tecnicamente un genocidio o meno, poco importa: è la, neppure tanto lenta, distruzione di un popolo cui non solo vengono sottratte anche le risorse minime per la sopravvivenza, ma la dignità di esseri umani. Le immagini dei palestinesi, spesso bambini e adolescenti, che si spintonano e azzuffano per arraffare un po’ di cibo gettato loro come fossero animali è l’immagine di una degradazione umana e civile che, se può indurre indignazione e pietà, può anche facilitare in chi li vede da fuori una forma di distanziamento e di inferiorizzazione di esseri umani ridotti ai bisogni primari. Questa visione asimmetrica delle vittime è (è stata) all’opera anche nel conflitto Israele- Iran e nell’intervento USA a favore del primo. Ha trovato la sua (inconsapevole?) esplicitazione nella battuta di Trump sull’intervento USA come simile allo sganciamento della bomba atomica su Hiroshima per mettere fine a un litigio tra ragazzi in cortile. L’analogia spropositata di Trump, avvallata da Rutte, e l’orrore che provoca, non riguarda solo la prima parte di quell’affermazione, ma anche la seconda. Dietro all’equiparazione della guerra (per altro scatenata a scopo preventivo) ad un litigio da cortile non c’è solo l’arroganza di chi si crede più forte rispetto ad alleati e nemici considerati come dei ragazzacci discoli e immaturi. C’è anche il profondo disprezzo per le vittime iraniane: per le centinaia di morti, feriti, per chi ha perso casa e tutto, per coloro che, in conseguenza dell’attacco israelo-statunitense, sono stati esposti, se percepito come oppositori o comunque dissidenti, al rischio di essere condannati come alleati degli aggressori dal regime che li opprime. Con la beffa ulteriore di sentirsi dire che lo si faceva anche per liberarli da quel regime. Come se la storia anche recente, da ultimo il dramma dell’Afghanistan, nulla avesse insegnato sui “cambiamenti di regime” imposti dal di fuori e sull’abbandono in cui vengono lasciati dai “liberatori” coloro che ci avevano creduto. Anche gli ucraini rischiano di fare la stessa fine. Di nuovo, vittime di secondo rango e possibili pedine di scambio in un gioco senza regole, salvo quelle dei rapporti di forza tra gli attori più potenti. Un gioco in cui è sempre più difficile distinguere i buoni dai cattivi. “Difendere i difensori dei diritti umani, a qualsiasi latitudine” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 28 giugno 2025 Parla il coordinatore della Commissione diritti umani e protezione internazionale del Cnf, che guiderà l’Oiad nel biennio 2025-2026. Leonardo Arnau, coordinatore della Commissione diritti umani e protezione internazionale del Consiglio nazionale forense, è il nuovo presidente dell’Oiad (Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo). L’elezione è avvenuta nel corso dell’ultima assemblea generale svoltasi a Madrid. Il Consiglio nazionale forense, con la presidenza Arnau, guiderà l’Oiad nel biennio 2025-2026. Come rappresentante dell’Italia, Leonardo Arnau succede a Francesco Caia, che ha contribuito a fondare l’Osservatorio. “Ringrazio l’avvocato Caia - dice Arnau - per il lavoro svolto con competenza. L’Italia è ben rappresentata, dato che nel direttivo dell’Oiad c’è anche Antonio Fraticelli dell’Ordine degli avvocati di Bologna ed è stato confermato l’avvocato Roberto Giovene di Girasole nel segretariato generale. Mai come in questo momento il Cnf ha assunto un ruolo di guida e di promozione dei diritti umani, considerato il lavoro del capo delegazione CCBE (il Consiglio degli Ordini forensi d’Europa, ndr), Daniela Giraudo, che ha condotto all’elezione di Barbara Porta a presidente della Commissione diritti umani dello stesso CCBE”. Presidente Arnau, in questo momento di conflitti e tensioni a livello internazionale, l’avvocatura deve moltiplicare gli sforzi per essere in grado di affrontare le sfide riguardanti la tutela dei diritti? Gli avvocati, che dei diritti umani sono i