La giustizia minorile è in crisi. Le associazioni lanciano un appello urgente: “torni la cultura educativa” Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2025 La giustizia minorile italiana sta vivendo una fase di regressione drammatica. Un sistema un tempo all’avanguardia in Europa sta oggi rinnegando i suoi stessi principi fondativi, virando verso una logica esclusivamente punitiva e abbandonando il suo approccio educativo. L’Associazione Antigone, Defence for Children Italia e Libera, hanno lanciato un appello urgente per fermare la deriva repressiva e riaffermare il ruolo della giustizia minorile come spazio di accompagnamento, reinserimento e tutela. Dal 2022 a oggi, il numero di giovani detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) è aumentato del 55%, passando da 392 a 611 presenze. Un’impennata dovuta in larga parte al cosiddetto Decreto Caivano che, entrato in vigore nel settembre 2023, ha ampliato la possibilità di custodia cautelare per i minorenni e ridotto l’utilizzo delle misure alternative al carcere. Numeri che sarebbero ben superiori se non fosse che molti giovani anche quando hanno compiuto il reato da minorenni e che potevano permanere in Ipm fino ai 25 anni sono invece stati trasferiti in carceri per adulti al compimento della maggiore età, pratica che il Decreto Caivano ha grandemente facilitato in chiave punitiva nel totale disinteresse per il percorso educativo del giovane. Tutto questo, nonostante nel 2023 le segnalazioni a carico di minorenni siano diminuite del 4,15%. Oggi 9 Ipm su 17 soffrono di sovraffollamento. A Treviso si sfiora il doppio delle presenze rispetto ai posti disponibili, mentre a Milano e Cagliari il tasso di affollamento tocca il 150%. Ragazzi costretti a dormire su materassi gettati a terra, privati di percorsi educativi, lasciati per ore in cella senza attività. Un quadro che non si era mai registrato prima nel sistema della giustizia minorile. Per ovviare al sovraffollamento si è scelto di trasformare in Ipm una sezione del carcere bolognese per adulti della Dozza, transitata repentinamente sotto la gestione del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità con un atto amministrativo, che non ne muta tuttavia le caratteristiche strutturali: un carcere minorile imprigionato in un carcere per adulti che rompe in maniera plastica il principio internazionalmente riconosciuto della netta distinzione che sempre deve esserci tra la risposta penale destinata agli adulti e quella destinata ai ragazzi. Sempre di più, al contrario, la nostra giustizia minorile va assomigliando a quella degli adulti tradendo principi ed impegni internazionali assunti dalle nostre istituzioni in relazione alle persone minorenni e alla loro relazione con il sistema di giustizia. “Le carceri minorili si stanno trasformando in luoghi di abbandono. La risposta dello Stato è la punizione, la repressione, l’isolamento - affermano i promotori dell’appello - ma così si viola la Costituzione, si tradiscono gli impegni internazionali e si spezzano vite in crescita”. In linea con i principi e le norme della Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza, in particolare art. 37 e 40, ulteriormente specificati dal Comitato ONU CRC nel suo Commento Generale n°10 del 2007 e n°24 del 2019, tenendo presente l e linee guida del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minorenne, alla luce della Direttiva UE 2016/800 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali nell’appello sono state avanzate diverse richieste: * l’abolizione del Decreto Caivano; * l’assunzione di educatori e assistenti sociali adeguatamente formati anche in relazione ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e alle loro specifiche vulnerabilità; * la formazione adeguata, costante e verificata della polizia penitenziaria basata sui principi e le norme relative ai diritti dell’infanzia e dell’adolescenza; * la realizzazione di una valutazione individuale per ogni minorenne che entra in Ipm e di un piano educativo integrato che renda efficace il percorso rieducativo; * la presenza costante in Ipm di competenze e risorse per la mediazione culturale; * la chiusura immediata della sezione Ipm nel carcere per adulti di Bologna; * la costituzione di sezioni a custodia attenuata, come previsto dal D. Lgs. n. 121/2018; * l’effettiva possibilità di far usufruire i giovani in Ipm delle visite prolungate previste dal D. Lgs. n. 121/2018; * l’applicazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2024 sull’affettività in carcere; * l’abolizione della sanzione disciplinare dell’isolamento penitenziario, come previsto dalla Regola 45 delle Mandela Rules delle Nazioni Unite; * il raccordo degli Ipm con le scuole e i servizi del territorio anche prevedendo la frequentazione di scuole esterne da parte dei ragazzi; * il maggiore impegno da parte delle Regioni nell’offerta di formazione professionale per i ragazzi nel circuito penale; * il potenziamento del sostegno alle comunità che ospitano ragazzi del circuito penale, garantendo reale integrazione socio sanitaria; * il monitoraggio della salute psico fisica e adeguata presa in carico per garantire sempre il superiore interesse delle persone minorenni; * il supporto e il rinforzo di meccanismi per il monitoraggio indipendente di tutti i luoghi di detenzione dove sono presenti persone minorenni; “È tempo di tornare a una giustizia che accompagna, non che punisce. Una giustizia che crede nei ragazzi, nelle loro possibilità, nel loro futuro”, concludono i promotori dell’appello. All’appello hanno finora aderito: A Buon Diritto, Arci, Arpjtetto, Cittadinanzattiva, Cnca, Cnvg - Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, Fondazione Don Calabria per il Sociale, Ristretti Orizzonti, Terre des Hommes, UISP “Giustizia minorile in crisi, abolite il decreto Caivano” di Asia Buconi L’Unità, 24 giugno 2025 In Italia la giustizia minorile vive una fase critica, o meglio, una vera e propria crisi. Il sistema - che un tempo faceva scuola anche in Europa - si sta trasformando da educativo a punitivo e repressivo. Una deriva denunciata in un appello pubblico da Antigone, Defence for Children Italia e Libera. La richiesta delle associazioni è chiara: quello strumento deve tornare ad essere uno spazio di accompagnamento, reinserimento e tutela dei giovani. A parlare dell’urgenza di un cambio di rotta immediato sono le cifre: dal 2022 ad oggi, il numero di ragazzi detenuti negli Istituti Penali per Minorenni (Ipm) è cresciuto del 55%, passando da 392 a 611 presenze. Non sono tuttavia i reati ad essere aumentati: le segnalazioni a carico di minorenni, nel 2023, sono addirittura diminuite del 4,15%. A cambiare, semmai, è stata la risposta dello Stato, che si è fatta appunto più dura, punitiva e meno capace di ascolto. L’impennata di presenze si spiega infatti anche con l’entrata in vigore, a settembre 2023, del Decreto Caivano, che ha esteso l’uso della custodia cautelare per i minori riducendo drasticamente la possibilità di accedere a misure alternative al carcere. E che ha avuto pure un altro effetto: facilitare il trasferimento anticipato dei giovani nelle carceri per adulti. Senza contare le condizioni degli Ipm, più critiche che mai: oggi 9 su 17 soffrono di sovraffollamento. Basti pensare al caso dell’Ipm di Treviso - dove si sfiora il doppio delle presenze rispetto ai posti disponibili - o a quelli di Milano e di Cagliari, il cui tasso di affollamento tocca il 150%. E sovraffollamento per i ragazzi significa dormire su materassi gettati a terra, non poter partecipare a percorsi educativi, restare in cella per ore a fare nulla. E le “toppe” pensate per ovviare al problema sono spesso peggio del buco: è il caso del carcere bolognese per adulti della Dozza, dove una sezione è stata trasformata in Ipm con buona pace del principio internazionalmente riconosciuto della netta distinzione - che sempre deve esserci - tra la risposta penale destinata agli adulti e quella destinata ai ragazzi. Da qui, le varie richieste dei promotori: tra le altre, l’abolizione del Decreto Caivano, l’assunzione di educatori formati sui diritti dell’infanzia, la chiusura della sezione minorile del carcere della Dozza, la creazione di sezioni a custodia attenuata, fino alla presenza costante in Ipm di competenze e risorse per la mediazione culturale. E ancora: il divieto assoluto di isolamento penitenziario per i minorenni, percorsi educativi individualizzati, il potenziamento della formazione professionale (spinto anche dalle Regioni), l’applicazione piena della sentenza della Consulta sull’affettività in carcere e, in ultimo, un monitoraggio indipendente costante di tutti i luoghi di detenzione minorile. “Le carceri minorili si stanno trasformando in luoghi di abbandono - scrivono i promotori dell’appello - la risposta dello Stato è la punizione, la repressione, l’isolamento, ma così si viola la Costituzione, si tradiscono gli impegni internazionali e si spezzano vite in crescita”. E concludono: “È tempo di tornare a una giustizia che accompagna, non che punisce, una giustizia che crede nei ragazzi, nelle loro possibilità, nel loro futuro”. Oggi le carceri italiane sono sempre più chiuse: il caso di Genova è un esempio delle conseguenze di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2025 Un’autentica sicurezza non si può costruire solamente con cancelli e sbarre. Bisogna conoscere le relazioni che si creano nella popolazione detenuta. La città di Genova si stringe attorno al carcere cittadino e affronta con forza il drammatico episodio accaduto all’istituto penale Marassi all’inizio di questo mese. Nelle scorse ore, su iniziativa del Garante regionale dei diritti dei detenuti, oltre 200 persone tra operatori sociali, avvocati, medici, insegnanti, semplici cittadini hanno firmato un appello per farsi carico di un percorso di accompagnamento per il giovane seviziato per giorni nel buio di quelle mura. Un ragazzino appena 18enne entrato in carcere in attesa di giudizio sarebbe stato sequestrato da quattro detenuti per due giorni, tra il 1° e il 3 giugno, e sottoposto a brutali sevizie che andrebbero dalla violenza fisica a quella sessuale, dalle ustioni con olio bollente ai tatuaggi sulla faccia. La dinamica dei fatti si chiarirà con le indagini, ma certo è che il ragazzo è oggi traumatizzato e che il cappellano del carcere ha affermato di non aver mai visto nulla di simile in vent’anni di servizio. “Non possiamo lasciarlo solo”, dice oggi la città di Genova attraverso l’appello promosso dal Garante. E chiede che le istituzioni si facciano carico del percorso di riabilitazione fisica e psicologica del giovane, oggi agli arresti domiciliari in una struttura esterna protetta. I fatti, come detto, si chiariranno (auspicabilmente al più presto). Ma possiamo già da ora interrogarci su alcune questioni che riguardano in generale lo stato delle nostre carceri. La vita interna è oggi allo sbando e l’episodio genovese ce lo dimostra in tutta la sua crudezza. “Il carcere trasparente” era il titolo del primo Rapporto in assoluto che l’associazione Antigone pubblicò all’inizio delle attività del proprio Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Italia. In quel titolo era racchiusa una grande parte della nostra filosofia: è la trasparenza delle carceri che previene gli abusi, le violenze dell’istituzione ma anche le distorsioni violente della vita quotidiana che possono arrivare a creare dinamiche come quella tragica avvenuta nella casa circondariale genovese. ?Trasparenza significa tante cose diverse. Un carcere trasparente è un carcere che non ha paura di farsi attraversare dal territorio esterno, un carcere in cui la città entra con vigore, e non invece dove si ritrova solamente a firmare appelli una volta che il danno è oramai avvenuto. Oggi le carceri italiane sono sempre più chiuse. Si cancellano attività, si ostacolano percorsi. Ma trasparenza significa anche che, al proprio interno, la vita carceraria deve fondarsi sulla conoscenza delle dinamiche sociali - di quella società complessa che la comunità penitenziaria costituisce - e non solamente sull’interposizione di barriere fisiche. I muri non costruiscono sicurezza. Gli organismi internazionali parlano di sorveglianza dinamica per riferirsi a quell’approccio alla sicurezza penitenziaria che la fonda sulla conoscenza delle interazioni, sulla prossimità, sul vivere i reparti detentivi. Se i poliziotti e gli educatori conoscono le dinamiche interne, se il direttore non governa il carcere dalla propria scrivania ma piuttosto scende nelle sezioni, avranno allora ben più possibilità di riuscire a intercettare e a prevenire episodi come quello di Marassi. Un’autentica sicurezza non si può costruire solamente con cancelli e sbarre. Bisogna conoscere le relazioni che si creano nella popolazione detenuta. Oggi invece il modello carcerario imposto è poco trasparente e chiuso, tragicamente chiuso. La carcerazione si concretizza in chiusura in celle affollate e insane, ozio forzato, vita senza stimoli. Ciò è sempre l’anticamera del degrado. Fatti come quelli che sarebbero avvenuti a Genova non devono sorprenderci ma devono indignarci. Serve prevenirli con un approccio educativo, conoscitivo e non chiudendo le persone in celle senza spazio come fossero bestie. *Coordinatrice dell’Associazione Antigone “Reato di abbraccio”: al 41 bis anche l’umanità diventa illecito di Valentina Stella Il Dubbio, 24 giugno 2025 I legali di Cospito segnalati per un saluto con baci e stretta di mano: la linea (troppo) sottile tra empatia e inaccettabile complicità, secondo il regime del “carcere duro”. “Reato di abbraccio” : ancora non è nel nostro codice ma è questo che ci viene in mente pensando a quanto successo ai due avvocati dell’anarchico Alfredo Cospito, Flavio Rossi Albertini e Maria Teresa Pintus. Entrambi sono stati segnalati, su input del Gom (Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria), dalla direzione del carcere di Sassari all’Ordine degli avvocati per aver salutato il loro assistito, ristretto al 41bis, con due baci sulle guance e una stretta di mano al termine di un colloquio. Due “esposti” pressoché identici - uno del 2024, l’altro di giugno 2025 - aventi ad oggetto: “segnalazione comportamento”. Obiettivo? Molto probabilmente intimidire i difensori e annichilire i detenuti. “Tenuto conto della caratura criminale dei soggetti ristretti presso il reparto 41 bis di questo istituto - si legge nelle due comunicazioni - ed il significato intrinseco che può avere tale saluto, si chiede di valutare se il comportamento dell’avvocato sia deontologicamente corretto, anche al fine di dare le opportune indicazioni al personale di Polizia penitenziaria che con abnegazione e professionalità assicura la vigilanza dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis”. Come è noto, quando i reclusi al carcere duro incontrano i familiari lo fanno divisi da un vetro e non possono avere nessun contatto con loro. Gli avvocati sono gli unici che possono avere un minimo di vicinanza che dura poi pochissimi secondi. “Verso Alfredo Cospito ho manifestato empatia umana salutandolo con una stretta di mano e con due bacetti sulle guance. Lo saluterò sempre con affetto in quanto non intendo rendermi complice della sua deumanizzazione, delle politiche di annientamento del detenuto”, ha commentato Rossi Albertini. Della stessa idea la sua collega Pintus: “Stanno facendo tutto questo per annientare l’unico gesto di umanità che questi detenuti possono ricevere. Non esiste alcun divieto di assumere questi atteggiamenti. Quando due agenti del Gom sono piombati lo scorso anno nella saletta dell’incontro per redarguirmi del gesto, peraltro partito su iniziativa di Alfredo, ho chiesto di parlare con l’ispettore e di mostrarmi la normativa. Non hanno fatto nessuna delle due cose. Hanno richiuso la porta e sono andati via. Da allora ho continuato a salutare Alfredo in quel modo. Perché non mi hanno detto nulla per tutto questo tempo? Significa allora che in realtà non rilevano alcun significato intrinseco nel gesto, vogliono solo fiaccare i detenuti e scoraggiare noi avvocati dal compiere gesti di umanità”. Anche perché i due legali dovranno comunque affrontare un procedimento disciplinare davanti alla commissione preposta del Coa. Diverse le reazioni sulla vicenda. Per Luigi Manconi, sociologo dei fenomeni politici, già presidente della commissione parlamentare sui Diritti umani che a lungo si è occupata del regime di carcere duro in chiave critica, “esiste un codice deontologico per quanto concerne i rapporti tra legale e assistito, ma è tutt’altra cosa e non sembra proprio che Rossi Albertini abbia violato alcuna norma. Per quanto riguarda quindi i suoi gesti, a mio avviso, rientrano interamente nella piena autonomia individuale e se dunque un avvocato prova affetto per un suo assistito nessuno può permettersi di censurare quelle manifestazioni. Il resto è oscurantismo che arriva a immaginare che tra accusato e suo legale debba esserci un rapporto di inimicizia. È follia”. Di “gravissimo allarme” ha parlato l’Unione delle Camere penali aggiungendo che è “ancor più grave l’idea” “di totale disumanizzazione della persona del condannato, identificato esclusivamente con il suo reato e per questo privato di ogni sua residua umanità e dignità, anche nei rapporti con il proprio difensore”. “Dobbiamo forse attenderci che venga vietato stringere la mano a un detenuto e che venga imposto di non chiamarlo per nome, così come era nel Regolamento penitenziario del 1930?”, conclude l’Ucpi. Critico su quanto successo anche Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano: “Nella nostra Costituzione sta scritto che le pene non devono essere contrarie al senso di umanità. E salutare una persona reclusa come si farebbe con una libera è semplicemente... umano. Attenzione a non perdere il nostro senso di umanità verso i detenuti. Con un gesto potente ce lo ha ricordato Papa Francesco, lavando i piedi dei detenuti a Rebibbia. Ecco, quel gesto e questa notizia sono sideralmente distanti”. Aggiunge l’ex consulente giuridico dell’allora ministra Cartabia: “La prossima volta che come professore andrò in carcere a fare l’esame a uno studente detenuto, come non di rado mi capita, dovrò stare attento a dargli la mano alla fine, anche se prende 30? Per fortuna che non c’è più l’usanza del bacio accademico! Altrimenti...”. Per Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale, “Eugene Ionesco, il padre del teatro dell’assurdo non sarebbe riuscito ad arrivare a tanto. Forse l’avvocato è venuto meno a quel dovere non scritto di dare il proprio contributo al trattamento inumano e degradante nei confronti dei detenuti in 41bis?”