“Carceri piene per la guerra ai poveri. Non si combatte il business criminale” di Giacomo Gambassi Avvenire, 27 giugno 2025 “È più facile combattere le vittime che l’immenso business criminale”. Leone XIV sceglie la Giornata internazionale contro la droga per denunciare le storture dei sistemi che cavalcano le paure facili e le false soluzioni. “Troppo spesso, in nome della sicurezza - sostiene il Papa - si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Chi tiene la catena nelle sue mani, invece, riesce ad avere influenza e impunità”. Davanti a sé ha giovani e adulti che sono impegnati in percorsi di recupero, le loro famiglie e gli operatori pubblici e privati del settore che il Papa incontra nel Cortile di San Damaso all’interno del Palazzo Apostolico fra le mura leonine. “Il nostro combattimento - spiega Leone XIV - è contro chi fa delle droghe e di ogni altra dipendenza - pensiamo all’alcool o al gioco d’azzardo - il proprio immenso business. Esistono enormi concentrazioni di interesse e ramificate organizzazioni criminali che gli Stati hanno il dovere di smantellare”. Da qui il monito. “Le nostre città non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione”. E cita Francesco che nell’Evangelii gaudium scriveva: “Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo”. Leone XIV indica “la cultura dell’incontro come via alla sicurezza” e “ci chiede la restituzione e la redistribuzione delle ricchezze ingiustamente accumulate, come via alla riconciliazione personale e civile”. Poi delinea un’agenda di impegno. “La lotta al narcotraffico, l’impegno educativo tra i poveri, la difesa delle comunità indigene e dei migranti, la fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa sono in molti luoghi considerati sovversivi”. Leone XIV richiama ancora il suo predecessore rivolgendosi al “popolo” che ha scelto di lottare contro la droga. “Ricordo che quando Papa Francesco entrava in un carcere, anche nel suo ultimo Giovedì Santo, si poneva sempre quella domanda: “Perché loro e non io?”“. “La droga e le dipendenze - aggiunge papa Leone - sono una prigione invisibile che voi, in modi diversi, avete conosciuto e combattuto, ma siamo tutti chiamati alla libertà”. Il Pontefice fa riferimento alla Bibbia quando parla di “abisso” per descrivere “il mistero che ci abita”. E poi sant’Agostino per tratteggiare l’inquietudine del cuore. “Noi cerchiamo la pace e la gioia, ne siamo assetati. E molti inganni ci possono deludere e persino imprigionare in questa ricerca”. A introdurre l’evento è il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, che racconta il “modello” italiano impegnato ogni giorno nelle attività di prevenzione, recupero e cura dalle dipendenze. “Il male si vince insieme - ripete il Papa -. La gioia si trova insieme. L’ingiustizia si combatte insieme. Il Dio che ha creato e conosce ciascuno - ed è più intimo a me di me stesso - ci ha fatti per essere insieme. Certo, esistono anche legami che fanno male e gruppi umani in cui manca la libertà”. Papa Leone torna a rivolgersi ai giovani. “Non siete spettatori del rinnovamento di cui la nostra Terra ha tanto bisogno: siete protagonisti”. Anche se si è fragili. “Gesù che è stato rifiutato invita tutti voi e se vi siete sentiti scartati e finiti, ora non lo siete più. Gli errori, le sofferenze, ma soprattutto il desiderio di vita di cui siete portatori, vi rendono testimoni che cambiare è possibile”. E poi l’appello. “La Chiesa ha bisogno di voi. L’umanità ha bisogno di voi. L’educazione e la politica hanno bisogno di voi. Insieme, su ogni dipendenza che degrada faremo prevalere la dignità infinita impressa in ciascuno”. E quindi il richiamo alla “vocazione alla pace. È questa la vocazione più divina. Andiamo avanti insieme, allora, moltiplicando i luoghi di guarigione, di incontro e di educazione: percorsi pastorali e politiche sociali che comincino dalla strada e non diano mai nessuno per perso”. Boom di reclusi per reati di droga. L’Italia lascia il gruppo Pompidou di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 giugno 2025 Il governo Meloni: il Consiglio d’Europa non in linea con le nostre politiche sulle dipendenze. Papa Leone: vanno perseguiti i narco trafficanti, non riempite le carceri con gli ultimi. La luminaria scenica sul ministero del Turismo come trovata per celebrare la Giornata mondiale sulle Droghe getta una luce perfino più inquietante sulla fuoriuscita dell’Italia dal gruppo Pompidou del Consiglio d’Europa comunicata a Strasburgo con una lettera del governo Meloni. La notizia - anticipata dal Sole 24 ore che ha scoperto la missiva inviata nel maggio scorso per annunciare l’addio previsto nel 2026 - è stata ieri confermata dal sottosegretario Alfredo Mantovano. Che ha giustificato la decisione adducendo il fatto che l’organismo - composto di 41 Stati membri e dedicato alle dipendenze da droghe, alcool e gioco - “ha orientamenti non in linea con i nostri obiettivi di cura, prevenzione e riabilitazione”. Obiettivi che si concretizzano plasticamente con le evidenze raccolte nel XVI Libro bianco sulle droghe presentato ieri alla Camera per ospitalità di Riccardo Magi (+Europa). I dati di dicembre 2024 “purtroppo confermano una tendenza al peggioramento” con un’ulteriore crescita “in termini assoluti (+4,9%) degli ingressi in carcere per reati connessi alle droghe”, sintetizzano le numerose associazioni (Fuoriluogo, Antigone, Cgil, Cnca, Coscioni, Arci, A Buon diritto, ecc.) che promuovono la campagna internazionale di mobilitazione “Support! Don’t Punish”. Si parla soprattutto di reati minori, quelli puniti con l’art. 73 del Testo unico 309/90: delle 62.715 presenze registrate in carcere a metà giugno, sono 13.354 i reclusi che scontano pene legate al piccolo spaccio. Meno della metà (6.732) anche per associazione a delinquere (art. 74) e solo 997 esclusivamente per traffico di stupefacenti (art. 74). “Complessivamente sono 34,1% del totale dei detenuti, quasi il doppio della media europea (18%) e ben oltre quella mondiale (22%)”, registra il Libro bianco. Attualmente “è dichiarato tossicodipendente il 38,8% di chi entra in carcere”, “mai così tanti dal 2006, anno dell’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi”, scrivono gli estensori del report. Tra i tanti dati del Libro Bianco, intitolato quest’anno “Non mollare” e dedicato alla compianta Grazia Zuffa, fondatrice di Fuoriluogo, si sottolinea che “la repressione colpisce duramente i minori: 3.722 adolescenti entrano in un percorso sanzionatorio stigmatizzante e desocializzante; il 97,7% è segnalato per cannabis”. L’impatto sulla giustizia? Nel 2023 (ultimi dati disponibili) “quasi 120.000 procedimenti penali sono stati aperti per droghe”. La stessa relazione annuale al Parlamento, presentata tre giorni fa da Mantovano, certifica che il consumo di sostanze tra i giovani “appare leggermente diminuito” nel 2024 rispetto al 2023. In particolare, cala un po’ l’uso della cannabis (che comunque rimane al primo posto tra le sostanze rinvenute nelle acque reflue) mentre cresce, soprattutto tra i giovanissimi, il “misuso” di psicofarmaci e antidepressivi. Ma il 2024 è caratterizzato, secondo lo stesso governo Meloni, dal record di morti per cocaina/crack, con il 35% - massimo storico - dei decessi accertati per intossicazione acuta letale. Non solo: l’ultimo rapporto annuale dell’Unodc (Onu) registra un nuovo record di produzione (34% in più in un anno) e consumo (da 17 a 25 milioni tra il 2013 e il 2023) di cocaina a livello globale, “mercato di droghe illecite in più rapida crescita al mondo” e che sta rapidamente penetrando l’Asia, l’Africa e l’Europa occidentale. Mercati la cui espansione è garantita anche dall’ossessione anti cannabis del proibizionismo nostrano. Ecco perché ieri Papa Leone XIV ha ricordato ai governanti che è loro dovere “smantellare” le “enormi concentrazioni di interesse e le ramificate organizzazioni criminali” che fanno “delle droghe e di ogni altra dipendenza - pensiamo all’alcool o al gioco d’azzardo - il proprio immenso business”. Mentre invece “è più facile combattere le loro vittime: troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Chi tiene la catena nelle sue mani, invece, riesce ad avere influenza e impunità. Le nostre città - ha concluso il Pontefice statunitense - non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione”. In concreto, come sottolinea il Coordinamento delle comunità d’accoglienza (Cnca), la realtà viene distorta da un presupposto ideologico che orienta il governo Meloni. Il quale continua “a fare confusione tra consumo, abuso e dipendenza, una distinzione basilare per qualunque approccio scientifico”. E per evitare che “tutti i consumatori siano visti come “schiavi della droga”. La Conferenza dei Garanti denuncia: “Minori a rischio, carceri minorili sovraffollate” garantedetenutilazio.it, 27 giugno 2025 Il Portavoce, Ciambriello: “Lancio un appello alla politica, alle Regioni e al terzo settore”. “Gli Istituti penali per i minorenni sono stati al centro dell’attenzione mediatica per rivolte e disordini, a partire dalla notizia dei presunti pestaggi e torture da parte degli agenti penitenziari dell’Ipm Beccaria di Milano, passando dalle evasioni avvenute nell’Ipm Malaspina di Palermo e nell’Ipm Fornelli di Bari. L’ultima notizia sconcertante arriva invece dall’Ipm di Nisida, dove è stato denunciato un agente di polizia penitenziaria per presunti abusi sessuali a danno di un minore”. È quanto si legge in una nota della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. “Ancora - prosegue la nota - è stato al centro dell’attenzione il trasferimento in una sezione del carcere Dozza di Bologna di giovani adulti provenienti da tutta Italia. Ad oggi sono presenti soltanto 28 giovani adulti. È prevista l’apertura di tre nuovi istituti penali minorili: l’Aquila, Lecce e Rovigo. Tuttavia, soltanto da fine settembre sarà possibile trasferire detenuti nell’IPM dell’Aquila. La Conferenza nazionale dei Garanti territoriali delle persone private della libertà ha aderito e firmato l’appello ‘La giustizia minorile è in crisi. Le associazioni lanciano un appello urgente: torni la cultura educativa’, sulla giustizia minorile che in Italia sta vivendo una fase di regressione drammatica. L’appello è stato lanciato dall’Associazione Antigone. Dal 2022 a oggi, il numero di giovani detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) è aumentato del 55%, passando da 392 a 611 presenze. Un’impennata dovuta in larga parte al cosiddetto Decreto Caivano che, entrato in vigore nel settembre 2023, ha ampliato la possibilità di custodia cautelare per i minorenni e ridotto l’utilizzo delle misure alternative al carcere”. Il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, nonché Portavoce della Conferenza dei Garanti delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello, ha dichiarato: “In Italia stiamo rinnegando esperienze, principi pedagogici, trattamentali, che prima del Decreto Caivano erano all’avanguardia negli Istituti penali per i minorenni rispetto al resto d’Europa. Bisogna tornare alla cultura educativa e dell’accudimento. In considerazione del fatto che buona parte dei detenuti minori sono stranieri, è necessario mettere in campo programmi di mediazione culturale e di inclusione sociale che siano innovativi, inserendo nuove figure sociali, di ascolto, nuovi educatori e mediatori linguistici; innovazioni che devono partire dalle Direzioni delle carceri e dal Dipartimento di Giustizia minorile e di comunità”. Il Portavoce Ciambriello lancia dunque un appello alla politica, alle Regioni e al terzo settore: “Credo che sia giunto il momento che la politica, ai vari livelli, metta in campo assunzioni di educatori e di assistenti adeguatamente formati. Anche il personale di custodia degli agenti di polizia penitenziaria e quello socio sanitario, deve ricevere una formazione professionale che abbia ad oggetto i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in considerazione della loro vulnerabilità e potenzialità, con particolare riguardo ai minori stranieri, che spesso non hanno familiari su cui poter contare. Bisogna intervenire ora, perché soprattutto nel periodo estivo, sono tanti i detenuti minori che si trovano a vivere il tempo vuoto della detenzione, senza svolgere attività trattamentali e scolastiche. Vorrei lanciare un appello a tutte le Regioni, affinché possano aumentare l’offerta di formazione professionale e scolastica nei circuiti minorili, alla società civile affinché possa essere potenziato il sostegno per evitare l’ingresso dei minori in carcere, al terzo settore affinché ci siano comunità che possano ospitare i ragazzi in misura alternativa, evitando l’ingresso in Istituto penale. Liberare i minori per renderli adulti responsabili”. In Italia i minorenni e giovani adulti in carico ai Servizi della Giustizia Minorile presenti nei Servizi residenziali, riferiti alla data del 15 giugno 2025 sono 1.809 di cui 1.710 maschi e 99 femmine; quelli in carico agli Uffici di servizio sociale (anche in carico agli USSM) sono 15.974 di cui 14.556 maschi e 1.418 femmine. Gli ingressi e presenze nelle Comunità private nell’anno 2025 sono 1.197 in Italia. I dati riportano un numero di ingressi e presenze negli Istituti penali per i minorenni presenti al 15 giugno 2025, in Italia di 586 giovani nei 17 istituti per minori. Pure il Garante chiude gli occhi sulle carceri di Natascia Ronchetti L’Espresso, 27 giugno 2025 Strette di mano, foto di rito, visite di cortesia: ma di relazioni e denunce sulle condizioni dei penitenziari neanche l’ombra. Così la destra ha svuotato un presidio dei diritti dei reclusi. L’ultima visita risale allo scorso 12 giugno, alla casa circondariale di Potenza. Sul sito del Garante nazionale delle persone private della libertà è pubblicata la foto di rito. Ritrae - sorridenti - l’avvocata Irma Conti - membro del collegio del Garante che è presieduto da Riccardo Turrini Vita - e il direttore del carcere. Tre righe di didascalia e stop. Non c’è traccia di un rapporto sulle condizioni della struttura né su quelle di detenzione, non si sa se siano state riscontrate illegalità. Non c’è traccia di report nemmeno a conclusione delle visite precedenti. Taranto, Bari, Brindisi, Trani, solo per fare qualche esempio. “In un anno abbiamo fatto quasi 87 visite per un totale di oltre 80mila chilometri percorsi”, assicura Irma Conti. Quanto ai report: “Vengono pubblicati solo quando termina l’interlocuzione con l’amministrazione di riferimento”. Amministrazione che per le carceri è quella penitenziaria. E che in realtà avrebbe 30 giorni di tempo per rispondere ai reclami. Tutto si è invece incomprensibilmente dilatato da oltre un anno a questa parte. E cioè da quando è stato nominato il nuovo collegio, alla fine del gennaio 2024. Perché per trovare un rapporto - che è un obbligo di legge - bisogna risalire all’il novembre dello scorso anno. E non si riferisce alle carceri ma ai Cpr (centri di permanenza per i rimpatri di Trapani, Caltanissetta, Roma Ponte Galeria. Relazioni pubblicate peraltro con ritardo, dato che si riferiscono a ispezioni fatte tra il 5 febbraio e 1’11 maggio, diversi mesi prima. Ma almeno queste ci sono. Del resto invece non si sa nulla, il Garante ha pubblicato solo una carrellata di foto, alternate ad analisi di dati statistici. Non sappiamo se sono stati acquisiti atti, documenti, testimonianze. Non sappiamo se le visite sono state a sorpresa - come dovrebbe essere - né che cosa hanno appurato. Non lo sa nemmeno il Parlamento. L’ultima relazione risale al 15 giugno del 2023 e fu presentata dall’allora presidente del Garante, Mauro Palma. Poi il silenzio. E una attività che il collegio asserisce essere intensa ma della quale non c’è evidenza se non tante passerelle di cui sono protagonisti comandanti della polizia penitenziaria, provveditori regionali, direttori e vicedirettori. “Indipendentemente dall’idea che abbiamo della pena - dice ora Palma - su una cosa dovremmo essere tutti d’accordo: il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, che condanna trattamenti contrari al senso di umanità e dice che le pene devono tendere alla rieducazione”. Che cosa non sta funzionando nell’attività del nuovo Garante? Il presidente Turrini Vita ha sostituito in corsa, nell’ottobre scorso, Maurizio D’Ettore, deceduto pochi mesi dopo la nomina: era subentrato a Palma. Turrini Vita è un ex magistrato, giudice prima a Pordenone poi a Roma, con una carriera maturata tutta all’interno del ministero della Giustizia, come vicecapo del dipartimento di giustizia minorile e dirigente del Dap, il dipartimento di amministrazione penitenziaria. In pratica: oggi fa il controllore e fino a poco tempo fa era il controllato. L’organismo, istituito nel 2013 con il decreto legge 146, dispone di uno staff di 25 persone che si aggiungono ai tre componenti il collegio: oltre a Irma Conti e Turrini Vita, Mario Serio, docente di Diritto civile all’Università di Palermo. Dello staff fanno parte anche agenti della polizia penitenziaria, che durante le visite non possono qualificarsi. Ai tempi di Palma erano sei, adesso sono raddoppiati. La conferma che le cose non stanno procedendo per il verso giusto arriva dall’avvocato Michele