Bernardini riprende lo sciopero della fame: “Sovraffollamento, serve subito una legge” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2025 È passata quasi già una settimana. La mezzanotte di domenica scorsa, il 15 giugno, ha sancito l’ennesima azione nonviolenta di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che ha ripreso lo sciopero della fame in segno di sfida al Parlamento: approvare prima della pausa estiva una legge seria per far calare il tasso di sovraffollamento nelle carceri. Perché di crisi si tratta, di un’emergenza che sommerge ogni torpore istituzionale. Il Garante Nazionale delle persone private della libertà parlava chiaro già il 30 maggio 2025: indice medio nazionale di affollamento al 134,9 per cento, con picchi che toccano e superano il 200 per cento in alcuni penitenziari. Su 189 istituti penitenziari, ben 157 (l’83 per cento) vedono un numero di detenuti oltre il consentito; in 63 casi (33 per cento) l’indice è pari o superiore al 150 per cento. Eppure, lo scudo legislativo invocato un anno fa non è servito. Il decreto- legge n. 92 del 4 luglio 2024 - convertito in legge l’8 agosto con il numero 112 - doveva tamponare la voragine. E la proposta di legge Roberto Giachetti/ Nessuno tocchi Caino - pensata per concedere una liberazione anticipata speciale - era stata sospesa in Aula con la scusa che il decreto avrebbe risolto tutto. Oggi sappiamo che non solo non ha risolto nulla, ma la voragine si è fatta più profonda. Al 30 giugno 2024 i detenuti erano 61.480, mentre il conteggio del 31 maggio 2025 sale a 62.761. I posti regolamentari, però, sono rimasti praticamente bloccati: 51.241 lo scorso anno, 51.296 quest’anno; e di questi ben 4.579 sono inagibili. Significa che giornate intere si susseguono fra celle gocciolanti, corridoi invasi e spazi comuni che diventano prigione anch’essi. Un sovraffollamento così marcato, unito alla carenza cronica di personale, genera condanne indirette: sistematici “trattamenti inumani e degradanti”, certificati almeno 5.000 volte l’anno dai giudici di sorveglianza. Sono tanti i detenuti risarciti per violazioni dell’articolo 35ter dell’Ordinamento penitenziario. Mancano all’appello 6.000 agenti secondo la pianta organica del ministro della Giustizia Nordio. Mancano anche educatori, direttori, assistenti sociali, mediatori culturali, magistrati di sorveglianza, personale amministrativo, medici - in particolare psichiatri -, infermieri, operatori sanitari. Nel 2024 abbiamo toccato il record di suicidi in cella; e oggi, mentre l’estate arroventa le piazze, registriamo già 37 vittime per mano propria e 81 decessi per altre cause. La proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale è ritornata a farsi sentire, grazie alla sponda del presidente del Senato Ignazio La Russa e del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli. Significa concedere a chi in carcere ha tenuto una condotta irreprensibile di tornare a casa qualche mese prima. Un modello già collaudato fra fine 2013 e inizio 2014, quando la Guardasigilli Annamaria Cancellieri rispose alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3 della Cedu. “Uno Stato che vuole farsi rispettare deve dimostrare di saper rispettare la Costituzione e le Convenzioni internazionali sui diritti umani” - spiega Bernardini. Il suo sciopero della fame non è un gesto estremo fine a se stesso, ma un’esortazione a chi continua a far finta di non vedere questa mortificazione permanente dello Stato di diritto. “Non vi piace la proposta Giachetti/NtC? Rifategli il nome, cambiate paternità, ma agite”. Eppure, serve un colpo più forte: un indulto ben calibrato, ma anche un’amnistia, opzioni che un tempo facevano sorridere i più oltranzisti. E invece, oggi, perfino chi derideva gli scioperi di Marco Pannella parla di “amnistia per la Repubblica”. Lo ha ripetuto con forza Tullio Padovani, accademico dei Lincei: “Per il bene della Patria tutte le forze politiche riconoscano la loro responsabilità in questa condizione indegna e approvino un indulto articolato, così da ridurre davvero la popolazione carceraria. Prima che le carceri diventino una discarica di corpi ammassati”. Si può fare, senza intoppi tecnici, oggi stesso. E deve essere fatto, ora. Per evitare che il nostro sistema penitenziario resti un monumento alla fallimentare rinuncia al rispetto della persona. Quando il trasferimento in un altro carcere diventa una nuova condanna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 giugno 2025 Quando un detenuto viene trasferito all’improvviso da un carcere all’altro, perde non soltanto il luogo in cui sconta la pena, ma anche i contatti con la sua vita precedente: la famiglia lontana, il lavoro che stava svolgendo, il percorso di recupero iniziato. È proprio questo il cuore dell’interrogazione parlamentare che Roberto Giachetti di Italia Viva ha rivolto al ministro della Giustizia: mettere in luce il disagio dei cosiddetti “sfollamenti” e chiederne il conto in Parlamento. Giachetti ricostruisce un quadro allarmante. Innanzitutto, i trasferimenti d’emergenza avvengono spesso verso istituti già più affollati della media nazionale, che è al 134 percento della capienza regolamentare. Significa che chi arriva trova celle sovraffollate, spazi comuni intasati, risorse carenti. Il danno non è solo materiale: in un ambiente stretto all’inverosimile cresce la tensione, e salta via persino quel minimo di umanità che dovrebbe restare anche dietro le sbarre. Poi c’è il dramma delle distanze. I detenuti sono spediti lontani dal loro domicilio, dall’unico punto di riferimento sociale che avevano: la famiglia, il lavoro esterno, i volontari che li seguono. In questo modo si disattende l’articolo 42 dell’ordinamento penitenziario, che stabilisce la prossimità al domicilio. Per una madre, un padre o un figlio, ricevere una telefonata da cinquanta o cento chilometri di distanza diventa impresa titanica. E quando riescono a chiamare, scoprono che spesso non possono portare con sé il bagaglio personale né l’elemosina accumulata nel corso del trattamento: un’altra umiliazione che pesa come un macigno. Una volta arrivati, i detenuti devono rifare da capo ogni pratica. Le richieste per il colloquio, per le telefonate già approvate altrove, ripartono da zero. Chi lavorava in carcere si ritrova in fondo alla graduatoria: mesi di attesa prima di riprendere un’occupazione che ha anche un valore rieducativo. Ogni passo del percorso trattamentale va ricominciato, sia con la squadra pedagogica sia con l’area sanitaria: la cartella clinica non segue il detenuto, quasi come se la sua storia non avesse consistenza. A sorpresa, l’interrogazione segnala pure che nessuno consegna al nuovo ingresso il regolamento d’istituto né l’opuscolo con diritti e doveri: un vuoto cui si somma la disorientante sensazione di essere estraneo anche alle norme del luogo in cui hai appena messo piede. Davanti a questa sequenza di disservizi, Giachetti chiede cifre precise: quanti sfollamenti sono stati effettuati nel 2024 e nei primi mesi del 2025, quante persone hanno riguardato, come sono distribuiti per i 11 provveditorati regionali, se ci siano stati trasferimenti decisi centralmente. Vuole poi sapere quanti trasferimenti in generale si sono resi necessari per esigenze di giustizia, per motivi di salute, di famiglia, di formazione o di lavoro. Il tono dell’interrogazione è chiaro. È l’invito a misurare gli effetti di una gestione che rischia di trasformare il carcere, già disastrato, in una catena di disagi. Eppure, ribadisce Giachetti, la Costituzione italiana mette al centro la dignità della persona, persino di chi ha sbagliato. Se il carcere diventa un vagone merci in cui ammassare corpi senza pace, allora si tradisce il principio dello Stato di diritto. Di fronte a questa denuncia, il ministero della Giustizia si trova con le carte in mano: o risponde con numeri e soluzioni, o ammette di non avere un controllo effettivo sulle migrazioni carcerarie interne. Il problema non è soltanto contabile: riguarda l’integrità psicologica di chi sta pagando la propria pena e l’immagine di un Paese che si dichiara civile. Serve un piano organico. Non bastano i trasferimenti ordinari per garantire ordine e sicurezza; servono regole chiare per gli sfollamenti, priorità alla prossimità abitativa e alla continuità dei percorsi trattamentali. Occorre infine che ogni detenuto abbia il diritto di conoscere subito le norme e i diritti del nuovo carcere, per non ritrovarsi in balìa di un sistema che cambia pelle ogni mattina. Il Parlamento ha l’occasione di porre un interrogativo decisivo al governo: l’efficienza del sistema penitenziario si misura anche dal rispetto della persona dietro le sbarre. E su questo punto, evidentemente, non si può più glissare. Grazie Papa Francesco. Sei stato la nostra voce e la nostra speranza. Non tutti sanno, 21 giugno 2025 Sei stato il Papa della Misericordia e degli ultimi. Lo hai testimoniato con la tua vita. Lo sappiamo bene. Quel tuo “Perché voi e non io?” è la domanda che ti sei fatto ogni volta che hai varcato il portone di un carcere, sin da quando da vescovo andavi a trovare i tuoi “amici” carcerati a Buenos Aires. Lo hai ripetuto ogni volta, spingendo il mondo intero con la tua stessa presenza fisica a riflettere sulla condizione di noi uomini e donne detenuti, mostrando la prigione che avvolge chi è prigioniero dell’indifferenza e del preconcetto verso di noi, verso il nostro diritto a vivere con dignità e con speranza di un futuro possibile. Ci hai portato la speranza del futuro ogni volta che sei venuto a trovarci con la tenerezza di un padre che accoglie e perdona, che cerca i suoi figli e che li ama per quelli che sono. Hai cercato i nostri occhi, hai stretto le nostre mani, hai asciugato le nostre lacrime e lenito i nostri dolori, ci hai rincuorato. Quando serviva con una battuta scherzosa ci hai fatto coraggio. La tua umanità ci ha donato la forza dell’amore e ci hai incontrato senza distinzione di razza o di fede. Durante gli anni del tuo pontificato hai dedicato a noi rinchiusi nelle carceri il rito del Giovedì Santo della lavanda dei piedi, indicando così al mondo la strada dell’incontro e dell’accoglienza degli ultimi, degli scarti, di noi “ristretti”. Con la tua testimonianza il Carcere è entrato della vita di tanti ed è diventato il luogo dove incontrare l’umanità sofferente. Hai voluto che l’arte e la bellezza entrassero nelle carceri, il padiglione della Santa Sede alla mostra Biennale di Venezia allestito con il coinvolgimento delle detenute all’interno del carcere femminile della Giudecca. In questo anno di Giubileo hai voluto che ci fosse una Porta Santa anche nel carcere di Rebibbia. Così la chiesa del Padre Nostro del Nuovo Complesso è divenuta la quinta Basilica papale, quella della “Sofferenza”, della Speranza e del Perdono. Così al mondo intero ci hai indicato come fratelli da amare ed accogliere. Ci hai invitato a confidare sempre nella Speranza. Con una straordinaria generosità e determinazione, benché ancora sofferente, non hai voluto mancare l’appuntamento con noi detenuti in questo Giovedì Santo. Non ti è stato possibile, per le tue condizioni fisiche, celebrare direttamente il rito della lavanda dei piedi, ma hai voluto esserci. Lo hai fatto visitando i “rinchiusi” nella casa circondariale di Regina Coeli, a Trastevere. Hai pregato con loro. Li hai salutati. Ancora una volta ci sei venuto a cercare nell’abisso della nostra sofferenza. Anche se fisicamente non hai potuto abbassarti per lavare e asciugare i nostri piedi, ci hai offerto il perdono di Dio e il tuo abbraccio di padre. Segnato dalla malattia hai voluto testimoniare al mondo sino alla fine la forza del perdono, della tenerezza e dell’amore. Sino alla fine sei stato la nostra voce e il nostro Padre più amato. Hai chiesto rispetto per la nostra dignità di persona, di figli di Dio. Hai invocato umanità per le nostre condizioni di vita, per la nostra sofferenza. In questo anno di Giubileo hai chiesto atti concreti di clemenza e di umanità. Non sei stato ascoltato. Chi aveva il potere di agire è rimasto sordo al tuo richiamo. Noi abbiamo sofferto con te per i tuoi patimenti. Per te abbiamo sperato e pianto. Oggi ci sentiamo più soli, ma sappiamo che dove sei continuerai a sorriderci, a volerci bene, a stringere le nostre mani, a darci forza e coraggio. Abbiamo bisogno della tua voce chiara e potente. Che scuote e richiama i potenti, chiedendo umanità e dignità per la popolazione detenuta, che porterà umanità, dignità e sicurezza all’intera società. Per questo ci auguriamo che il testimone di questo impegno sia raccolto dal suo successore. Che chi ieri si è mostrato sordo e insensibile, oggi davanti alla forza del tuo lascito, trovi la capacità di agire e raccogliere i suoi inviti. L’unico nostro cruccio è di non averti avuto fisicamente con noi