“Sulle carceri ci giochiamo un pezzo di civiltà” di Angela Stella L’Unità, 23 giugno 2025 Giustizia, Pd all’attacco. “La destra ha voluto riportarci indietro di 30 anni e riaprire lo scontro con la magistratura, una guerra che esaspera gli animi. Non vediamo uno spirito costituente, la destra va avanti a forzature parlamentari”. A dirlo è stata la segretaria del Pd Elly Schlein al convegno “Giustizia secondo Costituzione”, organizzato dai dem a Roma sabato scorso per fare il punto sul tema delle carceri, su quello che da molti relatori è stato definito “panpenalismo emozionale” e sulla separazione delle carriere, che per la leader dei dem altro non è che una riforma voluta con “evidente approccio ideologico e ritorsivo” e con cui si vuole “soggiogare un altro potere dello Stato”. Per Schlein “abbiamo davanti chi ritiene di essere al di sopra delle leggi e non lo possiamo accettare: magistratura mal tollerata, informazione da imbavagliare, opposizioni viste come un ostacolo”, oltre a critiche quotidiane agli organismi internazionali riconosciuti e “l’idea muscolare del diritto di governare” con “pesi e contrappesi percepiti come lacci e lacciuoli”. E sul Guardasigilli: “Non smetterà mai di sorprendermi la trasformazione del ministro Nordio. Siamo a un caso - ha ironizzato Schlein - di omonimia? I principi garantisti rinnegati uno dopo l’altro”. Non poteva mancare una critica al dl sicurezza che, ha ricordato la leader dem, “propone 14 nuovi reati e nuove aggravanti e riempie le carceri. Io non sopporto più l’ipocrisia di chi si riempie la bocca a parlare di sicurezza poi taglia i fondi ai sindaci”. E ha aggiunto: “A pochi giorni dall’approvazione del decreto sicurezza, abbiamo la dimostrazione che avevamo ragione noi: di fronte all’incapacità di dare risposte al Paese si sceglie di punire chi si lamenta. Durante lo sciopero dei metalmeccanici, i lavoratori sono stati denunciati perché protestavano. Ecco l’obiettivo del dl sicurezza: non ascoltare il grido dei lavoratori, ora chi si lamenta viene punito. Diamo ai metalmeccanici piena solidarietà”. Durante l’incontro sono intervenuti diversi parlamentari Pd delle commissioni giustizia, tra cui la vice presidente del Senato Anna Rossomando: “È chiaro che questa riforma costituzionale ha poco a che fare con la separazione delle carriere. Perché anche non considerando che oggi il passaggio di funzione è limitato allo 0,39% dei magistrati, se fosse stato quello l’obiettivo, si sarebbe dovuto discutere, vagliare proposte, confrontarsi realmente in Parlamento. Invece la maggioranza ha una sola priorità, approvare il prima possibile una norma che in realtà punta a colpire il ruolo del Csm e l’assetto istituzionale della magistratura nel quadro costituzionale”. La responsabile dem Debora Serracchiani si è concentrata sul tema carceri: “Il tema della giustizia tocca la carne viva dei nostri concittadini e le questioni collegate al carcere, in particolare, rappresentano l’emergenza delle emergenze. Come ha dimostrato la grave e inaudita vicenda avvenuta nell’istituto Marassi di Genova, dove un giovane detenuto di 18 anni, incensurato, recluso per un reato minore, è stato violentato e torturato per due giorni senza che nessuno abbia visto nulla. Sul tema del carcere noi ci giochiamo un pezzo della nostra credibilità e della nostra civiltà”. E ha annunciato: “Speriamo che da questo fatto drammatico possa scaturire un moto di cambiamento per far sì che questi possano diventare dei luoghi di dignità dove vivere e lavorare. Abbiamo ripreso l’iniziativa degli Stati Generali sull’esecuzione della pena e il Pd presenterà un aggiornamento di quei lavori”. Sulle criticità nei Cpr ha parlato invece la deputata Rachele Scarpa: “Il sistema negli ultimi vent’anni è degenerato e oggi la detenzione amministrativa rappresenta in tutta la sua violenza e la sua assurdità la criminalizzazione nel segno del panpenalismo della condizione di irregolarità delle persone straniere, rendendo questa condizione una vera e propria colpa da espiare, in un paese che però non dà alcuno strumento per regolarizzare la propria situazione. Le condizioni di trattenimento nei Cpr sono disumane, con ancora meno garanzie di quelle che troviamo nelle carceri italiane ed è solo per ragioni di propaganda che il governo italiano sceglie di investire in questo “modello”, addirittura provando ad esportarlo in Albania”. Di giustizia riparativa ha parlato Michela di Biase: “Per noi la giustizia riparativa non è alternativa alla giustizia penale, ma è fondamentale per accompagnarla e aiutare a sanare le profonde fratture che si sono create non solo fra il reo e la vittima, ma anche all’interno della società”. Il dibattito è stato aperto anche all’accademia, all’avvocatura e alla magistratura. Francesco Petrelli, presidente dell’Ucpi, ha ricordato che l’Unione ha “attaccato il governo sulle carceri, sul decreto sicurezza” e che “non abbiamo mai fatto mancare un sostegno alla magistratura quando è stata colpita”. Questo per rivendicare la posizione “laica e trasversale” dei penalisti italiani e il “legame embrionale con la riforma della separazione”, che “non appartiene a questo governo, ha radici più antiche, che provengono dalla cultura liberale di sinistra”. Invece il segretario dell’Anm Rocco Maruotti ha criticato l’appuntamento elettorale sulla riforma che si terrà probabilmente nella primavera 2026: “Il referendum diventerà probabilmente, soprattutto in mancanza di un dibattito parlamentare, un sondaggio sulla magistratura da un lato e sul governo dall’altro. E si trasformerà in un conflitto istituzionale che nessuno dovrebbe auspicare”. Infine, per il professore Roberto Bartoli, ordinario di diritto penale all’Università di Firenze, “con il dl sicurezza siamo passati dal populismo penale al sadismo penale” in quanto è stato elaborato “per incrementare paura e cattiveria”. La separazione secondo il presidente dell’Anm Parodi di Claudio Cerasa Il Foglio, 23 giugno 2025 La politica non può attaccare i magistrati, l’Anm può attaccare il governo. Il presidente dell’Anm, Cesare Parodi, in un’intervista su Avvenire si presenta come “uomo del dialogo”: “Noi non cerchiamo lo scontro, cerchiamo un dialogo su temi che ci stanno molto a cuore - ha detto il presidente dell’associazione dei magistrati. C’è gran differenza tra conflitto e confronto. E noi siamo per il confronto”. Naturalmente è solo un trucco, tattico e retorico: Parodi non cerca affatto il dialogo. Lo ha spiegato chiaramente ai suoi colleghi poco prima che l’eleggessero presidente: “Il governo deve ritirare tutta la riforma. Non torniamo indietro su niente. Io non tratto su nulla”. E neppure il governo tratta su nulla. Due scelte legittime. Non si capisce quindi perché l’Anm, che vuole il ritiro totale della legge Nordio, accusi il governo di non voler accettare compromessi sulla riforma. Nella stessa intervista, Parodi accusa anche il governo Meloni per le critiche alle sentenze della magistratura: “Non pensiamo che le sentenze non possano essere criticate, ci mancherebbe, ma nemmeno che debbano essere intese come degli sfondamenti dei limiti della sfera giurisdizionale”. Opinione moderata, che però contrasta con il comportamento dell’Anm che, quotidianamente, attacca il governo con giudizi pesanti e argomenti politici per la sua proposta. La magistratura associata accusa quotidianamente il potere legislativo di “forzature”, spiega come dovrebbe modificare la legge, l’accusa di violare lo spirito della Costituzione, afferma falsamente che con la riforma “il pm finisce sotto il cappello dell’esecutivo” e, addirittura, ha organizzato uno sciopero contro la riforma. Insomma, l’Anm dice che il governo è istituzionalmente scorretto quando muove accuse dure alle sentenze, mentre contemporaneamente si scaglia, tutti i giorni, contro una riforma in discussione in Parlamento, cercando di modificarne l’esito. Ma se il governo non deve dire ai magistrati come si scrive una sentenza, perché l’Anm dice al governo come deve scrivere le leggi? La separazione dei poteri, sempre invocata, non può valere a senso unico. Delmastro: “Azione penale obbligatoria? Meglio indicare priorità ai pm” di Carlo Cambi La Verità, 23 giugno 2025 Il sottosegretario alla Giustizia: “Di fatto oggi c’è discrezionalità, forse dovremmo far perseguire per primi i reati più odiosi. La nostra riforma premia i magistrati per bene”. Forse pochi lo sanno, ma sull’isola di Gorgona a metà strada tra Livorno e Capraia, lungo la rotta che porta in Corsica, c’è l’ultimo penitenziario agricolo d’Italia, che peraltro l’Europa - se così si può dire - c’invidia. Qui i detenuti, stipendiati, lavorano la terra e fanno da ormai 14 anni due vini di eccezionale qualità sotto la guida di una delle più prestigiose cantine del mondo, la Marchesi dè Frescobaldi. Andrea Delmastro delle Vedove - uno dei più stretti amici di Giorgia Meloni tanto da esserne stato in più occasioni l’avvocato di fiducia - ha voluto essere alla presentazione del Gorgona 2024, bianco da uve Ansonica e Vermentino. La riforma della giustizia sembra in dirittura d’arrivo: vi spettate una reazione dell’anm e quali sono i “vantaggi” per il cittadino? “Il primo vantaggio sarà per la magistratura stessa. Le vicende esplose con il Palamara gate hanno fortemente eroso l’onorabilità sociale della magistratura per colpa di una minoranza agguerrita e politicizzata. La magistratura deve essere ammantata da credito sociale. Molti della mia generazione, fra cui il presidente Meloni, hanno intrapreso l’attività politica perché scossi dai crateri di Capaci e Via d’amelio. La nostra storia ci ha spinto a fare una riforma non contro la magistratura, ma per i tanti magistrati per bene, che ogni giorno onorano la toga e che sono i primi penalizzati dalla degenerazione correntizia. Il sorteggio avrà l’effetto di liberare tanti magistrati dallo strapotere di correnti che, per usare un eufemismo, non hanno dato prova di buon esercizio del potere di cui disponevano. La separazione delle carriere attua il giusto processo che, a mente dell’art. 111 della Costituzione, si realizza “nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità di fronte ad un giudice terzo ed imparziale”. Noi portiamo a compimento il dettato costituzionale, consegnando ai nostri figli una giustizia più giusta, ed un giudice finalmente terzo ed imparziale e non un giudice che appartiene ad una delle squadre in campo”. Il suo collega di partito Alessandro Ciriani ha affermato che si è passati nell’UE da una rule of law a una rule of left: insomma, la sinistra detta il diritto. Pensa che sia così anche in Italia? “Se volessi adottare il linguaggio della sinistra parlerei di “torsione democratica”. La illuminante e tagliente battuta di Alessandro Ciriani pone il grande tema della salute della odierna democrazia. Dopo anni di discussioni estenuanti sulle presunte democrazie “illiberali”, cioè democrazie che non piacciono alla sinistra, ci stiamo sinistramente affacciando all’epoca delle democrazie “limitate”. In Francia viene impedito a Marine Le Pen di competere, in Germania il maggior partito tedesco è a rischio esclusione dalle competizioni per una indagine dei servizi segreti, in Romania è stata annullata una elezione presidenziale. Il popolo sembra sotto tutela, e a tutori si sono erte le sinistre. Hanno cominciato con il termine “populista” che come ricordava Naulot è “l’aggettivo usato dalla sinistra per designare il popolo quando questo comincia a sfuggirle”, e adesso sono arrivati a teorizzare la scissione di “kratos” (potere) da “demos” (popolo) che ne è la sua giustificazione. Mi soccorre Cacciari che non mi pare essere un pericoloso sovranista: “È l’ennesimo atto di suicidio delle (presunte) élites. Se la democrazia vuole spararsi alle palle faccia pure”. Qui però sembra che qualcuno spari alla democrazia con il rule of left. Fortunatamente l’effetto sortito è sempre l’opposto e la sinistra rimane fuori gioco ogni qual volta si aprono le urne”. Pensa che sia venuto il tempo di togliere di mezzo l’ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale? “È un tema delicatissimo. Io, se esistesse, sarei uno strenuo difensore dell’obbligatorietà dell’azione penale. Oggi già di fatto esiste la discrezionalità, ma non ha nessuna legittimazione popolare. Forse è giunto il tempo di avere un approccio concreto e chiedersi se non sia il caso di indicare le priorità dell’azione penale sulla base dei reati che gli italiani considerano più odiosi e per cui sono più preoccupati”. Dopo l’uccisione del maresciallo dei carabinieri Carlo Legrottaglie gli agenti che l’hanno difeso sono indagati. È concepibile che finiscano sotto processo? “Stiamo per intervenire con una norma che consenta alla magistratura di archiviare celermente quando è evidente che le forze dell’ordine abbiano agito per adempimento del dovere, per necessità o per legittima difesa propria o dei consociati, senza necessariamente transitare dalla iscrizione al registro degli indagati. Dobbiamo tutelare chi ci difende”. A proposito del decreto Sicurezza si è detto che questo governo ha in mente una carcerazione dei rapporti sociali, che affida al penale la gestione dei conflitti e del dissenso. Che cosa risponde? “Carcerazione dei rapporti sociali… che mal di testa solo per capire cosa