Passione, storico legale di parte civile del Garante nei processi per abusi, maltrattamenti e torture ai danni di detenuti. Si è da poco dimesso. Passione ricorda che un tempo la squadra del Garante entrava nelle carceri a sorpresa alle 8 o alle 9 del mattino. “Acquisivamo documenti e verificavamo eventuali abusi e violazioni - dice Passione - poi redigevamo una relazione. Se l’amministrazione rispondeva offrendo una spiegazione convincente a ciò che avevamo rilevato tutto finiva lì, altrimenti la relazione veniva pubblicata. Oggi tutto è cambiato, si ha l’impressione che ci sia più attenzione all’incontro con le autorità che all’effettiva situazione delle carceri”. Passione inviava atti e informazioni sui processi in corso per maltrattamenti e torture: San Gimignano, Santa Maria Capua Vetere, Reggio Emilia, Verona. Da mesi non riceveva più risposte. “Quando sono emersi i gravissimi fatti di violenza nei confronti dei giovani detenuti nel carcere minorile Beccaria di Milano - ricorda Passione - ho scritto immediatamente, sollecitando la costituzione di parte civile per poter partecipare a un eventuale incidente probatorio. Anche in quel caso non ho ricevuto risposta”. Per lui la questione è adesso tutta politica: “Ho visto che il nuovo orientamento va in una direzione opposta alle prerogative del Garante e ho fatto due più due”. Irma Conti giura adesso che solo il decesso dell’ex presidente D’Ettore ha rallentato l’iter per la presentazione della relazione al Parlamento. E che entro breve sarà fissata una data. Poi, per lei, non esiste un’emergenza. “Semplicemente perché la situazione delle carceri è cronica e patologica”, dice. Novemila detenuti in custodia cautelare, in attesa di giudizio. Circa ventimila con pene inferiori ai cinque anni. L’ultima analisi dei dati fatta dal Garante e aggiornata alla fine di maggio dice che sono una cospicua parte delle 62.722 persone recluse, a fronte di appena 46.706 posti effettivamente disponibili. Dimenticate. Il legale del Garante dei detenuti: “Mi sono dimesso e vi spiego perché” di Ilaria Dioguardi vita.it, 27 giugno 2025 Michele Passione, avvocato del Foro di Firenze, ha lasciato dopo 10 anni l’incarico di legale dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. “Il Garante non riferisce in Parlamento, non fa visite nelle carceri come andrebbero fatte, non è andato nel Cpr in Albania, non mostra di essere sempre super partes. Lasciare era inevitabile”. Avvocato del Foro di Firenze, penalista tra i più noti nel campo del garantismo, Michele Passione ha rassegnato le dimissioni dal ruolo di legale dell’Ufficio del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale dopo 10 anni di incarico. Passione, con un’esperienza trentennale nel mondo penitenziario, ha assicurato la presenza del Garante nel maggiore numero di procedimenti riguardanti i riferiti episodi di maltrattamenti o torture da parte delle forze di polizia nei luoghi di detenzione o custodia, nei processi per i fatti di Santa Maria Capua Vetere, San Gimignano, Firenze-Sollicciano, Reggio Emilia, Verona, solo per citarne alcuni. “La mia decisione, ad un certo punto, mi è sembrata inevitabile. Non potevo dare più nulla”. Perché lasciare l’incarico le è sembrato inevitabile? Mi è sembrato che dovessi essere io a dover fare un passo indietro nel momento in cui ravvisavo delle mancanze, delle lacune più volte segnalate. C’erano delle grandi differenze tra il mio modo di interpretare il ruolo legale del Garante nazionale all’interno delle aule di giustizia, e l’Ufficio del Garante. L’istituzione che lascio mi sembra navighi in cattive acque. Ci spieghi meglio... Difendendo un’istituzione di garanzia, che ha alla base principi quali quelli della tutela dell’habeas corpus e quello della verifica della costante limitazione legale della libertà personale, in qualunque forma si estrinsechi, questo deve accadere e si deve sviluppare secondo delle coordinate che sono scolpite nelle varie fonti che disciplinano la ragion d’essere dei Garanti nazionali. Non ho ricevuto particolare assistenza quando si è trattato di ricevere informazioni, di avere documenti che pure mi erano dovuti, essendo io il legale di quella istituzione. Per esempio, mi è capitato di sentirmi dire che un documento non poteva essermi messo a disposizione, che avrei dovuto chiederlo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Dap. Trovo francamente surreale che il Garante, alla mia richiesta di un atto in suo possesso, mi risponda con una pec di rivolgermi al Dap, l’ho trovato un pessimo segnale di inizio del nuovo collegio, con il quale ho collaborato finché ho potuto, anche quando lo presiedeva Maurizio D’Ettore, dal quale avevo ricevuto incoraggiamenti a continuare la mia attività. Ma il problema non sono io. Qual è il problema? Il problema è che il Garante non ha fatto la Relazione al Parlamento, che invece è prevista dalla legge. Ma per raccontare, bisogna andare nei posti e predisporsi all’ascolto di chi quelle cose le può raccontare, è quello sguardo che devi incrociare. Io penso che guardare l’altro ti aiuti a cambiare te stesso. Se tu l’altro non lo guardi, non riesci a cambiare il tuo punto di vista, hai bisogno della restituzione del punto di vista dell’altro. E se quell’altro è un migrante bisognoso, è un detenuto al 41bis o è un amministratore pubblico non importa. Nel momento in cui una persona perde la libertà, per qualunque ragione la perda, è un essere umano che ha bisogno di qualcuno. Credo che non tener conto di tutto questo, esiga una scelta: non si può stare a metà. Un altro problema del Garante è che non va nei luoghi di detenzione, qualunque essi siano, dalle carceri per adulti a quelle minorili, dalle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza - Rems ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura - Spdc, dagli hub aeroportuali ai Centri di permanenza per i rimpatri - Cpr. Non si è andati a verificare la situazione del Cpr in Albania. A giudicare dal sito del Garante, di visite nelle carceri ne vengono effettuate molte... Nelle visite che vengono reclamate come svolte, io ravviso un tratto diverso da come penso che si dovrebbero fare. A delle visite ho partecipato perché, oltre a fare l’avvocato del Garante, ero parte (mi sono ovviamente dimesso anche da quello), di un collegio degli esperti composto da varie figure professionali, da medici a psicologi a giuristi. Perché se visiti un Cpr, è bene che ci sia qualcuno che si intende di immigrazione. Se visiti un Spdc, è bene che ci sia qualcuno che si intende di salute mentale. Noi quelle visite le abbiamo fatte, senza preavviso, entrando alle nove del mattino e uscendo anche a mezzanotte, se era il caso. Per approfondire ci vuole tempo. Se ci si vanta di aver visitato (dico numeri a caso, ma non credo troppo distanti dalla realtà), 57 luoghi di privazione della libertà personale in pochi mesi, è una questione di “fisica”: non puoi fare visite approfondite. Andare a fare una visita non vuol dire incontrare il comandante, il direttore responsabile dell’Area educativa e, se parliamo di un carcere, visitare una sezione. Cosa vuol dire fare una visita approfondita, in un carcere o in un altro istituto? Vuol dire, ad esempio, accedere ai registri, alle carte che ti danno la fotografia del carcere e sincerarsi che le cose vadano come devono andare. Non si tratta di visite per “fare la pelle” a qualcuno, si fanno a prescindere dalla notizia di reato. Anche perché, quando c’è la notizia di reato, ovviamente anche il Garante ha delle limitazioni nella possibilità di acquisire documentazione che è acquisita dalla Procura della Repubblica. Si fanno con l’auspicio che le cose vadano bene e, se le cose non vanno bene, il Garante invita quell’agenzia che ha ritenuto non conforme alle regole a migliorare sulla base dei rilievi che le vengono trasmessi. Se poi non c’è adeguamento, allora il Garante pubblica una relazione. Funziona così. Se so che una persona viene a cena a casa mia, non metto la tovaglia macchiata, probabilmente metto la tovaglia migliore che ho. Così accade se ci si annuncia. Non faccio illazione che qualcuno apparecchi la tavola in modo artefatto, ma se la visita viene annunciata prima, si vede quello che viene “apparecchiato”, ma l’intento è andare a vedere se c’è una “macchia”, e se la cerchi bene la trovi, purtroppo. Però bisogna avere il tempo, la voglia di studiare, anche scrivere una relazione è impegnativo. Aggiungo un’altra cosa che a me è sembrata francamente nociva per il Garante. Quale? Il Garante è un’alta autorità di garanzia composta da un collegio (un presidente e due membri, ora Riccardo Turrini Vita, Irma Conti e Mario Serio, ndr). Turrini Vita in numerose occasioni istituzionali ha sempre rivendicato la collegialità dell’istituzione. Il che, secondo me è positivo, è un’espressione di democraticità. Il problema è se poi, invece della collegialità, vedi le “voci fuori dal coro”. A cosa si riferisce? Mi ha molto sorpreso vedere che il collegio, a titolo personale, abbia scritto su carta intestata sul sito del Garante un saluto a Lina Di Domenico, nel suo ultimo giorno alla guida del Dap. Si rivendica collegialità ma poi ci sono iniziative di “voci fuori dal coro”. Tutto questo fa male al Garante. Perché fa male al Garante? Gli fa perdere autorevolezza e autonomia. Per non parlare di foto che sono circolate dove, accanto al volto di uno dei componenti dell’Ufficio del Garante, c’è un provvedimento di archiviazione nei confronti di un poliziotto. Io sono contento se una persona non viene condannata, non va in carcere, io odio la galera. Ma il Garante non credo possa permettersi di enfatizzare un provvedimento in quella materia, mettendoci accanto il proprio volto sorridente. Il Garante dovrebbe essere sopra le parti, né da una parte né dall’altra. Essere così prossimo alle ragioni, magari tutte fondate giuridicamente, di un provvedimento di archiviazione per una morte in carcere, a me pare fuori posto. Aggiungo che non ho avuto alcuna risposta a richieste di chiarimenti né un “grazie” per quello che ho fatto in questi 10 anni. L’unica persona che ha mostrato vicinanza nei miei confronti è stato Mario Serio. Erano proprio venute meno le condizioni della mia permanenza, non potevo più dare nulla. Avevo sollecitato ad aprire ad un advocacy più numerosa, questo collegio con l’altra presidenza aveva aperto un elenco che doveva alimentarsi con le domande fatte da colleghi e colleghe che dimostrassero la propria competenza. Non ne ho più saputo nulla. Cosa si augura? Il mio auspicio è che il Garante continui nel suo importante ruolo processuale e anche extra-processuale, che ritrovi un po’ di verve e di convinzione. Prima ha nominato i Cpr, sembrano a volte una “grande nebulosa”. Cosa vuole dirci in proposito? Tra il 2010 e il 2014 facevo parte di un gruppo di lavoro, l’Osservatorio carcere dell’Unione delle camere penali. Visitammo circa 60 carceri italiani e tutti i Cie (i Cpr all’epoca si chiamavano così). Ne ricordo uno in particolare, a Modena, che era attaccato al carcere. Dopo anni nell’istituto di pena, i detenuti uscivano da lì ed entravano nel Cie. Se non eri stato identificato in carcere con le tue vere generalità, difficile che ciò potesse accadere collocandoti in un Cie. Questo mi colpì, ma non è un’eccezione, spesso è la regola. Anche se nei Cpr ci vanno molto spesso persone che non hanno commesso alcun reato, regolari che hanno perso i documenti. La statistica dimostra che, passato un fisiologico periodo di tempo, o hai avuto assistenza dal Paese in cui dovresti essere rimpatriato perché confermi la tua provenienza da quel posto, o non la riceverai mai più. Su questo tema la disciplina è cambiata mille volte, si scontano periodi infiniti di tempo in un posto dove, rispetto al Cpr, il carcere è un hotel a 10 stelle. Ho visto luoghi dove i letti erano di pietra, l’acqua usciva marrone. Nei Cpr non c’è alcun diritto perché non ci sono le regole, non si applica neanche l’ordinamento penitenziario. Si tratta di luoghi, per un verso, contraddistinti dalla più totale anomia, per altro verso dalla mancanza di risorse economiche. Per quanto riguarda i processi che ha lasciato, cosa si augura? A seconda dei processi, mi auguro che tengano o che vengano riformate le decisioni in primo grado. Ho lasciato (e credo che sia una pagina di storia processuale) una condanna in primo grado e in appello per fatti, secondo me, molto gravi di tortura accaduti nel carcere di San Gimignano. Quella vicenda è fotografata in una sentenza di circa 250 pagine, un vero e proprio trattato sulla tortura. E che ha affermato l’autonomia del reato di tortura quando commesso dal pubblico ufficiale in ragione dell’evidente maggior gravità, che non può essere intesa come circostanza aggravante della condotta, quando la commette un pubblico ufficiale. Io mi auguro che quella vicenda tenga in Cassazione, ovviamente. Nel processo di Santa Maria Capua Vetere, auspico che finisca con la condanna per tortura di chi ha alzato i manganelli (i video li abbiamo visti tutti) su persone anche disabili. Mi auguro che nel processo di Reggio Emilia si corregga una lettura tutta sbagliata, che sia data in primo grado, ritenendo quei fatti orribili come abuso di autorità e non di tortura. A proposito del reato di tortura, ieri il ministro Matteo Salvini ha detto di voler “rivedere, circoscrivere, definire il reato di tortura”... Il ministro dei Trasporti Salvini propone di metter mano al testo che punisce il reato di tortura, l’unico costituzionalmente necessario (ex articolo 13/4 della Costituzione). Quel testo, scritto male, che ha trovato un’esegesi giurisprudenziale più conforme allo spirito convenzionale, va difeso in tutti i modi perché tutela la dignità dell’uomo, che non si acquista per meriti e non si perde per demeriti. Però le norme non bastano. Occorre agire sul piano del mutamento delle culture che ancora sono presenti in settori delle forze dell’ordine e che, purtroppo, si è ancora pronti a vellicare, per passare all’”incasso” politico. Per titoli, cosa secondo lei andrebbe fatto con urgenza nelle carceri, per migliorare una situazione al collasso? Indulto, amnistia, eliminazione dell’ostatività, risorse per salute e lavoro, aumento delle telefonate per i detenuti, luoghi riservati all’affettività, formazione della polizia penitenziaria, vigilanza dinamica. E molto altro. “Segnalato per il saluto a Cospito. È una follia” di Michele Gambirasi Il Manifesto, 27 giugno 2025 Intervista a Flavio Rossi Albertini, legale di Alfredo Cospito: “Gli ho stretto la mano e dato due baci sulle guance. Gli riconosco la dignità di essere umano, che è un principio cardine della nostra cultura e gli esprimo la mia vicinanza perché ritengo ingiusto per lui il 41 bis”. Lei è stato segnalato all’Ordine degli avvocati dalla direzione del penitenziario di Sassari perché ha salutato troppo affettuosamente il suo assistito. Cosa è successo? Ho fatto quello che con Cospito faccio sempre quando lo vedo, lo saluto. Gli ho stretto la mano e dato due baci sulle guance. Lo conosco dal 2005, quando non aveva procedimenti penali, e sono diventato suo difensore nel 2012. L’ho seguito poi nel processo di Torino nel 2016, seguendolo in particolar modo nella vicenda processuale che è salita agli onori della cronaca prima per la decisione della Cassazione di riqualificare il fatto in strage politica, poi nella sottoposizione al 41bis, poi ancora nei quasi sei mesi di sciopero della fame. Periodo in cui quando lo vedevo non ero certo di trovarlo vivo la settimana successiva, momenti con un’intensità emotiva molto alta. Per cui a Cospito riconosco la dignità di essere umano che è un principio cardine della nostra cultura, e gli esprimo la mia vicinanza anche perché ritengo ingiusta la sua reclusione al 41bis, pena che considero afflittiva perché c’è una deprivazione sensoriale e sono esclusi a un soggetto tutti i rapporti umani con le persone cui vuole bene. L’avvocato diventa in questo modo un residuo di umanità, perché riconosce che non è bandito dal genere umano. Quali sono attualmente le condizioni di Alfredo Cospito? Lui fortunatamente ha dimostrato di avere una tempra solida e robusta, ed è riuscito a superare le criticità emerse dopo lo sciopero della fame. Dal punto di vista fisico sta benino per un uomo in carcere da 13 anni di cui gli ultimi trascorsi al 41bis. Regime che prevede che per 21 ore al giorno sei recluso in una cella di tre metri per tre, con un cubicolo dove svolgere la socialità con un gruppo di tre persone scelte dall’amministrazione penitenziaria e che cambia continuamente. Cubicolo che si incendia d’estate, in particolar modo in Sardegna dove la struttura è sotto il livello del mare, e da dove il cielo si vede a scacchi perché è sovrastato da una rete. Non può ricevere visite se non da parte della sorella che una volta al mese deve recarsi da Viterbo alla Sardegna. Una serie di restrizioni che non hanno alcuna funzione se si pensa al senso del 41bis, che sarebbe impedire a un soggetto di dare ordini all’esterno. Quando ha saputo della notizia della segnalazione ha risposto dicendo che non avrebbe partecipato alla deumanizzazione del detenuto... Assolutamente sì, nella misura in cui il detenuto è privato di qualsiasi contatto umano. La ratio di questi divieti è che anche con un bacio si potrebbe dare un ordine: è una follia che può ricorrere in un caso su centomila. Parliamo di soggetti sottoposti a 41bis da 30 anni, è chiaro che la consorteria criminale che hanno lasciato all’esterno si è modificata e ormai ha altri interpreti. In questi giorni sono in corso le udienze per un altro processo che lei sta seguendo, quello di Anan Yaesh, cittadino palestinese accusato di terrorismo. Cosa si aspetta dal processo e dalla sentenza che dovrebbe arrivare il 10 luglio? Partendo dalla genesi di questa vicenda processuale si può dire che non ci si aspetta nulla di buono. È una vicenda politica necessaria a mostrare tutta la solidarietà e la vicinanza ad Israele, stato alleato dell’Italia con cui si hanno importanti rapporti. Anan Yaesh è andato sull’altare di queste politiche. Anan era stato richiesto da Israele, la corte d’appello dell’Aquila fortunatamente lo aveva dichiarato inestradabile per il rischio di trattamenti inumani e degradanti, due giorni prima di questa decisione c’è stata l’iniziativa italiana. Niente libri in cella. Se la legge diventa accanimento di Marica Fantauzzi L’Espresso, 27 giugno 2025 “I libri - ha scritto Alfredo Cospito nel suo ultimo reclamo - sono vitali per la mia sopravvivenza in questo isolamento mortale”. Il programma Ludovico, inventato da Anthony Burgess nel suo romanzo “Arancia Meccanica” e poi portato sullo schermo da Stanley Kubrik, era un trattamento sperimentale. Per limitare le tendenze aggressive, ai soggetti individuati venivano somministrati farmaci mentre erano costretti a guardare scene di violenza, tenendo gli occhi sempre aperti con l’ausilio di pinze. Per girare quella famosa scena, gli occhi di Malcolm McDowell, protagonista della trasposizione cinematografica del lavoro di Burgess, furono anestetizzati. Le forme di tortura inflitta a chi è privato della libertà personale possono essere innumerevoli, e sia la letteratura che il grande schermo le hanno spesso immaginate, quando non anticipate. Ci sono cinque sezioni del carcere di Bancali, in provincia di Sassari, che sono state costruite sottoterra. Lì, dove la luce e l’aria fanno fatica ad arrivare, vivono gli uomini sottoposti al regime speciale (art. 