. Ma non tutti gli avvocati avrebbero compiuto lo stesso gesto di Pintus e Rossi Albertini come si evince dai commenti su Facebook. Secondo Francesco Mazza, “la segnalazione mi pare eccessiva ma il comportamento dei legali è inopportuno. Mai baciato un mio assistito detenuto né in aula né in carcere”. Scrive Marco Negrini: “Non ho mai assunto confidenze amicali con un cliente. Senza far mancare rispetto e in qualche caso empatia. Le trovo sbagliate e in qualche caso pericolose”. Il racconto di Matteo: in carcere sono tornato a essere una persona di Giorgio Paolucci Avvenire, 24 giugno 2025 Dietro le sbarre di Montacuto, Matteo ha potuto avviare un percorso di consapevolezza e rinascita. Il racconto degli incontri che gli hanno permesso di cambiare. “Quello che ho fatto è un macigno che peserà sul mio cuore finché avrò vita. Da sei anni cerco di darmi le ragioni di quel gesto. Per molti sono stato e rimarrò per sempre un mostro, ma sto facendo un faticoso percorso di consapevolezza che spero diventi la premessa per un’esistenza che non rimanga prigioniera del male compiuto”. Incontro Matteo nel carcere di Montacuto, alle porte di Ancona, dove ha già scontato più di metà della pena a cui è stato condannato: 12 anni per il tentato omicidio della sua ex compagna, della loro figlia e dell’uomo che era riuscito a portarle in salvo. Quel giorno aveva deciso di ucciderla, ma non ce l’ha fatta. Voleva farla finita pure lui dandosi fuoco dopo essersi cosparso di benzina, ma neppure questo è riuscito a fare: l’accendino che avrebbe dovuto usare era caduto in un dirupo e lui viene soccorso. I due avevano ripreso a frequentarsi anche se la loro relazione era finita da tempo, fino all’epilogo di quella mattina. Una relazione tormentata, dalla quale era nata una figlia ma che presto era finita, con loro poco più che ventenni tornati ognuno a vivere con la famiglia di origine. Per Matteo comincia un periodo di buio: quattro anni di sofferenza, in cui non bastano i genitori, gli amici, i colleghi di lavoro, a sollevarlo dal degrado psichico e fisico in cui era finito. La situazione precipita quando la donna gli confida che si è infatuata di un altro. E allora lui decide di “darle una lezione”. Condannato per avere tentato di uccidere la figlia, la ex compagna e l’uomo che in quella circostanza aveva cercato di portarle in salvo. Dopo la condanna, la carcerazione diventa il tempo per cercare le ragioni profonde del suo gesto: “Prima di commettere il reato non trovavo consolazione, ero consumato da quello che avevo dentro di me. Oggi mi domando: cosa dobbiamo fare noi uomini per non diventare delle bestie nei confronti delle donne, per non soccombere alla furia devastatrice e all’istintività?”. In questi sei anni nella sua vita sono accaduti degli incontri che hanno lasciato un segno, piccoli mattoni nella faticosa ricostruzione della personalità. Matteo li ha ben presenti: “I miei genitori che sono sempre stati vicini e mi hanno inondato di affetto, le educatrici dell’area trattamentale, i volontari, la scuola, il corso di letteratura. Dopo il tempo vissuto raggomitolato nel mio male, quando ho incontrato qualcuno che mi guardava come una persona, quando non mi sono sentito condannato da tutti, la vita ha cominciato a prendere colore. In particolare mi sta aiutando la scuola di comunità, un lavoro di giudizio sulla vita che faccio con alcuni volontari di Comunione e Liberazione a partire dal libro Il senso religioso di don Giussani. In quelle pagine trovo un aiuto a usare la ragione per guardare dentro di me, a portare alla luce le domande profonde e le esigenze che sono presenti nel mio cuore. Ho scoperto che in fondo non mi conoscevo, non ho mai avuto cura di me, non mi sono voluto bene. Ho bruciato la vita senza neppure apprezzarla. Quando mi sono allontanato da lei, c’era chi mi diceva: ti devi svagare, divertiti, esci con gli amici, trovati un’altra donna. Oppure la strada degli psicofarmaci prescritti dai medici. Tutti palliativi che non andavano al fondo della questione. C’era qualcosa che non andava dentro di me, c’era una mancanza che poi si è trasformata in rabbia nei confronti della mia ex, che consideravo la causa della mia sofferenza. Fino ad arrivare a quel brutto giorno, quando avevo deciso di annientare la sua vita insieme alla mia”. Nel percorso di consapevolezza e di ravvedimento che Matteo sta facendo ci sono stati anche momenti di confronto in carcere con gli studenti, dove si è affrontata la piaga del femminicidio e dove lui ha raccontato la sua esperienza, “soprattutto invitando i giovani ad avere uno sguardo sincero verso se stessi. C’è una grande fragilità che si muove sotto un’apparente spavalderia e che va portata a galla. Nessuno vuole giustificare, si tratta piuttosto di capire i drammi che sono alla radice di certi gesti. Al termine di un incontro, una ragazza ha detto: capisco che siete persone, la nostra condanna per il reato che avete commesso non può non tenere conto di questo”. Matteo continua a fare i conti col suo malessere e chiede a Dio di abbracciarlo: “Fuori dal carcere la religione era un’abitudine, qui la preghiera nasce dal cuore, non può essere una formalità”. Ha imparato a non nascondere le fragilità, a guardarle e a capire che non sono l’ultima parola sulla sua esistenza. Rivedrà sua figlia, anche se i magistrati gli hanno tolto la patria potestà? Potrà mai recuperare il rapporto con lei? Non sa e non può rispondere, “anche perché finché non sarò capace di prendere cura di me stesso, non potrò farlo con lei”. È consapevole del giudizio di condanna che grava sulla sua persona - “i media mi hanno massacrato” - ma sommessamente lancia un appello: “Spesso nei femminicidi le vittime sono due, chi ha commesso il reato deve essere aiutato a trovare le ragioni del suo gesto. L’introduzione del Codice Rosso nella giurisprudenza, l’inasprimento delle pene, la moltiplicazione dei centri antiviolenza: tutte decisioni giustissime per tutelare le donne. Ma è necessario volgere lo sguardo anche dalla “nostra parte” Per capire le ragioni di questi gesti, per evitare che si ripetano e per aiutare chi li ha compiuti a risalire dall’abisso nel quale è precipitato”. Il Governo ci riprova con la giustizia a parte per i poliziotti indagati di Vitalba Azzollini* pagellapolitica.it, 24 giugno 2025 È allo studio un nuovo meccanismo di tutela per gli agenti in servizio che feriscono o uccidono una persona, ma restano dubbi su tempi, controlli e sul rispetto della Costituzione. Negli ultimi tempi, diversi esponenti del Governo hanno intensificato le richieste di modificare le regole che disciplinano le indagini nei confronti degli appartenenti alle forze dell’ordine coinvolti nell’uccisione di una persona mentre erano in servizio. Il 22 giugno il segretario della Lega Matteo Salvini ha annunciato che il suo partito proporrà in Parlamento l’introduzione del cosiddetto “Codice blu”, “una tutela per le forze dell’ordine che non saranno più indagate in automatico qualora sparassero durante un’attività di servizio”. A sostegno della proposta, il vicepresidente del Consiglio ha citato il caso del carabiniere Carlo?Legrottaglie, ucciso il 12 giugno durante l’inseguimento di due rapinatori. Uno dei due è stato arrestato con l’accusa di concorso in omicidio, mentre l’altro è morto durante la fuga, colpito da due agenti attualmente indagati per “omicidio colposo a seguito di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”. Lo scorso gennaio, nella conferenza stampa di inizio anno, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva dichiarato che è necessario fare “un approfondimento sulle norme”, per scongiurare “calvari giudiziari” ai danni delle forze dell’ordine. In quell’occasione, Meloni prese le difese del carabiniere Luciano Masini che, pochi giorni prima, aveva ucciso un uomo dopo che questo aveva accoltellato quattro persone e aveva tentato di aggredirlo. Masini è stato indagato per eccesso colposo di legittima difesa, ma il 17 giugno la Procura di Rimini ha chiesto l’archiviazione delle indagini. In quei giorni si era parlato della possibilità che il governo inserisse una sorta di “scudo penale” per le forze dell’ordine nel disegno di legge “Sicurezza”, allora all’esame del Parlamento. L’ipotesi però non si è concretizzata, nemmeno quando il disegno di legge è stato trasformato in decreto-legge. Rispondendo a una domanda sul tema in Senato, il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva dichiarato che il governo stava “studiando un provvedimento”, senza fornire ulteriori dettagli, ma aggiungendo che, secondo lui, finire tra gli indagati per le forze dell’ordine rappresenta un “marchio anticipato d’infamia”. Al momento, non sono ancora noti i dettagli della nuova proposta della Lega, ma in un’intervista con Il Messaggero, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari ne ha anticipato a grandi linee i contenuti. In sintesi, la Lega vuole introdurre una fase preliminare di accertamento che consenta di valutare in tempi rapidi se un agente ha agito per legittima difesa o stato di necessità, evitando così l’iscrizione automatica nel registro degli indagati. Ma che cosa succede oggi quando un agente uccide una persona in servizio? Quali tutele già esistono? E perché la nuova proposta descritta da Ostellari solleva più di un dubbio, anche di costituzionalità? Prima di analizzare nel dettaglio la proposta della Lega, è utile capire come funziona oggi la legge nei casi in cui un appartenente alle forze dell’ordine uccide una persona durante un intervento o un inseguimento, come nel caso del carabiniere Legrottaglie. L’articolo 33 del codice di procedura penale, modificato di recente con la riforma “Cartabia”, stabilisce che il pubblico ministero deve “iscrivere immediatamente” nel registro delle notizie di reato ogni informazione ricevuta o acquisita che descriva un fatto “determinato e non inverosimile”, riconducibile in via ipotetica a un reato. Nell’iscrizione devono essere indicati, “ove risultino”, anche il tempo e il luogo del fatto. Il registro delle notizie di reato - comunemente chiamato “registro degli indagati” - è un elenco, custodito presso la Procura, in cui vengono annotate le informazioni relative a un reato e i nomi delle persone a cui quel reato viene attribuito. Se ricorrono le condizioni previste dall’articolo 335, l’iscrizione è un atto dovuto e deve essere compiuta senza ritardi. Lo ha riconosciuto anche uno dei legali dei due agenti coinvolti nel caso Legrottaglie, sottolineando che questo “atto doveroso” serve ad “accertare le reali cause e le dinamiche dei fatti”. L’iscrizione nel registro degli indagati non implica che la persona sia colpevole: rappresenta solo l’inizio formale delle indagini preliminari e viene notificata all’interessato per garantire il suo diritto alla difesa. Anche gli appartenenti alle forze dell’ordine sono soggetti a questa procedura quando indagati per presunti reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, per esempio per verificare se l’uso della forza sia stato legittimo e proporzionato rispetto al pericolo affrontato. Innanzitutto, poliziotti, carabinieri e altre figure simili godono della presunzione di non colpevolezza, nota anche come “presunzione di innocenza”. L’articolo 27 della Costituzione stabilisce infatti che un imputato “non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo prevede che “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. La riforma “Cartabia” ha inoltre previsto che “la mera iscrizione” nel registro degli indagati “non può, da sola, determinare effetti pregiudizievoli di natura civile o amministrativa per la persona alla quale il reato è attribuito”. In altre parole, per tutelare il principio di presunzione di innocenza, il solo fatto di essere iscritti nel registro degli indagati non può costituire l’unico motivo per adottare provvedimenti civili o amministrativi a danno della persona coinvolta. Il codice penale prevede poi che siano scriminati, cioè non punibili e coperti da una speciale causa di giustificazione, alcuni reati commessi dalle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni. Tra questi rientrano, per esempio, i casi in cui si è agito in adempimento di un dovere (articolo 51 del codice penale), per legittima difesa (articolo 52) o in stato di necessità (articolo 54), per esempio per salvare se stesso o qualcun altro. Pertanto, se le indagini accertano che un poliziotto o un carabiniere ha commesso un atto illecito in presenza di una di queste cause di giustificazione, il procedimento viene archiviato e non si arriva al processo. Di recente, il decreto “Sicurezza” - convertito in legge dal Senato il 9 giugno - ha introdotto un rimborso delle spese legali fino a 10 mila euro per ciascun grado di giudizio, a beneficio degli appartenenti alle forze dell’ordine coinvolti in procedimenti penali relativi ad atti compiuti durante il servizio. L’idea di Ostellari - Vediamo ora la proposta annunciata da Ostellari. “Quello che proponiamo non è e non deve essere uno scudo penale, che non serve alle forze dell’ordine, ma uno strumento diverso, innovativo. Una tutela procedimentale, da aggiungere alla tutela legale per gli agenti che abbiamo già esteso con il decreto “Sicurezza”, ha detto il sottosegretario alla Giustizia a Il Messaggero. Ostellari ha specificato che si tratterebbe “di una garanzia che lo Stato deve riconoscere a chi può utilizzare legittimamente le armi”, come gli appartenenti delle forze dell’ordine. “Oggi l’iscrizione nel registro degli indagati avviene anche quando si è in presenza di una causa di giustificazione, come lo stato di necessità o la legittima difesa. E molto spesso il procedimento finisce con l’archiviazione, ma nel frattempo la persona è sottoposta a una serie di lungaggini e preoccupazioni”, ha dichiarato il sottosegretario. “Noi proponiamo una procedura agevolata, che consenta un accertamento dei fatti in un tempo definito, 60 o 90 giorni. Un tempo nel quale chi indaga possa stabilire se bisogna iscrivere il soggetto sul registro degli indagati o se si è in presenza di una causa di giustificazione tra quelle già previste dal codice penale”. Se la proposta della Lega fosse approvata, “un poliziotto che oggi viene indagato per fatti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, domani verrà iscritto in un nuovo registro delle persone, diciamo così, interessate o coinvolte nel fatto, e non necessariamente indagate”, ha specificato Ostellari. “Una persona iscritta su questo apposito registro avrebbe comunque tutte le garanzie riconosciute a un indagato, ma senza essere indagato”. Secondo il sottosegretario, questo “screening preventivo” non violerebbe la Costituzione, perché non tutelerebbe una categoria specifica, ma sarebbe rivolto “all’accertamento preliminare delle cause di esclusione dalla punibilità”. Una proposta alternativa, arrivata nei mesi scorsi da alcuni sindacati di polizia, va in una direzione simile ma con modalità differenti rispetto a quella illustrata dal sottosegretario alla Giustizia. Per esempio, il Sindacato autonomo di polizia ha chiesto che “i procedimenti penali a carico degli operatori delle forze dell’ordine per fatti relativi al servizio siano di competenza del procuratore generale della Repubblica presso le Corti d’Appello”. Il procuratore, “senza l’iscrizione nel registro della notizia di reato”, deve effettuare “una valutazione di garanzia dei fatti e, con atto motivato, possa disporre l’archiviazione nel momento in cui sussistano cause di giustificazione del reato”. Nella scorsa legislatura, questa proposta era stata presentata dalla Lega alla Camera, senza però essere esaminata. Ricapitolando: il meccanismo delineato da Ostellari, eliminando l’automatismo dell’iscrizione nel registro degli indagati in presenza di certe condizioni, introdurrebbe una procedura semplificata. Alla base vi è l’idea che alcune categorie di persone - come gli appartenenti alle forze dell’ordine in servizio o chi agisce, per esempio, per legittima difesa - debbano essere considerate in qualche modo “giustificate” fin dall’inizio. Questo determinerebbe l’iscrizione in un registro separato e una durata più breve delle indagini preliminari. L’articolo 405 del codice di procedura penale stabilisce infatti che, salvo casi particolari, le indagini preliminari devono concludersi entro un anno dalla data di iscrizione nel registro degli indagati (o entro un anno e mezzo per i reati più gravi). Una volta scaduto questo termine, il pubblico ministero deve decidere se rinviare a giudizio l’indagato oppure chiedere l’archiviazione. I dubbi e i rischi - La proposta illustrata da Ostellari solleva almeno cinque dubbi. Innanzitutto, non è chiaro se la tutela speciale riguarderebbe esclusivamente chi utilizza armi da fuoco o anche chi usa altri tipi di armi in presenza di una causa di giustificazione. Un secondo dubbio riguarda l’accertamento dei fatti da parte del pubblico ministero. Dopo che un carabiniere o un poliziotto viene iscritto nel registro degli indagati, le indagini servono a verificare se l’esponente delle forze dell’ordine ha agito “legittimamente”: se ha rispettato le procedure e i limiti imposti dalla legge e, soprattutto, se ha osservato il principio di necessità e proporzionalità, la cui violazione può comportare un abuso. Dunque, questo accertamento è imprescindibile: che avvenga dopo l’iscrizione in un registro diverso da quello degli indagati non cambia la sostanza della verifica dei fatti e delle responsabilità. In terzo luogo, già oggi gli accertamenti possono concludersi in tempi inferiori a quelli previsti dalla legge, se la dinamica dei fatti è chiara. Ma se gli eventi oggetto di verifica sono meno chiari e la proposta introducesse un termine perentorio di 60 o 90 giorni, ci si chiede: l’accertamento andrebbe comunque concluso, anche se il tempo non fosse sufficiente a completare tutte le verifiche necessarie, oppure in quel caso scatterebbe l’iscrizione nel registro degli indagati? Mesi fa, quando si parlò di un possibile “scudo penale” per le forze dell’ordine, si ipotizzò che potesse violare l’articolo 3 della Costituzione. In base a questo articolo, “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”. Anche la nuova norma allo studio del governo potrebbe essere incostituzionale. I dubbi di costituzionalità, infatti, non sembrano essere risolti nemmeno con l’estensione del nuovo registro ai cittadini comuni che usano armi, per esempio per difesa personale o in stato di necessità, e non solo alle forze dell’ordine. Questo perché, come emerge dalle dichiarazioni degli esponenti al governo, l’obiettivo dichiarato è tutelare in particolare poliziotti e carabinieri (la proposta della Lega presentata nella scorsa legislatura era riservata agli agenti delle forze dell’ordine). La norma potrebbe quindi risultare costruita su misura per loro. Anche perché, mentre per un appartenente alle forze dell’ordine che agisce nell’esercizio delle sue funzioni la causa di giustificazione può essere di immediata evidenza, ferma restando la necessità di accertamenti ulteriori per valutare la legittimità dell’azione, non è detto che lo stesso valga nei casi in cui a usare le armi sia un comune cittadino: la presenza di una causa di giustificazione può essere più difficile da dimostrare. I termini ristretti per l’accertamento potrebbero quindi non agevolare una ricostruzione completa e corretta dei fatti. Infine, l’istituzione di un registro speciale rischia di rafforzare, per contrapposizione, l’idea che l’iscrizione nel registro degli indagati rappresenti davvero quel “marchio di infamia” di cui ha parlato Nordio. Al di là dei dubbi, a oggi non è ancora chiaro in che modo il governo intende modificare le norme che riguardano l’iscrizione nel registro degli indagati. In un’intervista con Libero, il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni (Lega) ha detto che entro la fine dell’anno il governo presenterà un nuovo decreto “Sicurezza”, dove probabilmente ci saranno nuove tutele per gli agenti. Quale sia la strada scelta dal governo, la misura dovrà poi essere esaminata e approvata, con eventuali modifiche, dalla Camera e dal Senato. *Giurista Il vento efficientista sulle impugnazioni penali: come può cambiare il giudizio d’appello di Olivero Mazza Il Riformista, 24 giugno 2025 Sulle impugnazioni penali spira sempre più impetuoso il vento efficientista. Dalla prima tempesta tropicale delle proposte formulate nel 2014 dalla Commissione ministeriale si è passati attraverso le Sezioni Unite Galtelli del 2016, la riforma Orlando del 2017 per