“Amore scusa se ti abbandono, mi faccio la corda” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 20 giugno 2025 Bassem e la telefonata che l’avrebbe salvato (ma si è fermata al centralino del carcere). È la frase che centinaia di detenuti ogni anno avrebbero potuto pronunciare, potendo telefonare alla persona amata, ai figli, ai genitori. Nel momento più buio, chiusi nella disperazione, avrebbero potuto trovare conforto in una voce che magari sarebbe riuscita a calmarli. Il calore di un affetto, la vicinanza di una persona cara, avrebbe potuto dissuaderli. Ma nelle celle italiane non ci sono i telefoni. Non si può neanche chiedere agli agenti di chiamare qualcuno. Bisogna aspettare. Aspettare quei dieci minuti alla settimana che il regolamento assegna. La morte, però, non aspetta. Come nel caso di Bassem Degachi. Rinchiuso nel carcere di Venezia, il 6 giugno dello scorso anno, riceve la notifica di un ordine di custodia. Quella mattina riesce a chiamare più volte la moglie al telefono, per pochi secondi. Alle 11.32, nell’ultima telefonata pronuncia proprio quella frase: “Amore scusa se ti abbandono. Mi faccio la corda”. Poi mette giù. Lei è disperata, ma non può richiamarlo. Nessuno può chiamare un detenuto in cella. Avvisa il carcere. Sconta la trafila burocratica dei centralini, della portineria. Chiama tre volte. Urla, si dispera, chiede aiuto. Dal carcere la rassicurano. Lei implora: fatemi parlare con lui, si vuole uccidere. Loro insistono: non si preoccupi, è tutto a posto. Alle 13.50 l’avvisano. Bassem si è impiccato. ??Le regole per i colloqui telefonici in carcere sono state varate quando c’era ancora il telefono fisso, i gettoni, la Sip, le cabine. Il telefono per le persone in libertà era ancora un accessorio come un altro, usato con parsimonia. Non si viveva iperconnessi con gli smartphone, come oggi. I detenuti, invece, allora come oggi possono chiamare un familiare o un amico per un tempo massimo di dieci minuti alla settimana, frazionabili. I direttori degli istituti hanno la facoltà di aumentare questo lasso di tempo, come è stato fatto durante il Covid. Ma ora, quasi ovunque, si è tornati ai dieci minuti regolamentari. Stefano Anastasia, garante dei detenuti del Lazio, docente di filosofia e sociologia del diritto, racconta: “Ricordo che già 20 anni fa in Argentina c’era una sala dove i telefoni erano su un tavolo e chiunque poteva usarli in qualunque momento. Come succede nella serie americana Orange is the new black. Dal 2018 in Francia, su disposizione di Macron, i detenuti hanno un telefono fisso dal quale possono chiamare quattro numeri registrati, in ogni momento del giorno e della notte”. Così accade anche in Spagna. Racconta don Davide Maria Riboldi, cappellano a Busto Arsizio: “Siamo l’unico Paese in cui per telefonare i detenuti devono fornire una copia del documento che attesta il rapporto di parentela e una copia del contratto telefonico intestato alla persona che si vuole chiamare. C’erano due detenuti qui a Busto che sono stati trasferiti in istituti stranieri, uno in Belgio, uno a Londra. Da lì mi potevano chiamare quando volevano”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una delle sue (per la verità non frequentissime) esternazioni sul tema suicidi, ha promesso che avrebbe consentito un aumento delle chiamate. Due donne si erano tolte la vita, in quell’ottobre del 2023. Com’è andata poi? Anastasia: “Per un anno non è successo niente. Nel giugno del 2024 è stato varato il decreto carcere ed entro sei mesi doveva arrivare il regolamento”. Non serve andare avanti: si sarà capito che il regolamento non è mai stato emanato e che tutto è rimasto come prima (nel frattempo dal gennaio 2024 a oggi ci sono stati più di 120 suicidi). Don Davide non si capacita: “La politica si riempie sempre la bocca con la parola famiglia, poi permettono questa vergogna. Quale speranza può coltivare un detenuto, se non quella per la propria famiglia? Se ti muore qualcuno, vuoi sapere cos’è successo, fare le condoglianze subito, non dopo una settimana. Se tua figlia compie cinque anni, le vuoi fare gli auguri quel giorno. Se tuo figlio fa la maturità, lo vuoi sentire subito”. Ci sono casi che gli sono rimasti impressi: “Come quel detenuto ucraino, incarcerato per un reato che aveva commesso 20 anni prima. Era appena scoppiata la guerra e stava chiamando il figlio, quando è suonata la sirena antiaerea. Secondo il regolamento avrebbe dovuto aspettare una settimana per sapere se era vivo. Quella volta sono intervenuto io, ma è stato un caso”. ?In qualche istituto è consentito fare le videochiamate con il cellulare. Ma non sono considerate telefonate normali: sono equiparate ai colloqui in presenza. Di quelli ne sono previsti sei al mese, di un’ora ciascuno. Si fanno in stanzoni grandi e caotici, dove per sentirsi bisogna urlare, rendendo ancora più difficile il colloquio per gli altri. Ci sono tavoli con due o tre sedie, fissate a terra. Nel 2020 sono stati aboliti i vetri divisori. Ci si può tenere la mano. Se si va oltre nelle effusioni, intervengono gli agenti. ? ?A proposito di effusioni, la Corte costituzionale (sempre più supplente di una politica assente) nel 2024 ha dichiarato incostituzionale il divieto di colloqui intimi senza controllo a vista per i detenuti. Aprendo la strada al cosiddetto “diritto all’affettività”. La maggior parte degli ordinamenti stranieri riconosce spazi di espressione dell’affettività intramuraria, inclusa la sessualità. A distanza di oltre un anno cos’è successo? Lo ha spiegato lo stesso ministro ad aprile, rispondendo a un’interrogazione: “Su 189 istituti penitenziari solo 32 hanno confermato allo stato l’esistenza di uno spazio idoneo alla affettività dei detenuti, previa attuazione di ingenti e corposi interventi strutturali. Gli altri 157 istituti hanno dichiarato di non avere a disposizione spazi adeguati”. In pratica, la sentenza non ha trovato attuazione. Perché? Risponde Anastasia: “La ricerca dell’ottimo, che è nemico del bene. La sentenza non richiede la creazione di stanze con letti matrimoniali e luce soffuse. Basta una stanza qualunque, dove non entrino gli agenti. A Rebibbia c’è la casetta rossa disegnata da Renzo Piano per le detenute. Solo che è stata fatta prima della sentenza e ci sono vetri trasparenti. Ho detto: basta mettere due tende. Ma niente, resta lì, inutilizzata”. Cosa impedisce di realizzare la sentenza, in sostanza? Mancanza di soldi? Di personale? “No - dice Anastasia - lo impedisce un’idea afflittiva della pena. I detenuti non devono essere come noi, si pensa. Devono stare male, devono soffrire”. In teoria l’unica afflizione dovrebbe essere la privazione della libertà, e sarebbe più che sufficiente. “E invece c’è chi gode nel farli stare male il più possibile - dice Don Davide - Un luogo per l’intimità non è da intendere meramente come sessuale, che pure è un capitolo da prendere in considerazione. Non si tratta di consentire solo uno sfogo ormonale, ma anche, per citare De Andrè, di sentirsi dire “micio bello” e “bamboccione”. Un posto dove essere giocosi, scherzare, almeno per un’ora, per ritrovare un rapporto di complicità con i propri cari”. Però qualcosa si può fare. A febbraio il magistrato di sorveglianza di Spoleto, Fabio Gianfilippi, ha accolto il reclamo di un detenuto di Terni, recluso nel circuito di Alta Sicurezza, ordinando all’amministrazione penitenziaria di consentirgli entro sei mesi colloqui intimi con la compagna convivente, senza controllo a vista del personale. E così è stato. L’istituto di Terni ha attrezzato una stanza al piano terra, vicino alle sale colloqui. I detenuti l’hanno sistemata e imbiancata e hanno realizzato una doccia e il bagno. Nella stanza c’è un letto matrimoniale con due brande e un materasso unico. Un tavolino, due sedie, una televisione. Un detenuto ha disegnato sul muro una serie di cuori, dei cigni. E sopra, una grande scritta: “Ti amo”. L’iniziativa del Cnel contro la recidiva. Aderisce Assocontact di Tamara Esposto Il Riformista, 20 giugno 2025 Il progetto “Recidiva Zero” è promosso dal Cnel insieme ad associazioni datoriali Tramite scuola e formazione, i detenuti vengono reinseriti nel mondo del lavoro. Trasformare il carcere da luogo di segregazione a spazio di rinascita. Questo l’obiettivo di “Recidiva Zero”, il progetto promosso dal Cnel con il Ministero della Giustizia e il Ministero del Lavoro per abbattere il tasso di recidiva, oggi al 70%, attraverso scuola, formazione e lavoro. Martedì scorso, durante la seconda giornata nazionale dedicata al progetto, il Cnel ha siglato un protocollo d’intesa con sedici organizzazioni datoriali per rendere il reinserimento lavorativo dei detenuti una politica strutturale, capillare nei 189 istituti penitenziari italiani. La pena deve rieducare, recita l’articolo 27 della Costituzione. I dati lo dimostrano: la recidiva precipita al 2% per chi accede a percorsi di formazione e lavoro durante o dopo la detenzione. Eppure, su 60mila detenuti, solo un terzo è coinvolto in attività lavorative, spesso poco qualificate e senza prospettive solide. Con un costo annuo del sistema carcerario di oltre 3 miliardi di euro, “Recidiva Zero” propone un cambio di paradigma: non solo giustizia, ma un investimento economico per ridurre i costi sociali della criminalità. A raccogliere con forza la sfida c’è anche Assocontact, l’associazione che rappresenta le principali aziende italiane di Business Process Outsourcing (Bpo). “Il progetto Recidiva Zero è concreto e visionario allo stesso tempo, capace di generare un impatto sociale reale e duraturo”, ha detto il presidente Lelio Borgherese a margine dell’evento al Cnel, in cui, oltre al presidente Renato Brunetta, hanno partecipato i ministri Nordio e Calderone. “Il nostro settore - ha proseguito - ha le carte in regola per offrire opportunità qualificate: infrastrutture digitali consolidate, flessibilità organizzativa, processi standardizzati e formazione continua a distanza. E lo sarà ancora di più appena sarà approvata la pdl 1316, a prima firma Longi, sul riordino e rilancio del settore. Offrire lavoro significa restituire ruolo, speranza e dignità a ogni individuo, qualunque sia la condizione di partenza”. Borgherese sottolinea la capacità del comparto dei contact center di creare un ponte tra carcere e società: “Il richiamo di Brunetta al contributo del BPO è forte e condivisibile. Rispondiamo con entusiasmo e responsabilità”. Il protocollo impegna le parti a monitorare i fabbisogni del mercato (il Ministro Calderone ha fatto molto opportunamente notare che “abbiamo bisogno di almeno 1,4 milioni di lavoratori in più”), creare una banca dati domanda/ offerta e riattivare spazi produttivi inutilizzati nelle carceri. Tra gli strumenti, spicca il Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa (Siisl), piattaforma digitale del Ministero del Lavoro e INPS, che grazie all’IA abbina curricula a offerte di lavoro ed è già in sperimentazione presso alcuni istituti di pena. Il progetto, insomma, punta a fare del lavoro in carcere una priorità nazionale. E se un percorso professionalizzante