Emergenza carceri. L’idea di Giachetti e l’avallo di La Russa per rispondere al sovraffollamento di Giuseppe Ariola L’Identità, 22 giugno 2025 Il sovraffollamento delle carceri italiane è ormai una costante che ha cessato di fare notizia. Con oltre 62 mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 51 mila posti, il sistema penitenziario continua a operare in condizioni estreme. Le celle sono stipate, il personale è sotto organico e addirittura l’assistenza sanitaria non è sempre assicurata. In questo contesto, l’impennata dei suicidi - oltre trenta solo dall’inizio dell’anno - è l’indicatore più tragico di un sistema arrivato al limite. È in questo scenario che prende quota la proposta del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti, con l’obiettivo di alleggerire da subito la pressione carceraria. L’iniziativa prevede l’estensione del meccanismo della liberazione anticipata, già previsto dall’ordinamento penitenziario, innalzando da 45 a 60 i giorni di detrazione per ogni semestre di pena scontata. Non solo: per i primi due anni dall’entrata in vigore, la detrazione salirebbe a 75 giorni. Il tutto sarebbe applicabile anche in via retroattiva, a partire dal 2016, ma solo peri detenuti in regola con la condotta. Secondo le stime, un simile intervento potrebbe far uscire migliaia di persone entro pochi mesi, alleggerendo le strutture senza compromettere la sicurezza pubblica. L’emergenza sovraffollamento è talmente grave che sulla proposta è arrivata, un po’ a sorpresa, un’apertura da Ignazio La Russa. Il presidente del Senato ha ammesso che “è necessario un intervento temporaneo”, chiarendo che una norma emergenziale può essere condivisibile. “Chi commette un reato deve scontare la pena, ma in condizioni umane e dignitose”, ha dichiarato La Russa, aggiungendo: “Questo non è un condono mascherato, è un atto di responsabilità per spezzare la spirale del sovraffollamento e della recidiva”. Un’apertura che ha spiazzato anche parte della sua stessa area politica e che potrebbe rappresentare un primo varco verso una soluzione condivisa. In un contesto in cui i problemi carcerari vengono spesso affrontati solo quando esplodono sotto forma di emergenza, con una continua violazione dei diritti dei detenuti, la politica ha oggi l’obbligo morale e istituzionale di intervenire. Non basta immaginare la costruzione di nuove strutture - soluzione che richiederebbe, oltretutto, tempi lunghi - servono scelte immediate, concrete e risolutive. Le carceri sovraffollate non sono solo un fallimento dello Stato: sono anche un fattore che alimenta la recidiva, rende inefficace la pena e mina il principio costituzionale della finalità rieducativa. Tornando alla soluzione proposta da Giachetti, il governo, per ora, ha preferito non esporsi, lasciando intendere che le priorità sono altre. Eppure, il Parlamento ha già davanti a sé una proposta concreta ma resta da capire se la maggioranza saprà cogliere l’opportunità di un intervento teso a riconoscere che la pena, per essere giusta, non può essere disumana. Se Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, la più sensibile e aperturista sulla questione tra le forze di maggioranza, riusciranno a dialogare su questo terreno con Italia Viva e altre forze dell’opposizione, una convergenza è possibile. Il tempo, però, non gioca a favore. Ogni giorno che passa, nuovi numeri si sommano al bilancio del sovraffollamento, delle violenze, delle rinunce. E l’introduzione di nuovi reati e aggravanti di certo non aiuta. Carceri e avvisi di garanzia: Porro, Cruciani e i finti garantisti di Cataldo Intrieri Il Domani, 22 giugno 2025 Da molte cose si può valutare lo stato della democrazia in un Paese e della salute della sinistra. In Italia un termometro efficace, ad esempio, è costituito dalle trasmissioni televisive che si occupano di problemi giudiziari. Senza particolare distinzione tra conduttori di destra e sinistra esse si caratterizzano per la diffusa ignoranza dei profili tecnici, i reiterati strafalcioni giuridici, le grossolane semplificazioni. Il campionario si arricchisce di novità. Da ultimo, dopo le sentenze e le ordinanze di custodia cautelare, la furia anti giudiziaria dei conduttori modello “rete quattro” colpisce addirittura un istituto di sicuro stampo garantista come l’avviso di garanzia. Previsto dal codice penale solo per specifiche occasioni (la necessità per gli inquirenti di svolgere determinati atti che richiedono il necessario intervento del soggetto indagato) esso ha la finalità di consentire all’inquisito di poter intervenire nelle varie procedure con l’assistenza di un difensore di fiducia. Modello americano - Possibile lamentarsi di questo? Ebbene sì, Nicola Porro ne ha fatto oggetto di una lunga tirata nella sua fortunata trasmissione nel dialogo tra “affinità elettive” con Giuseppe Cruciani. Tutto legittimo, per carità, a patto di spiegare alla folla aizzata di cosa si parla. Nel caso di specie, lo scudo penale totale per le forze dell’ordine quando causino delle vittime nel corso di operazioni di prevenzione e repressione da loro condotte. Il modello è quello statunitense, per intenderci, che ha consentito più volte l’impunità agli agenti di polizia che avevano compiuto abusi nei confronti di fermati e arrestati. I casi più eclatanti sono stati l’omicidio di Amadou Diallo nel 1999 e quello di George Floyd nel 2020 che originò il movimento Black Lives matter. L’avviso di garanzia consegnato ai poliziotti che hanno ucciso l’assassino del povero brigadiere capo dei carabinieri, Carlo Legrottaglie, è un mezzo necessario per consentire agli stessi di intervenire all’autopsia del malvivente da loro ucciso con modalità che ancora nessuno ha spiegato. L’alternativa è che neanche si facciano indagini su eventuali colpe e abusi di cui possano rendersi responsabili le forze dell’ordine. Semplicemente lo stato di polizia: questo è il modello Porro-Cruciani con buona pace dei trascorsi liberal-radicali. È questo “quello che rimane del giorno”? Il crepuscolo dei livori? Le carceri - Ma il racconto della democrazia di un paese è costituito anche da altro come le carceri, che da noi sono una vergogna, ma anche il residuo campo di battaglia di ciò che una volta era “la lotta di classe”. In un bellissimo libro (L’amore in gabbia, Castelvecchi) Donatella Stasio racconta come i sentimenti, il riscatto e la salvezza possano consentire di sottrarsi a un destino segnato, raccontando la storia vera di Gianluca, un sopravvissuto alla reclusione e alla repressione. Un libro che come pochi racconta il senso dell’amore e a cosa serva un carcere “avanzato” come quello di Bollate, unico in Italia dove è consentita una vera socializzazione e una libertà interna di movimento ignota altrove. Dove la finalità esclusiva è consentire di poter guadagnare la libertà troncando col proprio passato, una scommessa che si può vincere la maggior parte delle volte. Il rischio dell’errore - Certo, esiste il rischio dell’errore, che la fiducia non venga ripagata (è successo, lo sappiamo), ma ciò che non capisce il rancore ottuso predicato a destra è che la negazione della possibilità porta in sé la certezza di nuove ricadute una volta che il condannato finisca la pena. Non si può buttare la chiave per tutti e per sempre. Bisogna scommettere sulla speranza. Stasio è stata responsabile della comunicazione della Consulta, una novità assoluta per una istituzione tradizionalmente austera, ed è stata promotrice in tale veste di una iniziativa unica: quella di portare i giudici della Corte nelle carceri. La visione del film che ne fu tratto è toccante come la lettura del libro. Qualche giorno fa in un convegno organizzato dalla rivista Penale, diritto e procedura, il vicepresidente della Corte, Francesco Viganò, ha ricordato quella esperienza e sottolineato che in Norvegia, dove il modello Bollate è quello istituzionale, i risultati sulla recidiva sono eccezionali e le spese di mantenimento la metà di quelle italiane. Esiste un “diritto mite” che parla la lingua di sinistra dell’utopia e dei sentimenti e di cui non ci si dovrebbe vergognare. “C’è del buono in questo mondo: è giusto combattere per questo” (J. R. R. Tolkien). Si può restare umani anche al 41 bis di Luca Fazzo Il Giornale, 22 giugno 2025 Nell’universo di regole scritte e orali che scandiscono la vita carceraria il grande assente è a volte il buon senso: la polverina magica che assegna alla norma una sua utilità pratica, separando le sacrosante esigenze di sicurezza dall’accanimento ottuso. Che ai detenuti al 41 bis siano vietati i contatti fisici durante i colloqui è inevitabile, perché la storia criminale è piena di pizzini scambiati in un abbraccio e di ordini trasmessi con un bacio. Che un difensore possa essere sanzionato, con un esposto della polizia penitenziaria all’Ordine degli avvocati, per avere salutato con affetto il suo cliente Alfredo Cospito, recluso nel reparto di massima sicurezza di Sassari, appartiene invece al regno dell’insensato. Di Cospito tutto si sa, proprio per la battaglia che ha combattuto contro il 41 bis: un lungo sciopero della fame che rischiava di mandarlo al Creatore, e rimasto senza risultati concreti. Alla fine l’anarco-insurrezionalista ha deciso saggiamente che era meglio restare vivo, e ha ripreso a mangiare. L’applicazione nei suoi confronti del più duro dei regimi carcerari possibili è stata confermata da tribunali e Cassazione, e reiterata dal ministro della Giustizia: più per i suoi proclami, per i suoi ripetuti appelli alla violenza rivoluzionaria, che per una effettiva loro pericolosità. Il 41bis è tagliato su misura per le organizzazioni mafiose, che sono purtroppo vive e vegete, e con le quali ai boss irriducibili va impedito di comunicare. Ma di insorti alla Ravachol pronti a mettere mano alla dinamite su input di Cospito non se ne vedono molti in giro. E in ogni caso pensare che un avvocato serio come Flavio Rossi Albertini si sarebbe prestato a girare a qualche epigono un ordine o anche solo un messaggio di Cospito è una mancanza di rispetto verso il mestiere di avvocato. Cui Rossi Albertini ha fatto bene a rispondere “lo saluterò sempre con affetto in quanto non intendo rendermi complice della sua deumanizzazione, delle politiche di annientamento del detenuto”. Il carcere segnala i difensori di Cospito: “Saluti troppo calorosi” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 giugno 2025 Dall’istituto di Sassari partono due esposti contro i legali dell’anarchico al 41 bis. Loro: “Non rinunceremo ai gesti di umanità”. Due esposti pressoché identici firmati dal direttore vecchio e nuovo della Casa circondariale di Sassari: uno datato 16 settembre 2024, l’altro 5 giugno 2025, entrambi destinati all’Ordine degli avvocati del capoluogo sardo e a quello di Roma. Oggetto: “segnalazione comportamento”. Obiettivo? Molto probabilmente intimidire i difensori, annichilire i detenuti. Cosa è successo - Due “esposti” partiti dalla direzione del carcere, su segnalazione dei reparti speciali, puntano il dito contro due legali: Maria Teresa Pintus e Flavio Rossi Albertini, entrambi difensori dell’anarchico Alfredo Cospito, detenuto nel regime di carcere duro dal 2022. La loro colpa, secondo gli agenti del Gom (Gruppo Operativo Mobile della Polizia Penitenziaria)? Al termine del colloquio con il proprio assistito lo hanno baciato sulle guance e gli hanno stretto la mano. “Tenuto conto della caratura criminale dei soggetti ristretti presso il reparto 41 