naturali difensori, appartengono ad una delle categorie più a rischio, unitamente ad altri presidi di garanzia, quali i magistrati indipendenti e i giornalisti in particolare, in tutti i contesti sociali non democratici, nelle autarchie o democrature, ma come possiamo vedere in questi giorni, anche nelle democrazie. Pensiamo agli Stati Uniti. Ciò avviene perché rappresentiamo naturalmente un contro-potere, nella misura in cui tuteliamo il patrimonio dei diritti delle persone e dei cittadini anche e soprattutto nei confronti delle autorità pubbliche. Difendere la libertà dell’esercizio della professione forense in qualunque Stato e contesto sociale equivale a salvaguardare lo Stato di diritto. E senza Stato di diritto non può esserci vera democrazia. Credo che riaffermare questo principio non sia mai superfluo. Nel contesto attuale il lavoro dell’Oiad è ancora più importante? Certamente. Secondo una recente ricerca commissionata dal settimanale britannico Economist, solo il 5,7% della popolazione mondiale vive in Stati di democrazia compiuta o completa. Mi riferisco al “Democracy index”. Non possiamo dimenticare che lo Stato di diritto vive sempre in un precario equilibrio e anche il nostro non fa eccezione. Per questo motivo dobbiamo seguire con attenzione ciò che succede nel mondo, perché le spinte autoritarie travalicano facilmente le frontiere. Alcune volte, soprattutto nei Paesi a democrazia limitata, gli avvocati vengono rappresentati e trattati come dei nemici di chi è al potere. Lo stesso può dirsi per i difensori dei diritti umani. Secondo lei, è la spia della circolazione di un virus autoritario? Gli avvocati, a qualunque latitudine, difendono la libertà e i diritti delle persone, ne sono portatori e chi calpesta i diritti umani, in primo luogo, aggredisce l’avvocatura che ha il compito di tutelarli. Mettere sotto osservazione i luoghi dove questa patologia si manifesta non vuol dire occuparsi arbitrariamente di questo o quello Stato straniero: significa occuparsi di sé stessi, significa essere autenticamente avvocati e cittadini e contribuire a preservare la democrazia. Li? dove la liberta? dell’avvocato, e di conseguenza il diritto di difesa del cittadino, e? minacciata o negata, li? e? in pericolo la liberta? di un Paese. Per questo il nostro impegno dovrà proseguire e mai cessare, pena rinnegare noi stessi. Assieme, sono sicuro, sapremo farlo al meglio. Di cosa si occupa l’Oiad? L’Osservatorio internazionale degli avvocati in pericolo è ormai, grazie alle attività svolte con grande impegno dai quattro membri fondatori, il Cnf, il Conseil National des Barreaux per la Francia, l’Ordine degli avvocati di Parigi e il Consejo General de la Abogacía Española per la Spagna, da tutti i membri ordinari che si sono aggiunti nel tempo e dagli osservatori internazionali, una realtà conosciuta e apprezzata a livello internazionale. Attraverso i propri comunicati che attengono alle vicende degli avvocati la cui libertà e incolumità personale sono a rischio, a causa del libero esercizio della professione e perché identificati con i loro clienti, i report delle missioni di osservazione processuale e delle missioni sul campo per valutare le condizioni di esercizio della professione forense, l’Oiad rappresenta una fonte di informazione particolarmente qualificata di tante violazioni dei diritti umani, nelle diverse parti del mondo, che, altrimenti, rischierebbero di non essere divulgate. Quali sono gli obiettivi che intende raggiungere l’Osservatorio durante la guida italiana? La presidenza del Consiglio nazionale forense intende proseguire in perfetta continuità l’azione fin qui svolta dall’Oiad, consapevole che l’attuale periodo storico, caratterizzato da gravi e ripetute violazioni dei principi dello Stato di diritto e del giusto processo, espongono sempre di più gli avvocati a minacce e ritorsioni per realizzare le quali, in alcuni Paesi, noi si esita a colpire