finire con l’uragano, tuttora in atto, della riforma Cartabia. Il clima estremo del furore efficientista è animato da uno smaccato sfavor impugnationis. La questione cognitiva si considera risolta già in fase di indagini, il giudizio di primo grado è conseguentemente pletorico, mentre ulteriori gradi di giudizio sono sterili superfetazioni, in sostanza perdite di tempo. Proprio il fattore tempo è divenuto l’ossessione del processo breve ad ogni costo, soprattutto a discapito delle garanzie che sono l’essenza stessa della procedura penale. Al contrario, per l’epistemologia garantista la capacità autocorrettiva del processo penale presuppone la consapevolezza che la decisione del giudice può essere inficiata da errori di fatto o di diritto e, per tale ragione, deve essere suscettibile di impugnazione. La fallibilità del giudizio umano determina il favor impugnationis, ossia la tendenza a favorire il più possibile il fatto che l’affermazione di responsabilità sia vagliata da una pluralità di decisioni e di giudici, cercando in tal modo di minimizzarne il margine d’errore. Le impugnazioni sono, in definitiva, un’ineliminabile garanzia di verità e di giustizia; ridurne le possibilità di accesso significa accettare l’aumento esponenziale del rischio di errori giudiziari. L’impugnazione più odiosa per il legislatore efficientista è certamente l’appello, potenzialmente in grado di duplicare la decisione di merito, addirittura mediante rinnovazione istruttoria nei casi previsti dall’art. 603 c.p.p. Il disegno riformista vorrebbe perciò trasformare il giudizio di secondo grado da riesame nel merito a strumento di mero controllo sulla motivazione della sentenza impugnata. Per tentare di raggiungere questo risultato, si è imposta la specificità estrinseca del motivo di impugnazione, dimenticando, però, di aggiornare le norme sulla cognizione del giudice. Tecnica scadente o scarsa dimestichezza con le categorie dogmatiche hanno creato l’ibrido, poco comprensibile, di un giudizio bifasico: la pri­ma fase, sull’ammissibilità, riguardante solo la specificità (intrinse­ca ed estrinseca) del motivo; la seconda, una volta ritenuta ammissibile l’impugnazione, relativa alla cognizione del punto, a prescindere dalla critica esposta specificamente nel motivo. Richiedere all’appello gravame la specificità dei motivi rapportati alla questione e alla motivazione della sentenza impugnata significa distorcere l’appello sul paradigma dell’azione di annullamento (ricorso, ossia impugnazione rescindente), quando dovrebbe invece rimanere una iniquitatis sententiae querela, vale a dire la denuncia dell’ingiustizia della decisione e la richiesta di un secondo giudizio (ossia impugnazione rescissoria, appello-gravame). A ciò si aggiunga che la specificità estrinseca avrebbe senso solo se ci fosse un altrettanto preciso modello predeterminato dei motivi di impugnazione (ad e­sempio, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione), come nel caso del ricorso per cassazione. La specificità va giocoforza rapportata a un paradigma legale che per l’appello non c’è proprio perché, nel merito, è ancora gravame e non ricorso. L’attuale anomalia dell’appello lascia però intravedere il punto d’arrivo che verrà probabilmente raggiunto dal lavorio incessante della giurisprudenza creativa: spacchettare il ricorso per cassazione e trasferire in capo alla Corte d’appello il controllo sulla logicità della motivazione, lasciando così alla Corte suprema gli altri vizi di pura legittimità. In tal modo si garantirebbe un consistente alleggerimento del carico di lavoro della Cassazione e si trasformerebbe l’appello di merito in vero e proprio ricorso per vizio di motivazione. Questo prevedibile sviluppo com­porterà una perdita secca in termini di garanzie, non tanto individuali, quanto di affidabilità della decisione: la scomparsa del giudizio d’appello, inteso tradizionalmente come riesame di merito, e la sensibile riduzione applicativa del ricorso per cassazione. Del resto, non ci vuole molto per capire come il controllo del controllo della motivazione sarà un’eventualità del tutto residuale. L’ulteriore rischio, correlato alla specificità estrinseca, è quello di importare nel giudizio d’appello la “cultura” della inammissibilità per manifesta infondatezza, ampiamente diffusa in Cassazione. Perdita dell’impugnazione di merito, Corte d’appello che controlla la motivazione in luogo della Cassazione, inammissibilità dell’appello per manifesta infondatezza, Corte suprema che si dedica solo alle residuali violazioni di legge: sono tutti scenari perfettamente coerenti con l’ideologia illiberale dello sfavor impugnationis e con una giustizia efficiente solo nel determinare errori giudiziari. Bisogna denunciare chiaramente la deriva del processo breve a discapito delle garanzie epistemiche, prima che individuali. Verità e giustizia sono valori non negoziabili sull’altare del pretestuoso efficientismo del PNRR. La scarsa continuità fra l’abuso d’ufficio e il “nuovo” peculato di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 24 giugno 2025 L’abrogazione dell’articolo 323 c. p. relativo al reato di abuso d’ufficio, realizzata con la legge 114 del 2024, ha riacceso il dibattito sulla tenuta del sistema repressivo dei delitti contro la pubblica amministrazione, e ha suscitato timori circa un possibile vuoto di tutela rispetto a condotte illecite poste in essere da pubblici ufficiali. Contestualmente, l’introduzione del nuovo articolo 314- bis c. p., ad opera del decreto legge 92 del 4 luglio 2024, è stata interpretata come un tentativo di conservare la punibilità di una specifica area di condotte che la giurisprudenza, a partire dalla riforma del 1990, aveva ricondotto all’abuso d’ufficio. L’intervento, rapido e motivato da finalità politico- criminali controverse, si inserisce in un contesto ideologico segnato dalla tensione tra istanze garantiste e tutela effettiva dei beni pubblici. La decretazione d’urgenza e la priorità temporale dell’art. 314- bis rispetto all’abrogazione dell’art. 323 sembrano rispondere all’esigenza di assicurare una continuità normativa, prevenendo effetti retroattivi indesiderati della abolitio criminis. La struttura della nuova fattispecie incriminatrice, sin da una prima lettura, riflette l’origine storica e la funzione sistemica del previgente articolo 323 cp. Dogmaticamente, si tratta di una successione normativa parziale, in cui la nuova norma speciale assorbe parte della tipicità della disposizione abrogata. Si recupera in parte la nozione di “peculato per distrazione”, abbandonata nel 1990 e assorbita nella figura dell’abuso d’ufficio, con riferimento a condotte non appropriative ma comunque deviate dalla legalità funzionale dell’agire pubblico. Le affinità con l’art. 323 cp sono evidenti: coincidono i soggetti attivi, la struttura del dolo specifico, la lesione dell’interesse alla legalità e imparzialità amministrativa. Differisce però l’oggetto materiale: l’art. 314- bis limita la condotta tipica alla sola indebita destinazione di beni mobili. Tale specificazione è decisiva nel qualificare la norma come speciale e sopravvenuta rispetto alla precedente disciplina generale. Chi scrive ritiene che si tratti di un’ipotesi di continuità normativa ai sensi dell’articolo 2, comma 4, c. p., secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione e della dottrina più autorevole. La formulazione dell’art. 314- bis c. p., incentrata sull’”uso diverso” da quello prescritto, presuppone una finalità ancora interna all’azione amministrativa, sebbene deviata, e non uno sviamento totale verso fini personali. Questo distingue strutturalmente il reato dal peculato proprio, che presuppone l’appropriazione. La disciplina transitoria solleva diverse difficoltà interpretative. Rimane irrisolto il nodo delle condotte accertate sotto l’articolo 323 c. p. e non integralmente sussumibili nella nuova fattispecie. In questi casi, l’estinzione del reato per sopravvenuta abrogazione rischia di creare una zona franca di impunità, minando l’efficacia della tutela penale per condotte lesive dell’interesse pubblico. Il nodo critico della riforma non è solo tecnico-dogmatico, ma riguarda la tenuta assiologica di un presidio penale efficace contro le deviazioni dell’azione amministrativa. Occorre comprendere se la clausola residuale dell’art. 314- bis c. p. sia idonea a colmare il vuoto lasciato dall’abrogazione dell’art. 323 c. p., e se la sostituzione rispetti i principi fondamentali del diritto penale, in primis il principio di legalità. Ritenere che il nuovo reato soddisfi gli obblighi della direttiva (UE) 2017/ 1371 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione è un errore. La norma europea richiede la punibilità anche dell’uso distorto di risorse pubbliche. La sentenza della Corte di Cassazione n. 19806/ 2025 ha fornito una prima interpretazione della relazione tra l’abrogato art. 323 c. p. e il nuovo art. 314- bis: tra le due fattispecie vi è un rapporto di specialità tecnica, non una cesura assoluta. Il giudice deve accertare se ricorrano gli elementi della nuova norma, con focus sul nucleo oggettivo, quali disponibilità materiale e uso in violazione di obblighi vincolanti, in assenza di margini discrezionali. La Corte riafferma così un principio fondamentale: la successione normativa non comporta cancellazione automatica della responsabilità, ma impone una rivalutazione giuridica della condotta secondo l’articolo 2, comma 4, c. p. Tuttavia, la tipicità richiesta dal nuovo art. 314- bis - più ristretta rispetto all’abuso d’ufficio - impone un accertamento rigoroso, che non si limiti alla verifica dell’intenzionalità soggettiva, ma includa la prova di un potere di fatto sulla res e del suo utilizzo illecito. Dal punto di vista difensivo, è necessario un approccio tecnico e proattivo: il legale deve orientare il giudice nella verifica della possibile riqualificazione, chiarendo la sussistenza o meno dei presupposti oggettivi della nuova fattispecie. In tal modo, il difensore assume un ruolo centrale a garanzia del principio di legalità, sia formale che sostanziale. *Avvocato, Direttore Ispeg Caselli: “Riina mi diede del comunista. I No Tav come Berlusconi pretendevano l’immunità” di Giuseppe Legato La Stampa, 24 giugno 2025 L’ex procuratore capo di Torino: “Dalla Chiesa venne lasciato solo. Chiesi di andare a Palermo dopo i funerali per la strage di via D’Amelio”. Gian Carlo Caselli, tra i grandi fatti della sua vita: dalle Br a Dalla Chiesa, dalla mafia e alle stragi di Palermo. Da Bruno Caccia ad Andreotti, da Camilleri a Berlusconi. Le hanno detto di tutto e di più. Non saprei da dove cominciare... “Tutto e di più, vero. Ma per me, tifoso “granata in direzione ostinata e contraria” (copyright De André) rispetto all’altra squadra di Torino, Juventino sarebbe stato un po’ troppo”. Battute a parte: giudice fascista... “Questo per qualche “spiritoso” che aveva in odio la mia collaborazione (poi diventata amicizia) con il generale Dalla Chiesa e gli uomini del suo nucleo antiterrorismo. “Spiritoso” e ignorante, se non altro perché non conosceva la mia militanza in Magistratura democratica fin dalla prima ora”. Toga rossa... “Il primo a darmi del comunista fu Totò Riina, nell’aula bunker di Reggio Calabria, durante il processo per l’omicidio Scopelliti. Ripreso dalle tv di mezzo mondo, il boss rivolgendosi al Presidente del Consiglio (Berlusconi, ndr) lo ammonì perché si guardasse da tre “comunisti” che manipolavano i pentiti”. Pm mafioso... “Mafioso e di nuovo fascista. Fu quando tornai a Torino e dovetti occuparmi delle violenze di alcune frange NoTav. Pretendevano l’immunità, neanche fossero dei Berlusconi. Fuor di scherzo, tutta la storia significa una cosa precisa, ovvero che in Italia è sempre di moda appioppare un’etichetta fasulla al magistrato che ti dà fastidio solo perché fa il suo dovere, cercando così di delegittimarlo”. Che cosa l’ha ferita di più? “La legge contra personam varata dal Parlamento durante il governo Berlusconi per espropriarmi di un diritto: quello di concorrere alla pari con altri colleghi alla carica di Procuratore nazionale antimafia per di più dichiarando pubblicamente che dovevo pagare per il processo Andreotti, facendo finta di non sapere che la Cassazione aveva stabilito che fino al 1980 Andreotti aveva commesso (!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra, ancorché prescritto”. Se è per questo fu anche l’unico membro degli stati europei di Eurojust a non essere confermato dal governo... “L’allora ministro Castelli non intese reinserire il mio nome in una rosa di possibili candidati. Appresi successivamente che due erano le condizioni necessarie a continuare: fiducia da parte del governo e professionalità. Non ho mai capito quale delle due non avessi”. Il suo anno nero? “Dico 1983: uccisione di Bruno Caccia e tragedia del cinema Statuto dove morirono 64 persone soffocate da un fumo densissimo e bollente. Alla fine si accertarono delle irregolarità che all’epoca erano diffuse in molti cinema di tutta Italia. Anzi: lo Statuto aveva anche fatto dei lavori di ammodernamento recenti. Mi trovai a dover rapportare delle responsabilità piuttosto esigue a un evento di magnitudo eccezionale”. Caccia fu invece esempio, maestro o cos’altro? “Fu entrambe le cose, ma non fu il solo. Lo considero tale insieme a Mario Carassi, il Consigliere istruttore che mi assegnò le prime inchieste sulle Brigate Rosse”. Ci racconta Carassi con un episodio? “Quando le Br cominciarono a uccidere magistrati (il Pg di Genova Coco) e la Cassazione assegnò il processo a Torino, Carassi mi disse che l’avrei seguito io perché di Br ormai capivo qualcosa, ma non da solo. Mi avrebbe affiancato Luciano Violante e Mario Griffey, perché - spiegò - noi avevamo una precisa responsabilità: portare a termine il processo affidatoci; e se il titolare era uno solo, morto lui finiva tutto. Si formò così il primo pool della storia giudiziaria italiana, al quale si ispirò anche il pool antimafia di Falcone e Borsellino”. Con Caccia quando si incrociarono per la prima volta le vostre strade? “Il Nucleo speciale antiterrorismo della Polizia di Stato, guidato dal Questore Santillo, creato in parallelo al nucleo dei Carabinieri, aveva arrestato, su mio mandato di cattura per un sequestro Br, Paolo Maurizio Ferrari. Lo stavo interrogando in un ufficio della questura di Torino. Entra un signore che non conoscevo e si siede alle mie spalle. Alla fine dell’interrogatorio si avvicina e si presenta: è Bruno Caccia. Ferrari aveva in tasca l’ultimo volantino del sequestro Sossi, di cui si occupava Caccia. Un caso evidentissimo di connessione che imponeva la riunione dei due procedimenti. Ma prima Caccia voleva studiarmi. Sa che di me ai “piani alti” ci si fida poco. Sono giovane e per di più di Md: per i “benpensanti” un giudice poco adatto a indagare sul terrorismo rosso. Lui però mi manifesta subito fiducia e mi “promuove”. Un’altra data che la addolora? “Fu quando Cosa nostra, il 23 novembre 1993, sequestrò Giuseppe di Matteo, il figlioletto tredicenne di Santino di Matteo, mafioso di Altofonte arrestato dalla procura di Palermo, che aveva confessato a me, in quanto procuratore capo, la sua partecipazione alla strage di Capaci. Il disvelamento di una verità attesa da un paese intero”. E il dolore dove sta dottor Caselli? “Sta nel fatto che il piccolo Di Matteo, “colpevole” soltanto di essere figlio di suo padre, fu costretto da una rappresaglia di stampo nazista a una prigionia di 779 giorni di privazioni e maltrattamenti gravi, finché venne strangolato e sciolto nell’acido. Un crimine che sprofonda il genere umano negli abissi più profondi della perfidia”. Il Generale Dalla Chiesa per lei fu? “All’inizio ci furono stima e cordialità, poi fu un amico vero. È una delle cose di cui sono più fiero”. Il primo ricordo che le viene in mente... “Il 1° Aprile 1980, quando in un ufficio della caserma di Cambiano Patrizio Peci viene sentito per la prima volta da me e dai colleghi Griffey e Bernardi. Fuori dell’ufficio passeggiava nervosamente Dalla Chiesa, come un padre in attesa della nascita del figlio. Solo che il figlio in questo caso era il verbale di Peci, che foglio dopo foglio consegnavamo al generale perché i suoi uomini lo sviluppassero”. L’ultimo ricordo? “Una mia telefonata dall’aeroporto di Fiumicino a Palermo. Accennò ai poteri speciali che gli avevano promesso dicendo che glieli avrebbero senz’altro dati”. Fu mandato allo sbaraglio? “Nei diari che scriveva alla prima moglie, dalla Chiesa parla della nomina a Palermo come un modo per sfruttare la sua immagine di eroe dell’antiterrorismo, pronti però a disfarsi di lui al momento opportuno. Sta di fatto che a un certo punto è come se gli fossero state ritirate le credenziali lasciandolo solo”. C’entra solo la mafia o - come diceva Buscetta - c’è dell’altro? “Resta una domanda senza risposta. Possibile che Riina, un criminale sanguinario ma con una sua rozza intelligenza, non sapesse che uccidendo Dalla Chiesa avrebbe scatenato una furibonda reazione, come in effetti avvenne con la legge Rognoni-La Torre? Come rileva Giovanni Bianconi in un suo libro, fu un “pessimo affare”. Replicato dieci anni dopo con la strage di via d’Amelio, che rivitalizzò il progetto di introdurre nel sistema carcerario il 41 bis”. Altro capitolo: Palermo, luglio 1992. Funerali della strage di via D’Amelio. Antonino Caponnetto dice a un giornalista: “E’ tutto finito”... “In quel momento decisi di fare domanda per fare il procuratore lì. Ne parlammo in casa per un mese (la moglie Laura, presente all’intervista, sorride e svela: “Aveva già deciso da solo”)”. I media hanno cancellato la verità sul processo Andreotti, ha detto... “Non solo i media. Persino l’allora presidente della Commissione parlamentare antimafia Roberto Centaro. Costui arrivò a dire che le pronunce giurisdizionali avevano “malamente sbugiardato il tentativo di attribuzione di mafiosità ad Andreotti”. Questa premessa per dire? “Che il Presidente del Collegio che aveva pronunziato la sentenza (reato commesso!) fu costretto a dettare uno sferzante comunicato Ansa che invitava Centaro a leggersi la sentenza”. Cosa resta di quella storia nella sua coscienza? “La soddisfazione di aver ottenuto - lavorando con colleghi di prim’ordine come Natoli, Lo Forte e Scarpinato - un risultato giusto ritenuto impossibile da tutti coloro, ed erano una moltitudine, che ritenevano Andreotti troppo potente perché potesse essere giudicato come un cittadino qualunque. A proposito: conservo un ritaglio di giornale del 2 giugno 2009 con cui Andrea Camilleri - che mi definiva “il primo risarcimento dei Savoia alla Sicilia dopo l’unificazione” - ricordava con tristezza “quell’ex Presidente della Repubblica che a Porta a porta invitava gli italiani a prendermi a calci in quel posto”. Permessi premio: incostituzionale negarli a chi ha commesso reati in carcere di Marina Crisafi ildiritto.it, 24 giugno 2025 La Corte costituzionale si pronuncia su presunzione di innocenza e rieducazione della pena in materia di permessi premio. È incostituzionale la preclusione biennale alla concessione di permessi premio a un detenuto che sia stato imputato o condannato per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza n. 24/2025, con la quale è stata ritenuta fondata una questione sollevata dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto. La questione di legittimità costituzionale - Un detenuto, in carcere dal 2017, aveva chiesto di essere ammesso a un permesso premio. La sua richiesta era però inammissibile, perché l’articolo 30-ter, quinto comma, della legge sull’ordinamento penitenziario