può essere la leva opportuna per scardinare il meccanismo della recidiva, settori come quello dei contact center sembrano pronti a fare la loro parte. Con pragmatismo e senza retorica, la scommessa è trasformare il carcere da costo passivo a incubatore di capitale umano. E da luogo delle ombre a officina di futuro. Il reinserimento dei detenuti con l’agricoltura sociale ilpuntocoldiretti.it, 20 giugno 2025 L’agricoltura sociale rappresenta oggi uno strumento prezioso per il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti che sono tra le categorie più presenti nei progetti promossi dalle fattorie solidali, una rete che in Italia conta circa novemila aziende agricole nel segno di un welfare rurale che sta conquistando sempre più attenzione. È quanto emerge da una analisi di Coldiretti e Campagna Amica su dati Welfare Index Pmi diffusa in occasione della presentazione del rapporto Censis-Cnel “Recidiva zero” sull’importanza dell’attività lavorativa nelle carceri. All’iniziativa ha preso parte il responsabile dell’Area Lavoro di Coldiretti, Romano Magrini, con la firma del protocollo d’intesa per aumentare le opportunità occupazionali dei detenuti. Sono diversi i casi di iniziative e corsi promossi dalla rete di Campagna Amica direttamente nelle carceri italiane o in azienda per il reinserimento lavorativo di ex detenuti. In questo modo l’agricoltura - sottolinea Coldiretti - ha contribuito in modo significativo al miglioramento della qualità della vita di migliaia di persone, che hanno ricevuto formazione e, in molti casi, sono stati presenti quotidianamente nelle aziende agricole. Un’opportunità resa possibile dalla Legge di orientamento, fortemente sostenuta da Coldiretti, che ha rivoluzionato l’attività nelle campagne. L’ultimo esempio, premiato con l’Oscar Green dei giovani della Coldiretti, è quello “Oltre le sbarre con l’aeroponica” nato da un’idea di Luigi d’Alessio, operatore socio-culturale, socio attivo dell’Aps Oltre il Giardino, per il recupero di un’area verde all’interno delle mura carcerarie, della Casa Circondariale di Poggioreale-Napoli. Utilizzando tecniche agronomiche innovative come l’aeroponica i detenuti coltivano piante fitoterapiche, in modo semplice e accessibile. Questo non solo apre nuove opportunità di apprendimento e lavoro per i detenuti, ma crea un circolo virtuoso di inclusione sociale. E la socialità del progetto raggiunge il suo culmine nella fase finale: le piante coltivate con tanta cura e dedizione verranno commercializzate attraverso i vivaci mercati di Campagna Amica di Coldiretti. Ciò significa un’opportunità di reinserimento e dignità per chi ha sbagliato, oltre a un ponte concreto tra la realtà della Casa Circondariale e la comunità esterna. Acquistando questi prodotti, i cittadini non solo scelgono la qualità e la filiera corta, ma sostengono direttamente un percorso di rinascita, un messaggio potente di speranza che germoglia “oltre le sbarre”. È la dimostrazione che, anche nei luoghi più difficili, la terra e la socialità possono diventare strumenti potenti di trasformazione e benessere collettivo. “Le carceri possono trasformarsi in laboratori di una nuova cultura del cibo. Da un lato offrendo opportunità di riscatto attraverso il lavoro e la formazione, dall’altro migliorando la qualità dei pasti, privilegiando prodotti italiani e filiere locali” ha dichiarato la presidente di Campagna Amica Dominga Cotarella. Carriere separate. La Russa apre sui tempi ma Forza Italia vuole accelerare di Giacomo Puletti Il Dubbio, 20 giugno 2025 Il presidente del Senato chiude all’ipotesi di un contingentamento. Costa incalza Ciriani: “Si faccia in fretta”. C’ è molto fermento dalle parti del Nazareno in vista dell’incontro di oggi “Giustizia secondo Costituzione”, un evento pubblico promosso dallo stesso Pd Anm, Camere Penali, Consiglio nazionale forense e giuristi per riflettere sullo stato della giustizia in Italia a partire dai principi fondanti della nostra Carta costituzionale. Iniziativa lodevole, se non fosse che all’interno del partito e del campo largo in generale c’è più di una perplessità rispetto a un’assoluta contrarietà rispetto alla riforma della giustizia, e in particolare alla separazione delle carriere tra giudici e pm. “In un contesto in cui l’azione del governo appare sempre più orientata da logiche emergenziali e securitarie, e da proposte di segno punitivo nei confronti della magistratura come la separazione delle carriere, l’iniziativa intende rimettere al centro il rispetto delle garanzie costituzionali e i diritti fondamentali della persona”, si legge nella presentazione dell’evento. Dopo un primo panel sulle carceri, introdotto dal senatore dem Walter Verini, sarà la volta dell’incontro più atteso, quello sulle riforme in senso proprio. “Le riforme della giustizia: civile, penale, ordinamento giudiziario e separazione delle carriere. A che punto siamo?”, il titolo dell’incontro dove si confronteranno il presidente del Cnf Francesco Greco, il segretario generale dell’Anm Rocco Maruotti, il presidente dell’Ucpi Francesco Petrelli, e la vicepresidente Pd del Senato Anna Rossomando. Subito dopo gli interventi dei capigruppo dem nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato Federico Gianassi e Alfredo Bazoli, quello della responsabile Giustizia del Nazareno, Deborah Serracchiani, e la chiusura affidata alla segretaria Elly Schlein. E proprio la chiusura della leader è il momento più atteso, viste le recenti prese di posizione di Goffredo Bettini, “guru” dem e “padre” del campo largo. Se quello di Schlein non sarà certo un intervento a favore delle riforme, tuttavia la minoranza riformista del partito si aspetta delle aperture quantomeno su un possibile dialogo con la maggioranza, sulla scia di quanto già chiesto da Iv con l’ “astensione costruttiva” che i renziani stanno portando avanti in Aula. Diverso il discorso che riguarda Azione, visto che Carlo Calenda ha sempre sostenuto, fin dall’inizio, il percorso parlamentare della riforma. E a proposito di dialogo tra maggioranza e opposizione, ieri è tornato sull’argomento anche il presidente del Senato, Ignazio La Russa, il quale ha specificato che la prossima settimana non sarà quella decisiva per la chiusura dei giochi. “Non voglio strozzare minimamente il dibattito, finché è possibile non stiamo neanche contingentando i tempi - ha detto la seconda carica dello Stato Poi vediamo, dipende naturalmente dal numero di iscritti a parlare e dalla quantità di tempo che i senatori vorranno dedicare ma io almeno per qualche giorno non metto in conto il contingentamento”. Di certo la maggioranza punta dritta verso l’approvazione del testo, come ribadito anche dal viceministro di FI Francesco Paolo Sisto. “Come disse uno dei padri costituenti, la Costituzione è destinata a durare in eterno perché può essere cambiata - ha spiegato ieri Sisto - L’articolo 138 della Costituzione attribuisce alle Camere, con quattro passaggi, la possibilità di cambiare la Costituzione; qui abbiamo un altro vantaggio che la parola finale sarà dei cittadini con il referendum confermativo quindi massima tranquillità sui meccanismi che potranno eventualmente consentire questo intervento sulla Costituzione. La democrazia diretta deve tranquillizzare tutti”. L’esponente azzurro ha anche lanciato una frecciata al Pd, ricordando come “nel 2019 con la mozione Martina ha sostenuto la separazione delle carriere”. e aggiungendo che “si può cambiare idea, è legittimo ma bisogna avere il coraggio di ricordare quello che si è detto”. Tra coloro che firmarono il documento, anche la stessa Serracchiani, oltre al responsabile Riforme del Nazareno Alessandro Alfieri, il responsabile Sport Mauro Berruto, l’ex ministro Graziano Delrio, ma anche il presidente della Campania Vincenzo De Luca, i riformisti Lorenzo Guerini e Simona Malpezzi, Matteo Orfini e Dario Parrini. In ogni caso, è nei fatti che la maggioranza punti a chiudere la questione il prima possibile, per poi dare la parola ai cittadini. E pazienza se la velocità dell’iter provochi qualche screzio tra partiti di governo, come avvenuto ieri tra Forza Italia e FdI. “Il ministro Ciriani (ministro per i rapporti con il Parlamento, ndr) ha previsto che la riforma della separazione delle carriere si concluda con il secondo passaggio al Senato nei primi mesi del 2026, per poi tenere il referendum nella primavera dello stesso anno: mi permetto di suggerire una rivisitazione di questo iter, perché la celebrazione del referendum avviene almeno 5 mesi dopo la approvazione definitiva in Parlamento - ha scritto sui social il deputato azzurro Enrico Costa, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera - Ciò significa che i tempi per il referendum entro giugno 2026 sarebbero strettissimi ed un qualsiasi contrattempo lo farebbe slittare a dopo l’estate 2026. Si tenga conto che a quel punto andrebbero approvate le leggi attuative, il che non è uno scherzo, visto che andrebbe istituita l’Alta Corte, disciplinate le modalità di sorteggio, disciplinati i due Csm, requirente e giudicante. E a gennaio 2027 è prevista la scadenza dell’attuale Csm, con le operazioni di rinnovo dei togati, che andrebbero svolte prima di quella data, negli ultimi mesi del 2026. Siccome la Costituzione stabilisce che il mandato dei consiglieri Csm è di 4 anni, una proroga è impossibile”. Insomma, Costa vorrebbe correre ben più di quanto previsto dal ministro. “Occorre accelerare per evitare il cortocircuito di un nuovo Csm eletto con le vecchie regole, nonostante la riforma. Creare questo cortocircuito è l’obiettivo dell’opposizione e del suo ostruzionismo - aggiunge l’esponente forzista - È pertanto necessario scongiurarlo impegnandoci a concludere l’iter parlamentare entro l’autunno 2025 per svolgere il referendum a maggio- giugno 2026”. Il Governo corre sulla riforma della giustizia. Il Pd compatto con i giudici di Giulia Merlo Il Domani, 20 giugno 2025 La destra vuole leggi attuative e referendum entro giugno 2026, per eleggere il nuovo Csm. L’assemblea generale in Cassazione organizzata da Cassano: “Unica comunità giuridica”. Non solo in parlamento si discute di separazione delle carriere. Nei giorni scorsi la riforma costituzionale della giustizia è approdata - blindata - al Senato e i migliori auspici del centrodestra la vorrebbero approvata entro il 26 giugno. L’obiettivo è quello di arrivare a chiudere la doppia lettura a fine 2025, così che il referendum costituzionale si possa celebrare già a giugno 2026. Una corsa contro il tempo che ha una spiegazione chiara: a luglio l’attuale Csm concluderà formalmente il suo mandato e - se la riforma fosse approvata - i prossimi consiglieri verrebbero eletti con sorteggio (“temperato”, specifica una fonte di centrodestra, secondo cui le leggi attuative ammorbidiranno il sorteggio puro), evitando eventuali proroghe degli attuali eletti oppure che si torni a votare con la legge Cartabia. Su questa tempistica, però, fonti del ministero della Giustizia sono scettiche: “Difficile”, anche che per giugno prossimo siano pronte le leggi attuative. Un