dicono! Io continuo a definirlo “dl normalità” e non “sicurezza” perché tuteliamo l’Italia normale mai tutelata. Faccio tre esempi. Fra chi quando vede un treno pensa che lo prenderà per andare a lavorare, o lo prenderà suo figlio per andare all’università o il suo genitore per curarsi, e chi quando vede un treno sente la voce di madre natura che gli dice di bloccarlo, io so chi devo tutelare: l’Italia normale. Fra l’anziano che quando è in lungodegenza non pensa a curarsi con i tempi necessari, ma a uscire dall’ospedale prima che gli occupino casa, e gli occupanti violenti, so da che parte stare. Piaccia o meno alla sinistra che è passata dallo ius soli allo ius Salis, definendo liberticida un provvedimento che restituisce immediatamente la casa al legittimo proprietario. In ultimo, fra la madre che prende la metropolitana, pagandola, per portare i figli a scuola, per poi riprenderla per andare al lavoro, e la madre che prende la metropolitana, senza pagarla, per borseggiare l’altra madre, confidando nella impunità per la maternità, non ho nuovamente dubbi da che parte stare. Esiste un’Italia che lavora, che studia, che spera, che cresce, che rispetta le leggi e che sino ad oggi non ha trovato tutele. Noi siamo fieri di rappresentare questa Italia”. Sui respingimenti, l’operazione Albania, il controllo dell’immigrazione, si faranno passi avanti e la riforma della giustizia porterà un chiarimento? “Abbiamo già fatto passi avanti. Il numero degli sbarchi è crollato, mentre si sono impennati i rimpatri. Siamo consapevoli che ancora molto vi sia da fare per contrastare lo schiavismo del XXI secolo costituito dalla tratta di esseri umani, ma non ne vogliamo essere minimamente complici. Il governo Meloni ha vinto la guerra delle parole in Europa e finalmente non si parla più di “risorse” da “redistribuire”, ma di dimensione esterna, di presidiare i confini, di disarticolare la tratta di esseri umani: è un cambiamento epocale. Il modello Albania è un modello considerato in Europa e studiato da molti Paesi, anche a guida socialista. Nella trincea immigrazionista è rimasta, isolatissima, solo la sinistra italiana che, come al solito, cerca la scorciatoia giudiziaria. Per un attimo hanno anche confidato nella magistratura albanese…”. Il presidente Sergio Mattarella, ma anche Forza Italia, nonostante l’esito referendario suggeriscono una riforma della cittadinanza. Che ne pensa? “Sulla proposta di Forza Italia si è già espresso il mio capogruppo Bignami: non la condividiamo, non fa parte del programma e gli italiani hanno recentemente cassato ogni apertura, dimostrando gradimento per la legislazione attuale in materia. La legge sulla cittadinanza c’è, funziona, non va cambiata. L’Italia è quasi ogni anno il Paese in Europa che concede più cittadinanze. Negare questo dato mi sembra quanto di più distante ci possa essere dal comune sentire del popolo italiano, che sempre più naturalmente interpreta la cittadinanza come la conclusione di un percorso di integrazione e non l’inizio di un percorso di integrazione, concetto caro alla sinistra immigrazionista”. Ultima domanda: lei è stato anche responsabile esteri di Fdi, cosa pensa della sinistra che va in piazza, di fatto, per gli ayatollah, della mobilitazione pro Pal che spesso ha anche motivazioni violente? Crede che le crisi internazionali di fronte a cui l’Europa sembra irrilevante troveranno una soluzione? “Intanto è la solita sinistra che nella sua vita ha issato ogni vessillo possibile, tranne il tricolore. È una sorta di difetto di fabbrica. Poi è particolarmente stupefacente vedere femministe, esponenti del mondo Lgtbq andare in piazza per chi conculca ogni libertà, soprattutto sessuale. I giorni pari sono in piazza contro il “patriarcato italiano”, categoria politologica e dell’anima che incredibilmente coincide con la prima presidenza del Consiglio femminile, i giorni dispari per coloro che soffocano ogni libertà sessuale, che mortificano il corpo delle donne, che le discriminano e che le infibulano. La soluzione di queste crisi non passa certo per questa variopinta e contraddittoria piazza, ma per il tramite di una politica estera che, innanzitutto, si incarichi di tessere l’unità del mondo occidentale, mondo che ha garantito libertà, sviluppo, pluralismo e democrazia. Non appartengo alla schiera di coloro che ritengono l’occidente la sentina di ogni male: l’occidente è terra, pur con tutte le sue imperfezioni, di libertà. Salvaguardare, come sta facendo cocciutamente il presidente Meloni, l’unità dell’occidente non significa solo difendere la nostra civiltà, ma tenere accesa la fiaccola delle libertà in tutto il mondo. L’Europa e l’America compongono una medesima civiltà, ma, come diceva Margaret Tatcher, l’Europa deve imparare che la nostra visione del mondo non si afferma per la giustezza della nostra causa, ma per la forza della nostra difesa”. Cioè che serve è una linea di confine tra giustizia e caos di Paola Balducci Il Dubbio, 23 giugno 2025 C’è una differenza evidente - e per certi versi sconcertante - tra il modo in cui l’opinione pubblica ha assistito ai casi di Garlasco e di Avetrana. Due vicende accomunate dalla drammaticità e dalla centralità mediatica, ma per certi versi diverse per esito, approccio investigativo e atteggiamento comunicativo. Il caso Avetrana ha lasciato dietro di sé un rumore costante, un eco infinito di trasmissioni, commenti, ricostruzioni e contro-ricostruzioni, fino alla sentenza definitiva che ha sancito colpe e responsabilità. Il caso Garlasco, invece, sembra sospeso in un tempo incerto, dove tutto è stato detto e nulla è mai veramente concluso. Un processo che torna ciclicamente a occupare lo spazio mediatico, tra sentenze ribaltate, nuove perizie, riaperture, eppure mai del tutto chiuso. Il silenzio, qui, è quello dell’incertezza. Un silenzio che pesa più di mille parole. E intanto, tutto è cambiato. Non siamo più negli anni dei primi plastici in tv: siamo nell’era dell’intelligenza artificiale, della profilazione algoritmica, delle simulazioni digitali di scene del crimine, delle ricostruzioni tridimensionali dei movimenti corporei e della biometria avanzata. Il processo penale si confronta oggi con strumenti nuovi, precisi, capaci di rivelare dettagli che una volta erano semplicemente inaccessibili, e tutto questo apre scenari impensabili fino a pochi anni fa. Ma c’è un punto che merita attenzione: queste tecnologie non si applicano solo ai reati futuri. Sempre più spesso, vengono utilizzate per riesaminare casi del passato. Ed è proprio questo uno degli snodi centrali nel caso Garlasco. Il riesame delle prove “vecchie”, alla luce di strumenti “nuovi”, impone interrogativi delicati: possiamo considerare davvero affidabili elementi raccolti vent’anni fa con tecniche oggi superate? Possiamo riscrivere un processo a partire da una nuova perizia fondata su metodi non disponibili all’epoca? Sì, possiamo. E forse, a volte, dobbiamo. A condizione però che il lavoro sia rigoroso, scientifico, verificabile. Il pericolo è duplice: da un lato, affidarsi con troppa leggerezza a suggestioni tecnologiche; dall’altro, scambiare l’innovazione per certezza, come se il dato tecnico fosse sempre neutro e infallibile. La tecnologia è un mezzo, non una verità. E come tale va trattata: con rispetto, ma anche con prudenza. Il punto è che l’intelligenza artificiale e le tecnologie forensi possono davvero aiutare la giustizia, ma solo se inserite in un quadro di regole chiare e valide per tutti. Servono protocolli condivisi, formazione per magistrati e difensori, trasparenza metodologica. Altrimenti, il rischio è che queste innovazioni si trasformino in armi a doppio taglio: capaci di ribaltare verità consolidate, ma anche di produrre nuovi fraintendimenti. E qui ritorna il cuore della questione: quando un processo si fonda su indizi, e non su prove dirette, la qualità del lavoro iniziale fa la differenza tra giustizia e incertezza eterna. Se le prime indagini sono state affrettate, condotte senza strumenti adeguati, senza l’approfondimento necessario, tutto ciò che viene dopo - anche l’innovazione più raffinata-rischia di essere un’aggiunta sterile, o peggio, un tentativo disperato di rimediare a un errore originario. In questo scenario, la battaglia mediatica non aiuta, anzi. L’ossessione per la narrazione, il bisogno di trovare “il colpevole” da mostrare al pubblico, la corsa alla dichiarazione più efficace finiscono per interferire con il processo stesso, alterando la percezione collettiva e, talvolta, anche quella degli operatori coinvolti. La giustizia non ha bisogno di clamore, ma di metodo. Non di sensazioni, ma di verifiche. La sfida è tutta qui: integrare le potenzialità della tecnologia senza cedere al fascino della semplificazione, mantenendo intatto il rigore del metodo giuridico. Il caso Garlasco, con tutte le sue ombre e le sue incertezze, ci costringe a fare i conti con questa tensione: tra ciò che la giustizia dovrebbe essere e ciò che rischia di diventare sotto i riflettori. La risposta finale, a distanza di anni, è ancora quella più amara e meno televisiva: il dubbio. Un dubbio che non fa audience, ma che pesa - e deve pesare - fino all’ultima parola scritta in una sentenza. Alla fine, la vera linea di confine non è tra il passato e il presente, ma tra ciò che aiuta davvero la giustizia e ciò che la confonde. In principio venne il plastico di Vespa: 25 anni di udienze televisive e gogne universali di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 23 giugno 2025 È il 2002 quando, su Rai Uno, Bruno Vespa esibisce per la prima volta il plastico della villetta di Cogne. Il delitto di Samuele Lorenzi, ucciso a tre anni mentre dormiva nel letto dei genitori, e la figura della madre Annamaria Franzoni (principale indagata) sono l’oggetto di un’ossessione collettiva. Con quella messa in scena, Porta a Porta segna un punto di svolta nel rapporto tra giustizia e media: la cronaca nera come fiction e intrattenimento, lo studio televisivo una corte parallela. Inizia forse lì, simbolicamente, la moderna stagione della giustizia spettacolo. Un genere che ha attraversato i decenni, affinandosi nel tempo, ma conservando intatto il vizio d’origine: il processo mediatico che si sovrappone a quello giudiziario, deformandolo, semplificandolo, spesso anticipandolo. Dagli anni Duemila, i salotti televisivi e i talk show si riempiono di criminologi, periti psichiatrici e aspiranti pm, diventando succursali delle aule di tribunale. Novi ligure, Perugia, Avetrana, Parolisi, Bossetti, Olindo e Rosa; ogni tragedia ha i suoi protagonisti, il suo climax morboso, il suo bestiario da dare in pasto al pubblico. L’assassinio della britannica Meredith Kercher (2007) alimenta lo stereotipo sessista della femme fatale che verrà addossato alla giovane americana Amanda Knox con centinaia di persone che manifestano sotto il tribunale di Perugia per chiederne la condanna neanche fossimo alla Bastiglia. L’omicidio di Sarah Scazzi ad Avetrana (2010) rappresenta invece l’apoteosi e un punto di non ritorno: non solo la madre della ragazza apprende della sua morte in diretta tv durante il programma Chi l’ha visto?, ma la stessa località pugliese si trasforma in un grottesco set che accoglie orde di turisti del dolore: 25 euro e pranzo al sacco bastano per un rapido tour. Con l’avvento dei social, la spettacolarizzazione si frammenta e si moltiplica. Per speculare sulla cronaca: bastano un tweet, una foto rubata, un video su TikTok. Il crimine si fa content: accompagnando la vecchia televisione che a suo modo ruggisce ancora, le piattaforme in streaming oggi pullulano di true crime di “viaggi dentro il male” realizzati come thriller hollywoodiani. Il confine tra informazione e intrattenimento si fa sempre più labile. Con l’evoluzione della tecnologia digitale la giustizia spettacolo entra in una fase inedita: quella della tecnologia applicata alla narrazione del crimine. Proprio questa settimana, il programma Quarta Repubblica (Rete 4) ha utilizzato l’intelligenza artificiale per generare la simulazione dell’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco. L’algoritmo ha ricostruito i volti dei protagonisti i loro movimenti, la dinamica del delitto, anche nei particolari più truculenti. Ma il tutto solleva dubbi etici enormi: è una ricostruzione o una suggestione? È informazione o manipolazione? Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. In Francia, nel 2023, un programma analogo ha utilizzato un deep fake per mostrare “testimonianze” simulate. La giustizia spettacolo non è solo un problema di forma: è una questione di sostanza democratica. Quando l’opinione pubblica giudica prima del giudice, quando le sentenze si emettono nei talk show o sui social media, a essere preso di mira è quasi sempre il principio presunzione d’innocenza, pilastro dello Stato di diritto. Lo ha denunciato più volte l’Unione delle Camere Penali: “Il processo mediatico altera l’equilibrio tra accusa e difesa”. Annamaria Franzoni è stata condannata, altri come Amanda Knox e Raffaele sollecito sono stati assolti dopo anni di carcere e linciaggio mediatico. Colpevoli o innocenti, non è questo il punto, la loro vicenda è stata al centro di un interesse malsano, ha generato tifoserie contrapposte come se fossimo davanti a un reality show. Il giornalismo, in questa deriva, ha una grande responsabilità: informare senza influenzare, raccontare senza condannare, mostrare senza spettacolarizzare. In un’epoca in cui la tecnologia accelera le emozioni e rallenta la riflessione, forse la vera rivoluzione sarebbe tornare ai fatti. Dare spazio al dubbio. E restituire alla giustizia il tempo, lento ma sacro, che le spetta. Il giallo di Garlasco, show senza fine a reti unificate di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 23 giugno 2025 Mentre Stasi sconta una condanna definitiva, i pm riaprono le indagini su Sempio. Ma l’inchiesta pare guidata dai riflettori piuttosto che dalle prove. È stato un femminicidio quello che ha portato alla morte Chiara Poggi? Se la risposta è “sì”, è sufficiente spostare indietro l’orologio di dieci anni, per tornare al 2015, ad Alberto Stasi e alla sua condanna, oltre ogni ragionevole dubbio, a 24 anni di carcere, ridotti a 16 per il rito abbreviato. La pena massima per l’omicidio, quando non si riscontrino quelle aggravanti che, come nei casi più recenti di Filippo Turetta e Alessandro Impagnatiello, hanno portato alle condanne dell’ergastolo. Ma se la risposta alla domanda sul femminicidio fosse “no”, allora sarebbe bene fare una sosta dalle parti della procura di Pavia, dove si è riaperta un’inchiesta nei confronti di Andrea Sempio, che era stata già archiviata due volte fin dal 2017, da parte di due diversi giudici delle indagini preliminari, su sollecitazione dello stesso pm. In questo caso non sarebbe femminicidio perché, secondo l’accusa, Sempio avrebbe agito “in concorso” con altri. Omicidio di gruppo, quindi. Il movente? Poco importa, in questa inchiesta quanto mai scenografica e spesso condizionata dai media. Basti pensare a quel che è capitato il 14 maggio scorso, quando nella stessa giornata sono state effettuate quattro perquisizioni, una delle quali, a casa dello stesso Sempio (le altre erano nelle abitazioni dei suoi genitori e di due suoi amici) era durata dieci ore. E, come se non fosse bastata questa intrusione alla ricerca di non si sa quale segreto diciotto anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, nella stessa mattinata veniva dragato un canale vicino a Garlasco sulla base di quanto emerso la sera precedente in un servizio sul programma tv “Le Iene”. Un testimone dell’epoca riferiva il racconto di una sua parente, nel frattempo deceduta, alla presenza di un’altra persona, anche lei ormai morta. Secondo questa signora una delle cugine della vittima, Stefania Cappa, il giorno dell’omicidio sarebbe arrivata molto nervosa alla casa della nonna, adiacente al canale, con un borsone pesante. In seguito la stessa signora avrebbe sentito un tonfo nell’acqua. Ecco l’arma del delitto, si è gridato a gran voce nel circo mediatico-giudiziario. Nel canale solo qualche ferro vecchio e non se ne è più saputo niente. Del resto a Milano nel Naviglio di recente è stato trovato un divano. Ci sono persone che, senza essere assassini, buttano un po’ di tutto nei corsi d’acqua. Qualche giorno dopo improvvisamente la procura poi fissava tre interrogatori in simultanea. Quello di Alberto Stasi, perché è difficile tenerlo fuori dai giochi, essendo l’unico condannato per il delitto, poi Marco Poggi, fratello di Chiara e amico di Sempio, e quest’ultimo, il quale non si è presentato per un vizio di forma nella convocazione, rilevato dai suoi legali. E meno male, ha commentato l’avvocato Massimo Lovati, perché era pronto per lui il trappolone. Che è scattato lo stesso, tramite il Tg1, altro strumento del circo mediatico. È il momento della traccia numero 33, un’impronta sul muro vicino alle scale dove Chiara fu gettata a morire. Ormai si sa che di quell’impronta, che con certezza non conteneva sangue, quindi non era dell’assassino, esiste solo una fotografia. Fine del circo. Così siamo arrivati alla criminalizzazione del Fruttolo e di Estathe, oggetti forse della colazione di Chiara della mattina dell’omicidio, quando aveva aperto la porta al suo assassino proprio mentre faceva colazione sul divano, in pigiama e con la televisione accesa. Un quadretto di normale quotidianità di una ragazza in vacanza dal lavoro, che entra nell’incidente probatorio con accertamenti irripetibili, disposto dalla gip di Pavia Daniela Garlaschelli per esaminare il dna presente su una serie di oggetti e parametrarlo con quello di diversi soggetti, undici per la precisione, e non solo di Andrea Sempio. I periti d’ufficio e quelli delle diverse parti hanno novanta giorni di tempo per dare il loro responso, mentre le parti processuali si ritroveranno nell’ufficio della giudice il prossimo 24 ottobre. Dove si vedrà, forse, anche se davvero sta in piedi l’ipotesi dell’omicidio di gruppo. Per questo, sempre dalle parti del circo mediatico, si dà una certa importanza alla famosa impronta numero 10, quella sulla maniglia della porta. Anche se si sa già che non era né del condannato né del neo-indagato e che comunque non è insanguinata. Ecco il terzo uomo! Ma come nasce tutto ciò? Potremmo chiamarla “Garlasco due la vendetta”. E sì, perché accanto agli uomini della procura di Pavia e ai carabinieri di Milano, un vero ruolo da deus ex machina pare svolgerlo la difesa di Alberto Stasi, novelli Perry Mason alla ricerca del vero colpevole. Perché il loro assistito continua a professarsi innocente, ed era stato assolto sia in primo che in secondo grado. Ma, avevano obiettato i giudici che lo avevano condannato, questi indizi avevano la forza di prova, in quanto “gravi, precisi e concordanti”, oltre ogni ragionevole dubbio. Ma è il quadro d’insieme a esser stato determinante e ad aver convinto i giudici dell’appello-bis, che avevano riaperto l’istruttoria. La dinamica di quella mattina. Chiara Poggi ha disattivato l’allarme della casa alle 9,12, quando è arrivato qualcuno, ed è morta entro le 9,35. Ventitré minuti in cui è stata aggredita, poi trascinata per i piedi, di nuovo aggredita perché aveva dato segni vitali, e infine buttata giù dalle scale che dall’ingresso portavano alla tavernetta-cantina. Aveva aperto all’ospite in pigiama. Una persona con cui aveva confidenza e che conosceva bene la casa. Una persona che l’avrebbe aggredita quasi subito, con una violenza carica di odio. Era uno sconosciuto? Oppure Alberto Stasi? O Andrea Sempio? E in questo caso chi sarebbero i suoi complici? Nell’ipotesi del femminicidio, abbiamo una sentenza definitiva, confermata dalla corte d’appello di Brescia e dalla Cassazione cui i difensori di Stasi si erano rivolti per chiedere la revisione del processo. E due volte la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva dichiarato anche la regolarità formale del processo e della condanna. Ma resta debole il movente. Ancora più nebuloso se dobbiamo credere alla responsabilità di Andrea Sempio, soprattutto se “in concorso” non si sa bene con chi. Né perché. Ma al circo non importa. Ogni giorno il “giallo di Garlasco” è a reti unificate. “Da Portobello a casa Poggi: il processo penale sotto l’assedio dei mass media” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 giugno 2025 “La presunzione d’innocenza è soffocata dal protagonismo e da una cultura che ha smarrito totalmente il senso del dubbio”. Avvocato Oliviero Mazza, ordinario di diritto processuale penale all’Università degli studi Milano-Bicocca, una settimana fa ricorreva l’anniversario dell’arresto di Enzo Tortora davanti a decine di giornalisti. Qualcosa è cambiato da allora? Direi che è cambiato tutto, per non cambiare niente, in perfetto stile italico gattopardesco. La comunicazione di quarantadue anni fa era affidata agli operatori professionali e a forme istituzionali quali giornali, radio e televisioni; oggi i nuovi mezzi consentono a chiunque di esprimere opinioni e valutazioni in un immenso, gratuito e incontrollato speakers’ corner modello Hyde Park. Il risultato, però, è il medesimo, le vicende giudiziarie vengono sempre narrate con l’indecente registro della presunzione di colpevolezza. Se allora si poteva pretendere maggiore equilibrio da parte di giornalisti professionisti, oggi temo che la battaglia sia persa in partenza nell’anarchia del processo social-mediatico. È difficile regolamentare fenomeni di per sé ingovernabili, come il sadico interesse dell’opinione pubblica per le sofferenze dettate dalla violenza congenita del processo penale. Carnelutti suggeriva un efficace parallelismo fra il processo penale e i combattimenti dei gladiatori nell’antica Roma: negli anfiteatri il pubblico era attirato dal piacere perverso provocato dalla brutale crudeltà delle lotte, a ben vedere quello stesso piacere che si ritrova oggi nella morbosa attenzione riservata dall’opinione pubblica alle altrui sofferenze giudiziarie. Non bisogna scomodare la psicologia sociale per comprendere come la perdita del senso di umanità sia alimentata dalle continue frustrazioni personali che trovano sfogo proprio nell’emersione di un feroce sadismo populista. Questo per dire che il fenomeno è davvero complesso e meriterebbe un approccio ben più profondo che tenga conto anche delle radici psico-sociali a loro volta legate a fattori politico-economici. In queste settimane è tornato alla ribalta il caso Garlasco. Secondo lei tutto questo che sta accadendo è da addebitare ad una procura o ad una polizia giudiziaria in cerca di notorietà? La mia impressione personale è che la riapertura del cold case sia dettata da questioni interne alla magistratura. Non riesco a trovare un’altra spiegazione all’indagine sulle modalità di conduzione dell’indagine. Non mi si dica che è lo scrupolo per la ricerca della verità, perché in tal caso bisognerebbe riaprire almeno la metà dei processi indiziari. Quanto alla notorietà, vorrei ricordare che dalla riforma Castelli del 2006 l’unico legittimato a parlare con la stampa sarebbe il procuratore della Repubblica, concetto ribadito, sia pure con quale slabbratura, nella malferma disciplina del d.lgs. n. 188 del 2001. Se si applicassero rigorosamente le regole, sarebbe difficile fare carriera, anche politica, grazie alla notorietà acquisita sul campo di indagine. In generale è d’accordo con l’opinione di chi ritiene che talvolta anche il protagonismo di certi avvocati possa alimentare il processo mediatico? A differenza di pm e polizia, l’avvocato è un privato, un libero professionista che deontologicamente deve curare solo l’interesse del suo assistito nel quale può rientrare anche la comunicazione con i mezzi di informazione, ovviamente nel rispetto dell’eventuale segretezza degli atti. Tuttavia, il chiaro dettato dell’articolo 18 del Codice deontologico non sempre viene rispettato e la comunicazione trasmoda nell’autopromozione, ancora una volta complici i nuovi canali social. Sarebbe auspicabile una maggiore e sempre più vigile attenzione da parte degli organi di disciplina, ma comprendo la difficoltà di controllare lo sconfinato mondo di internet. Resta il fatto che certi atteggiamenti, mostrati anche sui canali tradizionali di informazione, sono censurabili perché finiscono per screditare l’intera avvocatura. Nella narrazione pesa un eccesso di considerazione della vittima o delle parti civili? Certamente sì, però è fisiologico nella visione manichea del processo che distingue fra buoni, la vittima e il pm, e cattivi, l’imputato e il suo avvocato complice processuale. Il problema si risolve solo andando a monte della questione, trasferendo anche alla società la cultura del processo di parti governato dalla presunzione d’innocenza. Non è un caso che nel mondo anglosassone, profondamente innervato da questa cultura del processo adversary, siano fiorite una letteratura e una cinematografia che individuano nell’avvocato e nell’imputato ingiustamente accusato gli eroi positivi. Cultura del processo e cultura della società vanno di pari passo, la soluzione del problema passa proprio da qui. Secondo lei al nostro giornalismo manca la cultura della presunzione di innocenza o è solo una questione di vendite e di dare da mangiare ad un pubblico affamato di mostri? Vedo due problemi. Il primo è la dipendenza affettiva dei giornalisti dagli inquirenti che sono le loro fonti privilegiate. Questa dipendenza distorce inevitabilmente la cronaca giudiziaria sulle tesi d’accusa. Il secondo è la naturale tendenza ad assecondare i gusti del pubblico che propendono per le già citate sofferenze dell’imputato. Manca certamente la cultura della presunzione d’innocenza, ma, ancor prima, manca la cultura del processo di parti dove le tesi d’accusa pesano quanto quelle della difesa, manca la cultura del dubbio sulle tesi di parte e dell’affidamento rivolto esclusivamente alla decisione del giudice della cognizione. Secondo lei i giudici si fanno influenzare dal processo mediatico? La risposta affermativa viene dagli studi di psicologia. Mi ha colpito moltissimo leggere i risultati di indagini condotte negli Stati Uniti dove certamente il giudice è popolare e non professionale. Ma non va dimenticato che anche da noi la Corte d’assise è in composizione mista e che i giudici, soprattutto quelli più giovani, vivono immersi nei social e nella comunicazione online. Per non parlare del peso politico del processo mediatico, del condizionamento che l’aspettativa di giustizia vendicativa può avere sul