bis di questo istituto - si legge nelle due comunicazioni - ed il significato intrinseco che può avere tale saluto, si chiede di valutare se il comportamento dell’avvocato sia deontologicamente corretto, anche al fine di dare le opportune indicazioni al personale di Polizia Penitenziaria che con abnegazione e professionalità assicura la vigilanza dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis”. Le reazioni - “Verso Alfredo Cospito ho manifestato empatia umana salutandolo con una stretta di mano e con due bacetti sulle guance. Lo saluterò sempre con affetto in quanto non intendo rendermi complice della sua deumanizzazione, delle politiche di annientamento del detenuto”, ha commentato Flavio Rossi Albertini. Della stessa idea la sua collega Maria Teresa Pintus, che al Dubbio dice: “Stanno facendo tutto questo per annientare l’unico gesto di umanità che questi detenuti possono ricevere. Come è noto quando incontrano i familiari lo fanno divisi da un vetro e non possono avere nessun contatto. Noi avvocati siamo gli unici che possono avere un minimo di vicinanza che dura pochissimi secondi”. Secondo l’avvocato Pintus, che assiste diversi detenuti rinchiusi al 41 bis e in Alta Sicurezza, “non esiste alcun divieto di assumere questi atteggiamenti. Quando due agenti del Gom sono piombati lo scorso anno nella saletta dell’incontro per redarguirmi del gesto, peraltro partito su iniziativa di Alfredo, ho chiesto di parlare con l’ispettore e di mostrarmi la normativa. Non hanno fatto nessuna delle due cose. Hanno richiuso la porta e sono andati via. Da allora ho continuato a salutare Alfredo in quel modo. Perché non mi hanno detto nulla per tutto questo tempo? Significa allora che in realtà non rilevano alcun significato intrinseco nel gesto, vogliono solo fiaccare i detenuti e scoraggiare noi avvocati dal compiere gesti di umanità. Peraltro se io volessi inviare un messaggio segreto ad Alfredo potrei farlo per iscritto su un foglio relativo ad un qualsiasi procedimento in corso che in teoria rimane nella sola conoscenza delle due parti”. Pintus conclude: “Queste segnalazioni non mi fermeranno, continuerò a salutare Alfredo e gli altri detenuti come sempre, non abbiamo nulla da nascondere”. Sulla vicenda è intervenuto anche il presidente dell’Unione delle Camere Penali, Francesco Petrelli: “Quando anche nella valutazione dei gesti non si ha più attenzione a quelle che sono le radici stesse dell’umanità e al rispetto della dignità dell’uomo vuol dire che si è perso contatto con il valore universale della sofferenza. Mentre da una parte si cerca di restituire umanità ai condannati dall’altra si ritiene invece che la disumanizzazione del detenuto possa essere un valore positivo da perseguire. Il Regolamento Rocco del 1930 vietava di rivolgersi al detenuto con il proprio nome, siamo a un passo da quella idea”. Ma ora cosa succede? Pintus ha già presentato una memoria per il suo Coa, adesso toccherà a Flavio Rosso Albertini. Poi si vedrà cosa accadrà dinanzi alla commissione disciplinare. L’iperpenalismo è una rischiosa scorciatoia di Raffaele Marmo Il Resto del Carlino, 22 giugno 2025 ll caso del blocco della tangenziale di Bologna da parte delle tute blu di Cgil, Cisl e Uil fa riflettere sui rischi della scorciatoia del populismo giustizialista più che securitario applicato a fenomeni sociali. Il caso del blocco della tangenziale di Bologna da parte delle tute blu di Cgil, Cisl e Uil offre l’occasione per riflettere sui rischi della scorciatoia del populismo giustizialista più che securitario applicato a fenomeni sociali e sul paradosso, innanzitutto culturale, di un governo e di una maggioranza che vorrebbero meritoriamente rimettere in equilibrio i rapporti tra politica e giustizia e che, invece, nei fatti finiscono per ampliare a dismisura il potere dei pubblici ministeri e la sfera del penale. Sotto il primo profilo, il punto critico non è la svolta autoritaria del decreto sicurezza perché la nostra Repubblica ha tutti i presidi necessari e appropriati (dal Capo dello Stato alla Consulta), per segnalare e eliminare pericoli di norme anti-costituzionali o illiberali. Usciamo, dunque, dalla propaganda dell’opposizione. Il punto chiave è, al contrario, un altro: non ha nessun senso, se non quello delle grida di manzoniana memoria, ampliare inutilmente l’ambito del penale a comportamenti sociali che non possono diventare reati per la loro stessa natura (come è il caso della tangenziale) e che, infatti, finiranno per non diventarlo in concreto o a azioni che, per altri aspetti, sono già sanzionate come tali: e, semmai, nel caso il problema è far rispettare la legge esistente senza bisogno di nuove norme-bandiera. Altrettanto contraddittorio e paradossale può risultare, se non si corre ai ripari, il secondo profilo. Questo sarebbe o, meglio, è il governo della separazione delle carriere, del riequilibrio dei poteri rispetto a una magistratura invasiva e debordante: un’opera che, se riesce, rappresenterà un risultato ampiamente atteso da decenni. Eppure, all’atto pratico questo rischia di essere anche il governo che ha introdotto decine di nuovi reati in una sorta di panpenalismo, con la conseguenza concreta di un’estensione senza precedenti dei poteri di intervento dei pubblici ministeri. E, allora, se questa tendenza non dovesse fermarsi, altro che battaglie berlusconiane e liberali. Greco (Cnf): “Pm rafforzati dalla riforma? Io non li temo, perché l’Anm ha paura?” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 giugno 2025 Il presidente degli avvocati all’incontro sulla giustizia organizzato dal Pd a Roma. Schlein: “Carriere separate, una ritorsione contro le toghe”. Doveva essere una mattinata “anti-governativa”, contro la giustizia del governo Meloni. Ma è stata anche l’occasione, per il Pd, di incrociare i fioretti con due leader dell’avvocatura, Francesco Greco e Francesco Petrelli, schierati su posizioni favorevoli alla separazione delle carriere. A organizzare l’evento al “Tempio di Adriano”, sala monumentale nel cuore di Roma, i gruppi parlamentari del Nazareno, la cui leader Elly Schlein ha concluso la serie di interventi con parole molto severe sul decreto sicurezza, il cui obiettivo, attacca, “è non ascoltare il grido dei lavoratori, ora chi si lamenta viene punito”, con riferimento alla protesta di questa mattina dei metalmeccanici. La segretaria Pd è stata tranchant anche sul ddl costituzionale di Nordio e sullo stesso guardasigilli, definito “un caso di omonimia”, a proposito delle posizioni che il ministro aveva espresso in passato su temi come l’inasprimento delle pene. Dietro la stessa riforma costituzionale sulle carriere di giudici e pm, Schlein legge un “approccio ritorsivo” e una “forzatura clamorosa” delle procedure parlamentari, attuata, a suo giudizio, per “riaprire la guerra con la magistratura” e “tornare indietro di trent’anni”. Ma non la pensano allo stesso modo gli avvocati. Non la pensa così il presidente del Cnf Greco, secondo il quale “la separazione delle carriere è un passo avanti verso una giustizia finalmente imparziale, fondata sul contraddittorio e sulla parità tra accusa e difesa, secondo il principio del giusto processo come previsto dalla Costituzione. Prosegue così un percorso di riforma atteso da decenni, che restituisce terzietà all’azione giudiziaria e centralità al dibattimento in aula. Per questo motivo, il Cnf sostiene una riforma che rafforza le garanzie per i cittadini e rende il procedimento più equo e trasparente”. Greco si è soffermato sull’obiezione secondo cui “i pm diventerebbero più forti: ma questo non rappresenterà un problema per la democrazia, perché io ho fiducia nella magistratura. Mi preoccupa invece che la stessa magistratura abbia paura di questo. Mi chiedo perché”. E Petrelli ha rivendicato il “legame embrionale con la riforma della separazione” che “non appartiene a questo governo: ha radici più antiche, che provengono dalla cultura liberale di sinistra”. Rocco Maruotti, segretario dell’Anm, si è invece chiesto: “Se lo stesso ministro Nordio ha ammesso che la riforma presenta delle criticità, perché non modificarla in Parlamento?”. E poi, “se la motivazione del sorteggio per i membri del Csm è legata al recupero di credibilità della magistratura, come sostiene la maggioranza, allora considerato che secondo l’Eurispes l’indice di gradimento del governo è del 30 per cento, a differenza di quello delle toghe che è del 43 per cento, ci sarebbe una provocazione da fare: dovremmo sorteggiare anche i ministri?”. Secondo la vicepresidente dem del Senato, Anna Rossomando, siamo dinanzi a una riforma “truffa” che “punta a colpire il ruolo del Csm e l’assetto istituzionale della magistratura nel quadro costituzionale”. Tutto questo per il capogruppo del Pd in commissione Giustizia del Senato Alfredo Bazoli si inserisce in un quadro più ampio di “crisi della democrazia e dello Stato di diritto”. Basti pensare, ha detto il parlamentare, “all’abrogazione dell’abuso di ufficio, alla riforma della Corte dei Conti, all’attacco politico sul controllo di legalità della magistratura”. E anche secondo il capogruppo dem nella stessa commissione di Montecitorio, Federico Gianassi, “stiamo scivolando verso un sistema autoritario, illiberale, in cui si utilizza il Parlamento come strumento per attuare operazioni di forza”. Critica condivisa dal professore Roberto Bartoli, ordinario di Diritto penale all’Università di Firenze, secondo il quale “con il decreto sicurezza siamo passati dal populismo penale al sadismo penale”, giacché, sostiene, il provvedimento sarebbe stato concepito “per incrementare paura e cattiveria”. Non potevano mancare anatemi sulla situazione attuale negli istituti di pena, “disumana polveriera” per Walter Verini, capogruppo Pd in commissione Antimafia. Non sono esenti dal sovraffollamento e da condizioni non dignitose gli istituti penali minorili: “In quello di Torino”, ha detto Samuele Ciambriello, portavoce dei Garanti territoriali, “abbiamo visto otto minori dormire per terra su dei materassi”. Di carcere ha parlato anche la responsabile Giustizia del Partito democratico, Debora Serracchiani: quella penitenziaria rappresenta, a suo giudizio, “l’emergenza delle emergenze: come ha dimostrato la grave e inaudita vicenda avvenuta nell’istituto di Marassi a Genova, dove un giovane detenuto di 18 anni, incensurato, recluso per un reato minore, è stato violentato e torturato per due giorni senza che nessuno abbia visto nulla. Sul tema del carcere noi ci giochiamo un pezzo della nostra credibilità e della nostra civiltà”. Questione correlata all’esecuzione penale è quella della giustizia riparativa, sulla quale si è espressa la deputata dem Michela Di Biase: “Per noi la giustizia riparativa non è alternativa alla giustizia penale, ma è fondamentale per accompagnarla e aiutare a sanare le profonde fratture che si sono create non solo fra il reo e la vittima, ma anche all’interno della società”. Sulle criticità nei Cpr è intervenuta invece la deputata Rachele Scarpa: “Il sistema negli ultimi vent’anni è degenerato, e oggi la detenzione amministrativa rappresenta, in tutta la sua violenza e assurdità, la criminalizzazione, nel segno del panpenalismo, della condizione di irregolarità delle persone straniere, rendendo questa condizione una vera e propria colpa da espiare, in un Paese che però non dà alcuno strumento per regolarizzare la propria situazione”. A margine dell’evento abbiamo chiesto ad alcuni esponenti