interrogativo, però, accomuna sia la maggioranza che la magistratura: che cosa farà il Pd? Il partito ha organizzato per oggi il convegno “Giustizia secondo Costituzione” e la segretaria Elly Schlein parlerà per ribadire la linea della contrarietà alla riforma Nordio. Un’incognita serpeggia, però: la separazione delle carriere è tema delicato, su cui in passato i Riformisti della mozione Martina si erano espressi a favore. Oggi la linea è che “con la riforma Cartabia che ha limitato a un singolo passaggio di funzione il problema è superato”, come ha detto la senatrice Simona Malpezzi. Tuttavia l’intervento di Goffredo Bettini sul Foglio - secondo cui la separazione è “un passo doveroso nella direzione di una maggiore terzietà del giudice” - ha scombinato le carte e fatto emergere dubbi. La campagna referendaria non sarà un pranzo di gala e il Pd dovrà decidere come e quanto scendere in campo. Fonti vicine alla segretaria certificano che la linea ufficiale è quella contro la riforma e che l’impegno forte ci sarà. Il blocco riformista, sulla carta, concorda. Ma dentro c’è chi spiega che il focus sarà soprattutto sul metodo “inaccettabile” usato per cambiare la Costituzione. Con una comune convinzione tra i dem: se Giorgia Meloni vincerà il referendum, il bis al governo sarà più vicino. Non c’è solo la politica, però. La magistratura si sta muovendo con i suoi modi e i suoi tempi: quella associata è da tempo mobilitata, quella istituzionale invece rinsalda i legami tra istituzioni. Per questo non è passata inosservata l’Assemblea generale che si è tenuta giovedì in Cassazione, indetta dalla Prima presidente Margherita Cassano per discutere delle “prospettive di una moderna nomofilachia”, ovvero della funzione della Suprema corte di garantire l’uniforme interpretazione della legge. L’Assemblea è un caso più unico che raro e per organizzarla Cassano - il cui incarico scadrà il 4 settembre - ha rispolverato una prerogativa che l’Ordinamento giudiziario le riconosce ma viene raramente utilizzata: l’ultima volta è successo dieci anni fa. Tuttavia tempi complessi richiedono iniziative all’altezza. L’organizzazione è iniziata a gennaio, la data è caduta in concomitanza con l’arrivo al Senato della riforma della giustizia, la presenza più prestigiosa è stata quella del presidente della Repubblica e del Csm Sergio Mattarella, seduto in prima fila insieme alle alte cariche dello stato e al ministro della Giustizia Carlo Nordio. Nel suo intervento, Cassano ha sottolineato i buoni risultati raggiunti dalla Corte nello smaltimento dell’arretrato come previsto dal Pnrr, considerando soprattutto “l’impressionante numero di ricorsi in Cassazione, pari a oltre 80.000 l’anno, che non ha eguali nel panorama europeo”. Nel merito delle riforme, la presidente ha ricordato la necessità che all’impegno delle toghe si affianchino “misure di sistema rientranti nelle attribuzioni esclusive del legislatore”. Poi ha elencato i punti critici, in particolare i rischi di effettività della risposta giudiziaria davanti alla “continua proliferazione di nuovi reati che rischiano in concreto di vanificare le tutele”. Riferendosi alle toghe come “parte di un’unica grande comunità giuridica”, Cassano ha ricordato che “ai magistrati sono richiesti senso di responsabilita? e del limite”. Poi si è rivolta a Mattarella: “Cicerone ci ammonisce a non abbandonare il proprio posto di guardia nella vita” e ha rinnovato l’impegno dei magistrati ad agire “nella piena fedelta? alla trama dei valori costituzionali”. L’accenno più politico, invece, è arrivato dal procuratore generale Piero Gaeta, il quale ha parlato di un’unica giurisdizione: “Ho notevole difficolta? teorica” “a separare il requirente di legittimita? dalla complessiva considerazione della funzione giurisdizionale in cui opera”. In altre parole, a considerare giudici e pubblica accusa separati, almeno in Cassazione. E questo perché il requirente di legittimità è “figura autenticamente dialogica e cooperativa rispetto al decisore, perseguendo, con la difesa, il “risultato di giustizia”. Parole cesellate e formalmente riferibili alle funzioni nomofilattiche della Corte, ma da interpretare. Il ministro Nordio, silente, ha ascoltato anche l’auspicio di “dialogo - doveroso e scevro da pregiudizi - con tutti gli altri poteri dello Stato”. Parole rilevanti proprio perché arrivate dai vertici della magistratura di legittimità, pronunciate davanti al Quirinale e nel momento più delicato per la riforma. Il paradosso di Forza Italia: predica garantismo ma alimenta il populismo penale del Governo di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 giugno 2025 Il partito di Tajani ha presentato un disegno di legge contro i furti d’auto basato su tre direzioni che farebbero impallidire persino Travaglio: più carcere, più intercettazioni e ostatività alla concessione dei benefici penitenziari. I numeri impietosi del populismo penale in salsa meloniana (circa sessanta nuovi reati e aumenti di pena per oltre 500 anni introdotti dall’insediamento del governo) sembrano non bastare persino alla “garantista” Forza Italia, che nei giorni scorsi ha presentato in pompa magna nella Sala Nassirya del Senato un disegno di legge contro i furti d’auto basato su tre direzioni che farebbero impallidire addirittura Marco Travaglio: più carcere, più intercettazioni e ostatività alla concessione dei benefici penitenziari. La proposta, che vede come primo firmatario il senatore azzurro Dario Damiani, mira a introdurre misure sanzionatorie speciali a contrasto del fenomeno dei furti di automobili e della relativa ricettazione. Ciò in quanto “si tratta di un fenomeno criminale in crescita, diffuso su tutto il territorio nazionale ma con picchi nella macro-area costituita dalle regioni Campania, Lazio, Sicilia, Puglia e Lombardia dove si concentrano quasi 8 furti su 10”. Nella relazione illustrativa si legge infatti che “nel 2024 sono stati rubati oltre 136.000 veicoli, con un aumento del 3 per cento rispetto all’anno precedente e un incremento del 6 per cento per le sole automobili”. Per comprendere quanto la prospettiva della politica sul fenomeno sia profondamente distorta è sufficiente considerare che nel 1991 il numero di furti d’auto si attestava a 367.252: quasi il triplo dei furti d’auto registrati nel 2024. Nonostante ciò, Forza Italia è convinta che sia necessario intervenire oggi sul piano penale. Ecco allora la ricetta proposta: in primo luogo introdurre tra le circostanze aggravanti del delitto di furto (articolo 625 del codice penale) anche quella di avere commesso il fatto su autoveicoli, motocicli o mezzi privati di trasporto, con il risultato di innalzare la pena prevista per il furto di automobili fino a sei anni di reclusione (oggi il massimo è fissato a tre anni). L’inasprimento sanzionatorio renderà possibile il ricorso alle intercettazioni di conversazioni, proprio l’ambito nel quale da tempo Forza Italia sta cercando di realizzare riforme con l’obiettivo opposto, cioè quello di ridurre l’uso eccessivo delle intercettazioni da parte della polizia giudiziaria e dei pubblici ministeri. Un cortocircuito lampante. Il disegno di legge prevede anche l’arresto obbligatorio in flagranza di reato e l’inasprimento delle sanzioni relative alla ricettazione di autoveicoli o motocicli derivanti dal reato di furto aggravato dalla nuova circostanza. Infine, “per garantire la certezza della pena”, viene previsto che la commissione del reato di furto di automobili diventi ostativo alla concessione dei benefici penitenziari, rientrando nel catalogo dei delitti previsti dall’articolo 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario. Insomma, la soluzione è più carcere per tutti. E pensare che la scorsa estate proprio il partito guidato da Antonio Tajani ha voluto realizzare, con il Partito radicale, una serie di visite nelle carceri italiane e di iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del sovraffollamento negli istituti di pena e ribadire il valore rieducativo della pena. Buoni propositi che vengono ora smentiti, anche se c’è da dire che si è di fronte soltanto all’ultima manifestazione di populismo penale da parte del partito fondato da Berlusconi, visto che da quando è nato il governo Meloni Forza Italia ha votato a favore della serie infinita di provvedimenti che hanno introdotto decine di nuovi reati e di inasprimenti di pena. Una tendenza legislativa che ieri è stata oggetto di riflessione da parte della prima presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, durante l’assemblea generale della Suprema Corte. Cassano ha invitato il legislatore (cioè le forze politiche) a riflettere sull’“effettività della risposta dell’ordinamento a fronte della indiscriminata giustiziabilità di ogni pretesa e della continua proliferazione di nuovi reati che rischiano in concreto di vanificare le tutele e, in assenza di parametri legislativi di priorità nella trattazione degli affari, di rendere il magistrato, dotato di una legittimazione esclusivamente tecnico-professionale, arbitro del bilanciamento dei diversi valori costituzionali in gioco che dovrebbero trovare il loro naturale componimento nella sede parlamentare quale luogo di sintesi delle diverse sensibilità”. La continua introduzione di nuovi reati infatti, come ha ben sottolineato Cassano, porta a un inevitabile rafforzamento del ruolo del pm, che, inondato di notizie di reato, deciderà cosa perseguire in base alle sue convinzioni personali e ideologiche. L’ennesimo paradosso del populismo penale, e della linea tenuta da Forza Italia. Consulta. Legittima la mancata depenalizzazione dell’ingresso illegale in Italia Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2025 Per la Corte costituzionale, sentenza n. 81 depositata oggi, non è suscettibile di pregiudicare in radice il progetto del legislatore delegante. L’omessa depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato costituisce mancata attuazione di una parte dell’oggetto della delega contenuta nella legge numero 67 del 2014: trattandosi quindi di delega in minus, non sussiste la violazione dell’articolo 76 della Costituzione. È quanto si legge nella sentenza numero 81, depositata oggi, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale di Firenze, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, dell’articolo 3 del decreto legislativo numero 8 del 2016, nella parte in cui non prevede la depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato. La sentenza ha precisato che l’omessa depenalizzazione non determina nemmeno lo stravolgimento della legge di delegazione invece evocato dal rimettente. “L’omessa attuazione attiene, infatti, a una singola fattispecie di reato, sicché non è idonea a minare il complessivo disegno del legislatore delegante, che ha previsto un’azione di depenalizzazione, “cieca” e nominativa, ad ampio spettro, concernente una vasta platea di reati”. La mancata depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato non è, quindi, suscettibile di pregiudicare in radice il progetto del legislatore delegante. La sentenza ha considerato che anche la