giudice. Sarebbe utopistico e forse anche sbagliato pensare a un giudice avulso dalla società. Tuttavia, un conto è il blando condizionamento che inevitabilmente deriva dall’opinione pubblica, altro sarebbe un giudice populista che volesse soddisfare le pulsioni punitive che pervadono la società, ma tendenzialmente escluderei questa seconda ipotesi. Per migliorare la situazione cosa occorrerebbe fare? Ho già avuto modo di proporre alcune modifiche normative: la responsabilità delle società editrici ex d.lgs. 231 del 2001 per la pubblicazione arbitraria degli atti di indagine, l’aggiornamento delle fattispecie incriminatrici, il trasferimento di indagini e processi sulla violazione dei segreti in un diverso distretto sul modello dell’articolo 11 cpp, ma la risoluzione del problema passa da una rivoluzione culturale che sarà certamente aiutata dalla separazione delle carriere. Quando avremo finalmente introiettato la cultura del processo di parti, che si svolge in condizioni di parità fra accusa e difesa sotto l’egida della presunzione d’innocenza, verrà naturale considerare indagini e imputazioni per quello che sono, nient’altro che ipotesi in attesa di verifica giudiziale. L’accusa surreale di avere salutato il proprio assistito stringendogli la mano e baciandolo sulle guance camerepenali.it, 23 giugno 2025 La nota della Giunta dell’Unione Camere Penali sulla vicenda del difensore di Cospito. La vicenda del difensore di Cospito, segnalato dalla Direzione del carcere dove lo stesso è detenuto al 41 bis, al Consiglio dell’ordine di appartenenza, desta gravissimo allarme. L’ accusa surreale è quella di avere salutato il proprio assistito stringendogli la mano e baciandolo sulle guance. È davvero sconcertante l’idea stessa che si possa pretendere di valutare disciplinarmente la congruità di un gesto riconducibile evidentemente alla sfera insindacabile dei rapporti professionali e personali con l’assistito. Ma è ancor più grave l’idea, sottesa ad un simile inaccettabile sindacato, di totale disumanizzazione della persona del condannato, identificato esclusivamente con il suo reato e per questo privato di ogni sua residua umanità e dignità, anche nei rapporti con il proprio difensore. Non è purtroppo la prima volta che episodi di questo genere vengono denunciati, il che induce a ritenere che non si tratti solo di iniziative personali, ma degli effetti di una pericolosa cultura dell’intimidazione, diretta sia contro il condannato che contro il difensore, in netto e barbaro antagonismo, non solo con la visione costituzionale della pena, ma anche con la tutela dei diritti fondamentali della persona. È per questo necessario che le autorità competenti intervengano tempestivamente, e con segni concreti ed espliciti di condanna, per rimediare alla insopportabile deriva che da troppo tempo sta investendo l’intero universo carcerario, come da noi da tempo denunciato. O dobbiamo forse attenderci che venga vietato stringere la mano a un detenuto e che venga imposto di non chiamarlo per nome, così come era nel Regolamento Penitenziario del 1930? La pena ridotta in appello per i reati satellite abbassa l’aumento per la continuazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2025 Il giudizio di equivalenza tra attenuanti e recidiva o altra aggravante si deve riverberare sull’intero trattamento sanzionatorio riducendo l’iniziale aumento stabilito in primo grado per il reato più grave. La riforma in appello che stabilisca l’elisione della recidiva o di altra aggravante a effetto speciale in seguito al riconoscimento di circostanze attenuanti del reato satellite deve operare rispetto alla condanna elevata in primo grado la corrispondente riduzione dell’aumento di pena applicato sul reato più grave a titolo di continuazione. Così la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 23122/2025 - ha accolto il ricorso dell’imputato che lamentava l’illegittimità della decisione di appello per la mancata riduzione dell’aumento derivante dalla continuazione nonostante fosse stata ridotta la pena per uno dei reati satellite rispetto al quale aveva operato un giudizio di equivalenza tra attenuanti, recidiva e aggravante dell’uso della violenza. Il trattamento sanzionatorio a seguito della riconosciuta equivalenza non poteva mantenere, infatti, intatta la parte di pena comminata per il reato più grave a titolo di aumento per la continuazione tra reati. A chiarimento della decisione di legittimità la Suprema Corte ha dettato anche uno specifico principio di diritto che così recita:”Il giudizio di equivalenza delle riconosciute attenuanti generiche con la recidiva con altra aggravante ad effetto speciale operato nell’ambito del giudizio di appello, in presenza di reato continuato, determina non solo il venir meno dell’aumento di pena per le aggravanti ritenute in primo grado ma rende necessario disporre la diminuzione dell’aumento di pena per uno o più reati satellite per effetto della continuazione rispetto al medesimo aumento precedentemente stabilito, attesa la riconosciuta minore gravità del reato su cui è stato operato il calcolo della pena base ed operato il giudizio di bilanciamento tra circostanze. Il mantenimento della medesima misura in aumento ex art. 81 C.P. rispetto a quella inflitta in primo grado, pur in presenza della mitigazione del trattamento sanzionatorio complessivo determina violazione del principio di cui all’art. 597, co 4, del C.P.P.”. Piemonte. 890 detenuti coinvolti in percorsi di lavoro nel 2024 ansa.it, 23 giugno 2025 L’assessora Chiorino: “La pena che educa è una pena che serve alla società”. La Regione Piemonte è tra le realtà più attive nella promozione dell’inclusione socio-lavorativa dei detenuti. Ogni anno vengono investiti circa 2,9 milioni di euro per offrire opportunità formative ai detenuti, sia adulti che minori, come nel caso dell’Istituto penale per minorenni Ferrante Aporti di Torino. È emerso in una conferenza stampa oggi in Regione Piemonte a Torino, presenti il sottosegretario al ministero della Giustizia Andrea Delmastro, la vicepresidente e assessora al Lavoro della Regione, Elena Chiorino, e il direttore del Dap, Ernesto Napolillo, analizzando le opportunità offerte dalla Legge Smuraglia. Nel 2024 sono stati 890 i detenuti coinvolti, con 879 esiti positivi e 87 corsi attivati. I finanziamenti hanno raggiunto oltre 2,5 milioni di euro per gli adulti e 320.000 euro per i minori. “Oggi presentiamo una visione concreta e coerente - ha dichiarato Chiorino. La pena che educa è una pena che serve alla società. La Regione Piemonte, in sinergia con il Governo e con il ministero della Giustizia - continuerà a investire nella dignità, nella formazione, nel lavoro. Perché un carcere che lavora è un carcere che educa. E una società che educa è una società che cresce e garantisce sicurezza ai cittadini e agli uomini e donne in divisa che ogni giorno prestano servizio negli istituti”. All’offerta citata si affianca lo Sportello lavoro carcere, uno strumento operativo destinato a chi ha un fine pena entro cinque anni. Finanziato con risorse del Pr Fse+ 2021-2027 per 3 milioni di euro, lo sportello ha già supportato 1.863 persone, attivato 303 tirocini e favorito oltre 500 inserimenti lavorativi, tra tirocini e contratti. Un ulteriore strumento d’inserimento è rappresentato dai Cantieri di lavoro, che consentono ai detenuti di svolgere attività di pubblica utilità: per il biennio 2025-2026 sono venti i progetti presentati, per un totale di 56 richieste di inserimento. In questo quadro si inserisce anche la partecipazione della Regione Piemonte all’avviso “Una giustizia più inclusiva” del ministero della Giustizia, con un progetto pilota realizzato in collaborazione con il Prap. Il progetto prevede l’attivazione di un Centro per l’Impiego all’interno degli istituti penitenziari, la formazione in spazi rigenerati grazie a fondi Fesr, servizi strutturati di inserimento lavorativo e un rafforzamento del legame carcere-territorio anche mediante il coinvolgimento delle imprese. Gli istituti coinvolti inizialmente saranno quelli di Alessandria, Vercelli, Asti e Biella, poi le azioni potranno essere estese fino alla concorrenza del budget regionale complessivo di oltre 3 milioni di euro. Parma. Muore a 34 anni dopo una caduta in carcere: disposto l’esame istologico parmatoday.it, 23 giugno 2025 È stato disposto l’esame istologico sul corpo di Adam Compaore, il detenuto 34enne originario del Burkina Faso, il 12 giugno all’Ospedale Maggiore di Parma. È arrivato dal carcere di via Burla alcuni giorni prima, per essere ricoverato nel reparto di Rianimazione. L’esame, i cui risultati arriveranno tra circa 40 giorni, servirà per ricostruire la cronologia dei traumi cranici che lo hanno colpito nei giorni precedenti il decesso. L’autopsia è stata effettuata nella mattinata di lunedì 16 giugno. È l’ennesima morte nel penitenziario di Parma. Nel corso del 2024 ci sono stati quattro suicidi. Ma in questo caso questa ipotesi è stata esclusa da subito. Adam sarebbe morto per le conseguenze di una caduta, dovuta ad un malore. La prima ipotesi, che andrà verificata dall’autopsia, è che abbia avuto un’emorragia celebrale. Nel referto medico si parla di un sospetto trauma cranico. Per capire con certezza le cause del decesso è stato disposto l’esame autoptico. Sarà presente anche un medico legale, pagato da alcuni amici di Adam di Lugagnano Val d’Arda, in provincia di Piacenza, paese al quale era molto legato Nel suo difficile percorso di vita è stato aiutato da alcuni giovani con le loro famiglie che si sono presi cura di lui. Ne è nato un legame indissolubile. Adam è diventato uno di famiglia. Ora gli amici chiedono chiarezza su quello che è successo. “Conosciamo Adam da più di dieci anni e vogliamo capire perché è morto. Chiediamo di accertare le cause della sua morte. Ha avuto diversi difficoltà nel corso della sua vita ma la ricostruzione della dinamica ci sembra molto strana”. Anche l’avvocata Michela Cucchetti di Piacenza vuole chiarezza su quello che è accaduto nel carcere di Parma. Dopo tanto tempo Adam aveva trovato un lavoro fisso. Poi è finito di nuovo in carcere. E da lì la sua speranza di affermazione è finita per sempre. Genova. Detenuto seviziato nel carcere. “Lo Stato paghi riabilitazione fisica e psicologica” di Pietro Barabino Il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2025 Il 18enne è stato violentato e picchiato e le torture sono durate due giorni. “Non ha nessuno. Ma noi non possiamo lasciarlo solo”. Dopo giorni di silenzio, una parte della città ha deciso di parlare. Lo fa con un appello - “Nostro figlio ha bisogno di noi” - promosso dal Garante regionale per le persone private della libertà e già firmato da 200 persone: avvocati, insegnanti, medici, cittadini, volontari, operatori sociali e politici bipartisan. Chiedono che le istituzioni si facciano carico delle spese per la riabilitazione fisica e psicologica del diciottenne seviziato nel carcere di Marassi: un percorso lungo e costoso, a partire dalla rimozione dei tatuaggi incisi sul volto. Insieme a questo, cure, protezione e un futuro. Oggi il ragazzo è ai domiciliari in una struttura protetta. Secondo fonti sanitarie e legali, è stato violentato, picchiato, legato, ustionato con olio bollente e marchiato con scritte oscene dai compagni di cella. Le sevizie sono durate almeno due giorni. È stato trovato in stato di trauma, il volto tatuato, il corpo pieno di segni. “In 20 anni non avevo mai visto nulla di simile”, ha detto il cappellano del carcere. La notizia delle violenze si è diffusa tra i detenuti la sera del 3 giugno. Il giorno dopo, un centinaio di reclusi della seconda sezione ha dato vita a una protesta collettiva. Celle aperte, urla, detenuti sui tetti e sui camminamenti: una sollevazione per rompere il silenzio. Due agenti sono finiti in ospedale, altri due medicati sul posto. “È stata una reazione a qualcosa che perfino in carcere è stato percepito come troppo”, dice il garante Doriano Saracino: “Chi vive dentro quelle mura è abituato alla violenza. Ma qui si è superato un limite. Senza quella sollevazione, fuori nessuno avrebbe saputo nulla. Solo allora la verità è uscita”. Dopo la protesta, 13 detenuti sono stati trasferiti, 22 messi in isolamento. I quattro aggressori spostati in carceri fuori regione. Il ragazzo è stato ricoverato al San Martino. La sua avvocata è stata informata solo dopo l’agitazione che ha bucato il silenzio. “Nei giorni scorsi sono entrata in carcere come osservatrice di Antigone e ho trovato una situazione brutta, anche rispetto al brutto a cui siamo abituati” - racconta Alessandra Ballerini - “Celle da sei, bagni rotti accanto ai cucinini, un anziano di 86 anni, dializzati, disabili, molti con disturbi psichiatrici o dipendenze. Gente che avrebbe bisogno di cure, non di carcere, come ne avrebbe avuto quel ragazzo di 18 anni, al primo reato, accusato di aver cercato di rubare un giubbotto, viveva per strada. Una storia di sofferenza e abbandono”. “Non è ammissibile in uno Stato di diritto. Il carcere non può trasformarsi in un girone infernale”, aggiunge Arcangelo Merella, assessore genovese dal 1997 al 2007, volontario di Sant’Egidio: “Ora lo Stato deve farsi carico di lui. Questo ragazzo ha diritto a dimenticare, un giorno, quello che ha