Sovraffollate e senza educatori. “Le carceri minorili sono allo sfascio” di Ilaria Beretta Avvenire, 25 giugno 2025 Gli esperti: “I ragazzi non sono più violenti ma il sistema ha cambiato mentalità”. Il fiore all’occhiello del sistema penitenziario italiano sta sfiorendo e “le carceri minorili si stanno trasformando in luoghi di abbandono”. È questo l’allarme che per l’ennesima volta ha sollevato ieri l’associazione Antigone, insieme a Defence for Children e Libera e ribadito durante il recente convegno “La crisi della penalità minorile: cause profonde e strategie per il cambiamento” organizzato da Antigone Emilia-Romagna che dalla regione allarga lo sguardo e consegna uno spaccato nazionale dello stato degli istituti per minorenni (Ipm) oggi caratterizzati - esattamente come le carceri per adulti - da sovraffollamento, mancanza di personale e strutture fatiscenti. Il caso simbolo è proprio l’Ipm Pratello di Bologna, da cui da tre mesi alcune decine di giovani adulti tra i 18 e i 25 anni sono stati trasferiti in una sezione della Dozza, il carcere per adulti della città, nonostante le perplessità degli addetti ai lavori. “Personalmente - sostiene Ettore Grenci, referente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna - avevo visitato l’istituto sette anni fa e l’avevo trovato ben messo. Qualche settimana fa invece Antigone lo ha trovato in condizioni fatiscenti…”. E solo la denuncia dell’associazione ha smosso un po’ le cose, mobilitando una pulizia straordinaria e interventi di manutenzione urgenti con la sostituzione dei materassi. “Muri sporchi di cibo o di chissà cos’altro, colate di liquidi ripugnanti, bucce di banana, di mandarino, fili elettrici a vista strappati dal muro, involucri di ogni tipo che nessuno raccoglie, cicche di sigaretta, uno strato di nera polvere ovunque. Mancano spazi comuni, le celle sono inadeguate, i bagni intasati e c’è persino una stanza con una finestra senza vetro” spiega la presidente di Antigone Emilia-Romagna Giulia Fabini che ha visitato l’istituto insieme alla coordinatrice dell’associazione, Susanna Marietti. Una tragicità tutt’altro che eccezionale e che in modo simile si ripete - è l’opinione dei vari relatori - nel resto delle 17 strutture minorili italiane. Nel 2024 le presenze negli Ipm sono passate da 400 a 600 e oggi gli istituti al collasso sono nove con Treviso che sfiora il doppio delle presenze e il Beccaria di Milano e l’Ipm di Quartucciu a Cagliari dove il tasso di sovraffollamento tocca addirittura quota 150%. “In molti territori, come il nostro, c’è difficoltà di un’alternativa perché mancano le comunità oppure ci si trova di fronte a difficoltà di collocamenti alternativi” spiega Nicola Palmiero, direttore del Centro per la giustizia minorile di Emilia-Romagna e Marche. Ma secondo il professore dell’Università di Milano Roberto Cornelli non si tratta soltanto di accidenti momentanei bensì di una precisa tendenza. Spiega il docente: “Il sistema penale minorile - normato dal Dpr 448 del 1998 - è stato un grande esperimento sociale teso a dimostrare che il carcere poteva essere solo l’estrema ratio. La sua nascita, in Italia, è stata resa possibile da uno sguardo sull’infanzia, nuovo all’epoca, che si è imposto nel Novecento, da una progressiva umanizzazione delle carceri e dalla consapevolezza dell’effetto criminogeno delle celle. Tutto ciò ha fatto sì che, alla fine degli anni Ottanta, la penalità minorile fosse regolata in un certo modo, con percorsi educativi che in parte rinunciavano alla punibilità nei confronti dei minori a favore della loro reintegrazione sociale”. Dagli anni Novanta si è assistito a una svolta punitiva sia dal punto di vista politico e normativo (con oltre trecento nuovi reati aggiunti negli ultimi trent’anni) sia culturale, che non ha risparmiato i minorenni. Anche se dal 2002 al 2023 c’è stata una riduzione decisa dei minorenni e giovani adulti segnalati all’autorità giudiziaria, il tema della devianza giovanile è diventato sempre più centrale. E gli Ipm sono tornati in campo come l’unica soluzione per correggerli. “I giornali parlano ogni giorno di baby gang - aggiunge Stefania Crocitti, ricercatrice dell’Università di Bologna che ha studiato il fenomeno anche con quaranta interviste in Emilia-Romagna - ma in realtà ci siamo resi conto che le pratiche di socializzazione più diffuse non sono riconducibili alla devianza. I gruppi di “ragazzi di strada”, che provengono dalle periferie, si incontrano nei parchi, negli spazi pubblici o nelle piazze, spesso anche nei centri delle città o fuori dai luoghi di divertimento. Stanno insieme con comportamenti che sono trasgressivi nel 12% dei casi e si trasformano in vere e proprie bande solo nel 6% tanto che le statistiche degli under 25 denunciati e arrestati in Italia parlano di numeri ben al di sotto della media europea e di un andamento decrescente o stabile tra le varie annate”. Il sovraffollamento avrebbe dunque altre ragioni. Secondo Grenci parte della responsabilità è la cancellazione dell’istituto della messa alla prova che sui minorenni ha sempre dato buoni risultati e che invece il decreto Caivano ha precluso per alcuni reati. “Il legislatore ha spostato l’attenzione sulla repressione più che sulla prevenzione e sulla finalità educativa: oggi si è passati dalla tutela del minore alla tutela dal minore”. Carcere e silenzi, al fianco di Michele Passione societadellaragione.it, 25 giugno 2025 La Società della Ragione esprime profonda preoccupazione per le dimissioni dell’avv. Michele Passione dall’incarico di legale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Come Società della Ragione abbiamo appreso con molta preoccupazione delle dimissioni dell’avvocato Michele Passione dal suo incarico di legale del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Conosciamo bene la dedizione ed il rigore, oltre che la professionalità, con cui l’avv. Passione, componente storico della nostra Associazione, ha condotto il suo incarico, in questi lunghi dieci anni di intensa attività, non solo in sede giudiziaria, in processi significativi, come quello di Santa Maria Capua Vetere, ma anche accompagnando il Garante come esperto, durante le visite nelle carceri, così come in tutti i luoghi di detenzione, compresa quella amministrativa. L’avvocato Passione ha denunciato non solo che, con l’ingresso dei nuovi componenti, le visite alle carceri sono sempre più ridotte, ma che, soprattutto, non si farebbero più visite “a sorpresa”: quelle senza preavviso, con équipe di giuristi, psicologi e medici che controllano concretamente le condizioni di detenzione. Queste modalità non appaiono compatibili con il ruolo del Garante dei detenuti: salvaguardare i diritti fondamentali dei detenuti, nel pieno rispetto delle regole e dell’umanità. In alcuni casi, inoltre, le visite non sono proprio avvenute, come quella presso i Centri di detenzione in Albania, dove l’attenzione del Garante dovrebbe essere massima nel vigilare il rispetto dei diritti umani all’interno delle strutture. A questo si accompagna, fra l’altro, la scomparsa di un atto fondamentale quale la relazione al Parlamento, nel “silenzio assordante” dei più. Una mancanza che l’avvocato Passione avrebbe “segnalato” in diverse occasioni, con lettere senza risposta, che si sono sommate a relazioni ignorate, mancanza di interlocuzione e “nomine riassegnate all’insaputa del diretto interessato”. La situazione drammatica in cui versano le carceri italiane è sotto gli occhi di tutti. Questa vicenda non può e non deve essere letta come una questione di poco conto, legata alle vicissitudini personali di un difensore non più “in sintonia col proprio cliente”. Le ragioni, gravi e circostanziate, con cui l’avv. Passione ha motivato la sua sofferta scelta, non possono essere ignorate e richiedono una risposta, in tempi rapidi, da parte del Ministro Nordio, interrogato sulla questione a riferire in Parlamento. Dal canto nostro, come Società della Ragione, monitoreremo, con estrema attenzione, le scelte che verranno compiute nel futuro prossimo con riguardo al proseguo dell’attività processuale, in cui il Garante si è costituito parte civile nei processi in corso (come Santa Maria ma anche Verona, Reggio Emilia, Firenze Sollicciano e San Gimignano). Minore in carcere a Locri. Il giudice lo sa e se ne frega di Angela Nocioni L’Unità, 25 giugno 2025 Saha Alam è in un carcere per adulti dal 13 agosto, il gip ha ricevuto il certificato di famiglia e l’atto di nascita (tradotto) il 3 marzo. Il ministro manderà una ispezione in Calabria? È minorenne, oltre che innocente. È nato l’8 febbraio del 2008. Dall’agosto dell’anno scorso è rinchiuso in un carcere per adulti e stamattina andrà davanti a un tribunale ordinario. I giudici sanno che è minorenne, lo sanno almeno dal 3 marzo, ma il minore è stato lasciato nelle celle tra adulti e comparirà ugualmente davanti a un tribunale ordinario. Succede in una remota repubblica centroafricana? No, a Locri. Stamattina Saha Alam, un ragazzino del Bangladesh accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina perché indicato alla Guardia di finanza allo sbarco come scafista insieme ad altri tre (due di loro hanno patteggiato) da quattro migranti della stessa barca di 9 metri in cui viaggiavano dalla Libia in 23, comparirà per l’udienza preliminare al Tribunale di Locri. Elementi evidenti dimostrano la sua innocenza. Innanzitutto uno dei due migranti che hanno ammesso di esser stati al timone - perché costretti da libici armati - dice che il ragazzino era un passeggero come gli altri ed è pronto a ripeterlo in tribunale. Quindi l’avvocato difensore, Giancarlo Liberati, ha rifiutato il patteggiamento. Ma il punto è che il gip ha ricevuto il 3 marzo scorso il certificato di famiglia e l’atto di nascita del ragazzo (i documenti li vedete a pagina 6). E cosa è successo in questi tre mesi e mezzo? Niente. Nell’istanza per l’accertamento dell’età depositata il 3 marzo viene pregato “l’illustrissimo Giudice delle Indagini Preliminari di voler ordinare gli accertamenti che saranno ritenuti necessari per verificare l’effettiva età di Salah Alam disponendo che venga sottoposto agli esami previsti dalla normativa nazionale e sovranazionale anche attraverso la nomina di uno o più consulenti medici qualificati e specializzati in materia di genetica forense”. Eppure nessuno dal Tribunale di Locri è andato a cercare quel ragazzino sepolto illegalmente in cella tra adulti. Racconta l’avvocato Liberati: “Quando ho visto per la prima volta Saha in carcere gli ho chiesto: scusa, ma quanti anni hai? E lui mi ha detto subito che è nato l’8 febbraio del 2008, ma si vede a occhio che è più piccolo dell’età dichiarata sul passaporto. Mi ha detto: ‘Nel mio passaporto risulto maggiorenne perché dal Bangladesh non mi avrebbero fatto uscire altrimenti, io dovevo andare a lavorare in Libia e quindi abbiamo falsificato il passaporto’. Allora mi rivolgo al gip: ‘guardate che questo è minorenne’. Il gip dice: ‘Ha ragione avvocato, ma io trasmetto queste carte al pm’. Sollevo la questione, spiego perché nel passaporto c’è scritta come data di nascita 1.01.2004 e la risposta della pm Valentina Antonuccio è: ‘allora ha commesso un altro reato che è la falsificazione di documenti’. Lui va davanti a un tribunale ordinario e non importa nulla a nessuno”. Sulle coste calabresi arrivano migranti anche dalla rotta libica, non solo da quella turca. È una nuova rotta che dalle coste libiche non punta a Lampedusa, ma più a nord. Quel barchino intercettato il 13 agosto dalla Guardia di finanza a dieci miglia dalla costa italiana viaggiava con un satellitare a bordo e solo due bottiglie d’acqua. Si legge nella convalida d’arresto dei quattro migranti accusati: “Bakkar Abu ha raccontato di essere stato costretto a mettersi alla guida dell’imbarcazione da due appartenenti alla cosiddetta mafia libica di nome Sharif e Firus, i quali, dopo avere riscosso da lui una prima somma equivalente ad euro 2.000,00 e una seconda somma pari ad euro 1.600,00, lo hanno condotto fino all’imbarcazione e, per convincerlo a salire, lo hanno aggredito. Sarker Md Kamal Uddin ha riferito di una vicenda ancor più cruenta. Anche lui ha raccontato di essere stato vittima di libici malavitosi che, dopo averlo tenuto segregato in una sorta di prigione per quattro/cinque giorni e avergli sottratto, con la violenza, tutti i soldi che aveva con sé (circa duemila euro), lo hanno condotto fino all’imbarcazione e, minacciandolo con una pistola, lo hanno costretto a salire e ad occuparsi della guida. A tale ultimo riguardo, ha precisato che lì in mezzo è stato condotto per tutta la traversata solo dal Bakkar poiché lui non è in grado di guidare un natante, tanto che si è limitato a reggere il timone per appena cinque minuti, a pilota automatico inserito, solo per consentire al Bakkar di dedicarsi ai bisogni fisiologici. Anche Saha Alam ha raccontato di essere stato vittima di sequestro di persona, ma ad opera della polizia libica, il cui obiettivo era quello di estorcergli del denaro. Ma, non disponendo lui di alcuna risorsa economica, veniva ceduto alla mafia locale. Quest’ultima, dietro minaccia, lo costringeva a salire sull’imbarcazione e ad occuparsi della rotta utilizzando il navigatore satellitare che gli veniva consegnato. Younus Md ha offerto una narrazione sostanzialmente sovrapponibile a quella del Saha, ma in più ha precisato che, una volta portato alla nave dai malavitosi libici, questi lo hanno aggredito fisicamente con così tanta violenza che egli è rimasto completamente tramortito e privo di sensi per i primi due giorni di navigazione”. Le conclusioni tratte dal gip: “Le dichiarazioni rese dagli indagati hanno palese inverosimiglianza. Ed infatti, ciascun indagato ha riferito di essere stato condotto sull’imbarcazione dietro minaccia di morte, con l’uso di armi o addirittura dietro violenza fisica, ma una circostanza tanto eclatante non è nemmeno stata accennata dai quattro informatori sentiti, che, avendo tutti dichiarato senza incertezze di essersi imbarcati prima dei quattro indagati, avrebbero avuto modo di avvedersi delle vessazioni loro inflitte dagli organizzatori rimasti sulla terraferma. Inoltre, se davvero l’aggressione fisica riservata a Younus Md è stata così efferata da provocargli uno svenimento durato ben due giorni, si fatica a comprendere come i quattro informatori non si siano potuti accorgere della presenza sul mezzo, per ben due giorni consecutivi di navigazione, di un passeggero totalmente privo di conoscenze. Peraltro, se davvero Younus Md fosse stato vittima delle ripetute violenze fisiche descritte, egli dovrebbe ancora riportare delle tumefazioni al volto e al resto del corpo che invece, stando a quanto direttamente percepito anche da questo Giudice nel corso dell’udienza di convalida, si presentano totalmente intatti. Di conseguenza, allo stato sussistono gli elementi per ritenere che gli odierni fermati abbiano condotto l’imbarcazione, trasportando numerosi migranti dalle coste della Libia fino a quelle italiane, consentendone l’approdo illegale sul territorio nazionale, condotta, questa, che rientra a pieno titolo nella nozione di trasporto di stranieri onde procurarne illegalmente l’ingresso in territorio italiano. La condotta contestata risulta, altresì, connotata dalle aggravanti: dell’essere stato determinato l’ingresso nello Stato di cinque o più persone; dell’esposizione al pericolo per la vita o l’incolumità e della sottoposizione a un trattamento inumano e degradante, integrate in ragione del sovraffollamento del natante, non strutturato per ospitare un siffatto numero di passeggeri, della totale assenza di presidi di soccorso e dell’altrettanto totale mancanza di scorte di cibo e di acqua; del concorso di tre o più persone nel reato”. Non è chiaro sulla base di quali elementi concreti il giudice fondi la seguente considerazione: “Va evidenziato che, in considerazione della più articolata dinamica del viaggio intrapreso emersa con chiarezza dalle convergenti dichiarazioni dei sommari informatori, gli odierni indagati non rappresentano che un tassello intermedio di una più estesa e complessa rete di trafficanti di esseri umani, che si avvale anche di complici presenti sulle coste di partenza, con l’incarico di regolare l’afflusso dei migranti sull’imbarcazione principale da terra e, talvolta, di riscuotere le ingenti somme di denaro pretese”. Tasselli intermedi di una complessa rete di trafficanti? Definiti tali sulla base di quali prove? Non è una deduzione basata su fatti concreti questa. È una illazione, una ipotesi non provata. L’atto di nascita di un minorenne e il certificato di famiglia che lo conferma tale, invece, sono fatti. Ignorati per ora dal Tribunale di Locri. Sisto: “Ecco tutte le bufale dell’Anm sulla riforma della giustizia” di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 giugno 2025 Il viceministro della Giustizia smonta una per una le principali argomentazioni mosse dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma costituzionale: “Il pm resterà indipendente, anche Falcone era favorevole alla separazione delle carriere”. “I magistrati vincono un concorso ed emettono sentenze in nome del popolo italiano. Il governo e il Parlamento hanno invece un mandato a governare il paese. Sentir dire dall’Associazione nazionale magistrati che la magistratura, secondo i sondaggi, ha più consenso del governo e del Parlamento mi preoccupa molto. Mi dà l’idea di una magistratura che non ha ben chiara la separazione dei poteri e che, in qualche modo, vuole fare politica”. Lo dice al Foglio il viceministro della Giustizia, Francesco Paolo Sisto, protagonista lo scorso fine settimana di un vivace botta e risposta in un dibattito pubblico con il segretario dell’Anm Rocco Maruotti, incentrato sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere e non solo. Per dare maggiore credito all’opposizione dell’Anm nei confronti della riforma, Maruotti ha evidenziato come secondo l’ultimo rapporto Eurispes la magistratura