Commissione giustizia della Camera dei deputati si era, del resto, a suo tempo espressa in tali termini, precisando che la scelta del Governo si risolveva in “un mancato esercizio della delega su un particolare punto, che comunque è del tutto autonomo rispetto alle altre ipotesi di depenalizzazione”. Emilia Romagna. “Le camere di sicurezza nelle caserme sono carceri-ombra” di Andrea Scordino incronaca.unibo.it, 20 giugno 2025 Nasce il progetto per monitorare le strutture detentive sul territorio. “Esiste un mondo prima del carcere che va monitorato”. Non ha dubbi il Garante dei detenuti dell’Emilia Romagna Roberto Cavalieri che, proseguendo nella difesa dei diritti per le persone private della libertà personale, ha aperto un nuovo fronte di interesse cruciale per il ruolo che ricopre. Le camere di sicurezza presenti nelle caserme delle forze di polizia (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia locale) sono, secondo il garante, “un carcere ombra” che spesso non viene considerato. Chi si trova in una camera di sicurezza è sottoposto ad una privazione della libertà personale, anche se già avvenuto il fermo e l’arresto, antecedente alla convalida del giudice. Una situazione delicata quindi, che va trattata in maniera adeguata. Da qui nasce il progetto per monitorare le camere di sicurezza presenti nella regione, presentato questa mattina in conferenza stampa nella sede della Regione Emilia-Romagna dal garante dei detenuti Roberto Cavalieri. L’attività di accertamento e monitoraggio delle strutture è sostenuta dalla collaborazione con l’Unità privazione della libertà da parte delle forze dell’ordine di Polizia dell’Ufficio del Garante Nazionale, coordinato da Anna Rita Di Vittorio, anche lei presente in Regione. L’Emilia Romagna insieme alla Sicilia, Lombardia, Lazio e Campania, presenta sul territorio uno tra i numeri più elevati di camere di sicurezza. Sono in tutto 106 quelle tra le sedi dei carabinieri e della polizia. “Per dare un’idea del fenomeno si pensi che delle 20mila persone che transitano annualmente in Italia in camere di sicurezza, circa una su otto fa questa esperienza in Emilia-Romagna”, fa presente Cavalieri, nel corso della conferenza. Nel 2024, solo nelle camere di sicurezza di polizia e carabinieri della regione sono transitate 2.432 persone su un totale di 17.000 a livello italiano. “L’Emilia Romagna ha una particolare sensibilità verso il tema”, precisa la responsabile di Polizia dell’ufficio del garante nazionale, Di Vittorio, che prima di introdurre il progetto ci tiene a ringraziare le forze di Polizia regionali che hanno permesso di avere una mappa regionale con tutte le camere presenti. “Il progetto - continua Di Vittorio - prevede di visitare, anche in orario notturno, le camere di sicurezza per verificare lo stato di detenzione della persona”. Considerando che l’iniziativa si inquadra in una “visita di un’autorità di garanzia dello stato, rappresentata dal garante, su un’altra autorità statale, quella delle forze di polizia; il progetto deve procedere con un approccio collaborativo tra garante dei detenuti e forze di Polizia”, precisa Di Vittorio. La criticità maggiore, secondo la responsabile, resta l’agibilità delle camere di sicurezza. Molte di queste camere, specialmente nelle caserme più datate dei Carabinieri, trovano posto nei luoghi più appartati degli stabili, anche talvolta negli scantinati. “Il CPT (Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura) ha più volte espresso sulle camere di sicurezza gli standard di riferimento”, dice il responsabile di Polizia. Nel momento in cui non ci sarà la possibilità di rendere la camera compatibile con il trattamento dignitoso della persona, si dichiarerà l’inagibilità della camera”. Il progetto resta la prima iniziativa di collaborazione tra l’autorità di garanzia regionale e quella nazionale. Le visite di monitoraggio da parte del garante regionale avranno il supporto delle forze dell’ordine di Polizia dell’ufficio del garante nazionale, e la collaborazione di diversi esperti. A seguito di ogni visita si concluderà con un report di raccolta dati. L’esito del monitoraggio sarà una condivisione di obiettivi fini e fasi per migliorare lo stato delle camere di sicurezza. L’incontro di presentazione che darà il via al progetto si terrà martedì 24 giugno a Bologna, strada Maggiore (palazzo Hercolani, aula Ruffilli), dalle ore 10 alle ore 13. È prevista la partecipazione del presidente dell’assemblea legislativa Maurizio Fabbri e il presidente del collegio del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Riccardo Turrini Vita. Sicilia. Progetti per i genitori sottoposti a misure alternative al carcere palermotoday.it, 20 giugno 2025 Genitori sottoposti a misure alternative al carcere, la Regione sperimenta un modello di accoglienza residenziale. L’assessorato alla Famiglia e alle Politiche sociali ha pubblicato un avviso per finanziare, con 294 mila euro, i progetti di accompagnamento alla genitorialità e di graduale reinserimento. L’obiettivo è quello di fornire un’alternativa a quei genitori rinchiusi in carcere con i figli al seguito con la creazione di un modello integrato di accoglienza residenziale. L’assessorato regionale della Famiglia e delle Politiche sociali ha pubblicato l’avviso per finanziare, con oltre 294 mila euro un progetto, con una presa in carico multidisciplinare, che prevede l’accompagnamento alla genitorialità e il graduale reinserimento sociale di genitori sottoposti a misure alternative alla detenzione, accompagnati da bambini, secondo quanto disposto dall’autorità giudiziaria. I fondi stanziati sono stati trasferiti dal ministero della Giustizia alla Sicilia con questa specifica missione. “Vogliamo garantire - dice l’assessore Nuccia Albano - un supporto strutturato e continuativo capace di rispondere in maniera efficace e integrata ai bisogni complessi di questi genitori e dei loro figli attraverso l’attivazione di percorsi educativi, lavorativi, abitativi e psicosociali personalizzati. La misura ha una duplice finalità: evitare la presenza di bambini in carcere e tutelare la genitorialità e l’infanzia, in linea con la normativa europea e nazionale”. Il progetto, che dovrà avere una durata tra 18 e 24 mesi, è destinato a genitori, con bambini al seguito, per i quali l’autorità giudiziaria competente abbia disposto una misura alternativa alla detenzione in struttura residenziale extra-carceraria. Sono previsti percorsi di inclusione e autonomia finalizzati al reinserimento sociale, con attenzione alla protezione del minore attraverso il rafforzamento delle competenze genitoriali e delle condizioni socio-economiche del genitore. L’istanza potrà essere presentata dagli enti iscritti al Registro unico nazionale del terzo settore, che abbiano una consolidata esperienza nella progettazione e nell’attuazione di interventi in ambito residenziale a favore di persone detenute e nel loro reinserimento sociale e che posseggano la sede legale e/o operativa nel territorio della Regione Siciliana. Di poche settimane fa il caso della donna detenuta nel carcere Pagliarelli con una bambina di appena un mese al seguito. Un caso non isolato secondo il sindacato Spp che ha parlato di una situazione inaccettabile. Locri (Rc). L’urlo del giovane Amir dal carcere: “Non sono uno scafista”. E si taglia la gola di Vincenzo Imperitura Il Dubbio, 20 giugno 2025 Il gesto estremo dell’iraniano dopo la condanna a 6 anni e a una multa da 1,5 milioni. Un taglio profondo, fortunatamente non letale. Un taglio profondo da una parte all’altra del collo per gridare la propria rabbia e la propria frustrazione a poche ore da una sentenza durissima che lo ha condannato a sei anni di carcere e ad una multa monstre di 1,5 milioni di euro per essere stato ritenuto responsabile del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Non c’è pace per Amir Babai, cittadino iraniano di 32 anni, sbarcato sulle coste della Calabria jonica nell’ottobre di due anni fa assieme ad altri cento disperati, stipati come polli su un veliero monoalbero di poco più di 10 metri utilizzato per l’ennesimo viaggio della speranza sulla rotta turca, e arrestato due giorni dopo al centro di prima accoglienza sul molo nord del porto di Roccella. Bollato come scafista dalle dichiarazioni di altri tre passeggeri di quel viaggio, poi scomparsi nel nulla e mai sentiti durante il processo - le accuse agli scafisti si reggono per la quasi totalità dei casi sulle testimonianze raccolte dagli altri viaggiatori - Amir viene condotto nel carcere dove è ancora rinchiuso. Poi il lungo processo e, lunedì, la condanna che ha messo in moto un meccanismo che solo per caso non si è concluso nel peggiore dei modi. Dopo la lettura della sentenza che lo identificava come scafista Amir, che si è sempre dichiarato estraneo a tutte le accuse, è crollato emotivamente iniziando a urlare e a disperarsi all’interno del gabbione dell’aula giudiziaria. Fortemente scosso, il giovane è stato riaccompagnato in carcere e, poche ore dopo, si è ferito in modo serio approfittando di un momento in cui era da solo. Secondo le prime ricostruzioni, il presunto scafista si è procurato una profonda ferita al collo, molto vicino alla vena giugulare. Solo il rapido intervento del personale della casa circondariale e la successiva corsa verso l’ospedale cittadino hanno evitato il peggio. Medicato con 15 punti di sutura, il ragazzo è poi stato ritrasportato in carcere con una vistosa fasciatura a protezione del collo e, ora, le sue condizioni di salute non destano più paura, anche se il rischio che il ragazzo possa ritentarci, anche solo come ricerca di attenzione, non è da escludere. Arrivato in Italia in fuga da Teheran, Amir Babai era rimasto per un periodo in Turchia dove, lavorando come parrucchiere e come tuttofare, aveva racimolato il denaro necessario alla traversata: un “biglietto” che può costare tra i sei e i nove mila euro per un viaggio fino alle coste calabresi e poi, oltre il confine, verso paesi come Germania, Francia e Svezia mete di destinazione predilette, con buona pace dei proclami di invasione governativi, della maggior parte dei migranti che sbarcano sullo Jonio attraverso la rotta Turca. E su quel barcone Amir ci era salito con Marjan Jamali, anche lei in fuga dall’Iran con un bambino al seguito, e finita a sua volta alla sbarra (poi assolta) come scafista nel processo di Locri. Ad accusare entrambi, le dichiarazioni degli stessi tre passeggeri che però, è venuto fuori durante il processo, avrebbero tentato di abusare della donna durante la traversata. Solo le resistenze della giovane madre e l’intervento diretto dello stesso Amir, che non ha esitato a mettersi in mezzo per scongiurare il tentativo di stupro, avevano evitato il peggio. Poi l’arrivo in Italia, l’arresto quasi immediato, il processo e la condanna in primo grado che lo ha ritenuto colpevole sull’onda del decreto Cutro, seguito alla tragedia in cui morirono quasi cento migranti, che ha inasprito pesantemente le pene per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Una condanna per molti versi