subito”. Marassi ospita fino a 700 persone, a fronte di una capienza di 535. Turni da 26 ore, un solo agente per 60 detenuti, carenze strutturali e sanitarie croniche. Una gestione logorata che alimenta violenza, autolesionismo e suicidi. L’appello chiede un intervento urgente: cure, supporto psicologico, un progetto educativo e sociale. E propone un gesto collettivo di riparazione: ricostruire le aule scolastiche distrutte durante la protesta, spazi essenziali per mantenere un legame con l’esterno. Il ragazzo, sedato per oltre 48 ore, ha cominciato a raccontare. In un primo momento aveva detto di essersi ferito da solo. Solo dopo ha descritto le violenze. La Procura contesta i reati di violenza sessuale aggravata e tortura agli aggressori e valuta eventuali omissioni da parte del personale penitenziario nei giorni delle violenze. “Noi sottoscrittori ci impegniamo a fare per primi quello che chiediamo alle istituzioni - scrivono nell’appello invitando a inviare la propria adesione a garante.detenuti@regione.liguria.it - Perché questo ragazzo ha bisogno di tutti noi. Ora”. Trento. Violenza sulle donne, le studentesse del liceo Rosmini incontrano le detenute di Laura Galassi rainews.it, 23 giugno 2025 Il progetto con le compagne della classe “parallela” a Spini di Gardolo: “Così abbiamo superato i pregiudizi”. Martina, Sabine, Camilla, Nadia, Anna, Elisa: sono studentesse del Liceo Rosmini di Trento con la maturità alle porte. Grazie a un progetto di cittadinanza, sono entrate nel carcere a Spini di Gardolo per conoscere le loro compagne di classe “dentro”. Il liceo infatti ha due sedi: quella in centro città e quella dietro le sbarre. Tanti i controlli di sicurezza da superare per far incontrare i due mondi. In mano le studentesse come lasciapassare hanno un libro sulla violenza di genere, “Conto i passi” scritto da Michela Buonagura. Storie di sofferenza al femminile, parole che sono state il punto di partenza per superare i pregiudizi. Un terreno comune per cominciare a parlare. In cerchio le differenze si sono appianate, il confronto è stato autentico. Come raccontano Sabine e Camilla: “Inizialmente non sapevamo come sarebbe andata, non sapevamo cosa avrebbero pensato loro ma allo stesso tempo cosa avremmo potuto provare noi. Poi ci siamo accorte di essere tutte donne, tutte uguali e quindi abbiamo rotto il ghiaccio”. Eppure prima di entrare in carcere le studentesse avevano dei pregiudizi: “C’era un po’ di curiosità da parte di tutti per via di questo mondo che viene tanto raccontato ma che nessuno di per se aveva potuto osservare dall’interno” Non dobbiamo immaginarci i film che raccontano di come è la vita in carcere, perché la situazione è tutta diversa. Nella sezione femminile del carcere a Trento ci sono 42 detenute, l’età media è di 30 anni. Anche per loro, incontrare delle coetanee libere, è stata un’esperienza importante, come spiega la funzionaria giuridica pedagogica Lucrezia Aielli che le ha accompagnate: “Si sono creati dei legami e anche dei punti di incontro perché l’età è la stessa, poi le esperienze vissute appartengono a tutti, sono analoghe”. Il carcere come parte integrante della società, la detenzione come fase transitoria della vita. Per la direttrice della casa circondariale di Trento, Annarita Nuzzaci, questi sono concetti fondamentali: “Teniamo molto al contatto con le scuole anche a creare un ponte con la società esterna”. A tenere le fila del progetto, la docente Lavinia Buonagura. Le sue lezioni di inglese sono sia fuori, sia dietro le sbarre: “Io credo nell’istruzione in carcere, credo che educare un detenuto gli dia la possibilità di trovare una strada fuori”. La scelta del tema, quella violenza di genere che in carcere viene ricordata anche con una panchina dipinta di rosso, ha toccato da vicino tutte, ma soprattutto chi sta scontando una pena. “Le detenute forse hanno vissuto di persona questo tipo di situazione - spiega la professoressa Buonagura - ma si sono lasciate andare e sono riuscite a parlare, a comunicare il loro dolore e alla fine del percorso si sono sentite più leggere”. Carpi (Mo). Durante e dopo il carcere si può restare umani di Stefano Facchini* notiziecarpi.it, 23 giugno 2025 Secondo appuntamento del ciclo “Carcere, conoscere per cambiare” organizzato da Centro Missionario e associazione Venite alla Festa. Il secondo appuntamento del ciclo di incontri sul tema “Carcere: conoscere per cambiare” si è svolto giovedì 19 giugno presso la sede della Comunità Venite alla Festa, promotrice dell’iniziativa insieme al Centro Missionario di Carpi, all’interno della “settimana comunitaria” vissuta dalle famiglie dell’associazione. Paolo Tomassone, giornalista, ha moderato l’incontro e ha riconosciuto che le notizie sul carcere che appaiono sui giornali o sui social sono sempre molto distaccate, schermate, mai fornite in prima persona da parte di chi ci vive o ci ha vissuto. Da qui l’invito a stare sui fatti, su esperienze reali come ad esempio il progetto del “Laboratorio gastronomico Sant’Anna”, della cooperativa sociale Eortè, che ha l’obiettivo di far lavorare, dentro il carcere, alcuni detenuti, impegnati nella produzione di prodotti gastronomici di qualità. È noto che chi lavora, durante la detenzione, ha il 2% di probabilità di recidiva; chi non lavora, il 70%. Come torneranno in libertà queste persone, con quali esperienze e bagagli, se non sono impegnati in percorsi attivi, positivi, propositivi quindi realmente rieducativi? A questa domanda ha risposto l’esperienza di Beatrice Campari, ex detenuta ed autrice del libro “Io sono una donna fortunata”, nato per dar voce a chi non ce l’ha, ai carcerati ma anche alla Polizia penitenziaria ed al personale che in carcere ci lavora. Per Beatrice l’ambiente carcerario è sconosciuto a tutti coloro che non lo vivono dal di dentro, dove le persone sono solo un numero, con pochi o nulli contatti con l’esterno: i più fortunati una telefonata di dieci minuti una volta alla settimana, una visita di un’ora alla settimana, per chi ha qualcuno che li va a trovare. Entrata in carcere ha sentito il vuoto, ma ha ben presto capito che doveva reagire ed allora: turni di pulizie, sartoria, biblioteca, Università. È stato fondamentale essere impegnata, tutto il giorno, in attività varie, per superare una gestione del tempo che spersonalizza, confonde, che non passa mai. Beatrice ha messo un forte accento sull’importanza di avere fuori una famiglia perché altre giovani donne uscite dal carcere sono rientrate poco dopo, a causa della mancanza di una rete familiare ed amicale di sostegno. Altrettanto utile la presenza di un’organizzazione di volontariato capace di accogliere i detenuti al termine della detenzione, come è stato per lei a conclusione del suo percorso dove ha incontrato persone che le hanno dato forza. Lo stigma sociale nei confronti dei carcerati è fortissimo e non è certo da tutti la capacità di superarlo, di andare oltre. Anche per questo un contesto esterno accogliente è di grande aiuto; persone, famiglie, gruppi, associazioni, cooperative, comunità, parrocchie possono fare la differenza. Nella veste di “Garante dei diritti delle persone private della libertà personale” è intervenuta Giovanna Laura De Fazio, professoressa di Criminologia all’Università di Modena e Reggio Emilia. Grazie alla possibilità di accedere al carcere, anche se con le mille difficoltà e vincoli, ha rapporti coi carcerati, coi familiari e col personale penitenziario, per raccogliere disagi di ogni tipo, segnalazioni di violenze subite. Ha ribadito l’importanza di continuare ad investire in progetti, piccoli e grandi, dentro e fuori dal carcere, col Tribunale di Sorveglianza, con l’Università. È necessario far conoscere maggiormente il carcere, una realtà ben poco conosciuta. De Fazio ha concluso il suo intervento con una criticità vissuta anche da Beatrice: i tempi della giustizia, con le sentenze che colpiscono anche a distanza di tanti anni dai reati contestati. Tanti, troppi anni, con una vita cambiata che viene stravolta da una pena che arriva anche dopo 10 anni. A chiudere gli interventi della serata è stato Massimiliano Ferrarini, responsabile area carcere e giustizia di Caritas diocesana modenese. Per volontà del vescovo Erio fin da subito si è strutturata una presenza della Chiesa dentro e fuori dal carcere per stare vicino ai detenuti. Coordinamento, promozione, ascolto, conoscenza, accompagnamento: queste le azioni tentate, tra le mille difficoltà già ricordate. Un tentativo di contrastare solitudine e spersonalizzazione dei detenuti dentro il carcere e spaesamento, una volta usciti. Ha ricordato il drammatico dato dei suicidi, 18 volte più frequenti all’interno dell’ambiente carcerario, con ingresso e uscita dal carcere come periodi più critici. Anche a causa dell’estrema difficoltà ad operare in questo contesto, è sempre più necessario ampliare e rinforzare la rete che vi opera, fatta di associazioni, cooperative, realtà ecclesiali che cercano di entrare e rimanere dentro questo mondo sconosciuto ai più. La conferma della sensibilità di mons. Castellucci si è avuta la sera precedente, 18 giugno, quando nel corso del suo intervento sul tema dell’accoglienza e delle reti familiari, ha ricordato l’esperienza diretta accaduta dopo i fatti drammatici avvenuti all’interno del carcere S. Anna all’inizio della pandemia. In quell’occasione era stato chiesto anche alla Chiesa modenese di dare una mano, accogliendo alcuni detenuti nel periodo del “fine pena”: 8 parrocchie hanno risposto positivamente e dal momento che erano 9 le persone da collocare, il vescovo ha accolto un carcerato, per un anno e mezzo, negli spazi del vescovado. Da parte dei presenti è emersa una coraggiosa disponibilità a mettersi in gioco, ad esempio per accogliere persone in uscita dal carcere. Servono fatti concreti possibili e necessari, che impegnano come singoli ma inseriti in una Comunità più ampia, dove la collaborazione di tutti è indispensabile per cambiare le storie personali e cercare di invertire numeri e percentuali ad oggi ancora drammatici. La serata si è conclusa con l’assaggio dei tortelli prodotti dai detenuti lavoratori del Sant’Anna nell’ambito del progetto a cura della cooperativa Eortè. Uno squisito modo per concludere un breve percorso conoscitivo e proseguire con azioni concrete, reali e possibili. *Comunità Venite alla Festa Pavia. Applausi per i detenuti attori sul palco di Torre del Gallo di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 23 giugno 2025 “Ogni volta che in questo luogo si porta e si fa cultura abbiamo tutti compiuto un passo in avanti”. Parole della direttrice della casa circondariale di Torre del Gallo, Stefania Mussio, al termine dello spettacolo “Alice nel Paese delle meraviglie”, che si è tenuto l’altra sera nel teatro del carcere stesso. In scena quindici detenuti-attori, guidati dalla regia di Stefania Grossi (coadiuvata da Giorgia Macri), che con il suo Teatro delle Chimere da dieci anni entra a Torre del Gallo con il progetto teatrale portato avanti dalla compagnia stabile di teatro carcere USB (Uomini senza barriere). Poltroncine tutte occupate dai detenuti che hanno gremito la sala, insieme alla direttrice Stefania Mussio, agli insegnanti e ai tanti volontari e che hanno assistito con grande interesse e in un clima di silenziosa partecipazione alla messa in scena della rappresentazione. “Il lato oscuro della felicità” era il sottotitolo scelto e così i detenuti in scena hanno fatto sorridere, ma anche riflettere con una moderna Alice che, con la sua macchina fotografica, vorrebbe solo “raccontare” per immagini la vita nel Paese delle Meraviglie. Ma scopre ben presto che di meraviglie in realtà ce ne sono ben poche, perché le persone in quel Paese sono soggiogate dal perfido Re di Cuori. Ed anche quando alla fine il “cappellaio matto” riuscirà a dare la possibilità a tutti di riavvolgere lo scorrere del tempo ci sarà chi tornerà sulla retta via e altri invece che continueranno a percorrere quella sbagliata. Grandi applausi per tutti e quindici gli attori, bravissimi a calarsi nelle rispettive parti, e i complimenti a loro dalla direttrice stessa. “Uno spettacolo speciale lo ha definito Stefania Mussio e sono stata felice di vedere così tanti detenuti presenti ad assistere. Grazie ai volontari, grazie alla mia polizia penitenziaria sempre disponibile anche in una situazione pavese pesante, grazie a Stefania Grossi, una grande professionista che ha fatto un lavoro importante con gli attori, bravi a mettersi in gioco sul palco”. Vibo Valentia. “Musica Oltre”, concluso ciclo di concerti per detenuti lametino.it, 23 giugno 2025 Si è conclusa la terza edizione di “ascolto musicale” destinato ai detenuti all’interno della Casa Circondariale di Vibo Valentia. L’evento, denominato “Musica Oltre” e che ha previsto cinque concerti di musica dal vivo per i detenuti, è stato organizzato da tutti i club calabresi del Soroptimist (Catanzaro, Cosenza, Crotone, Lamezia Terme, Palmi, Reggio Calabria e Soverato) inserito nel progetto nazionale “S.I. sostiene in carcere”, nell’ambito delle iniziative volte alla tutela dei diritti umani e contrasto alla violenza. In particolare, il progetto rientra tra le iniziative che mirano a sensibilizzare sull’importanza del rapporto tra il cittadino e il