del Pd se fossero preoccupati di quel 40 per cento di elettori di centrosinistra che, secondo un recente sondaggio Eurispes, sarebbero favorevoli alla separazione delle carriere. “Bisogna sempre vedere come è posta la domanda nel sondaggio”, ci ha risposto un esponente di spicco del Pd. “Molto probabilmente questi nostri elettori credono ancora che si stia parlando del vecchio progetto del Pd sulla separazione delle funzioni, ma nel quale non si toccava assolutamente la Costituzione”. Via libera al decreto sport: fino a 16 anni di carcere per chi aggredisce gli arbitri di Andrea Marini Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2025 Chi aggredisce un arbitro, causandogli lesioni gravissime, rischia il carcere fino a 16 anni. Lo prevede il decreto legge Sport, approvato il 20 giugno dal consiglio dei ministri, che modifica l’articolo 583-quater del codice penale, articolo che prevede i casi di lesioni personali causate a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni. La modifica del governo estende la stessa pena a chi procura lesioni ai danni di un arbitro o di altri soggetti preposti alla regolarità tecnica delle manifestazioni sportive. Cosa prevede il codice penale - L’articolo 583-quater del codice penale, prima della norma approvata il 20 giugno dal Governo, prevedeva solo: “Nell’ipotesi di lesioni personali cagionate a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni, si applica la reclusione da due a cinque anni. In caso di lesioni gravi o gravissime, la pena è, rispettivamente, della reclusione da quattro a dieci anni e da otto a sedici anni”. Norme valide anche per il “personale esercente una professione sanitaria o socio-sanitaria e a chiunque svolga attività ausiliarie a essa funzionali”. Il decreto sicurezza bis - In realtà, già il decreto sicurezza bis (53/2019) approvato dal governo gialloverde di Giuseppe Conte, aveva avvicinato i casi, estendendo il daspo (divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive) a chi compie nei confronti degli arbitri uno dei fatti (lesioni personali) previsti all’articolo 583-quater del codice penale. In questo conteso, la norma varata il 20 giugno dal governo ha lo scopo di razionalizzare e riordinare la disciplina, inserire all’interno del codice penale la disposizione che estende le pene già previste per chi causa lesioni ad agenti di pubblica sicurezza e a personale sanitario anche a chi procura lesioni ai danni di un arbitro o di altri soggetti preposti alla regolarità tecnica delle manifestazioni sportive. Monza. Il carcere esplode. Salis, Conti e Paolo Piffer di Dario Crippa Il Giorno, 22 giugno 2025 Quando decisero di chiuderlo, in stanze da 4 metri per 2 erano rinchiuse anche 4 persone per volta, stipate all’inverosimile. C’erano detenuti in ogni angolo libero del vecchio edificio a due passi dal centro di Monza, persino nella stanza comune per vedere i film, l’infermeria era in condizioni tanto precarie che persino i medici protestavano. Del resto, quel vecchio edificio di via Mentana, ora in via di demolizione per farci case, era stato pensato per ospitare non più di 50 detenuti e negli anni bui del regime fascista ce ne erano finiti anche 200. E così quando nel 1984 venne inaugurata la nuova casa circondariale in via Sanquirico con più di 400 posti disponibili era parso finalmente di poter finalmente respirare un’aria più leggera. Oggi, la situazione si è capovolta nel disinteresse quasi generale e si è fatta di nuovo drammatica. La direttrice Cosima Buccoliero l’altro giorno ha accettato di andare a parlarne in consiglio comunale: oggi di detenuti ce ne sono 733, su 411 posti. Con un surplus dell’80 per cento in termini di sovraffollamento. In più gli agenti sono pochi (297), i detenuti con problemi di tossicodipendenza sono almeno 500, quelli con problemi psichiatrici 250 con la logica conseguenze di aggressioni e tensioni continue. E il lavoro, unica forma di riscatto e boccata di ossigeno per molti detenuti, spesso è una chimera. Si è parlato tanto delle condizioni in cui era detenuta la nostra ex concittadina Ilaria Salis in Ungheria o un po’ meno di quelle a Panama sofferte dal brianzolo Stefano Conti, decisamente peggiori (omicidi all’ordine del giorno, acqua una volta al dì, scarafaggi e sanguisughe come compagnia costante in celle sovraffollate). Ma poi ci si dimentica di Monza: è poi tanto meglio? Mancano le risorse per pagare gli educatori, tanto è vero uno che uno che ci lavorava da anni (il consigliere di opposizione Paolo Piffer) è stato appena tagliato dall’amministrazione comunale di Monza. Ma in fondo, a chi importa? Brescia. Minori, 600 in un anno nei guai con la giustizia. “Reati, cresce la gravità” di Luca Bonzanni L’Eco di Bergamo, 22 giugno 2025 I numeri paiono quasi una fotocopia. L’oscillazione è minima, lo scarto non arriva nemmeno al punto percentuale: oltre l’apparenza dei dati, però, la giustizia minorile - e, più in generale, la criminalità giovanile - consegna una trasformazione più profonda, fatta di un maggior ricorso della violenza pur a fronte di una sostanziale stabilità dei reati registrati. Il nuovo report del ministero della Giustizia sui “flussi di utenza dei servizi della giustizia minorile”, pubblicato nei giorni scorsi, racconta questo. Lo fa partendo dal punto di vista dell’Ufficio di servizio sociale per i minorenni, l’ente che si attiva quando un minorenne o un “giovane adulto” (dai 18 anni ai 25 non ancora compiuti) entra nel circuito penale a seguito di una denuncia e che ne segue il percorso sino alla conclusione dell’iter giudiziario: nel 2024 l’Ufficio di Brescia (competente a livello distrettuale anche per le province di Bergamo, Cremona e Mantova) ha ricevuto un totale di 609 segnalazioni dall’autorità giudiziaria, con flebile aumento dello 0,8% rispetto alle 604 segnalazioni del 2023. Se si torna più indietro, la tendenza è addirittura di flessione: le segnalazioni della magistratura erano state 688 nel 2022, 727 nel 2021, 627 nel 2020 (ma era l’anno della pandemia, dove in generale i reati avevano “volumi” più bassi), 763 nel 2019. “Cambia la tipologia dei reati” - Eppure, la cronaca e il dibattito pubblico restituiscono con elevata frequenza storie - spesso drammatiche se non tragiche - anche efferate che hanno per protagonisti dei giovanissimi, a volte adolescenti e in altre occasioni appena maggiorenni. “La situazione recente, dal punto di vista dei numeri del nostro distretto, è stabile - rileva Cristina Maggia, presidente del Tribunale per i minorenni di Brescia: il nostro è un territorio tutto sommato tranquillo. Quello che cambia è la tipologia dei reati: spesso più violenti e perciò più appariscenti. Ecco perché se ne parla di più”. Così, ad esempio, in proporzione calano i furti e aumentano le rapine, le minacce diventano vere e proprie estorsioni, oppure crescono le aggressioni, le lesioni gravi: “L’uso dei coltelli è sempre più frequente - aggiunge Maggia -: una volta gli adolescenti erano protagonisti di scazzottate, oggi in molti girano con armi bianche”. Ascoli Piceno. Detenuti impiegati nella cura del verde pubblico picenonews24.it, 22 giugno 2025 Detenuti impiegati nella cura del verde pubblico come misura alternativa alla pena carceraria: l’iniziativa, già attuata a San Benedetto del Tronto in passato, è stata nuovamente attivata con il rinnovo della convenzione tra l’Ente e l’associazione “Il Germoglio Onlus” che, vista la positiva esperienza del passato, è stata ampliata prevedendo un maggior numero di ore assegnate. Grazie all’accordo, il Comune può impiegare alcuni detenuti nella cura e manutenzione dei giardini pubblici e delle aree comunali sotto la vigilanza dei volontari dell’associazione che operano su autorizzazione dei competenti uffici del Ministero della Giustizia e la supervisione del personale del Servizio Aree Verdi del Comune. “La rieducazione dei detenuti - dice l’assessore alle Politiche Sociali Andrea Sanguigni - è l’elemento fondante dell’istituto carcerario. Troppo spesso si dimentica che il primario scopo per il quale esiste la pena detentiva è quello di favorire il reinserimento delle persone nella vita quotidiana come parte della comunità. Per questo l’Amministrazione ha voluto dare continuità a questo progetto e addirittura ampliandolo, rendendosi disponibile per offrire una misura alternativa alla detenzione a persone che, pur condannate, abbiano dato dimostrazione di essere meritevoli di scontare il proprio debito con la giustizia in maniera diversa, ovvero prestando un utile servizio alla collettività”. Bergamo. Nel carcere di via Gleno: “Lo studio mi ha permesso di rivedere la luce” di Francesco Scandella bergamonews.it, 22 giugno 2025 Dal 2022 l’ateneo ha avviato il Polo universitario penitenziario. Oggi conta 13 studenti, anche da altri istituti di detenzione: “Tutti hanno il dovere e il diritto di guardare oltre il passato”. “La svolta è stata il primo esame, quello di Diritto costituzionale: mi ha permesso di rivedere la luce”. Sono circa tre anni che UniBg ha avviato il Polo universitario penitenziario, una rete immateriale di servizi pensata per le persone private della libertà personale. Oggi conta 13 studenti, di cui 10 nel carcere di via Gleno, 2 a Reggio Emilia e 1 a Cremona. “Si possono iscrivere persone da qualsiasi istituto di detenzione italiano - spiega Anna Lorenzetti, docente di Diritto costituzionale e delegata del rettore al Polo universitario penitenziario -. In pochi anni c’è stata una crescita importante, ma il numero di studenti rimane contenuto”. Il programma facilita alcuni procedimenti tipici della vita accademica: si va dall’esenzione dal pagamento delle tasse a prestiti agevolati dei libri dalla biblioteca, ma c’è anche la possibilità di dare esami al di fuori degli appelli in programma. “Purtroppo non si possono garantire corsi veri e propri in quanto sarebbe un impegno didattico insostenibile”, chiarisce la professoressa. Uno degli iscritti è Luca (nome di fantasia, ndr), 52 anni, che varca la soglia del carcere di via Gleno nel maggio 2023. “Le prime settimane ero completamente spaesato, non sapevo dove mi trovavo”, ricorda. Nella casa circondariale si iscrive, nell’estate 2023, alla laurea triennale in Diritto per l’impresa nazionale e internazionale: “Iniziare un percorso di studi in carcere, trent’anni dopo la maturità, era l’ultima cosa che avrei immaginato. Studiare in cella non è facile: è una guerra con la tua testa, qualcosa che ti rimane dentro”. La motivazione iniziale è dare la possibilità al figlio di toccare con mano quello che il padre faceva in carcere. Dopo il primo esame Luca inizia a dare un esame ogni mese e mezzo. “Non potendo frequentare le lezioni serve disciplina e capacità di organizzazione - spiega lo studente -. Bisogna cercare di guardare oltre, tenere impegnata la testa affinché il periodo detentivo abbia davvero uno scopo rieducativo verso la vita che aspetta fuori”. Mentre suo figlio controlla i voti sul sito dell’Università, il padre in via Gleno lavora anche come bibliotecario. “Il giorno dell’esame era un’emozione per tutti - confida -. Il mio percorso destava curiosità negli altri detenuti: iniziarono a capire che avrebbero potuto studiare anche loro. Forse, l’emozione più grande che posso raccontare”. Dopo 21 mesi di carcere lo scorso febbraio arriva l’occasione per lasciarsi alle spalle il passato: il giudice di sorveglianza ritiene così brillante il suo percorso da concedergli l’accesso ad una misura