inspiegabile, visto che oltre alle dichiarazioni rese dai tre testimoni poi svaniti nel nulla, a reggere l’accusa resta poco, di fatto solo la presenza del suo nome sulla chat Telegram utilizzata dall’organizzazione criminale che si occupa del trasporto dei migranti attraverso il Mediterraneo orientale fino alle coste della Calabria meridionale: una chat dove però sono presenti centinaia di nomi che corrispondono ad altrettanti passeggeri che nel tempo hanno utilizzato quel servizio. E a nulla erano servite le dichiarazioni di Sejed Faruk - cittadino egiziano e capitano reo confesso su quel barcone - che in aula aveva escluso un coinvolgimento di Amir nella gestione del viaggio, giustificando la sua presenza sul ponte della barca per via di una profonda ferita a rischio infezione che il ragazzo si era procurato durante la traversata. Detenuto modello, Amir non ha potuto finora richiedere una misura diversa dalla custodia in carcere perché privo di un domicilio in Italia. Ma le cose potrebbero cambiare presto grazie all’impegno degli attivisti che hanno seguito il processo fin dalle sue prime fasi e che gli avrebbero trovato una casa nel comune di Riace, alla corte di Mimmo Lucano. Biella. Pestaggi in carcere, a processo 25 agenti: 9 sono accusati di tortura di Mauro Zola La Stampa, 20 giugno 2025 Scatta il rinvio a giudizio per tutti i coinvolti nell’inchiesta: il Garante regionale dei detenuti sarà parte civile. Si dichiarano “amareggiati e molto delusi” gli agenti della polizia penitenziaria dopo l’esito dell’udienza preliminare, che ha visto il giudice Francesca Tortora rinviarli a giudizio tutti e 25. Per nove di loro, compreso il vicecomandante A.P., l’accusa, molto grave, è di tortura; per gli altri invece il pubblico ministero Dario Benardeschi ha accolto quelle che erano state le indicazioni del giudice e ha modificato il capo d’imputazione in abuso di autorità contro arrestati o detenuti. “Pensavamo che il giudice avesse capito - spiega uno degli agenti - ma alla fine eccoci ancora qui, il giorno dopo, a scortare un detenuto in tribunale, facendo il nostro dovere con la coscienza tranquilla”. Ad averli particolarmente colpiti la decisione del garante regionale delle persone private della libertà personale, Bruno Mellano, che ha deciso di costituirsi parte civile. “Era stato invitato più volte a visitare il carcere per verificarne le condizioni, non è mai venuto, l’abbiamo visto invece soltanto per il processo”. È stata un’udienza fiume quella di mercoledì pomeriggio, conclusasi dopo le 22, e molto complicato si presenta anche il processo che inizierà il 30 ottobre. Il solo esame dei venticinque imputati richiederà più sedute e sono già previste centinaia di testimonianze. Secondo quanto emerso dalle indagini e poi ratificato dal Gup, le torture avrebbero riguardato soltanto il caso di un detenuto georgiano: questo, secondo le immagini delle videocamere di sorveglianza interne, sarebbe stato trascinato fuori dalla cella d’isolamento. “Scaraventandolo a terra, lo umiliavano togliendogli i pantaloni, gli mettevano un piede in testa per tenerlo fermo, rivolgendogli la frase “qua noi facciamo così, sono le nostre regole”, lo ammanettavano con le braccia dietro la schiena, gli legavano anche le caviglie e lo colpivano su tutto il corpo, dandogli anche schiaffi sul viso”. Dopo averlo nuovamente trascinato, in questo caso a faccia in giù, fino alla sua cella gli agenti l’avrebbero nuovamente accerchiato, mettendogli “un ginocchio dietro la schiena e dopo averlo spinto dentro la cella lo insultavano, dicendogli “voi non comandate qua, comandiamo noi”, lo picchiavano ancora e mentre altri agenti rimanevano fuori dalla cella pronti a intervenire, alcuni si alternavano all’interno della cella usando violenza e i suoi confronti”. Questo però senza l’ausilio delle immagini, dato che le videocamere non riprendono quanto accade dentro le celle. Il detenuto, come refertato dai sanitari dell’infermeria della casa circondariale, aveva riportato delle lesioni al costato e alla mandibola, a cui si era aggiunto un disturbo post traumatico che l’avrebbe accompagnato anche nel carcere in cui era poi stato trasferito. Negli altri due episodi, anche se a un detenuto marocchino erano state legate le gambe e le braccia con del nastro adesivo, per impedirgli di farsi del male, sbattendo contro i muri e le sbarre, il gup Tortora non ha riscontrato gli estremi per la tortura. Lo stesso per l’ultimo caso, in cui un detenuto conosciuto per essere particolarmente violento, sarebbe stato accolto al suo arrivo a Biella da uno schieramento di agenti in tenuta anti sommossa, questo, secondo la sua denuncia, per intimidirlo, e colpito una volta entrato in cella. Treviso. Il brano rap dell’assassino e l’ira dei familiari della ragazza uccisa: “Vergogna” di Matteo Marcon Corriere del Veneto, 20 giugno 2025 Ma il Ministero: lui non ha violato le regole. Un testo rap composto nel laboratorio per detenuti, esce dal carcere ed esplode la polemica. Il brano trap registrato all’interno del carcere minorile di Treviso dall’assassino di Michelle Causo, ha provocato un’ondata di indignazione che ha come primi protagonisti proprio i famigliari della diciassettenne, trovata cadavere il 28 giugno del 2023, avvolta in un sacco nero all’interno di un carrello del supermercato, abbandonato per strada tra i cassonetti a Primavalle, un quartiere di Roma. Il responsabile è stato condannato a 20 anni e sta scontando la pena nel carcere minorile di Treviso. Se fino a pochi giorni fa l’istituto di Santa Bona faceva, tristemente, notizia per le sue drammatiche condizioni di sovraffollamento (ha una capienza massima di 12 detenuti ma ne ospita ormai regolarmente più di 20 e ha raggiunto punte di 29), da ieri è finito sotto i riflettori perché in molti si chiedono non solo come sia stato possibile per un condannato “dilettarsi” nella stesura e nell’incisione di un brano trap (fatto che in realtà attiene a consolidate pratiche di rieducazione negli istituti di pena) ma soprattutto diffonderlo attraverso i social. Sull’uso del telefonino in carcere già un anno fa i famigliari della vittima avevano denunciato pubblicamente l’ipotesi che l’assassino, malgrado le condizioni restrittive, avesse creato degli account social. Mercoledì scorso è spuntato pure un nuovo profilo instagram dove si può sentire la voce del ragazzo (assieme ad altri) cantare un brano trap dal titolo “Scusa Mamma”. Gli avvocati della famiglia Causo, Claudia Di Brigida e Antonio Nebuloso, hanno annunciato di “voler procedere per l’accertamento di ogni responsabilità in ordine al corretto utilizzo dei social, che non appare compatibile con il rigore richiesto dalla condanna”. Nelle stesse ore il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari, con un comunicato rendeva noto di aver depositato un disegno di legge da parte della Lega che prevede “l’oscuramento degli account social appartenenti a condannati o indagati per reati gravi, sottoposti a misura cautelare, minori compresi”. Nel comunicato Ostellari invitava gli organi competenti a fare chiarezza sul caso del brano trap. La risposta è arrivata ieri dalla voce del capodipartimento per la giustizia minorile Antonio Sangermano: “Escludo che il video sia partito dall’Istituto - spiega il responsabile del Ministero Evidentemente, terzi soggetti hanno utilizzato il profilo social per diffondere, in modo assolutamente incauto e sbagliato, nonché lesivo delle persone offese, questo contenuto. Aggiungo che la canzone era pubblica; presentata in più percorsi e anche in occasione di festival”. La musica, in questo caso la trap, continua a rappresentare per chi lavora a contatto con questi soggetti uno strumento educativo: il progetto che ha reso possibile l’incisione di “Scusa Mamma” e di altri brani è stato finanziato dalla Regione Veneto, coinvolge enti del terzo settore e il presidio culturale permanente dell’associazione Crisi come Opportunità, che proprio all’interno del carcere minorile di Treviso, ha coinvolto rapper come Kento, Diego Bonesso e Ivan Zora. Giovedì 5 giugno c’è stata anche una breve esibizione tra le mura della casa circondariale. Treviso. “Non è vero che il video rap del killer di Michelle Causo è partito dal carcere” romatoday.it, 20 giugno 2025 Non è vero che il giovane cingalese condannato a 20 anni per il femminicidio di Michelle Causo, ha diffuso in prima persona un video dal carcere per promuovere il suo nuovo album rap, come emerso anche in un primo momento. Le immagini postate sul suo profilo sarebbero state pubblicate da altre persone che hanno accesso a quell’account. A smontare la provenienza del filmato è il capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, Antonio Sangermano. ‘‘A seguito della notizia acquisita circa la presunta diffusione, dall’Istituto penale per i minorenni di Treviso, di un video effettuato da un indagato per un efferato crimine, acquisite le relazioni del direttore e del comandante di reparto, nonché le informazioni necessarie, escludo che il video sia partito dall’Ipm o che dallo stesso sia stato attuato un collegamento telematico che ha diffuso questo contenuto”, ha detto Sangermano. “Evidentemente, terzi soggetti hanno utilizzato il profilo social di questo indagato per diffondere, in modo assolutamente incauto e sbagliato, nonché lesivo delle persone offese, questo contenuto - ha poi concluso - Aggiungo che la canzone rap diffusa sui social era pubblica; era stata presentata in più percorsi trattamentali e anche in occasione di festival teatrali’’. Nella stories comparsa sul profilo Instagram riconducibile al ragazzo, si leggeva “Scusa mamma” e “Un bacio per ogni mamma che soffre”. La pubblicazione ha suscitato forte indignazione sui social. La famiglia di Michelle, tramite gli avvocati Claudia Di Brigida e Antonio Nebuloso, ha annunciato di voler procedere per accertare ogni responsabilità. Il sottosegretario di Stato alla Giustizia, Andrea Ostellari e il senatore Gianluca Cantalamessa, sono intervenuti sul caso: “Nei giorni scorsi è stato depositato un disegno di legge della Lega che prevede l’oscuramento degli account social appartenenti a condannati o indagati per reati gravi, sottoposti a misura cautelare, minori compresi. L’obiettivo è impedire che quei profili vengano utilizzati da terzi per esaltare condotte criminali o offendere la reputazione delle vittime di reato e delle loro famiglie. La norma, che abbiamo deciso di rinominare “legge Giogiò”, nasce da un proficuo dialogo con Daniela Di Maggio, madre di Giovambattista Cutolo, vittima a sua volta di un efferato omicidio. Ascoli. Aperto lo Sportello Giustizia: “Per non ingolfare i tribunali” di Giuseppe Di Marco Il Resto del Carlino, 20 giugno 2025 Il presidente della Corte d’Appello di Ancona, diversi sindaci e personalità del territorio hanno partecipato all’annuncio del nuovo ufficio. Un Ufficio di prossimità arriva anche in riviera, ed è il primo delle Marche. Collegato all’Ambito territoriale sociale 21, è stato presentato ieri mattina, in una sala consiliare gremita, dal sindaco Antonio Spazzafumo, il