mondo carcerario, per lo più assente poiché “non vissuto”, quindi non controllabile, anzi così lontano da non essere “pensato” e quasi sempre invisibile ai più, se non per gli addetti ai lavori. Da qui la decisione come Interclub Soroptimist Calabria di promuovere questa iniziativa, consapevoli che la detenzione non debba trasformarsi nell’oblio della persona, costretta a cambiare vita, ma finalizzarsi al rientro nel circuito sociale una volta estinto il debito con la comunità. Questa consapevolezza ci ha spinto ad offrire momenti di normalizzazione che mantengano il legame con la vita oltre le mura: abbiamo abbattuto le barriere, infranto i confini e unito le culture ed esperienze di vita a suon di musica, avviando nel 2023 l’esperimento di “ascolto musicale”, come Interclub Soroptimist Calabria, in collaborazione con il Conservatorio Statale di Musica “F. Torrefranca” di Vibo Valentia e l’Associazione Promocultura “E.T.S.” Calabria. E i riscontri positivi tra i protagonisti, ne hanno incoraggiato la prosecuzione, e già si progetta la quarta edizione. L’ultimo concerto, che ha visto protagonisti i Pianisti Maestri Vincenzo e Francesco De Stefano che hanno eseguito magistralmente musiche di Rachmaninov, Franz Liszt, Tchaikovsky, Medtner, Chopen e Sergio Coniglio, è stato di grande significato poiché ha anticipato la Giornata internazionale della Musica che i Club Soroptimist della Calabria hanno voluto celebrare in questa sede, per rendere più significativo il messaggio inclusivo. Presenti per l’occasione le presidentesse dei club di Cosenza Francesca Stumpo, del club di Lamezia Terme Luigina Pileggi e del club di Palmi Maria Concetta Crocitti; il maestro Tommaso Rotelladel Conservatorio. “Un doveroso ringraziamento - conclude la nota - per la disponibilità va alla Direttrice del Carcere Dr.ssa Angela Marcello ed alla socia del club di Palmi Simona Carone, dell’area educativa carceraria. Gli altri concerti sono stati tenuti tra maggio e giugno dal Trio di Fisarmoniche diretto dal Maestro Giancarlo Palena (il 23 maggio), dal Maestro Enrico Damiano (chitarra) che ha tenuto due concerti il 30 maggio e l’11 giugno e dai Maestri Vincenzo e Francesco De Stefano (pianoforte) che si sono esibiti il 6 e il 20 giugno”. Cosenza. “La Partita con mamma e papà”: il calcio unisce genitori detenuti e figli quicosenza.it, 23 giugno 2025 L’iniziativa promossa da Bambinisenzasbarre Ets per creare un momento di affetto e normalità per migliaia di bambini. Un progetto che, da oltre dieci anni, dà voce ai diritti dell’infanzia. Torna anche quest’anno “La Partita con mamma e papà”, la toccante iniziativa ideata e promossa da Bambinisenzasbarre Ets, che porta dentro le carceri italiane un momento di normalità, vicinanza e condivisione tra bambini e i loro genitori detenuti. Giunta alla nona edizione, l’iniziativa si svolge nell’ambito della campagna europea di sensibilizzazione “Non un mio crimine ma una mia condanna”, e rappresenta uno degli strumenti più efficaci nel mantenimento del legame affettivo tra genitore e figlio, diritto sancito dalla Convenzione Onu del 1989. Realizzata grazie al contributo del Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, e in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la partita si è trasformata negli anni da piccolo evento simbolico a progetto strutturato di rilievo nazionale ed europeo. Dalla sua nascita nel 2015, il progetto ha visto una crescita costante: da 12 istituti penitenziari nella prima edizione a 113 partite giocate nel 2024, coinvolgendo quasi la totalità delle carceri italiane. In dieci anni, sono state disputate 485 partite, a cui hanno partecipato 19.545 tra bambini e familiari, un impatto che riflette il valore educativo e affettivo dell’iniziativa. Nel 2024, la distribuzione dei piccoli partecipanti ha visto una quasi parità tra i bambini dai 5 ai 10 anni (44%) e quelli tra gli 11 e i 17 anni (43%), con un 13% composto da bambini molto piccoli, tra 1 e 4 anni. Un dato che conferma la trasversalità dell’iniziativa per tutte le fasce d’età, offrendo un’occasione unica per vivere un’esperienza che per altri coetanei è quotidiana, ma per questi bambini rappresenta un momento raro e prezioso. Fondamentale il coinvolgimento del personale penitenziario - Centinaia di unità di Polizia Penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici e operatori carcerari partecipano e sostengono ogni anno l’organizzazione, contribuendo a creare un clima accogliente e rispettoso, lontano dal contesto usuale della detenzione. Nel 2024 il progetto ha anche oltrepassato i confini nazionali grazie alla versione europea della “Partita con mamma e papà”, promossa da Bambinisenzasbarre per conto di Cope e con il supporto della Uefa Foundation for Children. Sotto il nome “Game with Mum and Dad”, sono stati realizzati 17 eventi in carceri di Polonia, Repubblica Ceca, Germania, Norvegia, Romania, Scozia e Paesi Bassi. Come in Italia, anche all’estero genitori e figli hanno indossato magliette simboliche (blu per i genitori, gialla per i bambini) con il messaggio: “I diritti umani iniziano con i diritti dei bambini”. Bambinisenzasbarre Ets - Da oltre 22 anni, è impegnata nel garantire e difendere il diritto alla relazione tra genitori detenuti e figli, attraverso azioni concrete e progettualità condivise a livello nazionale ed europeo. Il progetto è ispirato e guidato dalla Carta dei diritti dei figli di genitori detenuti, documento siglato per la prima volta nel 2014 e rinnovato ogni anno da Ministero della Giustizia, Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e Bambinisenzasbarre. Attraverso il gioco, la famiglia, e l’umanità che sopravvive dietro le sbarre, La Partita con mamma e papà continua a rappresentare un faro per un’infanzia spesso invisibile, che chiede solo di non essere dimenticata. Ecco le partite che si terranno in Calabria: il prossimo 25 giugno a Locri (Rc) e venerdì 27 giugno a Cosenza, nella casa circondariale “Sergio Cosmai”. Spoleto (Pg). Nel carcere la grande lirica: il Teatro Sperimentale celebra la Giornata della Musica quotidianodellumbria.it, 23 giugno 2025 Concerto emozionante con i giovani cantanti del Corso di avviamento al debutto: un ponte tra arte e umanità. Un palco improvvisato tra le mura del carcere, le voci della grande tradizione lirica, un pubblico speciale e attento. Così il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto ha scelto di celebrare la Giornata della Musica, sabato 21 giugno, con un concerto nella Casa di Reclusione di Spoleto, dove l’arte del canto è diventata veicolo di emozione, condivisione e speranza. Protagonisti dell’evento sono stati i giovani interpreti del Corso di avviamento al debutto 2024 e 2025, che hanno eseguito brani di Gluck, Mozart, Rossini, Strauss e Verdi, sotto la guida del maestro Sara Mingardo, che ha curato una recente masterclass di interpretazione vocale da cui il programma ha preso forma. Un repertorio selezionato con cura e profondità, pensato per valorizzare le qualità delle voci emergenti e, al tempo stesso, per offrire agli spettatori un’esperienza musicale autentica, intensa e coinvolgente. Sul palco - o meglio, nello spazio allestito per l’occasione - si sono esibiti: i soprani Viktoriia Balan, Eleonora Benetti, Gaia Cardinale, Beatrice Caterino, Lorena Cesaretti, Giorgia Costantino, Sara Di Santo, Anastasia Maria Fyssa, Ariadna Vilardaga Gómez, le mezzosoprano Emma Alessi Innocenti e Francesca Lione, i baritoni Andrea Ariano, Marco Guarini e Stepan Polishchuk. Al pianoforte, il maestro Dahyun Kang ha sostenuto con eleganza ogni momento del concerto. Un’iniziativa che conferma il valore sociale del progetto artistico del Teatro Sperimentale e il suo impegno a portare la musica dove meno ci si aspetta. Perché la bellezza, anche dietro le sbarre, può fare la differenza. Campobasso. “Scrittodicuore”, nel carcere la cerimonia di premiazione dell’ottava edizione informamolise.com, 23 giugno 2025 Ultima tappa per l’ottava edizione di Scrittodicuore, il Concorso nazionale di scrittura rivolto ai detenuti degli Istituti carcerari di tutto il territorio nazionale, promosso e organizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani con la direzione artistica di Brunella Santoli, la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Campobasso e il patrocinio della Provincia di Campobasso nell’ambito di Ti racconto un libro-laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione. La cerimonia di premiazione si svolgerà martedì 24 giugno, alle ore 10.30 nella Sala-Teatro della Casa circondariale di Campobasso. L’evento si svolge in collaborazione con il laboratorio di Lettura dell’istituto carcerario. Da nove anni, il concorso dà voce ai detenuti italiani, offrendo loro la possibilità di esprimersi attraverso la scrittura di una lettera e di raccontare emozioni, riflessioni e vissuti in un contesto di isolamento. Le lettere finaliste sono state scelte da una Giuria tecnica composta da scrittori di spicco del panorama narrativo italiano. Presieduti da Brunella Santoli, Camilla Baresani, Anna Giurickovic Dato, Giovanni Mancinone e Lorenzo Marone hanno letto con attenzione e partecipazione i numerosi lavori inviati. La giuria Giovani Giuria composta da Savio Dudiez, Chiara Siviero, Angelica Calabrese, Vincenzo Pentore e Roberta Tanno hanno avuto invece il compito di segnalare una delle lettere finaliste motivandone la scelta. La lettera vincitrice dell’ottava edizione è stata scritta da Ruggiero S., ospite della Casa Circondariale di Palmi. Un testo toccante e profondo, in cui l’autore si rivolge a sé stesso cercando di ricucire legami tra il passato e il presente, tra il dentro e il fuori, in un contesto in cui la percezione dei sentimenti si trasforma radicalmente. La lettera, definita un “pianto barocco”, è una potente testimonianza di come la scrittura possa diventare un atto di riflessione e di speranza, una prova narrativa lirica che esplora l’animo umano in modo intimo e universale. La seconda classificata è la lettera di Sebastiano M., detenuto nella Casa di Reclusione di Sulmona, che affronta il delicato tema della violenza di genere, offrendo un messaggio di riflessione e speranza. Segnalate dalla Giuria Tecnica le lettere di Gabriele F. e Luca B. quest’ultimo ospite della Casa circondariale di Campobasso e parteciperà alla cerimonia per ritirare personalmente il riconoscimento. Le lettere vincitrici verranno lette al pubblico presente dai detenuti partecipanti al Laboratorio di lettura dell’Istituto carcerario. Nel corso della manifestazione verrà presentata ufficialmente la IX edizione del concorso che terminerà entro l’anno in corso. Scrittodicuore, che dal 2023 è dedicato allo scrittore Pino Roveredo, tra i più importanti esponenti della letteratura italiana contemporanea, nonché membro storico della Giuria tecnica del premio, prematuramente scomparso, si conferma un progetto di grande valore sociale e culturale, che attraverso la scrittura offre ai detenuti la possibilità di esplorare se stessi, di riflettere sulla propria condizione e di trovare una via di riscatto. Le lettere premiate e segnalate rappresentano testimonianze di coraggio e di riflessione, che continuano a emozionare e a stimolare il pubblico a riflettere su temi universali come la solitudine, il dolore, l’affettività, il perdono e la possibilità di poter ripensare la propria esistenza. Alla cerimonia, insieme al Direttore Rosa La Ginestra, saranno presenti Brunella Santoli Direttore Artistico dell’Unione Lettori Italiani e responsabile del Concorso Scrittodicuore, oltre ad una rappresentanza del Comune di Campobasso, della Giuria Giovani e della Giuria tecnica. Entrambe le giurie, seppure in fasi differenti, hanno valutato i lavori per decretare i vincitori di questa ottava edizione. Prenderanno parte alla cerimonia anche rappresentanti di altre istituzioni. Chieti. Lo sport strumento di rieducazione anche in carcere vaticannews.va, 23 giugno 2025 Puntata speciale per il Giubileo dello sport. La testimonianza di Germano Capasso, ex detenuto e primo capitano della squadra di calcio a 5 della Libertas Stanazzo, fondata nel 2014 nella casa circondariale di Lanciano, Chieti, dalla Lega nazionale dilettanti. Nell’ambito del progetto “Liberi Art” i detenuti degli istituti di pena di Reggio Emilia hanno potuto incontrare il colonnello Carlo Calcagni che in seguito a esposizione all’uranio impoverito, ha riportato gravi patologie ma ha ripreso in mano la bicicletta e oggi è campione del mondo di Atletica paralimpica. Il suo racconto. “Zona luce” è il progetto della Fondazione Pontificia Scholas Occurrentes con Uefa e Figc per i giovani ospiti dell’istituto di pena minorile Nisida a Napoli che coinvolge anche centri sportivi del territorio. L’intervista con il coordinatore internazionale di Scholas Sport, Mario Del Verme. “Caffè sospeso” è il nuovo brano del cantautore napoletano Canio Loguercio che per promuoverlo ha realizzato uno spot girato anche nel bistrot delle Lazzarelle, la torrefazione rosa che non è ancora riuscita a riprendere le attività dopo la chiusura del carcere femminile di Pozzuoli in seguito alla scossa di terremoto dell’anno scorso ai Campi Flegrei. La sua testimonianza. I Cellanti podcast: https://www.vaticannews.va/it/podcast/rvi-programmi/il-cellante/2025/06/i-cellanti-15-06-2025.html