“Riscrivere il reato di tortura”. L’opa di Salvini sulla Polizia penitenziari di Eleonora Martini Il Manifesto, 26 giugno 2025 Dopo il dl Sicurezza, il leader leghista promette mano libera agli agenti penitenziari. Suicida un 22enne migrante detenuto. Agente arrestato per molestie su un minorenne. La nuova “missione della Lega” sarà “rivedere, circoscrivere, definire il reato di tortura”. Matteo Salvini alza il tiro ancora più in alto, questa volta. Sei mesi fa ha tentato di inserire uno scudo penale per le forze dell’ordine all’interno del ddl Sicurezza. Poi, mentre il ddl diventava decreto, ha tentato di superarlo a destra presentando alla Camera una proposta di legge che, invece di coprire solo parte delle spese legali, prevede direttamente il gratuito patrocinio per gli agenti accusati di misfatti durante il servizio. Non contento evidentemente della cassa di risonanza ottenuta, l’altro giorno è tornato a sventolare più forte lo scudo penale per i poliziotti. E ieri, forse anche nel tentativo di soddisfare la platea della Sala Salvadori di Montecitorio convocata per ascoltare le lodi del decreto Sicurezza e del suo impatto “positivo” sulla vita dei poliziotti penitenziari - obiettivo evidentemente non proprio a portata di mano, perfino per le capacità oratorie del leader leghista - Salvini ha rispolverato un vecchio refrain. L’obiettivo è eliminare il reato inserito nel nostro codice penale solo nel 2017, tra gli ultimi Paesi europei a farlo e dopo quasi 30 anni dalla ratifica della Convenzione Onu, proprio a causa dell’opposizione delle destre. Un traguardo fissato ieri da Salvini proprio alla vigilia della Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, che si celebra oggi. E proprio mentre dagli istituti penitenziari italiani arrivano altre devastanti notizie, oltre al solito e inascoltato grido di dolore per il sovraffollamento e le impossibili condizioni di vita dei reclusi, che peggiorano nei mesi estivi. Un ragazzo migrante di appena 22 anni, infatti, si è impiccato lunedì scorso (il detenuto suicida numero 37 o 38, a seconda delle fonti, dall’inizio dell’anno) a San Vittore, dove ieri sono arrivati i commissari del Comune di Milano che hanno valutato le condizioni del carcere “una vergogna per uno Stato di diritto compiuto”. E, nel frattempo, un agente scelto è stato arrestato a Napoli con l’accusa di aver molestato un minorenne recluso nell’Istituto penale minorile di Nisida, obbligandolo a rapporti sessuali in cambio di favori. E invece ieri nell’incontro organizzato dalla Lega alla Camera, a cui hanno partecipato tra gli altri anche i sottosegretari alla Giustizia e all’Interno, Ostellari e Molteni, si parlava di tutt’altro. “Il decreto sicurezza non è un punto di arrivo ma una tappa, soprattutto nelle carceri”, ha affermato il numero due del governo promettendo di rimettere perciò le mani sul reato di tortura. Perché, ha detto, “bisogna permettere alla penitenziaria di fare il suo lavoro”. “È una cosa da fare e chi se non la Lega può farlo?”, si è inorgoglito Salvini. Anche se Ostellari ha precisato di non aver ancora “un testo definito”, ma di avere intenzione di coinvolgere “le parti interessate, polizia penitenziaria in primis”. Due sono gli altri importanti obiettivi enunciati dal sottosegretario leghista alla Giustizia: la “tutela processuale” per gli agenti e l’introduzione del taser nelle carceri, come strumento a disposizione dei poliziotti penitenziari “a tutela vostra e dei detenuti stessi”. Tutela che si prospetta perlomeno discutibile, ad ascoltare il responsabile dipartimento Carceri e polizia penitenziaria della Lega, Antonio Fellone, secondo il quale “il 90% degli eventi critici nelle carceri sono dati da detenuti stranieri”. Il “Maghreb è il peggiore in assoluto”, afferma Fellone, “persone aggressive, che non rispettano gli agenti e lo Stato che li ospita, vogliono fare i padroni a casa nostra”. Ma non tutto il centrodestra è disponibile - come, presumibilmente, non tutte le forze dell’ordine e di polizia penitenziaria - a neutralizzare il reato di tortura: “Non siamo pregiudizialmente contrari ma le cose vanno fatte con grande attenzione”, ha premesso cauto il portavoce di FI, Raffaele Nevi, anche se le sue parole sono state applaudite come un’”apertura” dal leghista Morrone. L’opposizione invece ha reagito compatta: “Il reato di tortura non si tocca”, è l’avviso che sale da più parti, da Avs al M5S a +Europa. Mentre la responsabile Giustizia del Pd promette di difendere quello che definisce “una conquista per un Paese civile”, anche “in segno di rispetto del lavoro di chi opera nelle carceri, personale messo più a rischio dal Dl sicurezza”. “Il sistema di alzare i toni adottato dal capo della Lega - sostiene Debora Serracchiani - non è folklore di destra estrema ma è oggettivamente pericoloso perché sposta il confine dell’accettabile e aumenta il clima di tensione nel Paese”. Soprattutto quando quel confine attraversa i corpi e le vite delle persone. Sotto attacco il sistema dei diritti umani di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 26 giugno 2025 Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha preannunciato che, allo scopo di permettere alla Polizia penitenziaria di fare il proprio lavoro nelle migliori condizioni possibili, il reato verrà circoscritto. La tortura è un crimine contro l’umanità. Il ministro dei Trasporti Matteo Salvini ha preannunciato che, allo scopo di permettere alla Polizia penitenziaria di fare il proprio lavoro nelle migliori condizioni possibili, verrà circoscritto il reato di tortura. Prepariamoci a una larga, intensa, radicale opposizione sociale, culturale, giuridica, politica. Mettere mano al crimine di tortura significa bloccare i processi in corso, a partire da quello che si sta svolgendo nell’aula bunker di S. Maria Capua Vetere per le violenze commesse in carcere nel 2020 e di cui tutti abbiamo potuto vedere le immagini. La tortura è un delitto infame, commesso da chi ha obblighi di custodia contravvenendo al giuramento di fedeltà allo Stato. Al pari della corruzione, è il delitto dei potenti. Non è un caso che la nostra Costituzione contiene una sola volta al proprio interno il verbo punire, ossia all’art. 13 quando prescrive che sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. A ciò va aggiunto il richiamo dell’art. 117 della stessa Carta ai vincoli derivanti dal diritto internazionale, che rende illegittimo ogni tentativo di modifica o cancellazione della legge in corso. Detto questo, il problema è politico, culturale e professionale, prima ancora che giuridico. È in primo luogo politico, perché si sta smarrendo l’identità democratica lasciando campo libero alle tendenze delle oligarchie al potere. È culturale, perché sempre meno nei luoghi della formazione, del sapere, nei media si parla di diritti negati. È in corso la guerra dei potenti contro i loro nemici (tra i quali le organizzazioni non governative). Infine, si pone un tema di natura professionale che investe ogni operatore delle forze dell’ordine o penitenziario. Nessuno di loro dovrebbe mai avallare tendenze che partono dalle false promesse di sicurezza provenienti da alcune organizzazioni sindacali, le quali lottano non per i diritti dei loro rappresentati ma per avere mani libere nel proprio lavoro. Il sistema dei diritti umani è sotto attacco. Due grandi conquiste nelle quali storicamente si è impegnata Antigone sono l’introduzione del delitto di tortura e l’istituzione del Garante nazionale delle persone private della libertà. Su entrambe è caduta, o potrebbe cadere, la mannaia della destra al governo. Da un lato, assicurando impunità ai torturatori e, dall’altro, anestetizzando le istituzioni di garanzia. I livelli territoriali sono per questo decisivi. Dal basso, dai Comuni, dalle Regioni deve partire un’altra visione della pena e del potere dello Stato. Per questo è importante che le istituzioni locali, diversamente dal Governo nazionale, procedano a nominare, nel ruolo di Garanti dei detenuti, personalità scelte per l’indipendenza e la competenza specifica, e non per l’appartenenza pregressa a un partito o alla stessa istituzione che dovrebbero controllare. *Presidente Associazione Antigone L’Italia tradisce le vittime di tortura di Gianfranco Schiavone L’Unità, 26 giugno 2025 Con trent’anni di ritardo rispetto agli obblighi dati dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani o degradanti approvata dall’Assemblea generale nel 1984 - appena nel 2017 l’Italia ha introdotto nel proprio codice penale il reato di tortura, mentre è del gennaio 2021 la prima sentenza di condanna per atti di tortura, emessa da un Tribunale italiano nei confronti di un agente della polizia penitenziaria che nel 2017 aveva torturato un uomo detenuto nel carcere di Ferrara. Va tuttavia ricordato che in precedenza l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani per le torture commesse nel centro di Bolzaneto a Genova nel 2001 e per quelle commesse nei confronti di due detenuti nel carcere di Asti nel 2004. Pochi sanno che la stessa Convenzione ONU prevede all’articolo 14 un obbligo per gli Stati a garantire “nel proprio ordinamento giuridico che la vittima di un atto di tortura ottenga giustizia e abbia diritto a un risarcimento equo e adeguato, compresi i mezzi per una riabilitazione il più possibile completa”. Cosa si deve intendere con il termine di riabilitazione? Nel General Comment n° 3 (2012) adottato dal Comitato ONU contro la tortura, la riabilitazione è definita come il percorso che porta al recupero, da parte della vittima di tortura, delle sue capacità fisiche, mentali e relazionali con l’acquisizione di nuove competenze e capacità che permettano alla persona un pieno inserimento sociale. Per conseguire tali obiettivi gli Stati adottano “un approccio integrato a lungo termine per garantire che siano disponibili servizi specialistici per le vittime di tortura o maltrattamenti, adeguati e facilmente accessibili”. La riabilitazione della vittima di tortura non si esaurisce dunque in singoli interventi medici o psicologici messi in atto per rispondere a un determinato disturbo fisico o psichico o a una situazione di difficoltà, ma si configura come un insieme di interventi medici, di natura sociale e legale finalizzati a realizzare una complessiva presa in carico della vittima di tortura che va accompagnata per tutto il tempo che sarà necessario a completare il percorso di piena riabilitazione. È stato necessario attendere il Decreto legislativo n. 251/2007 come modificato dall’articolo 1 del Decreto legislativo n. 18/2014 (art. 27 bis) affinché l’ordinamento italiano recepisse (in modo altresì parziale) l’obbligo di predisporre programmi di riabilitazione per le vittime di tortura, prevedendo che il Ministero della salute adotti delle “Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale”, cosa che avvenne nel marzo 2017. Anche se il focus dell’azione istituzionale è orientato, per evidenti ragioni, verso i richiedenti asilo e i titolari di protezione, le stesse Linee Guida forniscono precise indicazioni sugli interventi da realizzare “qualunque sia la condizione giuridica dello straniero” (pag. 34) vittima di tortura che per qualsiasi ragione non ha ancora avuto accesso alla procedura di asilo. Le Linee Guida del Ministero della Salute, redatte da un gruppo di esperti che ben conosce la tematica, sono un testo pregevole che, nei limiti dati da una norma primaria piuttosto carente, forniscono indicazioni molto precise su come attuare in tutto il territorio nazionale gli interventi di presa in carico delle vittime di tortura, nella consapevolezza che si tratta di situazioni per nulla rare, bensì, all’esatto opposto, molto diffuse e che, secondo le Linee Guida e la letteratura scientifica internazionale sul tema, riguardano in media non meno del 30% di tutti coloro che chiedono asilo, dunque decine di migliaia di persone. Tale percentuale è però certamente superiore in Italia, dove arrivano persone che hanno subito tortura in paesi di transito dove la violenza è estremamente diffusa, come la Libia e la rotta balcanica. Le precise indicazioni impartite dalle Linee Guida ministeriali alle Regioni sono però rimaste dal 2017 quasi interamente inattuate, come ha evidenziato il rapporto “Attuazione delle linee guida per assistenza e riabilitazione delle vittime di tortura e altre forme di violenza: mappatura e analisi” pubblicato da Medici Senza frontiere il 12.04.22 a seguito di un’indagine sul campo condotta in tutta Italia. Nessun miglioramento si è registrato successivamente a tale rapporto e il ritardo dell’Italia nel dare attuazione concreta all’obbligo di dotarsi di un piano nazionale di riabilitazione delle vittime di tortura è diventato enorme e drammatico. Recuperando e coordinando esperienze presenti in tutta Italia (alcune decennali) nate da chi non si arrende al desolante stato di cose sopra descritto, è stata creata, a dicembre 2024, la Rete Italiana per il Supporto a Persone Sopravvissute a Tortura (ReSST) con l’obiettivo di migliorare la disponibilità e la qualità dei servizi per la riabilitazione delle persone sopravvissute a tortura e per promuovere formazione e attività di ricerca scientifica. Una rete autorevole e coraggiosa che ha in programma di realizzare percorsi formativi per il personale socio-sanitario e del sistema di accoglienza che operano con le vittime di tortura. E che deve ricevere da soggetti pubblici e privati tutto il sostegno che merita. In occasione della Giornata mondiale contro la tortura, che si celebra oggi 26 giugno, la ReSST ha presentato un primo rapporto annuale (www.controlatortura.it) basato su dati raccolti nel corso del 2024 e relativi a 2.688 persone (62,7% uomini e 37,3% donne) che avevano subito tortura (non dunque certo la generalità di tale popolazione in Italia, ma solo coloro che le associazioni parte della Rete sono riusciti a seguire, nel ‘24 o in precedenza con una certa continuità). Come era facile immaginare, la larga maggioranza delle vittime è composta da richiedenti asilo (69%), da rifugiati (13%) e da titolari di altre protezioni (18%), il 5% riguarda persone con altri titoli di soggiorno, mentre il 3% sono irregolari. A conferma che la condizione di vittima di tortura non riguarda solo l’ambito del diritto d’asilo. La tortura è avvenuta nei paesi di origine (35,4%), ma in misura ben maggiore (il 64,6%) nei paesi di transito, un dato allarmante ma in linea con tutti i rapporti internazionali. Gli agenti della persecuzione sono stati in assoluta prevalenza, e in proporzioni pressoché uguali, i trafficanti (il 33%) e i pubblici ufficiali (28%), figure che in molti Paesi (e in primis in Libia) sono solo apparentemente distinte. Anche in questo caso, si tratta di un dato terribile ma confermato dalla generalità dei rapporti internazionali e che fa emergere il problema, del tutto rimosso dalla politica, di quali azioni ed interventi realmente l’Unione Europea e i suoi Stati finanzino tramite le ingenti risorse genericamente destinate per la gestione delle migrazioni nei paesi terzi. L’introduzione di rigorosi criteri di condizionalità su tali finanziamenti, unitamente a un monitoraggio indipendente, è una priorità assoluta per non essere, tutti noi, parte della tortura. Rivolta nell’ufficio del Garante nazionale: “Per i detenuti non fa nulla” di Angela Stella L’Unità, 26 giugno 2025 Dopo lo storico avvocato Passione, si dimettono le colleghe Brucale e Calcaterra e lo psichiatra Rossi, ma altri esperti sono pronti a lasciare. “Mancanza di terzietà, niente più visite a sorpresa in carcere e neppure la relazione al Parlamento”. È fuga di avvocati ed esperti dalla lista di consulenti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Riccardo Turrini Vita, Irma Conti, Mario Serio). Dopo quelle di Michele Passione, sono arrivate le dimissioni anche di altri professionisti. Com’è noto il 9 giugno, Mimmo Passione, storico avvocato del Garante, ha comunicato la rinuncia al proprio mandato: alla base della decisione ci sono le crescenti difficoltà riscontrate nell’ottenere il riconoscimento del proprio lavoro, nonché una diminuita attenzione alla dignità delle persone ristrette da parte di chi ha istituzionalmente la responsabilità della loro custodia e tutela. In particolare ci racconta il legale: “Non è in discussione la mia figura, che non conta nulla, quanto piuttosto alcuni temi politici che io ho posto all’attenzione del Garante attuale che non ha mai ritenuto di doversi mettere in contatto con me, né prima, quando avevo preannunciato le dimissioni, né dopo”. Le questioni poste da Passione: “l’assoluta molteplicità di voci all’interno di un collegio che dovrebbe parlare con una voce sola, la percepita mancanza di terzietà da parte di alcuni componenti del collegio, il fatto che non si svolgano più visite non programmate ed in particolare non si sia ancora andati nel Cpr in Albania, la mancata presentazione della relazione al Parlamento. E del resto sarebbe impossibile trasmettere una relazione se non si va nei luoghi tutti di privazione della libertà personale”. A lasciare anche l’avvocato Maria Brucale che aveva prestato anni addietro la sua disponibilità pro bono al Garante: “Negli anni la mia è stata una esperienza entusiasmante che mi ha profondamente arricchita grazie alla possibilità di partecipare alle missioni, alla redazione di atti nell’interesse delle persone recluse violate nei loro diritti, allo studio e al confronto sempre produttivo e stimolante fino alla corposa e capillare relazione annuale al Parlamento”. Purtroppo, spiega ancora Brucale, “dall’insediamento del nuovo Garante, nessuno mi ha mai contattata. La mia presenza nella lista mi appare oggi spoglia e ormai svuotata della sua essenza. Non trovo più quel terreno condiviso che aveva da principio supportato l’adesione al tempo prestata e la volontà di offrire il mio impegno e la mia dedizione. Ho chiesto, pertanto, allo stato, la cancellazione del mio nome dagli esperti a titolo gratuito”. Ad abbandonare pure l’avvocato Antonella Calcaterra e lo psichiatra Giovanni Rossi, che si occupava di valutare le condizioni dei ristretti nei reparti psichiatrici e nelle Rems, anche per vedere se venivano messe in atto contenzioni, Tso ed elettroshock. Ma non sarebbero gli unici a lasciare: anche altri esperti sono in procinto di abbandonare l’incarico. Il motivo è sempre lo stesso: “non ci fanno più fare nulla”. Per l’ex presidente del Collegio, Mauro Palma, “il vero punto di cesura cedo sia stato nel fatto che il nuovo Collegio - nella composizione con il presidente poi defunto e nella nuova con il nuovo presidente - non ha mai fatto - e tantomeno voluto fare anche se sollecitato - un incontro con il Collegio precedente neppure per il formale passaggio di consegne. Questo è il nodo originario di varie conseguenze. E sottolineo che l’indipendenza e la pienezza del mandato in tutti gli aspetti che le norme internazionali prevedono per un organismo di prevenzione di maltrattamenti e tortura restano l’aspetto centrale che chiede un ‘raddrizzamento’ dell’attuale impostazione”. Sulla questione ha preso posizione anche Osservatorio carcere e la Giunta dell’Unione Camere Penali: “la rilevata esistenza” all’interno del collegio del Garante “di ‘soggettività ideologiche’ dei singoli rischia di condizionare l’operato e le scelte pubbliche del Garante, destando evidente preoccupazione in quanto tale organismo dovrebbe averne una soltanto costituita dalle finalità e dagli scopi della sua primitiva costituzione: individuare le criticità presenti in ogni luogo di privazione della libertà”. Il riferimento è ad una intervista dello scorso 15 giugno al membro del collegio del Garante, il professore Mario Serio, al Manifesto in cui sostanzialmente parlava dell’esistenza di prese di posizione personali che priverebbero della necessaria uniformità di azione e di pensiero l’ufficio del Garante, chiamato invece ad esprimersi attraverso una decisione univoca, al netto delle “soggettività ideologiche” dei singoli componenti. Inoltre per i penalisti guidati da Francesco Petrelli, “in questi momenti di rimozione collettiva dello scandalo che investe l’istituzione carceraria, le cui drammatiche condizioni offendono l’immagine stessa del nostro Paese, si percepisce la carenza di un’effettiva azione di tutela dei diritti dei detenuti, di una concreta e tangibile opera di prevenzione di ogni forma di violenza praticata sulle persone ristrette, di una significativa attività di informazione pubblica sullo stato dell’intero sistema dell’esecuzione penale”. Infine “in questo particolare contesto si percepisce in tutto il suo più ampio valore politico la mancanza, da due anni, della prescritta relazione annuale al Parlamento sul lavoro svolto dal Garante e sulle prospettive future del settore ad esso assegnato”. Anche la Società della Ragione ha espresso “profonda preoccupazione per le dimissioni dell’Avv. Michele Passione” e conclude “le ragioni, gravi e circostanziate, con cui l’avv. Passione ha motivato la sua sofferta scelta, non possono essere ignorate e richiedono una risposta, in tempi rapidi, da parte del Ministro Nordio, interrogato sulla questione a riferire in Parlamento” da Italia Viva e Partito democratico. Intanto ieri con una nota il ministero della giustizia ha reso noto che un agente scelto di Polizia penitenziaria, in servizio presso l’Istituto penale per i minorenni di Nisida, indagato per atti sessuali con minorenne, commessi nel giugno 2025 ai danni di un giovane detenuto nell’Ipm, è stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari. Anche per lui, come per tutti gli altri indagati, vige la presunzione di innocenza. Il Garante necessario di Giunta e Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali Italiane camerepenali.it, 26 giugno 2025 La soggettività ideologica dei singoli