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario). La luce artificiale è sempre accesa e, quando piove, l’intero reparto può allagarsi. Fino a pochi mesi fa, chi era sottoposto a quel regime, aveva diritto a due ore d’aria al giorno. Poi, una recente sentenza della Consulta, in riferimento a quanto sollevato dal Tribunale di Sassari, ha affermato che ampliare le ore d’aria (fino a un massimo di 4) è rispondente al senso di umanità. E proprio facendo riferimento a quel principio che viene da domandarsi quale sia la ragione sottesa al rifiuto, netto e reiterato, di consegnare alcuni libri ad Alfredo Cospito, anarchico condannato a 23 anni di carcere e sottoposto al regime di 41 bis dal 2022. In due diversi reclami Cospiro ha elencato i titoli che sistematicamente gli vengono negati senza alcuna ragione e senza che si abbia contezza di chi sia effettivamente a operare questa scelta (forse la direzione del carcere o l’Autorità giudiziaria). In un primo momento gli sono stati negati quattro libri (di cui uno sulla fisica quantistica e un altro sui vangeli apocrifi) e poi, alla richiesta di altri titoli e di un inserto di giornale, vi è stata un’ulteriore opposizione, o quasi. L’inserto culturale gli è stato consegnato con le prime dieci pagine strappate e dei libri, tra cui l’ultimo di Scurati e uno su Gramsci, nessuna traccia. Tutto ciò in aperta controtendenza rispetto a quanto avvenuto nei mesi precedenti, quando al detenuto venivano dati regolarmente i libri da lui richiesti e acquistati. Il netto rifiuto a consegnargli ciò che gli spetterebbe di diritto (poiché già autorizzato), ricorda quanto avvenne nel 2023, quando la direzione dell’istituto sardo gli negò la possibilità di tenere in cella la foto dei genitori defunti. Si potrebbe dire che un libro è solo un libro. Eppure, trascorrere venti ore al giorno soli, chiusi in una cella sottoterra, con luce accecante e la possibilità di parlare solo con due o al massimo tre persone rigidamente individuate durante l’ora d’aria, nessuna attività esterna, nessun trattamento rieducativo, nessun contatto con i propri familiari, possono rendere quel libro l’unica cosa in grado di dare sostanza a quel senso di umanità. “I libri - ha scritto Alfredo Cospito nel suo ultimo reclamo - sono vitali per la mia sopravvivenza in questo isolamento mortale”. Colpevole due volte. Quando il recluso è anche migrante di Martino Fiumi L’Espresso, 27 giugno 2025 Quando per una serie di ragioni una persona migrante finisce nel circuito penale italiano, vive una condizione peggiore”. A parlare è l’avvocato Paolo Oddi che, assieme alla professoressa di diritto penale Angela Della Bella, ha aperto uno Sportello di informazione giuridica per detenuti non italiani in una delle carceri più sovraffollate e con più stranieri del Paese: la Casa circondariale di San Vittore, Milano. “Oltre a dover affrontare le difficoltà del processo, che non è pensato per far capire lo straniero - continua Oddi - è anche difficile per loro accedere a misure alternative”. Magari il migrante è irregolare e non ha i documenti per dimostrare che ha un alloggio. E allora niente arresti domiciliari. Anche per questo “c’è più carcerazione per il migrante ed è più facile che rimanga chiuso negli istituti penitenziari”. Per definire questa condizione è stato coniato il termine crimmigration, che identifica proprio “lo spazio di interferenza tra diritto penale e diritto dell’immigrazione”, spiega Oddi. È un mix che crea bombe a orologeria. Non solo una somma di due disagi, ma un aumento esponenziale delle difficoltà. È da qui che arrivano i disastri annunciati - dai suicidi alle rivolte nelle carceri - protagonisti di articoli sui giornali e servizi nei tg. Anzi, arrivano da più lontano. “Per il migrante la cosa più importante è il suo progetto migratorio. Ha investito denaro, risorse, ha affrontato viaggi spaventosi. Quando poi si vede di fronte al fallimento del progetto migratorio va in grave crisi”. Oppure è un migrante regolare, magari con una famiglia. Ma se commette un reato arriva sempre il provvedimento di espulsione. “Su questo si giocano le battaglie legali della crimmigration, in cui si richiede al giudice un bilanciamento tra il reato commesso e i diritti fondamentali della persona”. Anche quello all’unità familiare e al rispetto della vita privata sono presenti nelle carte dei diritti dell’uomo. “Questioni di crimmigration” è anche il nome del corso universitario di Oddi. Lì studenti e studentesse discutono i casi penali che incontrano a San Vittore durante il tirocinio allo sportello. L’obiettivo di Oddi e Della Bella è creare un luogo per spiegare ai detenuti alcune questioni tecniche che non conoscono. Oddi racconta di un ragazzo egiziano arrestato a Catania che si era trasferito a Milano dopo essere stato scarcerato. Il tribunale ha riformato l’ordinanza e lui è stato portato a San Vittore dopo un controllo. “Con lo sportello abbiamo rimesso in comunicazione l’assistito con il suo difensore che non sapeva più dove fosse”. Gli stranieri brancolano nel buio di un sistema che non si preoccupa di spiegargli cosa possono fare. O magari qualcuno glielo spiega, ma non sempre nella loro lingua. San Vittore trovi chi è stato arrestato il giorno prima in seguito alla retata fatta in strada o quello che non ha capito come andare a presentarsi in Polizia e viene rimesso in carcere. Questo scatena una dinamica molto ansiogena”. Anche perché molti dei detenuti sono persone fragili, “una popolazione talmente deprivata, soprattutto giovane, che magari fa uso di sostanze”. In tre ammassati in stanze da 2, due. Così si alimentano “frustrazioni che si aggiungono a delle fragilità psichiche già importanti”, conclude Oddi. Le sentenze dei giudici e quelle del pubblico di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 giugno 2025 Scandalo se la sentenza non è di condanna, e se è di condanna allora scandalo se non è al massimo della pena, e se la sentenza è al massimo della pena allora scandalo lo stesso se non ha pure il timbro di una aggravante di particolare stigma: le polemiche - persino di fronte a comunque ergastoli - si alzano una volta perché non vengono riconosciuti i motivi “futili e abietti”, un’altra volta perché la sentenza non ravvisa l’aggravante della “crudeltà”, un’altra ancora perché non è condivisa la “premeditazione”. Lo strabordare delle cronache nere e giudiziarie non riesce evidentemente a trasferire conoscenza reale alle persone, disorientate dalla diversità di senso delle parole nel linguaggio comune rispetto al linguaggio giuridico del ginepraio di attenuanti, aggravanti, generiche, comuni, speciali, antecedenti, susseguenti, prevalenti, equivalenti. Ma non è disinteressata la trappola di voler far decidere il processo al televoto, specie a quello dei parenti delle vittime tanto più strumentalizzati nel loro dolore quanto meno sono aiutati a comprendere il significato di una sentenza: tendenza non a caso coltivata da quella fetta di legislazione che, a colpi di sempre maggiori dosi di automatismi e più stringenti presunzioni legali, tenta di ridurre i margini di apprezzamento dei giudici, in uno schema che vede le toghe (e i giudici più dei pm) sotto pressione sia dal basso (dell’opinione pubblica) che dall’alto (del legislatore). Avanza - e si fa oscenamente scudo delle vittime - il progetto di ridurre il giudice a jukebox di una spiccia istruttoria (presunta) popolare, alle cui rime obbligate le Corti debbano conformarsi in una sorta di obbligazione di risultato: pena apparire magistrati insensibili al grido di sicurezza dei cittadini, schierati dalla parte dei banditi, nemici del popolo in quanto nemici degli autoproclamati paladini della sicurezza del popolo. Dunque tollerati solo alla stregua di gestori di magazzino chiamati a consegnare una merce prefissata, e altrimenti “licenziabili”, in questo caso non da un contratto collettivo ma dalla collettiva legittimazione popolare del loro pronunciare sentenze. Carriere separate, prendere o lasciare di Stefano Folli La Repubblica, 27 giugno 2025 Prosegue tra qualche ostacolo e ovvie polemiche il sentiero parlamentare della legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati. Pubblici ministeri e giudici dovranno percorrere due strade diverse e non saranno più intercambiabili. Gli ostacoli dipendono più che altro dalla scarsa presenza in aula dei parlamentari di maggioranza, da cui deriva talvolta la mancanza del numero legale. Di qui l’accelerazione delle procedure annunciata dal presidente del Senato. Verrebbe da dire che una delle principali riforme del centrodestra, tale da poter definire da sola quasi il senso e il bilancio della legislatura, meriterebbe una partecipazione più convinta e un iter più rispettoso delle prerogative del Parlamento. E questa è responsabilità della destra di governo. Quanto all’opposizione, mantiene il suo “no” e non potrebbe essere altrimenti, giunti a questo punto. Tuttavia non tutti usano lo stesso metro. C’è chi è rimasto fermo all’invettiva: la legge è pessima in quanto esprime lo stesso spirito di sopraffazione che fu di Licio Gelli e della sua loggia P2 o di Berlusconi, non a caso affiliato allo stesso ramo degenerato della massoneria. Poi ci sono altri argomenti, più ragionevoli. Il gruppo di Renzi e ancor più quello di Calenda, non sono ostili alla riforma in via pregiudiziale. Magari sono dubbiosi verso alcuni aspetti del testo, ma non lo considerano alla stregua dell’apocalisse, semmai vedono i difetti dell’iniziativa legislativa per come è stata concepita e strutturata. Soprattutto giudicano inaccettabile che il dibattito sia stato strozzato, come sostiene Italia Viva. La riforma si avvia a essere approvata - ma siamo ancora a metà strada - probabilmente senza alcuna correzione parlamentare. Un precedente poco opportuno che di sicuro non testimonia della vitalità del Parlamento. Ma questo è inevitabile che accada quando il testo offerto all’opposizione è di fatto bloccato. Chi ha chiesto qualche emendamento, ad esempio circa il sistema del sorteggio integrale per i membri degli organi di autocontrollo, non ha ottenuto alcuna soddisfazione. Il governo teme che la sinistra voglia far rientrare dalla finestra la logica delle correnti, un tema a cui una parte della magistratura resta affezionata. Tuttavia ci sono altri aspetti da considerare. Il “no” del centrosinistra alla riforma della giustizia era atteso; un po’ meno era prevedibile che anche stavolta la potenziale coalizione si scollasse. Non per una diversità di giudizio nel merito della legge costituzionale. Ma per il tono, per l’asprezza della polemica. Il divario tra Pd e 5S si misura anche in queste circostanze. Il diniego del Pd è netto, ma nel complesso contenuto all’interno di una cornice parlamentare. I 5S hanno invece colto l’occasione per ritrovare tutti i vecchi spunti contro le malefatte della “casta”, desiderosa di tagliare le unghie ai magistrati per chiuder loro la bocca e garantirsi l’impunità. È ovvio che il partito di Conte ha voluto ancora una volta mostrarsi più radicale e determinato del Pd, così da mandare un preciso messaggio alle procure: siamo noi i vostri veri difensori, a prescindere da qualsiasi tendenza corporativa. E ai rivali di via del Nazareno: state attenti che siamo pronti a scavalcarvi su ogni terreno, dalla giustizia alle spese militari. Tradotto: non riconosciamo alcuna leadership del Pd, almeno allo stato delle cose. Nordio attacca l’Anm. Corsa contro il tempo per le urne a giugno di Giulia Merlo Il Domani, 27 giugno 2025 Il sì definitivo alla riforma blindata dovrebbe arrivare a fine anno. Ipotesi proroga del Csm. Il ministro: “Le toghe temono le correnti”. L’unica certezza che ancora manca è su quando verrà approvata al Senato. Tutto il resto della riforma costituzionale della giustizia - che prevede la separazione delle carriere, il sorteggio per i due Csm e la creazione di una Alta corte disciplinare - è assolutamente chiaro: il testo è arrivato in aula blindato e, appena passerà anche in seconda lettura, verrà fissata la data del referendum costituzionale. Ma la conclusione dell’iter al Senato non è solo questione tecnica. Una dilazione farà slittare anche a seconda lettura, che potrà cominciare solo dopo tre mesi, e dunque impedire il sì definitivo entro fine 2025, come da auspicio del ministro della Giustizia Carlo Nordio. A questo stanno lavorando le opposizioni: nonostante il “canguro” sugli emendamenti, il Pd e gli altri partiti di opposizione sono pronti a illustrare e prendere tutto il tempo a disposizione per quelli rimasti. “Tutto si deciderà nella prossima capigruppo”, ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa, e ha assicurato di cercare di “di non bloccare minimamente il dibattito”, ma “dipende dalla capacità dei parlamentari soprattutto di opposizione, di contribuire a un dibattito proficuo ma non necessariamente artatamente prolungato”. Magra consolazione, viene fatto notare dall’opposizione, considerato che non si era mai vista una riforma costituzionale arrivata in aula con un testo del governo e inemendabile nemmeno dalla sua stessa maggioranza. Per ora la discussione è stata ricalendarizzata per il primo luglio e quasi certamente servirà anche tutta la settimana prossima per arrivare al via libera. Se così sarà, il testo tornerà alla Camera nelle prime settimane di ottobre. Difficile sarà completare l’iter entro fine anno, considerando anche che il calendario delle camere da dicembre in poi sarà ingolfato con la Finanziaria. L’effetto sul Csm - Il perché di questa corsa del governo, però, si spiega non solo con la volontà di votare al referendum nel 2026 così da considerarlo un test per le politiche dell’anno successivo. La ragione si interseca in modo stretto con i tempi del Consiglio superiore della magistratura. Spiega una fonte ministeriale che l’obiettivo chiesto dal governo è quello di “arrivare a giugno 2026 con tutto già pronto, anche le leggi di attuazione”, nel tentativo di eleggere con il nuovo sistema del sorteggio i nuovi consiglieri dei due Csm che verranno istituiti. L’alternativa - a cui alcuni tra gli attuali consiglieri sia laici che togati si stanno preparando - sarebbe quella di una proroga dell’attuale Consiglio, che avrebbe la sua scadenza naturale a luglio 2026. Se ciò non avvenisse, infatti, tra tredici mesi il parlamento e i magistrati verranno chiamati ad eleggere i loro membri laici e togati secondo le regole della riforma Cartabia che la riforma cancellerà. Scetticismo sul fatto che l’operazione riesca al centrodestra trapela dal Pd: “Le leggi di attuazione dovranno passare dal parlamento e lì ci faremo di sicuro sentire, la tecnica d’aula ci permetterà maggiore margine di azione”. Anche perché, come ha spiegato chi si sta occupando del dossier al ministero, le leggi di attuazione - su cui Nordio stesso ha tentato di aprire un confronto con i gruppi associativi delle toghe, almeno nella parte più conservatrice - dovrebbero