goda di maggiore fiducia dei cittadini rispetto al governo. “Ferma la mia stima per il dott. Maruotti, penso che sia molto preoccupante il tentativo di porre la magistratura sullo stesso piano di un governo e un Parlamento che hanno ricevuto il consenso dei cittadini per governare il Paese”, ribadisce il vice di Nordio. Nell’intervista al Foglio, Sisto smonta poi una per una le principali argomentazioni mosse dall’Anm contro la riforma costituzionale. Secondo Maruotti, la riforma è nata dopo lo scandalo della giudice Apostolico. “Si è perso qualche capitolo di storia importante. La riforma nasce da lontano. A partire da Matteotti nel 1911, passando per i padri costituenti, come Chiaromonte, Terracini, Moro, Vassalli, Carnelutti, Calamandrei, Bissolati, Merlino, Turati, fino ad arrivare a Falcone, senza dimenticare la trentennale battaglia di Forza Italia: tutti sostenevano la necessità della separazione delle carriere”. Per l’Anm la riforma riduce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ponendo il pm sotto il controllo del governo. “La sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo, paventata dall’Anm, non esiste. Il nuovo articolo 104 della Costituzione rimane così com’è nella parte che riguarda l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. Si inventano fantasmi per spaventare il pubblico”. Altro argomento dell’Anm: la separazione delle carriere esiste già, perché sono meno di 20 i magistrati che ogni anno passano di funzione (da pm a giudice e viceversa). Corollario: se l’obiettivo era la separazione delle carriere lo si poteva fare tramite legge ordinaria. “Il passaggio di funzioni non c’entra niente con la separazione delle carriere. Il cittadino che entra in un’aula di giustizia ha il diritto di vedere un giudice equidistante dalle parti, che quindi non ha nessun legame di parentela né con chi accusa né con chi difende, come previsto dall’articolo 111 della Costituzione. La terzietà significa diversità. Di conseguenza occorreva intervenire con una riforma della Costituzione: si tratta di ristrutturare la geometria del processo, separando geneticamente e culturalmente chi accusa da chi giudica, con un conseguente doppio Consiglio superiore per requirenti e giudicanti. E certo non si potevano istituire con legge ordinaria”. Il sorteggio dei componenti togati delegittima il Csm e lo indebolisce. “Il sorteggio è come il cortisone: è un salvavita indispensabile, con degli effetti collaterali. Ciò che è accaduto è sotto gli occhi di tutti. Bisogna liberare i giudici dalle correnti. Occorre evitare che le correnti diventino cordate e che possano predeterminare le nomine al Csm”. Vi accusano di aver negato il dibattito parlamentare sulla riforma. “Anche qui c’è un difetto di memoria e di conoscenza delle procedure parlamentari”, ribatte Sisto. “La riforma è rimasta in commissione Affari costituzionali della Camera per due anni. È stata oggetto di numerosissime audizioni: l’Anm più volte, docenti, avvocati, esperti di tutti i tipi. Dopo due anni il governo ha tirato una linea e ha elaborato un provvedimento che ha sottoposto prima al Cdm e poi alle Camere, che hanno tutto il diritto di votarlo senza modifiche, se lo condividono”. “Palamara è stato cacciato dalla magistratura, Delmastro è stato condannato a otto mesi in primo grado e ve lo siete tenuto bellamente come sottosegretario”, le ha rinfacciato Maruotti. “Noto un’ulteriore amnesia costituzionale. L’articolo 27 stabilisce che si è considerati colpevoli soltanto con la sentenza definitiva di condanna. Il rischio è che qualcuno ritenga che la magistratura sia il correttore etico della politica, a prescindere dalle regole del gioco e dal valore del consenso dei consociati. Questo sarebbe drammatico, perché significherebbe stravolgere completamente ciò che la Costituzione prevede. Dato che, come ripeteva il mio maestro Renato Dell’Andro, tutti i moralizzatori finiscono per essere poi moralizzati, consiglierei, anche all’Anm, di evitare rischi di tal genere”, conclude Sisto. Carriere separate anche per gli avvocati. L’idea delle toghe di Giulia Merlo Il Domani, 25 giugno 2025 Nel testo approvato all’Assemblea generale di Cassazione c’è anche la proposta di separare chi patrocina il merito e chi difende davanti alla Cassazione. Se si separano giudice e pubblico ministero, allora è lecito pensare un qualche tipo di distinguo anche tra gli avvocati. È questa ipotesi che sta agitando i legali, tanto più che non viene da un pulpito qualsiasi ma dall’Assemblea generale di Cassazione. Evento più unico che raro è stato organizzato dalla Prima presidente Margherita Cassano il 19 giugno, all’indomani dell’approdo in Senato della riforma costituzionale della separazione delle carriere. Formalmente si è trattato di un evento per far riflettere la magistratura di legittimità sulla funzione nomofilattica della Suprema corte davanti alle massime cariche dello Stato, presidente della Repubblica in prima fila. In controluce, però, sono emersi tutti i riferimenti ai rischi della riforma in corso e un invito a ritrovare il dialogo tra poteri. La proposta - Tra questi, nel documento finale nella parte in cui si indicano le necessità su cui richiamare l’attenzione del parlamento e del Governo, si legge al punto 9: “Introdurre una nuova disciplina delle modalità di accesso all’albo speciale per il patrocinio davanti alle giurisdizioni superiori. Una opportuna innovazione potrebbe riguardare la separazione categoriale tra gli avvocati legittimati a difendere nei giudizi di merito e quelli che scelgano di esercitare la professione nel solo giudizio di legittimità, ove sono richieste una preparazione tecnica ed una esperienza particolari, in rapporto alla specificità del giudizio di cassazione acritica vincolata”. In altre parole, la proposta della magistratura di cassazione è di dividere gli avvocati tra chi patrocina solo in primo grado e in appello e chi in cassazione. La logica è che i primi due gradi riguardano il merito, il terzo invece si concentra solo sulla corretta applicazione della legge. Attualmente convivono due sistemi: l’avvocato accede all’albo speciale dei cassazionisti dopo otto anni di esercizio effettivo della professione, la frequenza ad un corso di formazione e il superamento di un esame finale. Grazie a ben tredici proroghe votate in parlamento, però, chi matura i 12 anni di iscrizione all’albo degli avvocati entro il 2 febbraio 2026 può ancora diventare cassazionista con il solo requisito dell’anzianità. Un riferimento a cui la Cassazione potrebbe essersi rifatta per la proposta - pur con le dovute differenze tra sistema di common law e di civil law - sarebbe quello con i sollicitor e barrister nel Regno Unito. “La riserva a proporre ricorso per cassazione e a rappresentare la parte nel giudizio di legittimità creerebbe un corpo di difensori altamente specializzati, idonei, per le loro specifiche e accertate competenze, a migliorare il livello qualitativo dei ricorsi proposti e ad assicurare l’effettività delle tutele”, si legge come motivazione nel documento di cassazione. Le reazioni - Il documento è girato di mail in mail tra avvocatura associata e istituzionale, provocando contrarietà con due obiezioni principali: l’avvocato è un professionista privato e dunque la sua carriera si delinea diversamente rispetto a quella della magistratura: per abilitazione e non per concorso. La proposta della Cassazione sarebbe un “attacco all’avvocatura per aver osato insistere sulla loro separazione delle carriere”, è la riflessione che circola tra gli avvocati, soprattutto penalisti. Una visione, questa, allontanata dal Consiglio nazionale forense. “Spero e credo che così non sia - è il commento del presidente, Francesco Greco - vista anche l’alta sede istituzionale da cui proviene il documento”. Greco si è detto “favorevole a prevedere che solo l’avvocato che abbia seguito un percorso qualificante e superato un esame possa essere abilitato al patrocinio in Cassazione, smettendo con le proroghe sull’anzianità”, invece “contrario alla creazione di un albo separato sulla falsariga del sistema britannico”. Anche dalla Cassazione arriva un segnale di abbassamento dei toni. L’auspicio è quello di rafforzare il percorso per patrocinare davanti alla Suprema corte - viene spiegato - visto che si tratta di un giudizio altamente tecnico e oggi oltre il 40 per cento dei ricorsi nel penale finiscono in Settima sezione, che valuta l’inammissibilità. Una ipotesi, dunque, nata quindi nell’ottica di migliorare la qualità complessiva del giudizio di cassazione, non per attaccare i legali. Giustizia, AIGA: “Separazione delle carriere, stop a litigi” ansa.it, 25 giugno 2025 “È necessario evitare che il dibattito sulla separazione delle carriere sfoci in un “conflitto” tra politica e magistratura e, soprattutto, tra magistratura e avvocatura, perché a pagarne le conseguenze sarebbe inevitabilmente la fiducia dei cittadini nel sistema Giustizia e, quindi, lo stato di diritto”. Lo ha affermato il Carlo Foglieni, presidente AIGA - Associazione Italiana Giovani Avvocati, a margine del convegno “Separazione delle carriere: autonomia e garanzie nel sistema Giustizia”, organizzato a Padova dalla sezione AIGA locale. Il convegno è stato un momento di dialogo e confronto nel rispetto delle reciproche posizioni, con la partecipazione di rappresentanti del mondo politico e accademico, della magistratura e dell’avvocatura, istituzionale e associativa. “La nostra convinzione è che il dibattito - afferma Foglieni - debba essere portato su un piano prettamente tecnico, che eviti letture ideologiche del testo del DDL di riforma costituzionale in discussione in Parlamento”. In questa stessa direzione va il manifesto elaborato dall’AIGA, “Separare per Unire”, che illustra le ragioni a sostegno della riforma costituzionale per la separazione delle carriere. “Un documento - spiega il presidente dei giovani avvocati - che si articola in una serie di punti che evidenziano come la distinzione ordinamentale tra giudici e pubblici ministeri possa rafforzare i principi fondamentali del giusto processo, garantendo in maniera più effettiva il contraddittorio, l’equidistanza delle parti e il rispetto della terzietà e imparzialità del giudice. L’obiettivo è quello di dare un contributo affinché, in vista dell’eventuale referendum, i cittadini possano prendere una decisione informata e non influenzata”. Caro Di Matteo, la pista nera è un binario morto: parliamo del summit sugli appalti a cavallo delle stragi di mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2025 Il retroscena è emerso nel documento inedito pubblicato nel libro di Vincenzo Ceruso “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio. Approfittando dell’inesistente “scandalo” di una commissione Antimafia - eterodiretta da Mario Mori per coprire chissà quale “indicibile” verità - il magistrato Nino Di Matteo, della Procura nazionale antimafia, intervistato da Il Fatto, accusa l’attuale presidente Chiara Colosimo di non voler indagare sulla memoria depositata dal senatore Roberto Scarpinato. Dimentica però che tutte le commissioni precedenti, compresa quella del centrodestra guidata da Giuseppe Pisanu, hanno inseguito le tesi poi naufragate dei pm di Palermo dell’epoca, tra cui lo stesso Di Matteo. Oggi si pretende di riesumare la “pista nera”, il coinvolgimento delle “donne bionde” e ogni sfumatura dei teoremi trattativisti, già analizzati dalla commissione pentastellata presieduta da Nicola Morra. Quanto a mafia-appalti - tema dotato di solida dignità processuale - manca invece ancora un approfondimento capillare. Quando Di Matteo sostiene che si voglia evitare di collegare tutte le stragi, da Capaci alle continentali del 1993, dimentica che Borsellino era convinto dell’esistenza di un filo unico, riconducibile agli appalti, dietro delitti eccellenti come quelli di Salvo Lima e Giovanni Falcone. Ma non basta: non tutto è ancora stato scoperto. Forse anche Di Matteo, essendo della Procura nazionale, potrebbe dare nuovi impulsi alla Procura di Caltanissetta, oggi al lavoro sull’indagine nonostante un ostruzionismo senza precedenti. Mancano tasselli fondamentali che rischiano di restare oscurati dai teoremi che M5S e Pd intendono riproporre in commissione e che hanno già fatto perdere decenni di tempo e risorse. E sembra che ci sia la volontà di sprecarne ancora. Ebbene, ora emerge un fatto inedito. Tutti i vertici di Cosa Nostra - da Matteo Messina Denaro a Bernardo Provenzano, a cavallo tra la strage di via D’Amelio e quelle di Firenze, Milano e Roma - si sono riuniti non per discutere presunti patti con i neofascisti, Dell’Utri o entità astratte, ma per affrontare il problema degli appalti. Un verbale lo attesta. Non eravamo solo in piena tangentopoli: era anche il momento in cui, con grande ritardo, si stavano riesumando gli elementi di collegamento tra mafiosi-imprenditori e grandi gruppi industriali. Peccato che allora non si sia riusciti a raccordare l’indagine siciliana con quella di Antonio Di Pietro. Da chi lo veniamo a sapere per la prima volta, almeno pubblicamente? Per oltre trent’anni l’attenzione mediatica e giudiziaria sulle stragi del 1992 si è concentrata quasi esclusivamente su teorie astratte, trascurando un aspetto fondamentale: su cosa stesse realmente indagando Paolo Borsellino nei suoi ultimi giorni di vita. Vincenzo Ceruso, con rigore metodologico e una scrupolosa analisi documentale - arricchita da testimonianze e informative inedite - ha colmato questa lacuna nel libro “Paolo Borsellino. La toga, la fede, il coraggio” (edizione San Paolo). Scartabellando carte e intervistando valorosi investigatori dell’epoca, ha scoperto che, mentre Borsellino annodava gli ultimi fili, era in corso un’importante indagine condotta dall’allora giovane capitano Sandro Sandulli, nominato pochi mesi prima comandante della compagnia di Sciacca, in provincia di Agrigento. L’inchiesta, battezzata “informativa Avana”, è sostanzialmente un mafia-appalti in miniatura: nata da un omicidio mafioso, mette in luce l’intreccio tra Totò Riina e le grandi imprese nazionali. Come racconta Ceruso, il meccanismo illecito di assegnazione dei lavori era già così definito che Sandulli, consegnando la sua informativa nel maggio 1993, aveva ricevuto il testo del dossier mafia-appalti e ne riportava ampi stralci come riscontro. Altro che “pallido” dossier. Già nell’aprile ‘92 il capitano Sandulli - tramite le intercettazioni - aveva individuato il ruolo di Giuseppe Montalbano e, per ricostruirne il profilo, aveva ripreso le carte del maxiprocesso di Falcone e Borsellino. E quelle dell’indagine avviata negli anni ‘80 da Falcone stesso, che indicavano Montalbano come titolare di Arezzo Costruzioni S.r.l., fondata a Palermo nel 1980. Stiamo parlando dello stesso Montalbano - membro dell’apparato del Partito comunista siciliano e proprietario del “covo” di Riina in via Bernini - per il quale, nonostante i suoi forti legami con Pino Lipari e le rivelazioni del pentito Baldassarre Di Maggio (rivelò che disponeva di un altro alloggio per Riina e proteggeva altri boss mafiosi), fu chiesta archiviazione dalla Procura di Palermo nel 1995. Giuseppe Montalbano verrà anni dopo arrestato e condannato definitivamente dalla procura di Sciacca. Ma torniamo alle intercettazioni di aprile 1992 effettuate dal capitano Sandulli, in cui individua già Montalbano e le questioni relative agli appalti. Borsellino ne era a conoscenza? La risposta non può che essere affermativa. Come spiega Ceruso nel libro, il capitano si relazionava in particolare con la dottoressa Mariateresa Principato - ex moglie di Scarpinato - della Procura di Palermo, titolare delle indagini. Non c’è alcun dubbio, visto il continuo scambio di notizie, che Borsellino fosse informato, soprattutto perché coordinava i procedimenti sulle indagini di Trapani e Agrigento. Come ricorda Sandulli all’autore, i magistrati venivano man mano avvisati del contenuto delle intercettazioni: Pino Lipari, Giuseppe Montalbano, persino Matteo Messina Denaro, altri boss mafiosi e imprese multinazionali emersero nel corso delle indagini. Ma ora veniamo alle stragi. Nel libro “La toga, la fede, il coraggio” (San Paolo), Vincenzo Ceruso, leggendo l’informativa “Avana”, scopre un passaggio che riporta con chiarezza una riunione del gotha di Cosa Nostra. Cosa apprende? Siamo a febbraio 1993. Quindi tra le stragi di Via D’Amelio e quelle continentali. Due partecipanti - uno ex direttore di banca, l’altro oscuro personaggio - rivestivano ruoli chiave nei mandamenti principali della provincia agrigentina, territorio strategico per l’organizzazione mafiosa. I boss si stavano recando a un summit convocato a Palermo, con i vertici di tutte le province siciliane, compreso Matteo Messina Denaro. Il pentito Santino Di Matteo, tra gli esecutori della strage di Capaci, dichiarerà in seguito che la riunione era convocata per discutere degli appalti. L’autore non è riuscito a reperire il verbale. Forse la commissione Antimafia, se non verrà abbattuta, potrebbe farlo. Ritornando al magistrato Nino Di Matteo: è vero che tutto è collegato. Il metodo Falcone puntava proprio a questo - ogni omicidio mafioso, per quanto apparentemente “insignificante”, gara d’appalto pilotata, guerre tra faide (tramite la Stidda, come apprendiamo da Ceruso) e stragi eclatanti vanno lette come un unico disegno. Ma non con il mantra “oltre la mafia”. Dietro questo approccio mediatico-giudiziario, sostenuto da una nutrita schiera di “professionisti dell’antimafia”, si nasconde una visione che non ha mai esplorato a fondo ciò che Paolo Borsellino stava studiando con tenacia: Vincenzo Ceruso ha riportato alla luce quei filoni investigativi, frammento per frammento. Dopo la strage di Capaci, Borsellino decise di ripartire dal dossier mafia-appalti, rileggendo omicidi precedenti, vecchie indagini e i faldoni del maxiprocesso istruito da lui e Falcone. Tornano con forza nomi mafiosi, aziende in odor di mafia, consorzi e cosche - come i catanesi - che ancora oggi restano troppo ignorati, nonostante il loro ruolo in grandi appalti e stragi. Chi teme di bloccare tutto questo? Perché questa potenza di fuoco, supportata da intercettazioni segrete, vuole mettere a tacere chi vorrebbe scavare fino in fondo? “Processare” Mori in commissione, l’idea di M5S e Pd. FI: “Brani passati a Report, si indaghi” di Errico Novi Il Dubbio, 25 giugno 2025 Antimafia 2, la vendetta. I fumogeni accesi domenica sera da Report sui lavori della bicamerale di Palazzo San Macuto, destinati in teoria a oscurare il filone “mafia-appalti”, innescano subito un processo di emulazione. In particolare tra i parlamentari del centrosinistra. Che diffondono due documenti, dopo che già lunedì il Movimento di Giuseppe Conte da una parte e il centrodestra dall’altra se l’erano date di santa ragione. Ieri ha preso forma la strategia d’opposizione sui lavori dell’Antimafia, prima con la nota dei capigruppo di Avs, 5S e Pd in commissione - Elisabetta Piccolotti, Luigi Nave e Walter Verini - e poi con la lunga lettera che i rappresentanti dem nella bicamerale hanno rivolto alla presidente meloniana dell’organismo di Palazzo San Macuto, Chiara Colosimo. Entrambi i documenti chiedono di acquisire le intercettazioni diffuse domenica sera da Report e “evidentemente” effettuate dalla Procura di Firenze a carico di Mario Mori, nell’ambito dell’indagine che vede accusato l’ex generale del Ros di concorso nella strage dei Georgofili e per non aver impedito che Cosa nostra portasse i propri ordigni nel Continente. Il Pd in particolare si spinge oltre e chiede testualmente a Colosimo una “convocazione del generale Mori in Commissione, sotto forma non tanto di audizione quanto di interrogatorio giurato”. In pratica i dem vogliono istruire una sorta di processo trattativa- bis. Lo si intuisce anche dalla preliminare asserzione, contenuta sempre nella dura missiva alla presidente dell’Antimafia, secondo cui nel ‘ 92-’ 93 “mafie” e “settori della politica” trovarono “convergenze e comuni interessi per influenzare il corso politico del Paese, con il contributo di noti ambienti dell’estremismo nero e, purtroppo, di pezzi deviati dello Stato”. S’intravede di nuovo la tesi che Nino Di Matteo ha rilanciato ieri in un’intervista al Fatto quotidiano, cara anche ad altri ex pm di Palermo (ma smentita fino alla Cassazione): le bombe, da Capaci in poi, dovevano spianare la strada a Forza Italia e a Silvio Berlusconi. Il corollario è il ridimensionamento dell’indagine conoscitiva su “mafia- appalti”, che non può, secondo i parlamentari del Pd, “ragionevolmente esaurire quanto accaduto in quegli anni in Sicilia e nel Paese”. Come nel documento del Nazareno, anche nella nota congiunta dei capigruppo dem, 5S e Avs nella commissione Antimafia, si chiede a Colosimo di “chiedere alla Procura di Firenze le trascrizioni delle intercettazioni delle conversazioni di Mori con terzi, in tutte le parti riguardanti l’andamento dei lavori della commissione”. Il comunicato del centrosinistra non spende una parola sul fatto che quei brani sono stati diffusi da Report in violazione del codice penale, articolo 684, e che ad aver commesso un reato, previsto all’articolo 329, sempre del codice penale, è anche chi ha consegnato il materiale, tuttora coperto da segreto, al programma di Sigfrido Ranucci. Si allude poi, sia nella nota congiunta che nella lettera del solo Pd, alle nomine di “consulenti di fiducia” ottenute da Mori. Non una parola sul fatto che le “captazioni” svelate da Report contenessero anche il nome di un giornalista del “Dubbio”, Damiano Aliprandi, di fatto attaccato nonostante avesse declinato l’invito a collaborare con la commissione Antimafia. Sebbene si sia speso, nei mesi addietro, contro la legge Costa e per la tutela del lavoro giornalistico, il centrosinistra non ha alzato mezza manina per deplorare la propalazione, fuorilegge, di intercettazioni ancora segrete a danno di un giornalista, l’unico da anni a occuparsi di “mafia- appalti”. L’interrogazione di FI - Va dato atto invece a Forza Italia di essere il solo partito a porsi il problema, tra gli altri, del pestaggio mediatico di Aliprandi. Ieri gli azzurri hanno presentato due interrogazioni al ministero della Giustizia, una a firma dei senatori - da Gasparri e Zanettin a Paroli, Damiani, Occhiuto, Ternullo, Trevisi e De Rosa - e una analoga sottoscritta dai deputati - in particolare da Pittalis, D’Attis, Tenerini, Castiglione, Costa, Calderone e Bellomo. “Chiediamo se si intenda avviare un’ispezione presso la Procura di Firenze per individuare i responsabili della diffusione abusiva delle intercettazioni in merito alla puntata andata in onda su Report, che ha diffuso”, si legge nei due atti di sindacato ispettivo, “il contenuto di presunte intercettazioni irrilevanti sotto il profilo penale e coperte da segreto investigativo, che coinvolgono l’ex comandante dei Carabinieri Mario Mori, il suo avvocato Basilio Milio e il giornalista del Dubbio Damiano Aliprandi. Il giornalista di Report Paolo Mondani ha intervistato un anonimo investigatore che ha rivelato conversazioni tra Mori e Aliprandi”, ricordano le due interrogazioni di Forza Italia. L’unico mantra di 5S, Pd e Avs è invece ridimensionare “mafia- appalti”, sentire Mori come se fosse di nuovo alla sbarra del processo “trattativa”, rispolverare la pista nera sulle stragi. Su questa piattaforma, il centrosinistra è compatto. Se non altro, una questione come quella del dossier “mafia- appalti”, seppellito da anni sotto una coltre d’indifferenza, rischia di esplodere, a dispetto dei propositi di M5S e Pd, e di acquisire la visibilità che a quel filone è stata in passato volutamente negata. La svolta di Ciro, boss camorrista pentito per amore delle sue figlie di Giorgio Paolucci Avvenire, 25 giugno 2025 Inserito dal padre nel giro dello spaccio di droga a 10 anni, “promosso” capo a 16, nel corso della lunga detenzione avviene il ravvedimento, anche grazie all’aiuto di un frate. “Guardale. L’ho fatto per loro, perché possano avere un futuro diverso dal mio passato, un passato di cui mi vergogno e che non riesco a perdonarmi, ma che non è più il mio presente”. È la potenza inimmaginabile e rigeneratrice dell’amore. Ciro conserva nel portafoglio la fotografia delle figlie Anita e Daniela: sono loro che l’hanno convinto ad abbandonare la carriera di boss della camorra e a dare una svolta decisiva alla sua esistenza. Non con le parole, ma per il fatto stesso di esserci, perché gli ricordavano cosa conta davvero nella vita. Una vita che sembrava ineluttabilmente scritta fin dalla prima infanzia: la morte della madre quando aveva solo sei anni, il padre plenipotenziario dello spaccio di droga in una città della Campania, la loro casa divenuta il crocevia del commercio di cocaina nel quartiere, un porto di mare dove i clienti entravano a ogni ora del giorno e della notte, con il piccolo Ciro che assisteva smarrito al traffico di morte che passava davanti ai suoi occhi. “Certe sere non riuscivo a prendere sonno, la mattina entravo in classe e mi addormentavo sul banco, ma mio padre voleva che frequentassi la scuola per evitare che l’assistente sociale venisse a casa nostra e si rendesse conto di quello che accadeva”. Quando compie dieci anni viene arruolato per dare una mano nel commercio domestico di cocaina: “Spacciare era diventato il mio lavoro, studiavo poco e male, il diploma di terza media me l’hanno proprio regalato, e quando gli insegnanti mi chiedevano se volevo continuare a studiare o andare a lavorare, io rispondevo che un lavoro già l’avevo…”. Ha sedici anni quando il padre viene arrestato per la prima volta, ma la sua giovane età non può essere un’obiezione all’obbligo di sostituirlo al comando dell’azienda di famiglia per continuare a gestire il controllo dello spaccio nella zona. Così giovane e già sprofondato nell’abisso del male, con il cuore di marmo e il cervello obnubilato dalla sete di potere. “Avevo tutto: la barca al mare, un macchinone potente che guidavo senza avere la patente, quindici persone ai miei ordini per gestire il commercio di cocaina, la pistola in tasca per fare giustizia a modo mio. A volte partecipavo a una rapina non perché avessi bisogno di soldi, ma per il gusto di vivere una nuova avventura e sentire l’adrenalina che cresceva nel corpo. La mia normalità era una vita esagerata. Quando mio padre è stato condannato all’ergastolo sono diventato il comandante a tutti gli effetti, mi muovevo con baldanzosa sicurezza in un contesto criminale troppo grande per un giovane di vent’anni, dentro una guerra tra clan dove la vita del nemico non valeva nulla”. Viene arrestato, dopo tre anni esce di galera, il conflitto tra bande ricomincia più virulento di prima, Ciro diventa mandante o esecutore di missioni che si concludono nel sangue. Dal rapporto con la moglie Elisabetta erano nate Daniela e poi Anita, una bimba con gravi disabilità. “Non potevo sopportare di vederla in quello stato, stava male e io volevo fare del male agli altri, come fosse una vendetta personale per la sofferenza che Anita era costretta a provare sul suo corpo. Quando sparavo provavo soddisfazione, una sorta di liberazione. Ti sembra pazzesco, vero? Ma devi credermi, vivevo questa vertigine. Era come un veleno che scorreva nelle vene: ogni volta ero consapevole che andavo incontro alla morte, ma la morte non mi faceva paura. Lo so, è difficile capirlo per chi guarda da fuori, ma per me era diverso: ero cresciuto in un contesto criminale, e tutta la mia persona si era immedesimata nella mentalità di quel contesto. Il male era la mia bussola”. Arriva un nuovo arresto, ma stavolta la condanna è molto pesante: trent’anni. Trascorre i primi mesi in carcere tormentato da rabbia e sconforto, toccando con mano l’abisso del male compiuto e delle sofferenze procurate ai suoi cari e alle vittime dei reati commessi, poi nella mente si inanellano una serie di considerazioni: prende coscienza di quello che ha combinato, le condizioni della piccola Anita peggiorano e l’unico sentimento che domina è la disperazione. “Passavo le giornate in cella a rimuginare sul passato, quando prendevo tra le mani la foto delle figlie mi rendevo conto che insieme alla mia avevo rovinato anche le loro esistenze e quella di mia moglie. Una domanda su tutte mi tormentava: quale futuro avranno queste povere creature, cresciute come il padre in un contesto malsano?” È proprio mentre matura queste riflessioni che nel carcere di Alessandria incontra frate Beppe, un francescano che svolge le funzioni di cappellano nella sezione dei collaboratori di giustizia. “Con lui facevo lunghi dialoghi in cella, ascoltava i miei sfoghi e le mie domande, nella confessione parlava di un Dio che si china sulle ferite, misericordioso e sempre disposto al perdono, così diverso dall’immagine appannata di un Dio lontano che conservavo dalla mia infanzia. Negli incontri con lui si è accesa una luce di speranza, il cuore indurito dal male si è andato sciogliendo, l’amore per le mie figlie è diventato la molla del cambiamento. Ma come potevo dare solidità al desiderio di una vita nuova? È stato in quel tempo che ho maturato la decisione di dare un taglio netto al mio passato criminale e di iniziare a collaborare con la giustizia. Una decisione che è arrivata pensando anzitutto al bene di Daniela e Anita, e perché lo giudicavo un contributo utile ad arginare la diffusione del male di cui ero stato per troppo tempo complice e protagonista”. I magistrati predispongono un programma di protezione per Ciro al fine di metterlo al sicuro dalle prevedibili ritorsioni da parte della camorra, inizia un periodo di sei mesi di isolamento totale (“e in quei centottanta giorni sai quanto mi angosciava il pensiero di non avere notizie delle mie figlie”), poi nel 2018 arriva la detenzione domiciliare nella città del Nord Italia dove l’ho incontrato, seguono i tentativi di trovare lavoro e infine, grazie all’aiuto di frate Beppe, un’occupazione come magazziniere. Oggi a 52 anni vive ancora sotto protezione, al riparo da una camorra che - lui lo sa bene - non dimentica e non perdona. La moglie è fiera della sua decisione, dedica quasi tutto il tempo ad Anita, ormai adolescente. Una ragazza che non parla, non cammina, soffre di crisi epilettiche e viene alimentata con la peg, “ma ha tutto il nostro affetto ed è diventata insieme a sua sorella la ragione della mia vita”. Daniela frequenta il liceo, ha provato sulla sua pelle cosa significa che le colpe dei padri ricadono sui figli: il suo ragazzo ha scoperto su Internet il passato di Ciro e, anziché compiacersi per la scelta coraggiosa che aveva fatto collaborando con la giustizia, l’ha lasciata. “È il prezzo che ha dovuto pagare per la mia decisione, ma lei è fiera delle scelte di suo padre. Anche mia moglie mi ha incoraggiato in questa scelta: ora alla sera ci addormentiamo sereni nel nostro letto, è lontano il ricordo di quella volta che i carabinieri vennero ad arrestarmi nel cuore della notte per portarmi in galera. Il passato continua a pesare, ma una vita nuova è cominciata”. Madri e donne incinte, non è retroattiva la stretta del decreto sicurezza di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2025 Prima pronuncia sul punto da parte del giudice di sorveglianza di Bologna. Non sono retroattive alcune delle misure più controverse e contestate del decreto sicurezza, quelle che aprono le porte di strutture detentive anche alle madri di figli fino a un anno e alle donne incinte. In una delle primissime applicazioni delle novità del Codice penale il magistrato di sorveglianza di Bologna ne ha affermato la natura sostanziale e non processuale, sottraendole quindi al principio del tempus regit actum e ritenendo invece applicabile il principio costituzionale dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole. Le disposizioni così si applicheranno solo per fatti commessi successivamente all’entrata in vigore del decreto sicurezza. Nel caso esaminato il magistrato di sorveglianza ha ritenuto allora di continuare a fare riferimento alla precedente disposizione cristallizzata nell’articolo 146 del Codice penale: a venire prorogato è stato così il rinvio dell’esecuzione della pena (nella forma della detenzione domiciliare) disposto nei confronti di una donna che, in sede di primo differimento, era incinta e che, attualmente, è madre di un bambino di età inferiore a un anno. La riforma prevista dal decreto legge n. 48, sottolinea il provvedimento datato 3 giugno, ha modificato in maniera significativa la disciplina del rapporto tra maternità ed esecuzione penale in termini certamente peggiorativi. Sino al 12 aprile, data di entrata in vigore della novità, il rinvio dell’esecuzione della pena a favore delle madri di neonati e delle donne incinte era obbligatorio: si tratta, infatti, di un istituto, ricorda il giudice di Bologna, che punta a coniugare le esigenze di tutela della salute e di dignità del detenuto o di persona che si trova in condizioni di grave vulnerabilità (per esempio una grave malattia) con quelle dell’esecuzione penale e di tutela della collettività. La norma del Codice non lasciava margini di discrezionalità all’autorità giudiziaria, chiamata solo a verificare l’esistenza dei presupposti previsti, imponendo, in caso di accertamento positivo, il rinvio dell’esecuzione della pena. Con la riforma, le due condizioni che in precedenza rendevano obbligatorio il rinvio, maternità di figlio fino a un anno e gravidanza, sono state stralciate e fatte confluire nel perimetro dell’articolo 147, che prevede l’espansione del potere discrezionale della magistratura. Tocca infatti ora al giudice una considerazione da fare caso per caso sul bilanciamento degli interessi in campo, aprendo all’ipotesi di differimento della pena solo se ritiene che non ci sia pericolo di reiterazione del reato. In caso di accertata pericolosità sociale la detenzione andrà scontata presso un istituto a custodia attenuata per detenute madri. E dunque “assiologicamente e concretamente, il rendere facoltativo ciò che prima era obbligatorio modifica sensibilmente i termini della questione, introducendo una inedita alternativa tra esecuzione esterna carcerazione, rispetto alle donne incinte o madri puerpere, impossibile nel sistema previgente”. Così, ancorandosi anche alla giurisprudenza della Corte costituzionale, sentenza 32 del 2020, il giudice di sorveglianza di Bologna ritiene applicabile anche a questi istituti il divieto di retroattività della norma penale più sfavorevole. Detenuto al 41-bis: per i colloqui col minore senza vetro divisorio occorrono validi motivi di Simone Marani altalex.com, 25 giugno 2025 È necessario provare che il minore non è strumentalizzabile per trasmettere o ricevere ordini, informazioni o direttive (Cassazione n. 22276/2025). Spetta al detenuto fornire la prova di una situazione particolare che possa giustificare l’effettuazione dei colloqui col minore ultra dodicenne in assenza di vetro divisorio. Questo è quanto emerge dalla sentenza 13 giugno 2025, n. 22276 (testo in calce) della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione. Il caso vedeva una persona assoggettata al regime detentivo di cui all’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, presentare istanza volta all’effettuazione di colloqui, senza vetro divisorio, con il nipote minore ultra dodicenne. A fronte del rigetto da parte del Magistrato di sorveglianza e del Tribunale di sorveglianza il condannato presentava ricorso per cassazione. Si deve premettere che il diritto allo svolgimento dei colloqui visivi rientra nel più ampio diritto del detenuto a coltivare la vita familiare ed a conservare le relazioni con i più stretti congiunti. Di conseguenza, la possibilità di circoscrivere l’esercizio del diritto deve essere oggetto di espressa previsione normativa, nonché trovare giustificazione in esigenze di pubblica sicurezza, di ordine pubblico e prevenzione dei reati, ovvero di protezione della salute, dei diritti e delle libertà altrui (Cass. Pen., Sez. I, 22 giugno 2020, n. 23819). Detti principi operano anche con riferimento ai detenuti assoggettati al regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit., i quali subiscono restrizioni quanto al numero dei colloqui ed alle relative modalità di svolgimento, ma conservano intonso il diritto alla fruizione degli stessi. Nell’ambito delle limitazioni imposte alle modalità di svolgimento dei colloqui, dei quali fruisce il detenuto sottoposto a regime penitenziario differenziato, la possibile utilizzazione del vetro divisorio ha un preciso ancoraggio normativo, posto che l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ord. penit., stabilisce che gli incontri abbiano luogo in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Dette restrizioni debbono essere giustificate dalla sussistenza di esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza, che sono sottese al regime differenziato (Cass. Pen., Sez. I, 29 maggio 2019, n. 43436 e Corte Cost., sent. n. 97 del 2020). Ciò precisato occorre verificare se gravi sul detenuto istante l’onere di dedurre, in relazione al caso concreto, una particolare situazione che possa giustificare l’effettuazione di colloqui senza il vetro divisorio o se viga la regola generale della non apposizione del vetro divisorio, salva la giustificazione, da parte dell’amministrazione penitenziaria, delle ragioni giustificative di tale utilizzo. Gli ermellini, forti anche della pronuncia della Corte Costituzionale n. 105 del 2023, si orientano verso la prima soluzione, affermando che è possibile derogare alla restrizione dell’utilizzo del vetro divisorio durante i colloqui col detenuto sottoposto a regime del 41-bis anche qualora detti colloqui avvengano con un parente minore di età superiore ai dodici anni, quando sussistano ragioni tali da giustificare una simile scelta volta ad escludere, in particolare, che il minore in questione sia strumentalizzabile per trasmettere o ricevere informazioni, ordini o direttive. Di conseguenza, si deve ritenere confermato il principio ripetutamente sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale, in tema di regime penitenziario differenziato è legittima la disposizione dell’amministrazione penitenziaria che preveda che il colloquio visivo avvenga senza vetro divisorio solo nel caso in cui esso abbia luogo con il figlio o i nipoti in linea retta minori di anni 12 oppure, con le cautele ordinarie, con parenti ed affini entro il terzo grado, in quanto detta regolamentazione costituisce un ragionevole esercizio del potere amministrativo in funzione del contemperamento tra le esigenze di mantenimento delle relazioni familiari e quelle di particolare controllo richieste dal regime penitenziario (Cass. Pen., Sez. I, 9 aprile 2021, n. 28260). Dette regole non si pongono in contrasto con i dettami forniti dalla pronuncia del giudice delle leggi del 2023, posto che è da considerarsi legittimo il diniego che l’amministrazione penitenziaria opponga alla richiesta del detenuto di effettuare il colloquio visivo con il minore ultra dodicenne in ambiente privo di vetro divisorio, poiché le esigenze di particolare controllo richieste dal regime penitenziario prevalgono su quelle di mantenimento delle relazioni familiari (Cass. Pen., Sez. I, 27 settembre 2024, n. 37211). Emilia Romagna. Visita dei Garanti alle celle di sicurezza di caserme, comandi e questure Corriere di Bologna, 25 giugno 2025 Andare a verificare in Emilia Romagna lo stato delle camere di sicurezza di caserme, Comandi e Questure, le celle dove gli arrestati o i fermati restano in attesa della convalida del giudice. Anche se qualcuno lo chiama “carcere ombra”, non si tratta di penitenziari, ma non per questo l’attenzione deve sfumare. È l’essenza del progetto “Monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà da parte delle Forze di polizia in Emilia Romagna” promosso da Garante regionale e Garante nazionale detenuti, nell’ambito di un confronto operativo con rappresentanti di carabinieri, polizia, Guardia di finanza e polizia locale. Se ne è parlato ieri a un convegno a Palazzo Hercolani, dove “per la prima volta a livello nazionale”, segnalano gli organizzatori, vengono riunite tutte le forze di polizia, d’intesa coi garanti e con l’assemblea legislativa della Regione. Spiega Roberto Cavalieri, garante regionale dei detenuti: “Verranno avviate visite nelle caserme per verificare sia le celle sia i servizi erogati. Le faremo tutte quante, da Piacenza a Rimini, con un lavoro che durerà diversi mesi. Poi faremo il punto in pubblico”. In regione “sono 2.400 le persone che l’anno scorso hanno passato del tempo - aggiorna i numeri Cavalieri - nelle camere di sicurezza. Sono un luogo di detenzione, o meglio di trattenimento, non equiparabile alla vita penitenziaria” ma comunque “dove le persone non sono libere, in attesa della decisione del giudice. I loro diritti vanno tutelati”. “A Bologna, come polizia, abbiamo cinque camere di sicurezza; normalmente il fermo è di poche ore, raramente tratteniamo una persona fino a 48 ore” ha spiegato il vicecapo di gabinetto della Questura Luca Fiorini. Milano. San Vittore, suicida un detenuto di 22 anni. “Nelle carceri una situazione esplosiva” Il Giorno, 25 giugno 2025 Il giovane marocchino, accusato di reati contro il patrimonio, è stato soccorso in condizioni disperate e portato all’Humanitas dove è deceduto. De Fazio (Uilpa): “Questo è il 36esimo caso in un anno. Reclusi e operatori accomunati dal perdurante calpestio dello stato di diritto”. Un 22enne di nazionalità marocchina, recluso da qualche mese per reati contro il patrimonio presso il carcere di San Vittore a Milano, si è tolto la vita ieri, martedì 24 giugno 2025. Secondo quanto riferito il giovane è stato soccorso e trasportato in gravi condizioni all’Humanitas, dove è deceduto alle 18.30 di martedì. “‘Ventidue anni, extracomunitario, si è impiccato lunedì mattina nel carcere milanese di San Vittore. Subito soccorso, è stato trasportato in ospedale in condizioni disperate. Ieri sera è deceduto - ha riferito Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria -. Si tratta del 36esimo suicidio di un detenuto dall’inizio dell’anno, cui bisogna aggiungere due operatori, vittima di una pena di morte di fatto e che colpisce random, indipendentemente dal reato commesso o, addirittura, dalla circostanza che si sia al servizio dello Stato”. “Reclusi e operatori accomunati dal perdurante calpestio dello stato di diritto che infligge ai primi modalità di detenzione diffusamente illegali e spesso inumane e ai secondi condizioni di lavoro indegne di una repubblica che fonda proprio sul lavoro la sua democrazia” ha aggiunto De Fazio. “Sedicimila detenuti oltre la capienza massima delle carceri e 18mila unità mancanti alla Polizia penitenziaria, sempre più depauperata nelle carceri anche per le massicce quanto inopinate assegnazioni di agenti a uffici ministeriali ed extra penitenziari, richiedono interventi tangibili e immediati. La situazione è esplosiva e va sempre più deteriorandosi”, ha concluso il segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, chiedendo interventi immediati. Palermo. Detenuto del Pagliarelli perde la vista in attesa di un intervento di cataratta Giornale di Sicilia, 25 giugno 2025 “Un detenuto di 70 anni nella casa circondariale Pagliarelli di Palermo è rimasto cieco da un occhio in attesa di un intervento di cataratta”. La denuncia è di Pino Apprendi, garante dei detenuti di Palermo. “Il carcerato, il 13 febbraio del 2024 - scrive Apprendi - è stato visitato per una cataratta, il 15 maggio sottoposto ad ulteriore controllo e il 13 luglio il medico della struttura carceraria lo ha avvisato che sarebbe stato necessario un intervento urgente. Ma nulla è accaduto fini al 17 maggio 2025. Intanto il recluso ha perduto la vista a un occhio”. “Voglio ricordare che i detenuti non hanno scelta - ha concluso il garante. Non possono recarsi in strutture convenzionate come un libero cittadino, per cui qualsiasi patologia, come nel caso specifico, diventa cronica e a volte si conclude con la morte”. “La situazione sanitaria in carcere è intollerabile e si ripercuote sulla salute dei detenuti con effetti disastrosi”. A dirlo è il garante dei detenuti di Palermo Pino Apprendi portando come esempio la storia di un detenuto del carcere Pagliarelli, C.L., 70 anni, visitato il 13 febbraio 2024 per una cataratta. L’uomo è stato controllato nuovamente il 15 maggio e il 13 luglio quando il medico del carcere ravvisava la necessità di un intervento il prima possibile. “Il 13 agosto - racconta Apprendi - viene inviato a visita all’ex Imi di Palermo e non accade nulla fino al 17 maggio 2025, 9 mesi dopo, data in cui viene sottoposto a nuova visita dentro il carcere. Intanto, C.L. ha perso la vista dall’occhio in cui era stata diagnosticata la cataratta e comincia a vedere male anche dall’altro occhio. Dopo la mia richiesta di informazioni al responsabile dell’area sanitaria, sono state avviate procedure di sollecito per l’intervento che sarà fatto fra 18 mesi a partire da febbraio scorso”. “Voglio ricordare - conclude il garante - che i detenuti non hanno scelta, non possono recarsi in strutture convenzionate come un libero cittadino, per cui qualsiasi patologia, come nel caso specifico diventa cronica e a volte si conclude con la morte. Non basta l’impegno del personale dell’area sanitaria interna, occorrono strumenti che possano garantire la cura del singolo, sono 1400 detenuti-pazienti”. Brescia. Emergenza caldo, la Garante dei detenuti: “In cella non si respira, servono ore d’aria” fanpage.it, 25 giugno 2025 Luisa Ravagnani, Garante dei detenuti nel Comune di Brescia, ha spiegato a Fanpage.it la drammatica situazione che si vive all’interno del carcere Canton Mombello: “Con l’arrivo dell’estate, è tornata l’emergenza caldo. In cella non si respira. Servono ore d’aria, frigoriferi e ventilatori”. “Un anno fa è stata spedita una lettera al Presidente della Repubblica dalla casa circondariale di Canton Mombello per segnalare la drammaticità che si vive all’interno dell’istituto di pena bresciano”, ha spiegato a Fanpage.it Luisa Ravagnani, Garante dei detenuti nel Comune di Brescia. “Da allora niente è cambiato e, con l’arrivo dell’estate, come ogni anno è tornata l’emergenza caldo”. Pochi giorni fa si è tenuta a Roma, nella sede della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative regionali e delle province autonome, l’assemblea della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà personale che attualmente conta 93 figure di garanzia designate, da Regioni, province e comuni. In tale occasione, “abbiamo chiesto l’attivazione dell’affettività che al momento, a più di un anno della consulta, è presente soltanto a Terni”, ha raccontato Ravagnani a Fanpage.it. “Abbiamo chiesto l’indulto per circa 16 mila detenuti con pene brevi e un’apertura delle celle negli orari di maggior caldo perché la sorveglianza dinamica è stata abolita nel novembre 2023 quindi - di fatto - oggi tutti i detenuti che non sono nelle aree a trattamento avanzato devono stare nella propria cella in condizioni di sovraffollamento”. Nel concreto, quello che Ravagnani ha chiesto sono “un maggior numero di ore d’apertura per fronteggiare il caldo in istituti che ancora oggi risultano essere inadeguati. Servono ventilatori e servono frigoriferi. Altrimenti d’estate la vita chiusi in cella è pesante, non riesci a respirare dal caldo”, ha riferito la Garante. “Questo perché c’è una vera e propria emergenza. È triste perché non è qualcosa di nuovo che scopriamo oggi, ma è qualcosa che ci portiamo dietro da tempo. Da anni veniamo considerati tra le carceri peggiori d’Italia e nessuno fa niente. C’è bisogno di un intervento strutturale che non può fare Brescia da sola o Milano da sola. È un intervento che deve venire direttamente da Roma altrimenti non si risolverà mai”, ha concluso con sfiducia la Garante a Fanpage.it. Oristano. Rischio suicidi e carenze sanitarie a Massama: l’allarme dal Garante dei detenuti linkoristano.it, 25 giugno 2025 Presentata la relazione sulle attività del 2024, dove emergono anche un numero elevato di richieste di trasferimento e poche opportunità lavorative. “Duecentoquaranta detenuti, molti dei quali passano le giornate a guardare il soffitto. In alcune celle ci piove dentro, sui muri c’è la muffa, e quando qualcuno sta male i citofoni non funzionano. C’è poco volontariato, poche attività, e il medico non è presente 24 ore su 24. Un detenuto mi ha mostrato la corda che si era preparato”. Così si era espressa la Garante dei detenuti Irene Testa al termine di una visita al carcere di Massama lo scorso maggio. Parole che trovano conferma nell’ultima relazione annuale presentata pochi giorni fa. Se Cagliari?Uta è l’istituto con il maggior numero assoluto di segnalazioni, è Massama a registrare il tasso più alto in rapporto alla popolazione reclusa. E l’allarme legato al rischio suicidario si rivela tra i più preoccupanti: nel 2024 è stata inserita per la prima volta tra le macro aree di analisi e sono stati segnalati casi ad alto rischio, anche corredati da documentazione psichiatrica e inoltrati con urgenza alle strutture competenti. Le criticità sono legate soprattutto alla carenza dei servizi sanitari. A Massama sono previsti servizi medici h24, ma la realtà è ben diversa: un unico medico è presente la mattina e nel primo pomeriggio dal lunedì al venerdì, affiancato dal dirigente sanitario solo nei giorni feriali. Le ore coperte sono circa 35 su 168 previste, e durante la notte e nel fine settimana bisogna ricorrere alla guardia medica o al 118. L’assistenza psichiatrica è garantita solo 20 ore a settimana, contro le 38 previste. Da febbraio 2024 è assente l’odontoiatra e per le cure dentistiche è necessario ricorrere a visite esterne, con aggravio di scorte e costi. Mancano anche un reparto ospedaliero riservato e un servizio di medicina legale per il personale di Polizia penitenziaria. Il personale è insufficiente: sono presenti 9 infermieri (324 ore totali a settimana) e 2 OSS (72 ore totali). Nonostante le procedure di selezione, ad oggi mancano ancora medici dei servizi e il supporto integrativo previsto dalla deliberazione regionale 16/22 del 12 giugno 2024. Se si analizzano le segnalazioni dei detenuti, la richiesta di interventi sanitari è la più ricorrente, seguita dalle domande di trasferimento e di avvicinamento alla famiglia, particolarmente sentite in una regione come la Sardegna, dove circa la metà dei reclusi proviene dalla Penisola. E non fa eccezione la Casa di reclusione “Salvatore Soro” di Oristano che ospita ormai quasi esclusivamente detenuti in alta sicurezza. Massama si distingue anche per un numero elevato di istanze legate alla mancanza di opportunità lavorative e alla carenza di attività sociali e rieducative. “È evidente che non tutte le situazioni critiche possono emergere dalle segnalazioni dei detenuti”, scrive la garante dei detenuti, “ma è fondamentale tenere alta l’attenzione e garantire interventi tempestivi e risorse adeguate”. Le carenze sanitarie e psichiatriche, unite alla mancanza di personale e di opportunità, fanno di Massama una realtà complessa e fragile, in cui il rischio suicidario è l’emergenza più grave e visibile di un disagio profondo. Padova. L’ospedale apre il reparto detenuti, primo ricoverato di Gabriele Fusar Poli Corriere del Veneto, 25 giugno 2025 Dal Due Palazzi è arrivato il paziente numero uno in Medicina Protetta. Ostellari: “Ridotto il rischio di fuga”. Sebbene pronto da inizio 2020 non era mai stato utilizzato, per svariati motivi. Almeno fino a ieri, quando nel reparto di Medicina protetta dell’azienda ospedaliera è stato ricoverato il primo detenuto proveniente dal carcere Due Palazzi. A darne notizia Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, il quale ha sottolineato: “L’obiettivo, tanto atteso dagli agenti di polizia penitenziaria e dai loro rappresentanti sindacali, è stato raggiunto grazie a un proficuo dialogo fra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’assessorato regionale alla Salute, guidato da Manuela Lanzarin. L’inaugurazione della sezione, specializzata nella cura dei reclusi, consentirà di alleviare le fatiche degli agenti, riducendo il numero dei trasferimenti e dei piantonamenti in ospedale, e garantirà più sicurezza a tutti i cittadini, limitando al minimo le occasioni di promiscuità e pure eventuali opportunità di fuga”. La genesi del reparto è stata “particolare”: realizzato al piano terra della palazzina di Malattie infettive e pressoché ultimato - al termine di importanti lavori di ristrutturazione - nei primi mesi del 2020, doveva essere inizialmente attivato il primo aprile di cinque anni fa, ma con l’avvento del Covid-19 era stato riconvertito in fretta e furia in area triage per i pazienti positivi al virus. Non solo: nelle successive fasi della pandemia è stato attrezzato per diventare prima la sede principale per sottoporre a tampone gli utenti esterni, poi come spazio designato alla somministrazione della terapia infusionale con farmaci monoclonali ai pazienti complessi. L’inaugurazione ufficiale si era tenuta nel settembre 2022, in seguito alla stesura del protocollo operativo congiunto firmato da Giuseppe Dal Ben, direttore generale dell’azienda ospedaliera, e da Maria Milano Franco d’Aragona, direttrice del Prap, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria. Ma nonostante questo passaggio formale il reparto di Medicina Protetta non aveva ancora ospitato alcun detenuto. Nell’area dedicata ai reclusi che non necessitano di cure ad alta intensità trovano spazio due stanze di degenza (ciascuna da tre posti letto e con bagno in camera), una guardiola e un locale attrezzato per il personale di polizia penitenziaria. Oltre a un locale sanitario dedicato al personale d’assistenza e un altro in cui potranno essere svolti i colloqui dei detenuti. Roma. Bioeconomia e inclusione sociale: intesa Giustizia minorile-Unitelma Sapienza