componenti del collegio del Garante Nazionale dei diritti delle Persone private della Libertà non può diventare il grimaldello per cancellarne le funzioni di pubblico difensore dei diritti dei detenuti. Se il “Garante Nazionale dei diritti delle Persone private della Libertà” avverte la necessità di stilare un comunicato per spiegare che la sua partecipazione in giudizio a sostegno delle ragioni dei detenuti, vittime di condotte violente perpetrate loro all’interno delle carceri, proseguirà anche con altri legali, dopo la rinuncia dell’Avv. Michele Passione, probabilmente non c’è molto da stare sereni. Nell’intervista rilasciata a “Il Manifesto” il prof. Mario Serio, componente del collegio, lamenta l’esistenza di prese di posizione personali che priverebbero della necessaria uniformità di azione e di pensiero l’ufficio del Garante, chiamato invece ad esprimersi attraverso una decisione univoca, al netto delle “soggettività ideologiche” dei singoli componenti. La rilevata esistenza di “soggettività ideologiche” dei singoli rischia di condizionare l’operato e le scelte pubbliche del Garante, destando evidente preoccupazione in quanto tale organismo dovrebbe averne una soltanto costituita dalle finalità e dagli scopi della sua primitiva costituzione: individuare le criticità presenti in ogni luogo di privazione della libertà, di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette e di prevenire infine qualsiasi situazione di possibile trattamento contrario alla dignità delle persone. Così come preoccupa un altro passaggio concernente l’obbligo morale di rispondere al quesito posto dalla rinunzia dell’avv. Passione ai mandati professionali nei processi per tortura e violenza, circa il rischio che si possa interrompere la “linea finora tracciata in difesa dei diritti delle persone private della libertà”, in relazione al quale il prof. Serio garantisce che si batterà “perché questa posizione trovi ascolto nel Collegio”, dichiarandosi comunque “abbastanza ottimista”. Ci piacerebbe poter condividere questo ottimismo, in quanto ove fosse mal riposto ci troveremmo dinanzi al concreto rischio che quella Autority, appositamente costituita quale principale risposta alla sentenza della Corte EDU “Torreggiani”, con la quale l’Italia è stata condannata per il trattamento disumano e degradante a cui sono state sottoposte le persone recluse, finisca per imboccare la strada di una non auspicabile sterilizzazione o peggio di un suo drammatico fallimento. Ma proprio per questo è necessario respingere con forza il disegno di quei settori della politica e delle istituzioni che hanno manifestato ostilità, sin dall’inizio, alla nascita del Garante. In questi momenti di rimozione collettiva dello scandalo che investe l’istituzione carceraria, le cui drammatiche condizioni offendono l’immagine stessa del nostro Paese, si percepisce la carenza di un’effettiva azione di tutela dei diritti dei detenuti, di una concreta e tangibile opera di prevenzione di ogni forma di violenza praticata sulle persone ristrette, di una significativa attività di informazione pubblica sullo stato dell’intero sistema dell’esecuzione penale. Di fronte alla manifesta illegalità delle condizioni di tutti coloro che sono privati della libertà personale si avverte la necessità di un pubblico difensore, indipendente da ogni pregiudizio ideologico o da ogni forma di subalternità al potere politico che lo ha nominato. Ed è proprio nelle drammatiche circostanze attuali che risulta assolutamente necessaria una capillare attività di monitoraggio degli istituti penitenziari, dei CPR, delle Rems, dei settori dedicati ai trattamenti sanitari obbligatori, attraverso visite a sorpresa e senza pubblici o privati preavvisi, nonché la pubblica ostensione, oltre agli approfondimenti e ai pareri ad oggi pubblicati, delle relazioni e del rapporto delle diverse visite che, un mese dopo l’inoltro alle autorità chiamate a risolvere le criticità segnalate, debbono essere pubblicate sul sito web. In questo particolare contesto si percepisce in tutto il suo più ampio valore politico la mancanza, da due anni, della prescritta relazione annuale al Parlamento sul lavoro svolto dal Garante e sulle prospettive future del settore ad esso assegnato, assieme alla rivendicazione del proprio ruolo di persona offesa ogni qualvolta giunga la notizia del decesso di un detenuto per cause rimaste oscure e in tutti i casi di tortura. Senza tutto ciò, purtroppo, si rischia di svilire quel ruolo di garanzia che le fonti internazionali e nazionali hanno inteso attribuire, appunto, al Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nel rispetto della Costituzione e dei principi di eguaglianza e di libertà in essa scolpiti. Un Garante è per sempre di Vito Daniele Cimiotta terzultimafermata.blog, 26 giugno 2025 La tutela dei diritti delle persone private della libertà personale rappresenta una delle sfide più delicate e urgenti per ogni democrazia. In Italia, questo compito fondamentale è affidato al Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà: un organo indipendente e permanente, chiamato a vigilare sulle condizioni di detenzione e a prevenire abusi che ledano la dignità umana. Il principio è chiaro e imprescindibile: un Garante è per sempre. Non si tratta di un ruolo temporaneo o soggetto a logiche politiche contingenti, bensì di un presidio stabile e continuo, perché i diritti umani non ammettono sospensioni né scadenze. Questa necessità è stata ribadita con forza dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella storica sentenza Torreggiani e altri c. Italia (2013), in cui si è condannata l’Italia per condizioni di detenzione inumane e degradanti e per la durata eccessiva della custodia cautelare. La sentenza ha sottolineato come la mancanza di un controllo efficace e costante favorisca il ripetersi di gravi violazioni, imponendo l’istituzione di un organismo indipendente con poteri di vigilanza e intervento ininterrotti. Il Garante, infatti, dispone di ampi poteri: può ispezionare senza preavviso ogni luogo di detenzione, ascoltare direttamente i detenuti, raccogliere segnalazioni e denunciare situazioni critiche alle autorità competenti. Questa funzione non può essere svolta saltuariamente o con ritardi, ma deve caratterizzarsi per una presenza attiva e costante, l’unica reale garanzia di prevenzione e di intervento tempestivo contro abusi e violazioni. Inoltre, la realtà attuale rende ancor più urgente questa funzione: sono infatti in corso diversi processi per presunte torture e maltrattamenti subiti da detenuti nelle carceri italiane. Questi casi drammatici confermano quanto sia indispensabile un controllo rigoroso e indipendente per tutelare la dignità umana e i diritti fondamentali delle persone private della libertà, ed evitare il ripetersi di simili abusi. Il lavoro del Garante si fonda sui diritti sanciti dalla Costituzione italiana: la dignità umana (art. 2), la libertà personale (art. 13), il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27, comma 3), il principio di uguaglianza (art. 3) e il diritto alla salute (art. 32). Diritti inviolabili che richiedono una protezione senza interruzioni. Per questo motivo, è fondamentale che il Governo - a prescindere dalla sua composizione politica - sostenga il Garante con continuità e senza conflitti. Governo e Garante devono remare nella stessa direzione, in un rapporto di collaborazione leale e senza contrasti, affinché la tutela dei diritti umani non subisca indebolimenti o strumentalizzazioni. Ciò significa garantire risorse adeguate, rimuovere ostacoli burocratici e dare seguito alle raccomandazioni del Garante. Solo così sarà possibile mantenere viva e efficace la funzione di controllo e prevenzione, riconoscendo al Garante il ruolo di pilastro insostituibile dello Stato di diritto e della civiltà giuridica. In conclusione, la figura del Garante non può essere ridotta a un ruolo puramente formale o politico: essa rappresenta un presidio fondamentale e permanente della dignità umana e della giustizia nel nostro Paese. “Un Garante è per sempre” non è un semplice slogan, ma un imperativo morale e giuridico. Il Governo Meloni, così come ogni futuro esecutivo, ha il dovere ineludibile di garantire la piena indipendenza e continuità di questa istituzione, perché ogni compromesso sarebbe una sconfitta per la democrazia. La vera grandezza di uno Stato si misura dalla protezione che riserva ai suoi cittadini più fragili. Difendere il Garante significa difendere l’anima stessa della Repubblica. Premierato e giustizia in pausa: tensioni nel centrodestra di Luciana Cimino Il Manifesto, 26 giugno 2025 La cosiddetta, dagli esponenti della maggioranza, “accelerazione sulle riforme costituzionali” è finita con una brusca frenata. I due provvedimenti simbolo del governo, premierato e separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e inquirenti, sono stati espunti dal calendario dei lavori di Montecitorio. Lo ha deciso la conferenza dei capigruppo della Camera, scatenando le opposizioni che vedono in questo rinvio la conferma delle tensioni interne al centrodestra. “Una cosa positiva per noi - commenta la capogruppo del Pd alla Camera Chiara Braga - la nostra opposizione sarebbe stata durissima, ma denota una dialettica e una divisione dentro la maggioranza”. E scarsa capacità di prevedere gli effetti della decretazione d’urgenza: tra l’ultima settimana di luglio e la prima di agosto arriveranno in Parlamento sei decreti, alcuni dei quali con la fiducia. Un numero in linea con la media che ha tenuto finora il governo che, ricorrendo ai decreti legge tre volte al mese, ha superato i 100 dall’inizio della legislatura. Un record rispetto anche all’uso disinvolto dei dl degli esecutivi guidato da Silvio Berlusconi che si era fermato a 80. Oltre alla motivazioni tecniche (l’insofferenza per le camere produce ingorghi) ci sono quelle di natura politica. I tre pilastri che hanno portato Giorgia Meloni a palazzo Chigi sono le tre misure simbolo di ciascun partito dell’alleanza: il premierato forte è l’assillo di Fratelli d’Italia, la riforma della Giustizia è il tema cardine per Forza Italia e l’autonomia regionale l’assillo della Lega. Il superamento di quest’ultima con il conseguente risarcimento che si aspettano i salviniani, sta facendo traballare le altre due. Il premierato, che entra e esce dalle priorità di Meloni, è in stand-by per un surplus di riflessione, anche se continuano le audizioni in commissione Affari costituzionali (l’ultima giusto ieri) che finora non hanno dato nessun supporto all’idea del governo. La maggioranza è intenzionata a mettere il limite per la presentazione degli emendamenti al 30 luglio ma intanto continua a lavorare fuori scena per una modifica della legge elettorale che è la vera priorità del centrodestra. Meloni è consapevole che con il sistema attuale la sua maggioranza è a rischio. “È evidente che il rinvio delle due riforme sia dovuto a una serie di contrasti interni che riguarda il sistema di voto - spiega Filiberto Zaratti, deputato Avs in commissione Affari costituzionali - La lega, nella nuova ipotesi ancora non scritta con che prevede l’eliminazione dei collegi, perderebbe molti seggi in vantaggio degli alleati e questo causa rallentamenti, il vero obiettivo è quello: tutto il resto è fumo”. Anche perché il premierato sarebbe oggetto di un referendum senza quorum “e la presidente del Consiglio rischia di fare uno scivolone drammatico, se solo pensiamo alle 14 milioni di persone che sono andate alle urne per i quesiti sul lavoro”, ragiona Zaratti. “Queste riforme pasticciate non vanno avanti per ora perché Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia sono prigionieri di un patto scellerato, fondato sulla sfiducia reciproca: ognuno pretende che lo scambio politico avvenga in parallelo, altrimenti tutto si blocca - commenta il senatore dem Francesco Boccia - per un anno hanno piegato Senato e Camera al loro volere, imponendo forzature continue, soffocando il confronto con l’opposizione e ora scelgono la fuga”. Intanto la discussione sulla riforma della giustizia continua al Senato. Oggi il guardasigilli Carlo Nordio interverrà a Palazzo Madama e dopo comincerà il voto sugli emendamenti. Se il presidente del Senato Ignazio La Russa ha annunciato di non avere intenzione di “strozzare il dibattito”, sarà alla Camera che a settembre partirà la corsa, in vista di un eventuale referendum in primavera. “Ma quando arriverà al Montecitorio la riforma sarà cotta e mangiata, non si potranno presentare emendamenti”, sottolineano dalle opposizioni. Carriere separate, si riparte a settembre. “Questioni tecniche” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 giugno 2025 Dietro al rinvio della discussione sulla riforma della separazione delle carriere prevista nell’Aula della Camera a luglio non c’è alcuna questione politica. Lo assicurano fonti di Via Arenula che spiegano che dietro la cancellazione della modifica all’ordinamento giudiziario dal calendario del prossimo mese esiste solo un tema tecnico: ossia la necessità di convertire dei decreti legge. Sparita dal calendario anche la riforma del premierato, questa sì politicamente più difficile da gestire nella maggioranza. Quest’ultima ed il governo “sono un po’ vittime di loro stessi, con otto decreti legge, che è la modalità ormai di legiferare e che di fatto segna come deve essere il calendario”, ha detto Chiara Braga, capogruppo del Partito democratico alla Camera, al termine della conferenza dei capigruppo di Montecitorio. La parlamentare, commentando l’assenza delle due riforme costituzionali, ha concluso: “Questo ovviamente è positivo. Ovviamente, la nostra posizione sarebbe stata durissima, anche se solo ci fosse stata questa ipotesi”. Si dovrà attendere dunque settembre per l’approvazione in terza lettura della riforma Nordio, la cui discussione è proseguita ieri nell’Aula del Senato, alla presenza in parte del ministro Nordio. Il senatore di FdI, Marcello Pera, rivolto al Pd: “Avete citato Giovanni Falcone. Non dovevate farlo, ne state tradendo la memoria. Leggete gli scritti di Giovanni Falcone. Egli rimase vittima della sinistra, quando quel poveretto fu schiacciato dall’opposizione di sinistra e fu costretto a lasciare la magistratura per andare a lavorare con la politica e fu accusato di tradimento. Oggi lo considerate un eroe, ma non era così al tempo, avete cambiato idea anche su questo”. Sull’appuntamento referendario si è invece concentrato l’intervento del senatore Andrea Giorgis, capogruppo del Pd nella Commissione Affari costituzionali: “L’appello al popolo attraverso referendum può essere uno straordinario momento di partecipazione democratica, può essere un’occasione di massima espressione della sovranità popolare, ma può essere anche, all’opposto, la manifestazione più insidiosa di una concezione totalitaria, autocratica e strumentale della democrazia. Una concezione che esclude ogni mediazione e compromesso, nega ogni rilievo alle minoranze e alle voci dissenzienti, e alla fine ricorre al popolo per servirsene, più che per renderlo davvero protagonista”. Mentre il Movimento 5 Stelle ha tirato fuori un argomento molto caro alla magistratura, ossia il “Maestro venerabile” della loggia massonica eversiva P2. Il senatore Luca Pirondini ha infatti detto: “Questa è la riforma che volevano Licio Gelli e Silvio Berlusconi”. Silvia Fregolent di Italia Viva è invece tornata ad esprimere consenso sul merito e critiche sul metodo: “Per chi, come me, ci ha sempre creduto nella separazione delle carriere, avrebbe voluto un maggiore ascolto, perché questa riforma fosse veramente condivisa, per poter andare fuori di qui a testa alta e spiegare, questo sì, il merito e il contenuto. Invece sarà uno squallido referendum. Immagino i morti di mafia utilizzati da una parte e dall’altra, le vittime utilizzate da una parte dall’altra, come se fossero bandierine. E non possono più dire niente, perché appunto non ci sono più tra di noi. Sarà una campagna orrenda. Allora, visto che siete ancora in tempo, fermatevi e rendetela partecipe a tutto il Parlamento. Solo così sarà veramente maggioranza nel Paese”. Ricordiamo che il partito guidato da Matteo Renzi ancora non ha deciso se astenersi sul voto finale o votare a favore. Il dibattito proseguirà stamattina con gli ultimi interventi in discussione generale. Dopodiché vi sarà la replica del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Poi si passerà al voto sugli emendamenti. A questo punto, considerato che il provvedimento non è più atteso a Montecitorio a luglio, il governo potrebbe almeno nei primi giorni evitare di applicare il cosiddetto “canguro” al gruppo di emendamenti simili. Priverebbe le minoranze parlamentari della possibilità di accusare la maggioranza di comprimere e forzare indebitamente il dibattito in Aula. Ma lo scopriremo nelle prossime ore. La pericolosa riforma della giustizia e la trasfigurazione dell’identità costituzionale di Anna Mastromarino linkiesta.it, 26 giugno 2025 Il disegno di legge presentato dal governo per modificare l’assetto del potere giudiziario accentrerebbe il potere dei pubblici ministeri nelle mani dell’esecutivo. Ma la nostra Costituzione è pensata in opposizione a qualunque forma di concentrazione del potere. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulla questione mediorientale, nel nostro Parlamento è approdato per la seconda deliberazione il disegno di legge costituzionale intitolato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. Di cosa si tratta? Riformulo: nei giorni scorsi è approdato in Parlamento per essere votato per la seconda volta, come prescrive la Costituzione, il disegno di legge presentato dal governo per modificare l’assetto del potere giudiziario in Italia. Cose già viste e sentite, dunque. Di riformare la giustizia, separare le carriere dei magistrati, porre un freno all’attivismo giudiziario è una vita che se ne parla. Nulla di nuovo. Anzi: che una volta per tutte si intervenga, dato che, per quel che si vede, ce n’è bisogno. Vi lascerò alle vostre convinzioni, se lo desiderate. Ma prima permettetemi di condividere poche riflessioni, tanto per illuminare qualche aspetto troppo spesso lasciato in ombra nella narrazione degli ultimi mesi. Vorrei prima di tutto invitare a guardare a questa proposta di riforma dall’alto: guardarla dall’alto significa potersi fare un’idea del panorama che la circonda. Osservare tutta la scena e non solo qualche particolare. Intanto, in cerca del miglior punto di osservazione, facciamo un passo indietro, tornando a qualche anno fa, al clamore e movimento di masse provocato dall’avvio di processi di riforma massiccia della Costituzione. Roberto Calderoli, Matteo Renzi, Maria Elena Boschi: tutti nomi definitivamente legati nella nostra mente a tentativi di modifica profonda del nostro assetto costituzionale, bloccati a suon di “giù le mani dalla Carta più bella del mondo”. Oggi, a differenza di allora, se tendiamo l’orecchio non sentiamo nessun vociare. Forse la tensione internazionale ci sta distraendo. O forse non percepiamo l’entità di ciò che sta succedendo sul piano costituzionale nel nostro Paese. La riforma complessiva di tanti articoli della Costituzione negli anni scorsi ci aveva fatto paura ed eravamo stati tutti pronti a sollevare barricate a difesa della Carta. Cosa è cambiato? Chi l’ha detto, in effetti, che questa volta l’intervento è davvero chirurgico e le novità contenute? L’importanza degli articoli costituzionali non si misura un tanto al chilo. E poi gli interventi minimi sulla Costituzione sono davvero sempre innocui? Da qui l’importanza di osservare dall’alto. Facendolo, scopriremo che, avendo imparato dagli sbagli commessi in passato da altri, il governo ha capito che anziché presentare un unico disegno di riforma sarebbe stato più opportuno al raggiungimento dei suoi obiettivi spezzettare l’operazione, presentare più leggi costituzionali, approvare atti normativi per preparare la strada del cambiamento, fare piano piano a pezzi la Costituzione, agendo tanto sul testo che nel contesto. Lo sguardo dall’alto ci permette, quindi, di renderci conto che quello sul potere giudiziario non è un intervento di chirurgia costituzionale, bensì uno squarcio che potrebbe facilmente degenerare in cancrena. Deve essere preso in considerazione, infatti, insieme ad altre incisioni sul tessuto della Costituzione cui assistiamo quasi impotenti: una scellerata attuazione del regionalismo differenziato (nel frattempo disinnescata dalla Corte costituzionale, ma formalmente ancora lì), la presentazione del testo per introdurre in Italia il cosiddetto premierato, ossia l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, l’approvazione del decreto legge denominato Sicurezza oggi convertito in legge. Vista dall’alto l’immagine si fa nitida (e un po’ più inquietante) e si capiscono più cose. Potrebbe così venire la voglia di andare un po’ oltre le frasi fatte che tendono a descrivere questo progetto di riforma come qualcosa che tutto sommato non altera molto lo scenario, che in fondo era necessario e che tra l’altro era annunciato da tempo. Andare oltre significa, infatti, accorgersi prima di tutto che c’è una distanza abissale tra quanto dichiarato e quanto si intende fare. In gioco non c’è la solita questione della separazione delle carriere (del resto già ampiamente risolta dai precedenti interventi legislativi come dimostra il numero irrisorio di passaggi dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa). Lo scopo della riforma è un altro: separare gli ordini, ossia separare tutto il corpo dei giudici dai pubblici ministeri per portare questi ultimi sotto il controllo del Ministero della Giustizia. Altro che carriere, altro che funzioni. E che problema c’è? Dirà qualcuno. In altri Paesi già è così, dopotutto. Ma