contenere norme che temperino il sorteggio puro per l’elezione di laici e anche di togati. Tradotto: non potranno essere calate dall’alto come è stato per la riforma. In queste prospettive - l’eventuale proroga del Csm e come temperare il sorteggio - i movimenti sotterranei sono molti. Sia sul fronte della parte più dialogante delle toghe, che su quello politico del centrodestra. Lo scontro - Al netto del timing, a palazzo Madama è andato in scena l’ennesimo scontro, dopo la decisione di sfoltire i 1.300 emendamenti con il “canguro” e la mancanza del numero legale nella prima votazione. Nordio, nelle sue repliche alla discussione generale, non si è trattenuto nel difendere la sua riforma. Ha risposto al capogruppo dem Francesco Boccia che lo aveva accusato di aver imposto una riforma del governo senza possibilità di modifica, dicendo che “dovrei sentirmi quasi un dittatore” ma “semplicemente, nel programma elettorale, la riforma era davanti agli italiani” e “se non c’è stato dialogo è perché nessuno lo ha mai voluto”. Più che della separazione delle carriere, poi, si è occupato del sorteggio e su questo ha lanciato il vero affondo alla magistratura. In passato “era molto comodo eliminare l’avversario per via giudiziaria quando non si riusciva a eliminarlo per via politica. Questa riforma mira a riportare una equità e una dignità alla politica. Introducendo il principio del sorteggio riequilibriamo questi poteri”, ha detto riferendosi al potere dei gruppi associativi. Nel ribadire che non c’è alcuna volontà di sottoporre il pm all’esecutivo, secondo Nordio così “si darà veramente respiro alla magistratura. Non sarà un’umiliazione, piuttosto un recupero della loro dignità e libertà”, ha detto citando l’ormai celeberrimo caso Palamara e sottintendendo che il “mercimonio” non sia ancora finito. Secondo lui, “le toghe non sostengono le riforme per paura delle correnti”. Tra le proteste delle opposizioni e la standing ovation della maggioranza per il guardasigilli, si è conclusa la discussione generale e ora la questione passa nelle mani di La Russa per oliare i binari e far correre il testo in aula. A distanza, invece, è arrivata la replica del presidente dell’Anm, Cesare Parodi che ha espresso preoccupazione per “l’autonomia e l’indipendenza della magistratura” e smentito il ministro: il confronto sarebbe stato cercato, ma “nessuna forma di concreto dialogo o apertura”. Quanto al caso Palamara, “è stato scoperto dalla magistratura, e su cui la magistratura ha agito con durezza”. Da questa incomunicabilità partirà il dibattito (e lo scontro) referendario. Riforma Nordio: “Dignità alla politica, dopo 30 anni” di Errico Novi Il Dubbio, 27 giugno 2025 Il ministro coglie il vero obiettivo: la politica che ristruttura l’ordine giudiziario per riprendersi il primato. Ci sono due telecamere. Ciascuna dà un’idea diversa della partita giocata ieri al Senato. La prima ripresa offre la prospettiva tradizionale: la separazione delle carriere procede con una certa lentezza, non si è ancora arrivati al dunque delle votazioni nonostante l’accenno di ricorso al “canguro”, la maggioranza si è trovata, a inizio esame degli emendamenti, senza neppure il numero legale. Il resto sembrerebbe un prevedibile contorno: il capogruppo del Pd Francesco Boccia che evoca, a proposito del ddl Nordio, una “stagione di resistenza”, e lui, il guardasigilli, che rivendica invece il peso della riforma costituzionale. Poi si passa al cosiddetto “reverse angle” che, per restare nella metafora dello sport televisivo, a volte permette di cogliere sfumature, dettagli decisivi. Sempre Nordio ha infatti utilizzato due concetti in apparenza sovrapponibili e in realtà diversi. Ha detto che il ddl sulla magistratura, che separa le carriere e introduce il sorteggio per la scelta dei togati nei due futuri Csm, restituisce “dignità e libertà” alle toghe, perché le affranca dalla subordinazione alle correnti. Fin qui nulla di nuovo. È un po più insolito l’altro passaggio: la riforma, dice il guardasigilli, “mira anche a restituire una equità e una dignità alla politica”, che “dal 1993” ha subito una “mutilazione”, a causa “di un intervento della magistratura: era molto comodo eliminare l’avversario per via giudiziaria quando non si riusciva a eliminarlo per via politica”. Ecco, qui le cose cambiano: il ministro, nel replicare a Boccia, rovescia l’analisi e parla di riscatto che il sistema dei partiti finalmente riconquista, con le carriere separate ma soprattutto col “sorteggio” nei Csm e con “l’Alta corte”, dopo che dal ‘ 93 i partiti sono stati tenuti sempre in scacco dalla magistratura. È un discorso per nulla scontato, anzi è nuovo: la politica che ristruttura l’ordine giudiziario per riprendersi il primato. Finora né Nordio né Meloni l’avevano mai messa in questi termini. Ma forse sono i termini giusti. Perché certo, le carriere separate, il Csm dei giudici affrancato dall’egemonia “politica” che i pm vantano nell’Anm (la quale Anm, col sorteggio, non controllerà più l’elezione dei togati nei due Csm) restituiranno equilibrio a tutti i processi penali. Si realizzerà davvero la posizione terza del giudice, che un articolo della Costituzione, il 111, già invoca. Ma è vero anche che un giudice terzo - davvero non intimorito dall’incubo per cui decisioni, ordinanze, accoglimenti e, soprattutto, mancati accoglimenti delle richieste di una Procura possano costargli chiaro in termini di carriera - serve al cittadino come, inutile negarlo, alla politica. Nel senso che libera le toghe “giudicanti” da quel “corpo armato” in cui la magistratura si è costituita, in effetti, dal ‘ 93. Un potere coeso ma anche condizionato al proprio interno, che ha condotto “campagne” capaci di delegittimare totalmente i partiti. A volte a giusta ragione, altre volte senza alcuna base, ma con il non trascurabile dettaglio per cui il massacro mediatico inflitto, all’indagato di turno, con la grancassa accordata alle indagini, ha comunque cambiato per sempre le sorti di leader e forze politiche. Senza scomodare il caso Belusconi, nei cui meandri ci si perderebbe inutilmente, basti pensare all’inchiesta “Open” su Matteo Renzi, franata ma dopo anni di devastazione, e ai 17 (17!) processi ordinati contro Antonio Bassolino, conclusi tutti con assoluzione. Il primo poteva essere il Blair italiano, il secondo il più grande leader del Mezzogiorno. Non lo sono stati. E la giustizia c’entra, e non poco, in entrambi i casi. Avremo giudici meno “incantati” dalle mirabolanti tesi accusatorie dei pm nei confronti della politica? Non lo sappiamo, ma è possibile. Può darsi che la riforma contribuisca a un così epocale cambiamento. È uno scenario sul quale Nordio ha eseguito un volo a planare, per evocare un’immagine pop. Non è entrato così nello specifico. Ma con una telecamera ravvicinata, si vede che il senso è tutto lì: la “dignità” della politica dipenderà anche da un mutamento assoluto nella dinamica della giustizia penale, a cominciare dai casi in cui la giustizia colpirà un leader o un partito, appunto. Nordio è un ex magistrato e può dirlo solo nelle forme eleganti e un po’ sibilline sfoggiate ieri. Ma che vi abbia fatto un pur generico cenno, è già importante. Nordio rivendica la sua riforma in Aula. Il Pd invoca la “resistenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2025 Il guardasigilli interviene al Senato sulla separazione delle carriere: “Magistrati intimiditi dalle correnti, cambierà tutto”. Parodi (Anm): “Abbiamo cercato il dialogo”. Il voto slitta a martedì. La temperatura nell’Aula del Senato è più infuocata di quella che si percepisce nelle strade assolate di questi giorni. A farla schizzare in alto la riforma costituzionale della separazione delle carriere, che ieri ha visto andare in scena prima uno scontro tra il ministro della Giustizia Carlo Nordio e le opposizioni, e poi l’applicazione del famoso “canguro” agli emendamenti. Il tutto, paradossalmente, in un emiciclo quasi vuoto per le assenze nei partiti “azionisti” della maggioranza di governo, come ha sottolineato la vicepresidente dem di Palazzo Madama Anna Rossomando: “Per la maggioranza è la riforma delle riforme sulla giustizia, addirittura ‘epocalè, ma non riescono neanche a garantire il numero legale”. Il copione di accuse reciproche comunque è sempre lo stesso. Da un lato il guardasigilli che, attraverso richiami a Tucidide, Pascal e Perry Mason, ha lanciato stoccate alle opposizioni e dato lezioni di storia. Dall’altra i partiti del centrosinistra che lo hanno praticamente accusato di essere un despota per non aver permesso di modificare una virgola nella riforma che porta il suo nome. Nordio, in particolare, ha ribadito che “non c’è mai stato dialogo, perché nessuno l’ha mai voluto. Lasciando stare Anm”, ha spiegato, “che ha subito risposto con uno sciopero senza se e senza ma, senza alcuna interlocuzione, nemmeno le parti politiche si sono offerte di dialogare in questo senso, e io penso anche di sapere perché: eravate convinti che questa riforma non si sarebbe fatta”. Ha poi di nuovo assicurato che “il pm rimane indipendente”, nonostante le previsioni fate dal sottosegretario Andrea Delmastro al Foglio, come gli hanno rinfacciato le opposizioni. Sul sorteggio, il titolare di via Arenula ha rimarcato che è necessario per fronteggiare “il verminaio”, la situazione in cui “abbiamo visto essere finito il Csm, quando, sotto la direzione, peraltro non unica, di Palamara, ha fatto questo mercimonio, questa baratteria di cariche. Poi tutto è finito lì”. Infine ha sostenuto che la magistratura “è sicuramente indipendente, e deve restarlo, dal potere politico”, ma “non è affatto indipendente da se stessa: essa è vincolata da tutta quella matassa ingarbugliata di potere che si chiama correnti, per le quali i magistrati hanno il coraggio di manifestare in piazza, ma non hanno il coraggio di dire apertamente che sono favorevoli, per esempio, a provvedimenti come questo”. Sulla stessa linea il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri: “La riforma permetterà di “realizzare la separazione delle carriere e riformare finalmente un Csm devastato negli anni da scandali e lottizzazioni. Procediamo consapevoli di affrontare una riforma storica. Senza avere l’ansia delle ore, ma nella consapevolezza di un percorso che è stato proposto più volte negli anni e che continua ad avvicinarsi al traguardo”. Prima era stato il presidente del gruppo del Pd al Senato Francesco Boccia ad attaccare pesantemente Esecutivo e maggioranza: “Il Parlamento è ridotto a organo di ratifica, il dissenso è diventato sospetto, il diritto è visto come un ostacolo anziché garanzia: questa non è una stagione di riforme, è diventata una stagione di resistenza democratica”. Ha parlato poi di “iter inaccettabile, forzato, anticostituzionale: la riforma è stata portata in Aula senza attendere la conclusione dei lavori in commissione”. Sulla presunta mancanza di dialogo da parte delle opposizioni ha replicato prima il senatore di Avs Peppe De Cristofaro: “Alla Camera e al Senato, su tutti gli emendamenti che sono stati presentati a questa riforma da parte delle opposizioni, avete dato un numero di pareri favorevoli pari a zero: non era mai successo prima. Si renderà conto”, rivolto a Nordio, “anche lei che questa cosa di per sé rappresenta un’anomalia”. Poi sullo stesso tema è intervenuta Dafne Musolino di Italia viva: “Da parte nostra c’è stato sempre spirito costruttivo, mai ostruzionistico. Non ci siamo mai opposti alle linee generali della riforma, che ci vedono d’accordo. Ma ci sono aspetti su cui abbiamo chiesto di essere ascoltati e questo non è avvenuto”. Ad esempio “avevamo proposto il sorteggio temperato dei membri del Csm, e serviva un intervento sull’obbligatorietà dell’azione penale, sulla quale il ministro Nordio non ha detto nulla. Senza queste modifiche, la riforma rischia di non fare il bene dei cittadini”. Il partito di Matteo Renzi ancora non ha deciso se alla fine si asterrà sul provvedimento o voterà a favore. Comunque, quasi al termine della seduta d’Aula, quando si è iniziato a votare i primi emendamenti presentati alla riforma, la presidente di turno Licia Ronzulli, ha deciso di applicare, tra le proteste, il canguro, ossia la prassi che consente di votare le proposte di modifica raggruppando non solo quelle uguali ma anche quelle di contenuto analogo. La senatrice di FI ha spiegato che la presidenza stava applicando “le regole che da sempre sono confermate dalla Giunta del regolamento, Giunta che il 27 maggio 2025 ha deliberato di esprimere il proprio parere, dicendo che è facoltà della presidenza di avvalersi della cosiddetta regola del ‘canguro’ anche per l’esame dei ddl costituzionali”. Siccome le polemiche di Pd, M5S e Avs non si placavano e c’era da svolgere il sindacato ispettivo, la seduta è stata sospesa: si riprende martedì 1° luglio alle 16.30. Nel tardo pomeriggio di ieri la replica del presidente del ‘sindacato’ delle toghe, Cesare Parodi: “L’Anm ha cercato in tutti modi un proficuo confronto con il governo e le istituzioni, incontrando il ministro e gruppi parlamentari, e dimostrando un’assoluta apertura verso la soluzione di problemi fondamentali dell’architettura costituzionale del Paese”. Il caso Palamara “è stato un caso scoperto dalla magistratura, e su cui la magistratura ha agito con durezza: prima della conclusione del processo che lo riguarda, l’Associazione nazionale magistrati lo ha espulso. Se il ministro è a conoscenza di altre circostanze, intervenga con immediatezza, utilizzando il potere disciplinare di cui è titolare”. Riascoltare il teste se cambia il giudice: diritto su cui si basa l’intero processo di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 27 giugno 2025 Nel processo penale l’oralità non è solo un principio: è una forma di garanzia. Ma perché non sia solo una dichiarazione di principio, occorre che chi giudica abbia visto, sentito, vissuto, partecipato alla formazione della prova, come la Costituzione impone come la sua “regola d’oro”. Il nuovo articolo 495, comma 4- ter, del codice di procedura penale, introdotto dalla riforma Cartabia, conferma questa esigenza e lo fa con una scelta forte: attribuire alla parte un vero e proprio diritto potestativo rispetto alla rinnovazione dell’esame testimoniale in caso di mutamento del giudice. Non è il giudice a valutare, con la consueta discrezionalità, se una rinnovazione della prova sia utile o superflua. Non è il magistrato a decidere se ciò che è stato detto in passato possa essere semplicemente letto e acquisito oggi. Al centro c’è la Parte, con la sua strategia difensiva, la sua pretesa - legittima - di essere ascoltata, davvero. Perché nessuna prova dichiarativa, per quanto verbalizzata, è neutra. Nessuna parola ha lo stesso peso sulla carta. Si tratta, in realtà, di un punto di equilibrio tra l’interesse all’efficienza e il diritto alla prova nel contraddittorio. Finché la regola dell’oralità resta affidata solo ai principi del Codice, il sistema è esposto a cortocircuiti. Se la testimonianza non è stata videoregistrata integralmente, e la parte chiede che venga rinnovata, il giudice non può opporsi. Non può valutare la rilevanza, né la superfluità: deve disporre la rinnovazione. Questo rappresenta un vincolo, e come ogni vincolo rafforza una posizione soggettiva: quella della parte, appunto, che diventa protagonista nella gestione dell’istruttoria. Tutto ciò però rappresenta anche una sfida per il giudice, il quale è chiamato ad assumersi pienamente la responsabilità della prova che valuta. La norma funziona solo se chi è titolare del diritto lo esercita e lo esercita bene: una semplice dichiarazione di dissenso alla lettura degli atti non basta, ma è necessaria una richiesta chiara, tempestiva, motivata. Questo significa che il difensore, nel momento in cui prende atto del mutamento del giudice, deve attivarsi con precisione, indicando quali testi intende riesaminare, su quali profili, con quali finalità. Non si tratta di un adempimento formale, ma di una vera e propria opzione strategica. Le implicazioni sono sicuramente molteplici: anzitutto sul piano della responsabilità difensiva, infatti, l’omessa richiesta di rinnovazione, anche in assenza di videoregistrazione, comporta l’irrimediabile utilizzo delle precedenti dichiarazioni. In secondo luogo, sul piano della qualità della decisione: il giudice che subentra perde la possibilità di formarsi con un convincimento “diretto”, e deve accontentarsi di una prova mediata, filtrata, cartacea. Una contraddizione, se si pensa che proprio la percezione diretta della prova orale è uno dei pilastri della valutazione discrezionale del giudice di merito. C’è poi un tema sistemico, che interroga anche l’organizzazione della Giustizia. Perché la riforma, pur affermando un diritto sacrosanto, presuppone che l’apparato sia in grado di sostenerlo: che ci siano i tempi necessari, le risorse, le disponibilità logistiche per gestire la rinnovazione degli esami; che la videoregistrazione sia la regola e non l’eccezione; che il processo non venga progettato sulla carta, ma pensato nella sua realtà concreta. Altrimenti, il diritto alla rinnovazione rischia di restare scritto solo nel Codice. Già l’articolo 111 della Costituzione