alla Casa di Reclusione di Rebibbia, l’unico carcere romano che tu, nostro vescovo, non hai potuto visitare. Ma siamo sicuri che da lassù ci guardi, ci sorridi, ci proteggi come un buon padre con i suoi figli. Con coraggio hai vissuto sino alla fine la sfida del servizio e dell’amore. Hai invocato la pace e l’incontro tra gli uomini. Ci hai mostrato la forza dell’amore e del perdono. È l’insegnamento del Vangelo che, ne siamo sicuri, il nuovo vescovo di Roma farà suo. Lo aspettiamo. Appello del pm, ora si può dire no di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 21 giugno 2025 Inesorabilmente accade che la cronaca si incarichi, senza preavviso ma con precisione chirurgica, di rendere chiari principi giuridici di regola riservati ai chierici di quel sapere (magistrati, avvocati, docenti universitari). La fitta nebbia che avvolge il latinorum dei giuristi, i cavilli degli avvocati, il linguaggio solenne, criptico ed escludente di sentenze, pandette e digesti, viene improvvisamente squarciata e dissolta dal fatto di cronaca eclatante che turba le coscienze sonnolente o semplicemente inconsapevoli, rendendo improvvisamente quel materiale così ostile ed ostico un tumultuoso lievito di dibattiti, trasmissioni televisive e diatribe social furibonde. Noi di PQM, lo confessiamo, ne approfittiamo golosamente, facilitati da queste miracolose evoluzioni delle vicende sociali nel perseguimento della nostra mission: far comprendere ai non giuristi - però con rigore scientifico, non con chiacchiere e spropositi in libertà - che le regole del diritto, soprattutto quando riguardano la persona ed i presìdi delle sue libertà, sono un patrimonio vitale di ciascuno di noi. Semplicemente, i più non lo sanno. Avreste mai immaginato che, da un giorno all’altro, facessero irruzione nelle case degli italiani i temi della “impugnabilità delle sentenze assolutorie”, della “doppia conforme assolutoria”, del “al di là di ogni ragionevole dubbio”, e compagnia cantando? E invece eccoci qui, non si parla d’altro da settimane (insieme ad improbabili tornei televisivi sulla prova scientifica, l’incidente probatorio, i consulenti e i periti, eccetera eccetera). Perciò oggi vi offriamo contributi di riflessione (posso dirlo? assai pregevoli, merce rara concentrata in quattro pagine di un giornale, che assai difficilmente troverete altrove) sul tema della impugnazione delle sentenze di assoluzione da parte del Pubblico Ministero. È ben chiaro il nostro punto di vista, che abbiamo perciò voluto illustrare e scandagliare in ogni suo risvolto: va precluso al Pubblico Ministero il potere di impugnazione delle sentenze assolutorie. Le ragioni, in sintesi, sono due. La prima: se la regola fondativa del potere statuale di condannare penalmente una persona è che la prova della sua colpevolezza sia raggiunta “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la esistenza di un primo giudizio assolutorio preclude di per sé un secondo giudizio di condanna in grado di rispettare quella regola. La seconda: se l’imputato, assolto in primo grado, viene condannato in appello (sia quel giudizio successivo al primo, sia esso - a maggior ragione - successivo ad annullamento da parte della Corte di Cassazione dopo una doppia conforme assolutoria), è certo che a costui viene precluso, dopo l’improvvisa condanna, un secondo giudizio di merito, restandogli esclusivamente lo strumento - assai più limitato - del ricorso per Cassazione. È soprattutto questo secondo profilo del problema ad essere stato sorprendentemente ignorato dalla Corte Costituzionale nella sentenza che dichiarò incostituzionale la benemerita riforma Pecorella. E quindi occorre ritornare sul tema, con tutto il rispetto per la Consulta. Anche perché il legislatore se ne è reso conto negli anni, prima precludendo al PM il ricorso in Cassazione per vizio di motivazione avverso una doppia conforme assolutoria (per la cronaca, come vi spieghiamo in Quarta Pagina: oggi Alberto Stasi sarebbe definitivamente un innocente); poi precludendo l’appello del PM avverso le sentenze assolutorie rese dal giudice monocratico (insomma, per i reati “meno gravi”). Un significativo “vorrei ma non posso”, che dobbiamo lasciarci alle spalle, senza farci paralizzare da una delle sentenze meno “felici” nella storia della Corte Costituzionale. Tanta roba, e buona, anche questa settimana. Enzo Tortora veniva arrestato 42 anni fa. Una rosa bianca per non dimenticare di Marco Cruciani Il Riformista, 21 giugno 2025 “Folle non istituire una giornata per le vittime di malagiustizia a causa dell’Anm”. Così la figlia Gaia all’iniziativa della Fondazione Einaudi al Monumentale di Milano. Quarantadue anni dopo quel tragico 17 giugno 1983, la storia di Enzo Tortora continua ad essere una ferita aperta nella coscienza civile del Paese. Quel giorno il celebre conduttore Rai, simbolo di una televisione colta e popolare, venne arrestato con accuse gravissime, rivelatesi infondate, e travolto da un errore giudiziario che ha segnato la storia italiana. Per ricordarne la figura, la Fondazione Luigi Einaudi ha organizzato una commemorazione al Cimitero Monumentale di Milano, dove il giornalista riposa dal 1988. I presenti - rappresentanti dell’Unione Camere Penali, dei Radicali italiani, personalità del mondo della politica e delle professioni, e tanti cittadini - hanno depositato simbolicamente una rosa bianca sulla tomba di Tortora. Il ricordo della figlia Gaia - “Oggi siamo qui per mio padre e per le tante, troppe, persone che non possono essere presenti. Il nostro compito è quello di portare avanti la loro voce”, ha detto la figlia, Gaia Tortora. “A chi in questo momento si trova nella condizione in cui si è trovato mio padre dico di non mollare. Fuori, nonostante tutto, c’è qualcuno che sta provando a cambiarla questa giustizia”. Nei mesi scorsi l’Associazione nazionale magistrati, per bocca del suo ex presidente Giuseppe Santalucia, si è detta contraria all’istituzione di una giornata in memoria degli errori giudiziari perché, sostengono le toghe, avrebbe gettato discredito sulla magistratura. “Trovo folle - ha sottolineato Gaia Tortora - che in Italia per istituire una giornata-simbolo come questa, quando ne abbiamo una per qualsiasi cosa, si debba ascoltare l’Anm. Un sintomo preoccupante della nostra politica. Ma a noi non interessa e oggi la celebriamo lo stesso”. Le adesioni - All’iniziativa hanno aderito anche i suoi storici avvocati Raffaele Della Valle e Giandomenico Caiazza. “Enzo Tortora ha vissuto quella vicenda con angoscia, ma anche con una dignità che in 62 anni di professione non avevo mai visto e non ho più ritrovato”, ha detto Della Valle. “La sua vicenda”, ha spiegato Caiazza, “non è stata la storia di un errore giudiziario, ma una perfetta anticipazione dei mali che tutt’oggi affliggono la giustizia: la Procura che difende ad ogni costo il proprio errore, il Giudice che - qui per fortuna solo in primo grado - corre in solidale soccorso del Pm e della credibilità di una inchiesta clamorosa e di rilievo mediatico eccezionale”. Durante la manifestazione il presidente della Fondazione Einaudi, Giuseppe Benedetto, ha regalato ai ragazzi under 30 presenti “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, libro che Tortora ha voluto con sé nella tomba. Storie di errori giudiziari - “Con Enzo Tortora, 42 anni fa, finì alla sbarra anche la credibilità di un intero Paese. E come lui sono quasi mille gli innocenti che ogni anno vengono privati ingiustamente della propria libertà”, ha detto Benedetto. “Avevamo accolto con favore la proposta del legislatore di istituire una giornata per le vittime degli errori giudiziari, ma come spesso avviene in tema giustizia, gli equilibri parlamentari hanno impedito l’approvazione della norma. Per questo, con la nostra iniziativa non intendiamo sostituirci al parlamento ma svolgere un’opera di supplenza”. Per il segretario generale della Fondazione Einaudi, Andrea Cangini, invece: “Enzo Tortora rappresenta un simbolo come Giordano Bruno. Con la differenza che la Chiesa cattolica romana è molto cambiata dai tempi del rogo in Campo de’ Fiori, mentre la magistratura, i media e la società italiana non sono affatto cambiati dai tempi in cui Tortora subì il proprio calvario giudiziario e civile”. L’odiosa reputazione che si è alimentata contro “gli scafisti” di Adriano Sofri Il Foglio, 21 giugno 2025 Lo scafista sta al gradino più basso dell’abiezione contemporanea. Incapace di perseguire i Bija, gli Al-Kikli e gli Almasri, l’autorità si rivale sui piccoli. Che sono anche un piatto ricco per le polizie più innervosite e per il malumore delle magistrature dei luoghi in cui naviganti e naufraghi vanno a incagliarsi. Storia di Amir Babai. Viviamo in un paese e in un tempo in cui le autorità costituite perseguono a furor di leggi, di ordini e di prepotenze, i cittadini che si impegnano a soccorrere le vite pericolanti di fuggiaschi e naufraghi, per mare e per monti. Se i soccorritori vengono denunciati al tribunale della pubblica opinione come malviventi e addirittura spiati illegalmente nei loro spazi privati, si capisce come l’epiteto più infamante del nostro vocabolario civile sia quello di scafista. Lo scafista sta al gradino più basso dell’abiezione contemporanea. Incapace di perseguire “i Bija, gli Al-Kikli e gli Almasri”, i veri grossisti dello sfruttamento economico, fisico e sessuale delle e dei disperati e coraggiosi in cerca di una vita migliore, o solo di una vita, l’autorità si rivale accanitamente sui piccoli. Quelli per i quali tenere avventurosamente una specie di barra è la tariffa di un passaggio che li mette a repentaglio come gli altri trasportati. Quando non siano dei “comandanti”, socii dell’impresa destinati a tornare indietro e ripetere l’affare, i poveracci spediti alla ventura sono sostituti, volontari o forzati, di chi dovrebbe assicurare una libertà e una sicurezza di movimento. Se io vado a Tunisi, i miei scafisti sono dei piloti in forma e delle signore nella divisa elegante di una compagnia aerea, o di un aliscafo. L’odiosa reputazione che si è alimentata contro “gli scafisti” ne ha fatto anche un piatto ricco per le polizie più innervosite e scontente del proprio destino, e per il malumore delle magistrature relegate ai luoghi infimi in cui naviganti e naufraghi vanno a incagliarsi. Avevo appena letto e ascoltato la storia di un ragazzo libico, studente, calciatore, e dei suoi quattro compagni, imbarcati, 362 in tutto, alla volta della Sicilia, acciuffati, imputati e condannati come scafisti e addirittura corresponsabili della atroce morte per asfissia di 49 passeggeri nella stiva del barcone. Uno di loro, Alàa Faraj Hamad Abdelkarim, è in galera all’Ucciardone da dieci anni, condannato a trent’anni. Pochi giorni fa c’era un ultimo ricorso per la revisione della sentenza, e alla vigilia Lorenzo D’Agostino aveva messo su Facebook (lo trovate) un reel sconvolgente per il racconto dei modi in cui il giovane Ala e altri sette con lui sono stati condannati in tutti i gradi di giudizio. O le informazioni di D’Agostino sono balle, o sono cose da pazzi. Per Ala si sono impegnati in tanti, e fra loro don Ciotti. In uno dei ricorsi respinti, i giudici hanno consigliato di chiedere la grazia al presidente della Repubblica. Buoni, forse. Dimentichi, forse, del cambiamento di nome del ministero, che non si chiama più di Grazia e Giustizia. Era meglio rinunciare alla seconda denominazione? Leggo che Ala ha scritto, nell’italiano imparato in cella, un diario epistolare che sarà presto pubblicato. Intanto, ieri Roberta Jannuzzi ha aperto la rassegna stampa di Radio Radicale segnalando un articolo di Angela Nocioni sull’Unità, su una storia terribile che forse mi sarebbe sfuggita. Due giovani iraniani, Marjan Qaderi Jameri, 30 anni e una figlia di otto, e Amir Babai, 31 anni, erano arrivati a Roccella Jonica su un barcone guidato da un “comandante” egiziano, erano stati arrestati, incarcerati per quasi due anni, e finalmente processati dal tribunale di Locri martedì scorso. Quando i giudici hanno interamente e lapidariamente scagionato e liberato Marjan, e però condannato Amir a 6 anni e un mese: “favoreggiamento di immigrazione clandestina”. Il “comandante” ha patteggiato per sé, e ha sempre dichiarato i due iraniani semplici passeggeri a pagamento. Ad accusarli erano stati tre altri passeggeri dei 104 salpati dalla Turchia. Durante la traversata i tre avevano molestato Marjan, Amir era intervenuto in sua difesa. Sbarcati, i tre avevano denunciato Marjan e Amir e si erano dileguati. Irreperibili, al processo. Non è facile rassegnarsi alla sentenza. Non si è rassegnato Amir. È rientrato in galera e si è tagliato la gola. È stato salvato solo dalla fortunosa presenza di turno di un chirurgo che l’ha ricucito con quindici punti. La giornalista dell’Unità pubblica una suggestiva