gnewsonline.it, 25 giugno 2025 In occasione dell’evento finale del progetto “Rigenera”, tenutosi ieri a Roma, presso la sede dell’Unitelma Sapienza, Antonio Sangermano, capo del dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità, e Bruno Botta, rettore, dell’Università degli Studi di Roma, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa volto a promuovere l’identità sociale, l’inclusione e il diritto allo studio dei ragazzi in difficoltà. In particolare, il protocollo si pone l’obiettivo di incoraggiare i giovani adulti tra i 18 e i 25 anni, sottoposti a misura penale - che abbiano già completato con successo gli studi superiori e mostrino un atteggiamento propositivo verso un percorso di risocializzazione - a intraprendere il percorso di studi universitari. L’Università ha infatti deciso di mettere a disposizione ogni anno, due borse di studio, a copertura dell’interno percorso di studi universitari, con la possibilità di estenderle ad ulteriori due anni di corso, destinati ai più svantaggiati, meritevoli di tale opportunità. Il Protocollo nasce dalla sinergia, avviata otto mesi fa, tra l’Unitelma Sapienza e la comunità ministeriale del territorio calabrese, con il progetto di Terza Missione “Rigenera”, che rappresenta un esempio virtuoso in grado di unire ricerca, didattica e impatto sociale, in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo sul tema della bioeconomia, promossi attivamente anche dall’attuale Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. Sangermano ha sottolineato che il Dipartimento si impegna a seguire questi giovani con uno “spirito genitoriale” e ad offrire un percorso di consapevolezza per riscattarsi, interiorizzando i valori democratici e di legalità, anche attraverso il sapere che è strumento fondamentale per l’umanizzazione. Rivolgendosi direttamente ai giovani, il Capo Dipartimento ha concluso che “ogni essere umano è più grande del proprio errore. L’umanità esonda dalla colpa. Non significa cancellare la responsabilità, né scivolare nel giustificazionismo, ma aiutare ciascuno ad affrontare e superare la propria fragilità, trasformandola in occasione di crescita”. “Rigenera” si è prefisso l’obiettivo molto ambizioso di passare dalla teoria alla pratica, creando un ponte tra il sapere accademico e il contesto educativo quotidiano, favorendo tra i giovani partecipanti lo sviluppo di competenze, consapevolezza ambientale e cittadinanza attiva. Grazie all’impegno congiunto di docenti, educatori, istituzioni locali e ragazzi, è stato possibile tradurre i complessi concetti della bioeconomia in esperienze concrete, accessibili ed applicabili. I partecipanti hanno potuto confrontarsi con realtà professionali pubbliche e private, scoprendo che l’università non è soltanto un luogo di studio teorico, ma anche uno spazio di costruzione di conoscenze pratiche e di proiezione sul futuro. Il progetto ha avuto un impatto formativo importante: per molti giovani si è trattato, infatti, della prima occasione di confronto diretto con il mondo delle istituzioni e della ricerca applicata. Il lavoro con i ragazzi è consistito nello sviluppo di competenze all’utilizzo del digitale, mediante la fruizione di lezione a distanza, consentendo ai partecipanti di scoprire che gli strumenti della tecnologia moderna possono servire anche per sviluppare nuove competenze e non solo per svagarsi o socializzare. Attraverso interviste, laboratori e varie attività condotte sul campo - fra cui meritano rilievo apprezzamento la collaborazione con l’azienda partecipata del Comune di Catanzaro alla pulizia della spiaggia di Catanzaro Lido e della pineta di Giovino e la realizzazione di un orto di comunità sostenibile, alimentato da compost autoprodotto dai ragazzi con gli scarti - i partecipanti hanno potuto sperimentare il valore della cooperazione, dell’ecologia e dell’innovazione sociale, mettendo in pratica le conoscenze apprese e facendosi parte attiva nella tutela dell’ambiente, con particolare attenzione alla raccolta differenziata e al riciclo. Sono state raccolte diverse testimonianze e materiali di questa esperienza, che confluiranno in un eBook a cura dell’Università, che costituisce un punto di partenza per diventare un modello replicabile in altri contesti, contribuendo in tal modo a disseminare buone pratiche educative e ambientali e a rafforzare il ruolo dell’università come attore importante nello sviluppo sostenibile e inclusivo delle comunità. Come ha ricordato il rettore Botta nel suo intervento, è importante consentire a ragazze e ragazzi che hanno avuto storie problematiche di riemergere e scoprire per tutti esiste una speranza di crescita e miglioramento. I ragazzi presenti hanno ricevuto personalmente l’attestato di partecipazione al progetto, che consegneranno anche ai loro compagni impossibilitati ad assistere alla giornata conclusiva, e hanno potuto esporre brevemente la loro esperienza positiva. Hanno preso parte alla giornata Valerio Maio, Prorettore alla Terza Missione, Stefano Anastasia, professore di Filosofia del Diritto, Piergiuseppe Morone, professore ordinario e coordinatore del Progetto, Nadia Sansone, professoressa ordinaria ed esperta pedagogista del progetto dell’Unitelma Sapienza, Cira Stefanelli, dirigente del dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Valeria Cavalletti, dirigente del centro per la giustizia minorile di Catanzaro e Massimo Martelli Direttore della Comunità Ministeriale di Catanzaro. Napoli. I detenuti di Poggioreale protagonisti dello spettacolo teatrale “La Macchia” anteprima24.it, 25 giugno 2025 Stamane, a Napoli, nella chiesa principale della Casa Circondariale “G. Salvia” di Poggioreale è andato in scena lo spettacolo teatrale “La Macchia”, per la regia di Riccardo Sergio. Un’iniziativa sostenuta dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello e dalla Giunta Regionale della Campania. Il progetto ha visto la luce grazie a un laboratorio teatrale guidato dall’Associazione di Promozione Sociale Polluce con i detenuti del Padiglione Genova di Poggioreale. Un laboratorio durato quattro mesi che ha portato i ristretti a mettere in scena uno spettacolo di cui hanno curato sia la drammaturgia che la creazione dei costumi. Ne è risultata una matinée di grande partecipazione in quello che, ha sottolineato il Garante Ciambriello, “è il carcere più sovraffollato d’Europa ma anche quello con il maggior numero di volontari”. Al centro della pièce la presenza inquietante della macchia che, fa notare la regia “assume via via significati diversi - colpa, vergogna, segreto, ferita, identità - tutti emersi attraverso un lavoro collettivo che non cerca risposte definitive, non ne offre, ma produce una materia viva, sempre in trasformazione”. “Uno spettacolo apparentemente leggero - ha detto il direttore dell’Istituto Stefano Martone - ma con un messaggio da consegnare, basato su un significato profondo: non bisogna ignorare la macchia, questo è vero, ma occorre andare oltre essa, guardare oltre”. La magistrata di sorveglianza Maria Picardi ha sottolineato l’importanza dell’interesse verso i più giovani reclusi e quella della scuola come luogo aperto in cui affrontare ed elaborare temi sociali di importanza centrale come quello del carcere. “Momenti come questo ci fanno pensare a chi eravamo, chi siamo ora e chi potremmo essere in futuro”, ha detto un detenuto dopo la rappresentazione e nel momento dei saluti. Finali quelli del Garante Ciambriello che ha speso parole sul significato di queste iniziative “che - ha detto - infrangono il muro dell’indifferenza e sono momenti di aggregazione e condivisione fondamentali perché diversi da quelli che hanno condotto in carcere”. Abusi, manganelli e provocazioni di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 25 giugno 2025 Un anno addietro, la nostra premier, commentando i pestaggi subiti da alcuni studenti medi a Pisa e Firenze, affermò che criticare le forze dell’ordine è pericoloso. È seguito il decreto sicurezza, che fornisce assistenza statale agli esponenti delle forze dell’ordine sotto processo per abusi di potere, e consente loro di usare le armi private che possiedono quando non sono in servizio. La recente vicenda di Genova, che vede indagati 15 esponenti della polizia urbana del capoluogo ligure per lesioni, peculato, falso ideologico, ci induce a riflettere sui pericoli che conseguono dall’allentare le briglie del controllo sugli apparati deputati all’uso della forza. L’inchiesta è partita dalla denuncia di due loro colleghe, insoddisfatte dell’esito dell’inchiesta interna, dalla quale uscivano come scarsamente credibili. Se da un lato, in quanto garantisti, preferiamo sospendere il giudizio in attesa dell’esito giudiziario della vicenda, dall’altro lato, gli elementi che sono emersi fino ad ora, non possono non destare preoccupazioni. Si tratta di un copione che ricalca altre vicende che hanno coinvolto le forze dell’ordine. Pensiamo a quanto avvenuto a Piacenza nel 2020, o a Verona un paio di anni fa, e che si ripete a Genova, per non parlare di quanto accertato ad Asti. La retorica delle “poche mele marce” sembra dissolversi di fronte al rosario di una triste routine di vessazioni, violenze, appropriazioni indebite, trasversali a tutti i corpi di polizia. Come affermava lo studioso inglese Maurice Punch, più che alla mela marcia, bisogna guardare al frutteto. Che non si tratti di un’eccezione, lo evidenzia anche la sistematicità del contesto, con veri e propri codici e rituali che appaiono cementare il gioco di squadra messo in atto dagli agenti implicati. Le percosse definite “cioccolatini” o chiamate “sberlari” in assonanza con la nota marca di caramelle, la chat di gruppo, dove si commentavano i fatti in oggetto, appellata come un noto film di Scorsese, inquietano: gli agenti coinvolti sembrano confondere la distinzione tra realtà e fiction, sentendosi protagonisti di un film in cui il male sta necessariamente dall’altra parte. Così facendo, giustificano i loro comportamenti abusivi, rimuovendo totalmente il fatto che il loro mandato si svolge all’interno della cornice dello Stato di diritto. A preoccupare è anche il loro modus operandi. Oltre a possedere un tonfa, manganello non in dotazione alla polizia urbana, i soldi e gli stupefacenti sequestrati dagli indagati verrebbero tenuti in un ripostiglio apposito, per essere poi opportunamente utilizzati o per scopi personali. Ma, soprattutto, per costruire delle prove a carico dei fermati. Il più delle volte si tratta di minori o migranti, ovvero le classi pericolose dell’Italia contemporanea. Anche su questo c’è da riflettere, in quanto emerge ancora una volta come, lungi dall’ottemperare alle leggi, le forze di polizia producano la devianza in modo selettivo, facendo leva sui pregiudizi e le rappresentazioni dominanti. Last but not least, si rende necessaria una riflessione sulla degenerazione delle pratiche messe in atto dalla polizia urbana in questo paese. Almeno dal settembre 2008, quando il ghanese Emmanuel Bunsu venne pestato a Parma nel corso di un’operazione antidroga, è balzato all’evidenza come la polizia locale, a volte, interpreta il suo ruolo non tanto come primo livello di interfaccia tra i cittadini e lo Stato, quanto come primo recettore e interprete del securitarismo. Con le conseguenze negative che conosciamo. No, signora premier. Non è pericoloso criticare i poliziotti. Anzi, alla luce di quello che emerge continuamente, e dei margini ulteriori di autonomia che, insensatamente, il suo decreto, concede loro, costituisce una pratica sacrosanta. Eutanasia, la Consulta ora decide sui diritti di chi non è autonomo di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 25 giugno 2025 L’8 luglio l’eutanasia arriverà per la prima volta davanti alla Corte: possibile svolta sul fine vita. Come già ha evidenziato Il Dubbio, il prossimo 8 luglio la sentenza n. 242/ 2019 della Corte costituzionale sul suicidio medicalmente assistito torna davanti alla Consulta. L’udienza riguarda il caso di una donna toscana di 55 anni affetta da sclerosi multipla progressiva, completamente paralizzata, che, pur avendo tutti i criteri per accedere alla domanda di suicidio assistito stabiliti dalla stessa Corte, non è in condizioni fisiche di assumere autonomamente il farmaco letale e chiede che possa somministrarlo il suo medico di fiducia. Il tribunale di Firenze (Ordinanza 30 aprile 2025) ha sollevato questione di legittimità sul reato di omicidio del consenziente (art. 579 codice penale) e la parola passa ancora una volta ai giudici, che ora dovrebbero affrontare anche questa situazione. Va ora osservato che né l’ordinanza n. 207/ 2018, che aveva preceduto la sentenza, né quest’ultima si sono preoccupate di definire con chiarezza cosa si debba intendere per aiuto al suicidio (art. 580 codice penale), rischiando con l’utilizzo in diverse circostanze del termine “somministrare il prodotto letale”, di vedere coinvolte situazioni che rientrano piuttosto nell’omicidio del consenziente. In genere, la procedura considerata è stata quella che il paziente debba acquisire da solo il prodotto letale fornito dal medico. Ci si allontana, dunque, da una diversa situazione: quella in cui il soggetto si avvalga per la sua morte del prodotto letale “somministrato” da un terzo (un medico, un familiare, un amico, ecc.). In questo caso abbiamo un terzo che svolge un ruolo primario e continuo nell’ambito dell’intera vicenda. Per il nostro ordinamento questo è un atto criminoso, definito “omicidio del consenziente” e generalmente indicato come eutanasia. Tuttavia, come nel caso attuale, resta il problema di dover giustificare come si realizzi la somministrazione del farmaco da parte di un terzo a favore del paziente una volta che, rispettati i criteri di accuratezza per rendere legittimo l’aiuto al suicidio, il soggetto sia privo di un’autonomia fisica e abbia perso qualsiasi possibilità di mobilità, pur rimanendo perfettamente capace di intendere e di volere. Da qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Firenze. L’articolo 579 del codice penale, infatti, presenta profili di possibile contrasto con i parametri costituzionali nella parte in cui non esclude la punibilità di chi attui materialmente il proposito suicidario del malato - autonomamente e liberamente formatosi - nelle condizioni sopra descritte. La regola appare in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione per la irragionevole disparità di trattamento tra situazioni sostanzialmente identiche. A parità di condizioni, il diritto all’autodeterminazione del paziente viene ad essere condizionato da un fatto (possibilità di autosomministrazione del farmaco letale) del tutto accidentale, dipendente dalla condizione clinica della persona, dalle modalità di manifestarsi della malattia e dalla sua progressione. Paradossalmente il diritto all’autodeterminazione viene pregiudicato proprio negli stati più gravi della malattia, quando, ad esempio, il paziente è totalmente compromesso dell’uso degli arti e/ o della capacità di deglutire, e quindi in quelle ipotesi dove ragionevolmente sono maggiori le sofferenze fisiche e psicologiche del malato. Sussistono inoltre dubbi di costituzionalità anche nell’ipotesi in cui, seppure vi possano essere in astratto modalità esecutive di auto- somministrazione del farmaco (nella specie, per via orale), le stesse non siano accettate dal paziente (principio di autodeterminazione) per complicazioni possibili e la scelta manifestata sia motivata e non possa ritenersi irragionevole. Entrambi i profili sono, anche distintamente rilevanti nel caso di specie considerata la finalità etica e giuridica di consentire l’esercizio libero delle scelte del malato in materia di fine vita e in considerazione della imprevedibile evoluzione della malattia, anche nel corso del giudizio. In queste situazioni cliniche, tuttavia, non si tratta di estendere le condizioni in cui il malato ha diritto ad accedere alla morte medicalmente assistita, che rimangono le stesse indicate dalla Corte costituzionale, trattandosi di pazienti che già hanno diritto di decidere di porre fine alla propria vita rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza, ma viene richiesta una applicazione dei medesimi principi alla fattispecie di cui all’art. 579 c. p., con i necessari adattamenti, nei casi di impossibilità di auto somministrazione. La condotta materiale non appare un elemento distintivo così significativo tale da giustificare, ferme le condizioni di cui alla sentenza n. 242/ 2019, una tale sproporzione di trattamento: in un caso la piena liceità della condotta e nell’altro l’applicazione di una sanzione penale con pena minima di sei anni di reclusione. Invero, la compressione di tale diritto sotto il profilo delle modalità esecutive rischia di condizionare il processo stesso di formazione della volontà del malato che, in presenza di un rischio di progressione repentina e non prevedibile della malattia, potrebbe essere indotto ad attuare anticipatamente il proprio proposito suicidario proprio per il timore di non poter poi accedere alla morte medicalmente assistita a causa del progredire della malattia e per l’impossibilità fisica della auto- somministrazione del farmaco letale. La Corte costituzionale nell’ordinanza n. 207/ 2018 ha chiarito che il bene giuridico che l’art. 579 del codice penale mira a presidiare è cambiato, alla luce dell’entrata in vigore della Costituzione ed il principio personalista impone di rivedere l’oggettività giuridica, conservando la sanzione penale la cui ragion d’essere va ritrovata nella tutela delle persone fragili e vulnerabili, “le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida”. Nel caso di specie, appare allora legittimo che venga richiesta una pronuncia additiva che fissi le condizioni e le garanzie che rendano lecito l’intervento del terzo nell’attuazione del proposito suicidario, senza far venir meno la cintura di protezione al bene della vita che la norma penale assicura. Negarlo e conservare l’incriminazione