vietava, per due anni, di concedere permessi premio a detenuti che siano stati condannati o siano imputati per un reato commesso durante l’esecuzione della pena. Nel caso concreto, il richiedente era stato rinviato a giudizio per avere tentato, un anno prima, di introdurre droga nel carcere per un altro detenuto. Il magistrato di sorveglianza ha tuttavia rimesso gli atti alla Corte costituzionale, ritenendo la preclusione stabilita dalla legge incompatibile, tra l’altro, con la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. Funzione rieducativa della pena - La Consulta ha anzitutto osservato che un’analoga questione era stata ritenuta non fondata in una sentenza del 1997, che peraltro aveva invitato il legislatore a modificare la norma per renderla più conforme alla funzione rieducativa della pena. Rilevato che il tendenziale rispetto dei precedenti costituisce una condizione essenziale dell’autorevolezza delle proprie decisioni, la Corte ha tuttavia rammentato come ci possano essere “ragioni cogenti” che rendano non più sostenibili le decisioni precedentemente adottate, ad esempio quando esse non siano più coerenti con il successivo sviluppo della giurisprudenza costituzionale o di quella delle Corti europee. In questo caso, una preclusione che si fondi sulla sola circostanza che il richiedente sia “imputato” per un reato appare, oggi, incompatibile con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il diritto dell’Unione europea e con la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale in materia. Presunzione di non colpevolezza - Gli effetti della presunzione di non colpevolezza non si esauriscono, come ancora si riteneva alcuni decenni fa, all’interno del procedimento penale relativo alla responsabilità per il reato addebitato all’imputato, ma implicano un generale divieto di considerare l’imputato colpevole del fatto anche in qualsiasi altro procedimento giudiziario, sino a che il reato non sia definitivamente accertato. Conseguentemente, una norma che vieta in via assoluta al magistrato di sorveglianza di concedere un permesso premio, per il solo fatto che il richiedente sia stato imputato di un reato da parte del pubblico ministero, “agli effetti pratici (…) vincola il giudice a ‘presumere colpevole’ l’imputato”. Una disposizione così concepita, ha concluso la Corte, “sottrae al magistrato di sorveglianza ogni margine di autonomo apprezzamento sulla reale consistenza della notitia criminis e, soprattutto, gli impedisce di ascoltare l’imputato e il suo difensore, e di tenere conto delle loro deduzioni circa l’effettiva commissione del fatto (…), con conseguente, indiretto, vulnus allo stesso diritto di difesa dell’interessato, legato a doppio filo alla presunzione di innocenza”. Automatismo preclusivo incompatibile - La Corte ha inoltre affermato che l’automatismo preclusivo stabilito dalla norma è ormai divenuto incompatibile con i principi ripetutamente affermati dalla giurisprudenza costituzionale, in base ai quali il giudice della sorveglianza deve essere sempre libero di compiere una valutazione individualizzata sui progressi effettivamente compiuti dal condannato nel suo percorso penitenziario, nonché sulla sua residua pericolosità sociale. Anche nell’ipotesi, dunque, in cui il richiedente sia stato condannato in via definitiva per un reato commesso durante l’esecuzione della pena, il rispetto del principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della Costituzione esige che il magistrato di sorveglianza resti sempre “libero di valutare il concreto rilievo del fatto, giudizialmente accertato in altra sede, ai fini della specifica decisione a lui affidata, tenendo conto dei contributi provenienti dalla difesa”. È nullo il processo se l’imputato non sa che l’udienza è cartolare di Antonio Alizzi Il Dubbio, 24 giugno 2025 La Cassazione: il decreto di citazione non specificava che l’udienza si sarebbe svolta in forma scritta, compromettendo in questo modo il diritto di difesa. La Cassazione è intervenuta su un caso di evasione delle accise sul gasolio agricolo, ma a determinare l’annullamento della sentenza è stato un vizio formale nel decreto di citazione a giudizio, ritenuto idoneo a compromettere il diritto di difesa. La terza sezione penale ha infatti annullato senza rinvio per intervenuta prescrizione. L’imputato, accusato di sottrazione al pagamento dell’accisa su carburanti ad uso agricolo, aveva impugnato la sentenza della Corte d’appello di Palermo che lo condannava a 9 mesi di reclusione e 283mila euro di multa per aver detenuto, oltre i limiti autorizzati, oltre 6.200 litri di gasolio denaturato. In primo grado era stato condannato dal tribunale di Sciacca, ma in appello, era stato assolto da uno dei reati contestati, mentre gli altri venivano ritenuti estinti per prescrizione. Residuava, quindi, solo la contestazione relativa al capo a), riferita al superamento delle giacenze consentite per un deposito commerciale, fatto avvenuto in epoca prossima al 22 febbraio 2017. Nel ricorso per Cassazione, la difesa - affidata all’avvocato Antonio Ingroia, già procuratore aggiunto della Dda di Palermo - aveva lamentato principalmente due profili: da un lato la violazione del diritto di difesa per irregolarità nel decreto di citazione, dall’altro una presunta errata interpretazione della fattispecie incriminatrice (art. 40, comma 1, lett. b, del d. lgs. n. 504/ 1995). Il vizio formale riguardava il decreto di citazione a giudizio in appello, che invitava l’imputato a comparire personalmente all’udienza, senza indicare che il procedimento si sarebbe svolto con modalità cartolare, ovvero senza discussione orale, in camera di consiglio. La difesa venne a conoscenza solo il 14 giugno 2024, tramite Pec, della natura cartolare dell’udienza prevista per il 1° luglio. Sostanzialmente, troppo tardi per esercitare il diritto di chiedere la trattazione orale, che andava formulata almeno 15 giorni liberi prima, come previsto dalla normativa emergenziale all’epoca applicabile. La Corte d’appello aveva rigettato l’eccezione di nullità, sostenendo che la difesa non avesse subito un pregiudizio concreto, avendo comunque depositato una memoria di replica. La Cassazione ha però ritenuto tale posizione non condivisibile, evidenziando che l’errata indicazione del decreto aveva impedito una valutazione tempestiva delle scelte difensive e che l’eccezione era stata tempestivamente sollevata nella stessa memoria. Secondo la Suprema Corte, “si è realizzata una compressione del diritto di intervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato nel processo”, e il mancato rispetto delle forme ha inciso sulla trasparenza degli atti e sull’effettività del contraddittorio. Accolto il primo motivo - ritenuto assorbente - la Suprema Corte non ha esaminato il secondo, relativo alla qualificazione del reato come di pericolo o di danno. Ha però verificato che, anche in ipotesi di rinvio, il reato era ormai prescritto dal 22 ottobre 2024, tenendo conto del solo periodo di sospensione legittima (60 giorni per rinvio d’udienza). Non sussistendo i presupposti per una formula più ampia, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza, per intervenuta estinzione del reato. Al di là del fatto in sé, gli ermellini hanno evidenziato un principio molto importante. E lo hanno fatto in modo chiaro in sentenza: il decreto di citazione a giudizio deve indicare con esattezza se l’udienza sarà orale o cartolare, altrimenti l’imputato non è messo nelle condizioni di esercitare il proprio diritto alla partecipazione. La violazione, se eccepita nei tempi corretti, può determinare la nullità della sentenza. Firenze. Muffe e carenze sanitarie, Sollicciano bocciato anche dal rapporto Asl di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 24 giugno 2025 I dati delle ispezioni nel rapporto dell’associazione Coscioni sulle carceri toscane. Una serie di bocciature. È quanto raccolto dall’Associazione Coscioni che ha messo insieme tutti i rapporti delle Asl locali sulle condizioni delle carceri toscane. Si salvano solo Volterra e Gorgona, nelle altre carenze sanitarie e muffe. Maglia nera a Sollicciano. Bocciato, bocciato, bocciato. Scorrendo lo stato di salute dei penitenziari toscani redatto dalle Asl di competenza, sono pochissimi gli istituti promossi e in quasi tutti permangono condizioni igienico sanitarie fortemente critiche e inadeguate. Muffa, infiltrazioni, sporcizia fanno delle carceri della nostra regione dei luoghi dove vivere è alquanto complicato. Soltanto cinque strutture guadagnano la sufficienza, su un totale di undici esaminate. A mettere insieme i report delle Asl di tutta Italia è stata l’associazione Luca Coscioni. “Nella stragrande maggioranza dei casi - si legge in una nota - negli istituti di pena italiani non sono stati effettuati neanche interventi di ordinaria amministrazione, una negligenza che, già grave di per sé, si acuisce per il sovraffollamento di oltre il 134%”. Nel dossier c’è anche un focus sulla Toscana (dove il sovraffollamento è al 99%), che prende in esame ogni singolo istituto penitenziario. Partendo da Sollicciano, una delle carceri più critiche in tutta Italia, si segnalano “infiltrazioni, raccolte d’acqua, celle inagibili e gravi carenze strutturali” nel reparto maschile, mentre nel reparto femminile ci sono “infiltrazioni d’acqua, muffa, distacchi di intonaco e aree inagibili”. Nello specifico, la relazione Asl è dello scorso dicembre e, come spiegato da Marco Perduca dell’associazione Coscioni, evidenzia un carcere “pieno di secchi d’acqua per raccogliere gocce” e “con problemi strutturali storici”; nelle docce in comune “l’acqua spesso diventa muffa perché non ci sono finestre”. E ancora: “Nei passeggi ci sono muri scrostati”. E infine: “La cucina è limitrofa a una cucina abbandonata che rischia di portare microbi”. Al carcere di Pistoia, le dimensioni delle celle risultano in alcuni casi non conformi alla normativa vigente, spiegano dall’associazione Coscioni. Inoltre, “la pulizia generale è peggiorata rispetto all’ispezione precedente, e molte criticità risultano ancora irrisolte”. Per quanto riguarda il carcere di Prato, “è stata individuato come la struttura con le maggiori criticità: muffe, umidità, acqua stagnante, deterioramento diffuso e danneggiamenti strutturali causati da proteste dei detenuti”. E poi la casa circondariale di Lucca dove “si registra sovraffollamento (76 detenuti contro 63 posti disponibili) e condizioni igienico-sanitarie generalmente insufficienti. Gli spazi comuni esterni risultano inagibili”. Le Sughere di Livorno “presenta criticità contenute, principalmente legate alla pulizia, tinteggiatura e umidità”. Il carcere di Porto Azzurro è in condizioni sufficienti. Situazione ambivalente presso la casa circondariale di Pisa: “Sezione femminile in buone condizioni, mentre quella maschile ha gravi carenze igieniche e strutturali”. E poi Volterra, “in condizioni complessivamente buone” e Gorgona, “risultata in buone condizioni”. Verona. “Nel carcere di Montorio mancano i bidet e le docce sono fatiscenti” veronasera.it, 24 giugno 2025 L’associazione Luca Coscioni ha reso pubbliche le relazioni delle aziende sanitarie locali sulle visite effettuate negli istituti penitenziari italiani. In quello veronese sono state rilevate “celle disordinate, prive di raffrescamento e acqua calda”. Problemi di tipo igienico-sanitario e sovraffollamento. Sono queste le situazioni più critiche nel carcere Verona, stando alle ultime ispezioni sanitarie. È stata l’associazione Luca Coscioni a rende pubbliche le relazioni redatte dalle aziende sanitarie locali sulle visite effettuate negli istituti penitenziari italiani. I documenti sono stati ottenuti grazie ad un accesso civico avviato lo scorso dicembre e costituiscono un primo passo per fare luce sulle condizioni delle carceri italiane. Le carceri venete - Sono sempre più difficili le condizioni di chi è rinchiuso in un carcere del Veneto. Le relazioni inviate dalle Ulss denunciano situazioni al limite della vivibilità, tra sovraffollamento, carenze igieniche, infiltrazioni, muffa e servizi essenziali assenti, come l’acqua calda e impianti di areazione. “Nel carcere veronese di Montorio - riferisce l’associazione Luca Coscioni - la capienza è superata di oltre 230 persone (592 detenuti contro i 355 regolamentari), con un incremento ulteriore registrato nel corso dell’anno. Mancano i bidet, le docce sono fatiscenti e le celle sono disordinate, prive di raffrescamento e acqua calda. E particolarmente grave è la situazione delle camere per l’osservazione psichiatrica, prive di impianti funzionanti”. Ma anche nelle carceri delle altre province, i problemi sono tanti. “Nella casa circondariale di Belluno si riscontrano infiltrazioni, muffa, carenza di docce, infissi da sostituire, muri da tinteggiare, celle senza acqua calda e sezioni chiuse per inadeguatezza strutturale - ha proseguito l’associazione - E la sezione dedicata alla tutela mentale necessita di riapertura urgente. A Treviso, la situazione è definita “di sovraffollamento evidente”: 231 detenuti su una capienza regolamentare di 141. Mancano docce nei servizi igienici, non c’è acqua calda, e si segnalano muffe persistenti, arredi logori e condizioni strutturali inadeguate. Urgente anche un piano per la prevenzione della legionella. Le strutture di Santa Maria Maggiore e Giudecca a Venezia sono oggetto di monitoraggio costante, ma le questioni relative alla restrizione fisica e alla sicurezza rimangono aperte, rimandate ai Ministeri competenti e ai direttori penitenziari. Infine, a Vicenza, il deterioramento è evidente: 357 detenuti su una capienza di 278. Cucine non idonee dal punto di vista igienico-sanitario e celle dei semiliberi sovraffollate completano un quadro in peggioramento rispetto al 2023”. Per il momento, all’associazione Luca Coscioni solo 66 aziende sanitarie hanno fornito la documentazione richiesta. Nella maggior parte dei casi, mancano però indicazioni su eventuali direttive regionali o sulle reazioni istituzionali alle criticità segnalate, aggravando un quadro già drammatico e rendendo difficile una valutazione efficace degli interventi messi in atto. “Nella stragrande maggioranza dei casi - si legge nella nota dell’associazione - negli istituti di pena italiani non sono stati effettuati neanche interventi di ordinaria amministrazione, una negligenza che, già grave di per sé, si acuisce per il sovraffollamento di oltre il 134%”. Il dato è stato ricavato dal sito indipendente del giornalista Marco Dalla Stella, sul quale si legge che, al 29 maggio 2025, in Italia si contano 62.722 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51.280 posti, dei quali 4.488 non disponibili. L’associazione Luca Coscioni continuerà le sue azioni legali contro la negligenza e il mancato rispetto delle raccomandazioni sanitarie per le carceri. E ricorda infine che dal 2024 è attiva la piattaforma Freedom Leaks, che consente di segnalare in modo anonimo e sicuro violazioni del diritto alla salute nelle carceri. Vicenza. Le visite al Del Papa e il report sul carcere: detenuti ammassati, cucine non idonee Corriere del Veneto, 24 giugno 2025 Presenti 357 detenuti su una capienza di 278 posti. Cucine non idonee dal punto di vista igienicosanitario e celle dei detenuti in regime di semilibertà sovraffollate completano un quadro in peggioramento rispetto al 2023. Questo il quadro del carcere Del Papa di San Pio X a Vicenza che emerge dalla relazione sulle visite effettuate negli istituti penitenziari italiani da parte delle Asl italiane, pubblicata dall’associazione Luca Coscioni. La situazione di difficoltà in cui versa l’istituto penitenziario della regione non è una novità. Secondo l’associazione, tutte le carceri del Veneto versano in condizioni sempre più critiche. Le aziende sanitarie locali hanno denunciato situazioni al limite della vivibilità, tra sovraffollamento, carenze igieniche, infiltrazioni, muffa, e servizi essenziali assenti, come l’acqua calda e impianti di aerazione. “Nella stragrande maggioranza dei casi - si legge in una nota dell’associazione - negli istituti di pena italiani non sono stati effettuati nemmeno interventi di ordinaria amministrazione, una negligenza che, già grave di per sé, si acuisce per il sovraffollamento di oltre il 134%”. L’associazione Luca Coscioni fa sapere che continuerà le sue azioni legali per denunciare “la negligenza” dell’amministrazione penitenziaria e il mancato rispetto delle raccomandazioni sanitarie da parte del ministero della Giustizia. Asti. Domenico Massano è il nuovo Garante dei diritti dei detenuti di Betty Martinelli lavocediasti.it, 24 giugno 2025 Una nomina in Consiglio comunale che arriva dopo la rinuncia di Stefania Sterpetti, per le polemiche che avevano accompagnato la sua elezione. Asti ha un nuovo garante dei detenuti: Domenico Massano 54 anni è stato eletto ieri dal Consiglio Comunale con 18 voti a favore, superando l’assistente sociale Luca Tomatis, che ha ottenuto 4 voti, mentre 6 consiglieri si sono astenuti una la scheda annullata. Era presente anche il garante regionale Bruno Mellano. La scelta di Massano avviene dopo una vicenda complessa, segnata da una precedente elezione controversa e da una successiva rinuncia. Qualche mese fa, Stefania Sterpetti, militante di Fratelli d’Italia, era stata inizialmente designata per il ruolo, ma alcuni suoi vecchi post su Facebook, contenenti dichiarazioni razziste e nostalgie verso il fascismo, avevano provocato un’ondata di critiche e spinto la stessa Sterpetti a rinunciare all’incarico. Questo episodio aveva lasciato vacante la posizione e sollevato interrogativi sulla selezione di figure adeguate a incarichi così delicati. Durante la seduta consiliare, alcuni interventi hanno ribadito l’importanza del garante come figura di garanzia neutrale e competente. Il sindaco Maurizio Rasero ha lasciato libertà di voto: “Stiamo cercando di individuare una figura che sia la più preparata tecnicamente e che, per esperienza o attività svolte, possa davvero rappresentare i diritti di chi vive nel carcere di Asti. Lo dico chiaramente: nel nostro istituto non ci sono ragazzini che hanno rubato le caramelle, ma persone che meritano comunque rispetto e tutele. Abbiamo bisogno di qualcuno che conosca la struttura e che sia in grado di garantire i diritti di tutti, indipendentemente dal loro passato”. Rasero ha poi evidenziato altri aspetti della realtà penitenziaria astigiana: “Il carcere di Asti è una struttura complessa, ma il Comune può fare molto. Ruoli come quello del garante servono anche a potenziare il lavoro degli assessorati, come quello ai servizi sociali, creando sinergie per migliorare la condizione sia dentro sia fuori dal carcere”. Anche Michele Miravalle, consigliere del Partito Democratico, ha espresso riflessioni sull’importanza del momento: “Un mese fa abbiamo fatto una falsa partenza, esplosa in modo piuttosto doloroso. Oggi, invece, dobbiamo segnare un punto positivo. Il ruolo del garante non è legato a interessi di una parte politica, ma deve tutelare quei diritti che nei penitenziari, troppo spesso, vengono compressi. La casa di reclusione di Asti vive un equilibrio precario, ma il garante può fare la differenza intervenendo in modo concreto”. Continuando, Miravalle ha aggiunto: “Penso a obiettivi pratici, come aumentare le possibilità di lavori di pubblica utilità per i detenuti. Il garante non è solo una figura simbolica, ma può facilitare percorsi reali di reinserimento sociale e collaborare con il Comune per migliorare le condizioni dei detenuti e della comunità”. Chi è Domenico Massano - Lavora come pedagogista e si occupa