Solo dove c’è pace può esserci giustizia di Vittorio Pelligra* Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2025 La giustizia non nasce con i codici. Non nasce con i tribunali, né con le costituzioni. La giustizia, come la immaginiamo o la ricerchiamo noi oggi, è solo il più recente esito che ha visto idee e pratiche attraversare una lunga, lunghissima, storia evolutiva. Una storia che comincia molto prima dell’invenzione della scrittura, dello Stato, dell’agricoltura. Una storia che comincia nel Pleistocene, quando i nostri remoti antenati vivevano in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori e avevano davanti a sé due enormi sfide: cooperare per affrontare insieme i pericoli di un ambiente ostile convivendo, contemporaneamente, in maniera pacifica. L’ostacolo principale al raggiungimento di questi due obiettivi sta nell’opportunismo, nella prevaricazione, nella violenza che alcuni sarebbero tentati di mettere in atto per cercare di ottenere il massimo beneficio al minimo costo. Per questo i nostri progenitori hanno dovuto imparare a punire chi non rispettava le regole. Christopher Boehm, antropologo e primatologo americano, ha dedicato la sua vita allo studio di decine di società di cacciatori-raccoglitori ancora presenti nelle zone più remote del paese nell’intento di ricostruire, attraverso di loro, le dinamiche sociali dei nostri lontani antenati. Il punto di partenza del suo lavoro è di per sé paradossale: gli esseri umani sono animali gerarchici, ma per decine di migliaia di anni hanno vissuto in società profondamente egualitarie. Perché? La risposta di Boehm è semplice ma controintuitiva: l’egualitarismo non è l’assenza di gerarchia, ma una forma “rovesciata” di gerarchia. In queste società, infatti, il potere c’è e viene esercitato, ma tale potere non è concentrato in un capo. In questi gruppi, infatti, il potere è de-centralizzato, distribuito, cioè, tra tutti i membri del gruppo. Questa distribuzione orizzontale del potere presenta due vantaggi principali: da una parte consente un monitoraggio efficace e reciproco del comportamento di ogni membro del gruppo da parte di tutti gli altri membri; in secondo luogo, nel caso in cui dovesse emergere qualche violazione delle norme sociali, si dovesse capire che qualcuno sta cercando di imporsi sugli altri - il cosiddetto “upstart” - questi verrebbero sistematicamente ridimensionati, attraverso un avvertimento, venendo messo in ridicolo, con l’ostracismo e l’allontanamento dal gruppo o, nei casi più gravi, perfino con la morte. “Le società di cacciatori-raccoglitori - scrive Boehm - sono politicamente egualitarie perché i loro membri si coalizzano per impedire che qualcuno domini sugli altri” (Hierarchy in the Forest: The Evolution of Egalitarian Behavior, Harvard University Press, 2001). La giustizia, in questo contesto, appare decisamente lontana da una mera astrazione filosofica, essa appare piuttosto come una tecnologia sociale. Essere giusti significa proteggere collettivamente il gruppo, la sua autonomia e la sua coesione. Essere giusti significa agire per fare in modo che l’avidità di pochi e la prevaricazione non abbiano il sopravvento. Richard Wrangham, antropologo di Harvard, ha portato questa intuizione alle sue estreme conseguenze. Nel suo Il paradosso della bontà. La strana relazione tra convivenza e violenza nell’evoluzione umana (Bollati Boringhieri, 2019), Wrangham sostiene che gli esseri umani si sono “auto-addomesticati”. Proprio come i cani discendono da lupi che sono stati selezionati in base alla loro docilità, anche Homo sapiens discenderebbe da antenati più aggressivi, selezionati - inconsapevolmente - per la loro mansuetudine. “L’uomo - scriveva Franz Boas già nel 1938 - non è una forma selvatica […] bensì dev’essere paragonato agli animali domesticati. È un essere autoaddomesticato” (L’uomo Primitivo. Laterza, 1995). “Il nostro comportamento docile - aggiunge Wrangham - ricorda quello delle specie addomesticate, e poiché nessun’altra specie può averci addomesticati, dobbiamo averlo fatto da soli”. Ma come? Attraverso l’eliminazione fisica. Questa poteva assumere varie forme: dalle esecuzioni deliberate nelle quali in assenza di carceri o polizia, l’unico modo per mantenere l’ordine e la cooperazione era quello di giustiziare gli individui minacciava la coesione del gruppo alla formazione di coalizioni per cui i membri del gruppo si alleavano per contrastare gli “aspiranti despoti”, i maschi alfa. Le punizioni potevano essere estremamente violente - impiccagione, annegamento, lapidazione, o consegna a gruppi ostili. La varietà dei metodi rifletteva l’importanza del deterrente sociale. Potevano anche presentarsi forme di controllo sociale preventivo per far sì che il comportamento aggressivo venisse scoraggiato già in tenera età tramite critiche sociali e pressioni culturali. Questi meccanismi avrebbero agito come una forma di selezione naturale. Ai maschi aggressivi che venivano eliminati veniva preclusa, infatti, la possibilità di trasmettere il loro patrimonio genetico alle generazioni successive, e con esso modelli comportamentali violenti e prevaricatori. Generazione dopo generazione, lentamente ma inesorabilmente questo processo ha determinato una progressiva riduzione dell’aggressività nella nostra specie. Questa sorta di “auto-addomesticamento” ha lasciato tracce profonde nella nostra anatomia e nel nostro comportamento. Gli esseri umani moderni, infatti, hanno un corpo più gracile, un viso meno sporgente, un cervello leggermente più piccolo, rispetto ai Neanderthal e agli Homo del Pleistocene Medio, una maggiore “neotenia” (la conservazione di tratti giovanili nell’età adulta), una ridotta aggressività “reattiva”, cioè impulsiva e incontrollabile, e una maggiore sensibilità alla reputazione e alla vergogna. Tutti questi tratti rientrano nella cosiddetta “sindrome da domesticazione”, osservata anche in molti altre specie di animali addomesticati. “Non è una serie di caratteristiche adattative - scrive Wrangham - ciascuna modellata dalla pressione evolutiva per rispondere a un ambiente umano. È invece una serie di tratti, in gran parte inutili, che segnala un evento evolutivo. La sindrome da domesticazione rivela che di recente la specie in questione ha subito una riduzione dell’aggressività reattiva”. Anche Darwin aveva notato qualcosa di simile. Nel L’origine dell’uomo scriveva infatti “L’uomo può sotto molti aspetti esser paragonato a quegli animali che sono stati da gran tempo addomesticati”. Ma all’intuizione non seguì mai una spiegazione convincente e quindi finì per considerarla un’ipotesi debole. Eppure, in un altro passo dello stesso libro, Darwin suggerisce che la selezione sociale - attraverso l’esclusione o l’esecuzione degli individui aggressivi - potesse aver avuto un ruolo, infatti, “Nel genere umano - scrive sempre Darwin - alcuni dei caratteri peggiori, che senza nessuna causa apparente talvolta compaiono nelle famiglie, possono rappresentare delle reversioni verso lo stato selvaggio, dal quale non ci separano poi molte generazioni”. Se Christopher Boehm ha mostrato che la giustizia è una tecnologia sociale nata per preservare strutture sociali egualitarie e quindi la coesione dei gruppi, Richard Wrangham ci ha fatto capire che essa esercita anche una pressione evolutiva. La giustizia, in questo senso, non è solo un insieme di norme: è un meccanismo di selezione. Un modo per premiare i cooperativi e punire i prepotenti. Un filtro morale che ha plasmato la nostra specie. E questo filtro ha funzionato perché gli esseri umani sono animali profondamente sociali. Come scrive ancora Wrangham “Ci siamo evoluti per essere una specie affabile e collaborativa, i cui impulsi egoistici sono più attenuati che in passato. Abbiamo la fortuna di essere più attrezzati per resistere alla tentazione della violenza rispetto a uno scimpanzé o a un Homo del Pleistocene Medio”. Ma l’auto-addomesticamento ha anche un lato oscuro. Se da un lato, infatti, ha contribuito alla riduzione della violenza impulsiva - l’”aggressività reattiva” di cui parla Wrangham - dall’altro ha lasciato intatta, o addirittura potenziato, l’”aggressività proattiva”, quella pianificata, fredda, strumentale. È l’aggressività delle guerre, dei genocidi, delle persecuzioni ideologiche. “Gli esseri umani - scrive a questo proposito - non sono né del tutto buoni né del tutto cattivi. Ci siamo evoluti in entrambe le direzioni contemporaneamente. Sia la tolleranza sia la violenza sono tendenze adattative che sono state fondamentali per farci arrivare dove siamo. L’idea che la natura umana sia al tempo stesso virtuosa e malvagia ci crea qualche problema, visto che probabilmente tutti preferiremmo la semplicità (…) Le contraddizioni morali dei nostri antenati non devono impedirci di compiere una valutazione realistica di ciò che siamo. Se ci riusciremo, avremo ancora speranze”. Il passaggio dalla giustizia paleolitica a quella moderna non è lineare. Ma alcune continuità sorprendono. La centralità della reputazione, ad esempio: oggi come allora, essere percepiti come giusti è spesso più importante che esserlo davvero. Il ruolo della vergogna, emozione sociale alla quale spesso diamo maggiore peso che alla punizione stessa. In ruolo di quest’ultima, poi, intesa non tanto come vendetta, ma come deterrente. La coscienza morale, ciò che ci rende capaci di provare vergogna, il senso di colpa, empatizzare con gli altri, sarebbe quindi il risultato di un lungo processo di selezione sociale. Non è un dono divino, né un’invenzione razionale: è un adattamento. Un modo per vivere insieme senza annientarci a vicenda. Anche oggi, come nelle savane del Pleistocene, la giustizia rappresenta un equilibrio instabile che ondeggia costantemente tra cooperazione e controllo, tra libertà individuale e ordine collettivo. E anche oggi, come allora, la sua efficacia dipende dalla capacità del gruppo - qualunque sia la sua scala - di riconoscere e sanzionare i comportamenti antisociali. Pensare la giustizia come un prodotto dell’evoluzione non la sminuisce, al contrario, la radica. Ci ricorda che non è un lusso delle civiltà avanzate, ma una necessità di tutte le comunità. Che non nasce da un codice scritto dai governanti, ma da un bisogno innato e antico: vivere insieme per godere dei benefici della cooperazione, senza al contempo, distruggerci a vicenda. E ci ricorda anche che la giustizia non è mai data una volta per tutte ma che è una conquista fragile. Richiede vigilanza, adattamento, creatività, continua tensione morale. Come ci ricorda Joshua Greene “La filosofia di un secolo è il buon senso del successivo” (Moral Tribes. Emotion, Reason, and the Gap Between Us and Them. Penguin, 2013) Forse è tempo di aggiornare il nostro buon senso. E di riconoscere che, per affrontare le sfide del presente, dobbiamo innanzitutto riscoprire le radici morali del nostro remoto passato. *Professor of Economics, Università di Cagliari Le nuove paure del mondo ferito di Anna Foa La Stampa, 23 giugno 2025 Questa nuova fase del conflitto tra Israele e l’Iran apre anche a nuove paure e a nuove incertezze. In Israele, sembra per il momento prevalere la soddisfazione per i duri colpi inflitti al nemico di sempre, l’Iran. Se in un primo momento non poche erano state le voci che si domandavano quale era il suo nesso con la condanna sempre più estesa nel mondo della politica di Israele a Gaza e nella West Bank, e se questo attacco appariva inizialmente come un diversivo, un tentativo di far dimenticare i morti infiniti di Gaza, la sua popolazione ridotta volutamente alla fame, l’isolamento crescente del Paese, Israele si è però velocemente ricompattato su una valutazione sostanzialmente positiva dell’attacco all’Iran e ai suoi siti atomici. Non da parte di tutti, chiaramente, ma certo da parte di una grossa fetta della sinistra, che distingue ora fra la politica di Netanyahu verso l’Iran e quella verso i palestinesi, dimentica del carattere sempre più genocidario che, nel silenzio del Paese, quest’ultima assume, con i quotidiani spari dell’esercito contro le file di quei civili che aspettano di ricevere pane. Il processo è stato veloce, potremmo forse attribuirlo al fatto che chi vince attira seguaci - e nonostante le rappresaglie dei missili iraniani Israele appare vincitore - o anche, in un’interpretazione più benevola, al fatto che Netanyahu ha lanciato un appello al cambio di regime, un regime, quello iraniano, sanguinario e dispotico e, come ben sappiamo, certo difficile da sostenere. Per ora, Israele regge, i suoi abitanti passano nei rifugi molte ore al giorno e soprattutto alla notte, il Paese è chiuso, tutto è fermo. Ma quanto potrà reggere in questa situazione? Un’analoga difficoltà ritroviamo nelle reazioni degli iraniani e in particolare dell’opposizione al regime degli Ayatollah, sia in Iran sia nella diaspora. Da una parte, gli attacchi che colpiscono zone residenziali e civili non possono non incutere il timore che ci si possa avviare a una situazione almeno potenzialmente simile a quella di Gaza, con molti morti tra i civili. Inoltre, le notizie che giungono dalle città iraniane ci parlano di un irrigidimento del controllo, di strade deserte pattugliate solo dalla polizia, di oppositori