rappresentante di Anci Marche e sindaco di Montalto Daniel Matricardi, dell’assessore regionale agli enti e servizi pubblici locali Goffredo Brandoni, il presidente del tribunale di Ascoli Alessandra Panichi, la giudice tutelare del tribunale di Fermo Milena Palmisano e il presidente della Corte d’Appello di Ancona Luigi Catelli, nonché di diversi Sindaci e rappresentanti dei comuni che fanno parte dell’Ambito. A presentare il nuovo servizio, le consigliere comunali Barbara De Ascaniis ed Elena Piunti insieme alla coordinatrice dell’Ats Simona Marconi. All’incontro di presentazione hanno partecipato anche i componenti del comitato dei sindaci dell’Ats 21, rappresentanti della prefettura e delle forze dell’ordine. L’Ufficio di prossimità quindi offrirà un servizio gratuito di orientamento e informazione per tutti i cittadini residenti in uno dei comuni dell’Ambito 21. Cosa vi si potrà fare, nel concreto? Inoltrare pratiche per l’amministrazione di sostegno, sub-procedimenti di amministrazione di sostegno, avere informazioni ed orientamento sugli istituti di protezione giuridica, come la tutela, la curatela e l’amministrazione di sostegno. Infine, ricevere supporto per la compilazione della modulistica di questi istituti che non richiedono l’ausilio di un avvocato. Il servizio, sito al secondo piano della sede municipale, riceverà su appuntamento il martedì dalle 10 alle 12, e il giovedì, dalle 15 alle 17. “Questo ufficio - ha detto il sindaco Antonio Spazzafumo - rappresenta un traguardo importante per lo sviluppo della rete di servizi sociali, perché avvicina la giustizia ai cittadini, in particolare alle fasce più fragili, rendendo più accessibili e comprensibili i servizi giudiziari e sociali. È un esempio virtuoso di sinergia tra le istituzioni e il nostro augurio è che possa diventare in fretta un punto di riferimento per le persone che hanno bisogno di aiuto e assistenza e che rappresenti la risposta alle necessità dei nostri cittadini nei momenti di difficoltà”. Dal canto suo l’assessore Brandoni ha sottolineato che si vuole “decongestionare i tribunali e consentire un rapido disbrigo delle pratiche”. Messina. La storia di Ramona: parrucchiera volontaria nella Casa circondariale di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 20 giugno 2025 Il suo presente è legato al volontariato in carcere. Ramona Lucaci, mamma di 4 figli, è arrivata in Italia dalla Romania nel 2002. Inizialmente a Desenzano del Garda, ospite della zia, dove ha iniziato a lavorare come cameriera. La città dello Stretto? Ci è arrivata nell’ottobre del 2004. “Oggi - racconta - sono felice di condividere la mia storia e le mie esperienze. Sono messinese d’adozione e inizialmente sono approdata a casa di mia suocera, in attesa della nascita della mia prima figlia”. Quattro anni fa ha realizzato uno dei suoi sogni più grandi: ha frequentato un’accademia per parrucchieri e adesso lavora con amore e passione in un salone. “Una mattina d’estate - continua nel racconto - il fondatore e presidente dell’organizzazione di volontariato Crivop Italia Odv, Michele Recupero, mi contattò per propormi un’attività di volontariato come parrucchiera all’interno della sezione femminile della Casa circondariale di Messina. E dal momento che il mio cuore è sempre rivolto verso il prossimo, accettai senza alcuna esitazione. Ricordo ancora perfettamente quel primo giorno: in lontananza vidi le detenute che mi attendevano entusiaste e curiose. Provai una profonda gioia nel vederle sorridere, felici per un servizio offerto con amore e grande rispetto”. La Spezia. Colpì un clochard con una sbarra. Si pente e gira un video in carcere di Massimo Merluzzi La Nazione, 20 giugno 2025 Il giovane partecipò al pestaggio di un senzatetto. Ora continuerà il programma di recupero fuori dalla comunità. Ha affidato il suo pentimento per quel terribile gesto che ha messo a repentaglio la vita di un uomo a un video girato all’interno della comunità di recupero nella quale sta scontando il percorso di messa alla prova. Dopo i giorni trascorsi in carcere a carcere a Torino e poi Firenze il giovane di Sarzana (La Spezia) da mesi è in un centro di recupero. Nella notte di Pasqua di un anno fa colpì alla testa con un tondino di ferro un clochard al culmine di una lite ai giardini della stazione ferroviaria di Sarzana costringendolo al ricovero in rianimazione e a un periodo di rieducazione. In comunità tra i vari impegni il ragazzo, ancora minorenne, si è specializzato nella realizzazione e montaggio di video. Il suo lavoro dal titolo “Non ne vale la pena” è stato anche premiato in un concorso dedicato proprio al settore digitale. Adesso tornerà a casa: dovrà però rientrare a scuola, proseguire con l’attività di volontariato e frequentare un centro dl recupero. A ottobre è prevista in Tribunale a Genova una nuova verifica. Il giovane insieme a tre amici a Pasqua di un anno fa aveva incontrato il clochard e dopo una discussione sulla gestione del cane da parte del quarantenne il litigio era sfociato nell’aggressione con un paletto di ferro. Treviso. “Amima mundi”, la mostra delle opere realizzate dai detenuti di Santa Bona di Manuela Mazzariol lavitadelpopolo.it, 20 giugno 2025 L’arte come ponte tra il dentro e il fuori, tra chi sta in carcere e il resto della cittadinanza. Una mostra che non è solo una mostra, in un luogo che non è solo uno sfondo pregevole per le opere d’arte. È un momento profondo e intenso quello dell’inaugurazione, a palazzo dei Trecento, a Treviso, di “Anima mundi”, seconda esposizione delle opere d’arte degli studenti della Casa circondariale di Treviso. L’anno scorso, alcune opere erano state esposte a Lughignano di Casale; quest’anno l’evento, allestito nel fine settimana del 6, 7 e 8 giugno, si è spostato nel cuore del capoluogo della Marca, in un “luogo, non solo di democrazia, prerequisito di ogni libertà, in quanto sede del Consiglio comunale cittadino, ma anche di ricostruzione”, come ha voluto sottolineare il sindaco, Mario Conte, all’apertura della mostra. Una ricostruzione che nelle vite delle persone detenute parte proprio dalla scuola, che in carcere è gestita dal Cpia Manzi. Il lavoro delle professoresse della Casa circondariale ha trovato il modo di aiutare le persone recluse a esprimersi, attraverso l’arte e la musica, le cui note hanno fatto da sottofondo al vernissage. E così, emergono non solo talenti, ma anime, nell’espressione del proprio essere. “Cosa stiamo guardando? - commenta il direttore della Casa circondariale, Alberto Quagliotto -. Credo che dovremmo andare al di là delle apparenze, sono opere belle, ma sono, soprattutto, materializzazione di percorsi di vita”. E l’esposizione pubblica, allora, si trasforma nel coronamento di questo percorso, nobilitato dalla vista e dal riconoscimento altrui, in una creazione che dà visibilità a ciò che di solito rimane invisibile, dietro le mura del carcere. L’anno scorso, hanno chiarito le insegnanti, il tema era quello di ridare valore a ogni persona, dandogli modo di esprimersi, quest’anno, invece, il filo conduttore dei laboratori era il “fare”, coniugando pensiero e azione nelle proprie espressioni e realizzazioni, un pensiero che nel contesto carcerario trasforma e diventa salvifico. Prima del taglio del nastro, sono state anche lette alcune poesie, altro modo per dare voce al proprio sé. Acireale (Ct). Le “corrispondenze” tra studenti di un liceo e il carcere minorile di Ilaria Beretta Avvenire, 20 giugno 2025 Gli alunni di quinta di un istituto superiore siciliano, oggi impegnati nella maturità, per mesi hanno scritto ai coetanei reclusi nell’istituto penale per minorenni della città. Ecco com’è andata. Oggi cinquecentomila studenti sono impegnati nella seconda prova della maturità. Tra loro ci sono anche i ragazzi del quinto anno del liceo di scienze umane Regina Elena di Acireale, in Sicilia, che nell’anno scolastico appena trascorso si sono cimentati in un test che vale più di mille esami: una corrispondenza, fitta e costante, con un gruppo di coetanei che frequentano un’altra scuola della città, quella dietro alle sbarre dell’Istituto penale per minorenni (Ipm) locale. Le due strutture sono separate da appena una strada ma i due mondi non potrebbero essere più lontani. Da una parte una scuola superiore normale, frequentata da 800 alunni; dall’altro un carcere in cui sono ristretti venti giovani dai 14 ai 25 anni, provenienti da Italia, Europa dell’est e nord Africa. La cooperativa locale Futura ‘89 ha provato a tirare un ponte tra i due poli, coinvolgendo i dirigenti e gli insegnanti dei plessi dirimpettai in un inedito progetto epistolare in cui i ragazzi si sono scritti lettere, raccontando la propria vita ma anche difficoltà, sogni ed emozioni. “Ufficialmente - spiega Liliana di Maria, presidente della cooperativa capofila dell’iniziativa - il progetto “Corrispondenze” è nato a marzo. Nei mesi precedenti avevamo sperimentato lo scambio di lettere tra i ristretti nell’Ipm di Acireale e i minori di famiglie svantaggiate che accogliamo nel centro di aggregazione di Piazza Bovio di Catania e che coinvolgiamo attraverso laboratori. È piaciuto e così abbiamo esteso l’invito anche al liceo Regina Elena, che l’ha accolto. Sinceramente, però, non ci aspettavamo che funzionasse così bene, soprattutto nell’epoca dei social in cui pensare che dei ragazzi accettino di scambiarsi messaggi su fogli di carta sembrava po’ anacronistico”. E invece… Grazie a una formazione sulla situazione delle carceri in Italia a partire dai rapporti delle associazioni di settore e a una serie di incontri con il direttore dell’Ipm, gli psicologi e gli educatori, che hanno anche fatto da postini, imbucando le lettere da un istituto all’altro, la corrispondenza è stata avviata e poi decollata. Nessuna delle missive era firmata ma forse proprio l’anonimato ha permesso ai ragazzi - dell’una e dell’altra parte - di aprirsi. “Per iniziare la conversazione abbiamo stimolato la riflessione degli studenti del liceo intorno a cinque domande: - spiega l’educatore Alberto Incarbone, impegnato nella logistica del progetto insieme al collega Cristiano Licata - chi sono, un ricordo bello, un mio progetto di vita fra dieci anni, un ricordo brutto e come sono uscito da una situazione complicata. Mano a mano che dall’Ipm rispondevano, la corrispondenza si infittiva. Lo scopo era far incontrare generazioni diverse, quelle dei reclusi e quella dei liberi giocando a trovare le “corrispondenze”. Che ci sono, e non sono neppure poche. “L’amore, la famiglia, la crescita, l’amicizia, la musica - elenca la professoressa Agata Arcidiacono, insegnante di italiano del Regina Elena - sono i temi che sono emersi più spesso. Tra coetanei è nato un vero scambio di esperienze di vita e di pareri, alcuni espressi a parole e altri usando disegni o condividendo testi di canzoni autografe. Alcuni detenuti hanno raccontato la nostalgia della mamma, altri - extracomunitari - hanno raccontato il terribile viaggio verso l’Italia. Molti ammettono l’errore e desiderano tornare alla normalità e i “nostri” ragazzi hanno mostrato comprensione