l’indipendenza degli Ordini degli avvocati per colpire più facilmente i singoli. Occorre, quindi, rafforzare ulteriormente l’Osservatorio, al fine di potenziarne la capacità di azione per affrontare, con rinnovata energia, le situazioni monitorate nei singoli contesti geopolitici e le sempre maggiori richieste di aiuto. Ci può dare qualche anticipazione sulle prossime iniziative dell’Osservatorio? Il 2026 sarà un anno importante, dato che ricorrerà il decennale dalla fondazione dell’Oiad. Tale ricorrenza potrà costituire un’occasione di maggiore visibilità per tutte le nostre attività. Proporremo di organizzare degli eventi nei territori, invitando gli Ordini aderenti ad essere parte attiva in manifestazioni e dibattiti volti a far conoscere l’Osservatorio e il suo lavoro ai loro iscritti, con il coordinamento del direttivo. Ciascun membro fondatore potrebbe, eventualmente, promuovere riunioni per coordinare le attività poste in essere dagli Ordini forensi del proprio Paese di appartenenza per celebrare la ricorrenza, sfruttando l’occasione per far conoscere ancora di più le finalità e le azioni dell’Oiad. Stati Uniti. Ius soli, la Corte Suprema ferma la mano dei tribunali contro Trump Il Dubbio, 28 giugno 2025 La sentenza limita l’uso delle ingiunzioni contro i provvedimenti del presidente americano. Lui: “Vittoria monumentale: la cittadinanza per nascita è finita”. La Corte Suprema ha dato ragione a Donald Trump, autorizzando l’entrata in vigore in molte parti degli Stati Uniti dell’ordine esecutivo con il quale il presidente ha messo fine al “birtright citizenship”, la cittadinanza per diritto di nascita. La Corte ha votato 6-3, dividendosi tra giudici conservatori e progressisti, stabilendo che i giudici federali di grado inferiore non hanno il potere di bloccare a livello nazionale i provvedimenti esecutivi della Casa Bianca. La sentenza ha implicazioni più ampie che il solo stop allo Ius Soli, sul cui merito di costituzionalità i giudici della Corte non sono intervenuti. Per ora, tuttavia, i giudici hanno limitato le sentenze dei tribunali inferiori a bloccare l’ordinanza di Trump solo per quanto riguarda i 22 stati a guida democratica, in attesa delle cause intentate contro il provvedimento presidenziale. Firmato il primo giorno del suo ritorno alla Casa Bianca, l’ordine esecutivo di Trump limita la cittadinanza per diritto di nascita per i bambini nati sul suolo statunitense se non hanno almeno un genitore con status legale permanente. Le ampie restrizioni sovvertono l’interpretazione convenzionale della clausola sulla cittadinanza del XIV emendamento, da tempo riconosciuta come soggetta a poche eccezioni. Ogni tribunale che finora ha affrontato direttamente la legalità dell’ordinanza di Trump l’ha ritenuta probabilmente incostituzionale. L’amministrazione si era rivolta alla Corte Suprema con la sua procedura d’urgenza per limitare le ingiunzioni a livello nazionale emesse dai giudici federali di Greenbelt, nel Maryland, Seattle e Boston. Dopo la vittoria alla Corte Suprema, il presidente Donald Trump ha dichiarato che la sua amministrazione è pronta a rilanciare diverse iniziative precedentemente bloccate dai tribunali. “Grazie a questa decisione - ha detto - possiamo ora presentare immediatamente richiesta per procedere con politiche che erano state oggetto di ingiunzioni a livello nazionale”. Tra queste, Trump ha indicato come prioritaria “la fine della cittadinanza per nascita, che ora torna in primo piano”. Il presidente ha aggiunto che intende portare avanti anche “l’eliminazione dei finanziamenti alle città santuario, la sospensione del reinsediamento dei rifugiati, il congelamento dei finanziamenti non necessari e l’interruzione dell’uso del denaro dei contribuenti federali per pagare interventi chirurgici per persone transgender”, oltre a “numerose altre” misure. “Grande vittoria alla Corte Suprema degli Stati Uniti! - ha scritto il presidente - Anche la truffa dello ius soli è stata, indirettamente, colpita duramente. Deve riguardare i figli degli schiavi (lo stesso anno!), e non la truffa del nostro processo di immigrazione”. Nel suo messaggio, Trump ha ringraziato i vertici del Dipartimento di Giustizia: “Congratulazioni al Procuratore Generale Pam Bondi, al Solicitor General John Sauer e all’intero Dipartimento di Giustizia”. Ha inoltre annunciato una conferenza stampa alla Casa Bianca alle 11.30 (19.30 ora italiana). La sentenza della Corte, pur non entrando nel merito costituzionale dello ius soli, rappresenta una vittoria fondamentale per Trump perché limita l’autorità dei giudici federali nel bloccare a livello nazionale i suoi ordini esecutivi, favorendo così l’attuazione della sua agenda politica. La sentenza della maggioranza conservatrice è “una parodia dello stato di diritto”, è il durissimo attacco lanciato da Sonia Sotomayor. Per la giudice nominata da Barack Obama con questa decisione la maggioranza conservatrice ha “vergognosamente” avallato “l’abile gioco” con cui l’amministrazione ha tentato di far applicare una misura “chiaramente incostituzionale”, non chiedendo a sommi giudici di riconoscerne la legalità, ma invece di limitare il potere dei giudici federali di tutto il Paese di contestarne la costituzionalità. “Nessun diritto è al sicuro nel regime legale che la Corte così crea - ha scritto ancora Sotomayor che oggi ha scelto, con una mossa inusuale, di leggere in aula parti della sua opinione di dissenso - oggi sotto minaccia è il diritto alla cittadinanza per nascita. Domani un’amministrazione diversa potrebbe sequestrare le armi a cittadini che rispettano la legge, impedire a a cittadini o persone di una certa fede religiosa di riunirsi a pregare”. Iran. Esecuzioni e arresti di massa. “Morte ai collaboratori di Israele” di Emilio Minervini Il Dubbio, 28 giugno 2025 Dopo il cessate il fuoco sono ripartite le purghe del regime contro le presunte spie La Cnn rivela: “Accordo segreto sul nucleare tra Donald Trump e gli ayatollah”. Terminata la guerra iniziano le purghe. Le autorità iraniane hanno arrestato più di 700 persone nel corso, e a seguito, della guerra dei dodici giorni, per la maggior parte dissidenti politici. Oltre agli arresti, Teheran ha giustiziato per impiccagione tre cittadini iraniani accusati di condurre attività di spionaggio a favore d’Israele. Altre tre persone sono state impiccate dopo l’annuncio della tregua, sempre per presunti legami con il Mossad. Nel frattempo, secondo indiscrezioni fornite dalla Cnn, gli Stati Uniti avrebbero offerto 30 miliardi di dollari all’Iran per abbandonare il programma nucleare militare. Nei primi giorni del conflitto il servizio segreto israeliano è riuscito a raggiungere diversi membri apicali dei Guardiani della rivoluzione e scienziati del programma nucleare iraniano, uccidendoli. La precisione dimostrata dal Mossad ha spaventato il regime dei Pasdaran, che ha quindi adottato misure repressive come l’oscuramento di internet, l’ordine alla popolazione di cancellare i social occidentali, blocchi stradali e perquisizioni, anche dei telefoni cellulari, e confisca di attrezzature sensibili. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Nour, le autorità hanno sequestrato più di 10mila droni solo a Teheran, probabilmente utilizzati per carpire informazioni su obiettivi sensibili, oltre ad aver smantellato diversi siti che sarebbero stati utilizzati per la fabbricazione dei suddetti droni. Condotte ufficialmente in contrasto all’attività d’intelligence israeliana le operazioni s’inseriscono nel contesto di una guerra interna non meno importante per il regime rispetto a quella appena conclusa. La televisione di Stato iraniana ha mandato in onda quelle che sono state presentate come confessioni di alcuni degli arrestati, che avrebbero ammesso la loro collaborazione con il governo israeliano. Il ministero dell’Intelligence