trascrizione dell’arringa della pubblica accusatrice, uno sfogo contro la pressione mediatica (a Radio Radicale era stata rifiutata la registrazione), una singolare evocazione di supposti indizi della colpevolezza dei due (“Il commissario T. che cosa ha detto? Ha detto che loro stavano mano nella mano”). Mi ha colpito un dettaglio delle parole della procuratrice che, difendendo “l’operato encomiabile delle forze dell’ordine e della magistratura, soprattutto nei territori dove noi ci troviamo a operare”, ha continuato: “Dove io mi trovo a operare da più di sei anni ormai, perché ho origini di altro tipo”. Mi sono chiesto che cosa significhi questo cenno alle origini. Ho contentato un po’ la curiosità trovando che la magistrata, in una recente occasione in cui si discuteva della violenza di genere e del codice rosso, aveva detto: “Provenendo da Milano ho comparato l’ambiente Nord e Sud, riscontrando che le differenze non sono tante e che i casi di violenza, soprattutto domestica, si verificano dappertutto, anche se non sempre vengono denunciati”. Osservazione del tutto ragionevole, che ha un po’ dissipato la mia preoccupazione che Cristo si fosse fermato a Cutro. E provenendo, questa volta, dalla direzione giusta: da sud. Non chiamatelo errore giudiziario ma orrore giudiziario di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 giugno 2025 Il pazzesco caso del tribunale di Locri contro due immigrati innocenti: Marjan Qaderi Jamali e Amir Babai, 31 anni iraniano che si è tagliato la gola in cella. Vanno ringraziate l’Unità e la giornalista Angela Nocioni per avere portato in prima pagina ieri una notizia altrimenti trascurata, una storia terribile, oltre i limiti del diritto, ma non così incredibile nel nostro panorama giudiziario. Viene dal tribunale di Locri. Oltre i limiti non solo perché indice di come vengano trattati i casi di immigrazione clandestina, e le detenzioni, in Italia: “Andateci, vedetelo questo carcere nel cuore della Locride pieno zeppo di ragazzi neri, turchi, mediorientali, una selva di braccia scure che escono dalle sbarre: l’esercito dei presunti scafisti che riempie le celle”, è l’appello finale di Nocioni. Ma una storia oltre i limiti perché è un altro caso eclatante, ed evitabile, di malagiustizia e di errore giudiziario perseguito quasi con protervia. È la storia di Amir Babai, 31 anni iraniano. Innocente. Che si è tagliato la gola in cella dopo la sentenza di primo grado per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: sei anni, avendo già scontato 600 giorni di ingiusta detenzione preventiva. Sul barcone che li portava in Italia, lui salvò da un tentativo di stupro Marjan Qaderi Jamali, anche lei iraniana. Intercettati, gli scafisti per vendetta li indicarono come complici. Poi sparirono: nessun incidente probatorio è stato realizzato. Ciò nonostante i giudici di Locri li hanno incarcerati sulla sola base di accuse senza prove, considerando “immutato il quadro probatorio”. Quale? Due anni dopo Marjan è stata riconosciuta innocente da un giudice di Reggio Calabria, sentenza che basta a dimostrare anche l’innocenza di Amir, che invece è stato assurdamente condannato. Nocioni riporta le frasi della pm, Marzia Currao, che “nella requisitoria ha tentato di screditare l’attendibilità degli imputati esibendo suoi giudizi morali invece di esibire delle prove”. E, il colmo, “se l’è presa con la copertura giornalistica del processo: ‘La difficoltà principale che io ho trovato è l’esposizione mediatica che la vicenda ha assunto’”. Un innocente è in carcere, ma la colpa è della stampa che si interessa degli errori della magistratura. Locri, Italia. Manes: “Quando la sofferenza supera la pena, il diritto penale perde senso” di Simona Musco Il Dubbio, 21 giugno 2025 Il pm chiede l’archiviazione della donna che ha provocato gravi lesioni al figlio accidentalmente. Intervista al professore avvocato Vittorio Manes: “Punire in questi casi non solo sarebbe una duplicazione della sofferenza, ma equivarrebbe a infliggere una pena inumana, in violazione dei principi costituzionali di civiltà”. Nel diritto penale, la funzione della pena è tradizionalmente legata alla deterrenza, alla rieducazione e alla retribuzione. Tuttavia, in alcuni casi, come quello di una madre che investe accidentalmente il proprio figlio, la tragedia in sé può già rappresentare una forma di punizione insostenibile. Ed è per questo, come vi ha raccontato ieri il Dubbio in esclusiva, che il pm Paolo Storari ha chiesto l’archiviazione di una donna che, investendo il figlio di soli 18 mesi, gli ha provocato lesioni gravissime. La donna, ha evidenziato in buona sostanza Storari, sta già scontando un fine pena mai. In situazioni del genere, la domanda che emerge è: ha ancora senso infliggere una pena, se l’autore del reato ha già subito una sofferenza tale da superare ogni possibile condanna civile? Questa riflessione pone al centro il principio di umanità della pena, un tema che, purtroppo, non sempre trova il giusto spazio nel dibattito giuridico e politico. A parlarne con noi è l’avvocato professore Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, che Storari ha citato nella sua richiesta. Professore, il pm Paolo Storari ha chiesto l’archiviazione per una madre che ha investito il figlio in un tragico incidente domestico, richiamando il principio secondo cui “una pena sarebbe inumana”, avendo già l’indagato subito una “poena naturalis”: cosa significa esattamente? Vi sono alcune vicende, drammatiche per gli stessi protagonisti, in cui l’autore del reato subisce e patisce effetti devastanti come conseguenza della condotta colposa realizzata, come certamente sono la morte o le lesioni gravissime cagionate a un figlio, in un incidente stradale o in una vicenda come quella del caso concreto. In questo caso, la gravosità e l’afflittività della “pena naturale” patita rende del tutto ingiustificata ed insensata l’irrogazione della “pena civile”, ossia quella prevista dal codice penale per il reato commesso. Lei scrive che lo Stato non dovrebbe mai superare quel confine di civiltà che è segnato dall’umanità del castigo. Quando il dolore dell’imputato supera quello che l’ordinamento potrebbe infliggere, cosa resta della funzione della pena? Non resta nulla, perché il volume di senso della sanzione giuridica è già occupato ed ampiamente sopravanzato dalla afflizione “naturale” sofferta, dalla poena naturalis appunto. In casi simili, punire si tradurrebbe non solo in una assurda duplicazione della pena, ma nell’inflizione di una pena autenticamente “inumana”, come tale in chiara violazione del primo cardine costituzionale previsto nell’articolo 27, comma terzo, Costituzione. Peraltro, l’irrogazione della pena risulterebbe anche del tutto ingiustificata nella prospettiva della finalità rieducativa, perché in vicende di questo tipo, la commissione del delitto non rappresenta solo l’inizio della sua espiazione, ma anche l’esaurimento della stessa funzione della pena che potrebbe essere applicata. In casi simili, d’altronde, quale esigenza di risocializzazione può attendersi dalla irrogazione della sanzione? Il rischio, secondo alcuni, è che il diritto penale perda la sua funzione di deterrenza e retribuzione. Come replica? La deterrenza ha ben poco senso al cospetto di vicende dove la tragica fatalità del destino ha l’autore come prima vittima, e la retribuzione ancora meno, per le ragioni dette, che rendono persino illogico e disumano il malum passionis. Punire, dunque, rappresenterebbe solo l’ossequio formale ad una legge penale che nel caso concreto risulta profondamente ingiusta e irrazionale. E una eventuale pena statale - come scrive il dottor Storari nella sua richiesta di archiviazione - “non avrebbe alcuna funzione, qualunque sia la teorica a cui ci si ritenga di ispirare”. Il principio di umanità, a suo avviso, ha avuto uno sviluppo troppo marginale nella giurisprudenza costituzionale italiana? E cosa servirebbe per renderlo un criterio guida, non solo un limite estremo? La mia impressione è che questo principio fondamentale non sia stato ancora compiutamente valorizzato, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. Si è data - giustamente - molta importanza alla finalità rieducativa della pena, ma il primo cardine di civiltà è rappresentato dal divieto di pene contrarie al senso di umanità. A mio sommesso avviso, anche la Corte costituzionale - che pur ha dimostrato una affilata sensibilità per questi aspetti, anche di recente, se solo si pensa alla sentenza sulla cosiddetta affettività in carcere - potrebbe e dovrebbe sviluppare ancor di più la sua intrinseca capacità generativa, e trarne tutti i corollari e le implicazioni assiologiche che possono derivarne. E sono moltissime, sin dalla fase della individuazione del catalogo astratto delle pene o dei trattamenti inumani: basti pensare alla pena detentiva perpetua o alla castrazione chimica, di cui spesso si sente parlare, ovvero, in fase esecutiva, al regime del “carcere duro” previsto dall’articolo 41 bis, e così via. Secondo lei, in casi come questo, sarebbe preferibile un intervento interpretativo (come nel caso Storari) o una vera e propria riforma legislativa che introduca un’esimente esplicita per fatti “naturalmente scontati”? Credo che la soluzione sempre preferibile sia quella legislativa, ed anche la soluzione individuata nella richiesta di archiviazione - quella che passa dall’articolo 131 bis c.p. - mi pare francamente non facile da percorrere. Proprio per questo, del resto, lo stesso pubblico ministero - ben consapevole della torsione ermeneutica che la prima soluzione implica - ha prospettato come alternativa la proposizione di una questione di legittimità costituzionale, affidandola alla sensibilità e alla perizia del giudice, che dovrà valutarla ed eventualmente sollevarla nei termini più adeguati. Questione certamente complessa, specie nella individuazione del petitum che si chiede alla Corte, ma strada certamente meritevole di essere percorsa. In controluce a questa vicenda si intravede anche un’idea più ampia di giustizia: non più afflittiva, ma proporzionata e umana. Possiamo sperare che diventi parte del diritto penale del futuro? Possiamo e dobbiamo sperarlo. Anche se il lungo cammino di civiltà compiuto dal diritto e dalla giustizia penale nel corso dei secoli, che via via ha cercato di emanciparlo dalla violenza brutale dei supplizi e dalla cieca vendetta del taglione, a volte sembra interrompersi, nell’attuale temperie del punitivismo e del giustizialismo imperante. E quindi l’auspicio è che le garanzie fondamentali in materia penale e i principi di civiltà del diritto - come l’umanità delle pene - recuperino la centralità e il vigore che meritano, in un futuro che si spera prossimo. Ma il miglior modo di prevedere il futuro è sempre quello di cominciare a costruirlo. Codice rosso, la Consulta: pene troppo dure per le lesioni al volto di Francesca Spasiano Il Dubbio, 21 giugno 2025 La Corte dichiara illegittimo l’articolo che ha introdotto il reato di deformazione dell’aspetto della persona: regime sanzonatorio rischia di violare la finalità rieducativa della pena. Giusto tutelare con un reato ad hoc le vittime di violenza che abbiano subito una lesione al viso, ma le pene previste sono troppo severe. È questa la conclusione a cui è giunta la Consulta con la sentenza numero 83 depositata oggi, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 583-quinquies del codice penale, inserito dal cosiddetto “Codice rosso” con la legge numero 69 del 2019. Una decisione che non passerà inosservata a chi ha promosso e sostenuto la norma che ha introdotto il reato di “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” sulla scia dei casi di cronaca che hanno proprio questa condotta come forma ricorrente di violenza contro le donne. Nel dettaglio, il primo comma dell’articolo è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo “nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata, reclusione da 8 a 14 anni, sia diminuita, in misura non eccedente un terzo, quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità”. Il secondo comma dello stesso articolo, spiegano i giudici, “è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui stabilisce che la condanna o il patteggiamento per il reato in questione comporta l’interdizione automatica e perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno, anziché prevedere che tale pena accessoria sia applicabile facoltativamente dal giudice, in base agli ordinari criteri discrezionali e nel rispetto del limite legale di durata massima di 10 anni”. Per la Corte, che ha accolto le censure sollevate dai gup dei Tribunali di Taranto, Bergamo e Catania, “il carattere eccessivamente rigido del trattamento sanzionatorio disposto dalla norma in scrutinio” viola gli articoli 3 e 27, commi primo e terzo, della