di formazione, ricerca e attività educative in ambito sanitario e sociale, collabora con diverse realtà locali e nazionali, come Amnesty ed è referente del progetto “Gazzetta dentro” con il carcere di Asti È attivo anche come formatore e promotore di iniziative per la pace e contro ogni forma di fascismo, come evidenziato dalla sua partecipazione a eventi e fiaccolate ad Asti. Bergamo. Borse lavoro e aiuti per i detenuti grazie ai fondi raccolti dall’Ordine degli avvocati di Michele Andreucci Il Giorno, 24 giugno 2025 Raccolti quasi 30mila euro, con l’iniziativa a cui hanno aderito molte associazioni della città. Il presidente Marchesi: “Il lavoro è la chiave principale per far sì che le persone non tornino più in carcere”. Un risultato che è andato oltre le aspettative. La raccolta fondi lanciata a maggio dall’Ordine degli avvocati di Bergamo, in favore della casa circondariale di via Gleno, si è chiusa a quota 29.100 euro, somma che sarà destinata in parte all’acquisto di beni di prima necessità (abbigliamento e prodotti come sapone, shampoo e doccia-schiuma, ma anche materiale da utilizzare per migliorare gli spazi all’interno del carcere) e in parte a procurare occasioni di lavoro e reinserimento sociale dei detenuti. In particolare, verranno create delle borse di lavoro, somme mensili da 200 euro che consentiranno al detenuto che può godere della semilibertà di andare a lavorare. Il tutto in collaborazione con la Fondazione Don Resmini di Sorisole. “Il lavoro, infatti - spiega Giulio Marchesi, presidente dell’Ordine degli avvocati di Bergamo - è la chiave principale per far sì che le persone non tornino più in carcere”. Le toghe orobiche si erano attivate, dopo un incontro con la direttrice del carcere, Antonina D’Onofrio, alla luce delle croniche difficoltà patite da chi vive la propria quotidianità nella detenzione. “Abbiamo raggiunto un obiettivo importante, che è andato al di là delle nostre attese - prosegue Marchesi -. All’iniziativa hanno aderito non solo gli avvocati, ma anche altre realtà del territorio: i Club Rotary del Gruppo orobico 1, la Fondazione Mia, la Bcc Bergamasca e Orobica, famiglie private”. I club Rotary hanno donato anche una macchina per il compostaggio, utile per lo smaltimento dei rifiuti umidi da impiegare nel laboratorio di orticoltura interno alla casa circondariale. Sono stati raccolti, inoltre, dei materiali necessari per effettuare dei lavori di manutenzione nella struttura penitenziaria, in modo da migliorare alcuni degli spazi. Intanto a Botticino, nel Bresciano, è stata inaugurata “La Breccia”, una comunità sperimentale sociosanitaria, di cui usufruirà anche il territorio bergamasco che fa parte del distretto giudiziario di Brescia, pensata specificamente per l’inserimento di minori e giovani adulti in carico alla giustizia minorile e con disagio psichico o disturbi da uso di sostanze. I posti, per ora, sono solo dodici. La struttura, gestita dalla Fondazione Eris, è una delle tre attivate in Lombardia, le altre due sono tra Pavia e Como. Agrigento. Viaggiare su un filo d’olio: i detenuti realizzano l’extravergine d’oliva La Rupe Giornale di Sicilia, 24 giugno 2025 Un filo d’olio come filo di speranza, di riscatto e di rinascita. È questo il cuore del progetto Viaggiare su un filo d’olio, nato dalla collaborazione tra la casa circondariale Pasquale Di Lorenzo di Agrigento e Val Paradiso, realtà d’eccellenza dell’olivicoltura siciliana. Un’iniziativa che intreccia territorio, formazione e reinserimento sociale, offrendo ai detenuti un’opportunità concreta di crescita personale e professionale, a partire dalla terra. Lunedì 16 giugno, presso la sede dell’istituto penitenziario, si è tenuta la presentazione ufficiale dell’olio extravergine d’oliva La Rupe, frutto delle olive coltivate all’interno del tenimento agricolo della struttura, raccolte a mano dai detenuti e lavorate nel frantoio dell’azienda Val Paradiso. L’evento ha visto la partecipazione di Anna Puci, direttore della casa circondariale, Giuseppe Di Miceli, responsabile dell’area trattamentale, dell’agrotecnico dell’istituto Giovanni Alati e dell’agronomo Matteo Vetro per Val Paradiso, insieme a Massimo e Desiderio Carlino, titolari dell’azienda, con la conduzione del giornalista Adalberto Catanzaro. Al termine della conferenza i presenti hanno fatto una degustazione guidata dell’olio La Rupe, accompagnata da un assaggio di pane e olio, a simboleggiare la semplicità e la forza di un progetto profondamente umano. L’evento è stato un’occasione per raccontare i risultati ottenuti, riflettere sull’impatto del progetto e annunciare le novità in programma per la prossima edizione. Per il 2025, infatti, l’iniziativa si arricchirà con un modulo formativo avanzato, volto a trasmettere ai detenuti conoscenze sull’intera filiera dell’olio d’oliva: dalla raccolta alla trasformazione, fino alla progettazione dell’etichetta e alla promozione del prodotto sui canali digitali e social. Un percorso completo, che affianca al lavoro agricolo competenze in ambiti creativi e commerciali. Avviato nell’autunno 2024, Viaggiare su un filo d’olio ha rappresentato un esempio virtuoso di agricoltura sociale, trasformando un uliveto in una opportunità di riscatto e formazione. Grazie alla visione del Direttore Anna Puci e alla disponibilità di Val Paradiso, i detenuti hanno potuto sperimentare la fatica del lavoro, il valore della collaborazione e la bellezza del prendersi cura. Le bottiglie prodotte, non destinate alla vendita ma donate in beneficenza alle Istituzioni, veicolano un messaggio potente: anche dietro le mura di un carcere può nascere qualcosa di prezioso, capace di raccontare impegno, altruismo e desiderio di riscatto. “Viaggiare su un filo d’oro - ha dichiarato Anna Puci - è modo di rieducare, dare una possibilità, un’alternativa e trovare appunto il contatto con quello che è il mondo esterno con quello che è il lavoro, con quella che è la terra, il primo contatto dell’essere umano. Quindi tornare alle proprie radici, riuscire a riconnettersi con l’essenza e con la natura dell’essere umano. Questa è la mission dell’amministrazione penitenziaria, questo è lo scopo che dobbiamo perseguire. I detenuti impiegati nella lavorazione sono stati quattro. Erano tutti detenuti a trattamento intensificato, i cosiddetti articolo 21 che hanno già la possibilità di poter espletare delle attività lavorative all’interno del penitenziario e anche fuori. Sono stati impegnati anche in lavori di pubblica utilità che tutt’ora continuano a portare avanti. Viaggiare su un filo d’olio è un’attività che continuerà e che speriamo di poter fare evolvere”. Per il titolare di Val Paradiso Massimo Carlino, “è stata un’iniziativa voluta dal penitenziario e noi in questo viaggio siamo stati una tappa. I detenuti coinvolti nel progetto si sono occupati della raccolta delle olive, noi siamo intervenuti negli step successivi con la frantumazione delle olive, nella produzione dell’olio extravergine d’oliva, dello stoccaggio, dell’imbottigliamento e abbiamo dato anche un contributo per quanto riguarda l’aspetto dell’etichetta e della parte burocratica amministrativa. Come Val Paradiso siamo profondamente orgogliosi di essere stati scelti come partner del progetto e siamo riconoscenti verso chi ha immaginato tutto ciò, coinvolgendoci in questo viaggio. Grazie a questo progetto abbiamo capito che il frantoio poteva diventare molto più di un luogo dove si fa l’olio, poteva trasformarsi in un vero e proprio laboratorio del fare, del sapere, di rinascita, di speranza”. Modena. Visita in carcere al Sant’Anna per gli imprenditori cristiani guidati da Giovanni Arletti di Chimar Carpi sulpanaro.net, 24 giugno 2025 Si è svolta sabato scorso una significativa visita alla Casa Circondariale “Sant’Anna” di Modena, promossa da Ucid Modena - Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti - presieduta da Giovanni Arletti, presidente dell’azienda Chimar Spa di Carpi. Al centro della visita l’innovativo laboratorio Coopattiva denominato “Il lavoro durante”. “Un progetto - ha sottolineato il Direttore di Coopattiva Giorgio Sgarbi - che nasce da una partnership tra Diocesi di Modena e Coopattiva. Il Vescovo di Modena, Mons. Erio Castellucci, ha voluto investire in questo progetto che si ispira al principio costituzionale del “fine rieducativo della pena” sancito dalla Costituzione, promuovendo il reinserimento del condannato nella comunità attraverso il lavoro”. Sgarbi ha condotto la visita insieme al Dott. Guido Federzoni, referente per il Vescovo all’interno del carcere e coordinatore dei volontari che qui operano. Lo stesso Vescovo in una recente intervista relativamente al Laboratorio di Coopattiva ha dichiarato: “Il lavoro è libertà, dignità, fiducia. Proiettato verso il dopo, diventa un motivo di speranza. Una prima opportunità di riscatto e crescita personale, preparatoria a un rientro positivo nel tessuto sociale e lavorativo, riducendo o eliminando il rischio di recidiva”. “Spero che molti imprenditori - ha proseguito Mons. Castellucci - sentano la gioia e la necessità di puntare su questo progetto”. Il laboratorio Coopattiva in carcere crea vere opportunità di lavoro retribuito: attualmente vi operano 6 detenuti, 4 dei quali assunti con contratto part-time a tempo determinato, affiancati da 2 detenuti inseriti in percorsi di tirocinio formativo con indennità di presenza, sotto la supervisione di un educatore con ruolo di caposquadra. Il laboratorio Coopattiva in carcere crea vere opportunità di lavoro retribuito: attualmente operano all’interno dello spazio in carcere 6 detenuti, 4 dei quali assunti con contratto part-time a tempo determinato, affiancati da 2 detenuti inseriti in percorsi di tirocinio formativo con indennità di frequenza. Inoltre da maggio un lavoratore è ammesso al lavoro in esterno e quindi è operativo presso i laboratori Coopattiva, sempre a Modena ma fuori dall’Istituto carcerario. I detenuti lavorano sotto la supervisione costante di un’educatrice con ruolo di caposquadra e di una Responsabile inserimenti lavorativi che crea un rapporto diretto tra Coopattiva, il carcere e le Imprese clienti. Da maggio un dipendente assunto dalla cooperativa all’interno del carcere e che è stato ammesso a misure esterne durante il giorno, ha cessato il contratto con Coopattiva alla naturale scadenza del contratto, per essere assunto direttamente da un’impresa aderente al network di aziende con cui Coopattiva collabora. L’obiettivo del progetto punta infatti ben oltre l’occupazione temporanea: intende fornire competenze tecniche specifiche e capacità lavorative trasversali utili per il reinserimento nel mondo al termine della detenzione. Durante la visita, la delegazione Ucid ha potuto visitare anche il laboratorio gastronomico della Cooperativa Sociale Eortè, attivo proprio a fianco del laboratorio di Coopattiva, all’interno del quale si producono tortellini, pasta fresca e prodotti secchi da forno. Il progetto di Coopattiva si fonda sulla creazione di una rete sempre più solida e solidale tra Istituzioni, Imprese e Terzo settore, con l’intento di accompagnare le persone coinvolte ben oltre il periodo di detenzione, favorendone l’assunzione presso aziende del territorio interessate a sostenere una iniziativa come questa, ad elevato impatto sociale. Coopattiva guarda al futuro con l’obiettivo di rendere il Laboratorio in carcere sostenibile, attraverso nuove commesse di lavoro che derivano dalla crescente sensibilizzazione degli imprenditori, anche grazie a momenti come la visita odierna. “Il laboratorio Coopattiva è aperto tutte le mattine. Nei prossimi mesi puntiamo ad ampliare le ore di apertura del laboratorio - ha concluso il Direttore Sgarbi -. Con Coopattiva garantiamo da 40 anni un servizio da contoterzista di elevata qualità, con tempi certi e costi concorrenziali. Per questo Coopattiva fa appello a tutte le imprese per contribuire a rafforzare insieme questa possibilità di un futuro migliore per i detenuti di oggi e per gli uomini di nuovo liberi di domani”. Brescia. Dentro l’università, fuori dal carcere Famiglia Cristiana, 24 giugno 2025 Progetto innovativo e controcorrente di accompagnamento educativo per minori autori di reato. Un progetto innovativo in Italia accoglie otto giovani in messa alla prova presso l’Università Cattolica di Brescia. Attraverso corsi, trekking, gruppi di parola e supporto psicologico, si sperimenta un nuovo modello educativo. L’iniziativa, denominata “Messa alla prova in Università”, mira a spostare l’esperienza della giustizia minorile da contesti punitivi a spazi di crescita e apprendimento. Non si tratta di un semplice parcheggio sociale, ma di un ambiente che promuove relazioni significative e opportunità di sviluppo personale. L’obiettivo è duplice: fornire ai ragazzi un’opportunità di cambiamento e validare un modello educativo replicabile. I risultati sono stati incoraggianti, con i partecipanti che hanno mostrato impegno e risorse inaspettate. La comunità locale ha risposto positivamente, attivando collaborazioni con scuole e associazioni. I ragazzi coinvolti, provenienti da diverse realtà sociali e familiari, erano tutti in un percorso di messa alla prova stabilito dal Tribunale per i Minorenni. La selezione non si è basata sui talenti, ma sulla necessità di supporto. L’università, come luogo di eccellenza, offre un’opportunità di inclusione e appartenenza. Il progetto ha previsto un accompagnamento personalizzato, con un Piano Educativo Individualizzato per ciascun partecipante. Le attività includevano corsi di lingua, alfabetizzazione informatica e supporto alla ricerca, affiancati da psicoterapeuti che hanno fornito un sostegno continuo. Un momento significativo è stato il trekking terapeutico sul lago di Garda, che ha permesso ai ragazzi di riflettere e dialogare con se stessi, superando iniziali scetticismi. Attraverso attività interattive, i partecipanti hanno esplorato le emozioni legate ai loro comportamenti, iniziando a comprendere l’impatto delle loro azioni sugli altri. Al termine del percorso, sono emerse quattro parole chiave: giustizia, inclusione, sostenibilità e riparazione. Questi concetti riflettono il desiderio di riconoscimento e la volontà di ricominciare. Il progetto, concluso dopo un anno, ha lasciato un segno nella comunità, con molteplici offerte di collaborazione da parte di cittadini e associazioni. Si auspica che questa esperienza possa trasformarsi in un modello più ampio, evidenziando l’importanza di un approccio umano e trasformativo nella giustizia minorile. Modena. Giustizia di prossimità, apre un ufficio del Tribunale anche a Sassuolo modenatoday.it, 24 giugno 2025 Proseguono gli accorti territoriali per la realizzazione di sedi decentrate: avviato il percorso per il Distretto ceramico, che vedrà sorgere lo sportello in via Adda. Una maggiore efficienza nei rapporti tra il sistema-giustizia ed i cittadini attraverso l’implementazione di sinergie che consentano di beneficiare dell’erogazione di servizi giudiziari senza la necessità di recarsi presso la cancelleria del tribunale. È quanto contenuto nell’accordo che prevede l’apertura, nei prossimi mesi, di un Ufficio di prossimità del Tribunale di Modena presso l’Unione del distretto Ceramico, firmato lunedì 23 giugno nella sede del Tribunale di Modena. All’atto della firma erano presenti Alberto Rizzo, presidente del Tribunale di Modena, Roberto Mariani, presidente Ordine degli avvocati di Modena e Matteo Mesini, sindaco di Sassuolo e presidente dell’Unione, oltre agli altri sindaci e amministratori del distretto. Per il presidente del Tribunale Alberto Rizzo “questo nuovo accordo rappresenta un ulteriore passo avanti nel percorso di semplificazione dell’accesso ai servizi, grazie all’attivazione di uffici di prossimità che integrano le funzioni di diverse amministrazioni presenti sul territorio. In questo modo, i cittadini potranno usufruire di una serie di servizi giudiziari che non richiedono l’assistenza di un avvocato, evitando lo spostamento fino alla sede del Tribunale di Modena. L’apertura progressiva degli uffici di prossimità consolida l’impegno nel portare la giustizia più vicina alle persone, garantendo un servizio più capillare ed efficiente sull’intero territorio provinciale. Un’iniziativa che rafforza il legame tra istituzioni e cittadini, favorendo una comunità più inclusiva, connessa e solidale”. Sarà attivato un ufficio di prossimità a Sassuolo nella Sede del Settore Politiche Sociali dell’Unione, in Via Adda 50/O e tra le finalità previste ci sarà l’informazione o orientamenti sulle procedure giudiziarie, con riferimento alla volontaria giurisdizione e agli istituti di protezione giuridica (tutele, curatele, amministrazioni di sostegno), il supporto alla compilazione della modulistica del Tribunale e alla redazione di istanze ed atti, con la raccolta e verifica degli allegati richiesti, la predisposizione e deposito telematico delle istanze e degli atti per conto dell’utente e le informazioni sullo stato della procedura in cui e coinvolto l’utente. Il presidente dell’Unione Matteo Mesini sottolinea “come questa iniziativa rappresenti un passo in avanti fondamentale per la nostra comunità, perché avvicina i servizi ai cittadini, laddove spesso per diverse ragioni, è complesso e difficoltoso potervi accedere. Siamo certi che l’implementazione della rete dei servizi ai cittadini sia fondamentale anche per incentivarne la fruizione, rafforzando il concetto che le Istituzioni sono a supporto del territorio e delle persone e diventano perno attorno cui far crescere e promuovere i valori della cittadinanza attiva, della legalità e della cooperazione. Fondamentale poi è il beneficio indotto di questo sportello, ovvero rendere sempre più attrattivi territori periferici come quelli della montagna, che anche grazie alla presenza di servizi come questo possono continuare a crescere e consolidarsi. Un grande ringraziamento a tutte le persone che hanno lavorato a questo importante traguardo, il presidente del Tribunale Alberto Rizzo, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Modena Roberto Mariani”. Il consiglio dell’Ordine degli Avvocati sostiene il progetto e fornirà un servizio orientamento e consulenza alla cittadinanza sull’attività degli uffici di prossimità attraverso specifiche iniziative informative e, come ribadisce il presidente dell’Ordine Roberto Mariani “si rafforza un modello organizzativo che, nei territori dove è già attivo, ha dimostrato grande efficacia. L’obiettivo è garantire una formazione adeguata e un supporto continuo al personale degli uffici di prossimità, come già avvenuto con successo in altre realtà. Sono previste specifiche sessioni formative e momenti di confronto, oltre a un’assistenza costante durante l’attivazione del servizio. Inoltre - conclude Mariani - ci impegneremo a informare i nostri iscritti sugli obiettivi e le caratteristiche dell’iniziativa, per favorirne la diffusione capillare tra i cittadini e promuovere un accesso sempre più semplice e diretto alla giustizia”. Con la firma dell’accordo, il progetto diventa pienamente operativo e a breve sarà definito tra le parti il cronoprogramma per la fase di avvio dell’ufficio di Prossimità, che sarà monitorato con cadenza periodica per verificarne l’efficacia e la fruibilità. Padova. Presentato il cortometraggio sulla squadra di calcio del carcere Due Palazzi di Davide D’Attino Corriere del Veneto, 24 giugno 2025 “In campo siamo solo giocatori”. “Siamo di fronte ad un esempio di grande valore sociale, prim’ancora che sportivo, che andrebbe esportato in tutte le carceri italiane. D’altronde, al di là dell’aspetto