iraniano ha annunciato di aver intrapreso una battaglia senza sconti contro le agenzie di intelligence occidentali incluse il Mossad, la Cia e l’MI6. L’agenzia Fars News, secondo quanto riportato dalla Bbc, ha denunciato che, a partire dal 13 giugno primo giorno degli attacchi israeliani, “la rete di spionaggio israeliana è diventata molto attiva all’interno del paese”, ragione per la quale il controspionaggio iraniano e le forze di sicurezza hanno “arrestato più di 700 persone connesse a questa rete”. Negli ultimi giorni del conflitto il Mossad aveva pubblicato su X un messaggio in farsi, nel quale invitava i cittadini iraniani a seguire un link sicuro, riportato in calce al post, per collaborare con il servizio segreto israeliano. Nel post si specificava di utilizzare servizi di vpn per evitare di essere tracciati e scovati dall’intelligence di Teheran. Il regime iraniano ha preso di mira anche giornalisti che lavorano in media in lingua persiana con sede all’estero. Le Guardie della rivoluzione avrebbero arrestato la famiglia di una presentatrice dell’emittente Iran International, il cui padre, sotto costrizione, l’avrebbe chiamata chiedendole di abbandonare il suo incarico per evitare tragiche conseguenze. Dietro alla recente repressione non ci sarebbero però solo motivazioni d’intelligence. Il cambio di regime, invocato dal premier israeliano, Netanyahu, durante il conflitto e vagheggiato, prima di fare dietro front, da Trump, rappresenta un concreto timore per i Pasdaran. Gli arresti di massa sarebbero piuttosto finalizzati ad impedire la recrudescenza delle sollevazioni di piazza del 2022. Molti degli arrestati infatti sarebbero dissidenti politici e appartenenti alle minoranze presenti nel paese, come i curdi. Le proteste seguite alla morte di Mahsa Amini, uccisa dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo, si svolsero in tutta la nazione ma furono particolarmente partecipate nel Kurdistan iraniano, sia per il fatto che Amini era curda sia perché la popolazione del Kurdistan è particolarmente attiva a livello politico. Oltre che nel Kurdistan, il regime ha aumentato le misure di sicurezza nel Belucistan, territorio al confine con Pakistan e Afghanistan, abitato da un’altra minoranza, i beluci, considerata una minaccia da Teheran. Il regime ha anche inviato diversi reparti dell’esercito a presidiare i varchi di frontiera per evitae eventuali infiltrazioni esterne. Gli Stati Uniti avrebbero offerto aiuti per 30 miliardi di dollari, un alleggerimento delle sanzioni e lo scongelamento di fondi all’Iran per abbandonare il programma nucleare militare. Il dialogo tra Washington e Teheran non si è mai interrotto, né mentre Tel Aviv bombardava le città iraniane, né quando gli stessi Stati Uniti hanno colpito i siti di Fordo, Natanza e Isfahan. Le trattative sarebbero state portate avanti dall’inviato speciale per il Medio Oriente, Witkoff, con la mediazione dei paesi del Golfo Persico. La bozza presentata agli iraniani prevedrebbe investimenti per 30 miliardi da destinare al programma nucleare civile di Teheran. Entrambe le parti pubblicamente ostentano di non essere interessate all’accordo, “non mi interessa se ci sarà un accordo o meno”, ha detto recentemente Trump, mentre il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha dichiarato che “con la guerra e le vittime non è facile raggiungere un accordo come prima”. Nonostante le dichiarazioni di disinteresse è probabile che le trattative continuino sottotraccia per l’interesse di entrambi gli attori. Iran. Scarafaggi, torture e silenzi: la vita nel carcere di Evin dopo l’assalto di Simona Musco Il Dubbio, 28 giugno 2025 Il doloroso allarme lanciato dall’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh: il regime ha gettato in cella anche suo marito Reza. “Tre giorni in cui ogni giorno è stato peggiore del precedente”: così Nasrin Sotoudeh, avvocata per i diritti umani, racconta