e affinità, il che era proprio l’obiettivo del progetto: togliere le barriere sociali, economiche e fisiche e livellare gli svantaggi tra adolescenti di contesti diversi. Sono nate esperienze di spessore, in alcuni casi commuoventi”. Visto il buon esito dell’operazione, nonostante la fatica della procedura burocratica a garanzia della privacy dei ragazzi coinvolti in un progetto così delicato, gli attori coinvolti pensano a un bis per il prossimo anno. Magari includendo anche le classi quarte del liceo e - chissà - restituendo il valore di questa corrispondenza anche attraverso una pubblicazione ad hoc. “È la dimostrazione che è possibile “fare” un carcere diverso, centrato sulle persone. Perché il carcere “si fa” - commenta ad Avvenire Girolamo Monaco, direttore di uno dei pochi Ipm italiani che oggi non soffre di sovraffollamento - e lo fanno le persone che dentro ci vivono dentro: operatori e detenuti. Per noi il carcere è l’impegno per costruire ambienti e percorsi umanizzati. E questo impegno non è dato solo dal rispetto dei regolamenti che applicano la Costituzione e le Leggi ma soprattutto dalla quotidiana fatica a costruire significati che rendono possibili i cambiamenti. Noi costruiamo questo modello di carcere”. Acireale (Ct). Un progetto inclusivo: studenti e detenuti diventano “amici di penna” di Gabriele Ferrante tecnicadellascuola.it, 20 giugno 2025 Ricordate quei reperti archeologici chiamati fogli di carta sui quali addirittura si scriveva a mano con un vecchio arnese, la penna, poi si riponevano in una busta e, dopo avere acquistato un francobollo, si imbucavano in una cassetta delle poste sperando che raggiungessero prima possibile il destinatario? Si chiamavano lettere, modalità comunicative cadute ampiamente in disuso tanto che gli adolescenti di oggi ne hanno perso conoscenza. Eppure se vi dicessimo che un gruppo di studenti di un liceo di Acireale ha da mesi avviato una fitta corrispondenza via lettera - sì, proprio la vecchia lettera scritta a mano - con altri adolescenti provenienti dall’Italia e da vari altri Paesi europei e nord africani? Ce lo racconta il quotidiano Avvenire ed è la storia degli alunni di una quinta del Liceo delle scienze umane ‘Regina Margherita’ di Acireale, impegnati in questi giorni negli Esami di Stato, che nei mesi scorsi hanno tessuto una fitta corrispondenza con una ventina di coetanei detenuti nell’Istituto Penale Minorile della stessa città, a un tiro di schioppo dalla scuola. Il progetto nasce dall’idea di una cooperativa locale che ha provato a costruire un ponte tra scuola e carcere, coinvolgendo i dirigenti e gli insegnanti dei plessi praticamente dirimpettai in un inedito quanto interessante progetto epistolare in cui i ragazzi si sono scritti lettere, raccontando la propria vita, con tutte le difficoltà, i sogni e le emozioni che accomunano gli adolescenti di tutto il mondo. Come confessato ad Avvenire dalla presidente della cooperativa, nessuno si aspettava che il progetto avrebbe avuto successo, soprattutto nell’epoca dei social in cui pensare che dei ragazzi accettassero di scambiarsi messaggi su fogli di carta sembrava po’ anacronistico. E invece l’idea si è rivelata vincente: per garantire l’anonimato e dare la possibilità a tutti di aprirsi con sincerità, le lettere erano anonime. Una scelta azzeccata perché la corrispondenza è andata avanti per tutto l’anno scolastico con grande soddisfazione di tutti. Per iniziare la conversazione, gli educatori hanno stimolato la riflessione degli studenti del liceo intorno a cinque domande: chi sono, un ricordo bello, un mio progetto di vita fra dieci anni, un ricordo brutto e come sono uscito da una situazione complicata. Mano a mano che dall’Ipm rispondevano, la corrispondenza si infittiva. Lo scopo era far ‘incontrarè ragazzi che vivono situazioni opposte - liberi e detenuti - ma che hanno comunque molti punti in comune, le stesse ansie e speranze per il futuro che li aspetta. Intervistata dal quotidiano milanese, una delle docenti del ‘Regina Margherita’ ha riferito che i temi trattati con maggiore insistenza in questi mesi di corrispondenza sono stati l’amore, la famiglia, la crescita, l’amicizia, la musica. Molti detenuti hanno ammesso gli errori compiuti e dichiarato di volere tornare alla normalità. I ragazzi del liceo, dal canto loro, hanno mostrato comprensione e affinità. Ed era proprio questo l’obiettivo del progetto: abbattere le barriere sociali, economiche e fisiche e livellare gli svantaggi tra adolescenti di contesti diversi. Sono nate esperienze di spessore, in alcuni casi commoventi. Considerato l’eccellente risultato del progetto, tutti gli operatori coinvolti pensano di ripeterlo l’anno prossimo, coinvolgendo altre classi del liceo oltre alle quinte. Anche il direttore del carcere esprime tutta la sua soddisfazione perché il progetto è la dimostrazione che è possibile “fare” un carcere diverso, centrato sulle persone e con l’impegno di costruire ambienti e percorsi umanizzati per i giovani detenuti. Treviso. Il Giubileo da dentro il carcere lavitadelpopolo.it, 20 giugno 2025 La riflessione sulla speranza di alcuni detenuti, che si rivolgono direttamente ai fedeli della Diocesi. Il 2025 è l’anno del Giubileo, voluto da papa Francesco come Giubileo della “speranza che non delude”. Un anno speciale di grazia, un tempo favorevole per rimettere al centro il Vangelo e per vivere un’esistenza riconciliata e rinnovata. È un impegno esigente, ma possibile, se vissuto nel solco della fiducia e dell’ascolto. Non a parole soltanto, ma con gesti concreti di liberazione, di ascolto, che siano autentiche fonti di speranza, appunto. Per questo, nella Casa circondariale di Treviso, il cappellano, gli altri membri della cappellania e i volontari di Comunione e liberazione e della Prima pietra hanno ritenuto importante non lasciare che questo tempo passasse invano. Hanno proposto ai detenuti disponibili al confronto un’occasione di riflessione comune su cosa possa significare vivere un Giubileo dentro le mura del carcere, e come ciascuno, a partire dalla propria condizione, possa mettersi in cammino verso una conversione possibile. Il percorso si è sviluppato a partire da alcune domande semplici e profonde: cosa significa per noi, oggi, metterci in ascolto dello Spirito? Qual è il “lieto annuncio” che ci è rivolto? Cosa vuol dire, davvero, essere liberi? A queste si sono aggiunte parole-chiave da meditare personalmente: libertà, opportunità, fiducia, coraggio, cambiamento. Ne è nata una lettera scritta dalla “Chiesa che vive in carcere”, alla Chiesa diocesana tutta: un messaggio autentico, maturato nel silenzio e nella riflessione, che racconta il cammino personale di tanti uomini che desiderano ricominciare. Non chiede sconti, ma ascolto. Non pretende risposte facili, ma condivisione. È un invito a superare il pregiudizio, a riconoscere che la fede può germogliare ovunque, anche nei luoghi e nelle situazioni meno attese, quando si apre lo spazio per il cambiamento. Per questo, viene offerto alla “Chiesa tutta che è in Treviso”, nel giorno in cui celebriamo l’unico “Corpo del Signore”: un appello a riconoscerci parte di un’unica Chiesa, capace di accogliere ogni cammino sincero e ogni ricerca di bene. Perché la speranza non ha confini, e il Giubileo può essere per tutti un tempo favorevole, un’occasione concreta per lasciarsi toccare dalla grazia e ripartire. Quest’anno tutti stiamo vivendo un tempo molto speciale: il Giubileo della Speranza. Noi detenuti ci siamo interrogati su che cosa voglia dire vivere questo tempo. Su che cosa significhi sperare per noi che abbiamo le vite segnate da reati e che ora viviamo la detenzione. C’è molta sofferenza nel mondo, così segnato dalla guerra e dal male, attorno a noi e in noi. Di fronte alla sofferenza che vediamo, che viviamo e che anche noi abbiamo provocato, è difficile dire che questo è un tempo speciale. Eppure, tutta la Chiesa ci annuncia questo. Lo ha fatto papa Francesco e ora lo fa papa Leone. Che cosa ha da dirci Dio, in questo tempo? Che cosa vuol dire mettersi in ascolto dello Spirito in questo tempo? A noi sembra, anzitutto, che stare in ascolto dello Spirito possa significare capire maggiormente tante cose, ed è l’occasione per prendere coscienza degli errori e del male che abbiamo commesso. Forse l’annuncio che lo Spirito porta è per una consapevolezza più profonda della nostra storia passata e di ciò che viviamo ora, quasi una revisione della propria vita. Per ascoltare, occorre fermarsi e dare spazio a ciò che ci raggiunge. Mettersi in ascolto è difficile, perché emergono subito pensieri contrastanti. E sono molti i pensieri contrastanti che sembrano togliere speranza! Ma questo ascolto serve, perché aiuta a dare il nome alle cose negative e dare il nome alle cose negative è iniziare a essere liberi. Ci vuole tempo, è un cammino lungo, ma forse è per questo che serve un tempo speciale. Per iniziare, almeno con un primo passo. Sentiamo molto unite queste tre parole: ascolto-attenzione-speranza. Oltre a questo, ci sembra ancora più importante il fatto che ascoltare lo Spirito non significhi solo capire chi siamo, ma poter capire chi è Cristo. Dicendo questo pensiamo alla figura del centurione romano sotto la croce, che vedendo come Gesù è morto, Lo riconosce e afferma: “Costui era veramente il Figlio di Dio.” In questo tempo speciale il nostro desiderio è che possa accaderci quello che è accaduto al centurione. Con questa immagine negli occhi vogliamo ascoltare anzitutto la sua Parola, capace di rendere migliore la nostra vita e liberarci dal male che ci circonda. La morte di papa Francesco, che abbiamo sentito tanto vicino a noi, fino ai suoi ultimi giorni, e l’elezione del nuovo papa Leone XIV, ci hanno mostrato quanto è grande il popolo della Chiesa. Ci sentiamo anche noi parte di questo popolo. Perciò, sentiamo che questo tempo speciale è l’occasione per rivolgerci come piccola Chiesa che è nel carcere alla grande Chiesa della diocesi di Treviso, perché cresca sempre più la comunione e l’unità tra noi. Sentiamo la speranza anche come l’apertura di una porta tra noi e voi, il superare quei muri di indifferenza, pregiudizio e paura che ci possono essere. Vorremmo così tanto che il popolo di cui ci sentiamo parte sapesse che dietro al muro del carcere ci siamo anche noi, la piccola Chiesa in carcere, che è in un cammino di consapevolezza e responsabilità, che parte dal pentimento e prova a rinascere e ricostruire esistenze. Con umiltà, ci rivolgiamo a voi, sorelle e fratelli della diocesi: che sia questo tempo un tempo speciale anche per aprire una porta, superare un muro, cercando di capire le vite altrui, liberi da pregiudizi, così che ci sia concretamente qualcuno capace di vedere l’uomo oltre il suo errore. Con voi vogliamo condividere quanto ci sta più a cuore: il desiderio di essere liberi. Noi carcerati diciamo che la libertà non ha prezzo e ne sentiamo tanto la mancanza perché, come pena per i reati che abbiamo compiuto, ne siamo privati o limitati. Ma “libertà” è una parola impegnativa, è un concetto più ampio: percepiamo