i Paesi in cui i magistrati requirenti dipendono dell’esecutivo hanno previsto una serie di altri strumenti di indipendenza del pubblico ministero e garanzia per il cittadino che il nostro governo, con questa riforma adottata agendo nell’ambiguità, non ha minimamente immaginato di adottare. Risultato? Un pubblico ministero che negli ultimi anni ha già visto crescere i suoi poteri e che si vuole slegato dalla cultura garantista condivisa con il resto della magistratura, libero di muoversi in un sistema in cui il diritto penale cresce a dismisura e in cui pare che l’inasprimento delle pene e l’introduzione di nuove fattispecie di reato siano l’unica via considerata efficace per farci sentire più sicuri; un pubblico ministero che risponde a un governo a capo del quale si vuole far eleggere direttamente un capo che non condivide il potere con nessuno, che non risponde a nessuno, che non deve condividere le sue decisioni con nessuno. Vista in quest’ottica credo che la riforma del potere giudiziario, che presto potrebbe essere approvata dalle Camere, acquisti un peso diverso e per questo dobbiamo restare vigili. Molto probabilmente, infatti, non riuscendo a raggiungere in Parlamento una maggioranza qualificata di voti a sostegno, come elettori saremo chiamati a esprimere il nostro parere attraverso un referendum. Vale la pena iniziare a informarci per non essere tirati per la giacchetta da chi ci vuole convincere che una riforma è necessaria e da chi, in nome della Costituzione più bella del mondo, di cambiare la nostra Carta non ne vuole sapere. Esiste, infatti, una terza via. Quella che anche i nostri costituenti consideravano adeguata visto che ci hanno fornito un procedimento per cambiare la Carta, insieme a un libretto di istruzioni di valori per sapere come procedere. Sbaglia chi dice che basta seguire le procedure e tutto si può fare; sbaglia anche chi, proprio per paura di sbagliare, preferisce pietrificarsi nell’immobilismo. La Costituzione non è un testo sacro. È un corpo vivente animato dall’interpretazione che garantisce la sua persistenza nel tempo, adeguandola al cambiare del tempo, senza però venir meno a quell’idea e a quei principi che hanno guidato la sua scrittura e che ancora ci mostrano chi siamo stati e chi possiamo diventare. È vero che l’identità costituzionale è per natura cangiante, destinata a modificarsi perché frutto di continui rimaneggiamenti, adattamenti, ripensamenti, ma è anche vero che durante la sua evoluzione nel tempo, il dna di un essere resta uguale. E nel nostro dna costituzionale c’è lo stato di diritto che vuol dire protezione della dignità umana, tutela delle minoranze, opposizione a qualunque forma di concentrazione del potere, libera manifestazione del pensiero. Allora, avanti: ragioniamo pure di riforme costituzionali, perché modificare la Carta è possibile, ma facciamolo a patto di sapere dove vogliamo andare e soprattutto chi siamo e da dove siamo partiti. Solo così potremmo non perderci o non perdere noi stessi. Non credo affatto che questo pacchetto di riforme costituzionali in discussione in Parlamento siano animate da questo spirito. Nessuno scudo penale per gli agenti. O forse sì di Valentina Stella Il Dubbio, 26 giugno 2025 L’interrogazione di Lega e Fdi al ministro Nordio: “Intervenire in caso di uso legittimo delle armi”. Niente scudo penale per le forze dell’ordine ma forse anche sì. Ieri nell’Aula della Camera il ministro della giustizia Carlo Nordio, rispondendo a due interrogazioni presentate da Fratelli d’Italia e Lega, ha detto: “Nel codice di procedura penale questo istituto dell’informazione di garanzia, che è atto dovuto con conseguente iscrizione nel registro degli indagati, va cambiato, va mutato. La nostra intenzione è quella di intervenire nel senso che qualora si profili uno stato di necessità o di uso legittimo delle armi, cioè di scriminante, non sia necessario, anzi non si debba iscrivere la persona nel registro degli indagati. Non si tratta assolutamente di uno scudo penale, ci tengo a ribadirlo” ma di “una riforma radicale dell’iscrizione nel registro degli indagati”. A spingere i due partiti a presentare l’atto di sindacato ispettivo è stata qualche settimana fa l’iscrizione nel registro degli indagati, come atto dovuto, dei due poliziotti che hanno sparato all’omicida del brigadiere Carlo Legrottaglie. Secondo il Governo non si dovrebbe parlare di scudo penale perché non si bypassa il controllo giudiziario. Quello che accadrebbe lo ha spiegato il Guardasigilli: “Quando si è in presenza di una causa di giustificazione, di una scriminante”, quale “l’esercizio di un diritto, l’adempimento di un dovere, uno stato di necessità, l’uso legittimo delle armi e, ovviamente, la legittima difesa, pensiamo - ha aggiunto - si possa costruire una norma che consenta alla persona interessata di partecipare a questo tipo di indagine, senza essere iscritta nel registro degli indagati, quindi garantendo la difesa che oggi è garantita, ma senza dare questo marchio di infamia che comporta una serie di conseguenza negative”. In realtà nel codice di procedura penale delle tutele esistono già. Il comma 2 dell’articolo 273 cpp prevede che “nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità”; inoltre l’articolo 335 bis introdotto dalla riforma Cartabia cita: “La mera iscrizione nel registro di cui all’articolo 335 non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito”. L’espressione “da sola” non mette però al riparo da una generale neutralizzazione delle conseguenze previste da norme extra penali. Da qui la volontà del Governo e soprattutto di due azionisti di maggioranza, Lega in primis e anche Fratelli d’Italia, di ampliare le tutele per le forze di polizia. Percorso già intrapreso con il dl sicurezza che introduce aggravanti e innalzamenti di pena per chi compie determinati atti contro le forze dell’ordine, riconosce un beneficio economico a fronte delle spese legali sostenute da ufficiali o agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria, nonché dai vigili del fuoco, indagati o imputati nei procedimenti riguardanti fatti inerenti al servizio svolto, autorizza gli agenti a portare armi private senza licenza quando non sono in servizio. Questa idea del (non) scudo penale non è la prima volta che salta fuori. E aveva suscitato le critiche di alcuni giuristi per cui prevedere un percorso privilegiato solo per le forze dell’ordine sarebbe potuto essere discriminatorio in violazione del principio di eguaglianza. Forse anche per questo che il responsabile di Via Arenula ha concluso il suo intervento così: “Dobbiamo intervenire per cambiare nel codice penale tutta la struttura delle scriminanti”, mentre, per quanto riguarda il codice di procedura penale e l’informazione di garanzia, “intervenire nel senso che qualora si profili una scriminante, non si debba procedere con l’iscrizione del registro degli indagati”. Quindi estendere la tutela anche ad altre categorie: “L’informazione di garanzia - ha concluso il Ministro - è un istituto che risale a cinquant’anni fa, è stato modificato varie volte ed è sempre stato un fallimento. Un istituto che è nato per garantire chi viene informato, si è trasformato in una condanna che in ambito politico ha portato a qualche dimissione o estromissione da candidature, con effetto perverso. Riguardo alle forze dell’ordine ma anche per i medici - il problema è aggravato. Pensiamo che, quando si è in presenza di una scriminante, si possa costruire una norma che consenta di partecipare a questo tipo di indagine senza essere iscritti nel registro degli indagati, ovvero senza questo marchio di infamia che porta una serie di conseguenze negative”. Vedremo come verrà formulata la legge nel dettaglio. Il diritto di cronaca è un’altra cosa: le intercettazioni in tv e sui giornali sono schiacciasassi di Francesco Petrelli* Il Dubbio, 26 giugno 2025 Senza in alcun modo entrare nel merito della questione della quale la trasmissione Report ha ritenuto di doversi occupare, relativa ai presunti “condizionamenti” della Commissione Antimafia, si deve tuttavia denunciare l’ennesima gravissima violazione delle più basilari regole del processo e dell’informazione. La pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, irrilevanti sotto il profilo penale, acquisite dalla Procura della Repubblica fiorentina nell’ambito di un procedimento ancora in fase di indagine, costituisce una evidente violazione del segreto istruttorio. Ma tale violazione risulta tanto più grave in quanto oggetto della captazione sono anche i colloqui intercorsi fra un indagato ed il suo difensore, in violazione delle norme poste dal codice a tutela della assoluta segretezza di quelle comunicazioni. Questo tipo di “informazione”, che si avvale esclusivamente di materiali d’indagine, è divenuta una o uno “schiacciasassi”, che passa su ogni diritto di riservatezza e di segretezza. Si dimentica, infatti, che quando si tratta di contenuti di intercettazioni privi di rilevanza penale, quei materiali sono caratterizzati da una evidente illegittimità. Le intercettazioni sono infatti autorizzate e disposte dal giudice solo al fine di ricerca e di acquisizione delle prove, per cui ogni conservazione e diffusione di dialoghi irrilevanti a tal fine resta del tutto ingiustificata. L’utilizzo di questi materiali è frutto di un fraintendimento cui occorre porre fine, in quanto il diritto di cronaca e il dovere di informazione trovano un limite invalicabile nella riservatezza e nella segretezza delle comunicazioni. È inaccettabile che i colloqui fra un cittadino e il suo difensore siano tranquillamente diffusi da una trasmissione televisiva, potendo contare sulla sostanziale impunità di simili comportamenti, tanto più se ciò avviene mentre giunge la notizia che il nostro Paese è destinatario di una procedura di infrazione per il mancato pieno recepimento della Direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza, a conferma della scarsa tutela che i diritti fondamentali dell’indagato ricevono nel nostro ordinamento. *Presidente Ucpi Toscana. Garante dei detenuti, approvata la relazione dell’attività 2024 a cura di Luca Martinelli, Riccardo Ferrucci e Benedetta Bernocchi inconsiglio.it, 26 giugno 2025 Il Consiglio regionale ha approvato a maggioranza la proposta di risoluzione con la quale si approva la Relazione dell’attività 2025, relativa all’anno 2024, del Garante dei detenuti. Hanno votato a favore Pd, Italia Viva e gruppo Misto - Europa Verde, contrari Lega e Fratelli d’Italia, astenuto il gruppo Misto - Merito e lealtà. Approvato all’unanimità anche un ordine del giorno, primo firmatario Marco Casucci (gruppo Misto - Merito e Lealtà), emendato dal Pd, che chiede di rinnovare per altri tre anni “la collaborazione con il Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria e gli enti accreditati” per redigere un piano per la formazione professionale dei detenuti e per incentivare “protocolli d’intesa” tra amministrazioni penitenziare, agenzie formative, centri per l’impiego e imprese disponibili finalizzate ad “assumere persone detenute o ex detenute che siano state formate”. La risoluzione che approva la relazione 2025 sulle attività del 2024 è stata illustrata in aula dal presidente della commissione Affari Istituzionali Giacomo Bugliani (Pd) dove si esprime apprezzamento per l’attività svolta, ribadisce l’impegno a contribuire alle finalità rieducative della pena e al rispetto dei diritti delle persone, a rafforzare l’ufficio del Garante e auspica un aggiornamento delle previsioni della legge istitutiva del Garante. Il garante ha presentato una relazione corposa, circa 350 pagine, che mette in evidenza la situazione di difficoltà, e a volte di criticità, che affligge il sistema carcerario toscano, che riflette quello del sistema italiano. In Toscana sono oggi presenti 16 istituti penitenziari per adulti, a cui si sommano due istituti per minorenni (IPM) e due residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS). Gli adulti in carcere al 31 dicembre 2024 erano 3.209 presenti (94 donne e 3.115 uomini), di cui 1.487 stranieri. Il tasso dei carcerati con problemi di tossicodipendenza tocca il 36,5. “Un problema che va segnalato è il tasso di sovraffollamento - ha sottolineato Bugliani - che, calcolato sulla capienza, regolamentare, risulta estremamente variabile, con punte nelle carceri di Firenze (112%), Grosseto (173%), Lucca (127%), Massa (137%), Pisa (133%), San Gimignano (126%), Siena (131%). Altro fatto di criticità è il problema dei suicidi. In Toscana nel 2024 se ne sono registrati 8, ma bisogna anche considerare i molti atti di autolesionismo. Altro punto critico è la formazione al lavoro, senza la quale non possiamo pensare di restituire alla società persone che, a fine pena, siano in grado davvero di reinserirsi con successo. Affinché sia possibile mettere in atto un percorso rieducativo e di reinserimenti, serve fare formazione dentro al carcere e creare occasioni di lavoro fuori dal carcere. Nella relazione si affronta anche il problema delle carceri femminili di Pisa e Sollicciano e il tema dell’affettività. Il garante ha anche suggerito una serie di iniziative: un convegno per ricordare la figura di Alessandro Margara, un convegno che affronti il problema della salute mentale e del carcere.” Nel suo intervento il consigliere regionale Marco Casucci (Gruppo misto Merito e Lealtà) ha evidenziato che il percorso di reinserimento lavorativo deve essere una priorità, per costruire un futuro diverso per i detenuti. Il sovraffollamento delle carceri, dove a Sollicciano, San Gimignano e Livorno si registrano le situazioni più critiche. Vanno registrati anche i suicidi e gli atti di autolesionismo in aumento. Bisogna fare attenzione anche all’aumento dei minori in situazione di detenzione. La nostra proposta è quella aumentare i corsi di formazione per detenuti per favorire un vero reinserimento sociale. Un voto di astensione, perché anche in Toscana si fa troppo poco di politiche innovative sul carcere. Nel suo intervento Giovanni Galli (Lega Toscana) ha sottolineato di trovarsi di fronte ad una relazione articolata e complessa. Tra i problemi aperti la mancanza di accesso al lavoro e i problemi di tossicodipendenza. Il carcere non può essere visto solo con una funzione rieducativa, chi è in carcere è perché ha commesso un reato. Gli strumenti dei percorsi alternativi e della libertà vigilata funzionano poco. Il carcere senza strumenti sanitari adeguati diventa un luogo di disagio. Svuotare solo le carceri non basta, le misure alternative non funzionano spesso, occorre occuparsi dei detenuti, ma si deve pensare anche alle vittime dei reati. Il consigliere regionale Maurizio Sguanci (Italia Viva) ha parlato di una questione complessa e di una situazione critica. Il carcere deve avere un percorso rieducativo, ma i detenuti al 93% senza pene alternative torna a delinquere. La questione del carcere si può affrontare soltanto aumentando le pene alternative e il reinserimento sociale. Le guardie penitenziare sono anche loro in qualche modo detenute, vivendo situazioni di disagio e perennemente sottorganico. La consigliera regionale Silvia Noferi (gruppo misto) ha voluto evidenziare che il problema delle carceri è complesso, ma in Toscana si registrano alcune esperienze positive, come la compagnia di teatro a Volterra e l’esperienza di Massa. La democrazia si misura da come vengono gestiti gli istituti di pena, occorre un efficace intervento a livello nazionale. Il consigliere regionale Marco Martini si augura che si aumenti le politiche di rieducazione, come avviene a Prato per il teatro. Occorre investire maggiormente in politiche di rieducazione maggiori, ci deve essere maggiore umanità nelle carceri come dice la nostra costituzione. La consigliera regionale Sandra Bianchini (Fratelli d’Italia) ha evidenziato la situazione critica delle carceri, “ma il problema non nasce adesso è un’eredità che ci hanno lasciato i governi di sinistra e dei Cinque Stelle”. Nel suo intervento, Diego Petrucci (Fratelli d’Italia) ha ricordato che un rappresentante del governo, il sottosegretario Del Mastro, ha visitato il peggiore carcere della Toscana: Sollicciano. Il governo ha quindi previsto un investimento di dieci milioni di euro per interventi essenziali, come fare le docce. Mentre vorrei ricordare che non c’è un solo progetto della Regione Toscana sul carcere di Pianosa e della Gorgona per aumentare le politiche rieducative. Ci dovrebbe già essere un protocollo d’intesa tra Parco e Regione per aumentare le politiche rieducative. “Su Sollicciano dopo anni di latitanza, ora c’è un governo che finalmente se ne occupa. Quali sono le politiche attive della Regione Toscana? Non ci sono. L’interesse pubblico generale è rieducare il detenuto, ma solo adesso con il governo di centro destra si mette mano agli interventi concreti”. “Sull’isola di Pianosa ci sono persone che svolgono misure alternative ma il carcere è chiuso” - ha detto il consigliere regionale Francesco Gazzetti (Pd). Gazzetti ha richiamato il Governo nazionale all’attenzione al carcere delle Sughere di Livorno perché “è in condizioni problematiche e d’emergenza - ha detto- sia per coloro che sono reclusi sia per coloro che ci lavorano, ci sono questioni aperte da tempo che necessitano di essere concluse”. Liguria. Il Garante dei detenuti presenta relazione sulle attività svolte nel biennio 2023-24 cittadellaspezia.com, 26 giugno 2025 “Con indulto per pene sotto i due anni si creerebbero condizioni di vita e lavoro ben diverse”. Si è tenuta ieri la presentazione della relazione del garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Doriano Saracino, riguardante le attività svolte nel biennio 2023-24 e che analizza non solo i temi legati agli Istituti di pena della Liguria, ma anche quelli relativi ai minori/giovani adulti e alla salute mentale. “Non solo carcere, il mio mandato riguarda tutte le persone con una limitazione della libertà personale e non solo i detenuti”, precisa a questo proposito Saracino. “La figura del Garante regionale delle persone sottoposte a limitazione della libertà personale è un punto di raccordo essenziale tra le istituzioni e i cittadini più fragili, spesso invisibili - sottolinea Massimo Nicolò, assessore regionale alla Sanità -. Il lavoro svolto nel monitorare le condizioni di vita, promuovere la tutela dei diritti e favorire percorsi di inclusione e cura, anche in ambito sanitario, costituisce un contributo prezioso per garantire la dignità e il rispetto della persona in ogni contesto. Colgo l’occasione per ringraziare il Garante per il suo prezioso lavoro, la sua partecipazione attiva negli organismi regionali competenti, per la sinergia tra il nostro sistema sanitario e le altre figure di garanzia che, insieme a una costante collaborazione con gli uffici regionali della salute e dell’ambito sociale, sono fondamentali per garantire a tutti, anche ai più deboli, il diritto universale alla salute. Ricordo anche il prezioso lavoro del personale sanitario che opera quotidianamente negli Istituti penali della Liguria ma anche dei professionisti regionali che gestiscono i progetti di reinserimento sociale sia intra murari che extra murari, con la funzione di essere di supporto rieducativo-ludico- di sostegno alla genitorialità- di orientamento lavorativo abitativo e sociale. Solo questi finanziamenti hanno un valore di circa 2.000.000 euro a cui aggiungere le necessarie risorse per garantire le cure (circa 4, 5 mil/anno)”. Ma andiamo a vedere una serie di tematiche della relazione annuale sulle quali fa il punto una nota della Regione. Una è quella dei giovani con problematiche psichiatriche. Nel 2024 sono stati 118 i minori liguri ricoverati nei reparti di psichiatria (SPDC) insieme agli adulti. Talvolta si tratta di ragazzi e ragazze, che avendo da poco compiuto 14 anni, non trovano risposta nei reparti pediatrici. “La salute psichica dei giovani liguri è un aspetto su cui la Regione Liguria sta già lavorando - commenta Saracino - ma occorre un maggior impegno su alcune direttrici: creare un reparto per i giovani pazienti psichiatrici della fascia 14-16 anni all’Ospedale Gaslini, con personale specializzato; istituire comunità dedicate ai giovani autori di reato con problematiche psichiatriche, spendendo in tal modo sul territorio risorse che sono comunque impiegate; potenziare le neuropsichiatrie infantili prevedendo anche accordi con le agenzie educative che hanno in carico gli adolescenti”. Il garante ha richiamato l’attenzione anche sulla durata dei ricoveri dei minori, che in alcuni casi hanno raggiunto i 90 giorni consecutivi. Quindi l’aspetto delle R.E.M.S. (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture per autori di reato giudicati parzialmente o totalmente incapaci di intendere e di volere e con provvedimento di pericolosità sociale della magistratura. Due le strutture di questo tipo sul territorio regionale: sulle alture del quartiere genovese di Prà la R.E.M.S. destinata ai pazienti liguri; mentre a Calice al Cornoviglio, Val di Vara, sorge una R.E.M.S. che ha invece mandato - unico in tutta Italia - di accogliere temporaneamente pazienti che non trovano posto nella loro regione e provenienti da tutti gli istituti di pena italiani. “Nel biennio 2023-24 le due R.E.M.S. hanno dimesso ben 56 pazienti: da Calice al Cornoviglio essi sono rientrati nella regione di appartenenza - si legge in una nota di Regione Liguria -, mentre da Prà alcuni hanno fatto ritorno al proprio domicilio perché stabilizzati dal punto di vista della patologia psichiatrica ma comunque seguiti dalla Salute mentale, ed altri inseriti invece in comunità. Il principio della territorialità significa consentire alle persone di mantenere legami con la famiglia e progettare piani terapeutici individualizzati”. C’è poi il tema dei minori autori