Costituzione, quanto ai principi di proporzionalità, individualizzazione e finalità rieducativa della pena. Ma questo non vuol dire che il Codice rosso, voluto dalla leghista Giulia Bongiorno durante il governo Conte I, non avesse uno scopo “lodevole”. I giudici, infatti, sottolineano che “l’inasprimento sanzionatorio operato dal legislatore con la trasformazione dello sfregio e della deformazione del viso da circostanze aggravanti del reato di lesione a fattispecie delittuosa autonoma corrisponde a una valida ratio di tutela della persona, attesa la dimensione relazionale e identitaria del volto di ciascuno”. “Tuttavia, richiamata la propria giurisprudenza sulla necessità costituzionale di una “valvola di sicurezza”, che consenta al giudice di moderare l’applicazione di pene edittali di notevole asprezza, la Corte ha ritenuto che la stessa necessità si ponga per il nuovo titolo di reato, la cui ampiezza descrittiva è in grado di abbracciare anche lesioni relativamente modeste, talora procurate in contesti di aggressività minore e occasionale, e senza dolo intenzionale, come dimostrato dalla varietà delle imputazioni nei giudizi a quibus”. Nel caso di Taranto, ad esempio, si fa riferimento ad “una cicatrice chirurgica irreversibile, sotto la palpebra dell’occhio destro, lunga cinque-sei centimetri e larga un millimetro”. La vicenda di Bergamo riguarda “uno sfregio permanente del viso “privo di efficacia deformante”“, mentre il gup di Catania sottolinea la mancata distinzione tra il primo tipo di lesione (deformazione) e il secondo (sfregio). Prima del Codice rosso, che ha creato appunto una fattispecie autonoma, lo sfregio permanente del viso integrava la circostanza aggravante del reato di lesione personale, per la quale era prevista la pena della reclusione da sei a dodici anni. Ora la Corte interviene per stabilire che “al cospetto di un minimo edittale molto elevato e di una gamma multiforme di condotte punibili, la mancata previsione di un’attenuante comune per i fatti di lieve entità determina il rischio di irrogazione di una pena eccessiva in concreto, quindi insensibile al giudizio sulla personalità del reo e inidonea allo scopo della sua risocializzazione”. Piemonte. Fuori dal carcere ma senza lavoro, solo 53 aziende assumono ex detenuti di Giulia Ricci La Stampa, 21 giugno 2025 Il tour del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Del Mastro, per promuovere la legge Smuraglia: “Solo il 2% di chi trova un’occupazione torna a delinquere. La carenza d’organico? Non sia una scusa”. Sono solo 53 le imprese che, in Piemonte Liguria e Valle d’Aosta, hanno intrapreso ad oggi un percorso di lavoro con i detenuti, contro le 165 della Lombardia e le 138 della Toscana; 509 i detenuti che hanno firmato un contratto l’anno scorso. Questo il dato emerso dalla conferenza stampa sulle “opportunità della Legge Smuraglia” a cui ha partecipato il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, insieme alla vicepresidente della Regione Elena Chiorino e al direttore del Dap Ernesto Napolillo. La norma prevede agevolazioni fiscali: credito d’imposta fino a 520 euro al mese per ogni detenuto assunto, e 300 euro per i semiliberi; ulteriori incentivi in caso di percorsi di formazione abbinati all’assunzione; riduzione dell’aliquota contributiva fino al 95% o 100% in base alla tipologia d’azienda; estensione del beneficio anche alle aziende pubbliche e private che assumono detenuti ammessi al lavoro esterno. Il tour istituzionale per promuovere la Legge Smuraglia - Il “tour” dell’Italia di Delmastro ha l’obiettivo di promuovere questo provvedimento nelle varie Regioni: “Nel nuovo contestatissimo dl sicurezza, c’è una norma per cui il Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria hanno l’obbligo di adeguare il regolamento di esecuzione penale alle necessità dell’impresa. Il lavoro non è un premio, ma una palestra di cittadinanza - ha aggiunto -. Un detenuto che lavora ha solo il 2% di possibilità di tornare a delinquere, contro il 70% degli altri. Il lavoro dà dignità, senso del dovere e speranza. È il più potente strumento di giustizia sociale e sicurezza. Il lavoro riduce la frustrazione, previene i suicidi, restituisce motivazione e alleggerisce il carico su chi lavora ogni giorno negli istituti. È quindi un investimento in dignità e sicurezza per tutti”. La questione del sotto organico in Piemonte e Torino - Ma come fare, in Piemonte e Torino, con un sotto organico del 50% e senza i magistrati di sorveglianza? “Io credo - ribatte Delmastro - che l’organico non possa essere mai nella vita una scusa per fare ciò che si deve fare e questo vale in tutti i settori della pubblica amministrazione: anche la Polizia Penitenziaria ha carenze di organico, anche il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma tutti in ogni caso dobbiamo lavorare. Tutto ereditato dalle catastrofiche gestioni di chi ci ha preceduto, tant’è vero che noi abbiamo già bandito i concorsi per saturare la pianta organica dei togati entro il termine del nostro governo, raggiungendo un traguardo epocale mai raggiunto in età repubblicana. Il nome e il cognome di questa mancanza di organico è Madia, con una legge che ha flagellato il pubblico. La mancanza di organico non deve più essere una scusa in tutta l’Italia, in tutti i campi per dire che non dobbiamo traguardare gli obiettivi che ci poniamo, perché altrimenti potremmo dichiarare il fallimento dell’Italia, dato che un po’ in tutti i campi purtroppo vi è mancanza di organico, a cui questo governo sta ponendo mano, a differenza che nel passato”. Formazione professionale in carcere: gli investimenti del Piemonte - “Ad oggi la regione Piemonte tra formazione professionale in carcere e lo sportello lavoro - spiega Chiorino - investe ogni anno circa 3 milioni di euro. I numeri non sono ancora soddisfacenti sui reinserimenti lavorativi, possiamo fare di più, ma stiamo lavorando per accompagnare al meglio le aziende e inserire sempre più percorsi di formazione con il rilascio di una qualifica”. L’impegno di Confindustria per il reinserimento lavorativo - Con loro anche la presidente dei Giovani industriali Barbara Graffino: “Come Sistema Confindustria stiamo lavorando attivamente per costruire dei protocolli che sanciscano un’alleanza concreta del territorio con tutti i facenti parte di questa filiera e che ci consentano come imprenditori di poter davvero reinserire i carcerati al lavoro potendo dare una seconda opportunità. Vero, c’è ancora resistenza da parte delle aziende, ma quando poi avviene l’effettivo reinserimento tutta l’organizzazione ne trae un elemento positivo, le persone sono felici di poter dare una seconda occasione, quindi dobbiamo un po’ vincere questo stigma culturale, ma io sono convinta che ci riusciremo”. Campobasso. Suicidio in carcere, il dirigente medico: “Detenuto era sorvegliato a vista” ansa.it, 21 giugno 2025 “Imprecise dichiarazioni sindacato Spp”. “Smentisco le dichiarazioni rese alla stampa dal sindacalista Aldo Di Giacomo” (segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria ndr), relative al recente episodio di suicidio di un detenuto nel carcere di Campobasso”. A dirlo è Pasquale Del Greco, dirigente sanitario della Casa circondariale del capoluogo molisano. “Nel caso specifico - sottolinea riferendosi al 12 giugno scorso - l’Area sanitaria è intervenuta prontamente con supporto psicologico, visite psichiatriche, controllo della sua condizione fisica, monitoraggio costante e attivazione di misure di sorveglianza compatibili con la problematica emersa, come specificato negli atti ufficiali”. La puntualizzazione di Del Greco va probabilmente in direzione di quanto riferito da Di Giacomo in un’intervista, in particolare nel passaggio in cui ha affermato “se (il detenuto ndr) avesse avuto a disposizione un supporto psicologico, su quello si poteva intervenire”. “Nella notte tra il 10 e l’11 giugno - precisa Del Greco - il detenuto manifesta un grave stato di agitazione psicomotoria e pertanto il sanitario di turno predispone il ricovero nel Pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Campobasso dove vengono adottate le cure del caso, tra cui anche la visita psichiatrica, e il detenuto viene dimesso. Il giorno 11 - prosegue - con la ricomparsa dello stato di agitazione psicomotoria e di ferite da taglio sul braccio sinistro per autolesionismo, vista la rilevanza clinica e la necessità della tutela della salute del detenuto, viene applicata la sorveglianza a vista”. Bolzano. Corsi di teatro e di cucina: ecco i diplomi per i detenuti di Currò Dossi Corriere dell’Alto Adige, 21 giugno 2025 Teatro, cucina, giardinaggio e lingue: ieri, in via Dante, cerimonia di consegna dei diplomi di fine corso ai detenuti della casa circondariale. “Succedeva sempre che a un certo punto uno alzava la testa e la vedeva. È una cosa difficile da capire. Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi. Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo la vedeva. Allora si inchiodava, lì dov’era, gli partiva il cuore a mille, e, sempre, tutte le maledette volte, giuro, sempre, si girava verso di noi, verso la nave, verso tutti, e gridava (piano e lentamente): l’America”. La recita, da parte di un gruppo di detenuti, dell’incipit di Novecento, di Alessandro Baricco, è stato tra i momenti più intensi vissuti ieri tra le mura della casa circondariale di via Dante, dove, nel cortile esterno, ancora in fase di rifacimento, si è svolta la cerimonia di consegna dei diplomi di fine anno formativo. “Istruzione e formazione sono la leva attraverso cui cercare di costruire la responsabilizzazione dei detenuti - ha detto il direttore della casa circondariale, Giovan Giuseppe Monti - con l’obiettivo di creare le basi per un percorso di reinserimento sociale. Certo, le condizioni strutturali ci penalizzano, ma ci impegniamo al massimo”. L’offerta è ampia, anche grazie alla collaborazione con varie cooperative e realtà del territorio (tra le quali Alpha beta e Teatro stabile): ci sono i corsi di lingua, scrittura, cucina, genitorialità, giardinaggio, igiene, quelli che hanno dato vita alla “Ciclofficina” (con i detenuti in piazza Tribunale, impegnati a riparare le biciclette, in occasione della “Bolzano senz’auto”), e quelli del laboratorio permanente di teatro, parte del progetto “Art of freedom”. Le storie, dice Chiara Visca, insegnante del laboratorio teatrale, sono importanti, specie quelle di riscatto: “Insegnano che la cosa importante non è la caduta, ma la capacità di rialzarsi - osserva -. E qua dentro, immaginarsi una vita “fuori” è una fatica enorme. Le storie aiutano a trovare le forze per “scendere dalla nave” della quale parla Baricco, e costruirsi una vita nuova”. Ai corsi, spiega Nicola Gaetani, coordinatore degli educatori penitenziari, partecipa oltre la metà dei detenuti (che attualmente sono 120, ma il ricambio è continuo). “Si svolgono da settembre a dicembre e da gennaio a giugno, per due ore e mezza tutte le mattine e pomeriggi. A questi, si aggiungono le lezioni tenute dagli insegnanti delle “Leonardo da Vinci” per conseguire il diploma di scuola media, importantissimo per ottenere il permesso di soggiorno, una volta usciti da qui”. Il corso dura un anno, con lezioni quotidiane di matematica, italiano, tedesco e inglese. E riscuote sempre più successo. “Abbiamo sempre avuto due-tre partecipanti l’anno - spiega sempre Gaetani -. All’ultimo, hanno partecipato in sei che ora stanno affrontando gli esami”. Tra chi, alla cerimonia di ieri, ha fatto “incetta” di diplomi, dopo aver partecipato ai corsi di teatro, igiene e genitorialità, c’è William. “Ne ho seguiti tanti - racconta - anche perché sono un modo per tenersi impegnati qua dentro”. Ma soprattutto un investimento per il futuro. “Quando sono arrivato - continua il giovane detenuto - ero un altro tipo di persona. Gli anni che dovrò trascorrere qua dentro non me li darà mai indietro nessuno, ma quando uscirò voglio recuperare il tempo perso. Anche con i miei figli. Per questo ho seguito, tra gli altri, il corso sulla genitorialità. Vorrei dare loro quello che non ho potuto avere io”. Napoli. Rap e sogni oltrepassano i muri, dal carcere al Festival di Natascia Festa Corriere del Mezzogiorno, 21 giugno 2025 “Crisi come opportunità” con Lucariello ha portato a Palazzo Reale il concerto dei ragazzi degli istituti di pena minorile. Le onde sonore oltrepassano i muri come i sogni. Non importa se siano quelli di un carcere: funziona lo stesso. Anzi meglio. Si è ben visto ieri sera, nel Cortile delle carrozze di Palazzo Reale, dove per il Campania Teatro Festival, è andato “in scena” il concerto dei giovani artisti dagli Istituti di pena minorile di Airola e Nisida. A presentarlo sono stati Giovanna Sannino e Gaetano Migliaccio, attori della serie di culto “Mare Fuori”. Oltrepassare i muri anche fisicamente