alternativa per motivi di studio. “Dalla mattina successiva ho iniziato a frequentare quotidianamente le lezioni - aggiunge -. Nei miei confronti non ho mai avvertito alcuna discriminazione da parte dell’ateneo. Anche in prigione ero una matricola come le altre e questo mi ha dato la forza di non perdere la dignità. Anche chi commette reati ha il dovere e il diritto di guardare oltre: lo studio mi ha messo nelle condizioni di ripartire”. “Con il Polo universitario penitenziario abbiamo declinato l’imperativo costituzionale per cui la pena deve tendere alla risocializzazione della persona - sentenzia Lorenzetti -. Non si va in carcere per essere puniti, il racconto di Luca restituisce questo concetto più di ogni scritto di diritto”. Per il prossimo anno il programma conta già 5 nuovi iscritti. L’ateneo ha svolto nelle scorse settimane un open day singolare, dentro il muro di cinta di via Gleno. “La vicenda di Luca ha fatto da traino, ha mostrato come dare valore ad un tempo vuoto”, conclude la docente. Luca ora è iscritto al terzo anno ed è in linea con gli esami. Punta a laurearsi nell’estate 2026 o, magari, l’autunno successivo. In fondo, cambia davvero poco. Monza. Il carcere con la biblioteca vivente diventa luogo di incontro e confronto di Sarah Valtolina ilcittadinomb.it, 22 giugno 2025 Sono stati ventisette i detenuti che, dopo un percorso di preparazione durato alcuni mesi, hanno vissuto un’esperienza di dialogo con ospiti esterni. Soddisfatta la procuratrice Massenz. “Prendetevi tre ore, dimenticatevi gli impegni fuori, la fretta, godete della bellezza dell’incontro senza pregiudizi e senza paura. Fate domande e aspettatevi che anche il vostro libro vivente ne faccia a voi. Non siete obbligati a rispondere e non lo sarà nemmeno lui. Voi oggi rappresentate un pezzetto di normalità nella vita di queste persone detenute”. Sono state queste le “raccomandazioni” che Manuela Massenz, procuratore aggiunto della Procura di Monza e promotrice del progetto “Biblioteca vivente” all’interno della casa circondariale di Monza, ha dato ai partecipanti che lo scorso 14 giugno sono entrati in carcere per dialogare con i ventisette libri viventi, detenuti dell’istituto di via Sanquirico che hanno accolto la proposta e avviato il percorso proposto dal progetto. Nell’area verde davanti al blocco detentivo, dove solitamente i detenuti incontrano i loro familiari e soprattutto i bambini durante la bella stagione, i libri viventi hanno atteso gli ospiti venuti da fuori. A disposizione mezz’ora di tempo per raccontarsi, per immedesimarsi, per fare domande e accogliere risposte. Un tempo lungo e corto allo stesso tempo, trenta minuti per mettersi davanti a un estraneo e provare a raccontare qualcosa di sé. Per i libri viventi l’occasione di aprirsi a degli sconosciuti, con il vantaggio di chi può raccontarsi sapendo che quella confidenza resterà qualcosa di intimo e unico, per gli ospiti venuti da fuori un’opportunità (per molti la prima nella vita) di vedere il carcere da dentro (seppur la parte più bella esteticamente), guardando negli occhi gli uomini, molti dei quali giovani adulti, senza vedere solo la pena o il reato. Ad accogliere i visitatori che hanno aderito all’iniziativa c’erano anche la direttrice della casa circondariale, Cosima Buccoliero, e la comandante della Polizia penitenziaria, Emanuela Anniciello. “Queste persone si sono volute mettere in gioco, hanno deciso di aderire a questo progetto raccontando per iscritto la loro storia. È stata un’operazione a volte dolorosa che ha messo ciascuno davanti alle scelte compiute -ha raccontato Massenz. Non tutti hanno portato a termine il percorso perché non è una strada semplice”. Gli incontri di preparazione alla giornata del 14 giugno tra i volontari della Biblioteca vivente e i detenuti sono iniziati prima di Natale. L’appuntamento con i lettori esterni è l’atto conclusivo di un cammino durato mesi. “Alcuni di loro forse ripeteranno l’esperienza anche il prossimo anno, altri entreranno nel gruppo per la prima volta, e il prossimo maggio a nuovi lettori sarà data questa occasione straordinaria di reciproca conoscenza”. Napoli. Teatro nelle carceri: la sfida del garante Ciambriello di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 22 giugno 2025 Martedì 24 giugno 2025 alle ore 10:30 all’interno della Casa Circondariale “G. Salvia” di Poggioreale andrà in scena, presso la chiesa principale dell’istituto Penitenziario, lo spettacolo teatrale “La Macchia” regia di Riccardo Sergio. Lo spettacolo teatrale “La Macchia” è stato sostenuto dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, e dal Consiglio Regionale della Campania. Il progetto è frutto di un laboratorio teatrale guidato dall’Associazione Polluce Aps, con i detenuti del Padiglione Genova dell’Istituto Penitenziario di Poggioreale, che hanno scritto e creato lo spettacolo completamente inedito. Il lavoro è frutto di un laboratorio teatrale durato quattro mesi, dove i detenuti hanno messo in scena uno spettacolo occupandosi sia della drammaturgia che della creazione dei costumi. Il progetto teatrale è stato creato e guidato da Riccardo Sergio dell’Associazione Polluce che ne firma anche la regia. La regia: “Il laboratorio teatrale si è strutturato come un percorso esplorativo in cui l’improvvisazione ha rappresentato il cuore della ricerca drammaturgica. Fin dalle prime fasi, l’obiettivo è stato quello di indagare i temi, i personaggi e i luoghi dello spettacolo non partendo da una struttura rigida, bensì lasciando che questi elementi emergessero spontaneamente dal corpo, dalla voce e dalle intuizioni degli attori in scena. La “macchia” ha assunto via via significati diversi - colpa, vergogna, segreto, ferita, identità - tutti emersi attraverso un lavoro collettivo. Il lavoro non ha cercato risposte definitive, ma ha prodotto una materia viva, sempre in trasformazione”. Il garante campano Ciambriello: “La Macchia dal latino macula - Piccola area di colore diverso che interrompe, per lo più guastandolo, il colore uniforme di una superficie. Queste sono le iniziative che infrangono il muro dell’indifferenza, momenti di aggregazione e condivisione fondamentali perché diversi da quelli che li hanno condotti in carcere”. Napoli. “Portami là fuori”: musica dentro e fuori il carcere di Ludovica Italiano mywhere.it, 22 giugno 2025 Si è tenuta il 20 giugno al Palazzo Reale - Cortile delle Carrozze (Napoli) Portami là fuori, serata conclusiva dei laboratori degli IPM di Nisida e Airola. Un concerto a coronamento di un altro anno di appuntamenti a cura di formatori e artisti professionisti che, due volte a settimana per 12 mesi all’anno, guidano i minori detenuti nella scrittura e nella registrazione di musica rap, nella messa in scena di spettacoli teatrali e nelle sceneggiature di cortometraggi d’autore. Può la musica superare ogni barriera? “La musica non redime, ma accende. Accende pensieri, possibilità, speranze. In carcere portiamo parole che fanno rumore dentro, per provare a cambiare il fuori”. Le parole di Luca Caiazzo, in arte Lucariello, racchiudono il senso profondo dei laboratori di musica rap promossi dall’associazione CCO - Crisi Come Opportunità, di cui il rapper è socio e coordinatore per la Campania, che vengono realizzati all’interno delle carceri minorili italiane. “Portami là fuori è prima di tutto il racconto di un approccio educativo e umano che prende forma attraverso un progetto concreto, trasformato in un evento. Un concerto che ha visto protagonisti artisti sia dentro che fuori le mura del carcere, una serata speciale, in cui la musica, le parole e le storie diventano strumenti di connessione e testimonianza, ma anche di speranza e cambiamento. Durante il concerto, che è nel cartellone del Campania Teatro Festival, con i giovani detenuti (le cui identità sono protette per privacy) si sono esibiti quattro artisti: Oyoshe, Shada San, Lucariello e Federico di Napoli. “Abbiamo costruito la serata in modo tale che non si distinguano i professionisti dai ragazzi; per noi sono degli artisti e basta, non vogliamo spettacolarizzare il carcere” ha detto Luca Caiazzo. L’idea di istituire Presìdi culturali permanenti all’interno degli istituti penali minorili nasce proprio da lui. Si tratta di spazi dedicati alla creatività: laboratori di scrittura rap e registrazione musicale, corsi di teatro, realizzazione di cortometraggi e attività di scrittura creativa. Avviati in Campania, questi Presìdi si sono estesi nel tempo a sette istituti minorili e sono oggi sostenuti anche dal Ministero della Giustizia. Alla base dell’iniziativa vi è proprio la profonda convinzione che l’arte, in particolare la musica rap, possa rappresentare un’autentica occasione di riscatto sociale. Tutto ebbe inizio, racconta Lucariello, con Cappotto di legno, la canzone contro la camorra che scrisse e compose nel 2008 insieme ad Ezio Bosso. Quel brano, dopo il successo di una campagna televisiva, rappresentò per lui il punto di partenza di un impegno più ampio all’interno dei penitenziari. Luca Caiazzo racconta di essere stato contattato da diverse associazioni, tra cui Crisi come opportunità, grazie alle quali è entrato per la prima volta, tredici anni fa, nell’Istituto penale per minorenni di Airola. Confida che una parte di sé, da allora, sia rimasta simbolicamente dentro quelle mura. Fu in quel contesto che i laboratori di rap nelle carceri minorili iniziarono a prendere forma. Spiega di aver proposto a Giulia Minoli, fondatrice dell’associazione, di organizzare dei corsi, spinto dalla sensazione che fosse necessario esserci. I ragazzi, dice, gli erano sembrati assetati di un’occasione del genere. È questa la visione che guida l’azione dell’associazione CCO - Crisi Come Opportunità. Offrire ai ragazzi strumenti espressivi per ritrovare se stessi, dare voce alla propria storia. Immaginare un futuro diverso e ridare speranza a ragazze e ragazzi che pensano di non averne più. Non è certamente un caso che a presentare la serata Portami là fuori siano stati scelti proprio Gaetano Migliaccio e Giovanna Sannino, volti noti della serie TV Mare Fuori, che racconta proprio le vicende di adolescenti detenuti in un carcere minorile a Napoli. La loro presenza è carica di significato simbolico. I personaggi che interpretano nella fiction si muovono negli stessi spazi, affrontano gli stessi conflitti e vivono le stesse contraddizioni dei ragazzi coinvolti nel progetto. Mare Fuori ha contribuito sicuramente, infatti, a portare alla luce un mondo spesso ignorato. Ha mostrato quanto la fragilità e la forza possano coesistere nei percorsi di chi, nonostante gli errori, cerca una via d’uscita. Portami là fuori prosegue quel racconto, ma lo fa nella realtà: attraverso la musica, il palco e la voce autentica di chi vuole cambiare. Oltre alla notorietà ottenuta con Mare Fuori, Giovanna Sannino e Gaetano Migliaccio si distinguono anche per il loro concreto impegno nel sociale. Entrambi, infatti, sono coinvolti attivamente (tra le molte cose) proprio in iniziative a sostegno dei giovani detenuti dell’Istituto Penale Minorile di Nisida. Giovanna, in particolare, partecipa a laboratori artistici e teatrali che mirano a rafforzare l’autostima e le capacità espressive dei ragazzi. Porta la sua esperienza professionale e umana al servizio di un progetto più grande: quello di restituire fiducia, visione e senso del possibile a chi sta attraversando un momento difficile. Accanto a lei, Gaetano. Anche lui animo sensibile