di reato. “Ha destato preoccupazione e allarme, ma il numero di minorenni presi in carico dai servizi socio-sanitari per la giustizia minorile ha mostrato un forte calo (241 nuovi soggetti nel 2024, con un calo del 43% rispetto all’anno precedente) - informa ancora Regione -. Per la prima volta il numero dei minori stranieri ha superato quello degli italiani, ma in valore assoluto il valore è inferiore alla media dell’ultimo quinquennio”. “Dobbiamo ragionare su questi temi senza farci prendere dall’emotività - ha commentato Saracino - aggiungendo che per i minori che commettono un reato e che non possono restare in famiglia occorre costruire alternative all’istituto penale minorile notando che, nel biennio 2023-24 una quota oscillante fra il 30% ed il 40% dei giovani reclusi al Ferrante Aporti di Torino provenivano dall’area ligure. Per la difficoltà di trovare posti in strutture idonee, i minori autori di reato spesso vengono inseriti in comunità nelle regioni del sud Italia; per questo occorre potenziare la rete delle comunità del nostro territorio disposte ad accogliere minori autori di reato nella nostra regione”. Capitolo carcere. Relativamente al tema del sovraffollamento, il Garante ha sottolineato che in Liguria, come nel resto d’Italia, si rileva questa cronica problematica. “Non si tratta solo di metri quadri. Vivere in sei in una cella, come accade alla maggioranza dei detenuti di Marassi, vuol dire rinunciare ad ogni forma di riservatezza”, rileva ancora la nota. “Ad oggi la capienza regolamentare degli istituti penitenziari in Liguria è pari a 1.051 posti, ed i detenuti superano questa soglia - commenta Saracino - precisando che con un indulto per le pene residue inferiori a due anni potrebbero essere scarcerate circa 450 persone che comunque usciranno a breve. Si creerebbero condizioni di vita e di lavoro per gli operatori penitenziari ben diverse e si darebbe un segnale di speranza ai detenuti”. Sempre a proposito del carcere, il garante ha ricordato alcuni altri aspetti sui quali intervenire, “tra cui la necessità di progetti specifici finalizzati ai giovani adulti, in particolare per la fascia 18-20 anni - si legge ancora -, la necessità di avviare corsi stabili di formazione professionale, che ad oggi non risultano essere ancora attivati, avviare programmi di housing sociale per persone provenienti dalla carcerazione, l’opportunità di rivedere le modalità di accesso ai servizi psichiatrici in carcere”. Il garante ha, infine, ricordato che nel corso del 2023 ha effettuato colloqui con 371 detenuti, mentre nel 2024 sono stati 333. “Tra le problematiche affrontate ricorda, tra l’altro, quello del vitto alle persone detenute, nonché quello delle schermature alle finestre, che in alcuni istituti, e segnatamente ad Imperia, impediscono non solo la visuale ma anche la circolazione dell’aria. Tra i progetti in corso, che ci si auspica che vedano la luce nel corso dell’anno, un protocollo per la comunicazione degli eventi avversi in carcere, nonché il completamento della rete dei garanti territoriali”, conclude la nota regionale. Milano. Si suicida in cella a San Vittore. Comune e sindacati: “Sovraffollamento e pochi agenti” di Nicola Palma Il Giorno, 26 giugno 2025 Il ventiduenne marocchino si è impiccato. Nahum e Giungi: subito un Consiglio comunale in un carcere. Il drammatico conto dei suicidi dietro le sbarre è salito a quota 36 nella tarda serata di martedì. L’ultimo detenuto a togliersi la vita in un istituto di pena italiano è stato un ventiduenne di origine marocchina, che si è impiccato nella sua cella a San Vittore: soccorso prima dagli agenti della polizia penitenziaria e poi dai sanitari di Areu, è stato trasportato in condizioni disperate all’Humanitas, dov’è deceduto subito dopo il ricovero. Di lui si sa che era finito in carcere alcuni mesi fa per aver commesso reati contro il patrimonio. Il gesto estremo, l’ennesimo di una serie che nel 2024 aveva raggiunto la cifra record di 91, è avvenuto a poche ore dal sopralluogo in piazza Filangieri della sottocommissione Carceri di Palazzo Marino. Al termine dell’ispezione, il presidente Daniele Nahum e il vice Alessandro Giungi non hanno potuto che prendere atto di un’emergenza ormai consolidata nel tempo: gli ultimi dati, aggiornati allo scorso 30 maggio sul sito del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, dicono che a San Vittore c’è posto per 483 detenuti in attesa di giudizio e che in realtà ce ne sono 1009, con un indice di sovraffollamento pari al 208,9% (in leggerissimo calo rispetto ai rilevamenti precedenti). Numeri che piazzano la casa circondariale al terzo posto della poco lusinghiera classifica degli istituti di pena più gremiti del nostro Paese, dietro a Lucca (90 detenuti per 38 posti con il tasso del 236,84%) e Foggia (676 detenuti per 310 posti con il tasso del 218,06%); in ventiquattresima posizione spicca pure la sezione femminile di San Vittore, che conta 82 recluse a fronte di 46 letti effettivamente disponibili (178,26%). Nahum e Giungi hanno posto l’attenzione anche sulla cronica carenza di personale: “Servirebbero almeno 150 agenti in più di polizia penitenziaria per rispettare il numero di agenti previsti dell’organico”. Inevitabilmente, queste statistiche al ribasso non fanno che generare “situazioni di grande stress e fatica nelle donne e negli uomini della polizia penitenziaria che si trovano a svolgere turni massacranti”, la presa di posizione. E ancora: “Denunciamo inoltre che il governo ha tagliato di oltre il 30% i fondi destinati alla manutenzione del carcere di San Vittore”. Conclusione: “Siamo sempre più convinti che siano necessari decreti di amnistia e indulto per affrontare questa situazione critica. Per questo motivo, e con la ferma convinzione che Milano debba dare un segnale forte e tangibile, chiediamo a tutte le istituzioni di attivarsi per svolgere un Consiglio Comunale all’interno di un carcere”. “Reclusi e operatori accomunati dal perdurante calpestio dello Stato di diritto, che infligge ai primi modalità di detenzione diffusamente illegali e spesso inumane e ai secondi condizioni di lavoro indegne di una repubblica che fonda proprio sul lavoro la sua democrazia - l’accusa di Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa polizia penitenziaria -. 16mila detenuti oltre la capienza massima delle carceri e 18mila unità mancanti alla polizia penitenziaria, sempre più depauperata nelle carceri anche per le massicce quanto inopinate assegnazioni di agenti a uffici ministeriali ed extra penitenziari, richiedono interventi tangibili e immediati. La situazione è esplosiva e va sempre più deteriorandosi”. Torino. Detenuto morì suicida, processo alla psichiatra del carcere di Giada Lo Porto La Repubblica, 26 giugno 2025 La specialista in servizio al carcere aveva abbassato il livello di rischio per Gaffoglio, nonostante avesse già provato a togliersi la vita. Alessandro Gaffoglio aveva 24 anni e una grande fragilità. Lo opprimeva il senso di colpa di essere finito in carcere per la prima volta (per due rapine ravvicinate a due market a San Salvario) e di aver così deluso i suoi genitori. Quella madre e quel padre che invece avrebbero fatto il possibile per rincuorarlo e sostenerlo. Gliel’avrebbero detto nella visita fissata per il 16 agosto 2022. Ma nella notte tra il 14 e il 15, il ragazzo si era stretto un sacchetto al collo, togliendosi la vita. Ieri a Torino ha preso il via il processo che vede alla sbarra un’unica imputata, la psichiatra del carcere accusata di omicidio colposo. Per far luce sulla morte del giovane la procura aveva indagato 15 mesi. La professionista (difesa dall’avvocato Gian Maria Nicastro) avrebbe abbassato il livello di rischio che potesse togliersi la vita “da medio a lieve”, violando così le linee guida per la prevenzione del suicidio in carcere. Ieri nel corso della prima udienza c’è stata la costituzione dell’Asl Città di Torino quale responsabile civile, la madre e il padre di Alessandro invece si sono costituiti parte civile. Previsti una quarantina di testi della difesa fra cui il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, 21 invece i testimoni nella lista della procura (alcuni in comune) fra cui il medico legale Roberto Testi. L’udienza è stata riaggiornata al 10 novembre quando verranno sentiti i testi dei pm. Alessandro Gaffoglio, per la procura, era da considerarsi “un soggetto ad alta vulnerabilità psichica”. Aveva già tentato il suicidio, proprio con un sacchetto, solo 5 giorni prima. Eppure nessuno aveva avvisato la famiglia e nemmeno l’avvocato Laura Spadaro che già aveva provato a fare il possibile, subito dopo l’arresto, chiedendo una misura meno afflittiva per il giovane o quantomeno che venisse inserito in una sezione del carcere più protetta. Nonostante l’estrema vulnerabilità del detenuto, la psichiatra avrebbe dunque abbassato il livello di rischio suicidio. “Dimostreremo la correttezza del comportamento della dottoressa”, commenta l’avvocato difensore Gian Maria Nicastro. Il sacchetto con cui si è tolto la vita sarebbe stato restituito al giovane assieme ad altri suoi oggetti personali. Secondo la difesa, inoltre, il giovane si trovava in una cella in cui era sorvegliato 24 ore su 24. Vasto (Ch). Suicidio di Sabatino Trotta in carcere: assolto agente di Polizia penitenziaria di Filippo Marfisi Il Messaggero, 26 giugno 2025 Lo psichiatra e dirigente si era tolto la vita il 7 aprile 2021, dopo essere stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti. Assolto perché il reato non sussiste. È questa la sentenza pronunciata ieri dal giudice monocratico Stefania Izzo nel processo per il suicidio nel carcere di Torre Sinello, di Vasto, dello psichiatra e dirigente del Dipartimento di salute mentale della Asl di Pescara, Sabatino Trotta, per il quale era imputato l’agente di Polizia penitenziaria A.C.. Per l’assoluzione dell’imputato, si è pronunciato anche il pm Vincenzo Grieco. Trotta, il 7 aprile del 2021, a poche ore di distanza dal suo arresto nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Pescara su presunte tangenti legate a una Cooperativa di Lanciano per una serie di appalti per più di 11 milioni indetta dalla Asl 2 per l’affidamento della gestione di residenze psichiatriche extra-ospedaliere, si era tolto la vita, impiccandosi nella cella in cui era rinchiuso. Lo psichiatra era solo nella stanza quando si tolse la vita, perché in quel periodo era in vigore la normativa anti-Covid. Per A.C., l’assoluzione segna la conclusione di una vicenda che lo ha molto provato, soprattutto sotto il profilo professionale. Difeso dagli avvocati Arnaldo Tascione e Marisa Berarducci, l’agente ha sempre rigettato le accuse che lo hanno portato a processo per omicidio colposo, violazione dell’articolo 40 del Codice penale (condotta omissiva) e negligenza nella sorveglianza e prevenzione dei suicidi nella sezione detentiva di Trotta. Contestazioni sulle quali si è sviluppato il dibattimento di ieri, che ha visto un acceso contraddittorio tra la parte civile (il fratello e i genitori di Trotta si sono costituiti in giudizio, ndr) e la difesa di C.. Due le tesi che hanno caratterizzato il confronto in aula: quella sostenuta dagli avvocati Tascione e Beradinucci, proiettata a evidenziare il corretto comportamento del loro assistito durante il servizio, la sera del 7 aprile di quattro anni fa; dall’altra, il convincimento dell’avvocato Ernesto Torino Rodriguez, difensore dei famigliari del professionista, che invece non ci fosse stato il necessario controllo del detenuto, che avrebbe dovuto essere più costante in ore particolarmente difficili per chi si trova a dover affrontare per la prima volta l’esperienza carceraria. Per supportare le argomentazioni difensive, sono state ricordate le testimonianze rese in una delle precedenti udienze, dall’infermiera e dal dottor Francesco Paolo Saraceni, responsabile e coordinatore dello staff medico della medicina penitenziaria del carcere, che avevano visitato lo psichiatra al suo arrivo. In quella circostanza, non avevano percepito alcun segnale che facesse presagire intenzioni suicidarie del detenuto. Non solo. C. avrebbe effettuato le ispezioni nei tempi e nei modi previsti. Diverso il parere della parte civile, che ha fatto leva sulla perizia eseguita dai propri consulenti Adriano Tagliabracci e Vittorio Fineschi. Nella loro ricostruzione i due tecnici hanno posto in evidenza come lo psichiatra abbia impiegato 20 minuti prima di mettere in atto il suo gesto. Forse, si sarebbe potuto salvare, se ci fosse stato più controllo. Il tribunale però è stato di diverso avviso. Napoli. Agente indagato per abusi su minore: shock all’Ipm di Nisida di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2025 Uno scioccante e inaudito episodio ha coinvolto l’Istituto penale per minorenni di Nisida: un agente scelto della Polizia penitenziaria in servizio nel carcere minorile è indagato per aver compiuto atti sessuali su un giovane detenuto. L’accusa riguarda fatti avvenuti agli inizi del mese, quando - secondo le indagini - il minore avrebbe subito avances sessuali da parte dell’agente. La vicenda, resa nota da un comunicato del ministero della Giustizia, ha portato alla misura cautelare degli arresti domiciliari per l’agente, al termine degli accertamenti interni condotti dal Nucleo investigativo centrale (Nic) e dal Nucleo investigativo regionale (Nir) di Napoli. Le indagini sono tuttora in corso per chiarire esattamente la dinamica dei fatti. Al termine delle attività investigative, all’agente è stato notificato un provvedimento di arresti domiciliari. Il caso è stato trasmesso alla procura della Repubblica di Napoli, competente per la vicenda, dove il procuratore Nicola Gratteri - noto per le sue inchieste antimafia - coordinerà gli ulteriori accertamenti giudiziari. Immediatamente dopo la notizia, il capo del Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, Antonio Sangermano, ha sottolineato la gravità del caso. In una nota ha dichiarato di aver “trasmesso notizia di reato al procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, investendolo degli accertamenti necessari e formulando richiesta di adozione di misure rigorose”, definendo la vicenda “un’ipotesi investigativa di inaudita gravità”. Sangermano ha poi ribadito che il Dipartimento segue “la linea della consueta immediata denuncia per ogni notizia di reato che si palesi nel comparto di propria competenza, a prescindere da chi sia il responsabile”, applicando una “tolleranza zero” verso abusi e comportamenti illeciti nelle carceri, in particolare in quelle minorili. L’Ipm di Nisida è un carcere minorile storico, attivo fin dal 1934. Situato sull’omonima isola vulcanica davanti a Napoli, ospita ragazzi tra i 14 e i 18 anni, oltre a giovani adulti fino a 25 anni che hanno commesso reati da minorenni. La struttura è nota al grande pubblico grazie alla fiction televisiva “Mare Fuori”, ispirata alle storie dei ragazzi di Nisida. Il personale - agenti, educatori, psicologi - è formato per gestire giovani spesso con gravi disagi personali e familiari. Episodi come tentate evasioni o rivolte (ad esempio, nel 2023 alcuni detenuti avevano appiccato un incendio in una cella) evidenziano però le criticità del sistema: sovraffollamento, carenze di risorse e tensioni interne. In questo contesto, l’accusa di abusi sessuali da parte di un operatore rappresenta una violazione particolarmente odiosa delle regole di tutela. Il fenomeno dei minori reclusi è in crisi ed è monitorato da associazioni come Antigone. Il suo ultimo rapporto evidenzia che, alla fine di marzo 2025, i giovani detenuti nelle carceri minorili italiane erano 597 (26 delle quali ragazze). Ben 9 istituti penali per minorenni, su 17 presenti sul territorio nazionale, soffrono di sovraffollamento, una situazione inedita prima del decreto Caivano del settembre 2023, che ha ampliato la custodia cautelare per i minorenni e ridotto l’uso delle misure alternative al carcere. A Treviso si sfiora il doppio delle presenze rispetto ai posti disponibili; il Beccaria di Milano e l’Ipm di Quartucciu a Cagliari registrano un tasso di affollamento del 150%, Firenze supera il 147%, mentre Nisida si mantiene intorno al 105,3%. Come riportato nel rapporto, nell’ultimo anno molte proteste hanno avuto luogo nei penitenziari minorili, scatenate dalle degradate condizioni di vita interna, dal sovraffollamento che costringe a dormire su materassi a terra, dall’assenza di attività interne, dalla permanenza in cella per gran parte della giornata e dalla mancanza di percorsi individualizzati di reinserimento sociale. Tra gli istituti più colpiti figurano l’Ipm milanese intitolato a Cesare Beccaria - oggi al centro di un’inchiesta per gravi violenze reiterate contro i ragazzi reclusi - e l’Ipm romano di Casal del Marmo. Le proteste non hanno ricevuto ascolto né apertura al dialogo da parte dell’istituzione, ma risposte punitive (disciplinari e penali) e ulteriori restrizioni. Molti volontari che operavano all’interno dei penitenziari minorili si sono visti ridurre gli spazi per attività ricreative e culturali con i giovani detenuti. Il nuovo reato di rivolta penitenziaria rischia ora di seppellire i ragazzi sotto anni aggiuntivi di carcere. Davanti a un simile sfacelo, non può mancare un grido di allarme. Antigone, Defence for Children Italia, Libera, Terre des Hommes e molte altre associazioni hanno unito le forze in un appello che parte da basi ben precise: i principi educativi del DPR 448/ 1988 e i diritti sanciti dalla Convenzione Onu sull’infanzia. Nel documento, si chiede di cancellare il cosiddetto “Decreto Caivano”, colpevole di aver stretto il campo delle misure alternative al carcere e alimentato il sovraffollamento: una strada che, secondo gli estensori, ha fatto naufragare ogni prospettiva di recupero. Le organizzazioni sottolineano la necessità di rafforzare il personale: non più solo un numero da bollettino, ma figure davvero formate e aggiornate, capaci di mediare conflitti e di accompagnare ogni ragazzo nel suo percorso individuale. Da qui la proposta di introdurre, sin dal primo giorno di reclusione, un piano educativo integrato, che affianchi alla valutazione psicologica e sociale un sostegno culturale e scolastico effettivo. Nel loro appello si sottolinea inoltre l’urgenza di ripristinare la separazione netta tra carceri per adulti e istituti minorili: basta detenzioni “miste” o trasferimenti coatto in strutture inadatte ai più giovani. La scuola non deve restare un’eccezione ma diventare il cuore pulsante della vita interna agli istituti, con insegnanti e volontari capaci di riaccendere la curiosità e la voglia di studiare. Infine, l’appello insiste sull’importanza di un controllo indipendente e costante: solo così si potrà garantire che ogni forma di abuso venga segnalata e bloccata sul nascere, che le visite familiari non restino un’eccezione e che l’isolamento disciplinare torni a essere uno strumento residuale. Quella che emerge non è soltanto una lista di buone intenzioni, ma un vero e proprio modello alternativo: immaginare la custodia cautelare come estrema ratio, riporre al centro la rieducazione e la tutela psicofisica dei ragazzi. Perché se non si coltiva la speranza, anche il carcere minorile si trasforma in una fabbrica di disperazione, e casi come quello di Nisida restano soltanto l’ultimo, tragico segnale di un sistema che chiede a gran voce di cambiare rotta. Genova. “Carceri sovraffollate e minori con problemi mentali in psichiatria con gli adulti” di Erica Manna La Repubblica, 26 giugno 2025 Nella città dove ancora brucia la storia sconvolgente del diciottenne seviziato, violentato, ustionato e marchiato dai compagni di cella mentre era sotto la tutela dello Stato, nel carcere di Marassi, l’appello promosso dal garante regionale per le persone private della libertà Doriano Saracino ha già raggiunto 700 firme. Si intitola Nostro figlio ha bisogno di noi, la richiesta alle istituzioni di pagare le spese per la complessa riabilitazione fisica e psicologica del detenuto, ora ai domiciliari in una struttura protetta. “Non è solo indignazione - rimarca Saracino - è un appello a noi stessi”. Ma l’appello del garante, nel presentare la sua relazione sulle carceri liguri sul biennio 2023-2024, solleva tante emergenze. La prima riguarda i minori autori di reati con problemi mentali: “L’anno scorso in 118 sono stati ricoverati in reparti di Psichiatria insieme agli adulti - incalza Saracino - non va bene, non è il posto adatto per curare persone con esordi psicotici. L’anno scorso abbiamo avuto un ragazzo ricoverato dieci volte per un totale di oltre 200 giorni: per questo chiediamo che l’ospedale Gaslini apra un reparto specifico per adolescenti dai 14 ai 16 anni”. Un appello rilanciato anche dall’assessore regionale alla Sanità Massimo Nicolò. Ma con l’inizio dell’estate e il cronico sovraffollamento (1.337 detenuti in Liguria a fronte di 1.051 posti, al settimo posto in Italia), la carenza di attività e offerte formative, il vitto scadente, pannelli che schermano le finestre e non fanno circolare l’aria, ventilatori che mancano, il rapporto del garante sulle carceri liguri è la fotografia di un buco nero dei diritti. Una polveriera. Proprio ieri Saracino ha ricevuto la lettera di un detenuto: “Diceva: siamo leoni in gabbia”. Minori, emergenza salute. “Serve più impegno per la salute psichica dei minorenni - sottolinea Saracino - oltre alla creazione di un reparto con personale specializzato al Gaslini, chiediamo di istituire comunità dedicate ai giovani autori di reato con problemi psichiatrici, di potenziare le neuropsichiatrie infantili prevedendo anche accordi con le agenzie educative che hanno in carico gli adolescenti”. La durata di alcuni ricoveri è arrivata anche a 90 giorni di fila. Eppure, rimarca Saracino, bisogna contestualizzare