è stato possibile grazie all’associazione “Crisi Come Opportunità” che propone laboratori rap nelle carceri minorili, nell’ambito del progetto nazionale Presidio culturale permanente negli Istituti Penali per minorenni, nato da un’idea di Lucariello. È lui - all’anagrafe Luca Caiazzo - che cura incontri settimanali con artisti e formatori qualificati, guidando laboratori di scrittura e registrazione di rap e promuovendone altri per la messa in scena di spettacoli, la creazione di cortometraggi. “La musica non redime, ma accende. Accende pensieri, possibilità, speranze. In carcere portiamo parole che fanno rumore dentro, per provare a cambiare il fuori” dice il rapper Lucariello che è socio e coordinatore per la Campania di Cco. È nato così Portami là fuori che è “prima di tutto il racconto di un approccio, che scaturisce in un progetto, narrato con un concerto che ha visto coinvolti artisti dentro e fuori le sbarre” spiega una nota. Al centro c’è “la forza riabilitativa della musica come arma di riscatto sociale per i giovani in situazione di temporanea difficoltà”. Con il concerto di ieri e con molte altre iniziative, Campania Teatro Festival e Presidio culturale permanente vogliono ridare speranza a ragazze e ragazzi che pensano di non averne più. Sul palco di Palazzo Reale, alcuni residenti nei due istituti minorili hanno emozionato cantando pezzi rap inediti elaborati nelle lunghe giornate al di qua delle sbarre, insieme con Carbonio, artista del Centro Diurno di Santa Maria Capua Vetere e Fandy, rapper dalla comunità Kayrós (Milano). Con loro Oyoshe e Shada San, lo stesso Lucariello e Federico di Napoli che conclude: “Sono felice di insegnare, ma anche di imparare, che la musica può essere un ponte verso il cambiamento. Sono orgoglioso di poter aiutare qualcuno (anche me stesso) a trovare un modo nuovo per raccontarsi, immaginarsi”. Fermo. “L’Altra Chiave News”: un ponte di parole tra scuola e carcere polourbani.edu.it, 21 giugno 2025 Anche quest’anno si è concluso con un carico di emozioni autentiche e riflessioni profonde il progetto “L’Altra Chiave News”, promosso all’interno della Casa di reclusione di Fermo. L’iniziativa, ispirata all’omonima rivista diretta dalla giornalista Angelica Malvatani, rappresenta ormai da anni un punto d’incontro tra il mondo della scuola e quello del carcere, due realtà apparentemente lontane ma unite, in questo contesto, da un dialogo sincero e umano. Il progetto è stato coordinato dalla professoressa Domitilla Nucci, con il prezioso supporto della dirigente scolastica Laura D’Ignazi, e ha coinvolto gli studenti delle classi quarta e quinta diurna e serale dell’indirizzo socio-sanitario del Polo Urbani. Obiettivo principale: superare i pregiudizi, abbattere i muri invisibili del giudizio sommario e dare voce a chi, dietro le sbarre, spesso resta inascoltato. Durante l’anno scolastico, gli studenti hanno intrapreso uno scambio epistolare con alcuni detenuti dell’Istituto, un percorso intimo fatto di parole, domande, racconti e attese. Ne è nato un dialogo stimolante, in cui i ragazzi hanno iniziato a conoscere i volti e le storie dietro i numeri di matricola. Il progetto ha vissuto uno dei suoi momenti più intensi con la visita degli studenti del quinto anno all’interno del carcere, accompagnati dalle docenti Nucci, Baglioni e Paradisi. Con emozione, curiosità e un pizzico di timore, hanno attraversato il cancello dell’Istituto per incontrare di persona coloro con cui avevano condiviso pensieri e parole. Ad accoglierli, oltre alla direttrice della rivista Malvatani, la direttrice del carcere, dottoressa Serena Stoico, che ha illustrato il funzionamento della struttura e le complessità del sistema penitenziario italiano. Ma il momento più toccante è stato l’incontro con i detenuti della redazione interna del giornale. Uomini con storie difficili, segnate da errori e rimpianti, ma anche da desideri di riscatto, nuove consapevolezze e, a volte, ricadute dolorose. Gli studenti hanno ascoltato in silenzio, con rispetto e commozione. Hanno guardato negli occhi chi ha sbagliato, ma anche chi ogni giorno cerca di ricostruire la propria identità. È stato un momento di rara intensità, in cui si è compreso che dietro ogni reato c’è una persona, una storia, un passato e - ce lo auguriamo - un futuro. “L’Altra Chiave News” non è solo un progetto scolastico, è una lezione di umanità, che ha insegnato a guardare oltre la superficie, a sospendere il giudizio, ad ascoltare prima di condannare, perché a sbagliare potremmo trovarci anche noi, perché il carcere non deve essere soltanto un luogo di pena, ma anche di possibilità. E i ragazzi, in questo cammino condiviso, hanno aperto non solo le porte di un istituto, ma quelle del cuore. Reggio Emilia. Giovani detenuti sul palco. Il concerto rap in carcere Il Resto del Carlino, 21 giugno 2025 Con parole di consapevolezza e rinascita, i ragazzi raccontano la loro verità. Ieri lo spettacolo in via Settembrini: “La richiesta è arrivata proprio da loro”. “Le persone sbagliano ma poi vogliono ripartire, per far sapere al mondo che qua dentro si può rifiorire”. È una delle frasi scritte e cantate dai giovani detenuti degli istituti penali di Reggio Emilia, protagonisti ieri mattina di un evento speciale: un concerto rap organizzato nel cortile del carcere minorile di via Settembrini. Un’occasione intensa di espressione artistica e umana, nata all’interno del progetto ‘Rap: rime, amore, poesia’, laboratorio musicale che ha coinvolto diversi ragazzi in un percorso di scrittura creativa, produzione musicale e confronto. Un modo per raccontarsi, per riflettere e per trasformare la propria esperienza in arte. L’iniziativa, realizzata in occasione della Giornata nazionale della Festa della Musica, è frutto della collaborazione tra la direzione degli Istituti Penali di Reggio, l’amministrazione comunale e la cooperativa sociale Giro del Cielo. Il laboratorio si inserisce nel progetto Territori per il Reinserimento, finanziato dalla Cassa delle Ammende e dalla Regione Emilia-Romagna. Nei mesi scorsi, i giovani detenuti hanno preso parte a un percorso educativo fondato sulla musica rap e trap, generi capaci di parlare in modo diretto del loro vissuto. Dalle prime rime alla realizzazione di brani completi con basi originali, i partecipanti hanno man mano costruito uno spazio di condivisione e crescita personale. Il concerto ha rappresentato la tappa conclusiva di questo viaggio creativo. Testi forti, carichi di emozione e consapevolezza, sono stati eseguiti davanti a un pubblico interno al carcere, con l’energia e il coraggio di chi ha scelto di raccontare la propria verità. “Com’è che io sono diventato tutto ciò che ho sempre odiato?”: è un’altra delle rime che ha colpito i presenti al concerto. Frasi che nascono da esperienze dure, ma che parlano anche di speranza, di voglia di riscatto e di futuro. “La richiesta, arrivata direttamente da alcuni ragazzi detenuti, ci ha spinti a immaginare percorsi nuovi e coinvolgenti - ha spiegato Annalisa Rabitti, assessora alla Cura delle persone -. Il tempo detentivo può diventare un momento per riflettere e rielaborare il proprio vissuto, un’occasione per attivare passioni e costruire nuove strade. Offrire uno spazio in cui i giovani possano esprimersi e sentirsi protagonisti è fondamentale in un percorso educativo e riabilitativo. Per raggiungerli, servono linguaggi che parlino davvero a loro”. La musica, dunque, come mezzo di espressione e rinascita. In un contesto spesso segnato dal silenzio e dall’isolamento, le parole dei ragazzi hanno risuonato forti e chiare. Il carcere si è trasformato per un giorno in un palcoscenico di creatività, dove le ferite si sono fatte voce e le parole speranza. Padova. Pallalpiede, la squadra di calcio del carcere diventa protagonista di un cortometraggio Corriere del Veneto, 21 giugno 2025 “Sopra la barriera. Calcio, detenzione e nd rieducazione”. È questo il titolo del cortometraggio, realizzato dalla Bonfire Agency di Roma, che dopodomani, lunedì, verrà proiettato in anteprima all’interno dell’auditorium del carcere Due Palazzi, alla presenza, tra i tanti, della direttrice Maria Gabriella Lusi, del sindaco Sergio Giordani e del presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Giancarlo Abete. Al centro dell’opera, c’è la storia dell’asd Pallalpiede, cioè la squadra di calcio fondata nel 2014 e composta dai detenuti della struttura di reclusione padovana, che milita nel campionato di Terza Categoria, disputando ovviamente tutte le partite in casa. Un fenomeno, quello appunto della Pallalpiede, che ad oggi, in Italia, è stato imitato soltanto dalla Libertas Stanazzo, ossia la compagine di calcio a cinque formata dai reclusi del carcere di Lanciano, che gioca nella serie D abruzzese. Secondo l’ultimo report del Garante cittadino dei detenuti, Antonio Bincoletto, oltre l’80% dei circa 550 detenuti del Due Palazzi è pressoché quotidianamente impegnato in attività sportive o come cucito, scultura, pittura, teatro e musica. Roma. Festa della Musica 2025 a Rebibbia: il canto come ponte tra dentro e fuori direfarecambiare.org, 21 giugno 2025 Sabato 21 giugno 2025 alle ore 11.00, presso il Teatro della Casa di Reclusione di Rebibbia, si terrà il concerto conclusivo del laboratorio di canto del progetto Say Do Change, realizzato all’interno dell’istituto penitenziario con la partecipazione di 15 uomini detenuti, al termine di un percorso durato otto mesi. Condotto dalla cantautrice e docente Assia Fiorillo, con la direzione artistica di Giulia Morello, il laboratorio ha rappresentato un intenso cammino di espressione artistica, crescita personale e inclusione sociale. L’evento si inserisce nel programma della Festa della Musica 2025, promossa a livello nazionale dall’Aipfm - Associazione Italiana per la Promozione della Festa della Musica, e sarà un vero e proprio concerto con un repertorio di 15 brani, interpretati dai detenuti cantanti e accompagnati da musicisti professionisti. Il concerto sarà aperto a tutta la popolazione detenuta della Casa di Reclusione di Rebibbia, offrendo un’occasione collettiva di partecipazione e ascolto. Un momento di grande valore artistico e simbolico, in cui la musica diventa voce e ponte tra mondi apparentemente distanti. Il laboratorio è promosso dalle associazioni Dire Fare Cambiare APS e MASC APS, in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Direzione Casa di Reclusione Roma Rebibbia, e grazie al sostegno di SIAE - Società Italiana degli Autori ed Editori. Il progetto è stato ideato per offrire uno spazio di formazione musicale, ma anche di dialogo, confronto e riscatto. In un contesto spesso invisibile come quello carcerario, la musica si è confermata uno strumento potente per costruire ponti tra il “dentro” e il “fuori”. Il Dentro e il Fuori: un ponte di senso - Portare progetti culturali all’interno del carcere significa anche mettere in discussione stereotipi, aprire varchi di umanità e riconnettere esperienze apparentemente distanti. Il progetto Say Do Change si inserisce in questa prospettiva, promuovendo un modello culturale che non separa, ma unisce, e che restituisce valore alle storie individuali, alle possibilità di cambiamento, alla dignità delle persone. Due brani speciali: la forza della testimonianza e della memoria - Nel corso del concerto saranno presentati due brani inediti, simbolicamente rappresentativi dei due mondi che il progetto cerca di avvicinare: uno nato “dentro” il carcere, dall’esperienza diretta della reclusione, e uno nato “fuori”, ispirato dal patrimonio culturale condiviso. “Ferro Freddo”, scritto da Daniele, uno dei detenuti partecipanti al laboratorio, è un brano potente e autentico che racconta la quotidianità del carcere con parole crude e sincere. Nato “dentro”, nel cuore di un percorso lungo otto mesi, il brano è un gesto di verità, di testimonianza e di desiderio di riscatto. È la voce di chi cerca uno spazio per essere ascoltato, un’espressione di umanità che mostra quanto la cultura possa essere uno strumento di consapevolezza e trasformazione. Link alla canzone: https://youtu.be/jmXt6Uq9hU8 “Il topo e la montagna (Ogni passo torna indietro)”, è l’adattamento musicale dell’omonima favola scritta da Antonio Gramsci nelle Lettere dal carcere, e da lui dedicata ai figli. Questo brano, che arriva dal “fuori”, porta con sé un messaggio universale e ancora oggi urgente: giustizia sociale, economia circolare, rispetto per l’ambiente, trasmissione intergenerazionale dei valori. La musica, la rielaborazione del testo e l’interpretazione sono a cura di Assia Fiorillo, l’arrangiamento di Pino Pecorelli. Il brano è prodotto dall’Associazione Dire Fare Cambiare APS e dal Festival “Ora è qui. La quarta dimensione della cultura”. Link alla canzone: https://distrokid.com/hyperfollow/assiafiorillo/il-topo-e-la-montagna-ogni-passo-torna-indietro