ed attento alle tematiche della marginalità giovanile, contribuisce con entusiasmo a costruire ponti tra il mondo dell’arte e quello della detenzione minorile, dimostrando che il cambiamento è possibile quando si investe tempo, ascolto e presenza vera. Che siano proprio loro, due attori che hanno dato volto e voce alle storie dei ragazzi di Mare Fuori, a calcare il palco di questa iniziativa e a impegnarsi sul campo, è un segno potente: un cortocircuito tra finzione e realtà che diventa testimonianza viva. A Nisida, il mare fuori c’è davvero. È lì, oltre le grate, come promessa e orizzonte. E allora “Portami là fuori” non è stato solo il titolo di una serata ma il desiderio profondo di chi sogna una seconda possibilità. Le conseguenze dell’amore quando il carcere viene negato di Mirella Serri La Stampa, 22 giugno 2025 “Una parola che mi viene spesso in mente è brutalità. È strano come già così giovane mi sentissi brutalizzato dagli eventi della mia vita e dalla loro natura, e come l’incarcerazione fu il colpo di grazia, il fendente che mi decapitò. Alla fine, in qualche modo, qualcuno o qualcosa di me, o in me, morì davvero”. Oggi però, per fortuna, è più vivo che mai l’ex detenuto Gianluca che ha impresso una svolta importante alla sua esistenza dopo aver trascorso parte della vita dietro le sbarre. Ora è diventato protagonista del bel libro di Donatella Stasio “L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere” (Castelvecchi), curato da Daniela Padoan. La scrittrice e giornalista, autrice con Giuliano Amato di Storie di diritti e democrazia. La carta costituzionale nella società, ha identificato nell’ex ragazzino di Quarto Oggiaro, “spaccino” già a 15 anni, il Virgilio che l’ha guidata nell’inferno carcerario. Stasio, ex portavoce della Corte costituzionale, è animata da una forte passione civile e questa sua inchiesta nel mondo dei detenuti è la drammatica denuncia di un’Italia in cui i diritti non vengono rispettati. La storica sentenza n. 10 del 2024 della Corte costituzionale ha riconosciuto alle persone recluse il diritto di amare e ha interrotto una catena di pregiudizi sulla sessualità e l’affettività in carcere cere. Ma stenta a essere applicata. Dopo la sua emanazione vi è stato l’ostruzionismo del governo che, attraverso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), ha intimato lo stop ai direttori che volevano attuarla subito. Il governo si è trincerato dietro alle commissioni di studio e ai lunghi tempi per controlli come i pareri delle procure antimafia. Il 18 aprile 2025 c’è stato il primo colloquio intimo auto-rizzato dal magistrato di sorveglianza nel carcere di Terni. La strada è ancora tutta in salita: eppure qual-cosa nell’immobilismo carcerario si sta muovendo. L’esperienza di Gianluca, raccontata da Donatella Stasio, dimostra quanto il sistema incida profonda-mente sulla vita dei detenuti con una sofferenza che si protrae anche dopo l’esaurimento della pena, proprio per via dell’assenza di affettività e di condizioni vivibili in cella. Gianluca, contrariamente a tanti ex carcerati, è “uno che ce l’ha fatta”. Ha rotto i ponti con il passato delinquenziale e ha saputo costruirsi un futuro diverso e una vita normale. Legge libri di filosofia e di psicologia, il suo autore preferito è Garcia Màrquez, è istruttore di pilates, massoterapista e osteopata. Eppure le privazioni e l’isolamento di cui ha sofferto dietro le sbarre sono stigmate, piaghe sulla carne viva che non si cancellano. Così ancora oggi, per esempio, Gianluca non sopporta le porte e al loro posto mette tapparelle e tendine, non può convivere con nessuno, nemmeno con la compagna e con la figlia che adora. Non riesce ad avere relazioni affettive. Eppure a salvarlo è stata per certi versi proprio la detenzione, però solo quando è diventata veramente riabilitativa. Alle medie Gianluca era un ragazzino tranquillo, molto silenzioso, forse troppo. Aveva perso il padre morto di tumore quando aveva sei anni. L’unico suo punto di riferimento, in una situazione di grande indigenza, fu sua madre. Quando gli offrirono 700mila lire per custodire confezioni di droga gli apparve di vivere in un sogno, a Milano circolavano in abbondanza ketamina e crack. Quando fu arrestato il giovane era un criminale e un drogato e passò da San Vittore a Fossombrone, nelle Marche. In quelle celle sporche, senza bagni, superaffollate, di relazioni affettive nemmeno se ne parlava. “Mai mi sentii così abbandonato e solo in tutta la mia vita. Un carcere tremendamente silenzioso. Due ore d’aria al giorno. Nessuna attività ricreativa”. Poi però gli venne offerto di andare a Bollate, uno dei penitenziari più grandi d’Europa, edificato a dicembre del 2000, con circa mille posti, dedicato al “trattamento avanzato” dei detenuti, con spazi comuni, recite a teatro, partite di calcio, corsi di studio per conseguire una specializzazione. Fu dunque il carcere, veramente rieducativo e vivibile, a salvarlo. Gli operatori scriveranno che Gianluca finalmente aveva cominciato “a comunicare quelle emozioni che per molto tempo ha represso avendone paura”. Le vicissitudini subite da Gianluca sono per Stasio un paradigma del potere che si esercita non solo attraverso le carceri. “In gabbia”, come denunciano da decenni i militanti radicali, vengono tenute tante libertà. Anche quelle riconosciute dalla Corte costituzionale, osserva Stasio, che vanno dal diritto al suicidio assistito, ai diritti dei figli di coppie omogenitoriali di essere riconosciuti da entrambi i genitori che li hanno voluti e cresciuti. Il potere insomma è pervasivo e crudele non solo dietro le sbarre. Come diceva Voltaire, “la civiltà di un paese si misura dalle sue carceri” e, dunque, la nostra civiltà appare con un respiro debole e un perimetro assai limitato. “Centomila contro il riarmo” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 22 giugno 2025 Un fiume di gente a Roma, da Porta San Paolo al Colosseo: “Sappiamo che le bombe seminano morte al fronte e impoveriscono tutti”. Il giorno più lungo dell’anno è quello del ritorno dei pacifisti. Diverse culture, tanti linguaggi, provenienze differenti si intrecciano, da ogni parte d’Italia e dalle storie disparate. L’insolita, recente, abitudine di far partire i cortei esattamente all’ora della convocazione viene ribadita quando si capisce che c’è troppa gente, non si può restare fermi nella calca sotto il sole cocente di Porta San Paolo. Dunque, alle 14 in punto il fiume di gente si muove lungo l’Aventino verso il Colosseo. È già in questo momento che i promotori capiscono che possono parlare di almeno centomila persone in piazza. Le notizie che arrivano dal mondo fuori, dalla Palestina e dagli altri fronti della guerra a pezzi che spaventa il mondo, da ormai troppo tempo seminano il terrore. “Forse qui morire è l’unico modo di rimanere umani” dicono dal camion citando le tragiche testimonianze che arrivano da Gaza. La reazione delle migliaia di persone che compongono il corteo, per contrasto e tigna diremmo, è di gioia. La felicità di ritrovarsi, nonostante tutto, e di poter lanciare una voce di umanità che non sia soltanto la morte. E che provi a coltivare la speranza. Michela Paschetto, infermiera di Emergency di ritorno da Gaza racconta al manifesto la situazione difficile: “Abbiamo due cliniche che si occupano di medicina di base, pediatria, salute materna, stabilizzazione dei pazienti più gravi. La situazione sta peggiorando. Aumentano i pazienti malnutriti, soprattutto i bambini. Comincia a vedersi anche tra le persone adulte e anche tra le donne incinte, perché il cibo veramente scarseggia”. C’è il sindacato, che traccia senza troppi giri di parole il nesso tra regime di guerra e condizioni di lavoro. “Lì si muore e qui ci si impoverisce, per questo dobbiamo ribellarci” sintetizza Francesca Re David, segretaria confederale della Cgil. Lungo il corteo si riconosce il volto di Michele De Palma, segretario Fiom ancora impegnato dalla riduzione a questione di ordine pubblico dello sciopero dei metalmeccanici per il contratto del giorno precedente. “Non ci faremo intimidire, abbiamo riconosciuto da subito la minaccia al dissenso come parte della torsione autoritaria della guerra”, dicono i suoi. Ci sono i Cobas e le Clap, i collettivi studenteschi e le reti pacifiste, mentre Usb con Potere al popolo si muove da piazza Vittorio fino ai Fori imperiali, anche sulla scorta dello sciopero generale del sindacato di base. Chi prova a ricostruire un filo, tra sindacalismo e lotta alla guerra, oltre le sigle, le trappole geopolitiche e le frontiere nazionali, sono quelli della rete Reset: distribuiscono un volantone di quattro pagine che serve a lanciare l’idea di uno sciopero europeo e sociale contro la guerra. “È sempre più urgente aprire uno spazio di organizzazione in grado di connettere chi oggi lotta contro il razzismo, il sessismo, la devastazione ambientale, la precarietà - affermano - Uno spazio in grado di fare del piano transnazionale ed europeo un piano di contesa e di scontro che, al rifiuto dell’Europa del riarmo, non contrapponga la dimensione nazionale coi suoi confini, ma un piano di convergenza delle lotte tra chi si sta opponendo alla guerra a livello europeo e transnazionale”. Gianfranco Pagliarulo fa una prima valutazione, in diretta: “È una bella piazza, unita - commenta il presidente Anpi - Adesso dobbiamo renderla ancora più unita. Nessuno dimentichi Gaza, oggi oscurata dai media e pensiamo al futuro: una grande conferenza di pace per il Medio oriente che faccia nascere finalmente la Stato di Palestina, nella sicurezza dei palestinesi e degli israeliani”. Walter Massa, presidente nazionale dell’Arci, ha creduto fin dall’inizio in questa mobilitazione e all’idea che si dovesse muovere insieme alle lotte nel reso dei paesi dell’Unione europea: “Rifiutiamo l’idea che per dirimere i conflitti si debba passare per le armi”. Poi manda un messaggio a chi, nel centrosinistra, ha votato per il Piano Von der Leyen: “Il riarmo, sostenuto anche da settori di opposizione, non rappresenta alcuna forma di autodeterminazione - afferma Massa - È una trappola: non vogliono costruire l’Europa ma tornare all’Europa delle nazioni, come nei momenti più bui della storia. Intanto aumenta la repressione contro il dissenso e le dichiarazioni sulle priorità dell’ordine. Per fermare tutto questo abbiamo bisogno di un fronte largo, conflittuale e convergente”. Ecco, le opposizioni parlamentari che dicono? Dal Partito democratico, come previsto, compaiono presenze singole. Ci sono i parlamentari europei eletti nelle liste dem Cecilia Strada e Marco Tarquinio, lo schleiniano Sandro Ruotolo coi deputati Arturo Scotto e Paolo Ciani di Demos. Scotto sottolinea: “Siamo qui per interloquire anche con chi ha posizioni diverse”. Il che dimostra “quanti passi avanti ha fatto il Pd di Schlein”. Conte sbuca verso le 15 dalla Piramide Cestia. In altri tempi ci si sarebbe aspettati che avrebbe approfittato della finestra del corteo per fare le sue dichiarazioni alla stampa per poi abbandonare la piazza, invece il leader M5S si fa tutto il corteo in coda, insieme alla delegazione dei suoi, scortato tra gli altri da Riccardo Ricciardi e Francesco Silvestri. Dietro di lui, cosa inedita, uno spezzone unitario composto dalle organizzazioni giovanili dei partiti a sinistra del Pd: il Network giovani dei 5 Stelle, i giovani comunisti di Rifondazione, quelli di Sinistra italiana e dei verdi. “C’è un popolo, la stragrande