i dati: perché “l’allarme sociale riguardo ai minorenni è ingiustificato”, sottolinea Saracino. L’anno scorso, infatti, i minori segnalati dall’autorità giudiziaria sono stati 268, in calo rispetto al 2023 quando erano 457. Nel 2024, però, per la prima volta il numero di stranieri (136) ha superato quello degli italiani (132). “Una dinamica che deve far riflettere sull’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati -evidenzia Saracino - non possono essere lasciati a sé stessi”. Vitto al ribasso. Tre euro e 93 al giorno per colazione, pranzo e cena. È con questa offerta al massimo ribasso che è stato assegnato l’appalto per fornire il vitto nelle case circondariali di Marassi, Pontedecimo, Chiavari, Spezia, Imperia e Sanremo. A fronte dei 5 euro di Alessandria e Asti, o 5,07 di Alba e Cuneo. Un ribasso di oltre il 30 per cento. Mentre i prezzi per il sopravvitto - ovvero il cibo che i detenuti acquistano per cucinarselo - schizza al rialzo e i detenuti segnalano ritardi nelle consegne e prodotti vicini alla scadenza. Rems. “A Calice andrà chiusa”. In Liguria le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sono due: una a Pra’ e una a Calice al Cornoviglio, “che ha un mandato temporaneo per accogliere pazienti che non trovano spazio nella loro regione”. L’appello di Saracino è che quella di Calice, “una volta svuotata non diventi la Rems di riferimento per l’intera regione”. E rimarca: “Non ascoltiamo le sirene che vorrebbero creare Rems di due tipi, una per detenuti che hanno commesso reati più gravi, con una deriva securitaria. Sarebbe un passo indietro, un ritorno agli Ospedali psichiatrici giudiziari”. Muffa e sovraffollamento. “Vivere in sei in cella, come accade a Marassi, significa rinunciare a ogni forma di riservatezza - incalza Saracino - a estate ormai iniziata è facile prevedere tensioni, violenze e una recrudescenza del tragico fenomeno dei suicidi. Amnistia e indulto non sono parole sacrileghe, sono scritte nella Costituzione”. A Marassi, rileva il report, l’anno scorso sono state segnalate alla direzione dell’istituto e alla Asl problemi di muffe in quasi ogni cella nei locali bagno e cucina, in alcuni casi con insetti infestanti. E pannelli filtranti nella sesta sezione. Che, in estate, rendono le celle dei forni. Bologna. “Dall’accusa di sequestro di persona alla fashion week: così sono rinata” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 26 giugno 2025 Storia di Luana e del lavoro in carcere. La storia di una reclusa che ha lavorato nella sartoria della Dozza a Bologna. Solo un detenuto su tre lavora e quasi tutti dentro. Ne parliamo nella quinta puntata della serie “Voci dal carcere”. Luana ha 65 anni ed è stata in carcere, condannata a 16 anni poi ridotti a 11, per concorso morale in sequestro, per il rapimento durato due ore di una ragazza, sempre negato. Il 23 maggio, gli outfit realizzate da lei e da altre detenute nella sartoria del carcere della Dozza hanno sfilato alla Bologna Fashion Week. Vestitini realizzati con scampoli di scarto, pochette, strass. Come è andata? “Bene, sono felice. Da quando sono uscita, tutto mi sembra meraviglioso. Ora sono pensionata e libera, ma mi sento come se fossi dentro e voglio aiutare le altre”. Il lavoro nobilita l’uomo? - Torneremo a Luana più tardi, perché è da voci come le sue che si capisce come vanno le cose in carcere. Parliamo di lavoro che, come diceva (forse) Charles Darwin, nobilita l’uomo. E anche la donna, ovviamente. Mai come in questi mesi questa parola, “lavoro”, è tornata a nobilitare i discorsi di molti esponenti della destra di governo. Basti ascoltare quel che dice Andrea Delmastro Delle Vedove, il sottosegretario di Fratelli d’Italia con delega alle carceri, diventato famoso per il suo “intimo godimento” nell’immaginare che i detenuti non riescano a respirare nelle nuove auto della Penitenziaria: “Il lavoro non è un premio, ma una palestra di cittadinanza. Il lavoro dà dignità, senso del dovere e speranza. È il più potente strumento di giustizia sociale e sicurezza. Il lavoro riduce la frustrazione, previene i suicidi, restituisce motivazione e alleggerisce il carico su chi lavora ogni giorno negli istituti. È quindi un investimento in dignità e sicurezza per tutti”. L’ex ministro Renato Brunetta - che con il Cnel promuove da tempo un progetto chiamato “Recidiva Zero” - spiega che un detenuto che lavora ha solo il 2% di possibilità di tornare a delinquere, contro il 70% degli altri. In scia il leghista Andrea Ostellari che da mesi insiste sullo stesso tasto. Come si spiega questo, apparentemente improvviso, innamoramento della maggioranza per il tema del lavoro abbinato ai detenuti? Chiediamo aiuto a Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, nonché docente universitario: “È figlio di una concezione del lavoro come strumento di edificazione morale e, per quanto riguarda Ostellari, come idea produttivista, tipica del Veneto”. Insomma, il lavoro come crescita spirituale, la sofferenza dell’impegno come bussola morale per chi si è perduto, la fatica come strumento per raddrizzare il legno storto dell’umanità. Ci può stare, magari sfrondando un po’ l’enfasi moralistica: lavorare responsabilizza, rende autonomi, consente di avviare quel percorso di crescita e di reinserimento che dovrebbero essere l’obiettivo finale della pena. Sì, ma quale lavoro? - I “lavoranti” - così si chiamano i detenuti che lavorano, nel solito gergo carcerario ghettizzante - sono 21.200 mila, ovvero il 34,30 per cento. Uno su tre, dunque. Ma che lavoro fanno? Il 95 per cento di loro lavora alle dipendenze del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Solo il 5 per cento è impiegato da imprese private. E qui comincia la prima, importante, distinzione. Lavorare dentro - La stragrande maggioranza, si diceva, lavora per il Dap. Dentro il carcere. Fanno lavori intramurari: lo “spesino” (raccolgono gli ordini per la spesa interna degli altri detenuti), lo “scopino” (lavori di pulizia), lo scrivano, l’addetto alla manutenzione. Lavori che si svolgono, con frequente turnazione, nello stesso ambiente di detenzione e che difficilmente saranno utili una volta usciti. Lavoretti che fanno guadagnare poche decine di euro. Ma c’è un’altra categoria del lavoro, poco diffuso: ci sono cooperative che affidano la produzione a detenuti che operano direttamente dal carcere. In questo caso la paga (per i detenuti, non si sa perché, si chiama “mercede”) non può essere inferiore ai due terzi di quello che prenderebbero se lavorassero da liberi, nel mondo esterno. Lavorare fuori - Poi c’è il lavoro fuori dalle mura degli istituti. L’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario consente il lavoro all’esterno, se è “compatibile con il percorso trattamentale”. Formula piuttosto vaga. Spiega Anastasia: “Qui c’è una cosa scandalosa che non si ricorda quasi mai. Il lavoro all’esterno nasce come ordinaria modalità di esecuzione della pena, anche per garantire chi il lavoro ce l’aveva già, fuori. Viene disposto direttamente dal direttore del carcere, e non dal magistrato, e potrebbe essere dato anche all’inizio della pena. Invece, nella prassi, viene concesso dopo un periodo di valutazione, quasi sempre dopo aver scontato la metà della pena”. Poi ci sono le misure alternative, che vengono concesse dal magistrato di sorveglianza a un certo punto dell’esecuzione: se godi della semilibertà o dell’affidamento in prova ai servizi sociali, puoi lavorare all’esterno. E dunque, quanti sono i detenuti che lavorano all’esterno? Pochissimi. Sugli oltre 60 mila, ci sono un migliaio di “semiliberi” e poco meno di 900 in “affidamento in prova ai servizi sociali”. Sono solo 400 quelli che lavorano per imprese private all’interno delle carceri. Cosa non funziona? - Non funziona che non ci sono meccanismi pubblici - a parte la fantomatica Commissione regionale per il lavoro penitenziario - che mettano in contatto le imprese con i detenuti. In teoria, molte migliaia di reclusi potrebbero essere ammessi al lavoro esterno. Sì, ma dove? Sono le aziende a sottrarsi, per paura di comportamenti scorretti o criminali? Anche. Ma è anche vero che sono poche quelle che sanno della possibilità e sanno come muoversi. Quanti commessi, quanti camerieri, quanti camerieri e addetti alle manutenzioni servono in Italia? Tantissimi. C’è una legge, che si chiama Smuraglia dal nome del senatore dei Democratici di sinistra (Carlo) che la fece approvare nel 2000, che consente sgravi fiscali a chi assume un detenuto (con crediti d’imposta fino a 520 euro per persona assunta). Tra i 20 mila che lavorano, solo 2.190 sono assunti con le agevolazioni previste da questa legge. A fare il lavoro di raccordo ci sono associazioni benemerite, come Seconda Chance. Che però non è un ente pubblico, non è un’iniziativa di welfare, non ha a che fare con il Dap: è un’associazione no profit promossa dalla giornalista di La7, Flavia Filippi, che si dà da fare per contattare istituti e detenuti, aziende e imprese sul territorio. L’esperienza delle cooperative, dai call center alle pasticcerie - Le esperienze private sono molte, spiega Anastasia: “Nel femminile di Rebibbia, opera il laboratorio informatico Linkem. A Roma, se chiami l’ospedale Bambin Gesù, ti rispondono dal maschile di Rebibbia”. A Milano c’è Pino Cantatore, già condannato all’ergastolo, che insieme all’allora direttore del carcere di San Vittore, Luigi Pagano, riuscì a mettere insieme un call center. Oggi con la sua cooperativa “Bee.4 Altre menti” è diventato una potenza, un’esperienza splendida che fa lavorare dentro e fuori dal carcere molti detenuti e ha 200 dipendenti. “Allora - racconta Pagano - riuscimmo a mobilitare la Tim e Tronchetti Provera. Ci diede una mano anche il direttore della Gazzetta Candido Cannavò”. Poi c’è la pasticceria Giotto che lavora nel carcere Due Palazzi di Padova. Poi c’è la liuteria di Opera, con i violini realizzati con i legni delle barche dei migranti. Insomma, la buona volontà dei privati non manca. Ma il pubblico? Il Cnel, come si è detto, ci prova, e Sviluppo Lavoro Italia (ex Anpal Servizi) sta promuovendo un’iniziativa per favorire l’inserimento formativo e lavorativo di mille detenuti. Il ministrodella Giustizia Carlo Nordio si è inserito nella scia enfatica sull’importanza del lavoro, spiegando che “il lavoro, come diceva Voltaire, è l’antidoto all’ozio e al bisogno”. Da direttrice di un consorzio tessile a “scopina” nello psichiatrico - Commenta Luana: “Hanno un bel da dire che il lavoro aiuta, il problema è se te lo danno”. E torniamo dunque a lei, che ha lavorato 40 anni nella moda, come direttrice del Consorzio export tessile di Carpi. Poi quella vicenda che l’ha portata in carcere. Racconta Luana: “All’inizio ho fatto la scopina nel reparto psichiatrico. Ti danno 8-9 euro all’ora. Si lavorano ormai solo 8 ore alla settimana. A fine mese mi portavo a casa 3-400 euro. Alla Dozza su 80 lavoravano in 10. Come si sceglievano? C’era la ressa, perché molte hanno bisogno. Sceglie l’équipe degli educatori. Dimenticavo: da quella somma vanno detratte le spese di mantenimento, che ogni detenuto deve pagare allo Stato”. A quanto ammontano? “Fanno 112 euro al mese. Se sei fortunato a essere scelto per lavorare, te le detraggono dalla paga. Altrimenti, appena sei libero, ti arriva la cartella esattoriale. Conosco compagne che sono uscite e si sono trovate un conto da 4 mila euro. Un bel benvenuto nel mondo libero, un bel modo per reinserirti”. L’esperienza nella sartoria della Dozza - I fatti contestati a Luana risalgono al 2007. Lei è stata indagata nel 2010 e condannata nel 2017, quando è entrata in carcere. Spiega il suo avvocato, Luca Sebastiani: “Negli anni 90, a seguito dell’ondata di sequestri, si alzarono le pene, che arrivarono a un minimo di 25 anni e a un massimo di 30. Non sono mai state abbassate”. Luana: “Quei dieci anni prima della sentenza sono stati un inferno. Quando sono entrata in carcere è finito un incubo, quello di dipendere dalle decisioni degli altri, e ne è cominciato un altro. Per resistere mi sono iscritta all’università, a Storia”. Naturalmente, qui non discute la colpevolezza di Luana, accertata con sentenza definitiva. Si parla d’altro, di pene, di detenzione e di lavoro. Dopo l’esperienza da scopina, c’è l’occasione di tornare al suo lavoro anche dentro le celle della Dozza. La sartoria gestita dalla cooperativa “Gomito a gomito” dà lavoro a due detenute dentro il carcere e a due fuori: “Quelle dentro lavorano a cottimo. Più fai, più guadagni. Ma i problemi sono stati infiniti. La sartoria è al terzo piano: erano quattro stanze, ora ridotte a due. Se si rompe una macchina per cucire, puoi aspettare mesi prima di avere l’autorizzazione ad aggiustarla. Anche fare entrare un computer in carcere è un problema. O portare dentro della stoffa”. Ora Luana è uscita per buona condotta, anche se ha ancora qualche vincolo: “Non posso uscire di casa dalle 11 alle 6, ma tanto dove devo andare? E poi non posso allontanarmi da Bologna e Modena. Ma non importa, ora voglio solo aiutare le mie compagne. Ci sono mille problemi da risolvere. Sembra una sciocchezza, ma le aziende pagano con bonifico. E molte lavoranti sono straniere, senza conto corrente. Chi glielo apre un conto in banca? Chi si fida?”. Servirebbe un welfare, parolina magica fuori moda. “Servirebbero agenzie che fungano da interfaccia tra il carcere e le aziende”. La Prevost Beer, De Maria e la recidiva - Don David Maria Riboldi, cappellano a Busto Arsizio, ha messo in piedi la Cooperativa Valle di Ezechiele: “Abbiamo 11 dipendenti. Siamo nati in pieno Covid e abbiamo dato lavoro a 32 persone in 4 anni e mezzo. Facciamo digitalizzazione di archivi cartacei. E la prison beeer. Ora stiamo creando la Prevost Beer. Conto di darne una lattina al Papa quanto prima”. Tutto bellissimo, ma poi ci sono casi come quello di Emanuele De Maria, il detenuto evaso da Bollate che ha ucciso ancora e si tolto la vita: “Sono vicende che fanno tremare i polsi - dice don Davide - Ma sa quanti dei miei detenuti, su 32 lavoranti, hanno commesso nuovi reati? Uno solo”. Non solo lavoro - Luigi Pagano è un po’ scettico sulle statistiche della recidiva sbandierate in questi giorni dal Cnel: “C’è lavoro e lavoro. Bisogna valorizzare quello pagato, non quelli di pubblica utilità gratuiti o sottopagati, e favorire il lavoro all’esterno. Bisogna promuovere la formazione professionale, in modo che quando uno esce ha imparato un mestiere. E bisogna fare un discorso di sistema. Non basta parlare solo di lavoro, bisogna insistere con le misure alternative, creare una rete con il territorio, con le imprese”. Vero, dice Anastasia, che aggiunge: “Nella mia lunga esperienza nel Lazio, con amministrazioni diverse, ho visto che la formazione professionale si fa prevalentemente con i soldi del Fondo sociale europeo. Ma sono soldi che seguono una programmazione di 7 anni. Seguono un loro percorso e rischiano di produrre solo attività simboliche. Prendiamo il grande programma di formazione del 2014-2021: ha coinvolto 300 persone. Trecento. Ma in quegli anni saranno passati 20-30 mila detenuti nelle carceri del Lazio”. Treviso. I detenuti scrivono al vescovo: “Abbiamo causato sofferenza, ma dateci un’altra possibilità” di Mauro Favaro Il Gazzettino, 26 giugno 2025 Il testo è stato inviato al vescovo Michele Tomasi e, idealmente, a tutti i fedeli. “C’è molta sofferenza nel mondo, segnato dalla guerra e dal male. Di fronte alla sofferenza che vediamo, che viviamo e che anche noi abbiamo provocato, è difficile dire che questo è un tempo speciale. Ma vorremmo così tanto che il popolo di cui ci sentiamo parte sapesse che dietro al muro del carcere ci siamo anche noi, in un cammino di consapevolezza e responsabilità, che parte dal pentimento e prova a rinascere e ricostruire esistenze”. È questo il fulcro della lettera che un gruppo di detenuti del carcere di Santa Bona ha spedito al vescovo Michele Tomasi e, idealmente, a tutti i fedeli della diocesi di Treviso. L’occasione è il Giubileo della Speranza. Proprio questa è la parola che ricorre più spesso. “Sentiamo che questo tempo è l’occasione per rivolgerci come piccola Chiesa che è nel carcere alla grande Chiesa della diocesi di Treviso - continuano - sentiamo la speranza anche come l’apertura di una porta tra noi e voi, il superare quei muri di indifferenza, pregiudizio e paura che ci possono essere”. Ci sono dei legami già stretti. Oltre alla cappellania del carcere, con don Piero Zardo, a Santa Bona c’è anche un operatore della Caritas che partecipa ai progetti, sia nella casa circondariale che nell’istituto penale per minori. L’anno scorso sono stati messi a disposizione 15mila euro per piccoli aiuti economici ai detenuti. Anche solo per poter telefonare a familiari e avvocati. Dieci detenuti, poi, sono stati coinvolti in attività di studio assistito, realizzate in collaborazione le con le associazioni. “Inoltre, 12 persone hanno svolto servizio in Casa della Carità - spiega Paola Pasqualini, vicedirettrice della Caritas - in permesso premio, misura alternativa alla detenzione, lavori di pubblica utilità o percorsi di volontariato”. L’anno scorso, infine, la canonica di Varago ha accolto 4 detenuti, attraverso il progetto Sicomoro, in pena alternativa o appena usciti dal carcere e ancora alla ricerca di una sistemazione. Verona. Il Garante, don Carlo Vinco: “Anche nelle situazioni più tragiche c’è tanta umanità” di Roberta Barbi vaticannews.va, 26 giugno 2025 In occasione del Giubileo dei sacerdoti parla il primo religioso a essere eletto nel 2021 Garante dei diritti delle persone private della libertà personale nel Comune di Verona, la sua città, dove era parroco a San Luca. Così ricorda la visita di Papa Francesco: “Momento esemplare di accoglienza, simpatia e pazienza”. È il giugno 2021 - esattamente quattro anni fa - quando il Comune di Verona, che nel suo territorio ha un solo istituto di pena, la casa circondariale di Montorio, fa una scelta originale: elegge un sacerdote come Garante dei diritti delle persone private della libertà personale in sostituzione del precedente, dimessosi a febbraio. La scelta ricade su don Carlo Vinco, una vita spesa tra i senzatetto, i Rom e soprattutto i malati di Aids e i tossicodipendenti che con il carcere hanno spesso a che fare. L’ordinamento vuole che questa figura indipendente abbia la stessa durata del Consiglio comunale, invece a Verona il Consiglio cambia, la Giunta ha un altro colore, ma lui è ancora lì. Apprezzato da tutti. “La figura del Garante rappresenta uno sguardo del Comune sull’ente carcerario che è pieno di contraddizioni, e fragilità - spiega ai media vaticani - l’obiettivo è sia la conoscenza continua delle problematiche che vi emergono, sia il rilievo di eventuali disagi”. Un istituto in continua evoluzione - “Il carcere è in continuo cambiamento, continuo!”