Tra i brani scelti dai partecipanti anche “Gli uomini non cambiano”, interpretato collettivamente. La proposta è nata in seguito a un momento particolarmente intenso, durante l’incontro con l’illustratrice Anarkikka, lo scorso 25 novembre, in occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne. Un confronto emozionante che ha lasciato il segno e aperto riflessioni importanti sul cambiamento e sulla responsabilità. Torino. Creare per rinascere: lavoro, arte e dignità oltre le sbarre torinotoday.it, 21 giugno 2025 Al Green Pea da venerdì 27 a domenica 29 giugno: talk, esposizioni di prodotti artistici e artigianali realizzati in carcere, sfilate e una mostra fotografica sulle carceri italiana. Si inizia venerdì 27 giugno dalle ore 18 con l’apertura della gallery e alle ore 19,00 con il talk inaugurale “Creare per Rinascere - Lavoro, Arte e Dignità oltre le Sbarre” moderato da Monica Carelli, referente dello spettacolo teatrale Brothers in Jail. Un dialogo aperto tra professionisti del diritto, rappresentanti del mondo accademico, universitario, istituzionale, artistico e degli operatori sociali, per raccontare come la moda, il teatro, la fotografia e la formazione professionale possano diventare strumenti concreti di reinserimento sociale, crescita personale e rigenerazione umana per le persone detenute. A seguire, dalle ore 20,30, è possibile visitare la gallery espositiva a cura delle attività operate dalle associazioni e dai laboratori interni agli istituti penitenziari, come ad esempio confezione di capi di abbigliamento, accessori di moda, laboratori di musica e teatro, di food & beverage, attività di formazione nelle specializzazioni artigianali. Grazie a delle performance dal vivo, i detenuti potranno presentare al pubblico le competenze apprese e partecipare a workshop formativi su innovazione tessile e fashion marketing. Lo spazio espositivo con vari stand disponibili alla vendita dei prodotti realizzati negli istituti resterà aperto anche nelle giornate di sabato 28 giugno e domenica 29 giugno dalle 14:00 alle 22:00. Concomitante all’inaugurazione verrà aperta la mostra del fotografo Paolo Ranzani, che porterà al Green Pea il suo reportage inedito svolto nelle carceri piemontesi: una serie fotografica che racconta la quotidianità dei detenuti, impegnati nel lavoro e nella creazione, attraverso una selezione di 30 immagini realizzate nel laboratorio teatrale del carcere di Saluzzo con la regia di Koji Miyazaki per “Voci errranti” - La Soglia - Vita Carcere Teatro (ed. Gribaudo). Domenica 29 giugno alle 17:30 uno slot di performances porterà in passerella le sfilate di capi e accessori realizzati all’interno degli istituti di pena per raccontare il carcere attraverso la moda e la creatività. Lecco. L’Orchestra del Mare porta le storie dei migranti e dei detenuti di Claudio Urbano chiesadimilano.it, 21 giugno 2025 Al Festival della Speranza per i giovani suonerà un violoncello ricavato dal legno dei barconi nel laboratorio del carcere di Opera per iniziativa della Casa dello Spirito e delle Arti, il cui presidente Arnoldo Mosca Mondadori spiega: “Questi strumenti riescono a trasformare anche il pubblico che li ascolta”. Dalle sponde di Lampedusa a quelle del Lago di Lecco, dopo aver ricevuto nuova vita nel laboratorio di liuteria del carcere di Opera. È la metamorfosi del legno dei barconi dei migranti, trasformati negli strumenti dell’Orchestra del Mare e saliti ormai sui palchi di tutto il mondo. Il prossimo concerto sarà nel carcere di Sing Sing, a New York, dopo che un detenuto ne ha conosciuto la storia. Prima, un violoncello suonerà per i giovani della Diocesi, nella serata del Festival della Speranza a Lecco. Momenti in cui tutto ciò che sarebbe stato scartato diventa fonte di bellezza. Una metamorfosi che non si limita ai legni delle barche, ma di cui possono essere protagonisti in prima persona le stesse persone migranti, “considerate una massa da tenere lontana da noi; così come le persone detenute, spesso giudicate dall’opinione pubblica senza alcuna pietà cristiana, mentre l’articolo 27 della Costituzione ci dice che le pene non devono essere disumane, ma tendere alla rieducazione del condannato”, riflette Arnoldo Mosca Mondadori, pronipote del fondatore della casa editrice milanese e presidente della Casa dello Spirito e delle Arti. Fondazione con cui, dall’Orchestra del Mare ai laboratori per produrre le ostie che diventeranno poi l’Eucarestia, desidera testimoniare “l’infinita bellezza e l’infinita dolcezza di questo Essere Vivente che è Gesù e che è presente qui, sulla terra”. Ai giovani che il 21 giugno si incontreranno a Lecco un “violoncello del mare” porterà dunque con la sua musica le storie di chi ha viaggiato su queste barche. Perché, “mentre tutti speriamo che non arrivi più nessun barcone e che queste persone possano costruire un progetto di vita nei propri Paesi d’origine - sottolinea Mosca Mondadori - se gli arrivi continuano è deplorevole distruggere queste memorie, queste barche che hanno portato copie della Bibbia o del Corano con le pagine sottolineate, i diari e le pagelle dei bambini, altri oggetti personali”. Per questo anche il processo di recupero del legname da questi barconi, che avviene in un grande campo all’esterno del carcere di Opera, richiede un’estrema cura. E mentre il legno, a seconda della tipologia, si trasforma in un violino oppure nei grani di un rosario, questo passaggio può cambiare anche la vita dei detenuti. Come è avvenuto per Andrea, una delle persone addette a questo recupero a Opera, che proprio da esso ha tratto l’ispirazione per un monologo, lo Spaccabarche, in cui ha riletto la sua vita con queste parole: “Come queste barche si possono trasformare in strumenti musicali, anch’io posso cambiare, posso diventare un’altra persona”. E Mosca Mondadori testimonia che la musica di questi strumenti - diretti anche da Riccardo Muti proprio a Lampedusa nell’estate scorsa - riesce a trasformare anche il pubblico, toccando l’anima di chi ascolta, al di là della provenienza o della fede religiosa. Sabato 21 giugno, sulle sponde del lago, la musica di questi strumenti accompagnerà dunque la partenza dei giovani, chi per il Giubileo a Roma, chi per altre esperienze. Giovani che, è convinto Mosca Mondadori, “sono trafitti dalle contraddizioni di questo mondo dilaniato, ma hanno anche le risorse per il cambiamento”. Il passaggio necessario del mondo degli adulti, osserva, è quello dell’ascolto, un antidoto contro il rischio di fermarsi a etichettare i ragazzi: “Bisogna dare voce al loro desiderio: ascoltare il loro disagio nel trovarsi di fronte a un futuro incerto, e stimolare i loro sogni, le loro forze, i loro desideri più belli e i loro progetti per il bene del mondo”. Quella vita ritrovata oltre “l’amore in gabbia” di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 21 giugno 2025 L’indagine di Donatella Stasio “L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere”, a cura di Daniela Padoan, per Castelvecchi. Lungo la storia di Gianluca, tragica e straordinaria, si snoda il viaggio nel sistema penale e carcerario italiano. Non è facile raccontare l’essenza della vita in carcere, le sue ambiguità, le sue distorsioni, la sua selettività senza affidarsi a codici tradizionali, siano essi sociologici o più strettamente giuridici. Il grande merito di Donatella Stasio, nello scrivere L’amore in gabbia. La ricerca della libertà di un reduce dal carcere (a cura di Daniela Padoan, Castelvecchi, pp.182, euro 18,50) è proprio quello di avere stravolto la chiave narrativa, mettendosi all’incrocio tra il romanzo biografico e l’inchiesta giornalistica. Donatella Stasio torna a scrivere di carcere dopo averlo fatto anni addietro insieme a Lucia Castellano in Diritti e castighi. Nel frattempo memorabili sono stati gli anni del suo impegno nell’ufficio stampa della Corte Costituzionale. Con nostalgia ricordiamo quel viaggio che i giudici decisero di fare negli istituti di pena italiani, per segnare plasticamente come il carcere mai dovesse essere gestito e vissuto come il non luogo dei diritti negati. Il reduce di cui si parla nel libro è Gianluca, lungo la cui storia, tragica e straordinaria, si snoda il viaggio nel sistema penale e carcerario italiano. La storia familiare di Gianluca è fatta di morte, solitudine, abbandono sociale, vita di strada e inevitabilmente galera. Con dolcezza Donatella Stasio lascia la parola a Gianluca che porta il lettore, senza mai cedere a retorica o pietismo, nelle periferie urbane dell’hinterland milanese, nelle celle e nelle sezioni dell’istituto penale per minori Beccaria, nelle sezioni di San Vittore a Milano e Busto Arsizio, passando per quelle di Fossombrone e Bollate, da cui parte il suo viaggio verso l’emancipazione sociale e culturale. Gianluca è di un’altra generazione rispetto ai rapper Massimo Pericolo o Baby Gang, ma le loro canzoni sembrano essere la colonna sonora anche della sua vita. Si pensi a quando in Straniero Massimo Pericolo canta: “ho abitato in centro solo quando ero dentro” (ossia a San Vittore), o al flow di Baby Gang in Cella 1: “mi ricordo quando eravamo bimbi, giocavamo porta a porta con i sinti. Dopo siam cresciuti ma sempre con i sinti. Giocavamo a poker, ma dietro i blindi. Ancora non ho parlato fra di galera. Raga almeno fate parlare chi dentro c’era”. Brava Donatella Stasio, ha fatto parlare chi dentro c’era. Per questo il suo libro ha un tasso di credibilità alto. Perché quando parla di predestinazione sociale al carcere, di violenze nelle sezioni, di insensatezze, di fidanzate fuori e masturbazione dentro le celle, di sessualità e corpi dimenticati si affida al sapere critico di un reduce. La chiave narrativa scelta ha anche il sapore dell’inchiesta, senza mai cedere alle approssimazioni. Donatella Stasio conosce perfettamente il contesto penitenziario. Non si affida a stereotipizzazioni o a letture ovvie nell’accompagnare Gianluca a raccontare la sua storia, paradigmatica ma allo stesso tempo unica. In tempi bui come quelli che stiamo vivendo e di cui la stessa Stasio racconta sul finire del suo libro, Gianluca ci porta per mano fuori dal carcere spiegando a tutti noi come e perché dobbiamo continuare a lottare per liberarci dalla sua apparente ineluttabile necessità. È, dunque, un libro rigoroso e fluido che si muove in controtendenza rispetto a un sistema penitenziario che, visti i numeri e le condizioni tragiche di vita, oggi lascia i detenuti senza respiro. Gianluca è uno. Oggi è fuori. Ha lasciato la recidiva alle spalle. Nelle prigioni italiane ce ne sono altri 63mila circa, molti dei quali vittime, come il protagonista del libro, di un sistema penale selettivo sulla base della classe sociale, del censo, dell’etnia, della nazionalità, delle storie di vita. Quel filo rosso tra pacifismo e dissenso di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 giugno 2025 Pensavate che la stretta riguardasse solo giovani infervorati, attivisti appassionati e militanti accaniti? Invece i primi a farne le spese sono gli operai, già denunciati dalla polizia. Non avendo ancora imparato a volare, i metalmeccanici che nel giorno dello sciopero per il contratto manifestavano a Bologna, fatalmente hanno ostruito “con il proprio corpo” (altri non ne avevano) la “libera circolazione su strade ordinarie”. Succede da diversi secoli, a questo in fondo servono i cortei di protesta; succede da prima che in Italia fosse reato il blocco stradale e ferroviario e cioè dal 1948. Punito allora in maniera più mite da come lo è oggi dal governo Meloni e dalla creatura che meglio lo rappresenta, il decreto “sicurezza”. Prima si rischiava una multa (male anche quello) adesso due anni di carcere. Pensavate che la stretta riguardasse solo giovani infervorati, attivisti appassionati e militanti accaniti? Invece i primi a farne le spese sono gli operai, già denunciati dalla polizia. Così tra chi vorrebbe lavorare con un contratto aggiornato e chi preferisce continuare a pagare gli stipendi di quattro anni fa, i fuorilegge sono i primi. E la destra naturalmente schiera se stessa e i tutori dell’ordine a difesa degli interessi padronali, anche qui siamo sul classico. Ma tanto basta per comprendere quanto alta sia diventata la posta in gioco di ogni manifestazione di dissenso, al tempo dell’autoritarismo. Non si tratta solo delle ragioni, pur così evidenti, dei lavoratori, si tratta ormai dei diritti di tutti. Qualche ostacolo alla “libera circolazione” e qualche resistenza passiva è prevedibile anche oggi, che finalmente è il giorno della manifestazione nazionale contro il riarmo e per Gaza. C’è un filo nero molto spesso ed evidente che unisce la copertura che viene offerta a Israele nella sua quotidiana carneficina a Gaza e più recente aggressione all’Iran, la riduzione in brandelli del diritto internazionale, la