della competizione, il calcio e lo sport in generale sono da sempre considerati una grande palestra di vita, perché rappresentano un’occasione per conoscere tante esperienze diverse. E tutte le diversità, a cominciare da questa, particolarmente difficile ed impegnativa, costituiscono un arricchimento”. Non sono sembrate le consuete parole di circostanza quelle pronunciate ieri pomeriggio, nell’auditorium del Due Palazzi, dal presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Giancarlo Abete (già a capo della Figc), in merito al fenomeno di Pallalpiede, la squadra di calcio dei detenuti della casa di reclusione padovana che, dal 2014, milita nel campionato di Terza Categoria, reduce dalla vittoria dell’ottava Coppa Disciplina (quella che si aggiudica chi riceve meno ammonizioni ed espulsioni) in undici stagioni. Quella guidata da Lara Mottarlini, vera e propria anima di un progetto subito condiviso da Giuseppe Ruzza, timoniere del comitato veneto Lnd-Figc, è una realtà pressoché unica nel suo genere, ad oggi imitata soltanto dalla Libertas Stanazzo, il team di calcio a cinque dei reclusi del carcere di Lanciano (Chieti) iscritto alla serie D abruzzese. E proprio i ragazzi di Pallalpiede e Stanazzo sono i protagonisti del cortometraggio “Sopra la barriera”, realizzato dalla Bonfire Agency di Roma e proiettato ieri in anteprima al Due Palazzi, alla presenza (tra i tanti) della direttrice Maria Gabriella Lusi, dell’assessore allo Sport, Diego Bonavina, e dell’ex calciatore (di Udinese, Lazio e Juventus) Giuliano Giannichedda, ora commissario tecnico delle rappresentative nazionali dilettanti under 18 e under 19. “Non vediamo l’ora - racconta nel video un detenuto del carcere padovano - che arrivi il sabato per scendere in campo e affrontare le squadre che vengono da fuori. In quel momento, ci dimentichiamo di tutto quello che c’è qui dentro: siamo giocatori e basta”. E un altro si commuove: “Grazie a questo progetto, riusciamo a stare assieme in un modo sano e, quando corriamo dentro quel rettangolo verde, ci sentiamo liberi”. I ragazzi allenati da Ferdinando Badon non sono però (ancora) liberi di andare in trasferta. Disputano infatti tutte le partite in casa. Ma a breve, chissà, potrebbero uscire dal Due Palazzi. Magari per un’amichevole. Anche solo per novanta minuti. E diciamo che più di qualcuno sta già da tempo lavorando per raggiungere quest’obiettivo. “La cosa più importante - ha evidenziato la direttrice Lusi è il percorso. Se poi viene pure il risultato, tanto meglio”. E l’assessore Bonavina, rivolto ai ragazzi di Pallalpiede, ha concluso così: “Sappiate che il Comune e tutta la città sono molto orgogliosi di voi”. Verona. I detenuti del laboratorio di teatro portano in scena “Ulisse. Il Capitano” cronacadiverona.com, 24 giugno 2025 Il Teatro del Montorio, compagnia teatrale della Casa circondariale di Verona, torna in scena con uno spettacolo e inaugura un nuovo progetto drammaturgico. Martedì 24 e mercoledì 25 giugno, all’interno dell’istituto di reclusione di Montorio i detenuti partecipanti al laboratorio di teatro organizzato dalla Direzione del Carcere e dall’Associazione Le Falìe, con il sostegno della Fondazione San Zeno, porteranno in scena “Ulisse. Il capitano”, primo capitolo di un percorso teatrale dedicato all’opera “Odissea” del poeta greco Niko Kazantzakis (1883-1957). Testo e regia dello spettacolo sono di Alessandro Anderloni che dal 2014 conduce il gruppo di teatro del Carcere di Verona, con la collaborazione alla drammaturgia e alla regia di Isabella Dilavello. Dello spettacolo, che andrà in scena nella Cappella del Carcere, fa parte integrante l’allestimento multimediale dedicato al tema del viaggio realizzato dal progetto “Giovani Energie” curato dalla Fondazione EduLife con contributi video, audio e foto realizzati nella Casa circondariale con un gruppo di venti detenuti dai 18 ai 29 anni. “Ho scelto l’”Odissea” di Kazantzakis perché è una grande storia di viaggio”, sottolinea Anderloni. “In carcere c’è bisogno di grandi storie, che scavino nel profondo dell’animo umano, che ci pongano di fronte agli insolvibili interrogativi dell’esistenza, che portino a viaggiare lontano le menti e i cuori. C’è bisogno, in una parola, dei classici. Ed è significativo che proprio nel carcere si pretenda di affrontare i grandi temi della vicenda umana, quando al di fuori imperversa l’impoverimento e l’appiattimento culturale in un tempo tormentato da guerre, discriminazioni, ingiustizie dove il mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento, quasi ad anestetizzare i cervelli, ci inonda invece di vuota leggerezza, purché non si pensi. L’opera di Kazantzakis sarà il nostro libro guida per tre anni, così come abbiamo dedicato una trilogia alla “Divina Commedia”. Questo nuovo progetto è una continuazione di quel percorso perché l’Ulisse di Kazantzakis nasce dall’Ulisse del XXVI canto dell’”Inferno” di Dante”. Il testo dello spettacolo è stato interamente adattato dall’opera di Kazantzakis nel corso degli incontri del laboratorio settimanale che si svolge in carcere. In scena ci sono quindici attori di tutte le sezioni maschili a narrare l’inizio del viaggio raccontato da Kazantzakis in un libro di 33.333 versi, recentemente tradotto dal greco da Nicola Crocetti. Il percorso teatrale è reso possibile grazie al lavoro, la disponibilità e la collaborazione del personale di Polizia penitenziaria, dell’Area educativa e della Direzione del Carcere. L’allestimento dello spettacolo coinvolge tutte le principali realtà che lavorano dentro l’istituto: la falegnameria gestita da Reverse per la realizzazione delle scenografie, la sartoria di Quid per i costumi, il gruppo artistico Made in Montorio per gli sfondi dipinti, l’associazione Micro Cosmo per il coinvolgimento dei detenuti, Panta Rei per un momento conviviale con i prodotti gastronomici realizzati in carcere. La Spezia. L’arte senza barriere: i testi dei detenuti diventano canzoni di Elena Sacchelli La Nazione, 24 giugno 2025 Presentazione, film e concerto nella cornice dell’anfiteatro romano. Dopo la proiezione di “La seconda vita” di Vito Palmieri. lo spettacolo con Cristina Donà e Lorenzo Esposito Fornasari. Grande musica, film, storie di riscatto e inclusione. Sarà speciale la serata di venerdì 27 giugno all’Anfiteatro romano di Luni. A partire dalle 21, a ingresso libero, andrà in scena la presentazione di “Parole liberate La Spezia e Lunigiana 2025”, progetto che trasforma in canzoni le poesie dei detenuti. E sarà un doppio appuntamento: un concerto di Cristina Donà e Lorenzo Esposito Fornasari (LEF) e, a seguire, la proiezione di “La seconda vita”, film di Vito Palmieri tratto dal romanzo omonimo di Michele Santeramo sul tema del reintegro sociale degli ex detenuti attraverso la giustizia riparativa. Da sempre impegnata in progetti sociali nelle carceri, Cristina Donà è considerata una delle voci più originali della scena musicale italiana che, negli anni, ha contribuito a definire una nuova stagione del rock di matrice mediterranea. LEF è cantante, produttore, compositore e vanta diverse collaborazioni con musicisti di tutto il mondo. Già compagni di palco, i due artisti si esibiranno accompagnati da Laura Bisceglia al violoncello e Alessandro Petrillo alla chitarra. Oltre ad alcuni brani dei rispettivi repertori, eseguiranno anche una versione live della canzone “La vela” composta a quattro mani proprio per il film “La seconda vita” in proiezione dopo il concerto. L’evento è il secondo dei sei della rassegna “Parole Liberate 2025 La Spezia e Lunigiana”, in calendario in provincia e in Lunigiana, e il primo dei tre ospitati nel nostro territorio. I due che seguiranno faranno tappa a Santo Stefano Magra, sabato 5 luglio alle 21 in piazza della Pace, con il “Sonatore di Basso” Gianni Maroccolo e il cantautore Andrea Chimenti; e a Castelnuovo Magra, venerdì 11 luglio alle 21 nell’area verde del centro sociale, all’interno di “Radio Rogna in festa”, con il concerto del gruppo spezzino NovoNormale. “Parole Liberate: oltre il muro del carcere” è un progetto musicale, culturale e sociale che nasce con un bando, creato dall’omonima Aps ed emanato dal ministero della Giustizia. Partito nel 2014, propone ai detenuti di scrivere una poesia che diventa canzone grazie al contributo di importanti artisti italiani. Il territorio di La Spezia e Lunigiana aderisce grazie all’impegno dell’omonima Aps di Beverino. Inizialmente, tutto si concludeva con la proclamazione di un vincitore, la creazione di una canzone e la cerimonia di consegna del premio. Poi arrivò la pandemia che, se da un lato impedì lo svolgimento di alcune edizioni, dall’altro favorì una ridefinizione del progetto arricchendolo con la pubblicazione di un album collettivo, con i brani scritti da tutti i detenuti partecipanti, e la nascita di vari appuntamenti itineranti disseminati per tutta Italia. Obiettivo: far conoscere e portare l’iniziativa a un pubblico più ampio e fuori dalle mura carcerarie. Promotore dell’idea fu il sarzanese Paolo Bedini che la realizzò con la sua etichetta discografica Baracca & Burattini. Nacquero così due album distribuiti da The Orchard (Sony Music) e disponibili sulle principali piattaforme digitali. Uno nel 2022, che vinse il Premio Lunezia e si classificò secondo alle Targhe Tenco. L’altro nel 2024, che si aggiudicò il Cremona Award e il terzo posto alle Targhe Tenco. “Il riconoscimento più sensibile però - sottolinea Bedini - è quello del ministero della Cultura che nel 2022 e 2023 ci ha selezionati tra 600 partecipanti classificandoci al primo posto con il punteggio maggiore nella sezione progetti speciali. Ma al di là dei riconoscimenti, il bello dell’iniziativa è far emergere un messaggio forte di riscatto e inclusione sociale, che dimostra come la musica possa essere un potente strumento di trasformazione personale e collettiva”. Le iniziative di Parole Liberate sono supportate, a livello nazionale da ministero della Cultura, Siae, Nuovo Imaie e, per La Spezia e Lunigiana, dalla Fondazione Carispezia. Foggia. Luca Pugliese torna con “Non fa più male”: il carcere diventa simbolo di rinascita immediato.net, 24 giugno 2025 Nel videoclip del nuovo singolo, in uscita il 25 giugno, anche i detenuti del penitenziario foggiano protagonisti di un messaggio di libertà attraverso la musica. A partire dal 25 giugno sarà disponibile su tutte le piattaforme digitali “Non fa più male”, il nuovo singolo scritto, arrangiato e prodotto da Luca Pugliese. Fresca, coinvolgente e carica di energia, la canzone non tradisce lo stile inconfondibile del cantautore, che ancora una volta intreccia musica e parole su un groove ipnotico e trascinante. Il brano è una sorta di “serenata al contrario”, un canto che segna la fine di una grande storia d’amore, in cui la musica diventa l’antidoto per superare il dolore dell’assenza. La traccia nasce dalla provatissima session one man band con la quale Luca Pugliese dà la linfa vitale al brano con voce, chitarra, grancassa, charleston e, per la prima volta, anche con la sua armonica a bocca. Su questa base pulsante si innestano gli altri strumenti - darabouka, fisarmonica e basso elettrico - creando un flusso sonoro ricco e originale. Gli arrangiamenti curati e raffinati, con echi glocal, danno vita a un sound folk dallo spirito profondamente contemporaneo: una musica che unisce radici e visione, tradizione e innovazione, per un risultato che possiamo definire a tutti gli effetti globale. Su questa linea, il videoclip di “Non fa più male” rappresenta un vero e proprio manifesto artistico dell’opera di Luca Pugliese, un’occasione per raccontare un percorso artistico totale che proprio in quanto tale riesce ad avere un forte impatto sulla società. La prima scena vede l’artista nella sua performance one-man-band suonare in un teatro vuoto, introducendo due elementi chiave del percorso artistico e musicale di Luca Pugliese: l’arte come rappresentazione intima e totale della vita e la solitudine come spazio creativo dell’anima. La parte centrale del video tocca i due opposti (mare e montagna), rappresentazione delle contraddizioni del vissuto che la sintesi artistica permette di risolvere e conciliare. L’artista solitario tocca la sua amata prima dell’addio, il viaggio personale dei due protagonisti che continua in direzioni opposte in riva al mare, che ben impronta la profondità e la vastità della vita. Il toccante finale del video rappresenta un momento chiave della svolta sociale dell’attività artistica di Luca Pugliese: l’esperienza dell’arte nel sociale - musica e pittura - condivisa con i detenuti e gli operatori di tanti istituti carcerari di tutta la penisola, nello specifico siamo nel carcere di Foggia. La sua “ora d’aria colorata” (quaranta concerti gratuiti in 12 anni) fatta di suoni e colori incarna in modo plastico e tangibile l’arte come strumento di liberazione e trasformazione e miglioramento dell’essere. Hanno suonato: Luca Pugliese one man band (Voce, chitarra acustica, cassa, charleston e armonica a bocca), Marzouk Mejri (Darabouka), Tony Cipriano (Fisarmonica), Giancarlo Brunetti (Basso elettrico). Registrato, missato e masterizzato da Antonio Pannese presso il Melisma Studio di Ariano Irpino (Av). Chiara Tommasini riconfermata alla guida di Csvnet di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 24 giugno 2025 Nel corso del mandato che si è appena concluso, il volontariato - e con esso i Csv - ha dovuto affrontare uno scenario segnato dall’aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche, dagli effetti della pandemia, dai conflitti internazionali e dalle emergenze ambientali. Rafforzare la presenza nei territori come punti di riferimento stabili per il volontariato, capaci di accompagnarne l’evoluzione, promuoverne le competenze e sostenerne il ruolo nella società. Sono alcune delle priorità indicate da Chiara Tommasini, che è stata confermata alla guida di CSVnet l’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato (Csv). L’assemblea ha anche nominato il consiglio direttivo nazionale, in carica fino al 2029. Nominati anche i componenti dell’ufficio di presidenza: vicepresidente è Salvatore Raffa, presidente del Csv Catania insieme al vicepresidente vicario Luigi Paccosi, presidente del Csv della Toscana; Piero Petrecca del Centro di servizio per il volontariato del Molise è stato confermato tesoriere. Nel corso del mandato che si è appena concluso, il volontariato - e con esso i Csv - ha dovuto affrontare uno scenario segnato dall’aumento delle disuguaglianze sociali ed economiche, dagli effetti della pandemia, dai conflitti internazionali e dalle emergenze ambientali. Nonostante ciò, il sistema ha rafforzato il proprio impegno: con oltre 300 sedi operative, circa 3mila volontari impegnati nella governance e quasi 700 addetti, i Csv hanno incrementato i servizi a sostegno di volontarie, volontari e organizzazioni. Solo nel 2024 sono state erogate quasi 97mila consulenze ad organizzazioni di terzo settore - soprattutto piccole o poco strutturate - su aspetti giuridici, amministrativi, fiscali e progettuali. Sul fronte della formazione i Csv hanno realizzato oltre 2.300 attività per 56mila volontari, pari a circa 17mila ore di attività formative. A queste si aggiungono le azioni di promozione svolte nelle scuole e nei territori, che hanno coinvolto più di 129mila studenti. “Questa conferma è per me motivo di gratitudine e responsabilità - ha dichiarato Tommasini. Inizia ora una nuova fase che ci chiama a rafforzare ancora di più il ruolo dei Csv come presidi per promuovere la cultura del volontariato e lo sviluppo della partecipazione attiva. Essere nei territori oggi significa stare accanto alle organizzazioni, alle reti associative, ai gruppi informali, alle nuove forme di volontariato, ma anche costruire relazioni stabili con enti locali, scuole, presidi sociosanitari, imprese, soggetti culturali. CSVnet continuerà a sostenere questo impegno, con visione strategica e strumenti concreti. Oggi i Csv - ha aggiunto Tommasini - sono sempre più chiamati ad agire come soggetti di raccordo, capaci di facilitare processi, accompagnare percorsi di innovazione, dare forza alle richieste che emergono dalle comunità”. Chiara Tommasini, laureata in Economia e commercio, è attualmente dipendente di un gruppo assicurativo. È volontaria nel settore del soccorso e della protezione civile dal 1997 e presidente di CSVnet dal 27 giugno 2021. Da ottobre 2020 è vicepresidente dell’Associazione nazionale Aiuto Bambini Betlemme. Attualmente è inoltre componente del Comitato di Indirizzo Strategico dell’impresa sociale Con i Bambini e del CdA della Fondazione Onc. Nel 2022 ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, assegnata dal Capo dello Stato su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Fine vita e procreazione assistita: il diritto come rimedio al fallimento della politica di Vitalba Azzollini* Il Domani, 24 giugno 2025 La Corte costituzionale continua a esercitare una “supplenza” legislativa, a fronte di una politica incapace di farsi carico di temi controversi, come il riconoscimento del figlio di una coppia omogenitoriale o il fine vita. Una maggioranza di governo poco disponibile a riconoscere diritti che emergono da nuove istanze urgenti e nodali non può lamentarsi se i giudici intervengono per rimediare alla sua inerzia. Il riferimento è alla fecondazione assistita e al fine vita, temi su cui si è di recente pronunciata la Corte costituzionale. La fecondazione assistita - Con una sentenza pubblicata nel maggio scorso, la Consulta ha stabilito che è illegittima la norma della legge sulla procreazione medicalmente assistita (40/2004) che vieta alla madre “intenzionale” di riconoscere come proprio il figlio nato in Italia da procreazione assistita legittimamente praticata all’estero, consentendolo solo alla madre biologica. “L’interesse del minore consiste nel vedersi riconoscere lo stato di figlio di entrambe le figure che abbiano assunto e condiviso l’impegno genitoriale”, ha affermato la Corte. L’omosessualità della coppia non è un ostacolo, poiché non contrasta “con princìpi e valori costituzionali”, né incide “sull’idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale”. Esattamente l’opposto di quanto sostiene la ministra Eugenia Roccella, secondo cui “l’estromissione della figura del padre” costituisce un “disvalore” e il riconoscimento da parte di due madri rappresenta “una scelta contraria al miglior interesse del minore”. Dello stesso avviso sono altri politici della maggioranza, evidentemente poco inclini ad accettare i principi fissati dalla Consulta. Il fine vita - Nelle scorse settimane, la Corte costituzionale si è ancora una volta espressa in tema di fine vita. Nel 2018, la Corte aveva esortato il legislatore a fornire tutela a chi si trovi in una condizione di acuta sofferenza fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile, sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Nel 2019, a fronte dell’inerzia del parlamento, la Consulta era di nuovo intervenuta, escludendo la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio” nel rispetto delle condizioni indicate. Nel 2024, essa si è pronunciata specificamente sui trattamenti di sostegno vitale, e così pure nell’ultima sentenza, con cui ha di nuovo sollecitato il legislatore a disciplinare il fine vita. Di recente, il parlamento sembra essersi risvegliato dall’inerzia. Un Comitato ristretto avrebbe elaborato un testo, la cui discussione inizierà il 17 luglio, ma i nodi da sciogliere sono molti. Secondo esponenti della maggioranza, l’approvazione delle richieste di suicidio assistito dovrebbe