nella sua attuale portata, sembra comprimere in modo sproporzionato il diritto di autodeterminazione del paziente e la sua effettiva e concreta attuazione (art. 2, 13, 32 della Costituzione), creando, come già detto, una disparità di trattamento tra malati (art. 3 della Costituzione). Fine vita con dolore. In arrivo il ddl secondo lo Stato etico di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 giugno 2025 Al Senato la maggioranza presenta la bozza del testo atteso in Aula il 17 luglio. Un comitato governativo decide per il paziente. Tempi di risposta fino a 240 giorni. In caso di diniego, la nuova richiesta solo dopo 4 anni. La chiamano legge sul Fine vita ma assomiglia molto a una punizione. Almeno stando alle bozze del ddl sul suicidio medicalmente assistito, atteso in Aula al Senato il 17 luglio, che ieri sono state presentate finalmente ai senatori del Comitato ristretto che le attendevano da sei mesi. Un testo che i relatori Zanettin (Fi) e Zullo (Fdi) sono riusciti ad elaborare solo superando le divisioni interne alla maggioranza con una “sintesi tra le diverse sensibilità”, come riferisce soddisfatta la presidente leghista della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, assicurando che l’iter non slitterà ulteriormente. Martedì prossimo al Comitato ristretto dovrebbe arrivare “un testo ordinato che verrà assunto dalle commissioni riunite come testo base”, anticipa il presidente della Affari sociali, Zaffini (FdI), augurandosi “che si vada in Aula con i relatori”. Ma il risultato non è affatto incoraggiante per chi aveva sperato in una legge che proseguisse nella stessa direzione stabilita dalla Corte costituzionale con la sentenza 242 del 2019 (Cappato/Dj Fabo) e con la successiva 135 del 2024. E invece lo “Stato etico” del governo Meloni assicura - al primo punto della bozza - la “tutela della vita dal concepimento alla morte naturale”. E di conseguenza dichiara “nulli” tutti “gli atti civili e amministrativi” contrari a queste finalità. Sottomissione pura ai pro-life (propaganda o meno che sia). Il cuore del ddl modifica, poi, l’articolo 580 c.p. “in esecuzione” della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale punire l’aiuto al suicidio in determinate condizioni. Ma introduce tra i requisiti richiesti al paziente - maggiorenne, capace di intendere e volere, che in modo “libero autonomo e consapevole” chiede di poter accedere al suicidio medicalmente assistito - l’obbligo di essere prima “inserito nel percorso di cure palliative”. Un vincolo inesistente nelle decisioni dei giudici costituzionali che, peraltro, l’8 luglio si pronunceranno di nuovo sul fine vita, questa volta affrontando il nodo eutanasia con il caso di un malato che non è in grado di assumere il farmaco letale in autonomia. Le bozze del ddl della maggioranza impongono inoltre che il malato, affetto “da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili”, debba essere necessariamente “tenuto in vita da trattamenti sostitutivi di funzioni vitali” (la Consulta parlava solo di “trattamenti di sostegno vitale”). Ad accertare le sue condizioni è predisposto un “Comitato nazionale di valutazione etica” nominato da Palazzo Chigi. Da notare che solo due settimane fa si è insediato presso l’Iss un nuovo Comitato etico nazionale per le sperimentazioni cliniche che assorbe le competenze degli altri comitati etici pre esistenti, fin qui con funzioni consultive. In questo caso, il “Comitato nazionale di valutazione etica” avrà 7 componenti (un giurista, un bioeticista, un anestesista, un palliativista, uno psichiatra, uno psicologo e un infermiere) nominati con decreto del Consiglio dei ministri. Rimarranno in carica per cinque anni con la possibilità di due mandati consecutivi. E, nato per rispondere in tempi celeri e certi alle richieste - ovviamente urgenti - dei pazienti, potrà prendersi fino a 240 giorni di tempo per decidere se sussistano o meno i requisiti (60 giorni prorogabili di altri 60 in attesa dei pareri “non vincolanti” dei medici specialisti; tempi che si raddoppiano “in caso di motivate esigenze”). Dopo questi 8 mesi, al richiedente che sarà sopravvissuto e che riceverà un eventuale diniego non sarà più possibile presentare nuove richieste “nei successivi 48 mesi” (4 anni). Norme che, secondo il vicepresidente dei senatori dem Bazoli, “delineano un procedimento molto diverso da quello da noi immaginato, e che necessitano di notevoli correzioni e integrazioni, anche per renderle coerenti con la sentenza della Consulta”. Una proposta “pessima” e irricevibile, invece, per la senatrice di Avs Ilaria Cucchi. Mentre la Francia e la Gran Bretagna si apprestano a varare leggi in linea con i diritti umani, la “componente profondamente oscurantista della destra” nostrana non contempla neppure, come sottolinea Cucchi, “l’autodeterminazione nelle fasi finali della propria vita e il ruolo primario del Ssn”. Ma impone ai cittadini l’etica governativa. “Dal concepimento alla morte naturale”: la legge sul fine vita per colpire l’aborto di Simone Alliva Il Domani, 25 giugno 2025 Il testo proposto dalla maggioranza prevede cure palliative obbligatorie, un Comitato etico nominato dal governo e un vincolo di quattro anni in caso di parere negativo. Possibili conseguenze giuridiche sull’interruzione volontaria di gravidanza: “La norma mina il quadro di principio su cui si fonda la legge 194”. La vita è un diritto da tutelare “dal concepimento alla morte naturale”. È questa la formula con cui la maggioranza di governo apre la bozza di legge sul fine vita, in discussione nelle commissioni Affari sociali e Giustizia del Senato. Una frase che non compare nella Costituzione né nella legge 194 sull’aborto, ma che in questa proposta diventa principio cardine. Il testo, ancora in fase di limatura, sarà discusso formalmente nella prossima seduta del Comitato ristretto, martedì 1° luglio, come confermato dal presidente della commissione Affari sociali Francesco Zaffini (FdI). I punti più delicati, ha detto Zaffini, sono “l’istituzione del Comitato etico, l’esclusione del Servizio sanitario nazionale e l’obbligatorietà della messa a disposizione delle cure palliative”. Una norma che nasce in attuazione della storica sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, quella che stabilì che l’aiuto al suicidio non è punibile in presenza di precisi requisiti. Ora quella decisione viene tradotta in legge. Ma il testo mostra un impianto fortemente sbilanciato, che punta prima di tutto a limitare la portata dell’autodeterminazione attraverso filtri etici, clinici e burocratici molto stringenti. Contestati in commissione da tutta l’opposizione. L’articolo d’apertura della bozza afferma con forza che “il diritto alla vita è diritto fondamentale della persona in quanto presupposto di tutti gli altri”. E prosegue: la Repubblica tutela la vita di “ogni persona, dal concepimento alla morte naturale, senza distinzioni”. Una formula che suona familiare a chi conosce il linguaggio dei movimenti pro-life. “La formula “dal concepimento alla morte naturale” mina il quadro di principio su cui si fonda la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza”, spiega a Domani Angelo Schillaci, professore associato di Diritto pubblico comparato alla Sapienza. “Se resta nel testo, rischia di costituire un precedente per future interpretazioni restrittive della 194”. Ma non è l’unico punto critico. Cure palliative obbligatorie - Il cuore della bozza è l’inserimento nel Codice penale (articolo 580) di un nuovo comma 2-bis. Si stabilisce che non è punibile chi agevola il suicidio di una persona in precise condizioni: maggiorenne, capace di intendere e volere, affetta da patologia irreversibile, in stato di sofferenza fisica o psicologica intollerabile, tenuta in vita da trattamenti che sostituiscono funzioni vitali, inserita in un percorso di cure palliative. Come osserva Schillaci: “La Corte aveva parlato di un’offerta, di un coinvolgimento possibile: ma la scelta restava libera. Qui invece diventa una condizione necessaria. Se rifiuti le cure palliative, perdi il diritto a morire con dignità”. Comitato nazionale di valutazione etica - Ma soprattutto: la decisione deve essere “libera, autonoma e consapevole” e deve ottenere il parere positivo del Comitato nazionale di valutazione etica, un nuovo organo previsto dal testo. Sarà questo Comitato a decidere se sussistano le condizioni per non punire chi aiuta una persona a porre fine alla propria vita. È composto da sette membri: un giurista, un bioeticista, tre medici (di cui uno palliativista, uno anestesista e uno psichiatra), uno psicologo e un infermiere. Sono nominati dal presidente del Consiglio e restano in carica cinque anni, con possibilità di due rinnovi. In Commissione l’opposizione ha evidenziato che una nomina dei componenti da parte del Consiglio dei ministri “politicizzi” il Comitato. Il parere è “obbligatorio”, anche se non vincolante per l’autorità giudiziaria. Eppure la Corte aveva previsto il coinvolgimento dei Comitati etici territoriali già attivi nelle strutture sanitarie. Tuttavia, la legge prevede che chi ottiene un parere negativo non potrà ripresentare la domanda per 48 mesi: quattro anni in cui non sarà possibile riproporre una nuova valutazione, a prescindere dal possibile evolversi della malattia o della sofferenza. “C’è poi una discrepanza evidente”, sottolinea Schillaci “nella definizione di dipendenza da trattamenti vitali. La Corte ha parlato di “sostegno vitale”, non di trattamenti sostitutivi di funzioni vitali. È una nozione molto più ampia”. Il testo prevede tempi stringenti (60 giorni prorogabili) per la risposta del Comitato etico, ma esclude esplicitamente l’applicazione delle normative generali sulla trasparenza amministrativa e il diritto d’accesso (legge 241/1990), nonché la possibilità di ricorrere all’istituto del testamento biologico previsto dalla legge 219/2017. Il parere del Comitato, infine, sarà sottoposto al vaglio del giudice: l’autorità giudiziaria dovrà tenerne conto per valutare la non punibilità dell’aiuto al suicidio. Le opposizioni - Alfredo Bazoli, senatore del Partito Democratico, accoglie con cautela l’arrivo della bozza: “È già qualcosa che ci siano testi su cui lavorare, ma c’è molto da correggere. I punti critici sono evidenti” dice. E sottolinea in particolare un’assenza: “Quella del ruolo del Servizio sanitario nazionale: si rischia che le persone debbano rivolgersi a strutture private o pagare di tasca propria”. Giudizio fortemente critico quello delle senatrici M5S Marilina Castellone e Anna Bilotti che giudicano “inaccettabili” sia la frase “dal concepimento alla morte naturale” sia la nomina governativa del Comitato, sia l’obbligatorietà delle cure palliative. “Una destra sorda al grido di dolore della comunità civile”, commentano le due senatrici. Per Ilaria Cucchi (Avs), “una legge sul fine vita deve contenere il diritto di scelta dei malati che si trovano in condizioni di sofferenza irreversibile e il ruolo primario del Servizio sanitario nazionale. Non può essere un comitato etico, di nomina governativa, a decidere”. E aggiunge che “vista la pessima proposta della destra, un testo condiviso è sempre più lontano”. Una proposta dunque che traduce formalmente la sentenza della Corte costituzionale, ma lo fa con una struttura pensata più per arginare che per garantire l’autodeterminazione. E, nel farlo, rischia di trasformare il diritto alla scelta in un percorso a ostacoli. Resta ora da vedere se questo impianto reggerà al confronto parlamentare e, soprattutto, alla prova della realtà di chi ogni giorno vive in condizioni estreme, in attesa di una risposta che oggi, per legge, non può più essere negata. Fine vita. “Ddl maggioranza? Testo vecchio, va contro la Consulta” di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2025 “L’idea di escludere il Servizio sanitario nazionale rientra nei motivi per sarebbe immediatamente impugnabile”. “In base a quanto emerso dalle anticipazioni e dalle bozze circolate, il testo del disegno di legge della maggioranza sul tema del fine vita è già vecchio e va contro quanto già deciso dalla Corte costituzionale”. A bocciare la direzione intrapresa dalle forze di centrodestra è Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Luca Coscioni, a margine di un’iniziativa in Senato organizzata della senatrice del Movimento 5 Stelle e vicepresidente di Palazzo Madama, Mariolina Castellone, dal titolo “Democrazia e partecipazione sul tema del fine vita: l’esperienza francese”. In particolare, ha aggiunto Gallo, “l’idea di escludere il Servizio sanitario nazionale, al quale la Consulta ha dato un compito specifico di verifica e assistenza, rientra nei motivi per cui un testo di legge di questo tipo sarebbe immediatamente impugnabile. Anche l’intento di annullare la legge della Toscana, che è stata approvata per dare fasi e tempi certi a chi richiede di accedere al suicidio medicalmente assistito è un tentativo che fa il pari con la volontà di escludere il Ssn. Si creano così nuove discriminazioni”. Parole condivise dalla stessa Castellone, che, dopo aver partecipato alla riunione del comitato ristretto sul fine vita, ha accusato la maggioranza di aver stravolto il testo, annullando la possibilità di trovare una sintesi condivisa tra le forze politiche: “La previsione di un comitato etico di nomina governativa apre a uno scenario inquietante nel quale in base al governo di turno la posizione su temi così delicati sarà più o meno permissiva. In pratica, più che di comitato etico potremmo parlare di comitato ideologico. Il secondo aspetto preoccupante riguarda le cure palliative, perché il percorso nel quale la maggioranza vorrebbe inserire i pazienti non è previsto dalla sentenza della Consulta, finendo per mettere in discussione alcuni diritti. Una cosa assolutamente inaccettabile. Così come il riferimento, nel primo articolo della bozza, alla ‘tutela della vita a partire dal concepimento’. Su questo tema la politica non riesca a mettere da parte le posizioni ideologiche. Ma basterebbe prendere spunto dalla Francia, dove un bellissimo esperimento di democrazia partecipativa rappresentato dalla Convenzione cittadina ha redatto un testo di legge poi discusso in Parlamento. Invece la maggioranza in Italia preferisce le battaglie ideologiche rispetto al bene dei cittadini. Noi non voteremo un testo di questo tipo”, ha rivendicato la vicepresidente del Senato. “Non accetteremo compromessi al ribasso”, ha aggiunto anche la collega M5s Anna Bilotti, anche lei presente nel Comitato ristretto sul fine vita. “Una legge deve essere in corrispondenza alla nostra Carta costituzionale, ciò che è contro si commenta da solo”, ha concluso Gallo. Migranti. La Cassazione: stop ai Cpr in Albania di Gianfranco Schiavone L’Unità, 25 giugno 2025 Secondo la Suprema Corte il protocollo è in totale contrasto con la direttiva rimpatri. Una recente sentenza della Corte di Cassazione è destinata a segnare una svolta in merito alla scelta, di cui il Governo italiano si è a lungo vantato in Europa, di utilizzare il centro di Gjader, in Albania, con la funzione di Cpr. Nonostante la sentenza sia di straordinaria importanza, quasi nessuno ne ha parlato. Il 22 marzo 2025 il prefetto di Ancona disponeva l’espulsione di un cittadino tunisino con accompagnamento alla frontiera e applicazione della misura del trattenimento nel CPR di Bari; la misura veniva convalidata dal giudice di pace competente. L’11 aprile il Ministero dell’Interno disponeva però il trasferimento coatto della stessa persona nel centro di Gjader in Albania, centro nel quale il 22 aprile l’interessato presentava domanda di asilo. Il Questore di Roma ne disponeva dunque il trattenimento nel medesimo centro in Albania ma in tal caso come richiedente asilo (d.lgs 142/2015 art. 6 c.3) da trattenere in pendenza dell’esame della domanda. Appena il giorno successivo, 23 aprile, la domanda di asilo veniva esaminata con fulminea solerzia, e infine rigettata, da parte della commissione territoriale per l’esame delle domande di asilo. Tuttavia, il 24 aprile la Corte d’Appello di Roma non convalidava il trattenimento e ordinava il ritorno della persona in Italia ritenendo che in base all’art. 9 della Direttiva 2013/32/UE sulle procedure in materia di diritto d’asilo, il cittadino straniero non fosse espellibile, né rimpatriabile e avesse diritto di rimanere nel territorio dello Stato fino alla scadenza del termine per proporre ricorso o, se presentato, fino alla decisione sull’istanza di sospensione connessa al ricorso stesso. Il Ministero dell’Interno impugnava in Cassazione la decisione della Corte d’Appello sostenendo che la struttura posta nel centro di Gjader è equiparabile ad un qualsiasi CPR (centro per il rimpatrio) ubicato nel territorio nazionale (e analogamente l’ala del centro di Gjader destinata invece ad hotspot sarebbe del tutto equiparabile ai pochi hotspot aperti in Italia). La prima sezione penale della Cassazione investita del caso sopra descritto (e di analogo caso che nello stesso periodo aveva coinvolto un altro straniero di nazionalità algerina) si è interrogata sulla legittimità, alla luce del diritto europeo, della equiparazione della struttura di Gjader con i CPR e gli hotspot che si trovano sul territorio nazionale e dunque sulla legittimità della previsione, di cui al citato Protocollo italo-albanese, di applicare in tali centri, “in quanto compatibili”, le normative di diritto interno ed europeo in materia di ingresso, permanenza e allontanamento degli stranieri. Unendo i due procedimenti, con decisione n. 23105-25 ha dunque operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con il quale ha chiesto alla stessa di stabilire se il sistema del trattenimento degli stranieri espulsi presso le strutture aperte a seguito del Protocollo tra Italia ed Albania, ratificato con L. 14/24 non si ponga in contrasto con il diritto europeo, sia sotto il profilo del rispetto della normativa europea sui rimpatri, sia in relazione al rispetto della