parla chiaro: il processo deve essere fondato sul contraddittorio dinanzi a un giudice terzo e imparziale. Anche la Corte EDU ha ribadito, in più sentenze, che il giudizio penale deve avvenire in condizioni di “fair hearing”, in cui la persona accusata abbia la possibilità concreta di controinterrogare i testimoni decisivi davanti a chi poi pronuncerà la sentenza. Per questo, la norma non è solo un’aggiunta al Codice, ma è un messaggio: la legalità non può accettare né scorciatoie né compressioni. Il giusto processo non è un’idea astratta, ma una realtà concreta, che si gioca su regole semplici, ma precise, come questa: nessuno può essere giudicato da chi non ha ascoltato. *Avvocato, Direttore Ispeg “Report e il Fatto hanno violato il segreto istruttorio”. L’ex Ros Mario Mori presenta un esposto di Franco Insardà Il Dubbio, 27 giugno 2025 È stato presentato come uno scoop, ma ora rischia di trasformarsi in un boomerang per Report, il programma di Rai3 condotto da Sigfrido Ranucci. Il generale Mario Mori, infatti, tramite il suo avvocato, il penalista Basilio Milio, ha presentato un esposto per rivelazione di segreti d’ufficio in relazione a quanto pubblicato dal Fatto Quotidiano il 21 giugno e trasmesso da Report la sera del giorno dopo. Le due testate raccontavano i presunti tentativi dell’ex capo del Ros di influenzare i lavori della Commissione nazionale Antimafia. Nella puntata di Report andata in onda domenica 22 giugno, una “fonte molto autorevole”, ricostruita sotto forma di investigatore, ha fatto riferimento a una conversazione telefonica intercettata tra Mori e il giornalista de Il Dubbio, Damiano Aliprandi. Dal servizio è emerso un tentativo piuttosto forzato di attribuire al generale un ruolo da “manovratore” insieme allo stesso Aliprandi, al quale va riconosciuto il merito di aver sempre svolto con correttezza il proprio lavoro giornalistico, occupandosi spesso di mafia e dei processi sulle stragi del ‘ 92, e non risparmiando critiche allo stesso Mori. Per dovere di cronaca, va aggiunto che Damiano Aliprandi, come riferito dalla “fonte molto autorevole” a Report, ha rifiutato - per “opportunità” - l’invito del generale Mori a essere proposto come consulente della Commissione Antimafia, sottolineando un conflitto d’interesse con il senatore Roberto Scarpinato, che lo ha querelato, ha avuto una condanna in primo grado ed è in attesa del giudizio d’appello. L’avvocato di Mori ha inviato l’esposto anche al Procuratore generale presso la Cassazione, al Csm, al ministro dell’Interno e al ministro della Giustizia perché “avviino indagini e accertino le responsabilità nella rivelazione di notizie coperte da segreto e nella pubblicazione di intercettazioni tra indagato e difensore e adottino le iniziative conseguenti”. Al ministro della Giustizia è stato chiesto anche l’invio degli ispettori alla Procura di Firenze. Una iniziativa che segue quella di Forza Italia che ha presentato due interrogazioni per chiedere al ministro della Giustizia “se si intenda avviare un’ispezione presso la Procura di Firenze per individuare i responsabili della diffusione abusiva delle intercettazioni in merito alla puntata andata in onda su Report, che ha diffuso il contenuto di presunte intercettazioni irrilevanti sotto il profilo penale e coperte da segreto investigativo, che coinvolgono l’ex comandante dei Carabinieri Mario Mori, il suo avvocato Basilio Milio e il giornalista del Dubbio Damiano Aliprandi”. Nelle interrogazioni i parlamentari di Forza Italia aggiungono che le intercettazioni “proverrebbero dalla Procura di Firenze, che dal 2023 indaga su Mori. Non risulta alcuna indagine sulla violazione del segreto da parte del procuratore Filippo Spiezia. Si ricorda che sempre a Firenze, i Pm Tescaroli e Turco indagarono su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi del ‘ 93-’ 94. Nella trasmissione sono intervenuti giornalisti censurati dall’Ordine per frequentazioni discutibili, ritenuti testimoni poco credibili. Lo scopo della puntata sembrerebbe quello di delegittimare le testimonianze raccolte dalla Commissione antimafia, che contrastano con la ricostruzione del senatore Scarpinato”. Come era prevedibile i componenti del M5 nella commissione Antimafia Stefania Ascari, Anna Bilotti, Federico Cafiero De Raho, Michele Gubitosa, Luigi Nave e Roberto Scarpinato sono passati al contrattacco. Mercoledì hanno presentato una richiesta “affinché venga convocato un Ufficio di presidenza e avanzata la richiesta alla Procura di Firenze di trasmettere le intercettazioni delle conversazioni del generale Mario Mori riguardanti i lavori della commissione parlamentare”. Si preannuncia un’estate rovente anche sul fronte dell’Antimafia, dove si tenta di ingarbugliare una matassa già fittissima, confezionando teoremi o riciclando piste che in passato non hanno mai portato a nulla. Il rischio è quello di alimentare ulteriore confusione su una delle pagine più oscure della nostra Repubblica: quella delle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, e di quelle di Roma, Firenze e Milano. Semilibertà a rischio per un isolamento mai scontato dal 1991 di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2025 La Corte d’assise d’appello di Bologna si è riservata la decisione sulla possibilità di applicare l’isolamento diurno all’ex Nar Gilberto Cavallini, che lo scorso 15 gennaio è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per concorso nella strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. L’eventuale accoglimento della richiesta avanzata dalla sostituta pg Antonietta Di Taranto da parte dei giudici comporterebbe la revoca del regime di semilibertà concesso a Cavallini nel 2017. L’uomo infatti da otto anni, come certificato dalle persone che ne beneficiano, svolge attività di volontariato in una parrocchia di Terni: insegna la nostra lingua agli immigrati, assiste un giovane disabile, accompagna chi ne ha bisogno a svolgere dei servizi. Si è anche laureato mentre era in carcere in discipline letterarie con 110 e lode alla Cattolica di Milano nel 2013. Al centro della discussione c’è il fatto che, finora, non è stato possibile stabilire con certezza se Cavallini abbia scontato o meno i tre anni di isolamento diurno che gli erano stati comminati nel 1991 per un cumulo di pene. Nella memoria depositata prima dell’udienza dagli avvocati Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini si sottolinea che, mentre non risulta che Cavallini abbia scontato l’isolamento diurno nel carcere di Terni, dove è attualmente detenuto in regime di semilibertà, le strutture di Opera e di Voghera “non possono attestarne l’avvenuta esecuzione, ma neppure escluderla”. Viene da chiedersi se lo stesso Cavallini ricordi di essere stato in isolamento. A tal proposito ci dice l’avvocato: “Il mio assistito è in carcere da 42 anni, durante i quali è stato recluso nelle supercarceri, anche in regime di 41bis. Ogni volta che veniva trasferito da un carcere all’altro per partecipare ai processi, veniva isolato da tutti gli altri detenuti. Non formalmente ma sostanzialmente ha subìto l’isolamento di fatto. Può anche essere che lui non abbia mai scontato l’isolamento diurno, ma ha scontato una disciplina di isolamento e di segregazione che è ancora più pesante dell’isolamento diurno”. Inoltre, spiega sempre l’avvocato Pellegrini, “il mio assistito non ha alcuna responsabilità se lo Stato non gli ha fatto scontare l’isolamento diurno quando doveva”. Tuttavia l’aspetto più importante è un altro, ci spiega sempre Pellegrini: “se venisse accolta la richiesta della Procura generale il trattamento riabilitativo di Cavallini, previsto dall’articolo 27 della Costituzione, verrebbe a essere distrutto e ci sarebbero degli effetti irreversibili perché dovrebbe ritornare in carcere. La semilibertà si caducherebbe all’istante perché ovviamente un detenuto in isolamento non può stare in semilibertà, non può beneficiare delle misure alternative, non può beneficiare dei permessi pregio e quindi andrebbe incontro inevitabilmente verso una regressione trattamentale”. Data la situazione, per i legali dell’ex Nar le conclusioni possibili sono tre: o Cavallini ha scontato l’isolamento diurno in passato e quindi ci si trova di fronte semplicemente a una mancanza di documentazione, oppure - se anche per qualche motivo non fosse stato scontato - lo stesso isolamento sarebbe ormai prescritto (benché l’isolamento sia una sanzione penale che secondo alcuni non è prescrittibile come la pena dell’ergastolo a cui si lega) oppure da rigettare per non interrompere il percorso di rieducazione iniziato ormai da tanto. Sulla questione esiste un precedente: nel 2023 la procura generale di Palermo aveva chiesto l’applicazione dell’isolamento diurno a un uomo all’ergastolo da 25 anni. La difesa si era opposta perché quell’aggravamento di pena avrebbe fatto regredire la condizione di semilibero con una vita di relazione fuori le sbarre in quella di detenuto sempre dietro le sbarre. La Corte di assise di appello, presieduta da Angelo Pellino (presidente della Corte che capovolse in secondo grado la sentenza sulla Trattativa Stato- Mafia), si espresse a favore della difesa, sostenendo, tra l’altro, “l’insuperabile valore costituzionale dell’art. 27 della Carta Fondamentale”. Nel caso di specie l’uomo “era ininterrottamente detenuto da oltre venticinque anni” e “si deve tener conto anche del fatto che il condannato non solo sia stato già positivamente ammesso, da parte della competente Magistratura di Sorveglianza, al regime della semilibertà, senza mai aver dato adito a rilievi, ma che lo stesso fruisca regolarmente di licenze e permessi premio, che gli permettono di relazionarsi con la propria famiglia e con la dimensione concreta, una volta tanto, di una tangibile prospettiva di definitiva riabilitazione”. Ora sul caso di Gilberto Cavallini la palla passa ai giudici, che dovrebbero pronunciarsi nel giro di qualche giorno, I tempi, però, potrebbero allungarsi, qualora la Corte provasse ad acquisire la documentazione mancante prima di sciogliere la riserva. Torino. Detenuto soffocato nel carcere, inutili i soccorsi di Elisabetta Zanna giornalelavoce.it, 27 giugno 2025 Soffocato in carcere: la morte di un detenuto riaccende il dibattito sulle condizioni nelle prigioni italiane e le carenze del sistema sanitario penitenziario. Una morte improvvisa, silenziosa e drammatica, ha spezzato la vita di un detenuto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. L’uomo, 56 anni, italiano, è deceduto soffocato mentre pranzava nella sua cella, nel padiglione A, sotto gli occhi attoniti degli agenti di polizia penitenziaria e del personale sanitario, che hanno provato disperatamente a salvarlo. Ogni tentativo, però, si è rivelato inutile: per l’uomo non c’è stato nulla da fare. Secondo una prima ricostruzione, ancora in fase di verifica, il detenuto sarebbe stato vittima di una grave ostruzione delle vie respiratorie provocata da un pezzo di cibo ingerito durante il pasto. L’intervento dei soccorsi è stato rapido: appena l’uomo ha mostrato segni di sofferenza, è scattato l’allarme. Gli agenti e poi il personale sanitario sono accorsi nella cella, cercando di liberargli le vie aeree e di rianimarlo, ma il tempo si è rivelato nemico. Quando è arrivato il medico, il decesso era già avvenuto. La notizia ha fatto il giro del penitenziario, suscitando sgomento tra i detenuti e tra il personale, già provato da una quotidianità spesso sotto pressione. La direzione del carcere ha disposto un’indagine interna per ricostruire con esattezza i fatti. Sarà l’autopsia, disposta dalla Procura, a chiarire se la morte sia stata causata esclusivamente da un soffocamento meccanico o se abbiano concorso anche altre condizioni cliniche pregresse. Episodi di soffocamento da cibo, purtroppo, non sono così rari nei contesti carcerari, dove lo stress, le patologie psichiatriche, le condizioni di isolamento o semplicemente la solitudine possono incidere anche sulle dinamiche più quotidiane. Alcuni detenuti, specie se affetti da disagi mentali o fragilità psicofisiche, possono presentare difficoltà anche nell’alimentazione. Inoltre, l’assenza di un sistema di sorveglianza sanitaria continua rende più difficile prevenire simili tragedie. Questo ennesimo dramma solleva ancora una volta interrogativi sulle condizioni di vita nelle carceri italiane, sulla presenza e sull’efficacia del servizio sanitario all’interno degli istituti penitenziari. Il carcere torinese di Lorusso e Cutugno, in particolare, da anni è al centro di un dibattito su sovraffollamento, carenza di personale e pressione costante sugli operatori. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, a inizio 2025 il carcere ospitava circa 1.400 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 1.000 posti. In Piemonte, e in particolare a Torino, la situazione carceraria è più volte finita sotto i riflettori anche per il numero crescente di decessi in cella. Nel solo 2024, tra suicidi e cause naturali, si sono registrati numerosi episodi critici che hanno riacceso il dibattito politico sul tema del diritto alla salute dietro le sbarre. La Garante regionale dei detenuti ha più volte denunciato la mancanza di supporto psicologico e la difficoltà di accesso a cure tempestive per i reclusi più fragili. La morte del 56enne riapre dunque una ferita mai chiusa. Non solo per la tragicità dell’evento in sé, ma per quello che rappresenta: un sistema che spesso non riesce a garantire i diritti fondamentali anche in situazioni banali come un pasto. Un decesso per soffocamento, in una struttura controllata, con personale presente, dovrebbe essere un evento eccezionale. E invece, per molti, è il segno di una macchina che fatica a rispondere in modo umano ed efficace alle necessità quotidiane. La famiglia dell’uomo, che verrà avvisata dalle autorità, potrebbe decidere di chiedere accertamenti più approfonditi. Nel frattempo, le associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti tornano a chiedere a gran voce un potenziamento dell’assistenza sanitaria carceraria e maggiori tutele per chi vive dietro le sbarre. Perché anche chi sta scontando una pena ha diritto a non morire in silenzio, solo, soffocato da un boccone che nessuno ha potuto aiutarlo a espellere. Verona. Il lavoro in carcere si apre alle imprese comune.verona.it, 27 giugno 2025 La nuova sfida che vede insieme amministrazione e Camera penale. L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario individua il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo stabilendo che, salvo casi di impossibilità, al detenuto, è assicurata un’occupazione lavorativa. Un principio che, se fosse rispettato, porterebbe ad una maggiore integrazione dei detenuti al momento del loro rientro nella società civile, evitando che tornino a commettere reati. Fino a oggi, a dare opportunità di lavoro ai carcerati sono state quasi esclusivamente realtà dell’associazionismo e del Terzo Settore, impegnate con progetti di stampo prevalentemente sociale. La nuova sfida, che vede l’Amministrazione ancora una volta in prima linea per promuovere l’importanza del lavoro come strumento rieducativo, è portare all’interno del carcere il mondo dell’imprenditoria nei suoi vari settori. Un’opportunità che porterebbe vantaggi sia agli imprenditori, grazie a significativi sgravi fiscali, sia ai detenuti che a tutta la comunità. Il primo passo da fare è quello di fare rete e coinvolgere il mondo economico: domani, per la prima volta a livello nazionale, la Casa Circondariale di Verona ospita un incontro, promosso dalla Camera Penale veronese, che metterà in dialogo il mondo penitenziario, la società civile, le istituzioni e il mondo delle imprese. ‘Investire nella rieducazione. Come il lavoro può cambiare la vita dei detenuti e della comunità”, vedrà la partecipazione di esperti e professionisti e darà l’opportunità di visitare gli spazi produttivi all’interno delle mura dell’istituto penitenziario. Sì, una nuova sfida che l’amministrazione ha accolto con grande entusiasmo per la sua specifica particolarità di coinvolgere, per la prima volta, il mondo dell’imprenditoria e dei consulenti del lavoro, attraverso un contributo costruttivo con possibili ritorni per l’intero tessuto sociale- ha detto l’assessora alla Sicurezza, Legalità e Trasparenza Stefania Zivelonghi-. L’obiettivo è quello di creare un modello che sia vincente su vari fronti con l’obiettivo di dare dignità e possibilità di reinserimento sociale ai detenuti una volta usciti dal loro periodo di detenzione oltre che una convenienza economica generale per la comunità”. “Sono molte le persone che si rivolgono all’Ufficio politiche del lavoro dopo essere uscite dal carcere e trovano tutta una serie di riferimenti e di aiuti sia per gli aspetti di carattere sociale sia per gli aspetti di carattere lavorativo - spiega l’assessore al Lavoro Michele Bertucco-. È importante creare una rete anche con le imprese che ci permetta poi di dare delle risposte concrete”. “L’incontro sarà un’occasione per riflettere su come istituzioni, professionisti, imprese, cooperative e terzo settore possano collaborare per rendere effettiva la funzione rieducativa della pena, in attuazione dell’art. 27 della