. Non usa mezzi termini don Carlo nel ripercorrere i suoi quattro anni di mandato: “Quando ho iniziato a Verona, il cui istituto ha una capienza di circa 318 posti, c’erano già 400 detenuti, oggi sono più di 600”, è la sua denuncia del sovraffollamento che affligge molte strutture italiane, come pure il dramma dei suicidi che ha toccato più volte la casa circondariale di Montorio. “Il cambiamento, qui, riguarda soprattutto l’età e la provenienza - spiega - più andiamo avanti più gli ingressi sono di giovani, anche 18-21 anni, e sempre più stranieri: siamo il carcere che ne ospita di più in Veneto”. Il motivo è legato, secondo il Garante, all’aumento dello spaccio, dei piccoli furti e della resistenza a pubblico ufficiale che sono i reati per i quali tipicamente i giovani non italiani finiscono in manette. Il rapporto con il territorio - Una delle funzioni del Garante comunale è anche quella di mantenere i rapporti con il territorio, di cui fa parte anche la diocesi: “Nella mia realtà non è difficile, abbiamo una cappellania molto ben organizzata con anche due diaconi e alcune suore che lavorano come volontari e il vescovo è molto sensibile a questo tema - afferma - proprio in questi giorni stiamo celebrando il Giubileo dei detenuti in diocesi, che prevede una Messa celebrata dal vescovo all’interno della struttura e alcuni momenti di preghiera e catechesi in preparazione”. Un anno fa la visita di Papa Francesco - Nel maggio 2024 la casa circondariale di Montorio ha ricevuto la visita di un altro vescovo, quello di Roma, cioè Papa Francesco: “Quel momento ha significato molto per me - ricorda ancora il sacerdote - è stata una visita esemplare, sia per l’accoglienza del Papa ai detenuti, per la sua simpatia, per la pazienza con la quale si è offerto loro, ascoltandoli, abbracciandoli, non sottraendosi ad alcuna relazione. E poi nel suo discorso ha fatto riferimento al dramma dei suicidi che purtroppo ha colpito anche Verona”. Il Giubileo dei sacerdoti: conciliare ministero e ruolo istituzionale - Il carcere è spesso una missione per chi lo conosce in profondità, ma vivere la doppia dimensione di sacerdote e Garante può essere difficile: “Più che altro è commovente -corregge don Vinco - lo è vedere che anche dalle situazioni più tragiche possono emergere inedite cariche di umanità, sensibilità e misericordia, non nel senso del perdono tout court, ma dell’accoglienza con tutte le proprie colpe”. “È una continua lezione di vita trovare dentro il carcere situazioni umane che non si sono spente”, conclude. Napoli. “Il carcere oggi”, convegno nazionale AiCS per i 50 anni dalla riforma penitenziaria aics.it, 26 giugno 2025 Il 9 luglio a Napoli: si tratterà di stigma sociale e delle prospettive riparative, nel confronto col mondo del Terzo Settore. Nel 50esimo anniversario della entrata in vigore della Legge di riforma penitenziaria, l’area di promozione sociale di AiCS , insieme alla Consulta persone private della libertà del Forum Terzo Settore, e al comitato AiCS di Napoli e Campania, promuove il convegno nazionale “Il carcere oggi tra stigma, ritardi normativi e prospettive riparative”. Il dibattito si terrà al PalaDennerlein del quartiere Barra, dalle ore 10, e prevederà anche l’intervento del presidente AiCS Bruno Molea. Il confronto punterà a una analisi della complessità della realtà penitenziaria e delle difficoltà prodotte dall’etichettamento sociale, produttore di resistenze collettive nei confronti del reinserimento dei detenuti. Alla tavola rotonda, aperta dal saluto della dirigente nazionale AiCS Manuela Papaccio interverranno: don Franco Esposito, direttore ufficio Pastorale Carceraria della diocesi di Napoli; il coordinatore nazionale della Consulta “ Persone private della libertà” del Forum del Terzo Settore Antonio Turco; la direttrice della casa circondariale di Avellino Maria Rosaria Casaburo; il responsabile dell’area trattamento della casa circondariale di Avellino Arcangelo Zarrella; il presidente di AiCS Salerno Marco De Luca; l’avvocata Giovanna Perna componente dell’Osservatorio Carcere Unioni camere penali italiane - facilitatore in materia di giustizia riparativa e presidente del Comitato per le Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati di Avellino. Le conclusioni saranno affidate al presidente Molea. Pavia. Nuova palestra targata “Rotary” nel carcere di Raffaella Pasciutti ecodipavia.it, 26 giugno 2025 Il Rotary Club Distretto 2050 con il Gruppo Longobardo e Club proponente Ticinum in collaborazione con il Club Terre Viscontee ha stretto una nuova collaborazione con il Carcere di Pavia e con la partecipazione di U.E.PE. - Ministero di Giustizia per un progetto interamente dedito alla salute mentale e fisica di una parte di detenuti del Carcere di Pavia. Per i prossimi due anni, i Club si faranno carico di appoggiare la struttura penitenziaria per la tutela della salute di quei detenuti ATSM, fondamentale diritto dell’individuo, come da Articolo 32 della nostra Costituzione. Quello della salute mentale sicuramente resta ad oggi un problema che riguarda un numero di detenuti di importante rilevanza, anche in termini di complessità che interessano, secondo un’indagine di Antigone, un terreno fertile per il mondo carcerario. La salute mentale è uno dei progetti più sottovalutati nel mondo carcerario da anni, basti pensare che la struttura del Carcere di Pavia, che ospita circa parecchi detenuti, è composta da due padiglioni suddivisi in Comuni e Protetti nei quali sono presenti un certo numero non indifferente di detenuti nella cosiddetta ATSM, articolazione trattamento salute mentale. Sempre secondo Antigone l’insorgere di patologie psicologiche e psichiatriche è in aumento durante tutta la fase detentiva e anche nella fase prossima alla Scarcerazione. Inoltre il carcere è il luogo in cui si registra la massima incidenza al fenomeno suicidario, fenomeno che ha avuto un triste ed elevato tasso in questi ultimi anni. Con questa doverosa premessa, su proposta della Caritas, con il Gruppo Longobardo del Rotary Distretto 2050 e grazie all’incontro preliminare con la Direzione della struttura e con la Direzione sanitaria, è stata creata una palestra per i detenuti con questi problemi mentali, attrezzata con tutti i dispositivi sportivi necessari al “momento benessere” per le persone con queste patologie. La Direzione ha identificato all’interno della struttura uno spazio per accogliere questa tipologia di detenuti. Venerdì 6 giugno è stata inaugurato quindi uno spazio dedicato con attrezzature (tappeti, macchinari, cyclettes) atti a stimolare un’educazione psico-motoria, sotto il controllo dell’equipe medica e con la possibilità di avvalersi anche di professionisti rotariani con esperienza in educazione fisica o sportivi che possano mettere a disposizione le loro competenze per un progetto che avrà una durata di almeno 2 anni rotariani. All’inaugurazione erano presenti la Direttrice Stefania Mussio, la Direzione sanitaria con la partecipazione del dott. Davide Broglia, educatori e agenti di custodia. Stefania Mussio ha dichiarato “ringraziamo Anna Bruni per il suo costante impegno ed il Rotary che promuove iniziative come questi service. Per noi è importante più dal punto di vista umano che dal punto di vista e economico questo progetto. È importante sapere bene che salvo rare eccezioni, le persone dal carcere escono, e se ne escono con con la voglia di ricominciare e con buone idee, questo è anche merito di progetti come questo, di un piccolo sfogo, di una gioia che esiste anche per queste persone. Ovviamente ci vuole l’impegno ed il lavoro di squadra di tutti i presenti, infermiere, educatori, forze dell’ordine…ma con l’impegno vero e professionale, tutto questo si può raggiungere.” Sponsor del progetto sono stati il Rotary Gruppo Longobardo con la presenza di alcuni presidenti dei club tra cui, Cesare Gatti in rappresentanza del Governatore Distretto che ha dichiarato “Siamo l’unico distretto in Italia ad avere una commissione che si occupa di Carceri e per questo va ringraziata Anna Bruni per il suo impegno. In passato abbiamo lavorato a progetti differenti come l’installazione di fumetti nei corridoi per rendere più allegro un posto infelice. Io nostro obiettivo è affievolire il tempo e le giornate di queste persone e solo con questi progetti ciò è possibile.” Assieme a Gatti erano presenti anche Francesco Gallotti, Giorgio Prina, Adriano Sora e Arturo Zancan. Francesco Gallotti, Presidente del club storico Rotary Pavia ha ricordato la storia lunga 75 anni del club pavese e dell’impegno continuo sul territorio mentre Giorgio Prina ha voluto rimarcare le criticità all’interno della struttura: “Siamo consapevoli delle criticità che si nascondono dietro un progetto simile ma siamo sicuri che sia fondamentale sostenere e patrocinare come club questo tipo di attività.” Spicca fra i giovani Nicolò Fiocca del nuovo club “Porta Nuova”, il quale ha contribuito al progetto con la donazione di due cuscini per il comfort di persone con problemi deambulatori. Come annunciato da Anna Bruni Presidente della Commissione Carceri, Giustizia e Reati, già nota per i suoi numerosi progetti distrettuali rivolti a questo settore, “la palestra è un proseguo di tutte le nostre missioni che vuole affiancare i carcerati in un percorso continuo e quotidiano. Il ringraziamento va alla Commissione ed alla Presidenza del Distretto 2050 che sposa sempre con entusiasmo ogni progetto, in particolar modo anche il carcere e i suoi ospiti, perché pur inserito nelle nostre città, non sia solo una “discarica sociale” ma vengano attuati i principi della nostra Costituzione in particolar modo gli art. 32 e art. 27”. Milano. Il progetto “Abbracci in libertà” nel carcere di Bollate di Ilaria Solari Donna Moderna, 26 giugno 2025 Grazie al progetto “Abbracci in libertà” della Fondazione Santo Versace, nel carcere milanese di Bollate è nato un giardino speciale. Qui le detenute possono incontrare i loro figli in uno spazio accogliente, a misura di bambino. Perché vivere pienamente il ruolo di madri è un tassello importante per ritrovare dignità e speranza. Un parco giochi nuovo fiammante, scivoli e altalene circondate dal verde. L’ombra dei gazebo offre scampo alla canicola. Oltre il muro di cinta, una cordigliera di palazzoni in cemento trattiene un cielo incongruamente limpido. Potrebbe essere il giardinetto di una qualsiasi periferia milanese e invece siamo nel cuore del carcere milanese di Bollate, che, al netto delle criticità comuni agli istituti penitenziari, gode della reputazione di struttura detentiva all’avanguardia per la rieducazione e la riduzione della recidiva dei reati (è l’istituto di pena che vanta il più basso tasso in Italia). Da queste parti si prova a dare piena applicazione a best practice orientate alla riabilitazione: la formazione, l’integrazione al lavoro e alla società, anche attraverso l’applicazione scrupolosa di strumenti giuridici come la semilibertà. Vige un regime penitenziario che si fonda sulla responsabilizzazione: salvo casi particolari, le celle restano aperte per gran parte della giornata e le detenute e i detenuti possono muoversi tra le aree comuni. Su 1.380 reclusi, oltre 700 sono impegnati in attività lavorative; a 200 di loro è riconosciuta la facoltà di lavorare all’esterno e rientrare la sera, come accade ad Alberto Stasi, di cui le cronache rammentano spesso la condotta di detenuto modello. Oltre ai reparti residenziali, alla biblioteca, ai laboratori artigianali e industriali, alla serra, alla tipografia e ad altri spazi comuni, a Bollate ci sono anche un nido d’infanzia, aperto sia ai figli del personale sia a quelli dei detenuti - “i bambini sono bambini” commenta la vicedirettrice Francesca Daquino - e 6 camere dedicate alle recluse con figli al seguito, che attualmente risultano (per fortuna) vuote. Le madri detenute si ricongiungono ai figli con cadenza settimanale. Finora ciò accadeva negli spazi generici dei colloqui con familiari e avvocati, condivisi con gli inquilini del reparto maschile. Ambienti non esclusivi e spogli, che la Fondazione Santo Versace, ente filantropico creato nel 2021 da Santo Versace e dalla moglie Francesca De Stefano Versace, ha deciso di rendere a misura di bambino attraverso un progetto, “Abbracci in libertà”, realizzato con Banco del Fucino e sostenuto da una rete di enti e organizzazioni che collaborano con la casa di reclusione. Il progetto ha riqualificato un’area esterna del reparto femminile, creando uno spazio accogliente per favorire incontri più sereni e protetti tra le detenute e i loro figli. Non ha neanche 30 anni Imge Duzgun, l’architetta dello studio Ideas di Milano il cui progetto “Sentieri di filastrocca” è stato selezionato tra quelli proposti dagli under 35 che hanno risposto alla call to action per immaginare un ambiente che promuovesse il legame familiare e il benessere dei bambini attraverso il linguaggio della bellezza. I primi a mettere piede nel nuovo spazio che Duzgun ha progettato, il giorno del taglio del nastro, sono Francesca e Santo Versace, anime della Fondazione. Un amore tardivo e tenacissimo, il loro: avvocata, ex dirigente dello Stato e ora vicepresidente della Fondazione lei, imprenditore della moda e filantropo lui, presidente dell’ente benefico che porta il suo nome. “Un’espressione concreta del nostro legame personale” dichiara con trasporto Santo “e del desiderio di restituire alla società parte di ciò che abbiamo ricevuto, sostenendo persone fragili e svantaggiate. Il nostro amore è il primo motore che ci muove a impegnarci”. Francesca e Santo fanno il loro ingresso commossi, mano nella mano, salutano le autorità, il direttore del carcere Giorgio Leggieri, le educatrici e le guardie penitenziarie. La formalità si scioglie quando si presentano alla spicciolata le madri detenute che hanno contribuito alla realizzazione del progetto, istoriando le mura di cinta con le strofe di una Filastrocca dei valori che parla d’amore, dignità e solidarietà. Francesca s’avvicina, le bacia, le abbraccia, le chiama “sorelle”. Anche a loro spuntano le lacrime. “Immagino il momento in cui i miei figli vedranno questa meraviglia” dice Yvonne, 44 anni, tre figli, una grande, due di 10 e 9 anni. “Mentre il piccolo, quando viene a trovarmi, ha ben chiaro dove si trova, sa che mamma ha sbagliato e sta rimediando ai suoi errori, l’altro preferisce continuare a pensare che io sia al lavoro quando non sto con lui: il parco giochi lo aiuterà. Se lo merita: anche questi bambini scontano una pena” conclude Yvonne. Lei e le altre hanno aiutato l’artista Giulia Caruso a creare un’opera murale che rende più prezioso il giardino: l’abbraccio rappresenta una madre che avvolge col suo corpo un bimbo piccolo e irradia un senso di protezione e cura. “Siamo presenti nelle carceri con altri progetti, ma qui abbiamo voluto sostenere la maternità” spiega Francesca De Stefano Versace. “Insieme all’accesso al lavoro, la possibilità di vivere pienamente il ruolo di madri è un tassello importante per restituire dignità alle detenute che hanno figli. Il momento dell’incontro è particolarmente delicato, deve avvenire in un luogo accogliente, dove i ragazzini abbiano voglia di tornare. I bambini sono la luce del mondo: io e Santo non ne abbiamo avuti” sussurra in un sorriso la vicepresidente, impegnata anche in Kenya nella realizzazione di una casa rifugio per giovani madri che vivono in strada. “Questo è il nostro modo per tenere accesa quella luce”. Non ha figli neanche Claudia, che ha girato molti istituti prima di approdare a Bollate, ma ha voluto dare il suo contributo al progetto. “Eravamo in tre a scrivere le parole della Filastrocca, finché una compagna è stata raggiunta dalla notizia della scarcerazione. Chissà quando arriverà, per me. Intanto faccio ciò che posso: studio, leggo, frequento i laboratori. Ma a questa esperienza tengo in modo particolare. Da là sopra le osservo spesso queste madri” confida, indicando una finestra a un piano alto dell’edificio che ci sovrasta. “Vedere i bambini restituisce un senso di normalità. Non tutti qui credono alla nostra possibilità di riscatto, la tentazione di identificarci col reato che abbiamo commesso è sempre dietro l’angolo. Ma molte si trasformano anche in virtù della fiducia che qualcuno sceglie di concederci” aggiunge di slancio. E torna a fissare lo sguardo là in alto, dove dietro ad altre sbarre un gruppo di donne agita le mani in un saluto festoso. Migranti. I “fantasmi” del click day: 119.000 richieste di ingressi, solo 9.300 contratti firmati di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 26 giugno 2025 Gli altri? “Vittime di ricatti e sfruttamento”. Il datore di lavoro non ha l’obbligo di assumere il lavoratore fatto arrivare dall’estero. E tra i braccianti di Latina, un anno dopo la tragedia di Satnam Singh, nulla è cambiato. Nel 2024, in occasione del click day, è stato chiesto l’ingresso in Italia di 119.890 lavoratori stranieri. Di questi, solo 9.331 sono riusciti a portare a termine la pratica firmando un contratto di lavoro regolare. Se la matematica non è un’opinione ci sono dunque circa 110.000 “fantasmi” del cui destino nulla si sa. O meglio lo si può ipotizzare attraverso un paio di indizi. Il primo: Confagricoltura e Coldiretti nei giorni scorsi hanno denunciato che mancano lavoratori per garantire la raccolta di frutta e verdura. Il secondo, a un anno dall’atroce morte di Satnam Singh, il bracciante dell’Agro Pontino abbandonato dopo che un macchinario gli aveva staccato un braccio “nulla è cambiato”. Parole di Luigia Spinelli, procuratrice aggiunta di Latina. Illegalità, caporalato, lavoro nero sono dunque i mondi nascosti in cui rischiano di cadere (o sono già caduti) i 110.000 desaparecidos. Il gap tra numero di richieste presentate per l’arrivo di manodopera straniera e l’esiguità dei contratti sottoscritti lo si deve a una meritoria ricerca effettuata da “Ero straniero”, associazione appartenente a una rete di sigle impegnate nella tutela dei diritti dei migranti. “Solo il 7,8% delle quote di ingresso stabilite dal governo si è trasformato in impieghi stabili e regolari” certifica il report, frutto di una serie di informazioni richieste direttamente alle prefetture e ai ministeri, dunque basato su dati ufficiali. Ma qual è la falla, il buco in cui precipitano le persone che non riescono a ottenere contratto di lavoro e permessi di soggiorno? “Ero straniero” ha ricostruito il tortuoso percorso che deve affrontare chi cerca di entrare regolarmente in Italia. Dopo aver “prenotato” l’arrivo del lavoratore dall’estero durante il click day, questi presenta domanda all’ambasciata o al consolato italiano del Paese di partenza. Una volta ottenuto il nulla osta, bisogna far domanda di un visto d’ingresso in Italia per motivi di lavoro. Una volta qui, inizia l’iter tra questure e prefetture che culmina con la sottoscrizione di un contratto e il rilascio di un permesso di soggiorno. Ognuno di questi passaggi può richiedere settimane di attesa ma il meccanismo si inceppa su un punto preciso: una volta che il migrante è arrivato in Italia l’azienda che lo ha chiamato non ha nessun obbligo di assumerlo. “Non ho più bisogno di te, sono passati troppi mesi, non ti posso più assumere”. Niente contratto di lavoro, niente permesso di soggiorno. E quando il visto scade ecco spalancarsi per l’immigrato gli inferi della clandestinità. Satnam Singh era uno dei tanti caduti in questa trappola. Il 19 giugno del 2024, con il braccio amputato venne abbandonato dall’imprenditore che lo faceva lavorare in nero nei campi in un casolare; gli fu portato via anche il cellulare e l’arto staccato gli venne posto accanto in una cassetta di frutta. Satnam morì dissanguato. Che cosa è cambiato in un anno? Laura Hardeep Kaur, indiana di seconda generazione, cittadina italiana, è oggi la segretaria della Flai Cgil, sindacato dei lavoratori dell’agricoltura. di Latina e Frosinone: “Subito dopo la tragedia di Satnam - racconta- c’è stata un’ondata emotiva: in due mesi si è concentrata la metà delle ispezioni alle aziende effettuate in un anno. Poi tutto è tornato come prima”. Un numero dice tutto di quanto sia vasto e capillare il sistema di sfruttamento: dal 19 giugno (giorno della morte del bracciante indiano) al 30 dello stesso mese (dieci giorni totali) in provincia di Latina sono state registrate 3.287 assunzioni di lavoratori agricoli. In tutto il 2023 la cifra si era fermata a 4.790. “In questo sistema - dice ancora Hardeep Kaur - tutto diventa oggetto di ricatto, tutto deve essere comperato. E il lavoratore pur di mettere assieme qualche soldo accetta di tutto, persino di pagare per vedersi rilasciato il codice fiscale”. La casistica che la Flai si è vista passare davanti in questi anni è infinita: braccianti che lavorano ininterrottamente da lunedì a domenica ma che si vedono corrisposte in busta paga solo due giornate lavorative (si se si supera quota 40 scattano una serie di obblighi contrattuali), intermediari pagati 8.000 euro per garantire il disbrigo delle pratiche e l’arrivo in Italia. “Finché il datore di lavoro non avrà l’obbligo di assumere il lavoratore fatto arrivare dall’estero - conclude la sindacalista - il sistema non cambierà. E chi resta senza documenti validi sparisce, cerca di sopravvivere come può, accetta qualunque condizione”. Ecco dunque la fine che rischiano di fare i 110.000 “fantasmi” del click day. Nel frattempo i coltivatori di frutta dell’Emilia Romagna (ultimi in ordine di tempo) lanciano l’allarme perché nei campi manca manodopera; secondo Confagricoltura servono 100.000 lavoratori. Il primo luglio è previsto un altro click day e la giostra si rimetterà in movimento. Beffa nella beffa: il Pnrr aveva messo a disposizione di Latina 4 milioni di euro per la costruzione di alloggi per i braccianti agricoli; ma anche in questo caso la procedura si è incagliata e al momento quei milioni rischiano di sfumare. Sistema di accoglienza inefficace e stranieri più poveri: i volti dell’immigrazione a Roma di Michele Gambirasi Il Manifesto, 26 giugno 2025 Presentato in Campidoglio il rapporto Idos sui migranti a Roma e nel Lazio. Sono due i volti dell’immigrazione a Roma: da una parte la città continua a essere un territorio di passaggio, dall’altra è in continua crescita la presenza di stranieri che hanno consolidato la propria vita nella Capitale, aumentando una presenza stabile e ordinaria. È quanto riporta il ventesimo rapporto Idos sull’immigrazione a Roma e nel Lazio, presentato ieri in Campidoglio. Nella città la presenza di persone straniere è più che raddoppiata negli ultimi 20 anni, passando dalle 180mila del 2001 alle 380mila del 2024, di 188 nazionalità diverse. In totale nella regione sono 643mila le persone straniere. Un sintomo della progressiva stabilizzazione che fotografa il rapporto, mentre il dato sulle acquisizioni di cittadinanza, scrive Idos, confermano che Roma rimane anche uno snodo di passaggio con flussi in continua evoluzione. Al 2021 il tasso di cittadinanze acquisite nella Capitale è di 18 nuovi italiani ogni 100 stranieri, un dato quasi dimezzato rispetto alla media italiana che è di 31 passaporti rilasciati ogni 100 stranieri. Anche le cittadinanze rilasciate nel 2023 nel Lazio, 14.450, hanno prodotto un’incidenza dimezzata rispetto al resto del territorio italiano: 22,6% in confronto al 41,1%. A raccontare lo stato dell’immigrazione in Italia sono soprattutto i dati relativi al lavoro e all’accoglienza. Gli stranieri percepiscono un reddito medio che è praticamente la metà dei cittadini italiani, con una media di 14mila euro l’anno per persona. Ciò è dovuto soprattutto ai settori in cui sono impiegati: un terzo dei loro ha mansioni di cura della casa o della persona, menrte molti altri si trovano nell’edilizia o nella ristorazione. Settori mediamente più a basso reddito, cui non corrisponde un divario di qualificazione rispetto ai cittadini italiani. Oltre la metà degli stranieri presenti nel Lazio ha titoli di studio medio-alti, dal diploma in su, a fronte del 30% degli italiani. “L’acquisizione della cittadinanza sembra favorire l’emancipazione lavorativa - scrive Idos - eppure l’Italia continua a non aggiornare la legge sulla cittadinanza e, sul fronte degli ingressi per lavoro, a puntare sui decreti Flussi, la cui inefficacia a Roma tocca livelli estremamente critici”. Il tasso di successo della procedura a Roma è rimasto estremamente basso: delle domande presentate ne sono state esaminate un quinto, metà delle quali respinte. Sul versante dell’accoglienza invece il rapporto evidenzia come la gestione sia rimasta per lo più di carattere emergenziale. A fine 2023 dei 12.231 migranti accolit, il 20% rientrava nel Sai (Sistema accoglienza e integrazione), a fronte dell’80% nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria). L’accoglienza è