maggioranza, che dice che questa corsa al riarmo è folle, ed è folle contribuire alla escalation militare” dice Conte che evita di polemizzare con il Pd. “La guerra porta con sé l’economia di guerra - aggiunge Nicola Fratoianni - E insieme alla vita di chi sta sotto le bombe cancella la possibilità di costruire più diritti sociali ambientali e di libertà. Per questo diciamo no al riarmo e alla guerra, costruendo la massima convergenza e unità”. Ecco perché è utile e necessario creare il Ministero della Pace di Stefano Zamagni Avvenire, 22 giugno 2025 Martedì a Roma il convegno dedicato all’istituzione del Ministero, organizzato da Papa Giovanni XXIII, Azione Cattolica e Acli con 15 enti della società civile. Martedì a Roma avrà luogo il convegno - primo del genere - dedicato all’istituzione nel nostro paese del Ministero della Pace. Organizzato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, dall’Azione Cattolica e dalle Acli, in collaborazione con quindici enti nazionali della società civile in rappresentanza di centinaia di migliaia di cittadini, il fine dichiarato è quello di articolare un progetto volto a dare vita a un’Istituzione pubblica che, in seguito alla soppressione nell’immediato dopoguerra del Ministero della Guerra, avrebbe dovuto vedere la luce. “Gli uomini hanno sempre organizzato la guerra; è ora di organizzare la pace” - era solito ripetere don Oreste Benzi (di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita) già negli anni ‘70 del secolo scorso (Chi scrive ne dà personale testimonianza). Si presti attenzione all’espressione usata: “È ora di organizzare la pace”, non semplicemente invocarla o urlarla. Non vi è bisogno di essere esperti di scienza dell’organizzazione per comprenderne il significato proprio. L’art. 52 della Carta Costituzionale recita: “La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”, ma questo non implica affatto che la difesa debba essere esercitata con le armi. Ben altri e di gran lunga più efficaci sono gli strumenti che - come dirò - si possono usare per la bisogna. Ebbene, il Ministero per la Pace svetta tra questi. In una recente dichiarazione, l’arcivescovo emerito di Seattle Raymond Hunthausen ha affermato: “Le armi nucleari proteggono i privilegi e lo sfruttamento. Rinunciare a esse significherebbe abbandonare il nostro [dell’Occidente] potere economico sugli altri popoli. Pace e giustizia procedono assieme. Sulla strada che seguiamo attualmente, la nostra politica economica verso altri paesi ha bisogno delle armi atomiche. Abbandonare queste armi significherebbe abbandonare il nostro posto privilegiato in questo mondo”. Non penso vi sia bisogno di commento alcuno, tanto chiare e coraggiose sono queste parole che ci obbligano a riflettere su una cruda novità di questa epoca: la privatizzazione della guerra. Quali i compiti specifici che un Ministero della Pace - che non escluderebbe, si badi, il Ministero della Difesa - sarebbe in grado di assolvere? Ne indico solamente tre, per ragioni di spazio. Primo, portare al centro dell’indirizzo politico-governativo e del dibattito parlamentare la questione della pace in modo non episodico come oggi avviene, ma in modo organico e permanente. Non bastano, infatti, le politiche per la pace; sono necessarie soprattutto le politiche di pace. Inoltre, un Ministero della Pace - pur senza portafoglio - potrebbe coordinare le deleghe e i progetti oggi frazionati tra tanti ministeri in aree quali la cooperazione internazionale, il dialogo multilaterale, la promozione dei diritti umani. Solo così si potrà essere efficaci quando ci si siede ai tanti tavoli internazionali. Fare il bene è bene, ma volere fare il bene è meglio - quanto a dire che il bene va fatto bene! Un secondo compito è quello di diffondere ad ampie mani la cultura della pace e di preparare progetti specifici di educazione alla pace. Per quale ragione in Italia si continua a insegnare e far studiare ai frequentanti di vari ordini di scuola testi che parlano in prevalenza di guerre e pochissimo di pace? Oggi sappiamo, perché ce lo confermano le neuroscienze, che un tale martellamento modifica in profondità le mappe cognitive dei giovani, riducendone le disposizioni ai comportamenti virtuosi. Vi sono nel nostro paese 40.321 scuole. Solamente in poco più di 700 si realizzano attività mirate a educare alla pace, grazie alla saggezza e alla generosità di insegnanti che hanno finalmente compreso che compito della scuola è, in primis, educare e in secundis istruire. Discorso analogo vale per l’Università. Nel 2020 è nata, per iniziativa della Conferenza dei Rettori, la Rete delle Università italiane per la Pace, cui aderiscono 73 Università. A tutt’oggi, un solo dottorato di ricerca in Peace Studies è stato attivato! (Osservo, con piacere, che tra i soggetti organizzatori dell’evento del prossimo 24 giugno c’è l’Università di Padova). Un ulteriore compito di straordinaria rilevanza per un Ministero della Pace è quello di fungere da supporto alla mediazione di pace e alla “diplomazia ibrida”, cioè all’azione sinergica tra istituzioni pubbliche e organizzazioni della società civile. È questa carenza di supporto a non consentire al nostro paese di valorizzare tutto il suo potenziale - che è tanto - per il peacebuilding. Si consideri che l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo non ha un’unità specificamente dedicata al peacebuilding, il che spiega, in parte, perché ancora subottimale sia il numero degli enti di Terzo Settore che si occupano di mediazione di pace. La pace non è un obiettivo irraggiungibile, perché la guerra non è un dato di natura - come ancora una nutrita schiera di intellettuali ritiene vero, pur non avendo il coraggio di dichiararlo pubblicamente. Piuttosto, la guerra è un frutto marcio di tutti coloro che la vogliono, per specularci sopra. Nel suo celebre saggio del 2000, Norberto Bobbio ha scritto che “qualche volta è accaduto che un granello di sabbia, sollevato dal vento, abbia fermato una macchina”. È proprio così: un Ministero della Pace sarebbe, nelle presenti condizioni, un tale granello che il vento dell’iniziativa del 24 giugno andrà a sollevare molto in alto. Il Tso e i diritti delle persone: perché la Consulta dice no di Anita Fallani Il Domani, 22 giugno 2025 La Corte Costituzionale il 30 maggio ha emesso una sentenza, la numero 76, che conferma un presentimento molto diffuso tra chi ogni giorno si occupa di salute mentale: il trattamento sanitario obbligatorio (TSO) è parzialmente incostituzionale. Il TSO è un provvedimento sanitario eccezionale istituito per la prima volta 47 anni fa con la legge conosciuta ai più come Legge Basaglia (anche se è fuorviante chiamarla così perché la legge porta la firma del democristiano Bruno Orsini e perché, in realtà, Basaglia con l’istituzione del TSO non era d’accordo). Si tratta di un provvedimento molto controverso, convalidare un TSO significa limitare le libertà civili di una persona e sospenderla dall’esercizio delle sue facoltà, motivo per cui per predisporlo entrano in gioco a garanzia della persona diverse figure della società civile. Servono la richiesta di due medici, la firma del sindaco della città e la convalida di un giudice tutelare per avviare quello che è in tutto e per tutto un ricovero psichiatrico coatto. Chi lo subisce, per sette giorni non può scegliere se e come curarsi. La Corte Costituzionale, adesso, ha stabilito che in tre passaggi l’iter predisposto dalla legge per l’attivazione della procedura del TSO è incostituzionale: in quelle tre fasi procedurali non viene garantito il diritto di difesa della persona a cui viene sottoposto il TSO. In pratica, il percorso burocratico adottato finora non garantisce al cittadino o alla cittadina di essere, da una parte, messo a conoscenza del provvedimento restrittivo della libertà personale che lo riguarda e, dall’altra, di partecipare al procedimento di convalida. La mancanza di queste garanzie giudicate dalla Corte incostituzionale avvengono in tre momenti precisi e per ripristinare i diritti costituzionali dei cittadini la Corte ha disposto che il provvedimento sanitario firmato dal sindaco venga comunicato alla persona sottoposta al trattamento, che quella persona venga sentita dal giudice tutelare prima che il giudice firmi la convalida e che, una volta convalidato, il TSO venga notificato al diretto interessato. Fino ad adesso e per 47 anni una persona a cui veniva notificato un TSO non poteva né saperlo né tantomeno difendersi. Gli ultimi dati disponibili sul numero di TSO effettuati nel nostro paese si riferiscono al 2023, in quell’anno ne sono stati firmati quasi 5.000. In realtà, però, per stessa ammissione della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica, si tratta di dati sottostimati perché “accade che un trattamento sanitario obbligatorio venga rinnovato in trattamento sanitario volontario (TSV) con la minaccia da parte del personale sanitario di procedere con nuovo TSO. Così, le persone si trovano a “dover accettare un ricovero volontario per paura di uno obbligatorio” ha spiegato a Domani uno dei militanti del Collettivo antipsichiatrico Antonin Artaut che da anni tiene aperto uno sportello di ascolto dedicato alle persone che vogliono denunciare un abuso nei reparti o da parte del personale. Anche le relazioni pubblicate dal Senato sull’argomento concordano, sono consapevoli che molti TSV devono essere letti come dei TSO e che i dati registrati non contano altre modalità di ricovero coatto disposte dalle autorità giudiziarie. “La sentenza numero 76 della Corte Costituzionale per chi come noi denuncia da anni la pratica del TSO e l’uso che se ne fa è arrivata in maniera inaspettata. Devo dire che ci ha sorpreso il tempismo ma non il contenuto” ha riferito il collettivo. “Come tutte le sentenze, anche questa parte da un caso vero. Sappiamo che tutto è iniziato quando qualche anno fa a una signora di Caltanissetta è stato convalidato un TSO perché avrebbe manifestato idee suicidarie. In realtà, come ha spiegato davanti ai giudici, lo avrebbe fatto solo per attirare su di sé l’attenzione delle figlie. Non aveva alcuna patologia psichiatrica, stava vivendo un momento di forte scoramento. Ha sempre detto che era in pieno delle sue facoltà e che se qualcuno l’avesse ascoltata avrebbe trovato con il personale una soluzione diversa, cosa che tra l’altro la legge obbliga a fare perché lo psichiatra deve assicurarsi che la persona in questione si trova in una situazione di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici. Ma non solo: deve verificare che quegli interventi proposti vengano rifiutati e che non è praticabile nessun altra soluzione extra ospedaliera tempestiva e idonea” ha spiegato l’avvocato Sarah Trovato del Collettivo Artaut. “Invece lei ha scoperto tutto a cose già fatte, ha avuto notizia che le era stato imposto un trattamento sanitario obbligatorio solo una volta ottenuta l’ultima firma necessaria per l’avvio, quella del giudice tutelare. Ha deciso di impugnare il suo TSO consapevole che si sarebbe comunque dovuta sottoporre alle cure obbligatorie per 7 giorni dato che è un provvedimento emergenziale e, quindi, con avvio immediato. Il punto è proprio questo: come ha detto la Corte Costituzionale, una persona non può difendersi se qualcuno decide di avviare il procedimento. Lo si può impugnare solo dopo, a cose già fatte” ha riferito l’avvocato Trovato. La signora ha comunque deciso di rivolgersi alla giustizia rilevando di non