spettare a un Comitato etico nazionale, e non al Servizio sanitario nazionale, come invece vorrebbe l’opposizione, che teme una “privatizzazione” del fine vita, anche perché le prestazioni necessarie a realizzarlo sarebbero escluse da quelle coperte dalla sanità pubblica. E poi c’è il tema delle cure palliative, che devono essere garantite, ma non imposte come condizione per accedere al suicidio assistito. Ciò sarebbe contrario all’articolo 32 della Costituzione, che sancisce il diritto alla cura, ma anche quello a non essere curati. E mentre il parlamento prova a fare una legge sul suicidio assistito, ben sette anni dopo la prima sentenza della Consulta, quest’ultima andrà ancora oltre, pronunciandosi sulla questione di legittimità - sollevata dal tribunale di Firenze - della norma che vieta l’omicidio del consenziente, e quindi l’eutanasia. Se la Corte dichiarasse incostituzionale il divieto assoluto di somministrazione di un farmaco letale da parte di un medico, quando chi lo richiede si trovi nelle condizioni previste dalla sentenza del 2019, “molte persone malate, fisicamente impossibilitate all’auto-somministrazione e oggi per questo discriminate, potrebbero accedere alla morte volontaria”, come scrive l’Associazione Luca Coscioni. Ancora una volta la Corte eserciterà una “supplenza” legislativa, a fronte di una politica incapace di farsi carico di temi controversi, e che interessano i più fragili. E poi ci si lamenta della disaffezione dei cittadini per coloro che dovrebbero rappresentarne gli interessi. *Giurista Migranti. L’Italia rimpatria da Tirana. “Violate le norme Ue” di Giansandro Merli Il Manifesto, 24 giugno 2025 Le autorità italiane hanno effettuato un rimpatrio in Egitto direttamente dall’aeroporto di Tirana. La notizia è stata data ieri da Altreconomia, a firma di Luca Rondi e Kristina Millona, e confermata dal Viminale. I due giornalisti hanno ricostruito il fatto scoprendo la procedura di noleggio di un aereo datata 8 maggio e pubblicata sul sito della polizia in carta intestata del Viminale. Il volo per il Cairo è partito il giorno dopo. È il primo rimpatrio dall’Albania senza passaggio dall’aeroporto di Roma Fiumicino, come nei (pochi) altri casi analoghi. Il documento governativo per il noleggio del velivolo, costato 139mila euro, dà seguito a una pratica che il Viminale aveva già avviato il 28 aprile con lo scopo di trovare un charter di almeno 140 posti che andasse da Roma al Cairo facendo scalo, solo all’andata, a Tirana. Nella prima tratta erano previsti 10/20 stranieri e 30/80 operatori di polizia, nella seconda 20/40 stranieri e 60/100 operatori di polizia. Sul volo di ritorno questi ultimi risultano come unici passeggeri. Interessante che, secondo i dati ottenuti da Altreconomia con un accesso agli atti, il 28 aprile non c’erano egiziani nel Cpr di Gjader. Parrebbe quindi che siano stati trasferiti dall’Italia prima del 9 maggio proprio per riempire quel volo (di cui era informato anche il Garante nazionale dei detenuti). “Portare qualcuno in Albania solo per dare seguito a una decisione governativa violerebbe in maniera esplicita la direttiva rimpatri e le norme europee - afferma l’avvocata Eleonora Celoria, referente politiche Ue dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) - Queste permettono l’espulsione soltanto all’interno di un meccanismo di bilanciamento tra efficacia della misura e tutela dei diritti della persona. In un caso simile, invece, manca qualsiasi proporzionalità”. Il 29 maggio, tra l’altro, la Cassazione ha espresso dubbi di compatibilità con le normative comunitarie persino sul solo trasferimento dal territorio nazionale a Gjader. In quest’ottica il rimpatrio da Tirana costituisce un’ulteriore forzatura. Secondo Celoria si apre poi anche un altro tema: la possibile violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la carta del Consiglio d’Europa di cui anche l’Albania fa parte. “Possiamo ipotizzare una violazione congiunta delle autorità albanesi e italiane - afferma - Parliamo di un rimpatrio effettuato da un paese terzo, senza che questo abbia verificato in alcun modo il caso individuale: qui sono in gioco il principio di non respingimento e le garanzie procedurali”. Un terzo aspetto è sottolineato da Marcella Ferri, ricercatrice in diritto Ue presso l’università di Firenze: “Ovviamente il rimpatrio non può che essere avvenuto dall’aeroporto di Tirana, presupponendo un trasferimento verso quest’ultimo: né sul primo, né rispetto al secondo il protocollo prevede un esercizio di giurisdizione italiana. Dunque non sono assicurate le garanzie sostanziali e procedurali previste dal diritto Ue oltre che da quello nazionale, innanzitutto costituzionale”. Di “fatto gravissimo” parla il deputato e segretario di +Europa Riccardo Magi. Il quale annuncia un’interrogazione parlamentare per far luce su questa “operazione illegittima” che il governo ha provato a silenziare. Anche Rachele Scarpa, deputata Pd che ha visitato più volte il Cpr di Gjader, è al lavoro per chiedere formalmente al governo di chiarire “quale normativa sia stata applicata alla procedura di rimpatrio avvenuta direttamente dal territorio albanese” e se non ritenga che questa operazione contrasti con la direttiva rimpatri. Il diritto, i pregiudizi e gli interessi di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 24 giugno 2025 Gli organi internazionali, dall’Onu ai tribunali, rischiano di essere destinati a perdere il carattere dell’imparzialità. Prima circostanza di fatto: il 13 giugno scorso Israele ha aperto le ostilità contro la Repubblica islamica dell’Iran lanciando un devastante attacco aereo contro il suo territorio. Non c’è dubbio: Israele ha aggredito l’Iran, e a tutti gli effetti del diritto internazionale è uno Stato aggressore. Così come certamente uno Stato aggressore sono da sabato notte gli Stati Uniti. Dove il presidente Trump ancora una volta ha fatto mostra del suo modo di agire. Un modo lunatico e rischioso condito dai soliti toni trionfali nella circostanza quanto mai inopportuni. Ma se queste sono circostanze di fatto sotto gli occhi di tutti, ve ne sono pure altre che è giusto ricordare. Ad esempio che fino a ieri e per anni ed anni la suddetta Repubblica islamica dell’Iran ha organizzato, finanziato e massicciamente alimentato, in ogni modo possibile, l’esistenza in Libano del movimento islamista Hezbollah, allo scopo, fino a poche settimane fa riuscito, di farlo diventare di fatto il governo ombra di quel Paese e di dar vita, a partire dal territorio libanese, a una serie di ininterrotte attività militari contro il confinante Israele, nella forma soprattutto del lancio di migliaia di razzi contro il suo territorio. Attività che negli anni hanno prodotto un considerevole numero di morti e feriti. Ancora: sempre da un numero imprecisato di anni l’Iran aiuta e sostiene in ogni modo possibile anche le azioni di Hamas, un movimento politico-terroristico palestinese, con base nella striscia di Gaza, il quale si prefigge apertamente l’eliminazione di Israele. La sua ultima e notissima impresa: l’uccisione il 7 ottobre del 2023 di circa 1200 cittadini israeliani e la cattura di oltre 250 ostaggi deportati nella striscia di Gaza stessa. Eppure, sebbene sia questa la realtà di fatto meno recente -una realtà riconosciuta da tutti come tale - su un altro piano, invece, la realtà appare assai diversa. Secondo notizie reperibili nella rete, infatti, a petto di ben 73 risoluzioni delle Nazioni Unite che a partire dai primi anni ‘50 hanno condannato Israele per i più svariati motivi ma tutti riferibili alle diverse guerre che l’hanno opposto ai Paesi arabi e alle sue politiche nei confronti dei palestinesi, a petto di queste 73 risoluzioni, dicevo, non se ne conta neppure una che abbia condannato l’Iran per le sue attività anti israeliane: sebbene da sempre notissime e orgogliosamente rivendicate dallo stesso governo di Teheran. La Repubblica islamica è stata sì ripetutamente sanzionata dalle Nazioni Unite, ma unicamente per le spietate politiche repressive praticate al proprio interno ovvero a causa delle sue più che sospette attività nell’ambito nucleare. Mai però per la sua attività aggressiva svolta diciamo così per interposta persona, contro lo Stato ebraico. Sarebbe da sciocchi chiedersi perché. La risposta è ovvia: perché a eccezione delle deliberazioni del Consiglio di Sicurezza - dove vige il diritto di veto che fa sì che assai raramente essi arrivino all’approvazione - tutte le altre risoluzioni dell’Onu sono prese a maggioranza da un’Assemblea generale nella quale gli oltre cinquanta Stati islamici sommati a Russia e Cina e ai Paesi del cosiddetto “Sud globale”, genericamente “antisionisti” e ostili a tutto quanto sappia troppo di Occidente, hanno una prevalenza schiacciante. Si spiega così, per fare un esempio, come sia possibile che all’Onu non sia mai stata votata alcuna formale risoluzione di condanna per violazione dei diritti umani o altro a carico della Cina: uno Stato che ha il record mondiale delle condanne a morte, che usa contro i propri cittadini i più raffinati e invasivi metodi di controllo e di privazione della libertà (a cominciare da quella religiosa: alla pari del resto con quasi i Paesi islamici dove non è possibile neppure aprire un chiesa); uno Stato che nel Tibet, annesso illegalmente, ha instaurato un regime spietatamente repressivo, che lo stesso ha fatto a Hong Kong in barba a tutti gli accordi sottoscritti, che infine ha trasformato lo Xinjiang , un’ intera regione del suo territorio abitata da una popolazione islamica, in un gigantesco campo di concentramento e di rieducazione ideologica forzata. Mi domando allora che immagine si possa e si debba avere del diritto internazionale se sono questi i criteri di valutazione che ispirano l’Onu cioè, almeno in teoria, la massima assise della moralità internazionale e dei suoi valori: i medesimi, per l’appunto, che dovrebbero essere rappresentati dal suddetto diritto. È difficile sottrarsi al dubbio, insomma, che il diritto internazionale e il retroterra etico che dovrebbe essere il suo, allorché si trasferiscono sul piano della valutazione dei comportanti eminentemente politici degli Stati e dei loro organi, sia destinato fatalmente a perdere il carattere dell’imparzialità - cioè il carattere costitutivo per antonomasia di ogni diritto e di ogni etica - per diventare qualcosa d’altro. Come del resto è difficile che non accada anche per gli stessi tribunali internazionali giudicanti in materia criminale, i quali per statuto operano sempre in qualche forma di collegamento con le Nazioni Unite e i cui membri sono sempre scelti dagli Stati e non possono che essere scelti da essi. A cominciare da quel Tribunale penale internazionale dell’Aia i cui noti verdetti in materia di crimini di guerra hanno punteggiato le cronache recenti. Il fatto è che però quelle risoluzioni dell’Onu, quel diritto internazionale, quei tribunali, quei verdetti, sono all’istante rimbalzati ed amplificati incessantemente dai media e dai social, hanno un’eco potentissima e producono un altrettanto potente effetto politico. Agli occhi dell’opinione pubblica essi finiscono per figurare come la definizione della verità, del giusto e dell’ingiusto, per asserire la colpevolezza degli uni e l’immunità dalla colpa degli altri. “L’ha dichiarato l’Onu!”, “L’ha stabilito un tribunale internazionale!”, si sente dire: laddove troppo spesso, invece, si tratta unicamente della solita vecchia politica, con il suo solito corredo di interessi e di pregiudizi. Bravi a bombardare, ma più bravi a costruire caos di Francesco Strazzari Il Manifesto, 24 giugno 2025 Silenzio sui progetti politici. Non hanno insegnato nulla venti anni di grande preponderanza militare in Afghanistan per portarci dai Talebani ai Talebani. Come le ossessioni, tutto precipita seguendo il proprio corso. Dopo aver trovato la strada spianata dall’aviazione israeliana, i bombardieri Usa sono rientrati placidamente nel Missouri. Mission accomplished, quasi fosse finita, mentre la guerra non fa che espandersi. JD Vance rassicura la base Maga, dichiarando che gli Stati uniti non sono in guerra con l’Iran, ma solo col suo programma nucleare, figlio dell’insipienza dei precedenti presidenti nel fare i conti con il Medio oriente. Ecco affacciarsi subito uno dei temi ricorrenti nel dibattito sulla politica estera Usa: il predecessore aveva bombardato male, causando guerra, così che oggi il nuovo presidente è costretto a bombardare, ma lo fa bene e ci porta la pace. Il tutto attraverso l’esaltazione della forza della superpotenza, decisiva perché in grado di produrre “danni monumentali”. Ma non passano che pochi minuti e il capo supremo, l’irrefrenabile Donald Trump, esprime il proprio favore per il cambio di regime a Teheran (Make Iran Great Again!). E l’indomani mattina Netanyahu manda i jet a bombardare pasdaran, carcere e università iraniane, mietendo centinaia di morti. Nessuno, a questo punto, sa dove si trovino i 400 kg di uranio altamente arricchito che risultavano depositati nei tunnel di Ishafan, a quanto pare non compromessi dalle bombe. Il segretario di stato Marco Rubio sostiene che nulla ormai può essere mosso in Iran, eppure i satelliti mostrano che i Tir si sono mossi eccome attorno ai siti nucleari, anche nell’immediatezza del bombardamento americano. La propaganda si sforza di spiegare che è stata fermata la capacità di arricchimento, sferrando un pesante colpo al programma nucleare degli Ayatollah. Ma mancano notizie dell’enorme base sotterranea scavata nel cuore delle montagne nei pressi di Natanz, dove l’Iran tre anni fa ha spostato una produzione di centrifughe. Anche senza considerare l’esistenza di siti segreti, dunque, nelle mani del regime iraniano, oltre al know how scientifico, restano 400 kg di uranio arricchito al 60%, un paio di siti di arricchimento e la capacità di produrre centrifughe. Se questo è il quadro, è difficile sostenere che Rising Lion (Israele) e Midnight hammer (Usa) abbiano rallentato la corsa all’atomica più di quanto avesse fatto, nel 2015, l’accordo voluto da Obama e dagli europei. Il problema, allora, non è il programma nucleare, bensì il regime iraniano, il ruolo di Washington e il ridisegno dell’ordine internazionale. L’ossessione di Donald Trump si precisa ogni giorno di più nella smodata pressione a far passare ogni strada di guerra e pace per la Casa bianca. Non può essere sottovalutato quanto Trump sia disposto ad alzare la posta, inventandosi e intestandosi ogni successo, reale o presunto, passato e presente. Trump persegue l’obiettivo di disfare l’operato di Obama, così da strappargli simbolicamente il Nobel per la pace, ridefinendone platealmente il significato. Giorni fa, nell’ormai brevettato format di dichiarazioni rese ai media con il rumore dell’elicottero presidenziale in sottofondo, Trump ha denunciato come il nobel sia un privilegio per i soli liberal. In un crescendo di nonsenso, ha poi rivendicato il sommo riconoscimento per il Ruanda, il Congo, la Serbia, il Kosovo, gli accordi di Abramo e soprattutto la guerra India-Pakistan. Nessuno ha capito a cosa si riferisse, con questa sfilza di paesi, e nessuno ha fatto caso alla smentita dell’India stessa, che peraltro ha visto un proprio Rafale abbattuto dalle dotazioni cinesi in mano ai pakistani. Gli stessi pakistani che poi hanno strumentalmente annunciato la loro candidatura di Trump al Nobel, mentre la propaganda cinese ricordava che i paesi ricchi hanno l’aviazione, quelli poveri i missili, e la Cina ha entrambi. Presentati come un brillante successo tattico, gli attacchi americani hanno subito raccolto il plauso delle destre che scommettono pesantemente sull’opzione militare, oggi assai popolare anche in Europa. Degni di nota, ciascuno per proprio calcolo, Zelenski che approva l’attacco americano, e Medvedev che annuncia molti paesi pronti ad aiutare l’atomica iraniana. I moderati, bontà loro, hanno ripiegato sul consueto invito al negoziato “per evitare l’escalation”, senza tuttavia menzionare Israele, il paese che, per dirla con il cancelliere tedesco Merz, “sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”. Sarà di certo un gioco da ragazzi, ridisegnare la pace in Medio oriente a partire dalle bombe sull’Iran. Non hanno insegnato nulla venti anni di grande preponderanza militare in Afghanistan per portarci dai Talebani ai Talebani. Su come questi bombardamenti siano portatori di un progetto politico su cui possa reggere un ordine regionale duraturo si registra soprattutto silenzio. Pur feriti, gli ayatollah non mancano di carte, da Hormuz all’Iraq. È ben vero che Russia e Cina, al pari delle petromonarchie arabe, non interverranno in difesa dell’Iran, ma è anche vero che il sud del mondo mostra ogni giorno più insofferenza rispetto alla continua, sfrontata distruzione selettiva dei cardini tradizionali del diritto internazionale. Come ha sostenuto Bertrand Badie su Le Monde, guardando alle ambizioni di regime change in Iran non è possibile escludere l’ennesima riproposizione di uno scenario libico nel quale la capacità di bombardare si accompagna solo all’incapacità di costruire nient’altro che caos. Massimiliano Smeriglio: “Le élite giocano con la terza guerra mondiale. L’Europa? Suicida” di Umberto De Giovannangeli L’Unità, 24 giugno 2025 “L’Ue, che ha fallito il suo obiettivo di autonomia e indipendenza, sta a guardare. E la sinistra rischia di soccombere alle destre reazionarie: ripartiamo da relazioni disarmate dialogando con i cattolici”. Massimiliano Smeriglio, assessore alla Cultura di Roma, già europarlamentare, l’attacco degli Usa all’Iran rende ancora più immanente la prospettiva di un conflitto mondiale... La pace attraverso la forza espande a dismisura l’idea strumentale della cosiddetta guerra preventiva. Un obbrobrio di categoria che tutto giustifica. Questa la dottrina, trainata da Netanyahu e Trump a seguire, tramite la quale gli americani hanno bombardato i siti nucleari, utilizzando una potenza bellica mai vista prima. Devastazione, rischio di escalation, supremazia militare mondiale incontrastata da un lato. Dall’altro il dominio della comunicazione capace di agire come deterrenza verso l’Iran certamente, ma soprattutto Russia e Cina. Stiamo in un cambio di fase storica brutale, in cui la politica vuole dimostrare di contare ancora con l’utilizzo di uno dei pochi monopoli rimasti nelle sue mani, l’apparato militare, peraltro costosissimo. Le ragioni di questo azzardo sono di carattere globale ma anche di politica interna, di interessi economici specifici ma anche di comunicazione, egemonia nel controllo del discorso pubblico sulle piattaforme social. Un occidente - con poco da dire sul piano del progresso e della civiltà - che mostra i muscoli per stoppare l’accumulo di tecnologie di guerra nel campo che occidente non è. In entrambi i casi, vigono forme autoritarie, patriarcali, poggiate sul predominio dell’economia o della religione. Nessuna delle azioni occidentali in corso si pone il problema di dare una sponda al movimento iraniano che ha attraversato quel Paese al grido di “donna vita libertà”. Piuttosto la questione è ridimensionare, umiliare le mire internazionali degli Ayatollah e poi trattare. Perché in fondo gli autocrati si trovano e somigliano in tutto il mondo. Tutti uomini piuttosto attempati. Lo hanno fatto con i talebani, possono farlo ovunque. Altro che valori occidentali. In questa faglia di guerra che uccide e comunicazione che racconta la morte tra élite occidentale ed élite di ciò che occidente non è, manca una visione globale popolare della sinistra politica, sociale e intellettuale. Senza un nuovo