Costituzione, tramite un viaggio nelle carceri”, ha detto Paolo Mastropasqua, presidente di Camera Penale Veronese. “Secondo dati del CNEL, quando un detenuto ha accesso a un percorso lavorativo, il tasso di recidiva si abbassa drasticamente, passando da una media del 70% al 2%. Il lavoro rappresenta quindi una risposta reale non solo al rischio di ricaduta nel reato, ma anche a quello, sempre più drammatico, dell’abbandono esistenziale e dei suicidi in carcere- ha affermato Alessandro Favazza, componente del Direttivo di Camera Penale Veronese e dell’Osservatorio Carcere Unione delle Camere Penali Italiane. In un sistema penitenziario sotto pressione, “reinvestire nella rieducazione” significa costruire percorsi credibili, sostenibili e condivisi tra pubblico e privato, per trasformare la detenzione in opportunità”. “Auspicando che l’evento possa rappresentare - una volta di più - l’occasione per implementare/favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti, sia all’interno che all’esterno dell’Istituto penitenziario, nella convinzione che il lavoro costituisce una componente irrinunciabile della dignità umana, ancor più per i soggetti sottoposti alla limitazione della libertà personale, per i quali lo stesso assume la connotazione di elemento essenziale del trattamento penitenziario al fine di tendere al finalismo rieducativo-risocializzante, consacrato dalla Costituzione”, è il commento della direttrice del Carcere Mariagrazia Bregoli. Con il patrocinio del Comune di Verona, Dell’Ordine degli Avvocati di Verona, dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, di Confindustria e Confcooperative, oltre ad altre associazioni che ci hanno supportato, accanto alle istituzioni giudiziarie, l’evento vedrà la partecipazione della Dott.ssa Linda Arata, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia; Dott.ssa Rosella Santoro, Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Triveneto; Dott. Dario Demme, Presidente Ordine Consulenti del Lavoro; Cavaliere del Lavoro Anna Fiscale, progetto Quid - Impresa sociale; Dott.ssa Annalisa Faccincani, consulente del lavoro per il progetto Quid - impresa sociale. Oggi in municipio si terrà un nuovo incontro del Tavolo di lavoro promosso dal Comune per trovare soluzioni condivise alle problematiche che negli ultimi mesi hanno interessato la casa Circondariale di Verona, a cui partecipano istituzioni, enti, associazioni e realtà coinvolte a vario titolo. Presenti in conferenza stampa Dario Demme, presidente dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e Annalisa Faccincani, consulente del Lavoro per il progetto Quid - impresa sociale. Brescia. Ecco il kit di sopravvivenza per chi esce dal carcere e cerca un posto nella società di Manuel Colosio Corriere della Sera, 27 giugno 2025 La guida “Exit” realizzata dalla Cooperativa di Bessimo Onlus, Gruppo Peer e Gruppo “dimittendi” del centro diurno della casa circondariale di Brescia. Uscire dal carcere è una liberazione, ma la nostra Costituzione precisa anche come le pene devono “tendere alla rieducazione del condannato”. Se una volta usciti dalle patrie galere ci si ritrova senza casa, affetti, lavoro e soldi, come si può pensare di ripartire con una nuova vita? Difficile, se non impossibile, rendendo l’uscita quindi un momento delicato e critico quanto l’ingresso, quando l’attenzione è massima per scongiurare casi di suicidio o autolesionismo. Per provare ad offrire una risposta sul territorio bresciano a chi ha scontato la pena ma non ha alcun punto di appoggio e non sa come muoversi, è stata realizzata la guida “Exit” dalla Cooperativa di Bessimo Onlus, Gruppo Peer e Gruppo “dimittendi” del centro diurno della casa circondariale di Brescia “che non intende essere una opzione risolutiva, ma un piccolo strumento di orientamento” spiega uno dei curatori e operatore in carcere, Marco Dotti, presentando anche il kit destinato a chi si lascia alle spalle questa esperienza senza avere nemmeno un euro sul conto: un biglietto dell’autobus, un buono pasto da dieci euro, una biro e due profilattici “che si aggiungono alle indicazioni di continuare a rivolgersi alle strutture che lavorano dentro e fuori dagli istituti di pena” aggiunge, ricordando come “la maggior parte di chi finisce in carcere non sono grandi criminali, ma soprattutto persone povere e relegate ai margini della società”. Gli fa eco Matteo Pedroni, responsabile dell’area trattamentale all’interno degli istituti di pena bresciani, quando spiega come il carcere sia “diventato un contenitore di persone con problemi diffusi, dalle tossicodipendenze a patologie psichiatriche” e sulla stessa linea si ritrova anche la commissaria e vicecomandante della Polizia Penitenziaria del Nerio Fischione, Alessia Longo, quando ricorda come il carcere oggi sia spesso “un contenitore di marginalità sociale che ospita persone che delinquono perché si trovano in stato di abbandono”. Un abbandono che si traduce in problemi, come quello della recidiva che caratterizza il circolo vizioso del ritorno in carcere una volta usciti perché ci si ritrova senza alternative. Quante volte accada non è dato sapere, visto che manca una analisi aggiornata del fenomeno, anche se “è assodato che le pene alternative riducono notevolmente la recidiva, mentre l’uscita dal carcere senza passaggi ad altre forme di detenzione la aumenta” afferma Pedroni. La strada dunque, oltre a fornire guide, kit di sopravvivenza, indicazioni di strutture alle quali rivolgersi, non può che passare da percorsi alternativi al carcere. Ridurrebbe la probabilità che i reati si ripetano. E la Costituzione sia rispettata”. Milano. Un concerto etnico con strumenti in legno realizzati dai detenuti di Gioia Locati Il Giornale, 27 giugno 2025 Un concerto fatto con gli strumenti del mare: violino, violoncello, chitarra e cajon realizzati con il legname utilizzato per le imbarcazioni dei migranti approdati a Lampedusa. Si terrà sabato alle 10, ingresso libero, al mercato Ortofrutticolo di via Lombroso 54. La particolarità è che gli strumenti sono stati costruiti dai detenuti delle carceri di Opera e di Secondigliano ed è il secondo anno che SogeMi, la società che gestisce l’Ortomercato, la propone, grazie alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti presieduta da Arnoldo Mosca Mondadori. “Quest’anno l’evento si intitola Il liuto della pace racconta storie di integrazione e all’interno dell’orchestra comparirà per la prima volta anche un antico strumento come il liuto - ha spiegato Federico Zunino, direttore dei Mercati alimentari milanesi - Si esibirà la piccola orchestra dei popoli che riunisce musicisti di varie nazionalità a indicare che qui l’integrazione è di casa”. I mercati alimentari sono frequentati ogni giorno da 30mila persone, più città nella città, “ognuno ha una propria cultura e un proprio credo e si lavora assieme, talvolta si prega anche insieme come accaduto alla fine del Ramadan”. Si esibiranno Pietro Boscacci, Sever Iancu, Loris Rossi, Arup Kanti Das, rispettivamente con violino, chitarra, violoncello e cajon. Al liuto ci sarà Ghazi Makhoul. Dopo il concerto di brani etnici verranno presentate storie di riscatto e rinascita grazie al lavoro e all’accoglienza. Spaccati di vita di chi ha attraversato il mare, sfidato pericoli ed è riuscito a realizzarsi. L’evento è stato progettato dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, la stessa che ha permesso la realizzazione degli strumenti musicali affidandoli a quei detenuti che hanno manifestato capacità manuali e artistiche. “Quest’anno si vorrà porre l’attenzione sulla pace con più incisività - ha precisato il direttore e si affiderà il messaggio alle note dell’Oud, antico liuto mediorientale, simbolo di pace e dialogo”. Gli strumenti del concerto milanese animeranno un’altra esibizione, quella di Lampedusa il 9 luglio con l’orchestra giovanile Luigi Cherubini, diretta dal Maestro Riccardo Muti, nell’ambito del progetto “Le Vie dell’Amicizia”. Storie di viaggio, di speranza e di rinascita. Affidate al suono degli strumenti in legno che hanno attraversato il mare. Torino. La moda dei detenuti sfila in passerella di Chiara Priante La Stampa, 27 giugno 2025 Talk, mostra e performance con i capi confezionati in carcere. In passerella sfila la moda creata dietro le sbarre. Da venerdì 27 a domenica 29 al Green Pea, in via Fenoglietti 20, all’interno della Torino Fashion Week, riflettori puntati su “Breaking Jail”, promosso da Fashion Team Società Benefit. Venerdì 27 alle 19 si inizia con il talk “Creare per Rinascere - Lavoro, arte e dignità oltre le sbarre”, moderato da Monica Carelli: è un dialogo tra professionisti del diritto, rappresentanti del mondo accademico, universitario, istituzionale, artistico e operatori sociali, per raccontare come la moda, il teatro, la fotografia e la formazione professionale siano strumenti di reinserimento sociale, crescita e rigenerazione umana per i detenuti. Dalle 20,30 è possibile visitare la gallery curata dalle associazioni e dai laboratori interni agli istituti penitenziari: tra le attività, c’è la confezione di capi d’abbigliamento, d’accessori di moda, ma il percorso racconta anche i laboratori di musica e teatro, quelli di food & beverage, le attività di formazione nelle specializzazioni artigianali. Grazie a delle performance dal vivo, i detenuti presenteranno al pubblico le competenze apprese. Lo spazio espositivo, con vari stand disponibili alla vendita dei prodotti degli istituti, resta aperto anche sabato 28 e domenica 29 (orario 14-22). Parallelamente, viene allestita la mostra di Paolo Ranzani, un reportage inedito nelle carceri piemontesi: racconta la quotidianità dei detenuti, impegnati nel lavoro e nella creazione. Domenica, infine, alle 17,30 in passerella i capi e gli accessori realizzati all’interno degli istituti di pena: un modo per raccontare il carcere attraverso moda e creatività. Non si risponde alla rabbia per i femminicidi solo con pene più severe di Barbara Leda Kenny Il Domani, 27 giugno 2025 Di fronte a questi casi è difficile mantenere la lucidità, ma il movimento femminista ci ha dato le parole e un linguaggio politico per parlare della violenza degli uomini contro le donne. A partire dal fatto che nel termine femminicidio è insita una premeditazione che abita tutta la società. Rispondere al dolore solo con la repressione è facile: ma l’approccio che funziona è quello più arduo di investire nella prevenzione. Di fronte a un femminicidio è difficile rimanere lucide. Le morti delle donne ci colpiscono ogni volta al cuore e alla pancia. Ci immedesimiamo con chi rimane, specialmente quando le ragazze sono giovani, sono incinte, sono le figlie, le sorelle, le amiche. Giulia Tramontano, Ilaria Sula, Martina Carbonaro, le chiamiamo per nome perché le sentiamo vicine. “Se domani non torno, mamma, distruggi tutto”: il nostro dolore e la rabbia possono essere trasformati in azione politica e per farlo nessuna è sola e nessuna è la prima. Abbiamo la forza di saperi, pratiche, piazze. Il movimento femminista ci ha dato le parole e un linguaggio politico per parlare della violenza degli uomini contro le donne. A partire dal fatto che “femminicidio” non indica semplicemente che è morta una donna, ma che quella donna è morta per mano di un uomo in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne. Che quando parliamo di femminicidio, parliamo del culmine di una violenza che non esplode all’improvviso, ma che l’aggressore ha già rivolto contro quella o altre donne in molte altre forme. Usando la parola femminicidio diciamo che c’è premeditazione, una premeditazione che abita tutta la società. La violenza che uccide, infatti, spesso si è nutrita di silenzio, di connivenza, è stata sminuita, normalizzata, sottostimata. Ex ante, ex post - Le parole sono importanti, ma è altrettanto importante il significato che assumono nei contesti. Il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di disegno di legge per far diventare il femminicidio un reato autonomo punito con l’ergastolo. In risposta 77 giuriste hanno fatto circolare una lettera in cui dichiarano che “osservando la realtà, si può constatare come qualsiasi intervento repressivo svincolato da azioni di perequazione sociale ed economica e da strategie di prevenzione, di tipo innanzitutto culturale, risulti del tutto inefficace”. Si oppongono a una risposta politica che, di fronte alla violenza contro le donne, propone un impianto unicamente repressivo. E, in effetti, spesso la risposta politica della destra si riassume nell’inasprimento delle pene. Quindi in un approccio alle politiche pubbliche che potremmo definire ex post: se fai qualcosa c’è una conseguenza, a volte premio, come le detrazioni fiscali per le madri di tre figli, a volte punizione, come nell’innalzamento delle pene per gli uomini violenti. Mentre tutto quello che sappiamo è che le politiche funzionano quando lavorano nella dimensione ex ante, ossia orientando le azioni. Questo significa, per esempio, se parliamo di violenza, investire in formazione a tutti gli operatori che si interfacciano con una donna che subisce violenza (operatori sanitari, giudiziari, forze dell’ordine, insegnanti dei figli e delle figlie, assistenti sociali, datori di lavoro, giornalisti e giornaliste), prevenzione nelle scuole e nei luoghi di lavoro, rafforzamento dei centri antiviolenza (gestiti da associazioni e cooperative di donne). Ossia riconoscere l’importanza di tutto quello che si può fare per prevenire e contrastare la violenza e per rafforzare chi è impegnata o impegnato ogni giorno in prima linea. Non abbiamo nessuna evidenza che l’approccio ex post rappresentato dall’aumento delle pene sia un deterrente per gli uomini violenti. Di contro invece è molto facile capire qual è la logica per cui questa è la risposta che orienta le politiche dei governi di destra. In primo luogo, perché soddisfa velocemente la rabbia dell’opinione pubblica: firmato il decreto, fatta la politica. Poi perché non richiede investimenti, è una politica (apparentemente) a costo zero. (Qui si apre uno spaccato su cosa è considerato costo da chi gestisce le risorse pubbliche e cosa è considerato investimento, in cui, molto spesso, tutto quello che attiene al benessere delle persone è considerato costo e tutto quello che attiene al mercato è considerato investimento). La risposta che cerchiamo - Le misure di contrasto e prevenzione, infatti, richiedono tempo, investimenti e risorse pubbliche, innalzare le pene no. Le misure di contrasto e prevenzione implicano il riconoscimento dei saperi e le pratiche elaborate dalle donne, innalzare le pene no. Le misure di contrasto e prevenzione parlano di una società che si impegna in una trasformazione delle relazioni di potere tra uomini e donne, innalzare le pene è la risposta di uno stato paternalista che minaccia punizioni severe ma lascia inalterato lo status quo. La pena per un uomo violento rappresenta la postura della società e quindi il giudizio sull’azione che ha commesso, e questo giudizio è importante per costruire un senso condiviso, ma è anche un fallimento, il fallimento della prevenzione e del contrasto. Per questo stridono le dichiarazioni di ministri esultanti per un ergastolo, è come gioire per una partita persa. Allo stesso modo di fronte a sentenze che non riconoscono o non usano parole che soddisfano la nostra rabbia ci sono più risposte possibili, una è chiedere più risorse pubbliche per la prevenzione, per i centri antiviolenza, per avere più pool antiviolenza nelle procure. Ci si può chiedere cosa succede a questi uomini quando sono in carcere, come ne usciranno. La sfida è costruire un orizzonte più ampio per quella rabbia affinché possa servire alle altre “se domani tocca a me voglio essere l’ultima”. Un adolescente su cinque vittima di bullismo. Per il Governo l’unica soluzione è la famiglia di Rita Plantera Il Domani, 27 giugno 2025 L’allarme del rapporto Istat su bullismo e cyberbullismo. Più vittime al nord e tra i maschi, specie se stranieri. Alla presentazione dei dati, la ministra Roccella e il ministro Valditara parlano del modello Caivano, di “caf” per la famiglia e del nuovo nome dell’esame di stato. Zan (Pd): “È proprio questo governo a osteggiare l’educazione alle differenze a scuola”. Sul contrasto al bullismo e al cyberbullismo il Governo ha le idee chiare e la dottrina pronta, e per darne prova tira in ballo il modello Caivano e il controllo parentale. E così, in nome della santa alleanza tra famiglia e scuola, la soluzione alla drammaticità del malessere giovanile passa esclusivamente attraverso le reti parentali e laddove queste non ci sono, attraverso i “caf” per la famiglia, un cambio di denominazione in programma per l’esame di stato che ritorna a essere “l’esame di maturità”, e una non ben chiara “cultura del rispetto”. Ma basta intendersi sull’idea escludente di famiglia dell’attuale esecutivo, e il paradigma è già noto. Per la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, “alla fine si torna sempre alla famiglia” e la rete parentale è la “prima comunità educante ed è protettiva”. Non è un caso che al Sud ci sia un po’ meno tendenza al bullismo perché “probabilmente ancora resistono le reti parentali”, cioè cugini, fratelli, zii