considerati complici di Israele e di Trump. In tutto questo le trionfanti definizioni di Trump e Netanyahu, perlomeno premature, sembrano fatte apposta per gettare benzina sul fuoco. E il resto del mondo? E l’Unione europea, che subito prima dell’attacco di Israele all’Iran sembrava almeno in parte pronta a reagire finalmente alla distruzione di Gaza, a riconoscere uno Stato di Palestina, a isolare Netanyahu e le sue scelte scellerate? Difficile sanzionare chi riceve missili sulla testa, chi si nasconde dietro gli appelli a far cadere un governo di cui tutti auguriamo il crollo, o ricordare che solo pochi giorni prima del 7 ottobre, in una delle grandi manifestazioni contro Netanyahu, i manifestanti gridavano “L’Iran è qui” per sottolineare che Israele si stava avviando ad assomigliare alla Repubblica iraniana. In tutto questo, le organizzazioni internazionali appaiono sempre più deboli, rese inermi non solo da Israele e Stati Uniti ma anche dalla generale sistematica distruzione di quanto, dopo i disastri della seconda guerra mondiale, era stato ideato per fermare le disuguaglianze, i genocidi, le guerre. Ci sarà bisogno davvero di una terza guerra mondiale per tornare a questi obiettivi di pace, oppure è più probabile che questa guerra a venire, sperando che non ci sia mai, porti invece ad un mondo organizzato come il regime di Netanyahu o quello di Khamenei, di un mondo dove si uccidono i civili e gli oppositori sventolano sulle forche? La guerra contro l’Iran, quella dell’Iran contro Israele, quella di Israele contro i palestinesi portano a questa tragica equivalenza. Per questo, per tutti noi, vanno fermate. Se trionfa la convinzione che sia la guerra a portare la pace di Lucia Capuzzi Avvenire, 23 giugno 2025 “Non vogliamo la guerra, vogliamo la pace” ha detto il vicepresidente statunitense J.D. Vance meno di 24 ore dopo che Donald Trump ordinasse ai suoi bombardieri B-2 di sganciare la potentissima Gbu-57 sugli impianti iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan. Un attacco con cui gli Usa entrano al fianco di Israele nel conflitto con Teheran. Più dei fatti, però, nell’era politica della post-verità - termine sdoganato dallo stesso Trump - contano le narrazioni. Di fronte alla realtà di un tycoon che trascina il Paese verso una nuova “contesa bellica eterna” come quelle dei tanto criticati predecessori, Vance precisa: “Non siamo in guerra contro l’Iran ma contro il programma nucleare”. L’ultima di una serie di acrobazie semantiche che si sono susseguite nelle ultime ore da una parte all’altra dell’Atlantico. A dare il via è stato lo stesso Trump che ha annunciato il raid con un post su Truth. Sempre suo social personale si è congratulato con se stesso per lo “spettacolare successo militare ottenuto”. Benjamin Netanyahu non è stato da meno. In conferenza stampa ha spiegato che “non intente prolungare le operazioni in Iran più del necessario ma nemmeno finirle anticipatamente”. Il punto è cosa si intenda per “necessario”. Il premier israeliano non perde occasione nel legittimare ogni azione compiuta negli ultimi ventuno mesi come frutto della “necessità”. Non è un segreto che per il politico conservatore “stare con la spada sempre sguainata” debba essere il modus vivendi di Israele in un Medio Oriente popolato da “nemici irriducibili”. Una condizione ontologica - indipendente dunque dalle contingenze - dei Paesi arabi nella sua visione, mutuata dal padre, lo storico Benzion Netanyahu. E ripetuta qualche ora fa, ancora galvanizzato per l’aiuto americano: “Prima viene la forza, poi viene la pace”. Un assioma che - ha spiegato - condividerebbe con Trump, determinato a costruire la pace attraverso la forza. “E stavolta di forza ne ha impiegata tanta” ha aggiunto compiaciuto. Peccato che il passato recente e remoto dimostrino il contrario. La pace portata dai missili si rivela effimera e genera le condizioni di nuovi e più feroci conflitti. La tragica lezione della Seconda guerra mondiale - nata proprio sugli sconquassi generata dalla Prima e dalla pace-clava di Versailles - aveva fatto prendere coscienza al mondo dell’urgenza di limitare mutuamente la forza per evitare uno stato bellico permanente. La comunità internazionale si è riuscito per decenni solo in minima parte ma almeno l’orizzonte era chiaro. Era appunto. Nella neolingua orwelliana della post-verità è la guerra a portare la pace. “La guerra è pace”, diceva il Grande fratello. Nel frattempo, le bombe continuano a cadere. Venezuela. Imprenditore torinese detenuto: il dramma di Mario Burlò e l’angoscia della famiglia di Elisabetta Zanna giornalelavoce.it, 23 giugno 2025 Arrestato in Venezuela: la famiglia è senza notizie da novembre. Indagini in corso e tensioni diplomatiche. L’ultima voce di Mario Burlò è rimasta sospesa in una telefonata del 9 novembre 2024. Poi il silenzio. Nessun contatto, nessuna notizia certa. Solo una conferma amara: è detenuto in Venezuela, in un carcere di località sconosciuta, dopo essere stato arrestato appena superato il confine con la Colombia, dove era entrato via terra. Mario Burlò, 52 anni, imprenditore torinese nel settore dell’outsourcing, era a capo di varie aziende ed era in attesa di una sentenza definitiva in Italia. La Cassazione lo ha assolto dopo una precedente condanna a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa nel processo Carminus, ma quando la sentenza è arrivata, lui era già sparito. La sua famiglia ha appreso della detenzione solo attraverso una breve nota del console italiano, trasmessa al Tribunale di Torino, dove Burlò era imputato in un altro procedimento per presunte indebite compensazioni di crediti Iva e Irpef. Ma in Venezuela, al momento, nulla è chiaro: nessuna accusa formale, nessuna garanzia processuale, nemmeno la certezza del luogo in cui si trova. “Sappiamo soltanto che è trattenuto in un carcere del Venezuela”, dichiarano gli avvocati Maurizio Basile (foro di Torino) e Benedetto Marzocchi Buratti (foro di Roma), che rappresentano la famiglia Burlò. Aggiungono che “non ha avuto ancora diritto nemmeno a un contatto telefonico” e denunciano “tutta la legittima angoscia della famiglia, dei figli che pretendono di sapere come sta il padre, dove si trova e si augurano di poterlo riabbracciare”. L’unica informazione arrivata finora riguarda lo stato di salute del detenuto: “Nella struttura in cui è detenuto starebbe assumendo le medicine per seguire le terapie contro il diabete, patologia di cui soffre e che è trattato con parametri che non sono al di sotto del rispetto che si deve a ogni essere umano”, spiegano i legali. In seguito al loro esposto, la Procura di Roma, competente per i casi che riguardano cittadini italiani detenuti all’estero, ha aperto un fascicolo “K”, ovvero privo di ipotesi di reato e senza indagati. Intanto gli avvocati fanno sapere che “continueremo a stressare i canali diplomatici. Certo, eventuali questioni geopolitiche possono aver influito sullo stato delle relazioni diplomatiche così come per i casi di altri detenuti, italiani ed europei, che sono ristretti nelle carceri venezuelane”. Come nel caso di Alberto Trentini, cooperante italiano arrestato in Venezuela lo stesso mese di Burlò. Anche su di lui, il buio. Nessuna accusa esplicitata, nessuna spiegazione, solo un nome in più nella lista dei cittadini europei detenuti in condizioni opache mentre le relazioni diplomatiche tra Caracas e l’Occidente si fanno sempre più fragili. Stati Uniti. Le sei suore che stanno con le condannate nel braccio della morte di Elena Molinari Avvenire, 23 giugno 2025 A Gatesville le sorelle di Maria Stella Matutina hanno iniziato un apostolato con le donne in attesa della sentenza capitale. Ne è nata una relazione profonda e piena di vita, che vi raccontiamo. Da una parte sette donne che hanno passato anni nel braccio della morte, isolate dal mondo esterno. Dall’altra una mezza dozzina di suore contemplative che hanno scelto una vita ritirata, scandita dalla preghiera e dal silenzio. Due esistenze lontane, parallele nella solitudine, due mondi apparentemente inconciliabili che si sono incrociati nel cuore del Texas, in un incontro inatteso che ha dato vita a un legame profondo, fatto di ascolto, speranza e fede condivisa. “Non abbiamo cercato questo apostolato, ma ora ci è molto caro”, racconta ad Avvenire sister Mary Thomas, priora generale dell’ordine di Maria Stella Matutina. È stata lei, dopo settimane di discernimento, a dare il via libera a quello che sarebbe diventato un incontro mensile tra le sue consorelle e le detenute condannate a morte dell’Unità O’Daniel di Gatesville, a nord di Austin. Tutto è cominciato nel 2021, grazie a una proposta del diacono Ronnie Lastovica, che visita regolarmente il carcere per portare l’eucaristia. Sentendosi inadeguato a rispondere alle domande spirituali delle donne nel braccio della morte, pensò alle suore, il cui stile di vita austero gli pareva sorprendentemente simile a quello delle detenute. “Come le suore - spiega - anche le condannate si alzano prima dell’alba. Lavorano a maglia, all’uncinetto, ricamano. Mangiano spesso da sole in cella, ma si riuniscono per i compleanni. Vivono in celle. Proprio come loro”. Le religiose, che risiedono in un convento non lontano da Waco, inizialmente rifiutarono. Ma poi, dopo la preghiera e una consultazione comunitaria, decisero di accettare. La prima visita fu un’esperienza forte. Le quattro donne consacrate, in abiti grigi, attraversarono una serie di cancelli fino a trovarsi nella stessa stanza con alcune detenute, tutte vestite di bianco. Nessuno aveva previsto come rompere il ghiaccio. Per qualche istante, regnò un silenzio teso. Poi, racconta una delle prigioniere, Brittany Holberg, “noi aprimmo le braccia e loro aprirono le loro, e ci abbracciammo”. Quell’abbraccio diede inizio a un’amicizia profonda. “Abbiamo stretto un legame particolare con queste donne - racconta sister Mary. Il nostro stile di vita ha reso la connessione molto rapida. Come loro, viviamo in comunità, indossiamo sempre gli stessi vestiti, non cerchiamo l’ammirazione di nessuno”. Nonostante la clausura, il contatto con le detenute è visto dalle suore come una forma coerente della loro missione. “Andiamo come comunità, non è l’apostolato di una singola suora “, sottolinea ancora sister Mary. E precisa: “Manteniamo un giusto equilibrio con la nostra vita contemplativa e stiamo attente a non farci coinvolgere nei loro procedimenti legali. Cerchiamo di stabilire un limite e loro lo rispettano”. Nei colloqui mensili, si parla di fede, di vita, e non solo della sentenza capitale e dell’esecuzione che attende le prigioniere. “Condividiamo esperienze positive - dice sister Mary - non parliamo solo della condanna a morte”. Alcune delle donne non si sono mai dichiarate innocenti, ma nel corso degli anni in cella hanno affrontato con lucidità il passato e trovato nella routine del carcere e nella fede cristiana una forma di ordine e libertà interiore. “Ci ha colpite il fatto che non hanno paura di guardare negli occhi la loro condanna - afferma la priora -. La loro speranza è nella vita eterna. Hanno un grande desiderio di incontrare Dio faccia a faccia”. Tutte e sette le detenute infatti sono cristiane o lo sono diventate in prigione - sei cattoliche, una battista. Il loro cammino spirituale è una fonte di forza anche per le suore: “Ci aiuta a relativizzare i piccoli alti e bassi della nostra vita quotidiana: è una situazione così estrema in cui trovarsi”, assicura sister Mary. Eppure, in quelle vite sospese, molte detenute hanno trovato luce: “In generale, queste donne vivono nel braccio della morte ma amano la vita, che hanno riscoperto nell’esperienza comunitaria e nella fede”. La relazione è diventata così profonda che alcune detenute si sono legate in particolare a una religiosa. “Hanno bisogno di tempo sole con una di noi per condividere il loro cammino di fede o le loro preoccupazioni - dice sister Mary -. Cerchiamo di riflettere con loro sull’amore di Dio per loro. Come figli di Dio, accettiamo la sua misericordia e riscopriamo la loro dignità”. Anche per le religiose, però, la relazione non è priva di sfide. “Le prime volte sono state un’esperienza molto travolgente - ammette sister Mary -. E non abbiamo ancora vissuto il dolore della loro esecuzione, che sarebbe molto duro”. Inizialmente, le suore hanno esitato a parlare pubblicamente di questo nuovo apostolato. “Per molto tempo abbiamo evitato di descrivere come si svolgevano i nostri incontri, soprattutto ai media - racconta la priora -, ma poi abbiamo capito che farlo permette di volgere uno sguardo di umanità su queste donne, un modo di non ridurle al crimine che hanno commesso o non hanno commesso”. Tra le lettere ricevute dopo aver cominciato a raccontare questa esperienza, anche quella di un uomo che ha perso un familiare in un crimine: “Ha condiviso che anche lui ha dovuto accettare la misericordia della via del perdono”. E ha aiutato le religiose a capire che nel braccio della morte, dove tutto sembra negare la speranza, una comunità silenziosa e fedele testimonia che la misericordia è possibile. “Ogni persona - conclude sister Mary - lotta con un lato oscuro. Tutti noi fatichiamo ad accogliere il perdono di Dio per noi stessi, e la storia di queste detenute può risvegliare questo impegno”.