l’incubo seguito all’attacco al carcere di Evin, a Teheran. L’obiettivo, colpito con precisione dalle forze israeliane, è uno dei luoghi più emblematici della repressione politica della Repubblica islamica. Ma l’attacco è solo l’inizio. “Le notizie che sono arrivate dopo sono state ancora peggiori: la presenza massiccia di scarafaggi e cimici, la mancanza di strutture igieniche adeguate, acqua salmastra usata per tè e cibo, aria malsana da respirare - e oggi, il taglio persino di quelle telefonate di pochi minuti che potevano fare. Oggi non sono nemmeno riusciti a contattarci”, ha scritto Sotoudeh sui suoi profili social. Lei in quella prigione è passata più volte, come oppositrice del regime. Ora, in quelle stesse celle, si trova suo marito, Reza Khandan. Il “reato” contestato a Khandan è aver prodotto delle spille con la scritta: “Mi oppongo al velo obbligatorio”. Un gesto di resistenza pacifica, che per le autorità iraniane è valso una condanna a tre anni e mezzo di carcere. La pena, inizialmente sospesa, è stata riattivata a dicembre scorso. Non fu un arresto casuale: in quei giorni, il Parlamento iraniano si preparava a votare una legge sul velo e la castità che prevedeva pene severissime - fino alla pena di morte - per le donne non conformi all’obbligo del velo. Sotoudeh, insieme ad altre attiviste, si è opposta pubblicamente a quella norma, annunciando proteste nel caso in cui fosse approvata. La mobilitazione fu tale che il Parlamento fece marcia indietro. Ma proprio il giorno in cui quella legge sarebbe dovuta entrare in vigore, la polizia ha fatto irruzione nella casa dei due attivisti e ha portato via Reza, riesumando la vecchia condanna già archiviata - un pretesto, secondo la sua famiglia, per colpire indirettamente Nasrin. “Abbiamo superato il terzo giorno dell’incubo dell’attacco al carcere di Evin - ha scritto ancora l’avvocata -. Tre giorni dal momento dell’assalto, dalle voci dei detenuti che cercavano riparo sotto i calcinacci, che cercavano di rassicurarci dicendo che stavano bene, fino alla notizia del dispiegamento delle forze speciali nel cortile del carcere e del trasferimento notturno dei prigionieri al carcere di Teheran Grande - un luogo di esilio, con le caviglie incatenate, per crimini mai commessi. Il “reato” di uno era insignificante; quello di un altro era semplicemente svolgere il proprio dovere di avvocato. Il “reato” di Reza era aver prodotto spille con la scritta “Mi oppongo al velo obbligatorio”. Tutti loro, prosegue, avevano scritto lettere alle autorità giudiziarie denunciando di sentirsi in pericolo e chiedendo la scarcerazione in base alle disposizioni previste in stato di guerra. Ma nessuno ha adempiuto al proprio dovere legale. “Fino a quando non è successo esattamente ciò che temevamo”, conclude. Medio Oriente. A Gaza, aiuti, calca e spari: cosa accade nella Striscia di Davide Frattini Corriere della Sera, 28 giugno 2025 I quattro centri Ghf aperti solo un’ora al giorno: la folla preme e i soldati israeliani fanno fuoco. Sarebbero almeno 519 le persone uccise, l’Onu accusa: “Trappole di morte”. I sacchetti di plastica valgono più di un carretto o una carriola perché una volta riempiti sono facili da nascondere sotto la maglietta o nei pantaloni. Così quando arriva l’ordine di apertura dei cancelli, sulla polvere ocra svolazzano queste bandierine bianche tenute strette dai ragazzini in ciabatte, anche se non è un segno di resa, non si può mollare dopo aver passato ore sotto il sole, ammassati sulle dune artificiali di terra e detriti che fanno da barriera. I militari che hanno una sigla per tutto ne hanno trovata una anche per questi “centri di distribuzione rapida” (Mahpazim in ebraico) dove invece l’attesa è lenta, estenuante, fino alla corsa - qui sì bisogna essere più rapidi di tutti - in cui chi arriva ultimo resta a mani vuote e a pancia vuota i famigliari ad attendere nelle tende piantate una sull’altra lungo la