rimasta particolarmente critica per i minori non accompagnati: esiste solo un Cas per minori con 12 posti, e 80 di loro sono stati collocati in strutture per adulti. Di questi centri inoltre, sottolinea il rapporto, il 30% è gestito da privati for profit, con forme di “quasi monopolio” di alcuni enti: Medihospes gestisce un quarto dei posti nel Lazio e il 40% nella Città metropolitana di Roma, la Ospita srl il 65% dei posti nella prefettura di Viterbo. Migranti. Noi, islamiche in fuga da violenze e divieti di Alessandra De Vita Grazia, 26 giugno 2025 In Emilia Romagna e Veneto tre donne musulmane sono state picchiate perché ritenute poco rispettose delle regole religiose. Qui alcune ragazze come loro raccontano gli abusi subìti in famiglia. L’hanno accusata di essere troppo integrata nella società occidentale e di non indossare il velo: per questo, poche settimane fa, una 32enne di origini algerine è stata picchiata da un gruppo di uomini a Massa Lombarda, vicino a Ravenna. Pochi giorni dopo, a Modena, una 23enne di origini siriane ha denunciato i suoi genitori per ripetute violenze e minacce. E a Padova una 18enne di famiglia marocchina è stata rintracciata dal padre nella casa protetta dove si era rifugiata: ora l’uomo dovrà portare il bracciale elettronico. Questi maltrattamenti sono più frequenti di quanto si creda tra le donne di estrazione islamica. Grazia ha ascoltato tre ragazze che hanno subìto violenza per aver infranto i dettami della Sharia, le leggi islamiche che si ispirano alla religione, o regole della tradizione. Sabah, di origini tunisine, vive a Milano da oltre dieci anni. “Sin da bambina”, racconta, “ho sempre dovuto fare da serva a mio padre altrimenti erano botte. Quando ho chiesto aiuto a mia madre, mi ha picchiata anche lei. Quando uscivo da scuola, controllavano i miei spostamenti con un dispositivo elettronico che ero costretta a indossare. Dall’esterno mio padre sembrava un uomo evoluto, ma era solo per mascherare la sua vera natura. A 12 anni, già cercava un marito per me. A 16 anni mi ha portata in Tunisia dove mi ha fatto incontrare il mio futuro marito di 30 anni più grande: una volta terminato il terzo anno delle superiori, ci saremmo sposati. Non ce l’ho fatta, ho raccontato tutto alle mie insegnanti che mi hanno aiutata. Sono stata portata in una casa rifugio”. Gli avvocati dell’associazione che protegge Sabah hanno vinto la battaglia legale che ha portato a una condanna per il padre. Sabah è finalmente libera. “Per le ragazze musulmane è più complicato denunciare, perché per loro è come firmare una condanna emessa dalle persone di cui più si fidano, i genitori”, spiega Ebla Ahmed, presidente dell’associazione Senza veli sulla lingua che sostiene le vittime di violenza. “Purtroppo”, dice Ebla, “ci sono molti imam (capi delle comunità religiose, ndr) che affermano che secondo il Corano la donna è un oggetto dell’uomo. Questi uomini non rispettano la religione musulmana che confondono con i loro retroterra culturali. Ma le ragazze che nascono in questi contesti non hanno gli strumenti per capire che cosa sia sbagliato”. Anche chi, come Amal, cresce in una famiglia emancipata, può cadere in trappola. “Ho 34 anni e sono nata e cresciuta a Modena da genitori marocchini”, dice. “Mio padre non mi ha imposto nulla e quando ho messo il velo, ci è rimasto un po’ male”. Amal ha divorziato da poco, dopo essere fuggita di casa con due bimbi piccoli. “Lui era violento, ma mi impediva di lasciarlo perché mi diceva che per l’Islam l’uomo può divorziare quando vuole, mentre alla donna occorre una giusta causa. Molti manipolano il Corano perché noi donne cresciute in Europa non conosciamo bene la nostra religione. Il mio ex mi minacciava di morte, perché, secondo lui, non ero una brava moglie musulmana. Non frequentava la moschea ma imponeva a me di insegnare il Corano a mia figlia. Dopo essere scappata, e averlo denunciato, ho ottenuto il divorzio ma lui può vedere la bimba. Ci controlla”. Seynabou, 23 anni, è nata a Milano e ha origini senegalesi. Ha un passato molto difficile: “Ero piccola, mia madre costringeva le mie sorelle più grandi a prostituirsi e mio padre mi picchiava. Chiamai gli assistenti sociali e lui fu arrestato, perché si scoprì che spacciava. Quando è tornato dal carcere, mi hanno cacciata di casa. Poco dopo ho conosciuto il padre di mia figlia, senegalese. Fino ad allora pensavo di essere agnostica, ma lui mi ha fatta riavvicinare all’Islam. Ho messo il velo. Dopo pochi mesi ci siamo sposati. Mi diceva che se volevo essere rispettata dalla comunità dovevo essere sposata o sarei stata vista come una donna facile. Aveva rapporti con me anche quando non volevo, non potevo uscire di casa. Abbiamo avuto una bambina. Quando ha iniziato a picchiarmi, l’ho denunciato. Sono in attesa di processo e andrò fino in fondo perché non voglio che veda più mia figlia”. Migranti. Rimpatri dall’Albania: il Viminale rivendica, l’opposizione attacca di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 giugno 2025 “È stata violata la direttiva Ue”. Gli europarlamentari progressisti scrivono alla Commissione europea: adesso faccia chiarezza. Intanto al Senato la destra cambia idea sul nuovo regolamento espulsioni: troppo garantista. Secondo il Viminale i rimpatri direttamente dall’Albania, senza passaggio in Italia, sono regolari. Lo consentirebbero le intese stipulate tra Roma e Tirana dopo il protocollo, per dargli attuazione. Lo hanno riferito ieri all’Ansa “fonti del ministero dell’Interno” in merito al caso, il primo di questo tipo, rivelato lunedì da altreconomia. È andato così: il 9 maggio scorso cinque cittadini egiziani rinchiusi nel Cpr di Gjader sono stati spediti al Cairo dall’aeroporto di Tirana. Dopo averli imbarcati il charter non è transitato dallo scalo di Fiumicino, come nei rimpatri precedenti. La comunicazione del dicastero guidato da Matteo Piantedosi è arrivata a poche ore dal deposito di un’interrogazione parlamentare con cui la deputata dem Rachele Scarpa aveva chiesto “su quale base giuridica sia stato disposto il rimpatrio avvenuto da uno Stato extra-Ue come l’Albania, con modalità più simili a una consegna arbitraria che a un’operazione condotta nel rispetto del diritto”. L’esponente Pd reputa “inusuale” la rapida risposta a mezzo stampa e sottolinea come il ministero abbia evaso la questione principale: sono state violate le normative europee? La deliberata infrazione della direttiva rimpatri è più che un sospetto. La norma non prevede espulsioni da territori esterni all’Unione. Tanto che la Commissione Ue ha proposto un nuovo regolamento proprio per autorizzarle, aprendo ai “return hub”: centri di rimpatrio situati in paesi terzi. A rafforzare l’idea che si sia verificata una grave violazione del diritto comunitario c’è anche l’ordinanza con cui il 29 maggio, venti giorni dopo il fatto in questione, gli ermellini hanno espresso forti dubbi sul fatto che persino il solo trasferimento dal territorio nazionale a Gjader sia compatibile con le direttive. Perciò hanno interpellato la Corte di giustizia Ue. “Se il trasferimento dai Cpr italiani a quelli albanesi non risultasse possibile alla luce del diritto Ue, a maggior ragione non sarebbe legittimo il rimpatrio direttamente da quel paese”, afferma Silvia Albano, giudice del tribunale di Roma sezione specializzata in immigrazione e presidente di Magistratura democratica. Per il responso della Corte di Lussemburgo ci vorranno, nella migliore delle ipotesi, dei mesi. Intanto i parlamentari progressisti di Strasburgo vogliono sapere cosa ne pensa la Commissione. Praticamente tutti quelli eletti con Pd, 5S e Avs hanno firmato ieri un’interrogazione a risposta scritta rivolta all’istituzione presieduta da Ursula von der Leyen. “Considerato che la Commissione ha già dichiarato che la gestione extraterritoriale dei rimpatri non trova fondamento nel diritto Ue”, si legge, i deputati chiedono una valutazione legale sul rimpatrio che le autorità italiane hanno realizzato da Tirana. Sul piano interno il 16 maggio scorso, pochi giorni prima che il decreto che estende l’uso dei centri ai migranti “irregolari” fosse convertito in legge, il Garante nazionale dei detenuti aveva consegnato al Senato un parere in cui è scritto: sono “chiari gli ostacoli, a regime vigente, a ritenere possibile il rimpatrio degli espellendi dal territorio albanese”. Dopo che il primo caso è stato reso pubblico, però, l’istituzione di garanzia, informata dell’operazione, non ha espresso alcuna posizione. La questione è allo studio del collegio, che non ha ancora visitato il Cpr di Gjader. Avrebbe dovuto farlo tra maggio e giugno, ma l’ispezione è stata rimandata. Forse a settembre, ammesso che a quel punto nel centro d’oltre Adriatico sia rimasto qualcuno (al momento i trattenuti sono 28 e scenderanno ulteriormente visto il rinvio della Cassazione). Intanto alla commissione politiche Ue del Senato il governo ha fatto testacoda sulla proposta di nuovo regolamento europeo per semplificare i rimpatri. Nell’analoga sede della Camera aveva dato il via libera, mentre ieri la maggioranza ha votato una risoluzione per chiedere meno garanzie per i migranti: anche se l’impianto della norma è considerato positivo, le deroghe possibili sono poche, le valutazioni di vulnerabilità troppe, la copertura per il progetto Albania non sufficiente. “Il governo cambia idea perché si è accorto che il nuovo regolamento garantisce ai migranti il diritto a fare ricorso ai giudici, mentre Meloni vuole i rimpatri per direttissima”, affermano Pietro Lorefice e Gisella Naturale, componenti M5S della commissione del Senato. Per l’esecutivo italiano il sogno restano le deportazioni trumpiane. Droghe. Il modello Mantovano: repressione, stigma e propaganda di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 26 giugno 2025 La prefazione del sottosegretario plenipotenziario conferma che le droghe sono un’arma eccezionale per la narrazione securitaria, che offusca le reali priorità sanitarie e sociali. È stata trasmessa nei giorni scorsi dal Governo alle Camere la Relazione annuale sulle droghe. Il documento, curato dal Dipartimento per le Politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dovrebbe fornire una fotografia aggiornata del fenomeno delle dipendenze e dell’intervento pubblico nel nostro Paese. A colpire, ancora una volta, è il tono e l’impostazione della prefazione del Sottosegretario Alfredo Mantovano, che rappresenta a tutti gli effetti l’indirizzo politico del Governo sul tema, anche in vista della Conferenza sulle droghe di novembre. Una lettura che, pur rivendicando qualche intervento in più sul fronte dei servizi, conferma l’impostazione repressiva e moralizzatrice che caratterizza l’attuale maggioranza. Mantovano celebra l’azione delle forze di polizia e della magistratura contro il narcotraffico, segnalando un’”intensificazione del lavoro” che però - sottolinea - non ha comportato modifiche legislative. Omette così furbescamente di ricordare che il decreto Caivano, che aumentato le pene per i fatti di lieve entità per droghe, ha dispiegato i suoi effetti nell’intero 2024. Si conferma così l’approccio del Governo che insiste su un modello basato sul diritto penale e sull’intervento repressivo, evitando di mettere in discussione una normativa - il Testo unico del ‘90 - che da decenni produce più danni che benefici, come documentato dalla sedicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe, che proprio oggi viene presentato alla Camera. A trentacinque anni dall’entrata in vigore del Testo Unico sulle droghe, i numeri non lasciano spazio a interpretazioni: l’impianto repressivo disegnato dalla legge Jervolino-Vassalli non solo è ancora pienamente operativo, ma continua a produrre effetti devastanti tanto in termini sociali quanto penali. La fotografia scattata dall’edizione 2025 del Libro Bianco conferma - nei dati assoluti come nelle tendenze - quanto già denunciato nelle quindici edizioni precedenti: siamo di fronte a un fallimento annunciato, sistemico, strutturale. L’articolo 73, lo spaccio e lo spaccio di lieve entità in particolare, resta una macchina implacabile di ingresso nel sistema giudiziario e carcerario italiano. Porta in carcere oltre un terzo dei detenuti: così i numeri del sovraffollamento sono tali da evocare lo spettro della condanna per trattamenti inumani e degradanti, inflitta all’Italia nel 2012 dalla CEDU. Non è un caso. Come ripetiamo da anni, il nodo della questione è politico prima ancora che giuridico: il grosso della repressione penale passa dalle politiche sulle droghe, e senza un cambio di paradigma su questo fronte, ogni discorso sulla decarcerizzazione resta vuoto. Le simulazioni si confermano anno dopo anno: senza i detenuti per l’art. 73 o quelli dichiarati tossicodipendenti, il problema del sovraffollamento semplicemente non esisterebbe. È tempo di ammettere che questi non sono più “effetti collaterali” della normativa antidroga. Dopo 35 anni di applicazione, vanno letti per ciò che sono: effetti voluti, strumenti di controllo sociale, esiti di una precisa scelta politica. E come tali, vanno denunciati e contrastati. Il sottosegretario Mantovano rivendica un’azione potenziata nella prevenzione, in particolare nelle scuole, dove - si legge nella relazione del governo - aumentano le “iniziative di informazione sui danni delle droghe”. Sottolinea il coinvolgimento delle forze di polizia, addirittura “fin dalla scuola primaria” con concorsi a tema. Un’impostazione che trasforma la scuola in strumento di propaganda, più che in luogo di educazione critica e informata. Invece di promuovere politiche evidence-based e laica informazione, si ripropone un modello paternalistico e stigmatizzante, che ha dimostrato negli anni tutta la sua inefficacia. Il plenipotenziario di Meloni si attribuisce così anche il merito del calo dei consumi di sostanze fra gli adolescenti (dati Espad 2024). Peccato che i dati rimangono nell’intervallo statistico almeno ventennale e sono compatibili con quelli presentati nella relazione dello scorso anno, che all’inverso aveva giustificato l’allarme di Mantovano. Come non c’era allarme l’anno scorso, e l’aumento era relativo agli anni del Covid, non c’è da attribuirsi meriti oggi quando i dati sono leggermente in diminuzione. Conferma così che le droghe sono un eccezionale strumento per la narrazione securitaria, che rischia di offuscare le reali priorità sanitarie e sociali. Basta vedere quanto spazio è dedicato dal Governo al fentanyl, oggetto di un Piano nazionale varato nel marzo 2024. Si insiste sulla costruzione del pericolo imminente e si rivendica l’attenzione internazionale al modello italiano. Per fortuna l’evidenza epidemiologica non giustifica allarmismi: se è giusto monitorare e prevenire l’eventuale diffusione di oppioidi sintetici, occorrerebbe uscire da una logica emergenziale e frammentaria. I Livelli Essenziali di Assistenza della Riduzione del Danno (RdD) rimangono lettera morta, mentre, accecati dall’ideologia, manca una visione sistemica che possa davvero garantire diritti e percorsi efficaci di cura e riduzione dei rischi e dei danni. Leggere insieme Libro Bianco e Relazione del Governo è un buon esercizio di conoscenza, che conferma la necessità urgente di un cambio di paradigma. Serve una legge che superi definitivamente l’approccio proibizionista, fatto di stigma, marginalità e repressione. Serve investire nella riduzione del danno e sui diritti delle persone che usano droghe, restituendo ai servizi pubblici e del privato sociale dignità, risorse e autonomia professionale. Il Libro Bianco è promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD, ITANPUD, Meglio Legale, EUMANS e ICARO Volontariato Giustizia ODV. Il rapporto è scaricabile gratuitamente da fuoriluogo.it/librobianco. *Forum Droghe Droghe. I dati del Libro bianco: mai così tanti detenuti tossicodipendenti di Leonardo Fiorentini* L’Unità, 26 giugno 2025 Sempre più detenuti, sempre più “tossicodipendenti”. Salgono del +4,9% nel 2024 gli ingressi in carcere per droghe: un quarto (25,8%) sono causati dall’art. 73 del Testo unico, detenzione a fini di spaccio. Dei 61.861 detenuti in carcere al 31.12.2024, 13.354 lo erano a causa del solo art. 73. Altri 6.732 insieme con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico di droga), solo 997 esclusivamente per l’art. 74. Sommati rappresentano il 34,1% del totale: sostanzialmente il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Non ci sono mai stati in carcere così tanti detenuti definiti “tossicodipendenti”: vengono dichiarati tali il 38,8% di coloro che vi entrano, mentre a fine 2024 erano presenti 19.755 detenuti “certificati”, il 31,9% del totale. Il peso sulla giustizia - Sono quasi 210.000 i processi in corso per droghe al 31.12.2024. Anche se in calo per il quarto anno consecutivo, le persone con procedimenti penali pendenti per spaccio erano 162.828 (-4,4%), mentre aumentano quelle con procedimenti ex art. 74, 46.972 (+3,3%). La guerra alla droga è centrata sui pesci piccoli, la netta sproporzione tra persone con procedimenti pendenti ex art. 73 (80,1%) ed ex art. 74 (19,9%), lo testimonia. Gli stessi imputati e condannati ex articolo 74 del resto sono spesso ben lontani dal rappresentare il vertice della piramide criminale che gestisce il traffico nazionale e internazionale di stupefacenti. Aumenta la sfera penale - Che siano alternative al carcere o messa alla prova, la perenne crescita di queste misure amplia l’area del controllo piuttosto che limitare quello coattivo-penitenziario. Al 31.12.2024 erano infatti in carico per misure alternative e sanzioni di comunità 93.475 soggetti, quasi 10.000 in più rispetto al 2023 (+11,6%). Sommando il carcere si supera quota 150.000 persone sotto provvedimenti penali. Le segnalazioni sui consumi. Dal 1990 1,5 milioni di persone segnalate per uso di droghe. Nel 2024 sono al momento registrate 36.960 segnalazioni per mero consumo di stupefacenti (art. 75). Di queste circa il 38% finisce con una sanzione amministrativa (12.353), le più comuni la sospensione della patente (o il divieto di conseguirla) e del passaporto, anche in assenza di un qualsiasi comportamento pericoloso messo in atto dalla persona sanzionata. La repressione continua ad abbattersi sui minori: 3.722 adolescenti entrano così in un percorso sanzionatorio stigmatizzante, alla fine dei conti de socializzante e controproducente. La quasi totalità di questi (97,7%) è segnalato per cannabis. Risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al Prefetto: solo 410 persone sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; nel 2007 erano 3.008. Anche gli inviti a presentarsi al SERD continuano a diminuire (3.792). La repressione colpisce principalmente persone che usano cannabis (77,4%), seguono a distanza cocaina (15,8%) ed eroina (2,8%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990 1.463.442 persone sono state segnalate per possesso di droghe per uso personale, 1.074.754 di queste per derivati della cannabis. Droghe. Mai così tanti morti per cocaina, tra i più giovani cresce l’uso di psicofarmaci di Nadia Ferrigo La Stampa, 26 giugno 2025 La cannabis al primo posto, a partire dal 2021 c’è un incremento costante nel consumo di antidepressivi senza prescrizione medica. Nel 2024 per la prima volta il numero di persone morte per overdose da cocaina o crack ha superato il primato storico degli oppiacei. Nella “Relazione annuale del Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia pubblicato nel 2025” si registra che la cocaina “è una delle sostanze con l’impatto socio-sanitario maggiore”. Nello scorso anno il 35 per cento dei decessi direttamente accertati per intossicazione acuta letale è stato attribuito a questa sostanza, percentuale che risulta in progressivo aumento nel corso degli anni e che ha così raggiunto il suo massimo storico. La cocaina è responsabile del 30% dei ricoveri ospedalieri legati a droghe e tra gli utenti in carico dei SerD il 23% fa uso di cocaina come sostanza primaria e il 3,3% di crack. Le analisi delle acque reflue urbane rivelano che la cocaina è la seconda sostanza psicoattiva illegale più consumata in Italia con una stima media di circa 11 dosi al giorno ogni 1.000 abitanti, valore in leggero aumento rispetto agli anni 2020-2022. Ancor più di alcol e tabacco, la cocaina è inoltre la sostanza più associata al policonsumo. Lo scorso anno ne sono state sequestrate circa 11 tonnellate, un quarto delle sostanze sequestrate in tutta Italia. Se la cocaina guadagna terreno, al primo posto resta la cannabis: il 77% delle segnalazioni per uso personale, il 37% delle denunce per spaccio, il 13% degli utenti dei Servizi per le Dipendenze (SerD) la indica come sostanza primaria e il 7% dei ricoveri ospedalieri associati al consumo di sostanze. L’analisi delle sostanze stupefacenti nelle acque reflue urbane che arrivano ai depuratori ha evidenziato che cannabis e derivati restano le sostanze psicoattive più diffuse in Italia, con circa 52 dosi giornaliere ogni 1.000 abitanti, un dato stabile rispetto agli anni precedenti. Da evidenziare è inoltre il significativo aumento della concentrazione di Thc nei prodotti a base di hashish, la cui potenza è quadruplicata dal 2016 (dal 7% del 2016 al 29% del 2024). Nel complesso, partendo dai dati rilavati tramite lo Studio ESPAD®Italia 2024 che ha coinvolto 20.201 studenti tra i 15 e i 19 anni, si stima che quasi 910 mila giovani tra 15 e 19 anni, pari al 37% della popolazione studentesca, abbia consumato una sostanza psicoattiva illegale almeno una volta nella vita e 620 mila studenti, sempre tra i 15 e i 19 anni (25%), ne abbia fatto uso nel corso dell’ultimo anno. Il consumo di queste sostanze è più comune tra i ragazzi (28%) rispetto alle ragazze (22%) Alcol, tabacco e antidepressivi senza controllo medico - Il consumo di sostanze