essere stata avvisata del provvedimento. “Le hanno dato torto in primo e in secondo grado, poi la Cassazione analizzando il caso ha sollevato la questione di legittimità costituzionale a settembre del 2024 ed ecco che si arriva alla sentenza delle Corte, una sentenza che non sarebbe mai arrivata se non ci fosse stata la denuncia. È così che funziona, si pronuncia perché qualcuno solleva la questione di incostituzionalità di una norma” ha detto l’avvocato. “Adesso bisogna capire come verrà declinato nel concreto quanto richiesto dalla Corte. Sono tre i momenti in cui viene chiesto di intervenire per garantire il diritto alla difesa e alla partecipazione. Non ci preoccupano tanto i due momenti in cui è prevista l’introduzione della notifica alla persona, quanto quello in cui è previsto che il giudice tutelare ascolti la persona. Se andiamo a leggere la sentenza, c’è scritto chiaramente che l’incontro tra i due (il giudice e il cittadino) deve svolgersi nel luogo in cui la persona si trova che, dice la Corte, è quasi sempre un reparto del servizio psichiatrico di diagnosi e cura. La nostra paura è che questo incontro avvenga in un luogo virtuale cioè con una videochiamata e con la persona già sotto farmaci e, quindi, compromessa” ha concluso. Migranti. Il labirinto kafkiano dei Cpr, dove il diritto alla difesa non c’è più di Sofia Soldà Il Domani, 22 giugno 2025 Gli avvocati denunciano ostacoli sistemici: trasferimenti improvvisi, difficoltà di contatto, mancanza di regole precise. E i nuovi Centri in Albania peggiorano una situazione già critica sul territorio italiano. Giovanni Papotti è un avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione. Segue diversi casi di persone trattenute nel Cpr di Torino, città in cui vive. A maggio, alcuni dei suoi assistiti sono stati trasferiti improvvisamente in Albania. Tra ritardi burocratici, telefonate intermittenti e una procedura opaca, per Papotti, “il sistema è costruito per far perdere gli avvocati”. Per i trattenuti nei dieci Centri di permanenza per i rimpatri in Italia, e ora anche nei centri albanesi di Gjadër e Shëngjin, l’assistenza legale è sancita dalla legge n° 14 del 21 febbraio 2024. Secondo le testimonianze di alcuni avvocati, il diritto alla difesa è spesso solo formale. L’iter - Quando una persona viene trattenuta in un Cpr, la questura emette un provvedimento di trattenimento, che viene valutato in udienza. Se il soggetto non ha un proprio avvocato, ne riceve uno d’ufficio scelto dalle liste penali. Questi avvocati, pur preparati nel diritto penale, a volte non hanno esperienza specifica nel diritto dell’immigrazione, e di Cpr in particolare. Quando un avvocato prende in carico un caso, specialmente se subentra in un secondo momento, non riceve automaticamente i documenti necessari. Deve recuperarli attraverso molteplici richieste di accesso agli atti in varie sedi per ricostruire un quadro completo della situazione. Comunicare con l’esterno - L’accesso al telefono spesso determina il successo, o l’insuccesso della difesa. Poter comunicare con l’esterno permette a chi è trattenuto nei centri di conversare con i propri affetti, oltre che con il proprio avvocato. Ma, come spiega Eleonora Celoria, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, non ci sono regole chiare al riguardo. I Cpr non hanno indicazioni che disciplini la comunicazione con l’esterno, a differenza delle carceri italiane. Accade quindi che, a seconda del centro, l’accesso al telefono venga permesso o negato, ritirandolo o proibendo l’uso di fotocamera o applicazioni come WhatsApp. Rispetto al sistema carcerario italiano, non è previsto, per la difesa, un supporto di mediazione culturale o linguistica. Queste regole arbitrarie rendono difficile costruire un rapporto di fiducia tra avvocato e assistito, e raccogliere informazioni e documenti cruciali. I Cpr albanesi - L’apertura dei centri di Gjadër e Shëngjin, in Albania, aggrava alcune delle difficoltà già esistenti. I trasferimenti, così come i rimpatri, avvengono nel silenzio, senza che nemmeno gli avvocati ne siano notificati. Dopo giorni senza notizie, “devi aspettare che la persona, magari dal paese d’origine, ti chiami e ti dica “Mi hanno rimpatriato”, racconta Papotti. Nel diritto penale si conoscono invece le date di fine pena, e gli avvocati ricevono gli ordini di scarcerazione. Anche se nei centri albanesi le comunicazioni telefoniche sembrano più frequenti che in alcuni Cpr italiani (come è ad esempio il caso per quelli di Caltanissetta o Potenza), la distanza geografica ostacola un’assistenza efficace. La legge 14/2024 prevede la possibilità di rimborsare agli avvocati un unico viaggio da e per l’Albania, e solo nel caso sia impossibile collegarsi da remoto. Una logistica che impedisce quel contatto diretto che nei Cpr in Italia permette di parlare di persona con gli assistiti e ottenere materiale dalle amministrazioni. Così, molti avvocati come Papotti si ritrovano a difendere persone mai incontrate di persona. E la distanza facilita abusi, errori burocratici e la circolazione di informazioni errate. Attesa e trasferimenti - Un assistito di Papotti, proveniente dal Gambia è entrato nel Cpr di Brindisi con una diagnosi medica di pluritossicodipendenza e Hiv. Nonostante documenti del 2018 ne riconoscessero la protezione umanitaria e l’intrattenibilità, da gennaio a maggio 2025 è stato trasferito a Brindisi, poi a Torino, Brindisi di nuovo, Gjadër, Bari e infine Livorno, dove a giugno è stato rilasciato. La domanda d’asilo è stata formalizzata solo dopo pressioni da remoto, mentre il gestore del Cpr albanese forniva informazioni distorte, senza che Papotti potesse intervenire di persona. Durante la permanenza a Bari, è stato dichiarato idoneo alla detenzione, durata quattro mesi. Dal 2019, è stata introdotta la possibilità di presentare istanze relative alle condizioni nei Cpr al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, una figura indipendente non giudiziaria, che può fare segnalazioni sulle condizioni dei trattenuti. Nel 2024, il Garante ha redatto tre rapporti, dopo aver visitato i centri di Roma, Trapani e Caltanissetta. Queste figure, spiega Celoria, sono importanti per portare alla luce delle situazioni di criticità in rapporti pubblici, ma non hanno gli strumenti giuridici per obbligare prefetture e questure a cambiare. I trattenuti vivono quindi una situazione di totale incertezza, isolati da chi è incaricato di difenderli e senza informazioni certe relative alla loro permanenza nei Cpr. A differenza del carcere, nei quali i detenuti conoscono la durata della pena e possono prendere parte ad attività, nei Cpr i trattenuti possono solo attendere “nel terrore di essere rimpatriati da un giorno all’altro”, spiega Papotti. L’assenza di norme chiare che determinino con precisione le modalità del trattenimento fa sì che il diritto alla difesa dipenda da contingenze legate al Cpr di riferimento. Aspetti che secondo Celoria, “rendono quel diritto senza consistenza”. In Mauritania campagna anti-migranti con la benedizione (e i soldi) dell’Europa di Nadia Addezio Il Manifesto, 22 giugno 2025 Violenze e arresti. La stretta effetto diretto del partenariato firmato nel 2024. La denuncia dei legali e delle associazioni: “Respingimenti puramente politici, sostenuti dalle politiche dell’Ue in materia di migrazione”. In Mauritania sono in atto delle campagne di arresto ed espulsione di persone migranti e residenti straniere verso la città di frontiera Rosso (Senegal) e il Mali. Secondo Fatimata M’baye, avvocata e presidente dell’Associazione mauritana per i diritti umani, il clima di caccia al migrante ben si lega al partenariato migratorio stretto a marzo 2024 dal paese dell’Africa occidentale con l’Unione europea. La Spagna si era fortemente spesa per promuoverne l’adozione, al fine di ridurre i flussi migratori in arrivo alle Isole Canarie attraverso la rotta atlantica. “Prima, anche se una persona era arrestata e portata alla stazione di polizia, veniva rilasciata. Oggi, invece, è trasferita direttamente nei centri di detenzione e poi accompagnata alla frontiera”, spiega al manifesto M’baye, prima donna divenuta avvocata in Mauritania. Nei centri di detenzione, i trattenuti lamentano carenze alimentari, condizioni igieniche precarie, maltrattamenti e violazioni dei diritti umani. A tutto questo si sommano i raid delle autorità mauritane che irrompono nelle abitazioni in piena notte, violando i regolamenti statali sulle perquisizioni di domicilio. Molti degli arrestati risiedono da anni in Mauritania e sono considerati irregolari perché privi di un permesso di soggiorno valido. “Un sans-papiers è una persona che non possiede alcun documento di riconoscimento. Ebbene, tutte le persone entrate in Mauritania hanno una carta d’identità, un passaporto, un laissez-passer, una carta consolare. Il rinnovo del permesso di soggiorno non dipende da loro, ma dipende dallo Stato”, afferma M’baye. L’avvocata segnala, infatti, che da un anno e mezzo i centri di registrazione per il permesso di soggiorno sono chiusi. Fino a pochi mesi fa, il permesso di soggiorno era valido solo per un anno e la richiesta prevedeva il pagamento di una tassa sproporzionata di 3.000 ouguiya, circa 75 euro. Il governo mauritano ha approvato una misura a fine 2024 che ne estende la validità da 1 a 5 anni, ma la preoccupazione diffusa è che il costo diventi ancora più proibitivo. Tra ostacoli e ritardi burocratici, circa 123mila persone risultano oggi in stato di irregolarità, secondo il ministro della cultura mauritano, Hussein Ould Meddou. Come gli afromauritani e i mauritani haratin che sono talvolta trattati come stranieri nel proprio paese poiché sprovvisti di carta d’identità biometrica. Tale contesto ha facilitato la campagna di espulsione che Nouakchott sta portando avanti da febbraio. “In cambio, c’è una ricompensa economica. Il respingimento e l’espulsione dei migranti africani in Mauritania sono puramente politici e sono sostenuti dalle politiche europee in materia di migrazione”, dichiara Ousmane Diarra, presidente e fondatore dell’Associazione maliana degli espulsi (Ame). In effetti, con il partenariato migratorio e i suoi 210 milioni di euro, l’Ue s’impegna - almeno ufficialmente - a supportare la creazione di posti di lavoro e l’accoglienza dei rifugiati in Mauritania; a promuovere la migrazione legale e prevenire quella irregolare. Infine, a rafforzare la gestione delle frontiere con il potenziamento della cooperazione con Frontex. Intanto Diarra ricorda di aver accolto nella città maliana di Gogui, al confine con la Mauritania, persone che sono state vittime di “un respingimento disumano”. Accuse che il governo mauritano ha negato. Gli stessi respingimenti avvengono a Rosso (Senegal), dove centinaia di cittadini guineani, ivoriani, maliani, gambiani sono bloccati in attesa di un volo di “rimpatrio volontario”. Raccontano di essere stati picchiati, portati nei centri di detenzione, requisiti dei loro beni e deportati arbitrariamente nella città di frontiera. Sul punto, InfoMigrants riporta che, da gennaio a maggio, l’OIM ha gestito il “rimpatrio volontario” di 322 persone, rispetto ai 150 nello stesso periodo nel 2024. Questi dati s’intrecciano con quelli diffusi da Frontex che evidenziano una diminuzione di un terzo degli attraversamenti della rotta atlantica: 11.100 nei primi cinque mesi del 2025. Secondo l’Agenzia europea, il calo sarebbe da attribuire a diversi fattori, come le