costa. I centri sono gestiti da un’organizzazione americana (la Gaza Humanitarian Foundation) che alla fine di maggio ne ha allestiti quattro: tre a sud tra le macerie di Rafah, uno verso il centro dei 363 chilometri quadrati. Troppo pochi e troppo distanti da raggiungere per molti abitanti. Di solito restano aperti solo per un’ora al mattino, gli scatoloni di cartone sono stati preparati con farina, olio, pasta, salsa, biscotti, succo di pomodoro e un vasetto di involtini di riso in foglie di vite, piatto del Levante. Il gruppo dichiara di aver dato via 800 mila pacchi da quando ha cominciato le operazioni, i primi convogli a entrare nella Striscia dopo 80 giorni, dopo il blocco imposto dal governo israeliano che voleva impedire i saccheggi dei miliziani di Hamas. Su pressione della Casa Bianca per far ripartire gli aiuti, la distribuzione è stata affidata alla Ghf, che ha appena ricevuto 30 milioni di dollari da Washington. Le Nazioni Unite sono state escluse - agiscono in parte nel Nord di Gaza ancora più disastrato - e i loro funzionari avevano previsto il caos attorno ai punti di consegna. “La popolazione rischia la vita - denunciano - per cercare di ottenere un po’ di cibo, la maggior parte delle famiglie sopravvive con un solo pasto al giorno e gli adulti saltano la loro porzione per lasciarla ai bambini”. Jens Laerke dell’Onu descrive i centri come “trappole della morte”: i testimoni locali raccontano che i soldati israeliani hanno sparato più volte verso i palestinesi in cammino verso i magazzini dell’organizzazione. I portavoce dell’esercito rispondono che le truppe hanno tirato “dei colpi di avvertimento, quando si sono sentite in pericolo”. Ghf replica che nessuna sparatoria è avvenuta vicino ai centri, i soldati sono dislocati attorno, le ampie aree che controllano sono delimitate come “zona militare”, chiunque si avvicini è considerato un bersaglio. Almeno 519 persone - calcola il ministero della Sanità nella Striscia, diretto da Hamas - sono state uccise in situazioni legate alla distribuzione del cibo. La Croce Rossa Internazionale spiega che nell’ultimo mese ha dovuto attivare 20 volte le procedure per “alto numero di vittime” nel suo ospedale da campo a Rafah. “Non esistono più luoghi sicuri per i civili che dovrebbero essere protetti. Ogni giorno numerose persone vengono ammazzate, anche mentre stanno cercando di ottenere da mangiare”, commenta il portavoce Christian Cardon. L’ambasciata americana a Gerusalemme è intervenuta agli inizi di giugno per smentire che “le forze israeliane abbiano mirato alle persone in fila per gli aiuti. È Hamas che continua a terrorizzare e intimidire gli abitanti”. Accusa i media statunitensi di “pubblicare falsità”: il quotidiano Washington Post ha corretto un articolo uscito nello stesso periodo “perché non specificava che le accuse contro i soldati arrivassero dal ministero della Sanità palestinese”. Il dipartimento di Stato americano ha annunciato “la distribuzione di 46 milioni di pasti senza che Hamas potesse rubarli”. Eppure quelli che lo stato maggiore chiama “incidenti” e su cui dice di aver aperto inchieste si sono moltiplicati dai giorni - ancora più caotici - alla fine di maggio. Il quotidiano Haaretz ne ha registrati almeno 19: “Non è sempre chiaro chi abbia sparato - scrivono i giornalisti nella ricostruzione - ma l’esercito non permette a uomini armati di avvicinarsi alle aree umanitarie”. Il giornale letto dai liberal israeliani ha raccolto le testimonianze di riservisti dispiegati in quelle zone: le truppe aprono il fuoco anche con i carrarmati perché la gente non si avvicini prima che il centro inizi la distribuzione al mattino e ancora per disperdere le migliaia di persone alla chiusura. L’esercito ha replicato smentendo che “sia stato dato l’ordine di sparare ai civili mentre si avvicinano alla consegna del cibo”. Il premier Benjamin Netanyahu denuncia l’articolo come “menzogne malevole”.