normativa europea sulle procedure di asilo. Osservando giustamente che le disposizioni contenute nel Protocollo Italia-Albania “non trasformano le aree delle quali si tratta [ndr. il centro di Gjader] in una porzione del territorio italiano” la Corte di Cassazione si sofferma “proprio sul fine dell’allontamento e, in conseguenza, sull’obiettivo perseguito da tutte le misure di trattenimento”. La Cassazione muove il suo ragionamento dalla definizione di “rimpatrio” contenuta nell’articolo 3 della Direttiva 115/ CE/2008 sui rimpatri quale processo di allontanamento della persona nel suo paese di origine o in un paese di transito, se ciò è previsto da accordi internazionali, o in un paese terzo nel solo caso in cui il cittadino straniero vi scelga volontariamente di ritornare. L’accordo tra Italia e Albania non rientra tuttavia in nessuna di tali ipotesi. Poiché secondo il diritto europeo (art. 15 Direttiva rimpatri) il trattenimento è una misura che può essere adottata solo come extrema ratio quando le altre misure meno afflittive si sono dimostrate, in concreto, non possibili, e può essere mantenuto per il periodo più breve possibile, secondo la Cassazione “occorre verificare appunto che le misure adottate - con le conseguenti privazioni della libertà personale che ad esse si accompagnino - siano funzionali ad assicurare il rimpatrio come sopra individuato” (ovvero come definito dall’articolo 3 della Direttiva). La Cassazione mette in luce impietosamente come “non è dato riscontrare indici normativi puntuali e specifici che documentino, nel Protocollo [Italia-Albania] il perseguimento dell’obiettivo di assicurare il rimpatrio dei migranti in condizioni di irregolarità”. Altresì “in nessun luogo dell’accordo è stabilito in qual modo l’obiettivo è destinato ad essere attuato (….) in un territorio che resta (…) quello di uno stato non membro, ancorché assoggettato alla giurisdizione italiana - in termini di maggiore efficienza che nel territorio italiano con il necessario rispetto delle garanzie della disciplina eurounitaria vigente”. Secondo la Cassazione, con la cui interpretazione concordo pienamente (della non conformità del Protocollo italo-albanese con la Direttiva rimpatri ho già scritto su queste pagine), “lo Stato membro non è titolare di un potere illimitato di trasferimento degli stessi [migranti espulsi] potendo solo disporre, in linea generale, un rimpatrio nei termini di cui al citato articolo 3 della Direttiva”. In altre parole, le persone in fase di esecuzione dell’espulsione non possono essere condotte e poi trattenute in un paese terzo, comprimendo i loro diritti fondamentali, al solo scopo di perseguire a piacimento delle finalità politiche (ad esempio il vagheggiato effetto deterrenza ad arrivare in Europa). Secondo la Cassazione la nuova disciplina italiana rappresentata dal Protocollo Italia-Albania si pone pertanto in contrasto con l’intero impianto della Direttiva rimpatri ed in particolare con gli articoli 3, 6, 8, 15 e 16 (di fatto tutti gli articoli fondamentali della norma in questione). La Cassazione ha effettuato infine anche un secondo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE che verrebbe preso in esame solamente “in caso di risposta negativa” al primo rinvio, ovvero nel caso in cui la Corte di Giustizia effettui una ricostruzione (che ritengo poco probabile) del diritto UE che la conduca a ritenere legittimo deportare e trattenere in un paese terzo degli stranieri espulsi senza che vi sia in ciò alcuna specifica e concreta finalità di eseguirne il rimpatrio. In tale caso il quesito che la Cassazione pone alla Corte di Giustizia è quello della conformità del Protocollo Italia-Albania con l’articolo 9 della Direttiva 2013/33/UE (procedure) che prevede che gli stranieri che hanno fatto domanda di asilo (anche se trattenuti) sono autorizzati “a rimanere nel territorio di uno Stato membro ai fini esclusivi della procedura, fintantoché l’autorità accertante non abbia preso una decisione”. Nel caso ci sia dunque una limitazione della libertà nei casi previsti dalla legge essa può attuarsi solo nel territorio dello Stato UE, non all’estero. Secondo la Cassazione infatti la “strettissima e ineludibile connessione tra richiesta di asilo e diritto di accedere al territorio” non può determinare, nel caso in cui la domanda sia stata fatta dentro un CPR che si trova all’estero “un minore livello di garanzie e diritti per l’istante, tanto più laddove (…) siano le stesse autorità italiane ad aver condotto in un Paese terzo i soggetti che, ivi giunti, abbiano chiesto di essere ammessi alla protezione internazionale”. Più o meno negli stessi giorni in cui la Cassazione effettuava il descritto rinvio alla Corte di Giustizia UE il Governo italiano forzava ulteriormente la normativa vigente: secondo un’inchiesta condotta dal mensile AltrEconomia il 9 maggio 2025 un aereo noleggiato al prezzo di 139mila euro dal Governo italiano recuperava alcuni stranieri di nazionalità egiziana dal CPR di Roma per poi atterrare a Tirana e da lì ripartire alla volta de Il Cairo con altri egiziani che erano stati trattenuti a Gjader. Un’espulsione eseguita quindi direttamente dall’Albania, senza rientro in Italia delle persone espulse in violazione, a mio avviso, della Direttiva rimpatri (il già citato art. 3 in particolare) ma anche in chiara violazione dell’articolo 13 della Costituzione perché le operazioni di polizia condotte fuori dal centro di Gjader in territorio albanese nei confronti delle persone trasportate (trasporto e imbarco da Tirana) sono completamente prive di controllo giurisdizionale. A meno di nuove gravi forzature politiche, i due rinvii pregiudiziali operati dalla Corte di Cassazione dovrebbero, almeno nell’attesa del pronunciamento della Corte di Giustizia, condurre dunque alla totale cessazione del trattenimento nel centro di Gjader sia dei cittadini stranieri espulsi che non presentano domanda di protezione internazionale a Gjader, sia di coloro che invece tale domanda nello stesso centro la presentano. Migranti. Gradisca, la rete No Cpr denuncia violenze contro una persona vulnerabile Il Manifesto, 25 giugno 2025 Un nuovo video dall’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca, in provincia di Gorizia, è stato pubblicato oggi. “La mia terapia dello psichiatra. Guardate vogliono picchiarmi. Non ce l’avete la mia terapia in questo centro. Non mi fai paura. Prova di toccarmi senza lo psichiatra”. Segue il suono delle botte, dei manganelli che si abbattono uno dopo l’altro. Un nuovo video dall’interno del Centro di permanenza per i rimpatri di Gradisca, in provincia di Gorizia, è stato pubblicato oggi (martedì 24 giugno) dalla rete No ai Cpr. Dalle immagini prima si intuisce lo stato di agitazione dell’uomo, poi si vedono le violenze dei finanzieri, infine si sentono urla terrificanti di sottofondo. Appena una settimana fa altri due brevi video fuoriusciti dallo stesso centro - qui e nella struttura di Milano i migranti possono tenere i cellulari - avevano fatto scoppiare la polemica. Con tanto di richieste di chiarimenti sulle botte contro un trattenuto avanzate dal centrosinistra e di smentite, con minacce di querele, da parte della questura di Gorizia che contesta la ricostruzione dei fatti. Nel caso più recente ci sarebbe anche l’aggravante della vulnerabilità della persona coinvolta. “Abbiamo notizia di almeno altri due trattenuti con problemi psichiatrici a Gradisca, uno dei quali parla da solo camminando su e giù e passa gran parte del proprio tempo a letto. Un altro è appena andato in ospedale dopo essersi procurato almeno un centinaio di ferite sulle gambe”, scrive la rete No Cpr, sottolineando che soggetti con questo tipo di problemi non dovrebbero essere rinchiusi nelle strutture di detenzione amministrativa e, comunque, necessitano di cure adeguate. In questi luoghi, invece, spesso le patologie nascono o si sviluppano. Inchieste giornalistiche e giudiziarie hanno svelato l’abuso di psicofarmaci e sedativi somministrati principalmente per contenere i trattenuti. Facendo così sviluppare pericolose dipendenze. Anche per questo la rete No Cpr parla di “deriva manicomiale” dei Cpr, dove la funzione del trattenimento diventa soltanto quella di parcheggiare un’umanità considerata di scarto. Droghe. Record di morti per cocaina, allarme antidepressivi nei ragazzi ansa.it, 25 giugno 2025 Seppure in Italia il consumo di droghe tra i giovani “appare leggermente diminuito” nel 2024 rispetto al 2023, nell’anno appena trascorso si registrano due record negativi: le morti per cocaina e l’uso di antidepressivi senza prescrizioni da parte dei giovanissimi. A raccontare il variegato mondo delle tossicodipendenze è la Relazione annuale al Parlamento in Italia nel 2025, con dati che si riferiscono al 2024. Nel 2024 il 35% dei decessi accertati per intossicazione acuta letale è stato attribuito proprio alla cocaina, percentuale che registra proprio nel 2024 il suo massimo storico. E sempre lo scorso anno, per la prima volta, il numero di decessi direttamente attribuiti alla cocaina/crack (80 casi), accertati dalle Forze dell’ordine, è risultato equivalente a quello legato all’assunzione di eroina/oppiacei (81 casi). Le analisi delle acque reflue urbane rivelano che la cocaina è la seconda sostanza psicoattiva illegale più consumata in Italia nel 2024, con una stima media di circa 11 dosi al giorno ogni 1.000 abitanti, valore in leggero aumento rispetto agli anni 2020-2022. Al primo posto c’è la cannabis (52 dosi ogni 1.000 abitanti) A partire dal 2021, inoltre, si è registrato un incremento costante nel consumo di psicofarmaci senza prescrizione medica tra i giovani che ha raggiunto, nel 2024, i valori più alti di sempre: se la stima è di 510mila studenti di 15-19 anni che hanno fatto uso di queste sostanze senza prescrizione nel corso della vita, nella fascia 15-18 anni non ancora compiuti sarebbero 180mila ad averne fatto uso solo nell’ultimo anno (il 12% del totale di quella fascia di età), con una prevalenza più che doppia tra le studentesse. Ad ogni modo nella Relazione viene registrata una generale diminuzione del consumo di droga: nel 2024 l’uso di cannabinoidi è passato dal 22% al 21%, le Nps dal 6,4% al 5,8%, i cannabinoidi sintetici dal 4,6% al 3,5%, gli stimolanti dal 2,9% al 2,4%, la cocaina dal 2,2% all’1,8%, gli allucinogeni dal 2,0% all’1,2%, mentre gli oppiacei sono rimasti stabili all’1,2%. La cannabis resta la sostanza psicoattiva più diffusa in Italia ed emerge “il significativo aumento della concentrazione di Thc nei prodotti a base di hashish, la cui potenza è quadruplicata dal 2016 (dal 7% del 2016 al 29% del 2024), soprattutto nelle formulazioni di nuova generazione e nei liquidi utilizzati per le sigarette elettroniche. Anche nel 2024, il Sistema nazionale di allerta rapida per le droghe (News-d) che ha gestito in totale 437 segnalazioni, ha identificato 79 Nuove sostanze psicoattive circolanti sul territorio nazionale. Di particolare rilievo le segnalazioni di sequestri della “cocaina rosa”, una combinazione di Mdma e ketamina generalmente sotto forma di polvere di colore rosa. In crescita anche il gioco d’azzardo tra i giovani: circa 1 milione e 530mila ragazzi, pari a circa il 62% degli studenti, riferisce di aver giocato d’azzardo almeno una volta nella vita, mentre oltre 1 milione e 420mila ragazzi lo hanno fatto nell’ultimo anno, facendo registrare nel 2024 il dato più alto di sempre. Allo stesso modo il mondo dei videogiochi presenta criticità per molti ragazzi: più di 290mila studenti minorenni hanno mostrato nel 2024 comportamenti a rischio con i videogame, spesso associati a reazioni emotive forti quando era preclusa loro la possibilità di giocare L’Europa si inchina a Donald Trump: le spese militari salgono al 5% del Pil di Marco Bresolin La Stampa, 25 giugno 2025 “L’Europa pagherà il suo contributo in modo consistente, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria. Non è stato facile, ma siamo riusciti a far sì che tutti si impegnino a raggiungere il 5%”. Nel messaggio privato che il segretario generale della Nato Mark Rutte ha inviato a Donald Trump, e che il presidente americano ha immediatamente reso pubblico, sono racchiusi almeno tre elementi che ben descrivono il senso del vertice dell’Alleanza atlantica, iniziato formalmente ieri sera all’Aja nel momento in cui il capo della Casa Bianca ha fatto il suo ingresso nel Palazzo Reale verso le 20.30. Un vertice che darà il “la” a uno storico piano di riarmo basato su due presupposti: la Russia è una minaccia per l’Europa e la protezione sin qui fornita dagli Stati Uniti non è più garantita, tanto che Trump ha fatto capire di voler mettere in discussione l’articolo 5 della Nato, quello che prevede la reciproca difesa in caso di attacco. Al netto delle ironie circolate in ambienti diplomatici sull’atteggiamento “totalmente sdraiato” di Rutte nei confronti di Trump, il primo elemento-chiave nel suo messaggio è che l’Europa “pagherà il suo contributo come è giusto che sia”: detto da un leader europeo suona come un’ammissione del fatto che il Vecchio Continente ha sin qui goduto di un servizio di sicurezza senza versare la giusta quota. Il secondo è che lo farà in modo “consistente” (Rutte ha usato la formula “BIG”, in maiuscolo), impegnandosi a portare le spese per la Difesa e la Sicurezza al 5% del Pil nel giro dei prossimi dieci anni. Il terzo aspetto è che “non è stato facile” farlo digerire a tutti: le resistenze si sono fatte sentire fino all’ultimo minuto e hanno costretto Rutte a giocare la partita negoziale ai tempi supplementari. Il triplice fischio arriverà soltanto oggi e quindi la prudenza suggerisce di aspettare il via libera definitivo alla dichiarazione prima di decretare il risultato. Teoricamente resta il nodo della Spagna, con il premier Pedro Sanchez che ha cercato - e in qualche modo ottenuto - lo scontro mediatico prima con Rutte e poi con lo stesso Trump, utilissimo ai fini interni. “C’è un problema con la Spagna che non è d’accordo, il che è molto ingiusto nei confronti degli altri alleati” ha avvertito il presidente Usa mentre attraversava l’Atlantico a bordo dell’Air Force One. È vero che il testo del comunicato conclusivo non è ancora chiuso al 100%, ma ieri sera l’ottimismo tra le delegazioni era palpabile. E lo stesso Rutte è convinto di aver trovato il giusto compromesso che permetterà di salvare la capra del 5% e al tempo stesso gli amarissimi cavoli del premier spagnolo. Innanzitutto, perché il compromesso trovato con gli altri alleati contiene già una serie di flessibilità e di scappatoie che rendono più dolce la pillola del 5%. Non si tratta di un target netto: “solo” il 3,5% delle spese dovrà essere destinato alla Difesa in senso stretto, mentre il restante 1,5% servirà per finanziare quegli investimenti che hanno un impatto sulla sicurezza, lasciando ampi margini per la loro definizione. Inoltre, è stata rivista la data finale: alcuni Paesi premevano per fissare la scadenza al 2030, Rutte aveva proposto il 2032, ma alla fine si è deciso di stabilire il 2035. Non solo: è stata inserita una clausola che prevede una revisione dell’obiettivo nel 2029, vale a dire quando Trump non sarà più alla Casa Bianca. Ma i contorni dell’accordo non sono stati ritenuti sufficienti da Sanchez, che ha chiesto a Rutte una lettera di chiarimenti. Il testo è un formidabile esercizio di creatività diplomatica da parte del segretario generale della Nato: contiene il giusto livello di ambiguità che serve al premier spagnolo per dire ai suoi elettori che Madrid potrà raggiungere gli obiettivi in termini di capacità pur senza arrivare al 5%, anche se in realtà questa è solo un’interpretazione, perché Rutte non lo ha scritto, ma ha soltanto parlato di “flessibilità” in merito al “percorso” e alle “risorse annuali”. Nulla dice sull’obiettivo finale del 5% che - in base alla dichiarazione congiunta - dovrà essere raggiunto nel 2035. La situazione stava sfuggendo di mano quando altri Paesi, come la Slovacchia e il Belgio, hanno iniziato a chiedere anche loro deroghe. Ma Rutte ha subito fermato tutti spiegando che non sono previste “esenzioni”. “L’Europa della Difesa si è finalmente svegliata” ha esultato Ursula von der Leyen, che da mesi prepara il terreno per consentire ai governi degli Stati membri di spendere di più. E il suo connazionale Friedrich Merz ha assicurato che “non lo stiamo facendo per compiacere Trump, ma perché agiamo sulla base delle nostre convinzioni” e per difendersi dalla Russia. Berlino raggiungerà il 5% già entro il 2029 e a margine del vertice Nato ha incassato i complimenti dell’ambasciatore americano Matthew Whitaner, che ha definito la Germania “motore del riarmo”, capace di dare una spinta agli altri Paesi europei come “Francia, Regno Unito e Italia”. Ma per il governo Meloni ora si tratta di affrontare un’altra partita, quella per trovare i margini di bilancio, che si giocherà tra Roma e Bruxelles. Stati Uniti. Migranti, la corte dà l’ok alle espulsioni di Trump di Matteo Persivale Corriere della Sera, 25 giugno 2025 I supremi giudici sbloccano le deportazioni. E vicino a Miami nascerà un carcere nella palude. “Alligator Alcatraz” pare il titolo di uno quei film di serie B degli anni Settanta così amati da Quentin Tarantino: ci si immagina il carcere subtropicale con il direttore in giacca e cravatta dallo sguardo crudele e i modi gelidi, i secondini sudati, i detenuti disperati con le barbe lunghe che cercano di organizzare un’evasione impossibile a causa del fossato con i coccodrilli. “Alligator Alcatraz” è invece il progetto appena varato - le ruspe sono già al lavoro dall’altro ieri mattina presto - per aprire in Florida quello che la ministra per la Sicurezza interna Kristi Noem ha definito “un’iniziativa per istituire centri di detenzione per immigrati, tra cui un sito proposto nelle Everglades che i funzionari statali hanno soprannominato “Alligator Alcatraz”“. Secondo il procuratore generale della Florida, James Uthmeier, un piccolo aeroporto