psicoattive tra i più giovani - rilevato nella Relazione con lo Studio ESPAD®Italia 2024, che ha coinvolto 20.201 studenti tra i 15 e i 19 anni dalle scuole secondarie di secondo grado distribuite su tutto il territorio nazionale - conferma “un quadro complesso e multiforme, che include tanto sostanze illegali quanto sostanze legali”. Nel 2024 si stima che oltre 500 mila studenti tra i 15 e i 18 anni non ancora compiuti abbiano fatto uso di tabacco, mentre quasi 360 mila hanno riportato almeno un episodio di intossicazione alcolica durante l’anno. Entrambi questi fenomeni mostrano una maggior prevalenza tra le ragazze. A partire dal 2021 si registra un incremento costante nel consumo di psicofarmaci senza prescrizione medica tra i giovani. Questa tendenza lo scorso anno ha raggiunto i valori più alti di sempre: se la stima è di 510 mila studenti di 15-19 anni che hanno fatto uso di queste sostanze senza prescrizione nel corso della vita, nella fascia 15-18 anni non ancora compiuti sarebbero 180 mila ad averne fatto uso solo nell’ultimo anno (il 12% del totale di quella fascia di età), con una prevalenza più che doppia tra le studentesse. Nel 2024 si sono registrati 8.378 accessi al pronto soccorso legati alla droga, con un calo del 2,5% rispetto al 2023. Le diagnosi sono suddivise in psicosi indotta da droghe (47%), abuso di sostanze senza dipendenza (46%), e dipendenza da droghe (7%). I SerD hanno assistito 134.443 persone, l’88% delle quali era già in trattamento negli anni precedenti. L’85% degli utenti è di genere maschile. Le sostanze primarie per cui è stato attivato il trattamento sono: oppiacei (59%, di cui il 56% eroina, mentre nel 1999 erano l’87%), cocaina (23%), cannabinoidi (13%) e crack (3,3%). Nel 2024 sono stati registrati 19.755 detenuti tossicodipendenti, il 96% di genere maschile e il 35% di nazionalità straniera, rappresentando il 32% della popolazione carceraria complessiva (erano il 29% nel 2023). Le persone tossicodipendenti entrate in carcere sono state 16.890, pari al 39% degli ingressi totali. L’anniversario dell’Onu inerte tra conflitti armati e sovranismi di Marina Castellaneta Il Manifesto, 26 giugno 2025 Ottanta anni fa, il 26 giugno 1945, a San Francisco veniva firmata la Carta delle Nazioni Unite. Oggi, nelle celebrazioni, l’organismo s’interroga sul proprio incerto futuro. Allora gli Stati guardavano uniti alla pace temendo un nuovo conflitto mondiale. Ora il solo 2024 ha visto 120 guerre: con diritti umani violati e catastrofi umanitarie. Canto del cigno, lenta agonia o occasione per rialzarsi dai fallimenti che hanno visto le Nazioni Unite affrontare, negli ultimi tre anni, la più grave crisi di credibilità della propria storia? In occasione dell’ottantesimo anniversario della firma della Carta delle Nazioni, avvenuta a San Francisco il 26 giugno 1945, l’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) si interroga sul proprio futuro. La Conferenza di San Francisco a cui parteciparono 50 Stati (oggi sono membri dell’Onu 193 Stati) era la realizzazione di un sogno basato sul valore della pace e della tutela della dignità dell’uomo espresse poi nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. A quel tempo, gli Stati guardavano al futuro e alla pace, con ideali da far valere, uniti per impedire che un nuovo conflitto mondiale potesse travolgere l’Europa e il mondo. Questo risultato, almeno formalmente e per ora, è stato raggiunto, ma i conflitti in corso nel 2024 hanno toccato il numero più alto di sempre: nel rapporto annuale sulla protezione dei civili nei conflitti armati, adottato il 15 maggio, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha evidenziato che sono stati ben 120 i conflitti, con catastrofi umanitarie e palesi violazioni del diritto internazionale umanitario che hanno causato “un immenso tributo umano”. È il caso della Striscia di Gaza che appare, allo stato, la più grave per il numero di civili colpiti. E proprio in questo disastro umanitario, l’Onu ha mostrato la sua incapacità nel prevenire e impedire il genocidio. Oggi, si cerca una rinascita. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha lanciato, per celebrare l’anniversario, l’iniziativa “UN80” con la quale punta a rilanciare l’Onu partendo dallo snellimento delle strutture, dal superamento di frammentazioni e duplicati di uffici e agenzie, concentrandosi su riforme strutturali. Non è ancora tempo, quindi, di un grande futuro dietro le spalle, ma certo sono indispensabili riforme. Al di là della roadmap tracciata dal Segretario generale, due sono i cambiamenti indispensabili: attribuire un ruolo decisionale ai Paesi del sud globale e modificare il sistema di voto del Consiglio di sicurezza che, se ingiusto sin dall’inizio con un potere pressoché incondizionato attribuito ai “big five” (Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito e Francia), diventa pericoloso se in mano ad autocrati. Un passo è stato fatto perché nel Patto per il futuro adottato nel 2024 (che include il Patto digitale globale e la Dichiarazione sulle generazioni future), per la prima volta dal 1963, gli Stati membri permanenti si sono mostrati d’accordo sulla riforma del Consiglio ed è stato così istituito il gruppo intergovernativo di negoziazione che dovrà discutere anche della proposta francese di impedire l’utilizzo del veto nel caso di massicce violazioni dei diritti umani. Un dato è certo: l’attuale disordine mondiale mostra anche che non vi sono altri soggetti in grado di attivare un percorso di pace. I singoli Stati possono poco e le altre organizzazioni come l’Unione europea mostrano di non credere ai valori che propugnano (basta guardare all’accordo Ue - Israele che continua a rimanere in vigore malgrado la violazione dell’obbligo di rispettare i diritti umani). I primi responsabili sono gli Stati forti della comunità internazionale e proprio i membri permanenti del Consiglio di sicurezza, con la Russia che ha aggredito l’Ucraina e con gli Stati Uniti che hanno bombardato l’Iran in violazione della Carta, fornendo aiuto a uno Stato - Israele - in flagrante violazione dell’articolo 2, paragrafo 4 della Carta che vieta l’uso della forza. Uno scenario già visto: nel lontano 1981, nel caso del raid israeliano contro un reattore nucleare iracheno, a fronte della giustificazione di Tel Aviv di una nozione ampia di legittima difesa, il Consiglio di sicurezza, nella risoluzione 481 adottata all’unanimità, condannò l’attacco israeliano giudicandolo in aperta violazione della Carta. Oggi il Consiglio di sicurezza è inerte per colpa degli Stati. Questi ultimi si trincerano, per eludere le proprie responsabilità, nell’inefficacia dell’Onu causata proprio dai Governi perché il sistema funziona solo se gli Stati rispettano le regole. Un’ulteriore prova è il caso del deferimento alla Corte penale internazionale, da parte del Consiglio di sicurezza, della situazione in Libia. Ebbene, malgrado il mandato di arresto emesso dalla Pre-Trial Chamber la Corte penale internazionale, nonostante l’attivazione da parte dello stesso Consiglio di sicurezza, è stata paralizzata dalla mancata cooperazione italiana che non ha arrestato AlMasri, in violazione dello Statuto della Corte e anche della risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, poi accusate di non funzionare. Così, proprio nel momento delle celebrazioni è evidente che le sorti dell’Onu sono in mano agli Stati. Con una certezza: è necessario un reale cambiamento di prospettiva e non basta un’operazione di make-up. Aumento delle spese militari, conto da 2.500 miliardi l’anno di Marco Bresolin La Stampa, 26 giugno 2025 Il dossier sull’aumento deciso dalla Nato: lo sforzo maggiore è per l’Ue, ma solo Berlino ha la forza economica per sostenerlo. Duemilacinquecento miliardi di euro l’anno: è la somma che gli Stati membri della Nato dovrebbero destinare agli investimenti in Difesa e Sicurezza per raggiungere il target del 5% del Pil fissato ieri al vertice dell’Aja. Dovranno arrivarci entro il 2035, quindi il valore reale in termini assoluti è destinato a essere ancor più alto perché sarà calcolato in rapporto al prodotto interno lordo, che aumenterà. Le spese saranno nazionali, ma nel frattempo resterà in vigore la clausola di difesa collettiva stabilita dall’articolo 5, come ribadito nella dichiarazione approvata ieri. Alla vigilia del vertice, volando verso l’Aja, Donald Trump aveva lasciato intendere di voler mettere in discussione l’articolo 5 del Trattato Atlantico, quello che prevede che “un attacco armato” contro ognuno degli alleati “sarà considerato un attacco contro tutti e di conseguenza” ciascuno “assisterà la parte attaccata intraprendendo immediatamente qualsiasi azione che ritenga necessaria”. A oggi l’articolo 5 è stato attivato soltanto una volta nella storia della Nato e a beneficio degli Usa, che hanno chiesto l’aiuto agli alleati dopo gli attentati dell’11 settembre. Sull’Air Force One, Trump aveva sollevato il tema dell’interpretazione di questo articolo, i cui contorni andrebbero “definiti” meglio. In quali casi un attacco fa scattare l’obbligo di mutua difesa? Vale solo in caso di un’aggressione convenzionale, come un’invasione armata, oppure può essere usato - per esempio - anche in caso di cyberattacchi? Rutte ha spiegato che “l’articolo 5 è molto chiaro, ma non possiamo entrare nei dettagli, spiegare se e quando viene attivato perché questo avvantaggerebbe i nostri avversari”. I leader europei sono tornati a casa rassicurati dal fatto che gli Stati Uniti non intendono voltare le spalle agli alleati, ma consapevoli che ora dovranno spendere di più. Dei 1.360 miliardi di euro investiti in campo militare dai Paesi Nato nel 2024, quasi 900 miliardi arrivano dalle casse degli Stati Uniti che ora vogliono un “riequilibrio”. In media, il contributo pro-capite di ogni cittadino americano alla Difesa è di 1.394 euro l’anno, mentre quello dei cittadini italiani è di 540 euro. L’impegno a portare le spese militari al 2% del Pil era stato sottoscritto al vertice Nato nel 2014, con l’obiettivo di raggiungerlo nel 2024. Ma non tutti gli Stati hanno tagliato il traguardo (l’Italia è tra i dieci che non ce l’hanno fatta). Ora è stato fissato un nuovo obiettivo decennale, ma non si potrà semplicemente rinviare lo sforzo: l’aumento di spesa dovrà seguire un percorso “incrementale”. La dichiarazione dice infatti che i governi dovranno “presentare piani annuali che mostrino un percorso credibile e graduale verso tale obiettivo”. Simbolicamente, il 5% sostituisce il 2%, anche se in realtà “soltanto” il 3,5% del Pil, vale a dire 1.750 miliardi a regime, dovrà essere destinato alle spese militari in senso stretto. Il restante 1,5% dovrà finanziare la “protezione delle infrastrutture critiche, la difesa delle reti informatiche, la preparazione civile e la resilienza, l’innovazione e il rafforzamento della base industriale della Difesa”. Nel 2029 verrà fatto un “tagliando” per ogni Stato. Il contributo dei Paesi dell’Ue alla Nato è nettamente inferiore a quello degli Stati Uniti, basti pensare che nel 2024 gli Stati Ue che fanno parte dell’alleanza hanno destinato alla Difesa 326 miliardi di euro (contro gli 894 americani). Una somma che equivale all’1,9% del Pil e che dovrà aumentare significativamente, anche perché la Russia destina alla Difesa una cifra il 9% del Pil e la Cina il 7,2%. In cima alla lista degli Stati Ue c’è la Polonia, che quest’anno supererà il 4,7%, ma la Germania è destinata a fare passi da gigante con il maxi-fondo che consentirà di mobilitare fino a 500 miliardi (dai 90 attuali). Dove troveranno le risorse gli Stati dell’Ue? Il piano ReArm Eu di Ursula von der Leyen punta a liberare 800 miliardi di euro nei prossimi quattro anni: 650 grazie alla flessibilità della clausola di salvaguardia del Patto di Stabilità e 150 con il programma Safe che metterà a disposizione prestiti a tassi agevolati per finanziare appalti congiunti. Ma già si discute di fonti aggiuntivi perché difficilmente si riuscirà a toccare quota 800 miliardi: soltanto 16 Paesi hanno attivato la clausola di salvaguardia (non l’Italia), mentre - secondo quanto risulta a La Stampa - solo dieci hanno manifestato interesse per i prestiti Safe: si tratta di Francia, Polonia, Portogallo, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Bulgaria e Grecia. Se Hiroshima è un vanto, l’America di Trump non ha memoria di Gianni Oliva La Stampa, 26 giugno 2025 “I raid in Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra”: Trump ha detto proprio così. Tra mille pagine della storia americana ha citato come merito le più controverse, le più agghiaccianti, quelle che tutti i suoi predecessori, repubblicani o democratici, hanno taciuto per rispetto o per pudore. A Hiroshima, il 6 agosto 1945, la bomba “Little Boy” ha spazzato via in un attimo 70 mila persone e raso al suolo l’intero centro cittadino; a Nagasaki, tre giorni dopo, la bomba “Fat Man” ne ha polverizzati più di 40 mila. Entro l’anno, i morti per ferite, ustioni, radiazioni sono stati un numero impressionante, calcolato tra le 150 e le 200 mila. Tutti civili: donne, uomini, bambini, anziani, infermi. Quanti siano stati esattamente non si sa, perché di molti di loro non restava nulla e non si potevano contare. Trump conosce questi numeri? Conosce questa storia? Di fronte a ciò che accade, non ha senso discutere del significato politico delle azioni. Come tanti, non ho mai avuto simpatia per gli ayatollah, per i terroristi di Hamas, per gli Hezbollah: ma qui non c’entrano le capacità nucleari dell’Iran o la strage del 7 ottobre. Quando si evoca Hiroshima come esempio, si rinnegano ottant’anni di storia successiva e l’esibizione della forza diventa l’unico metro di riferimento. Nessuno è così ingenuo da pensare che la forza sia una variabile secondaria: tutti sappiamo quanto sia fondamentale, dalla forza militare alla forza economica, alla forza finanziaria, alla forza psicologica. Ma la storia del mondo, dal 1945 in poi, ha visto lo sforzo di bilanciare la forza di pochi con la dimensione collettiva dell’agire. Proprio per evitare altri Hitler e altre Hiroshima. Per questo sono nati l’Onu, le corti di giustizia internazionali, i trattati multilaterali, i periodici incontri dei G7 e dei G20; per questo il diritto internazionale è stato approfondito, definito, modulato. Il mondo ha cercato la dimensione collettiva per impedire il ripetersi delle derive che avevano portato alla catastrofe del 1940-45. La politica di Trump è la negazione di questo percorso: disprezzo per i partner, chiunque essi siano; umiliazione dei più deboli; tracotanza del potere; linguaggio ruvido; nessuna considerazione degli organismi internazionali. E ora citazioni storiche che parlano più dei raid sull’Iran. Perché con il loro arsenale (bombe nucleari comprese) gli Usa possono fare cosa vogliono, annettere il Canada, occupare la Groenlandia, sacrificare l’Ucraina, e chissà cos’altro…. Trump è il leader di un paese democratico, eletto liberamente dai cittadini (peraltro, anche Hitler andò al potere con i voti liberi della democratica Repubblica di Weimar). Ma la democrazia di un Paese non si misura solo sui suoi modelli istituzionali: in questo pianeta globale e interdipendente, c’è una democrazia delle relazioni internazionali fatta di confronto e di dialogo, ai quali tutti sono tenuti, i più forti e i più deboli. E il confronto e il dialogo non si fondano sullo spettro di Hiroshima e Nagasaki. Mi piacerebbe chiedere alla presidente Meloni se durante la cena del vertice Nato, seduta al tavolo di Trump, è stata capace di ricordarlo al suo interlocutore, lei che nel maggio 2023 ha partecipato a un G7 convocato, non a caso, proprio a Hiroshima. Gaza. Le stragi del pane: 13 morti al giorno, Ghf sotto accusa di Lucia Capuzzi Avvenire, 26 giugno 2025 L’Onu denuncia 410 vittime da quando, un mese fa, la società creata da Usa e Israele è in funzione. L’esperto Yaakov: “Il sistema è pensato in chiave militare, non è costruito per soccorrere i civili”. Reem Zeidan pensava di essere stata fortunata. Alle 20 era uscita dalla sua tenda a Khan Yunis, nel sud della Striscia, dove era accampata da gennaio con le sue otto figlie. Per cinque ore aveva camminato di notte lungo la strada costiera fino all’ex allevamento ittico chiamato “Fish Fresh” a ridosso di uno dei centri della Gaza humanitarian foundation (Ghf). Ma ce l’aveva fatta. A differenza della settimana precedente, stavolta era arrivata quando era ancora buio e i battenti della struttura chiusi. Sarebbe riuscita a prendere qualche sacco di farina prima che finisse. Era in attesa quando, intorno, sono cominciati gli spari. L’esercito israeliano, nei paraggi del compound, ha detto di aver aperto il fuoco di fronte a una minaccia. Reem è stata raggiunta da un proiettile mentre fuggiva ed è morta sul colpo. Quel 3 giugno, secondo le autorità sanitarie locali controllate da Hamas, 27 civili affamati sono stati uccisi mentre erano in fila per il cibo. Una delle quotidiane “stragi del pane” dall’avvio delle operazioni della Ghf, nonprofit registrata in Svizzera e Usa, a cui Israele ha appaltato il sistema di assistenza umanitaria a Gaza dal 26 maggio scorso, dopo 80 giorni di blocco. Il modo - nell’ottica di Benjamin Netanyahu esposta all’ultima Assemblea generale dell’Onu - di “togliere ai terroristi la leva degli aiuti”, tagliando fuori l’Onu e le altre organizzazioni indipendenti, “troppo morbide”. La dimostrazione - non si stanca di ripetere il premier e gli alleati dell’ultradestra - sarebbero stati i frequenti saccheggi dei convogli. Così Hamas si sarebbe impossessata delle scorte per rivenderle o regalarle in cambio di fedeltà. Nei tunnel dei miliziani, però, non sono stati trovati concentrati di vettovaglie. A venire a galla, invece, è stato il sostegno di Israele al clan beduino di Yasser Abu Shabab, responsabile di numerosissimi attacchi ai camion umanitari. In ogni caso, dal 19 maggio, a Onu e Ong è stato consentito di far entrare solo piccole quantità: “novemila tonnellate metriche di generi di prima necessità”, secondo quanto precisato dal Programma alimentare mondiale (Pam). Al resto pensa Ghf la cui logistica e sicurezza sono garantite dalla Safe reach solutions, guidata dall’ex 007 della Cia, Phill Reilly, e dalla sua società di contractor Ug solutions, che si avvale di veterani statunitensi in assetto da combattimento. “Così il cibo per i civili viene trasformato in arma”, ha detto in un duro comunicato, lunedì, l’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ocha). Un’arma letale: sempre secondo l’Onu, a un mese esatto, oggi, dall’inizio delle attività, almeno 410 persone sono state ammazzate e 3mila ferite nell’intento di raggiungere un punto di distribuzione di Ghf. Una media di tredici vittime al giorno che si sommano a quelle del conflitto: 74 ieri: trentatré di loro erano gazawi in cerca di soccorsi. Una tragedia a cui il Consiglio Europeo di questa settimana, nel rinviare la decisione sulla possibile adozione di sanzioni, ha chiesto di porre rimedio. Gli Usa, al contrario, come anticipato da Reuters, hanno appena varato, in piena era di tagli alla cooperazione, un finanziamento di 30 milioni di dollari a Ghf attraverso l’Agenzia per lo sviluppo internazionale. Il tutto con una procedura d’urgenza in modo da evitare mesi di controlli da parte del dipartimento di Stato. Una prima tranche da 7 milioni sarebbe stata già erogata. Poi, nel prossimo futuro, potrebbe aggiungersi un contributo fisso mensile di 30 milioni alla fondazione che molti media hanno definito “una trappola mortale”. “Non mi sorprende che lo sia diventata. Fin dal primo esame della posizione e delle caratteristiche dei centri, mi sono reso conto che erano presenti tutte le condizioni perché non potesse funzionare - spiega ad Avvenire, Yaakov Garb della Ben Gurion University -. Il modello è strutturato all’opposto di quello impiegato per l’assistenza umanitaria nelle zone di conflitto”. Invece di decentrare in centinaia di punti l’assistenza, come era prima nel modello Onu, la accentra. “Risponde, così, a una logica di protezione del personale e delle scorte, non di soccorso alla popolazione”. Il sociologo, a partire dall’analisi della geografia umana e spaziale della Striscia, ha realizzato uno degli studi più accurati sul funzionamento della Ghf: il primo rapporto, basato sui primi giorni di operazioni, è stato diffuso il primo giugno scorso. A breve uscirà il bilancio aggiornato. E non sarà positivo. “Beh, i risultati parlano da soli. C’è una ragione se l’Onu e le Ong ne sono volute restare fuori”. I quattro centri funzionanti di Ghf si trovano uno nella parte centrale e tre nel sud, nell’area tra Morag e Tel Sultan. Tutti sono quasi impossibili da raggiungere per l’oltre un milione di abitanti di Gaza City - la maggior parte degli abitanti della Striscia - poiché sono situati a sud del corridoio Netzarim. Solo chi è allo stremo corre il rischio di attraversare una zona definita “cuscinetto”, in precedenza evacuata dall’esercito israeliano”, afferma l’esperto. I 350mila residenti del centro e i 700m del sud di Gaza, inoltre, “devono comunque passare per aree di combattimento - conclude. Oltretutto a piedi, data la carenza di trasporti e carburante”. Chi arriva, poi, trova i centri presidiati dai contractors. E, nelle adiacenze, istallazioni militari. Quanti si accaparrano un pacco nella calca - non c’è un modo di registrazione trasparente - devono fare i conti con gli stessi saccheggiatori che il sistema Ghf avrebbe dovuto eliminare. La Fondazione, da parte sua, si dice “orgogliosa” di avere distribuito 44 milioni di pasti e che l’erogazione continua “senza incidenti di rilievo”. I suoi contractor, in effetti, finora, confermano fonti ben informate, non hanno sparato un colpo e all’interno delle istallazioni non ci sono state vittime. I morti restano fuori.