strada senza uscita del riarmo imboccata con decisione e l’esigenza di reprimere il dissenso interno. C’è anche una conseguenza molto prevedibile dei tagli allo stato sociale per le enormi spese di riarmo, in Italia come in altri paesi europei. Ed è un’ulteriore impoverimento, una spinta verso la marginalità di strati più larghi delle popolazioni. Destre sempre più estreme, razziste e guerrafondaie si preparano a incassarne i dividendi di consenso elettorale. Il precipizio è davanti ai nostri occhi. L’ex presidente degli Stati uniti George W. Bush disse una volta che non sarebbero stati i pacifisti a fermare la guerra. Lo disse al tempo in cui il movimento per la pace era enormemente più forte di oggi, per il New York Times addirittura una “superpotenza”. Le guerre in effetti continuarono. Per arrivare però dove quei pacifisti prevedevano, cioè a nient’altro che ad altre dittature, fame, fanatismo, migrazioni forzate, oppressioni. Il tutto al prezzo di devastazioni e centinaia di migliaia di morti. Vent’anni e più dopo l’Afghanistan e l’Iraq, la vecchia idea di esportare con le armi la democrazia è tornata di moda. In Iran con lo schema già visto delle armi di distruzione di massa da disinnescare e di un regime da cambiare. Nel frattempo però la democrazia è diventata merce assai più scarsa proprio nel nostro Occidente che dovrebbe esportarla. L’Europa in armi si fa caserma e il nostro paese è tra le baracche più rigide e “sicure”. Rimettere insieme i pezzi del pacifismo e del dissenso è tanto più urgente. Migranti. Così la Cassazione ha bloccato la seconda fase dei centri in Albania di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 giugno 2025 Ecco le motivazioni del rinvio alla Corte Ue. Forti dubbi di compatibilità tra le modifiche alla legge di ratifica e le direttive europee. Intanto a Gjader restano in 28. La Cassazione ha depositato ieri le motivazioni del rinvio alla Corte di giustizia Ue che di fatto blocca la nuova fase dell’accordo Roma-Tirana, quella sui migranti “irregolari” deportati dall’Italia. Il caso era stato anticipato dal manifesto il 30 maggio scorso, dando notizia dei dubbi degli ermellini sulla compatibilità tra le modifiche alla legge di ratifica del protocollo e le direttive procedure e rimpatri. Il giorno precedente al Palazzaccio era stato letto il dispositivo su due ricorsi, unificati, avanzati dal Viminale contro le non convalide dei trattenimenti decise dalla Corte d’appello di Roma. Al centro delle valutazioni la posizione di un richiedente asilo tunisino e di uno algerino, che hanno fatto domanda di protezione dietro le sbarre di Gjader. L’anteprima sul “quotidiano comunista” aveva fatto innervosire il capogruppo FdI alla Camera Galeazzo Bignami che, “inquietato e sconcertato”, aveva annunciato un’interrogazione al guardasigilli Carlo Nordio per capire come avevamo avuto accesso al provvedimento. Interrogazione di cui ci piacerebbe conoscere l’esito, visto che il dispositivo era pubblico. Ieri con il deposito sono diventate pubbliche anche le motivazioni. In primo luogo la Cassazione contesta l’equiparazione della struttura di Gjader ai Cpr italiani: nonostante lì valga la giurisdizione tricolore quello resta territorio albanese. Al di là di quanto sostiene il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e pretende il governo tutto. Gli ermellini sottolineano un elemento incontrovertibile: se il giudice nega il trattenimento non si può “disporre la liberazione immediata” del migrante. Infatti ogni volta passa del tempo, a differenza di quanto avviene nei Cpr italiani. In ogni caso le questioni sollevate davanti alla Corte Ue, chiare già dal dispositivo, sono due. La prima: deportare dall’Italia all’Albania un migrante “irregolare” viola la direttiva rimpatri? Di fatto si tratta di un trasferimento in un paese terzo, fuori dai casi consentiti dalla normativa comunitaria. La Cassazione vuole sapere se il carattere “dichiaratamente transitorio” dello spostamento crea una legittima eccezione o resta contrario alla direttiva. Anche perché il trattenimento amministrativo è giustificato solo ai fini del rimpatrio e per i centri albanesi non c’è “alcuna previsione normativa attuativa” su come tale obiettivo debba essere realizzato. Il motivo ha poco a che fare con il diritto: l’ampliamento della destinazione d’uso dei centri, originariamente riservati ai richiedenti asilo mai entrati in Italia, è solo un goffo tentativo del governo di salvare il progetto dopo la bocciatura della prima fase. Tanto che i rimpatri avvengono, o dovrebbero avvenire, sempre dall’aeroporto di Fiumicino. Nel caso in cui la Corte Ue giudichi comunque legittimi i trasferimenti degli irregolari, la seconda questione sollevata dalla Cassazione serve a capire cosa succede quando queste persone chiedono asilo, modificando il loro status giuridico. Perché, in base alla direttiva procedure, i richiedenti devono rimanere sul territorio del paese membro almeno fino all’intervento di un magistrato. Il dubbio è che il Cpr di Gjader rompa il quadro complessivo delle garanzie comunitarie sull’asilo, che devono essere uniformi. Finora la Corte d’appello di Roma, giudice di merito che può disapplicare la normativa nazionale per far valere direttamente quella Ue, ha liberato chiunque ha fatto domanda di protezione. Mercoledì le ultime tre decisioni che fanno scendere a 28 i trattenuti a Gjader. La Cassazione ha chiesto alla Corte Ue la procedura d’urgenza. Nel caso, ci vorranno comunque dei mesi. Nonostante tutto, Piantedosi ha annunciato nuovi trasferimenti in Albania. Anche fosse le persone ci resterebbero giusto il tempo di alimentare il teatrino del governo. Vertice sui migranti. La Libia in fiamme preoccupa il governo di Andrea Colombo Il Manifesto, 21 giugno 2025 Il vertice limitato ai “ministri competenti”, al termine della riunione del consiglio dei ministri, è convocato per fare il punto sulla Libia. La situazione è preoccupante. Le partenze di migranti sono in aumento, la sicurezza in picchiata e forse c’è anche qualche ombra in più: quella di manovre russe per insediarsi sfruttando la guerra per bande. Ma in un momento come questo è impossibile non parlare di Iran. La premier infatti ne parla. Non con tutti ma, prima che il vertice inizi, con il ministro degli Esteri, che incidentalmente è anche leader di un partito di maggioranza. La domanda che Meloni e Tajani si pongono è secca: “Che si fa se gli americani entrano in guerra e ci chiedono le basi?”. La risposta che i due si danno è la stessa e quanto all’altro vicepremier, Matteo Salvini, non c’è neppure bisogno di chiedere. L’idea di mettere a disposizione di Trump le basi non sorride né alla tricolore né all’azzurro però se chiede le basi non si può che dirgli di sì. Dunque, dita ancor più intrecciate perché l’eterno indeciso si faccia convincere da Bannon e dai vocianti Maga, contrari al bombardamento a stelle e strisce, piuttosto che da Vance e dalla squadretta della Casa Bianca, che non vede l’ora di decollare. Sbrigata la faccenda, premier e vice affrontano il ginepraio libico con il ministro della Difesa e, in collegamento da Taormina, quello degli Interni Piantedosi, nonché con i capi dell’intelligence. A chiarire sommariamente i termini del problema, ancor prima del summit, era stato proprio il responsabile del Viminale: “Registriamo una recrudescenza di conflittualità tra le milizie e di conseguenza abbiamo registrato una leggera ripartenza di traffici di migranti. Dobbiamo lavorare rispettando la sovranità del Paese e preoccupandoci di tutti i grandi interessi che abbiamo e che non si esauriscono con i migranti”. Una delle grandi preoccupazioni sono i circa 500 italiani in Libia, che rischiano di trovarsi in mezzo a una vera ripresa della guerra civile, perché a conti fatti di questo si tratta. L’aumento degli sbarchi è contenuto ma innegabile, nel complesso il 17,5% in più rispetto al giugno dell’anno scorso. Ma il guaio è che il grosso viene proprio dalle coste libiche. Il vertice è fulmineo, concorda sul fatto che ormai la Tripolitania è contesa da bande di predoni, nel concreto non conclude molto oltre la presa d’atto di una situazione che rischia di sfuggire di mano e che, pertanto, richiederebbe di essere risolta alla radice evitando la destabilizzazione. Facile a dirsi, quasi impossibile a farsi. I convenuti concordano sull’urgenza di coinvolgere altri Paesi africani, sia di partenza che di transito, basandosi su quel piano Mattei che la premier e la presidente della Commissione avevano esaltato in mattinata nel summit di Villa Pamphili. Facessero quei Paesi il loro lavoretto e provvedessero a bloccare partenze e flussi prima che i migranti arrivino nella instabile Libia. Quel che non viene neppure preso in considerazione è rinunciare al memorandum Italia-Libia, quello firmato a suo tempo, nel 2017, da Paolo Gentiloni. Ha permesso di riportare in Africa circa 85mila persone ma ha anche riempito i lager libici. Ieri, Giornata del Rifugiato, tutte le associazioni hanno chiesto di non rinnovare l’osceno memorandum. Non saranno ascoltate. Alla vigilia del vertice Nato dell’Aja sul tavolo non poteva non finire la tabella di marcia che dovrebbe portare l’Italia a devolvere il 5% del Pil per l’Alleanza. L’Italia non seguirà la Spagna e non si opporrà all’obiettivo fissato dal segretario generale della Nato Rutte ma dettato, piuttosto imperiosamente, dall’amico Trump. Si sa che quando ci sono i dollari di mezzo l’uomo non conosce vincoli amicali di sorta. La richiesta sarà di arrivare al 3,5%, la percentuale che per Rutte dovrebbe riguardare le spese militari propriamente dette, entro dieci anni ma con tappe intermedie flessibili a seconda delle disponibilità di cassa. Macron e Merz sono d’accordo. Starmer è stato il primo a chiedere di spostare il traguardo dal 2032 al 2035. Se anche dovesse avere dubbi sul capitolo flessibilità, che per l’Italia è importante quanto lo slittamento dei tempi, comunque non si metterà di mezzo. Migranti. L’altra Cutro è in Grecia: rinviati a giudizio 17 membri della Guardia costiera ellenica di Giulio Cavalli Il Domani, 21 giugno 2025 Oltre 600 morti nel naufragio del 14 giugno 2023 a Pylos. Le accuse dei giudici: naufragio, mancato soccorso e esposizione a pericolo mortale. Ora i sopravvissuti e le famiglie delle vittime parlano di “crimine di stato” e chiedono che siano indagati anche i vertici rimasti fuori dall’inchiesta. Il 14 giugno 2023, a 47 miglia dalla costa greca, il peschereccio Adriana affonda portando con sé oltre 600 persone. È il naufragio più grave nella storia recente del Mediterraneo. Le vittime erano partite dalla Libia, stipate in condizioni disumane: uomini sotto coperta, donne e bambini - almeno un centinaio - rinchiusi nella stiva. Di quelli non si è salvato nessuno. Solo 104 superstiti, che navigavano in posizioni più fortunate. La barca era alla deriva da ore, visibile a Frontex già dalla mattina del 13 giugno. Per 15 ore le autorità greche hanno monitorato senza intervenire. Poi, secondo decine di testimonianze, un tentativo di traino operato dalla motovedetta della Guardia costiera ellenica provoca l’affondamento. Le indagini forensi coordinate da Forensic Architecture e giornalisti di The Guardian e ARD, premiate con il Daphne Caruana Galizia Prize, hanno demolito la versione ufficiale: la barca non era in movimento autonomo, come sostenuto da Atene, ma quasi ferma da oltre 90 minuti. I sopravvissuti raccontano che la motovedetta ???? 