semiabbandonato tra le paludi delle Everglades verrà riconvertito in un centro di detenzione per immigrati senza permesso. L’appellativo di “Alligator Alcatraz” deriva dal fatto che, ha spiegato, un detenuto che cercasse di fuggire si troverebbe ad affrontare alligatori e pitoni nelle paludi che circondano il sito. La struttura verrà entro poche settimane resa operativa e da fine luglio dovrebbe ospitare un numero di detenuti che potrebbe, al termine dei lavori, arrivare a 5 mila. “Non potranno più uscire”, ha detto Uthmeier in un’intervista con il commentatore conservatore Benny Johnson, descrivendo la struttura “Alligator Alcatraz”, cosa che richiama una vecchia proposta di Trump del 2016, che chiedeva allo staff di organizzare fossati con coccodrilli per i migranti. I costi? Federali, senza gravare sulla Florida. Noem ha spiegato che i centri di detenzione in Florida saranno finanziati “in gran parte” dal programma di alloggi e servizi della protezione civile, cioè dalla fiscalità generale. I tribunali? La Corte Suprema ha appena consegnato una vittoria decisiva a Trump in materia di immigrazione: la maggioranza conservatrice ha aperto la strada alla ripresa delle espulsioni dei migranti verso Paesi terzi, senza ulteriori obblighi di giusto processo come era stato invece imposto da un giudice distrettuale. L’ordinanza della Corte Suprema consente all’amministrazione Trump di riprendere a effettuare espulsioni con procedura accelerata di immigrati irregolari verso Paesi diversi dal proprio. Stephen Miller, vicecapo dello staff e di fatto plenipotenziario in fatto di immigrazione, “mente” trumpiana in materia (a lui il compito delicato di concettualizzare le istanze della base del movimento Maga), ha immediatamente attaccato un giudice di Boston che aveva bloccato in una base africana degli immigrati che Trump aveva deportato in Sud Sudan. “Si sta rifiutando di obbedire alla Corte Suprema. Aspettatevi fuochi d’artificio, riterremo questo giudice responsabile di essersi rifiutato di obbedire alla Corte Suprema”, ha dichiarato Miller a Fox News. Cosa resta ai democratici adesso? Parole. Il dotto, elegante dissenso della giudice Sonia Sotomayor, insieme alle altre democratiche della Corte Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson. Alla sentenza decisa dai colleghi repubblicani ha aggiunto una nota di dissenso, accusando i suoi colleghi di tollerare comportamenti “illegali” da parte dell’amministrazione in “questioni di vita o di morte”. Ha scritto: “Questa Corte interviene ora per concedere al governo un provvedimento d’emergenza da un ordine che ha ripetutamente disatteso. Non posso unirmi a un così grave abuso della discrezionalità della Corte in materia di equità. La clausola del giusto processo rappresenta il principio che il nostro è un governo di leggi, non di uomini, e che ci sottomettiamo ai governanti solo se sottomessi alle regole. Premiando l’illegalità, la Corte mina ancora una volta questo principio fondamentale. A quanto pare, la Corte ritiene l’idea che migliaia di persone subiranno violenze in luoghi remoti più accettabile della remota possibilità che un Tribunale distrettuale abbia ecceduto i suoi poteri. Tale uso discrezionale della legge è tanto incomprensibile quanto imperdonabile. Rispettosamente, ma con rammarico, dissento”. Stati Uniti. La nuova guerra di Trump contro i migranti: deportati verso il Sud Sudan di Paolo Lambruschi Avvenire, 25 giugno 2025 I “Paesi terzi”, aggettivo quasi rassicurante, meritano sempre una attenzione particolare. Specialmente se un organo della magistratura autorizza un governo a deportarvi migranti. Riepilogo veloce. La Corte suprema degli Stati Uniti ha accolto ieri la richiesta d’urgenza del presidente Donald Trump di riprendere le espulsioni dei migranti verso Paesi diversi dalla loro patria, compresi luoghi come il Sud Sudan, e con un preavviso minimo. La decisione rappresenta, secondo gli osservatori politici, una vittoria significativa per l’amministrazione Trump, la quale aveva sostenuto che un tribunale di grado inferiore avesse usurpato la propria autorità ordinando al Dipartimento della sicurezza interna di fornire ai migranti un avviso scritto su dove sarebbero stati indirizzati, nonché la possibilità di contestare l’espulsione adducendo come motivazione il timore di essere torturati. I tre giudici liberal della Corte hanno espresso dissenso. Gli altri sei sono conservatori, tre dei quali nominati da Trump durante il precedente mandato. Veniamo dunque al Sud Sudan, caso più clamoroso di Paese “terzo”. Una definizione ipocrita alla prova dei fatti - quelli che il secondo presidente americano John Adams definiva argomenti testardi - perché non tiene conto, ad esempio, della miseria del Paese che occupa il 181° posto su 188 nazioni nell’Indice di sviluppo umano, con solo il 27% della popolazione alfabetizzata e un’aspettativa di vita di 57 anni. E non considera soprattutto l’emergenza umanitaria in atto e il pericolo di ripresa della guerra civile nell’ultimo Paese africano a raggiungere l’indipendenza nel 2011. Il Sud Sudan sta affrontando una crisi alimentare sempre più grave, con circa 7,7 milioni di persone che hanno difficoltà a procurarsi cibo, crisi causata anche dallo sfruttamento delle risorse come il petrolio da parte di Paesi questi sì “terzi”. Secondo l’Onu si contano infatti più di due milioni di bambini in emergenza alimentare, aumentati del 10% in un anno. E questo sta avvenendo sullo sfondo della peggiore epidemia di colera al mondo. Il Sud Sudan nonostante ciò - e questo suona tanto come una lezione - ha accolto un milione di profughi fuggiti dal conflitto in atto nel vicino Sudan. Ma ha dovuto interrompere i servizi per gli sfollati a causa di una significativa carenza di fondi, che ha lasciato molte persone bloccate al confine con il Sudan, riferisce l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Stando alle cronache che nessuno o quasi racconta, un ospedale sostenuto da Medici senza frontiere nella contea di Morobo è stato attaccato venerdì scorso da uomini armati che hanno saccheggiato le forniture mediche e incendiato due ambulanze. La tensione è altissima, dopo sette anni di guerra civile dal 2013 al 2020 per una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. Il conflitto conclusosi cinque anni fa con una pace instabile aveva causato circa 400mila morti e quattro milioni di sfollati. Un sudsudanese su tre era senza casa. E da marzo quel conflitto rischia di riesplodere. Le sentenze si possono ancora commentare. Quella della Corte suprema statunitense legittima in definitiva la deportazione di migranti in un Paese palesemente sull’orlo del collasso ed è semplicemente inaccettabile. “Inaccettabile”, fu la conclusione di altri giudici, quelli della Corte suprema del Regno Unito, che il 15 novembre 2023, con decisione unanime, fermarono il piano del governo conservatore britannico di trasferire in Ruanda una parte dei richiedenti asilo che giungono in UK traversando la Manica illegalmente con piccole imbarcazioni. Ora Trump, definito vincitore, ha il via libera per un’altra guerra, quella ai migranti irregolari che può rispedire anche nei Paesi più depressi come il Sud Sudan dove, con i tagli a Usaid, sono già spariti gli aiuti primari ai campi profughi e agli ospedali, molti cattolici e missionari, del continente africano. Una guerra di cui non andare certo fieri. Turchia. Avvocati sotto assedio: la lunga notte della giustizia di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 giugno 2025 Istituzioni forensi mobilitate per i colleghi: il caso dell’Ordine di Istanbul al centro del convegno organizzato dai Coa di Brescia e Cremona. In Turchia l’avvocatura è sotto attacco. Pochi mesi fa l’Ordine degli avvocati di Istanbul - il più grande al mondo con quasi 70 mila iscritti -, presieduto dal costituzionalista Ibrahim Kaboglu, è stato dichiarato decaduto con l’accusa di “propaganda a favore di un’organizzazione terroristica” e “diffusione di informazioni fuorvianti”. Inoltre, nello scorso fine settimana l’avvocato Mehmet Pehlivan, difensore del sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu (nel frattempo sospeso dalla carica), in carcere da marzo con l’accusa di corruzione, è stato arresto per la seconda volta. Uno scenario inquietante in cui gli avvocati, sempre più spesso, sono assimilati ai loro assistiti con conseguenze dirette sul loro operato. Alla condizione degli avvocati turchi il Coa di Brescia ha dedicato ieri un convegno nell’Auditorium Capretti. Il presidente dell’Ordine di Istanbul, Ibrahim Kaboglu, non ha potuto partecipare in videocollegamento. Per alcune ore, facendo temere il peggio, è stato trattenuto dalla polizia dopo essere sceso in piazza per protestare contro i soprusi patiti dall’avvocatura turca. In serata è stato lo stesso Kaboglu a rassicurare tutti: nessun arresto, può muoversi liberamente. L’iniziativa bresciana è stata organizzata in collaborazione con il Coa di Cremona, la Scuola forense OAB, la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e Ciels Campus. I lavori sono stati aperti da Vittorio Minervini (consigliere Cnf e vicepresidente della Fondazione dell’avvocatura italiana), Giovanni Rocchi (presidente dell’Ordine degli avvocati di Brescia) e Alessio Romanelli (presidente dell’Ordine degli avvocati di Cremona). “Gli avvocati in pericolo - ha affermato Vittorio Minervini - sono lo specchio di alcune realtà con deficit democratico sparse per il mondo alle quali è dedicato il lavoro dell’Oiad. Non dobbiamo illuderci che l’avvocatura sia in pericolo in luoghi lontanissimi da noi. Segnali poco confortanti, infatti, giungono da quella che è definita la “culla della democrazia”: gli Stati Uniti. Agli Stati Uniti sarà dedicata la giornata dell’avvocato in pericolo nel prossimo gennaio”. Il vicepresidente della Fai ha riflettuto sulle violazioni del diritto internazionale alle quali stiamo assistendo negli ultimi tempi. “Se la tutela del diritto internazionale - ha aggiunto - non è più un caposaldo, allora dobbiamo preoccuparci”. Secondo Giovanni Rocchi, le occasioni di confronto sulle condizioni in cui versano le avvocature perseguitate sono preziose per uscire da una sorta di “confort zone” e volgere lo sguardo oltre i confini nazionali. “Da molto tempo - ha affermato - il Coa di Brescia segue da vicino, anche grazie ad alcuni osservatori internazionali, nostri iscritti, le vicende degli avvocati in Turchia. L’attenzione su alcune derive deve essere sempre alta”. Il presidente del Coa di Cremona, Alessio Romanelli, ha espresso parole di vicinanza all’avvocatura turca (“Non possiamo che manifestare il nostro affetto a chi è costretto a lavorare in condizioni difficili, correndo grossi rischi”). Massimo Audisio (componente Commissione Cnf di Diritto europeo e internazionale, componente del direttivo dell’Oiad) ha seguito da vicino i lavori che hanno portato alla Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli avvocati. “Si tratta - ha commentato Audisio - di un passaggio storico. È il primo trattato internazionale in assoluto, volto a proteggere la professione di avvocato in un contesto di crescenti segnalazioni di attacchi contro la pratica della professione. Pensiamo alle molestie, alle minacce o alle aggressioni, senza tralasciare le interferenze nell’esercizio delle attività professionali”. In Turchia si è recata più volte Barbara Porta della Commissione Cnf sui Diritti umani e sulla protezione internazionale e presidente del Comitato Human rights del CCBE. “Purtroppo - ha riflettuto Porta - i processi a carico dei colleghi turchi hanno una chiara matrice politica per silenziare le voci del dissenso antigovernativo su alcuni temi di vitale importanza: la tutela delle libertà fondamentali, un giusto e equo processo e la salvaguardia dello Stato di diritto, così come definito dal Trattato sull’Unione europea”. In Turchia dal 2018 alla fine del 2024 quasi 600 avvocati sono stati arrestati con condanne complessive a 1.500 anni di carcere. Tra gli osservatori sui processi che riguardano gli avvocati turchi ci sono pure Alessandro Magoni (Osservatorio avvocati minacciati Ucpi) e Alessandro Bertoli (osservatore internazionale dell’Oiad), entrambi del Foro di Brescia. “Quello che più stupisce - ha detto Magoni - è l’accusa a carico dei componenti dell’Ordine di Istanbul di propaganda a sostegno di un’organizzazione terroristica, dopo aver criticato le autorità militari e politiche per l’uccisione di due giornalisti in Siria considerati membri del Pkk”. Magoni, invece, si è soffermato sui modi sbrigativi della magistratura turca nel definire i processi a carico degli avvocati. “Qui da noi in Italia - ha spiegato - ogni tanto, ci lamentiamo del fatto che i giudici facciano inviti alle difese ad essere stringati. In Turchia questo rischio non si corre. Il giudice resta impassibile per ore, senza curarsi delle critiche non solo dei legali, ma anche del pubblico. Il giudice dorme, alza il quadernino con quattro appunti. Ma alla fine la sentenza è già scritta, come era ovvio che fosse”. La vicepresidente del Coa di Brescia, Valeria Cominotti, ha sottolineato l’impegno del Foro della città lombarda: “Siamo sensibili alle condizioni di lavoro dei colleghi di altri Paesi. Quanto sta accadendo a Istanbul e in Turchia deve farci riflettere. Anche io ho potuto constatare di persona quanto sia difficile operare in quel contesto, dove gli avvocati, presidio di democrazia, mettono a rischio la loro vita. L’avvocatura turca è sotto assedio. La vicenda del professor Kaboglu, insigne studioso di diritto costituzionale e presidente dell’Ordine degli avvocati di Istanbul, offre un quadro molto preoccupante. Per questo motivo iniziative come la nostra servono a sensibilizzare i colleghi italiani. Non dobbiamo mai abbassare la guardia”. Algeria. Come una condanna a morte: chiesti 10 anni di carcere per Boualem Sansal di Adalgisa Marrocco huffingtonpost.it, 25 giugno 2025 L’accusa chiede di raddoppiare in appello la pena per lo scrittore franco-algerino, ottantenne e malato di cancro, accusato di “attentato all’unità nazionale” e detenuto dal novembre scorso. Il verdetto atteso il primo luglio, diplomazie al lavoro per una grazia presidenziale. Dieci anni di reclusione per un uomo di quasi ottant’anni, affetto da un tumore alla prostata. È la richiesta avanzata dalla procura della Corte d’appello di Algeri nei confronti di Boualem Sansal, scrittore franco-algerino detenuto dal 16 novembre 2024 con l’accusa di aver attentato all’unità nazionale. Il verdetto definitivo, riporta Le Figaro, è atteso per il 1° luglio, ma la pena richiesta dal pubblico ministero equivale, di fatto, a una condanna a morte. Nel marzo scorso, Sansal era stato condannato in primo grado a cinque anni di carcere e a una multa di 500.000 dinari (circa 3.500 euro). All’origine del procedimento giudiziario vi sono alcune dichiarazioni rilasciate dallo scrittore alla rivista Frontières, incentrate sulla colonizzazione francese del Marocco e dell’Algeria. “Quando la Francia colonizzò l’Algeria - aveva detto l’autore - tutta l’Algeria occidentale faceva parte del Marocco e la Francia decise arbitrariamente di annettere l’intero Marocco orientale all’Algeria tracciando un confine”. Parole considerate eversive dal regime del presidente Abdelmadjid Tebboune. Da qui l’incriminazione iniziale per “attentato alla sicurezza dello Stato” e “minaccia all’integrità del territorio nazionale”, ai sensi dell’articolo 87 bis del codice penale. In seguito, è stata aggiunta l’accusa di “collaborazione con potenze straniere”, in relazione al presunto trasferimento di “informazioni sensibili di carattere economico e strategico” all’ex ambasciatore francese Xavier Driencourt. Secondo Arnaud Benedetti, fondatore del Comitato di sostegno internazionale a Boualem Sansal, l’udienza d’appello è durata circa una decina di minuti. La stampa francese, inoltre, segnala che lo scrittore candidato al Nobel non ha potuto contare sull’assistenza del suo nuovo avvocato francese, a cui le autorità algerine hanno negato il visto, malgrado le precedenti rassicurazioni. Le reazioni del mondo intellettuale non si sono fatte attendere. “Il procuratore ha chiesto dieci anni di prigione contro Sansal in Algeria. Non ci sono parole”, ha scritto su X lo scrittore Kamel Daoud, anch’egli nel mirino del regime. Duro anche il commento del sindaco di Cannes, David Lisnard, promotore della campagna JeLisSansal, nata per far conoscere l’opera dello scrittore attraverso letture pubbliche. “Il regime algerino si appresta a condannare a morte in maniera totalmente arbitraria il nostro compatriota, anziano e malato di cancro. Non ci sono parole dinanzi a una tale ignominia”, ha dichiarato. Lisnard ha poi puntato il dito contro la timidezza delle autorità francesi: “Da sette mesi, Parigi abbassa vergognosamente gli occhi sulla sorte di Boualem Sansal, la cui unica colpa è quella di aver abbracciato la Francia, la sua cultura, la sua lingua, la sua cittadinanza, il suo universalismo repubblicano”. Nel mese di maggio, l’Assemblea nazionale francese aveva approvato una risoluzione - dal forte valore simbolico, sebbene non vincolante - in cui si chiede la liberazione di Sansal. Il testo è passato con 307 voti favorevoli, ma ha visto l’opposizione della sinistra di La France Insoumise, che ha espresso 28 voti contrari e quattro astensioni, tra cui la maggior parte dei deputati comunisti. Socialisti ed ecologisti, pur con alcune riserve, hanno votato a favore. Al momento, tuttavia, né la risoluzione né gli appelli del presidente Emmanuel Macron hanno sortito effetti. Restano delusione e sgomento. Le figlie dello scrittore, Nawal e Sabeha, hanno raccontato all’AFP il loro “senso di totale impotenza” davanti a un sistema che “incarcera persone per aver espresso liberamente la propria opinione”. L’ultima speranza è affidata a una possibile grazia presidenziale, che qualcuno auspica possa giungere in occasione della festa dell’indipendenza algerina del 5 luglio.