e questo, spiega la ministra, “crea una sorta di rete di protezione per un bambino, un giovane. Mentre al Nord, soprattutto nelle grandi città, questa rete è smagliata”. I dati del rapporto - L’occasione per sgranare i fondamentali sulla famiglia è la presentazione, questa mattina, nella sala stampa di Palazzo Chigi, del report dell’Istat su bullismo e cyberbullismo nei rapporti tra giovani. Da cui emerge che il fenomeno è più diffuso al Nord rispetto al Sud e colpisce maggiormente i maschi rispetto alle femmine. Nel 2023 il 68,5 per cento dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni dice di essere stato vittima di almeno un comportamento offensivo, non rispettoso o violento, online o offline. Il 21 per cento dichiara di essere rimasto vittima di bullismo, ossia di aver vissuto questi comportamenti in maniera continuativa (più volte al mese), mentre l’8 per cento più volte a settimana. Secondo l’Istat, oltre il 14 per cento dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni hanno subito offese e insulti più volte al mese e un giovane su 10 è stato vittima di esclusione con frequenza anche maggiore. E se per i maschi il bullismo si manifesta soprattutto attraverso offese e insulti (16 per cento rispetto al 12,3 per cento delle femmine), l’impatto dell’esclusione per le ragazze è superiore al 12 per cento (contro l’8,5 per cento riscontrato tra i maschi). Tra i ragazzi stranieri, il 26,8 per cento dice di avere subìto comportamenti offensivi, non rispettosi e o violenti con una cadenza più che mensile contro il 20,4 per cento riscontrato tra i coetanei italiani. Rumeni e ucraini i più bullizzati, con il 29,2 per cento e 27,8 per cento rispettivamente. Anche in termini di esclusione e emarginazione si registrano oltre 4 punti in più tra gli stranieri. La famiglia come soluzione - Stando ai dati, le parole che fanno la differenza rispetto al resto sono “esclusione” e (non) “integrazione”. Sulle quali né la ministra Roccella né il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, anch’egli presente, hanno speso alcuna attenzione. “Non è che vogliamo tornare alle reti parentali se non ci sono, quello che vogliamo fare è cercare di sostituirle in qualche modo con un “welfare di prossimità”“, sostiene la ministra Roccella. E continua: “Noi abbiamo pensato a questi centri per la famiglia, su cui abbiamo investito quest’anno 50 milioni, e su cui vogliamo continuare a investire nei prossimi tre anni, creando una rete molto meglio distribuita sul territorio, con compiti più precisi e facendo di questi centri una sorta di “caf” per la famiglia, che offrono servizi ma sono anche un hub che illustrano ai cittadini i servizi per la famiglia presenti nel loro territorio, e di cui spesso non sono a conoscenza”. “Noi non vogliamo sottrarre competenze alla famiglia” dice la ministra. “È fondamentale un’alleanza scuola-famiglia, non un trasferimento di responsabilità”. “Questo l’abbiamo fatto con il decreto Caivano, lo abbiamo fatto con tutti gli interventi, anche per esempio con il parental control”. Valditara ha ricordato l’introduzione della cultura del rispetto come tema trasversale nei programmi scolastici di educazione civica, e ha aggiunto: “Abbiamo distribuito 2 milioni di euro alle scuole per il fondo permanente contro il cyberbullismo. E stiamo formando i docenti”. Ma, per Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, “tutto questo deve farci riflettere, ma soprattutto deve spingere le istituzioni e il Parlamento a impegnarsi maggiormente per affrontare queste grandi sfide”. Aggiungendo che i dati rivelati da Istat presentano un fenomeno allarmante, ma parziale perché “è evidente che sono in fortissimo aumento tutte le forme di cyberbullismo e di violenza digitale in rete”. “Il governo contro l’educazione alle differenze” - Contattato da Domani, Alessandro Zan, europarlamentare e responsabile Diritti della segreteria del Pd, dice: “Oggi, davanti ai dati allarmanti sul bullismo e sul cyberbullismo, il governo si dice preoccupato. Ma poi, invece di assumersi responsabilità, le solite dichiarazioni: per la ministra Roccella è colpa delle famiglie, per il ministro Valditara sono i cellulari a stimolare l’aggressività. Peccato che sia proprio questo governo, ogni giorno, a sdoganare un linguaggio d’odio contro le persone più vulnerabili, le differenze, le fragilità. Dicono di aver fatto tanto, ma continuano a diffondere fake news sul gender e a osteggiare ogni proposta seria di educazione all’affettività e alle sessualità. Invece di agire concretamente per prevenire davvero il bullismo, si preferisce agitare paure, fare campagne ideologiche e cercare capri espiatori. Se l’odio lo semini ogni giorno nei talk show e nei banchi del governo, poi cresce anche tra i ragazzi”. Droghe. Cnca: “Servono diritti, salute e umanità. Le Comunità non sono ghetti o carceri” leggo.it, 27 giugno 2025 Il Coordinamento nazionale comunità accoglienti rilancia la propria adesione alla campagna globale “Support. Don’t Punish” e denuncia l’approccio repressivo che ancora oggi domina le politiche italiane in materia di sostanze. In occasione della Giornata internazionale contro l’abuso di droghe e il traffico illecito, il Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienti) rilancia la propria adesione alla campagna globale “Support. Don’t Punish” e denuncia l’approccio repressivo che ancora oggi domina le politiche italiane in materia di sostanze. “La stigmatizzazione e il carcere non sono la risposta giusta - sottolinea il coordinamento -. Servono servizi, diritti e un cambio di paradigma”. Nel mirino del Cnca anche il contenuto della recente Relazione al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze: “Nulla di nuovo - affermano -. Il governo continua a fare confusione tra consumo, abuso e dipendenza, trattando tutti i consumatori come schiavi. È un approccio ideologico e controproducente”. Nonostante le parole del sottosegretario Alfredo Mantovano - che ha scritto che nessuna persona con dipendenze dovrebbe essere marginalizzata - il Cnca accusa l’esecutivo di fare l’esatto opposto: “Le carceri italiane restano sovraffollate anche a causa dell’impianto normativo sulle droghe. Le condizioni sono disumane, eppure si continua a scegliere la via penale anziché quella sanitaria”. Le comunità terapeutiche del Cnca - 196 strutture attive nel 2023, con 2.376 persone accolte - sono presentate come modelli alternativi, integrati nel territorio e in rete con servizi sociali, sanitari e realtà locali. “Le comunità non sono ghetti o carceri: sono luoghi di cura, partecipazione e reinserimento. Ma il governo non ne riconosce il valore, come dimostra anche il silenzio sulla riduzione del danno (Rdd), prevista dai Lea ma ancora largamente ignorata”. In vista della Conferenza nazionale sulle dipendenze, in programma a Roma il 7 e 8 novembre, il Cnca conferma la sua partecipazione ma con spirito critico: “Vogliamo portare la nostra cultura decriminalizzante, inclusiva, fondata sui diritti. Non possiamo accettare l’impostazione moralistica e patologizzante che segna i lavori preparatori. Grave, inoltre, l’assenza di temi fondamentali come Rdd, dark web, reinserimento socio-lavorativo, il coinvolgimento delle associazioni e della rete Elide”. Proprio per colmare queste lacune, il CNCA annuncia una Contro conferenza a Roma, parallela all’evento governativo, per dare voce a una società civile “spesso ignorata ma attiva e propositiva”. “Repressione, autoritarismo e stigma sono le cifre di questo tempo - conclude il comunicato -. A maggior ragione, oggi è necessario prendere posizione. Con i corpi, i pensieri e le azioni”. La spesa per il riarmo aumenta, ma le emergenze sono molte di più di Marco Ferrando Avvenire, 27 giugno 2025 Ciò che sta per accadere con la Difesa serva da monito. Quante altre priorità, negli anni, non sono state ritenute abbastanza gravi da consentire impegni e maggiori risorse? L’aumento della spesa militare da parte dell’Italia non getta solo ombre inquietanti sul futuro, ma ci impone di ripensare anche al recente passato. Per anni abbiamo detto e sentito dire che la capacità di spesa dello Stato italiano è già oltre il limite. Le regole di bilancio, per lo più stabilite a livello europeo, ci hanno obbligato a ricordare e non scompaginare definitivamente quanto i nostri fondamentali economici da sempre certificano: l’Italia è un Paese che, almeno dal punto di vista della spesa pubblica, vive al di sopra delle sue possibilità. Ora però dicono ci sia una guerra alle porte, negli Stati Uniti è tornato Donald Trump e - attraverso la Nato - ci viene chiesto di raddoppiare (arrotondando per difetto) quanto il nostro Stato dedica alle armi e a ciò che ci ruota intorno. È quella che può essere presentata come una “tipica causa di forza maggiore” e che - sulla carta - autorizza a compiere scelte straordinarie. Non ha senso mettere a confronto scenari diversi su piani lontani e dagli esiti imprevedibili: il potenziale rischio di una guerra dentro l’Unione Europea o di un ipotetico conflitto nucleare non possono essere paragonati all’emergenza educativa che tiene già ora e da tempo in ostaggio il Paese; la presunta minaccia russa (e la relativa necessità di aumentare la deterrenza) non può essere messa sullo stesso piatto delle carenze strutturali con cui fa i conti oggi la sanità pubblica. Ma il dubbio resta: quante “emergenze”, negli anni, non sono state ritenute sufficientemente gravi da consentire o anche solo paventare sforzi grandi o piccoli da parte dello Stato e del suo bilancio? La questione ha implicazioni anzitutto economiche, da cui non si sfugge: la sostenibilità dei conti pubblici è un principio inderogabile, se non altro per onestà nei confronti delle generazioni future. Ma la deroga concessa ora per il riarmo, che si aggiunge a quella - non solo legittima, ma fondamentale - della lotta alla pandemia, apre uno spazio di manovra tutto politico che non può essere ignorato. E che ci invita a guardare alla “gabbia di bilancio” con occhi un po’ diversi. Qualche numero aiuta a capire. Per il 2023 l’Istat ha contabilizzato un Prodotto interno lordo pari a circa 2.085 miliardi e una spesa pubblica che ne vale poco più della metà: il 53,7%.In pratica, la macchina statale con le sue ramificazioni locali (ma anche con gli interessi sul debito, o le pensioni) spende ogni anno oltre la metà della ricchezza prodotta nel Paese, uscite coperte per lo più dalle entrate fiscali. La parte del leone la fa la protezione sociale, che ha drenato spese per il 21,1% del Pil, seguita dalla sanità (6,5%) e dall’istruzione (3,9%). La difesa sta indietro, intorno all’1,2% del Pil, ma precede molte altre voci di spesa come la tutela dell’ambiente (0,9%) o la cooperazione allo sviluppo, inchiodata nei pressi dello 0,2%. Cifre che vanno prese con le pinze e spesso oggetto di interpretazioni variegate, ma che danno l’idea di quanto sia difficile, ogni anno, aprire il capitolo della legge di Bilancio, di quanto le “coperture” possano turbare i sonni all’occupante di turno della scrivania di Quintino Sella, al Ministero del Tesoro. Una vera e propria gabbia in cui il Paese si è auto imprigionato nel corso dei decenni, ma che alla fine rischia di diventare un alibi per non pensare a vere politiche, coraggiose ma divisive, di svolta e sviluppo. E pensare che nel tempo si sono stratificate tonnellate di studi che hanno calcolato i diversi impatti potenziali di un incremento del supporto pubblico su questa o quella voce di bilancio. Perché se speso bene, ogni euro dello Stato può accendere ritorni - materiali e immateriali - ben superiori. L’ultimo esempio è di pochi giorni fa e arriva da Banca d’Italia: il governatore Fabio Panetta ha ricordato che nel nostro Paese la spesa universitaria cattura appena l’1% del Pil, contro l’1,3% della media europea. Allinearsi al resto del continente “renderebbe il sistema universitario più attrattivo per i ricercatori italiani e stranieri che oggi scelgono atenei esteri”, ha sottolineato il governatore. Ricordando che “basterebbero” appena tre decimi di punto di Pil per disinnescare quel perverso meccanismo che oggi ci vede formare decine di migliaia di cervelli che poi emigrano, e al tempo stesso ci vede attrarre la manodopera meno qualificata. Tornare indietro è impossibile, ma quanto sta per accadere con la Difesa possa servire almeno da monito per raddrizzare la rotta: i numeri non sono un’opinione e i conti devono essere in ordine per non rovinare (ancora di più) l’ecosistema che lasciamo in eredità ai nostri figli. Ma se l’emergenza è reale può essere trovata una risposta anche nelle pieghe del bilancio dello Stato (purché ambiziosa, argomentabile, dagli effetti garantiti). Oppure prendere atto del fatto che le contabilità nazionali da sole ormai faticano a incidere sul corso degli eventi, e che - nel caso dell’Europa - non abbiamo alternative credibili e sostenibili a un futuro di maggiore integrazione. L’ossessione per la “sicurezza” che ci inganna: l’unico investimento è nella pace di Leonardo Becchetti Avvenire, 27 giugno 2025 In un mondo frammentato da conflitti e tensioni crescenti, l’ossessione per la sicurezza militare rischia di riportarci a una logica arcaica di scontro e distruzione. L’ossessione della sicurezza sembra essere la chiave per spiegare una terza guerra mondiale a pezzi che ci riporta a un mondo giurassico che pensavamo di aver superato. In una fase storica in cui la tecnologia ci rende tutti progressivamente più potenti, pensare che la sicurezza passi per l’eliminazione di chi riteniamo essere nostri nemici o delle loro armi è una pericolosa illusione. L’unica vera sicurezza è usare la nostra intelligenza relazionale per un’”offensiva di pace”, ovvero un investimento serio nei negoziati, nella diplomazia e nella costruzione di relazioni di pace e cooperazione multilaterale per eliminare le ragioni dell’odio. I conflitti in corso non favoriscono discernimento e riflessione e sembrano spingerci a schierare dettando agende che non sembrano dare scampo. I Paesi della Nato hanno deciso di destinare il 5% del Pil in spese militari, per l’Italia equivale a 700 miliardi in dieci anni. Se aumentiamo le spese militari, sottrarremo inevitabilmente risorse a salute e welfare. “La gente - ha detto ieri Leone XIV - è sempre meno ignara della quantità di soldi che vanno nelle tasche dei mercanti di morte e con le quali si potrebbero costruire ospedali e scuole; e invece si distruggono quelli già costruiti”. Ma quale è il modo davvero “efficiente” per garantirci sicurezza e pace? Quello di una rincorsa verso l’alto delle spese militari? Sicuramente no. Lo è invece quello che abbiamo adottato in Europa con i nostri vicini, ovvero investire in relazioni di pace. Oggi spendiamo qualcosa per difenderci da Spagna, Francia, Germania o Austria? Zero. Non era così fino al Secondo dopoguerra: abbiamo un passato di guerre sanguinose che ha attraversato le storie e i destini dei nostri genitori, nonni, antenati. Dopo la Seconda guerra mondiale alcuni leader con radici cristiane di diversi Paesi hanno capito che ci si poteva liberare dalla schiavitù della guerra, si poteva costruire un gioco a somma positiva e non a somma zero: invece di scannarci su carbone e acciaio si poteva metterci insieme e cooperare. Nasce così la Ceca e tutto il resto, un patrimonio straordinario che i più irresponsabili non si rendono conto di mettere a rischio. Una premessa teorica fondamentale perché questo possa avvenire è capire che le cose più ricche e preziose dal punto di vista spirituale, sociale ed economico avvengono perché la vita stessa, nelle cose veramente importanti, è un “gioco a somma positiva” e non un “gioco a somma zero”. In questo secondo caso, come nel poker, se io vinco tu perdi. L’altro è dunque colui che mi contende un pezzo della fetta di una torta di dimensioni date, e mentre combattiamo per quel pezzo di fetta la torta diventa più piccola. Nella logica del gioco a somma positiva - quella dei beni relazionali, delle reti digitali e non, dei beni spirituali e di tutti i processi innovativi - l’altro è colui senza il quale non posso essere felice. É quella persona diversa da me per competenze ed esperienze con cui posso cooperare in un progetto che innova e crea valore addizionale. Un palestinese e un israeliano in un contesto di gioco a somma positiva sono compagni di lavoro in una azienda innovativa nella Silicon Valley, e la loro diversità innova e crea plusvalore. In un contesto di gioco a somma zero, invece, diventano due disperati che si contendono un pezzo di terra in una guerra infinita che distrugge le loro vite. I teorici della vita come “gioco a somma zero” sono ossessionati dalla scarsità. Se risorse preziose sono scarse, dobbiamo combattere per accaparrarle. Ma la logica della scarsità è sempre stata sconfitta, nella storia, dal progresso scientifico, medico, tecnologico. Quest’ultimo è in realtà il frutto del lavoro e del sudore di comunità di scienziati e di studiosi (quindi anch’esso un bene assolutamente umano e relazionale). Nel Diciannovesimo secolo l’olio di balena era fondamentale per l’illuminazione e il timore dell’estinzione dei cetacei era diffuso. Ma il kerosene prima e le lampadine elettriche poi