920 ha legato una cima alla prua e ha tentato di trainare il relitto sovraccarico, causandone il ribaltamento. A bordo, già prima dell’affondamento, si moriva di disidratazione. In mare calmo, la Guardia costiera ha lasciato morire. Dopo la strage, le autorità greche si muovono con lentezza e opacità. I telefoni dei sopravvissuti vengono sequestrati. Le telecamere della motovedetta risultano spente o i dati non disponibili. I telefoni degli ufficiali vengono acquisiti solo due mesi dopo, a settembre, e l’analisi forense non risulta completata neanche un anno dopo. Intanto, nove sopravvissuti egiziani, i “Pylos 9”, vengono arrestati e accusati di traffico e omicidio. Verranno assolti solo nel maggio 2024, ma non nel merito: il tribunale di Kalamata si dichiara incompetente territorialmente perché l’affondamento è avvenuto in acque internazionali. Il 19 giugno 2025 arriva una svolta: il Tribunale navale del Pireo rinvia a giudizio 17 membri della Guardia Costiera, tra cui alti ufficiali, con accuse pesantissime: naufragio, omicidio colposo plurimo, mancato soccorso, esposizione a pericolo mortale. È un primo passo. Ma la procura ha escluso altri quattro ufficiali di vertice, tra cui l’attuale comandante, giudicati “non formalmente competenti” nel momento dei fatti. I legali dei superstiti e delle famiglie annunciano ricorso: “Non si è trattato di un incidente, ma di un crimine durato 15 ore”. La strage di Pylos più che un incidente è il prevedibile risultato di un sistema. Quattro mesi prima, il 26 febbraio 2023, a Steccato di Cutro, almeno 94 persone, tra cui 35 bambini, muoiono a poche decine di metri dalla costa italiana. Anche in quel caso le autorità erano state allertate ore prima. Anche in quel caso nessun salvataggio. Anche in quel caso si parlò di tragedia, mai di responsabilità. Pylos e Cutro condividono un’identica dinamica: omissioni strutturali, narrazioni ufficiali contraddette dalle testimonianze, criminalizzazione delle vittime, assenza di un sistema europeo di soccorso. Entrambi i disastri sono stati innescati - e poi gestiti - come operazioni di deterrenza e non come emergenze umanitarie. E a nessuno sembra importare che Frontex, l’agenzia europea presente in entrambi i casi, abbia ignorato la gravità delle situazioni, rinunciando a emettere allarmi di soccorso. La giustizia, quando arriva, arriva a pezzi. I vertici sfuggono alle indagini, le prove vengono ritardate, i testimoni zittiti. L’Ue continua a collaborare con la Grecia, promettendo fondi e chiudendo un occhio. I funerali non si contano più e intanto le responsabilità restano impunite. Le famiglie delle vittime di Pylos chiedono che vengano indagati anche i livelli superiori della catena di comando: perché chi comanda ha ordinato, chi ordina ha scelto, e chi sceglie ha reso possibile una strage. Il Mediterraneo è il mare delle scelte. Quelle che decidono chi può vivere e chi può morire. La strage di Pylos è la materializzazione di un ordine europeo che ha smesso da tempo di soccorrere. E se oggi qualcuno finisce sotto processo è solo perché il crimine è stato troppo evidente per essere ignorato. Le vittime non sono morte al largo, inghiottite dal mare. Le vittime di Pylos - come quelle di Cutro - hanno sporcato di sangue i tappeti a Bruxelles, dove si decide di sabotare i salvataggi. Intanto la linea di comando resta intatta. Ed è quella che continua a firmare le condanne a morte in acque internazionali. Fino alla prossima strage troppo evidente per essere derubricata come annegamento. Fame come arma, tortura e potere. Così muore anche la nostra coscienza di Nicoletta Dentico Avvenire, 21 giugno 2025 Da Gaza al Sudan, allo Yemen: attenzione a non lasciarci anestetizzare Fame è una parola strana, astratta eppure materica. Un processo di lotta del corpo. Studiamo accuratamente i processi della fame, eppure non abbiamo idea di che cosa sia veramente, noi che ne parliamo in un pianeta che produce cibo per nutrire una volta e mezzo in più la popolazione che lo abita. La fame nega anche l’accesso all’acqua, alla casa, alla salute. Fame è una parola politica, più che umanitaria. Ha a che fare con il potere sulla terra. Lo sappiamo dalla ignobile storia delle potenze coloniali nei secoli scorsi. Lo constatiamo con quanto sta accadendo in Palestina sotto gli occhi del mondo da quando il governo israeliano ha annunciato la sua campagna di assedio per fame contro Gaza. Nel dicembre 2023 i palestinesi nella Striscia erano già l’80% della popolazione mondiale esposta alla “fame catastrofica”, secondo l’Onu: mai, dalla seconda metà del Novecento, una popolazione era stata ridotta a una fame così brutale, veloce e diffusa come i 2,3 milioni di palestinesi residenti a Gaza. La parola è però buona anche per gli altri conflitti. Per il Sudan, dove 25 milioni di civili sono in fuga e le parti combattenti usano il cibo come arma, con il rischio di un altro genocidio che coinvolge anche imprese straniere. Il disimpegno umanitario americano ha smantellato l’80% delle cucine comunitarie, condannando 2 milioni di persone alla totale penuria di cibo. Per lo Yemen: nove anni di guerra hanno incistato la fame come piaga cronica, mentre il ritiro di UsAid ha chiuso il programma per identificarne i focolai più gravi tra i bambini. Fame è una parola che abbraccia numerose vite, e significati. Ma una parola sfibrata, deprecabile. Politici da strapazzo e pennivendoli di ogni stagione l’hanno usata a cuor leggero, neutralizzandola. “La fame nel mondo”, “lottare contro la fame”: sono frasi fatte, variazioni di un luogo comune persino sarcastico, per ridicolizzare l’orizzonte di certe aspirazioni. Il problema con parole così dense di storia eppure usurate è che un giorno, all’improvviso, tornano con dirompente novità di manifestazione. Oggi le sperimentiamo live nei blocchi sempre più frequenti, nella lotta alla sopravvivenza di chi cerca il cibo, nell’azione irreversibile che svuota i corpi, raggrinzisce le persone, paralizza le membra. Fame è una parola conturbante. Una forma di tortura. Tecnici ed esperti del mestiere tendenzialmente la evitano, forse per coscienza professionale, forse non reputandola sufficientemente esatta. E così si adoperano a coniare locuzioni asettiche come denutrizione, malnutrizione, o l’eufemismo triste di un mondo che ha ceduto i diritti umani al principio della sicurezza, per negarla: insicurezza alimentare. La sfida estrema per milioni di persone si traveste così in capillari misurazioni di deperimento, descritte minuziosamente per fasi in rapporti comprensibili a pochi. La terminologia tecnica, del resto, ha l’indubbio vantaggio di non suscitare emozioni. Così i concetti finiscono per confondersi, e per confondere, nella ricerca di dati che - per beffarda ironia - sono sempre più difficili da raccogliere quando l’accesso all’aiuto umanitario è negato. Ma la fame non esiste al di fuori delle persone che la soffrono. La fame è quelle persone. Donne, bambini e anziani le fasce più vulnerabili, con un impatto di lunga gittata che dirotta le generazioni future, il destino di un Paese. Distruggendo e avvelenando la terra a vocazione agricola, decimando i porti e le barche da pesca, Israele ha distrutto circa il 93% dell’economia di Gaza, come ha scritto la Banca Mondiale alla fine del 2024. Affamare i palestinesi, tuttavia, è una vecchia tattica di occupazione, spiegata in decine di rapporti delle Nazioni Unite: come rendiconta l’esperto sul diritto al cibo dell’Onu, Michael Fawkri, Israele ha storicamente usato la distribuzione del cibo come forma di assedio della popolazione. L’idea are quella di “tenere i palestinesi a dieta, ma senza farli morire di fame”, con le parole dell’ex primo ministro Ehud Olmert. Prima del 7 ottobre, la metà della popolazione di Gaza campava di insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dagli aiuti umanitari. L’assedio totale dell’Idf ha immediatamente innescato la fame. La fame è un trauma sociale che si ripercuote per generazioni. Un bambino ridotto alla fame nei primi mille giorni di vita avrà perduto per sempre la possibilità di sviluppare i neuroni e crescere come avrebbe dovuto. Il suo cervello non potrà avere uno sviluppo cognitivo compiuto. Il suo corpo, o quello che resta, sarà facile preda di malattie, a vita. Causa danni fisici e psicologici a tutti i suoi sopravvissuti. Il senso di colpa di quanti hanno dovuto fare la scelta acuminata di chi nutrire o far morire è un dolore esistenziale incurabile. Un orrore che non trova pace neppure nei pochi memoriali pubblici sul tema. Così la fame, disumana arma di guerra, stratagemma antico di ogni progetto coloniale, tattica bellica per controllare e umiliare la dignità di popolazioni disarmate, è la tempesta perfetta. La forma “intrinsecamente genocidaria”, secondo esperti di diritto internazionale, e abulia che oggi uccide anche noi, osservatori arroganti e insipienti, la nostra falsa coscienza, le nostre ipocrisie sui diritti umani, le nostre vuote pretese di civiltà. Iran. “Il regime degli ayatollah ci ha portato all’inferno, ma le bombe non portano la democrazia” di Greta Privitera Corriere della Sera, 21 giugno 2025 La premio Nobel per la Pace e attivista iraniana Narges Mohammadi: “Sono scappata da Teheran , ho vissuto i primi giorni sotto le bombe e non ho mai avuto così tanta paura. Sono morti decine di civili, anche bambini. Dobbiamo unirci per la pace”. Sulla chat, la spunta non diventa mai doppia. I messaggi non arrivano. Le chiamate suonano a vuoto. Sono giorni che proviamo a metterci in contatto con la premio Nobel per la Pace, l’iraniana Narges Mohammadi. “Non riusciamo a sentirla, gli ayatollah hanno staccato Internet”, scrive una persona della sua famiglia. Staccano perché al buio si opprime meglio. Si incarcera, si tortura. S’impicca meglio. Tagliano la connessione con il mondo così che non arrivi la voce di gente come Mohammadi, l’ingegnera attivista che fa fuori e dentro il carcere di Evin, nemica giurata del regime e da sempre in prima linea per i diritti delle donne e degli uomini d’Iran. Ma l’ayatollah tende a dimenticare che il suo ingegnoso popolo trova sempre il modo per farsi sentire. In esclusiva, mandano al Corriere le sue risposte: pensieri sulla guerra tra la Repubblica islamica - non l’Iran ci tiene a ricordare - e il governo israeliano. Non il popolo d’Israele. L’attivista condannata a 31 anni di prigione, in libertà con un permesso speciale per la sua condizione medica, racconta che è riuscita ad andarsene da Teheran “pochi giorni dopo l’inizio dei bombardamenti”. Dove si trova? “Ora sono nei dintorni della capitale, in un piccolo villaggio. Ma ho visto con i miei occhi ciò che è accaduto a Teheran. Ho assistito ad attacchi terribili. Hanno colpito le infrastrutture, molti civili sono stati uccisi. Non posso dimenticare il rumore orribile dei droni e delle esplosioni sopra di noi. È stata una delle esperienze peggiori e più spaventose che abbiamo mai vissuto”. Conosce qualcuno che ha subito danni a causa delle bombe? “Condivido la storia di un amico che ha dovuto lasciare la sua casa con solo i vestiti che indossava perché un missile è caduto su un deposito di petrolio chiamato Shahran vicino a lui e tutto è andato a fuoco. Un disastro”. È stata nella sua Teheran bombardata per quattro giorni e poi ha fatto le valigie come più della metà della popolazione della capitale. Quanto è durata la sua fuga? “Il mio cuore è ancora lì e desidero tornare al più presto a casa mia. Ci ho messo 12 ore ad arrivare in questo paesino, di solito si raggiunge in due”. Che cosa dice chi è rimasto a Teheran? “Sono passati otto giorni dall’inizio del devastante e spietato conflitto tra il governo d’Israele e la Repubblica islamica. Milioni di persone in Iran e Israele si trovano in una situazione gravissima. Gli attacchi hanno preso di mira i civili nelle aree residenziali, mentre si trovavano nei loro appartamenti. Decine di uomini, donne e bambini indifesi hanno perso la vita. Le infrastrutture sono in via di distruzione. E tra di noi cresce l’ansia per un possibile bombardamento israeliano ai siti nucleari nelle città vicine agli impianti. Sembra che i due Paesi siano diventati il palcoscenico per l’esibizione del potere delle armi militari di due governi”. Cosa chiede a chi sta guardando a quel che accade in Medio Oriente? “Chiedo ai vincitori del premio Nobel per la Pace, alle istituzioni e alle personalità e organizzazioni internazionali per i diritti umani, agli scrittori, agli artisti, agli attivisti civili e a tutti nel mondo di fare il possibile per fermare il conflitto. La guerra si sta intensificando e aggravando: alziamoci per formare un fronte globale unito e inclusivo per il diritto alla pace”. La pace è sempre stata una delle sue battaglie. “Ho trascorso dieci anni della mia vita in prigione senza vedere i miei figli solo per aver difeso i diritti umani e la pace. Ora io e il mio popolo ci troviamo all’incrocio di due guerre. Una guerra totale tra Israele e la Repubblica islamica e la guerra interna della Repubblica islamica contro la gente d’Iran”. C’è chi dice che il conflitto potrebbe trasformarsi per il popolo iraniano nell’occasione per far cadere il regime. “Credo profondamente che la democrazia, i diritti umani e la libertà non si ottengano attraverso la violenza e le bombe. Chiedo che questa guerra venga fermata. La Repubblica islamica dell’Iran e Israele devono raggiungere un cessate il fuoco. Condanno questa guerra nel modo più fermo possibile. Il Medio Oriente ora è sommerso nel fuoco e nel sangue. Dove si può vedere un segno di speranza per la pace? Politici come Ali Khamenei, leader della Repubblica islamica, e Benjamin Netanyahu, primo ministro di Israele, sono la causa di tutto questo, perché promettono che si può costruire un futuro migliore attraverso la guerra, l’uccisione e la violenza: impossibile”. Che futuro vede? “Sto ai fatti: in Iran governa un regime misogino e religioso con Ali Khamenei al vertice, che ci ha portati all’inferno mentre prometteva il paradiso. Allo stesso tempo, anche Netanyahu ci sta portando all’inferno, mentre promette libertà e democrazia. Sono certa che la guerra non porta mai nulla di democratico, né diritti umani né libertà”.