politiche migratorie più severe della Mauritania e la maggiore cooperazione con l’Ue. “Eppure questa guerra e insicurezza diffuse che spingono a partire non vengono dall’Africa, ma dall’esterno. E le stesse persone che le hanno portate sono quelle che finanziano le espulsioni dei giovani africani”, denuncia Diory Traoré, attivista maliana dell’Associazione per la difesa degli immigrati maliani. La guerra sospesa nell’interregno di Ezio Mauro La Repubblica, 22 giugno 2025 Ogni giorno di più ci stiamo inoltrando in un tempo indecifrabile, che ha cancellato tutti i punti di riferimento con cui riuscivamo a orientarci nel lungo dopoguerra di pace ormai alle nostre spalle, per consegnarci alla stagione dell’incertezza, vera cifra dell’epoca. Lo conferma l’ultima invenzione di Trump: la guerra sospesa. Il presidente americano ha aumentato la presenza di caccia, bombardieri e missili in Medioriente, ha riunito i consiglieri per la sicurezza nella situation room, ha approvato i piani di attacco all’Iran ma non ha ancora dato il via libera all’offensiva, riservandosi di decidere nell’arco di 15 giorni. In pratica, la guerra è dichiarata ma differita, in attesa che Teheran davanti alla minaccia dell’intervento americano decida di alzare la bandiera bianca della resa senza condizioni, con la distruzione del programma nucleare. L’Iran deve scegliere il suo destino, e in fretta, perché Trump può dare in qualsiasi momento l’ordine di colpire i bunker scavati nelle caverne con la bomba Mop, la Massive ordinance penetrator. Dall’altra parte dell’ultimatum, l’America ha due settimane di tempo per capire se la promessa di pace isolazionista della campagna elettorale sarà mantenuta oppure se il Paese ritornerà in guerra sulla scia di Israele, con l’incubo dell’Afghanistan davanti agli occhi. Nessuno può dirlo: la spoliazione istituzionale progressiva in corso, che cancella ogni vincolo di alleanza, ogni obbligo di obbedienza a regole ormai rifiutate, ogni sopravvivenza di arbitrato sovranazionale, ha messo il rischio che la crisi fuoriesca dai confini regionali nelle mani di due soli uomini, la Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei e il presidente americano Donald Trump, in un testa-coda di cui Benjamin Netanyahu è l’innesco, mentre noi europei siamo spettatori paganti: e non conosciamo il prezzo. La verità è che per la prima volta sperimentiamo in concreto cosa vuol dire vivere nello spazio di mezzo tra il vecchio ordine frantumato e il nuovo disordine che si sta organizzando a colpi di forza, con la logica del fatto compiuto e l’unico obiettivo di soddisfare interessi nazionali particolari, fuori da ogni disegno comune, da ogni codice di regole condivise, da ogni richiamo a un criterio di moralità politica. È il mondo di oggi, in bilico tra il non più e il non ancora, che assiste senza nemmeno discuterne alla distruzione di un ordinamento capace di disciplinare in un lungo patto di compatibilità sistemi di natura diversa, senza omogeneità politica e affinità ideologica, ma insieme garanti e garantiti da un meccanismo di coesistenza regolata, erede dello spirito di Jalta adattato a tutti gli sviluppi della guerra fredda. Il vecchio ordine era basato sul primato del diritto internazionale, sul riconoscimento dei confini, sulla mediazione multilaterale dei conflitti, sul ruolo delle istituzioni internazionali e sovranazionali, l’Onu, il Fmi, il Wto. Le regole del gioco controllavano la forza, perché erano sovraordinate: derivavano dalla cultura giuridica e democratica dell’Occidente - il vero nucleo di una egemonia oggi dissolta - ma consentivano la partecipazione anche di regimi autoritari che in quella cornice post-ideologica riconoscevano l’opportunità e la necessità del quadro di riferimento. Il canone occidentale esteso al mondo viveva di regole liberali senza chiamarle così, in mancanza di valori comuni poggiava sulla paura condivisa e quindi sulla deterrenza, e coltivava due illusioni, il primato economico del mercato universale e il potere espansivo della democrazia, nella convinzione che insieme avrebbero regolato le trasformazioni di un mondo infine globale, promuovendo un’evoluzione verso forme di liberalizzazione politica anche dei regimi autoritari, contagiati dalla globalizzazione del commercio. Se non è finita la storia, è certamente tramontata quella storia. La Cina contesta la supremazia del canone occidentale in nome di una cultura concorrente che è già diventata potenza, prima economica e quindi tecnologica. La Russia è fuoriuscita dal vecchio ordine denunciando la sua unilateralità, e ha diviso il mondo in due attaccando la democrazia liberale, cuore e motore dell’Occidente. Intanto la forza cominciava a spodestare il diritto come strumento di legittimazione delle scelte politiche: la guerra in Georgia del 2008, l’annessione della Crimea nel 2014 e l’invasione dell’Ucraina del 2022 sono le prime tappe, mentre il terrorismo di Hamas insanguina il 7 ottobre con il pogrom che produrrà la reazione di Israele, fino al massacro disumano di Gaza. Si rompe il consenso minimo universale per tradurre la globalizzazione in ordinamento, la ritirata americana dall’Afghanistan segna il tramonto di un’egemonia, il mondo è fuori controllo, i populismi di destra e di sinistra attaccano l’aristocrazia del vecchio ordine accusandola di aver confiscato la democrazia come bene-rifugio esclusivo dell’élite. Soprattutto, viene meno la fiducia nella regola come limite della potenza e salvaguardia del principio democratico. Ecco il punto. È su questa erosione di un sistema istituzionale, politico, culturale e morale che si vuole costruire il mondo nuovo, di cui vediamo solo i trailer perché manca un’autorità riconosciuta con la legittimità del ri-fondatore: e gli attuali poteri, anche quelli neo-imperiali, sembrano impegnati soltanto a precostituirsi rendite di posizione. Ci muoviamo nel vuoto, tra due epoche. Un vuoto riempito solo dalla forza, svincolata da ogni norma, privata di qualsiasi teoria di legittimazione, ridotta a pura energia, libera non perché liberatrice ma perché sicura di un’impunità sistemica: se manca la regola infatti nulla è trasgressione, per qualsiasi arbitrio non serve giustificazione, nessun sovrano può impartire la punizione. I mezzi giustificano i fini, leader che denunciamo per le loro politiche possono risolvere problemi che ci sovrastano, usando metodi che noi condanniamo: rischiamo di non distinguere più il bene dal male, mentre accettiamo il vantaggio immorale che ci deriva dal loro intreccio, smarrendo il fondamento di ogni coscienza. Ci accorgiamo del nostro relativismo normativo, con i concetti di libertà e sovranità, di aggredito e aggressore che pesano o scoloriscono secondo le latitudini e le parti in causa. Sono i “fenomeni morbosi” che Gramsci vedeva crescere nell’interregno, questa terra di nessuno a cui non abbiamo ancora dato nemmeno un nome, ma che innalza già la bandiera della reazione. Vecchia e logora, da qualche parte c’è ancora la bandiera della democrazia, e merita di essere difesa. Il disorientamento giovanile di fronte alle guerre e le tante identità della pace di Enzo Risso Il Domani, 22 giugno 2025 La visione predominante è rappresentata dalla costruzione della pace attraverso il dialogo e l’educazione, forte è anche l’anima che lega la pace alla giustizia sociale: il rapporto dei più giovani con la pace è molto complesso. Il conflitto tra Israele e Iran, la strage perpetua e impunita a Gaza, la prepotenza annientatrice russa sull’Ucraina, ma anche la corsa al riarmo dei paesi europei e lo sviluppo di nuove armi e prodotti micidiali per accaparrarsi il dominio dei cieli, del mare e del cyber spazio sono l’emblema della follia distruttiva che aleggia nei tempi contemporanei. Il rombo delle armi ha da tempo surclassato le flebili voci del buon senso, della diplomazia, della concordia, per lasciare spazio al dominio, all’esposizione della propria potenza, alla supremazia sull’altro. Non c’è neanche più la classica foglia di fico dell’aggrapparsi a una flebile retorica per giustificare gli atti aggressivi: siamo di fronte al ritorno, in una piena logica di potenza, degli impulsi prevaricatori giustificati solo con la sfacciata volontà di ottenere quello che si vuole in quanto si ha il potere e la forza per imporlo. La dimensione della pace, in questo scenario, appare sempre più come una chimera, una vuota retorica, mentre le bombe, i caccia bombardieri, i droni, i missili, i carri armati mostrano la pesante realtà, la via della pacificazione imposta con la volontà di potenza. La strage permanente di civili ormai non smuove alcuna foglia nelle coscienze degli assalitori, non si parla neanche più pudicamente di inevitabili e deplorevoli effetti collaterali. Si uccide, distrugge e basta. Le sensibilità - Il concetto di pace negli ultimi decenni è stato poco rielaborato e, specie nelle giovani generazioni, riemerge dal passato e assume diverse sfaccettature e angolazioni. ? La visione predominante è rappresentata dalla costruzione della pace attraverso il dialogo e l’educazione. Il 35 per cento ritiene che “la vera pace può essere raggiunta solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca”, mentre il 31 per cento crede che “la pace può essere raggiunta solo attraverso l’educazione e la promozione dei diritti umani”. Un secondo filone è quello che vive la ?pace come processo intimistico. Un percorso che inizia dall’individuo e si estende alla società. Il 22 per cento afferma che “la pace inizia dentro di noi e si estende poi alle nostre comunità e al mondo”; mentre un altro 22 sostiene che “la pace è un processo attivo, personale, non solo l’assenza di conflitto”. Una terza anima che aleggia tra i giovani è quella della ?connessione pace-giustizia sociale. Il 24 per cento ritiene che “la vera pace possa esistere solo in una società senza disuguaglianze economiche”. Più flebile è, invece, la quota di giovani che colloca la pace lungo la via maestra del disarmo (19 per cento). Non mancano, tra le fila della Gen Z, gli scettici. Il 20 per cento, ad esempio, considera “la pace globale un’utopia irrealizzabile data la natura umana”. Nell’universo ? giovanile vi sono anche alcune visioni minoritarie. Il 12 per cento, ad esempio, ritiene che “la pace possa essere mantenuta solo sacrificando alcune libertà individuali”; un altro 12 per cento interpreta “la pace come il risultato naturale del libero commercio e della globalizzazione”. Infine, il 10 per cento crede che “la vera pace richieda il ritorno a stili di vita più semplici e in armonia con la natura. Disorientamento - La multipolarità delle posizioni presenti nella Generazione Z mostra non solo lo sconcerto e il disorientamento di una generazione di fronte alla necessità di rifare i conti con un argomento così grande e devastante come la guerra, ma anche quanto il tema, a differenza di altri fattori di tensione globale (come ad esempio l’ambiente), possa alimentare nuove prese di coscienza e processi di radicalizzazione politica. Le dinamiche attuali della propaganda armata e del giustificazionismo distruttivo ci ricordano, come sottolineato dal filosofo tedesco Jürgen Habermas, che la pace è un processo che deve essere costantemente rinnovato, non una condizione che, una volta raggiunta, può essere data per scontata. I conflitti in essere riportano in auge anche il grande monito del filosofo Bertrand Russell: o metteremo fine alla guerra, o la guerra metterà fine a noi.