eliminarono il problema. Nel Ventesimo secolo il timore che il rame potesse esaurirsi perché essenziale per costruire linee telefoniche fu fugato dall’avvento della fibra ottica. Oggi sappiamo che l’era del petrolio come fonte di energia non finirà per l’esaurimento della risorsa, ma per la scoperta di fonti alternative disponibili in abbondanza (il sole manda sulla terra energia pari a 15.000 volte il totale consumato oggi nel pianeta), fonti tra l’altro sono essenziali per risolvere il problema del riscaldamento globale. Il problema della scarsità viene ora riproposto con l’ossessione per i minerali rari, ma una nuova ondata di scoperte e d’innovazioni - come le nuove batterie che economizzano o fanno a meno di litio, cobalto e nickel - insieme alla crescita dell’economia circolare, indicano la direzione della progressiva soluzione del problema. Il nostro modo di vedere e interpretare la realtà può inchiodarci a un mondo giurassico del Risiko, dove siamo homo omini lupus, o può riportarci alla logica della cooperazione multilaterale. E aiutarci a capire le vere chiavi della ricchezza di senso e di soddisfazione di vita (nonché della felicità pubblica e della prosperità economica). Domani ci sveglieremo con la paura e pensando che dobbiamo spendere di più per difenderci o con l’idea che possiamo e dobbiamo investire nella costruzione di relazioni di pace e mutuo vantaggio? C’è una sola grande offensiva in cui dobbiamo tutti impegnarci: quella dell’investimento nell’intelligenza relazionale. Perché, lo ha detto con forza, ieri, papa Leone, “è veramente triste assistere in tanti contesti all’imporsi della legge del più forte, in base alla quale si legittimano i propri interessi. È desolante vedere che la forza del diritto internazionale e del diritto umanitario non sembra più obbligare, sostituita dal presunto diritto di obbligare gli altri con la forza. Questo è indegno dell’uomo, è vergognoso per l’umanità e per i responsabili delle nazioni”. Europa armata, vittoria degli Stati Uniti. E tutti gli altri hanno perso di Marco Iasevoli Avvenire, 27 giugno 2025 Sull’intesa del 5%, in sintesi e a rigor di logica, ha ragione Rutte: ha vinto Trump, dunque gli altri, tutti gli altri, hanno perso. Nulla spiega il vertice Nato appena conclusosi come quel messaggio che il segretario generale dell’Alleanza, l’olandese (ed europeo) Mark Rutte, ha recapitato a Donald Trump prima ancora che il presidente Usa partisse verso L’Aia. In sintesi: “Il vincitore sei tu”. Poi certo al World Forum sono accadute cose, ci sono stati incontri, bilaterali, sussurrii, bilanciamenti, ma la sostanza è quella che Rutte si è premurato di comunicare a Washington prima ancora che i leader arrivassero: l’intera riunione era finalizzata a certificare il peso di Trump e del trumpismo sull’Occidente e sull’Europa. Certo, va detto che l’intesa sul 5% è “politica”, nel senso che offre ancora margini per scaltri riconteggi e riclassificazioni delle spese. Ma l’indirizzo è assunto: i soldi in armi, difesa e sicurezza cresceranno in modo esponenziale perché, dice ancora Rutte, la protezione del Vecchio Continente e degli Stati Nato non può essere a carico dei “contribuenti americani”. L’Europa ne esce oggettivamente con le ossa rotte. Per almeno tre motivi. Primo, ha dovuto assumere l’impegno sostanzialmente “sotto minaccia”, perché quando Trump, ancora sull’Air force one, metteva in dubbio l’articolo 5 del Trattato Nato, stava tornando a declamare la teoria del disimpegno americano. Lo assume, secondo motivo della “sconfitta” europea, consapevole dell’inevitabile impatto sul welfare. In questi giorni la bandiera della “battaglia sociale” è stata lasciata in mano al socialista spagnolo Sanchez, ma dietro le sue argomentazioni si celavano le paure e la consapevolezza anche di altri leader europei, Meloni compresa. Anche se si tratta di un passaggio sfumatissimo, non va dimenticato quanto la premier ha detto alla Camera lunedì, quando ha ammesso un possibile calo di consensi derivante dalla scelta del riarmo (evidentemente per le inevitabili ricadute su altri capitoli di spesa). Né è possibile dimenticare le “grida di dolore” del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti circa l’impatto sul debito pubblico. Terzo motivo di delusione e riflessione per la debole Europa, l’inchino a Trump sul 5% non è valsa le attese rassicurazioni americane sull’Ucraina. È evidente il tentativo dell’Ue, dai suoi vertici istituzionali ai principali capi di governo, di provare a “tenere buono” Trump, sperando che tanta solerzia sulla difesa paghi quantomeno sul dossier dazi. Ma è, in tutta evidenza, una (costosa) scommessa. Anche perché, va detto chiaramente, gli impegni di riarmo nazionale in sede Nato allontanano ulteriormente l’ipotesi di una difesa comune europea. E d’altra parte già il piano RearmEu è distante dall’intuizione dei padri fondatori, prevedendo anch’esso un riarmo su base nazionale (per di più sbilanciato sulla Germania). Il “programma militare” dell’Alleanza, infatti, nonostante le rassicurazioni dei leader europei circa l’impatto positivo sulle industrie nazionali, asseconda l’inerzia di accordi commerciali tra Stati Uniti e altri Stati membri, e questo rischia di depotenziare anche Safe, l’europiano per finanziare progetti condivisi tra Paesi Ue con prestiti agevolati. Di tale circostanza non sembra essere troppo preoccupata Giorgia Meloni, che a L’Aia ha “problematizzato” molto meno il tema del riarmo rispetto a quanto fatto, invece, durante i recenti Consigli Europei. Segno che la premier, al netto dell’imprevedibilità di Trump che la costringe a non rinunciare al rapporto con Germania e Francia, continua a prediligere l’atlantismo all’euroatlantismo. Ma la strada dell’attuazione del riarmo, per la presidente del Consiglio, è tutt’altro che in discesa: la Lega scalcia, già intravede una manovra “austera” e non ama i toni bellici della Nato di Rutte contro Mosca, in Forza Italia si affaccia qualche insospettabile riserva, la stessa FdI riesce a mascherare le preoccupazioni “sociali” solo affidandosi alla leadership di Meloni. Per questo motivo, sul dossier militare, la premier ha aperto a collaborazioni con un pezzo di opposizione. Ucraina. L’appello dei tre Nobel: “Ancora possibile la via della pace” di Raffaella Chiodo Karpinsky Avvenire, 27 giugno 2025 Tre Nobel per la pace sono stati in missione in Italia nei giorni scorsi: Oleg Orlov, co-portavoce di Memorial dalla Russia, Oleksandra Romantsova, direttrice esecutiva del Centro per le Libertà Civili di Kiev e Leonida Sudalenka, direttore della sezione di Gomel’ di Vjasna, l’associazione bielorussa per la difesa dei diritti umani fondata da Ales’ Bjaljahki su invito della sezione italiana di Memorial. Realtà russe, bielorusse e ucraine che nel 2022 hanno ricevuto l’alto riconoscimento che suonava come un estremo invito al dialogo a pochi mesi dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina. Un incoraggiamento a chi in quella regione cerca, nonostante tutto, di rilanciare umanità e dialogo. Quanto accaduto da allora è la cronaca feroce della guerra con distruzione e morte di soldati e tanti civili innocenti. Ferite che segneranno per decenni quelle comunità. Il loro operare insieme è la prova che nelle società di quei Paesi esistono embrioni di umanità per poter guardare al futuro con speranza. La visita - e gli incontri al Ministero degli Esteri, con la commissione Camera e Senato e con alcuni esponenti dei partiti - erano finalizzata alla presentazione della campagna “People First”, lanciata dalle due organizzazioni Nobel, la russa Memorial e l’ucraina Centro per le Libertà Civili. La priorità assoluta di qualsiasi accordo ottenuto al termine dei negoziati, è stato sottolineato, deve essere la liberazione di tutti i prigionieri detenuti in seguito alla guerra russa di aggressione contro l’Ucraina. Vale a dire le migliaia di civili ucraini detenuti dallo Stato russo; le migliaia di prigionieri di guerra ucraini e russi detenuti da ambedue gli schieramenti; gli almeno 20.000 bambini deportati illegalmente in Russia; le centinaia di prigionieri politici russi incarcerati per avere protestato contro la guerra. Incontrando la delegazione italiana, Olexandra ha affermato: “Con le organizzazioni per i diritti civili come Memorial Russia ed altri, collaboriamo da tempo. Si può dire in un territorio come i Paesi baltici, il Caucaso, la Moldovia, la Bielorussia oltre naturalmente all’Ucraina e la Russia dove ad accomunarci ci sono i traumi del passato sovietico. Insieme a Memorial, sin dal 2014 documentiamo i crimini di guerra. A sostegno dei cosiddetti prigionieri del Cremlino. Mi riferisco soprattutto a quei prigionieri prelevati dal Donbass e dalla Crimea, tra questi molti tatari, arrestati per motivi politici. Dal 2014 a noi attivisti ucraini non è stato più consentito seguirli e assisterli in Russia. Solo grazie alla collaborazione con i colleghi russi abbiamo potuto assicurare la difesa legale e siamo riusciti a scoprire dove fossero finiti. Sono stati trasferiti in carceri russe anche remote. Siamo riusciti a organizzare le visite dei loro parenti. Si tratta di un lavoro difficilissimo e abbiamo potuto capire fino in fondo che se tutto questo è stato possibile è perché si può essere cittadini di diverse nazionalità per noi dei diritti umani ciò che conta e ci accomuna sono gli stessi valori di umanità”. “Nel 2022 l’assegnazione del Nobel non ci ha sorpreso essere accomunati ma è difficile perché gli ucraini sono feriti e delusi per quanto sta facendo la Russia. Pensate che ancora nel gennaio del 2014 erano tantissimi i russi che venivano a Kiev, a Lviv. Ma tra noi attivisti collaboriamo come prima e non potrebbe essere diversamente. Oleg Orlov insieme a Yan Rachinskj sono stati da noi prima del 2022 e con l’esperienza in Cecenia ci hanno insegnato molto”. Intanto, dall’altra parte del “muro”, risuonano le parole di Dmitrij Muratov che continua la sua campagna per chiedere la liberazione dei prigionieri politici e soprattutto di coloro che versano in condizioni più gravi. Questa volta si è rivolto alla Svizzera. Tante le ragioni dell’appello rivolto a questo Paese. La sua storia che ha dimostrato di saper promuovere dialogo e mediazione fra Stati; ospita l’Alto Commissariato per i diritti umani dell’Onu e la Croce Rossa, e ha ospitato la sigla delle convenzioni di Ginevra. Medio Oriente. Affamare la Striscia, i piani di Netanyahu di Francesca Mannocchi La Stampa, 27 giugno 2025 Ieri mattina il ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben Gvir, esponente dell’ultra destra sionista ha scritto “gli aiuti umanitari che stanno attualmente entrando a Gaza sono una vergogna assoluta. Ciò di cui c’è bisogno a Gaza non è una sospensione temporanea degli aiuti “umanitari”, ma una sospensione totale”, ha accusato Hamas di assaltare gli aiuti e controllare il cibo nella Striscia di Gaza e poi ha aggiunto: “Fermare gli aiuti ci porterà rapidamente alla vittoria”. Non era la prima volta. Il 3 marzo, a una convention del suo partito di estrema destra Otzma Yehudit aveva detto: “Il governo dovrebbe inoltre ordinare il bombardamento delle scorte di aiuti che si sono accumulate in enormi quantità a Gaza durante e prima del cessate il fuoco, insieme alla completa interruzione dell’elettricità e dell’acqua”. È a un altro ministro di estrema destra, quello delle finanze Bezalel Smotrich che, secondo le ricostruzioni del canale israeliano Channel 12 e del quotidiano Haaretz si deve la decisione, due giorni fa, di Netanyahu di bloccare gli aiuti umanitari nella parte settentrionale di Gaza. Smotrich è lo stesso ministro che a marzo, in un discorso in cui difendeva la strategia israeliana di distruzione indiscriminata di Gaza, aveva detto che l’obiettivo della guerra era da sempre stato “conquistare, sgomberare e rimanere” finché Gaza “non sarà smantellata fino a renderla irriconoscibile” e che avrebbero consentito l’ingresso di pochissimi aiuti sono per “permettere al mondo di continuare a fornire a Israele protezione internazionale. Stiamo annientando tutto ciò che rimane nella Striscia”. Secondo i due media Smotrich avrebbe minacciato di abbandonare il governo dopo aver visto un video che mostrava individui armati sui camion degli aiuti umanitari. Netanyahu e il ministro della Difesa Katz hanno chiesto all’esercito di preparare un piano d’azione entro due giorni per impedire ad Hamas di prendere gli aiuti, anche se è lo stesso esercito israeliano a dire di non essere in grado di confermare se gli uomini armati sui camion siano effettivamente membri di Hamas o meno. Secondo i giornalisti palestinesi a Gaza gli uomini armati sono guardie di sicurezza che le famiglie e le tribù mandano a proteggere i camion dai saccheggiatori. Alcuni filmati e i resoconti che arrivano direttamente dalla Striscia di Gaza contraddicono le informazioni del governo israeliano. Gennaro Giudetti, operatore umanitario da mesi a Gaza, ieri ha detto a La Stampa che, dopo una lunga attesa, pochi giorni fa sono entrati da Kisufim - al centro della Striscia - 100 pallet di medicinali, tra cui sangue e plasma in direzione di Deir el-Balah. Dai camion gli operatori umanitari urlavano alla gente affamata che incontravano sul cammino di non toccare nulla, e di non assaltare i camion perché le scatole contenevano materiale destinato agli ospedali, e infatti lungo tutto il percorso gli aiuti - pochi e largamente insufficienti ai bisogni della popolazione - non hanno mai corso il rischio di essere assaltati. Un altro operatore umanitario, palestinese di Gaza, che lavora con una agenzia delle Nazioni Unite e chiede di parlare in forma anonima, raggiunto al telefono ieri ha detto: “Le persone assaltano i camion con i taglierini, o coi coltelli da cucina, per provare a aprire i pallett e le scatole e prendere un po’ di farina, ma non c’è un controllo unico, non c’è un solo gruppo armato a Gaza, non si può stabilire che chi ferma un camion appartenga a Hamas o sia stato istruito da Hamas per farlo. Forse dovremmo prima chiederci perché i camion vengono assaltati. E la risposta è una: per fame”. Mercoledì l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari ha denunciato che, nonostante una parziale ripresa degli aiuti umanitari, la fame sta aumentando a Gaza. E le distribuzioni, già scarse, continuano a essere oggetto di violenza. “L’attuale volume e ritmo delle consegne rimangono palesemente insufficienti”. Al 22 giugno, i partner delle Nazioni Unite contavano solo 200.000 pasti distribuiti quotidianamente in 45 cucine collettive, rispetto a oltre un milione alla fine di aprile. Un calo dell’80 per cento in meno di due mesi. Israele continua a vietare alle organizzazioni umanitarie di effettuare autonomamente le distribuzioni, tutti i panifici supportati dalle Nazioni Unite rimangono chiusi. E gli aiuti così tanto frammentati sono più esposti al saccheggio da parte di centinaia di migliaia di persone affamate, e i numeri - diffusi quotidianamente dalle Agenzie dell’Onu - sono sempre più catastrofici. La Classificazione Integrata della Sicurezza Alimentare (Integrated Food Security Phase Classification, Icp) a maggio ha rilevato che mezzo milione di persone a Gaza sta affrontando una fame catastrofica e che 71.000 bambini e 17.000 madri avranno bisogno di cure urgenti per malnutrizione acuta, numeri che hanno portato le Nazioni Unite a condannare martedì quella che hanno definito la “militarizzazione del cibo” da parte di Israele a Gaza, definendola un crimine di guerra, esortando i propri militari a “smettere di sparare alle persone che cercano di procurarsi cibo”. Il conto alla rovescia degli ospedali - “Questa mattina ho chiamato il nostro staff a Gaza per sincerarmi delle condizioni energetiche degli ospedali, consapevole della crescente penuria di carburante necessario ai gruppi elettrogeni che alimentano ogni forma di assistenza vitale. La risposta che ho ricevuto è stata agghiacciante: restano solo quattro giorni di carburante, poi tutto si spegnerà” a parlare è Loris de Filippi, che è da poco uscito da Gaza dopo nove mesi con Unicef e che condivide con La Stampa le informazioni delle Nazioni Unite che quotidianamente arrivano dalla Striscia di Gaza. Un video di due giorni fa che ha condiviso mostra il reparto di neonatologia dell’ospedale al Helou: l’elettricità salta all’improvviso per mancanza di carburante e i generatori di corrente non ripartono se non dopo quaranta minuti. Blackout nella terapia intensiva neonatale che sono stati letali a una neonata che era in incubatrice con un ventilatore che ha smesso di funzionare. I medici hanno provato a rianimarla, ma non c’è stato niente da fare. Secondo gli ultimi aggiornamenti condivisi dalle organizzazioni che operano nella Striscia, al 26 giugno rimangono solo 140.000 litri di diesel nel Nord della Striscia e 272.052 litri nel Sud, sono le ultime riserve disponibili per tutti i settori essenziali: telecomunicazioni, distribuzione idrica, alimentazione e, soprattutto, sanità. Significa che, se non entra altro carburante, il quattro giorni smetteranno di funzionare le incubatrici, i respiratori, le pompe per l’ossigeno e che le ambulanze che devono trasportare i feriti negli ospedali resteranno ferme.