paradigma, senza una visione di insieme, noi, la sinistra, rischiamo di soccombere sotto il peso della forza delle destre reazionarie che sono la parte e il tutto di questa guerra civile mondiale a puntate. Dove i civili, gli innocenti, i bambini, non contano niente. Noi possiamo costruire una contro narrazione se la smettiamo di fare il tifo, se la smettiamo di introiettare la logica amico nemico e ripartiamo dalla centralità delle vittime e le potenzialità di una società e relazioni disarmate. Disertando lo schema che ci viene proposto e, in questo senso, il dialogo con i cattolici appare indispensabile. Il Medio Oriente è in fiamme. La polveriera è esplosa. Da Gaza all’Iran è guerra totale. E in Italia si continua a disquisire se quello messo in atto da Israele a Gaza è un “genocidio”... Le immagini che arrivano da Gaza sono terrificanti, non solo i civili, i bambini che continuano a morire tutti i giorni sotto le bombe, ma la sistematica scelta di affamare e assetare la popolazione, sbattuta tutti i giorni da una parte all’altra della Striscia. Le responsabilità del governo israeliano di volere questo scempio quotidiano sono clamorose. David Grossman parla della guerra personale di Netanyahu, che ha trasformato Israele in un incubo. “Quello che sta accadendo ora è il prezzo concreto che Israele sta pagando per essere stato sedotto per anni da una leadership corrotta che lo ha fatto precipitare di male in peggio: che ha eroso le sue istituzioni di diritto e giustizia. Il suo esercito, il suo sistema educativo; che era disposto a metterlo in pericolo esistenziale per tenere il suo primo ministro fuori dal carcere. Vedo anche un profondo senso di tradimento”, questo scrive Grossman. Così come continuano ad essere ignobili le complicità e i silenzi del consesso internazionale degli Stati, Italia compresa. Nessuno di noi avrebbe immaginato di dover assistere inermi a questa barbarie. L’impotenza produce angoscia tra chi sa che l’unica strada è il cessate il fuoco e il negoziato. A Gaza non muore solo il popolo palestinese, ma la credibilità dell’occidente e il diritto internazionale. La forza è tornata ad essere l’unico linguaggio delle potenze militari, la forza e il suprematismo, come durante la fase coloniale dell’Ottocento, dove diventa difficile capire la differenza tra lo Stato di diritto e le organizzazioni terroristiche. Non si può rispondere alla mattanza di Hamas del 7 ottobre, a quel progrom, con la rappresaglia indiscriminata verso gli inermi, migliaia e migliaia di persone. Nessuno cerca più il primato etico e morale ma solo la supremazia militare. Un disastro delle democrazie, il crepuscolo del nostro mondo, il ritorno degli Stati guerrieri, la simbologia dell’operazione carri di Gedeone non poteva essere più esplicita. Una fusione tra fanatismo teologico e guerra tecnologica in nome del guerriero biblico che vinse contro i Madianiti solo ed esclusivamente nel nome di Dio selezionando una piccola élite contro un grande esercito. “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”: così il cancelliere tedesco Merz al G7... No, Israele sta praticando l’idea millenaristica della Grande Israele, le responsabilità sono tutte del governo Netanyahu, degli estremisti religiosi che lo compongono, del razzismo esplicito dei coloni che hanno mutato la composizione sociale e culturale della democrazia israeliana praticando tutti i giorni violenza indiscriminata in Cisgiordania. Noi, l’occidente, stiamo seminando campi sterminati di odio che prima o dopo ci torneranno addosso tanto è il livello di ingiustizia che promuoviamo e organizziamo. L’imperatore Giustiniano, con il Corpus iuris civilis, ha messo al centro il primato della legge come strumento fondamentale per l’ordine imperiale costruito con la oggettivizzazione della norma e il consenso. Era il 534 d.C., ed era imperatore incontrastato. Tuttavia, si poneva la questione della centralità della legge. Oggi, dopo 1500 anni, sembra tornato il tempo del far west e dei fuorilegge internazionali. Una situazione che fa paura. Come se, con la fine delle ideologie, si fosse consumata la funzione connessa all’interesse generale delle élite al potere, la funzione storica delle classi. Con la supremazia del mercato brutale, interessi pubblici e privati si mischiano senza più vergogna né vincoli, scoprendo tutta la fragilità sociale e sostanziale delle democrazie. Il governo come comitato d’affari torna in tutta la sua potenza. Vale per Bibi, vale per Trump, Putin, per gli Ayatollah, per gli oligarchi russi e americani, vale per Musk e il suo dominio dell’algoritmo. L’Europa si mobilita e continua a sostenere militarmente l’Ucraina, mentre per Israele neanche una sanzione. Siamo alla reiterazione della politica dei due pesi, due misure? Siamo oltre al doppio standard. Stiamo al suicidio politico dell’Europa che inevitabilmente rinculerà sempre più verso il nazionalismo di ogni singolo Stato. La verità è che l’Unione ha fallito il suo obiettivo di autonomia e indipendenza. Oggi non ha, purtroppo, nessun ruolo positivo, diplomatico, negoziale, in nessuno degli scenari di guerra. Nessuno. Con il governo tedesco alle prese, nel silenzio generalizzato, con un massiccio riarmo e una posizione sul dramma palestinese scandalosa. Senza una riforma radicale del modello di governance, spostando poteri veri a livello europeo, l’Europa continuerà ad essere una espressione geografica a traino degli interessi atlantici. Poco altro. E lo dico con rammarico da europeista convinto. Per legittimare la mattanza di Gaza, Netanyahu ha brandito il diritto di difesa. Per attaccare l’Iran, quello dell’azione preventiva... Il premier israeliano è un uomo spregiudicato che mischia interessi privati e interessi nazionali più e peggio di altri. Ad occhio - finché ci saranno guerre ed emergenze - la sua carriera durerà. Poi dovrà rispondere a tribunali internazionali e anche a quelli della magistratura israeliana. Come abbiamo detto, la guerra preventiva è un obbrobrio di categoria, vuol dire che qualsiasi dubbio, fuori da qualsivoglia diritto internazionale, giustifica l’intervento militare. Quando i cinesi decideranno di applicare questa dottrina a Taiwan non so quali saranno le posizioni occidentali. O quello che vale per noi non vale per gli altri? Ora con il coinvolgimento diretto Usa siamo a un nuovo salto di scala. Così, dopo aver contribuito alla distruzione, occupato Afghanistan e Iraq per poi abbandonare le donne e gli uomini di quei Paesi al loro destino, che nel caso afgano significa i talebani, si apprestano a fare altrettanto in Iran. Da Roma a Bruxelles, la “diplomazia dei popoli” ha riempito il vuoto della diplomazia degli Stati: i 300mila di Roma, del 7 giugno, la grande partecipazione, sempre a Roma, alla manifestazione di sabato scorso, gli oltre 100mila di Bruxelles, le tante manifestazioni in Italia con la Palestina nel cuore. La speranza è nelle piazze? Le piazze, come quella di sabato, riempiono il cuore, dimostrano che esiste una parte consistente della popolazione pronta a mobilitarsi e battersi per la dignità della dimensione umana contro la follia della guerra, della economia di guerra, della stampa di guerra, degli inquinanti di guerra, degli stupri etnici. Ma serve la politica. Presidiare i luoghi della rappresentanza, ridare dignità al parlamento. Le democrazie autoritarie hanno annichilito il ruolo della dialettica parlamentare. Chi vince prende tutto. E agisce d’imperio. Da qui lo sgomento e l’impotenza tra gli uomini e le donne di buona volontà che, pur mobilitandosi, vivono con angoscia questa impossibilità di incidere, trasformando la loro battaglia in dimensione etica proprio perché ostaggio della incapacità della politica di incidere. Una vera e propria frustrazione collettiva. Tornare a dare forza e sovranità alla democrazia, tenere insieme agenda sociale, economica, civile, umanitaria, pacifista per cercare una nuova connessione di popolo contro i gangster guerrafondai e gli apprendisti stregoni. C’è una classe dirigente che gioca con il fuoco, danzando sul baratro della terza guerra mondiale a tappe. Dobbiamo fermarli, battendoli soprattutto sul piano della egemonia che esercitano verso i ceti popolari. Vanno battuti nel cuore delle contraddizioni e delle fatiche della nostra società. Con un progetto di alternativa che sappia accendere i cuori, mobilitare le anime, soprattutto quelle belle. Una alleanza che non sia solo la sommatoria delle forze politiche già in campo, perché rischiano di non bastare. Serve visione e lungimiranza. Serve generosità e la capacità di elaborare un progetto fortemente e organicamente antiautoritario: pacifista, internazionalista, garantista, femminista, ecologista, europeista, municipalista, socialista. E, in questo senso, c’è tantissimo ancora da fare. Iran. Fuoco e rivolte nel carcere più duro del regime di Maysoon Majidi Il Manifesto, 24 giugno 2025 La voce dei familiari dei dissidenti, preoccupati per la sorte dei loro cari. L’attacco aereo condotto dall’esercito israeliano sul carcere di Evin, simbolo storico della repressione politica nella Repubblica islamica, ha provocato incendi, rivolte interne e la distruzione di strutture sanitarie. Costruito negli anni 70 dal servizio segreto del regime Pahlavi (la Savak), Evin ha visto il suo ruolo repressivo ampliarsi con la Repubblica islamica. Per oltre quarant’anni, migliaia di prigionieri politici, giornalisti, attivisti per i diritti umani e oppositori del regime sono stati detenuti in questa struttura. Negli anni 80 migliaia di persone sono state condannate a morte in processi sommari. L’apice di questa repressione fu nell’estate del 1988, quando su ordine diretto dell’Ayatollah Khomeini, migliaia di prigionieri politici, già condannati, furono giustiziati in silenzio nelle prigioni di Evin e Gohardasht. Tra loro, decine di prigionieri politici curdi, affiliati ai partiti dell’opposizione come Komala, Pdki, furono giustiziati nonostante avessero già scontato parte della pena. Tra questi, Farzad Kamangar che è diventato simbolo della resistenza curda e dell’ingiustizia sistemica. Insegnante, poeta e attivista per l’istruzione gratuita, fu arrestato nel 2006 e, dopo mesi di torture nella sezione 209, fu condannato a morte il 9 maggio del 2010 per “inimicizia contro Dio” senza prove concrete. Scrisse lettere struggenti dal carcere, parlando di dignità, lingua madre e speranza. In una di esse dichiarava: “Mi uccidono perché ho insegnato ai bambini del mio popolo. Ma non si può uccidere una parola” Come in altri casi, la sua famiglia non ha mai ricevuto il corpo, né saputo dove sia stato sepolto. Nel 2022, in piena rivolta “Donna, Vita, Libertà”, un vasto incendio colpì Evin. Le autorità parlarono di “incidenti interni”, ma testimoni raccontarono di un attacco deliberato da parte delle forze di sicurezza per intimidire i prigionieri. Ma ieri Evin non è stato teatro di un incidente interno: è diventato obiettivo militare diretto. Secondo fonti locali, l’attacco israeliano ha distrutto numerose sezioni del carcere; in particolare, gli edifici amministrativi e giudiziari accanto al Blocco 4, il cancello 360 tra i Blocchi 7 e 8, l’infermeria e le finestre nel settore maschile e il muro della sezione femminile dove sono recluse tra le altre Pakhshan Azizi e Varisha Moradi condannate a morte in quanto oppositrici del regime. I familiari ieri erano molto preoccupati non riuscendo ad avere notizie dei loro cari. A seguito dell’attacco sono scoppiati incendi nei Blocchi 7 e 8. Alcuni detenuti hanno tentato di fuggire ma le guardie hanno ripreso il controllo. Il figlio di Abolfazl Ghadiani, noto prigioniero politico, ha scritto su X: “Mio padre ha chiamato da Evin. Tutti i vetri sono in frantumi. L’infermeria è danneggiata. Qualcuno dice che è stato colpito anche il portone principale. Come può la Repubblica islamica tenere in queste condizioni centinaia di prigionieri malati?”. Queste parole riflettono il panico tra le famiglie, molte delle quali si sono radunate fuori dal carcere in cerca di notizie. Ma il carcere di Evin è noto anche per il suo sistema di sorveglianza costante e le tecniche di tortura psicologica. Ex detenuti parlano di isolamento in celle buie, privazione del sonno, minacce sessuali e pressioni sui familiari. Nel 2021, il gruppo hacker “Justice for Ali” ha violato il sistema di videosorveglianza del carcere, diffondendo immagini scioccanti come guardie che picchiano detenuti incoscienti o trascinati a terra. Oltre a Evin l’attacco israeliano ha preso di mira il quartier generale dei Basij, milizia responsabile della repressione delle proteste, l’intelligence dei Pasdaran (Irgc), la base Sarallah, comando per la sicurezza di Teheran, l’intelligence della polizia (Faraja), le forze di sicurezza della provincia di Teheran (Sepah Seyed al-Shohada) e l’orologio simbolico di piazza Palestina, emblema ideologico del regime perché segna il conto alla rovescia per la “distruzione di Israele”. Israele ha presentato l’attacco come risposta alle provocazioni iraniane e ai recenti lanci missilistici. Il governo iraniano, e alcuni esperti di diritto internazionale, hanno detto che l’attacco israeliano rappresenterebbe una violazione delle Convenzioni di Ginevra visto che si tratta di strutture civili e non militari. Quel che è certo è che Evin non è solo una prigione ma un simbolo. Un archivio vivente di decenni di torture, esecuzioni, silenzi e resistenza. L’attacco di ieri, 23 giugno 2025, rappresenta una svolta: per la prima volta, il cuore della repressione interna iraniana è stato colpito dall’esterno. Ma la domanda che resta è: si tratta dell’inizio della fine dei simboli della repressione? O è soltanto l’ennesima crepa in quei vetri che non sono mai riusciti a soffocare le voci? Iran. Bombardata la prigione dove si torturano dissidenti e nemici politici di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 24 giugno 2025 Dallo scià agli ayatollah, il carcere speciale riservato ai prigionieri politici è da mezzo secolo un laboratorio della repressione politica. Quel portone divelto da un missile iraniano resterà a lungo tra i simboli di questa guerra. Il carcere di Evin non è un semplice carcere, è il luogo in cui il regime iraniano rinchiude dissidenti e oppositori politici. Quel missile, seguito dal post del ministro degli esteri israeliano che su X ha scritto “viva la libertà”, rappresenta un cambio di passo di una guerra nata non solo per fermare la produzione di uranio dell’Iran. A ogni regime dispotico si può associare una prigione simbolo delle sue atrocità: la Cambogia di Pol Pot aveva l’ex liceo Tuol Sleng, la Libia di Gheddafi Abu Salim, la Siria degli Assad il “macello umano” di Saydnaya, l’Iraq di Saddam Abu Ghraib (poi riciclata dai marine americani), il Cile di Pinochet Villa Grimaldi. Il cuore nero dell’Iran degli ayatollah e dei pasdaran batte invece nel carcere di Evin, che prende il nome dall’omonimo quartiere della capitale Teheran, alle pendici dei monti Alborz. Fu lo Scià Mohammad Reza Pahlavi a volerne la costruzione negli anni 70, quando il vecchio carcere di Qasr sembrava ormai inadatto a contenere la crescente opposizione politica. Il progetto era “moderno”: isolamento acustico, celle sotterranee, un’area speciale per gli interrogatori dell’intelligence. Il regime khomeinista ne mantiene ne l’ossatura e le logiche, sostituendo solo gli obiettivi da colpire: intellettuali, dissidenti, giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti umani. Nei mesi successivi alla Rivoluzione Evin si riempie di prigionieri politici e subito dopo dei vecchi alleati degli islamisti, in particolare i comunisti del Tudeh che in un paio d’anni vengono messi fuorilegge per via del loro “materialismo ateo” incompatibile con i precetti dell’Islam. Nell’estate del 1988, mentre in Iran si celebrava la fine della devastante guerra con l’Iraq, dietro i cancelli di Evin si consuma la prima ondata di massacri: migliaia di prigionieri politici vengono giustiziati senza processo, principalmente membri del Pmoi/ Mujahedin-e Khalq, marxisti, minoranze religiose, donne e giovani. Secondo Amnesy international i morti sono oltre cinquemila. Testimoni oculari ricordano l’orrore e le vittime del 1988, i prigionieri trascinati nei “corridoi della morte” uno dopo l’altro, Parvin Haeri, 29 anni, fisico giustiziato dopo sette anni di tortura; Razieh Ayatollahzadeh Shirazi, anche lei una scienziata, impiccata in mezzo ai suoi compagni. Tra i membri delle commissioni che dopo un interrogatorio farsa che dura pochi minuti dispongono l’esecuzione dei detenuti spicca il nome dell’ex presidente Ebrahim Raisi deceduto in un incidente d’elicottero lo scorso anno, all’epoca vice procuratore di Theran e in seguito ministro dela Giustizia. Il regime tenta di cancellare ogni traccia: nessun avviso ai familiari, nessun certificato di morte, viene fatto divieto assoluto di commemorazione. Nel tempo, Evin ha accolto ogni nuova ondata di dissenso: gli studenti del 1999, i riformisti e blogger del 2009 dopo le proteste del Movimento Verde, i giornalisti e gli attivisti per i diritti civili e delle donne nel decennio successivo, fino ai giovanissimi di “Donna, vita e libertà” arrestati nelle rivolte del 2022, seguite all’uccisione di Mahsa Amini da parte della polizia morale. Come emerge dai racconti dei detenuti e delle detenute lo schema punitivo di Evin è molto elaborato, si tratta di un luogo razionale, gelido, i corridoi sono puliti, il dolore è distribuito secondo criteri specifici: ci sono le celle di isolamento, chiamate “tomba”; ci sono le sezioni amministrate direttamente dalla magistratura, quelle dai Pasdaran (i più temuti), e poi quelle dedicate ai prigionieri stranieri accusati di spionaggio. Come racconta la scrittrice iraniana di origine curda Zarah Ghahramani in Forced to Betrayal: My Escape from the Mullahs “Evin è una prigione costruita per farti credere che sia tutto normale, mentre ti tolgono pezzo dopo pezzo l’identità”. Le donne soprattutto denunciano l’orrore della “tortura”: isolamento totale in celle insonorizzate e bianche, senza luce, senza suoni, vestiti bianchi, cibo insapore, il rumore di chiavi, la porta che si apre nel cuore della notte, gli occhi bendati mentre si viene interrogati per ore, con la voce dell’aguzzino che scivola sottile come un gas, sulla falsariga delle tecniche di deprivazione sensoriale sperimentate dagli Usa di Bush jr a Guantanamo. Raramente accadono episodi di violenza diretta o abusi fisici, anche se nell’ondata repressiva del 2023 le detenute hanno denunciato decine di casi di vilenza sessuale. L’avvocata e premio Nobel per la pace Narges Mohammadi arrestata per aver contestato la pena di morte ha raccolto le loro voci in White Torture (2022), un libro che raccoglie testimonianze di 14 donne - tra cui Mohammadi stessa - detenute nella prigione di Teheran. Un’altra importante testimone dell’universo carcerario di Evin è Nasrin Sotoudeh, avvocata dei diritti umani, già condannata a 38 anni e 148 frustate per “incitamento alla prostituzione e alla corruzione” ha difeso decine di donne che si erano tolte il velo in pubblico e minorenni condannati a morte; sono 15 anni che Sotoudeh entra ed esce dalla prigione resistendo alla macchina della repressione tra scioperi della fame e una grave malattia cardiaca. Per quanto possa sembrare paradossale, per molti prigionieri Evin è stato anche un luogo di formazione, in cui hanno imparato a conoscersi, a resistere, a eludere la sorveglianza con stratagemmi continui, ad acquisire coscienza politica costruendo una memoria collettiva che senza alcun dubbio sopravvivrà al regime che li ha perseguitati.