che essere liberi è innanzitutto vivere bene con se stessi, poter e saper cambiare, essere perdonati. La libertà è un bene ricercato anche da chi è fuori dal carcere, perché molte sono le forme di prigionia in cui le persone si trovano rinchiuse. Insieme a voi, in questa Pentecoste del Giubileo, vorremmo chiedere a Dio il dono della libertà che nasce dal credere in Lui, il solo capace di cambiare le nostre vite e spezzare le catene. Sappiamo che questa è una decisione e una preghiera che deve partire dal profondo del nostro cuore, un passo che spetta a ciascuno di noi, e spesso la nostra fragilità ci fa dubitare che il cambiamento sia possibile e che lo vogliamo davvero. Un’altra figura ci ritorna alla mente: il buon ladrone che dopo una vita disastrosa riceve lo sguardo misericordioso di Gesù proprio sulla croce accanto a Lui. Preghiamo insieme, affinché questo Sguardo non ci abbandoni mai, e perché possiamo sentire e accogliere che in Dio nessuna vita è perduta, che ai Suoi occhi siamo tutti importanti e che Lui ci ama senza condizioni. È sotto la forza di questa misericordia ricevuta che inizia il cammino del pentimento e anche del desiderio di riparare. Per questo Giubileo papa Francesco ci ha invitato ad essere “pellegrini di speranza”. È bello che il Giubileo sia indicato come un corpo in movimento che compie alcuni passi. Noi sentiamo che abbiamo bisogno anche di voi per vivere questo pellegrinaggio della speranza. Riceviamo già un grande aiuto dalla presenza di alcuni volontari dentro il carcere, ma bussiamo anche al vostro cuore. Lo facciamo per mettere nelle vostre mani la possibilità di donare un aiuto concreto di accoglienza e disponibilità verso coloro tra di noi che, in permesso di uscita o terminata la detenzione, si ritrovano senza un luogo dove risiedere o con relazioni assai fragili. C’è urgenza di luoghi dove poter essere accolti, ascoltati e aiutati in un percorso di un vero reinserimento nella società. Non chiediamo di correre assieme, ma di fare un primo passo, anche lento, ma concreto per essere insieme pellegrini di speranza. Vediamo infatti che due sono le facce della speranza: è fiducia in ciò che un altro compie, ma vive anche del donare quanto si è ricevuto. La speranza esiste se io la dono all’altro. Sappiamo che mettersi in gioco è un rischio, ma con umiltà vi diciamo che abbiamo bisogno di essere visti e accolti. Così da essere sostenuti anche noi nel poter accogliere noi stessi e il nostro vissuto e affidarlo al Signore, insieme. Vi sentiamo sorelle e fratelli tutti. (Alcuni detenuti della casa circondariale di Treviso) Il Premio “Angelo Ferro” all’Azienda agricola Goel Bio: l’economia etica della legalità di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 20 giugno 2025 Il riconoscimento per l’edizione 2025 è stato assegnato al gruppo cooperativo nato per aggregare agricoltori calabresi che si oppongono alla ‘ndrangheta. L’innovazione nell’economia sociale attraverso soluzioni che possano essere capaci di intercettare i nuovi bisogni sociali. Questo lo spirito che anima il Premio “Angelo Ferro”, l’imprenditore e filantropo scomparso nel 2016. Ed è questa la motivazione di fondo per la quale è stato assegnato il riconoscimento per l’edizione 2025 all’Azienda agricola Goel Bio, gruppo cooperativo reggino nato per aggregare agricoltori calabresi che si oppongono alla ‘ndrangheta. La nona edizione ha raccolto 246 candidature, con esperienze originali di economia sociale sviluppate in tutto il territorio nazionale. Da parte sua Goel Bio “ha dimostrato che agricoltura ed etica possono non solo convivere ma essere competitivi. Un protocollo etico che verifica la totale estraneità mafiosa delle aziende agricole che divengono socie; un rigido e originale sistema di controllo che bandisce il lavoro illegale e il caporalato; un serio sistema di verifica della produzione biologica; un prezzo equo deciso democraticamente dai produttori e bloccato per 12 mesi; l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate nella filiera. Questo è ciò che oggi rappresenta il marchio Goel Bio”. Il premio, istituito in ricordo del prof. Angelo Ferro, è dedicato come detto agli enti del Terzo settore che in Italia hanno contribuito a innovare l’economia sociale. È promosso dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dalla Fondazione Emanuela Zancan onlus, con il sostegno di Intesa Sanpaolo e il patrocinio di CSVnet, Acri e Forum Terzo Settore. La motivazione della giuria del Premio ha specificato che “la loro esperienza mostra come sia possibile innovare nell’economia sociale in contesti sociali non facili che mettono alla prova le capacità imprenditoriali e le filiere produttive e distributive. Nella produzione di biologico, capace di valorizzare anche le tipicità locali, sono riusciti a raggiungere importanti risultati economici, includendo anche persone svantaggiate nelle attività lavorative”. “I processi contro i cronisti? Così ho difeso la loro libertà”. Il libro con dieci casi simbolo di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 20 giugno 2025 L’avvocata cassazionista Caterina Malavenda, autrice di “E io ti querelo” (edito da Marsilio): “Le notizie, questione di democrazia”. Se ritenete di aver subito un danno e decidete di denunciare un giornalista, fate attenzione. Se il suo avvocato è Caterina Malavenda sarà difficile vincere. E non solo perché lei è tra i legali più bravi e preparati che ci siano, ma perché la sua determinazione e la sua idea di libertà di stampa sono un’arma potente, spesso infallibile. Non fa sconti, soprattutto ai clienti, conosce i limiti di ogni causa, sa quando può oltrepassarli, pure rischiando ma ottenendo poi il risultato. Ecco perché il suo libro E io ti querelo, edito da Marsilio, è in realtà un romanzo che racconta in maniera diretta ed efficace i dieci processi che, dal suo punto di vista, certamente mettono in luce il non facile rapporto tra informazione e potere. E in realtà rappresentano lo specchio di un Paese dove il mestiere del cronista - sia esso applicato alla politica, all’economia o alla “nera” - è spesso mal sopportato oppure vissuto come un ostacolo a chi si sente disturbato dalla verità dei fatti. Malavenda lo sa e non a caso nella premessa scrive: “Non so più quanti giornalisti ho difeso e, proprio grazie all’esperienza che ho maturato, posso affermare con sicurezza che l’andamento e, soprattutto, l’esito dei processi che li riguardano sono un eccellente termometro per misurare il reale stato della democrazia in Italia. La democrazia, infatti, funziona solo se notizie, critiche e polemiche circolano liberamente, consentendo all’opinione pubblica, quando ne ha bisogno, di sapere, capire e farsi un’idea su quel che accade. E questo è possibile solo se quella stessa democrazia garantisce un’informazione senza pressioni e condizionamenti. E il più subdolo modo per intimidire un giornalista che dà fastidio è senza dubbio trascinarlo in tribunale, accusandolo di diffamazione”. “E io ti querelo” non è un manuale, ogni vicenda è narrata andando oltre la scena, svelando quel rapporto speciale che Malavenda sa creare con i propri clienti, sfinendoli con la richiesta delle “pezze d’appoggio” fondamentali per dimostrare che il giornalista ha fatto il proprio mestiere - talvolta anche sbagliando - ma sempre con l’onestà di chi vuole semplicemente informare i lettori, gli ascoltatori, i telespettatori nel modo più completo possibile. Andando oltre quel che appare, ricostruendo con onestà quel che il cittadino non vede ma deve sapere. Ogni caso è trattato rivelando il rapporto - talvolta complicato - che si crea tra l’avvocato e il suo assistito: le discussioni, la diversità di vedute e dunque di strategia, il compromesso finale che talvolta non soddisfa uno o l’altro però viene sempre raggiunto grazie a un confronto aperto e leale. Come accade quando l’imputato decide di rinunciare alla prescrizione e il difensore, pur non condividendo la scelta, deve accettarla, o quando è invece il legale a riuscire ad imporsi, sapendo bene che la strada è stretta, dunque la soluzione può essere soltanto una. Ogni capitolo è dedicato a un giornalista, alla ricostruzione del processo in tutte le sue fasi, al confronto duro con le controparti. E si capisce quanto difficile sia stato affrontarlo quando Malavenda scrive: “Il dilemma del giornalista su cosa pubblicare e come, e cosa invece omettere, dunque, è difficile da risolvere. Specie quando dalla scelta possono derivare conseguenze deleterie per lui se tace, e per altri se scrive. La mia ricerca di una soluzione equa non si è ancora conclusa. E non sono certa che alla fine ne troverò una che mi convincerà davvero. Ma so di sicuro, e non ne faccio mistero, che, se si ha un dubbio, la cosa migliore è fermarsi e ricordare le parole di Gesù: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Matteo 7, 12). O, più semplicemente, non fare ad altri quel che non vorresti fosse fatto a te e alle persone cui tieni. Secondo me funziona”. Ma la parte che davvero colpisce è quella dedicata a Tangentopoli, quando Malavenda ha la fortuna di lavorare con il suo maestro Corso Bovio. Dai primi passi nel mondo dell’avvocatura fino alla scomparsa di lui, il loro è stato un sodalizio speciale e lo si capisce dalle pagine che gli dedica, dall’attenzione che usa quando racconta che “lui non mi ha mai fatto pesare di essere donna e del sud. Nella Milano degli anni Ottanta era un connubio che poteva creare qualche problema, se l’idea era quella di farsi largo e trovare uno spazio in un mondo di uomini”. Ma anche quando ricorda la bufera che dalla procura di Milano colpì politici, imprenditori, manager e lei era il difensore, ma certo anche qualcosa di più. Tanto che adesso dice “ancora mi vergogno un po’ di aver fatto cose che il mio ruolo non prevedeva e mi pento di non aver deciso sempre come avrei voluto. Ho persino aiutato, in quegli anni, chi doveva andare in carcere a preparare la valigia, selezionando quel che poteva portare in cella. Ricordo gli occhi increduli e smarriti con cui qualcuno di loro mi aveva guardata, scoprendo che non erano ammessi pipa e tabacco o dentifricio e schiuma da barba. Non erano preparati a quella prova; nessuno di loro l’aveva messa in conto, qualcuno non ha resistito e si è tolto la vita. Oggi sembra impossibile che tutto questo sia successo, ma è davvero accaduto. Ed è altrettanto incredibile che qualcuno, anche se costretto per un po’ a vivere in cella, abbia mantenuto, invece, una vena di ironia e la voglia di far sorridere, pur parlando di cose estremamente serie”. Nel finale del suo libro Malavenda si dichiara “grata alla vita”. Una gratitudine che i suoi clienti, tutti, certamente condivideranno. La Corte Costituzionale, il Tso e i diritti costituzionali di Franco Corleone L’Espresso, 20 giugno 2025 Sono tempi torbidi e difficili, segnati dalla approvazione del decreto sicurezza e dal risultato del referendum che conferma la crisi della democrazia, non solo di quella rappresentativa ma anche di quella diretta. Un quadro desolante che potrebbe spingere alla disperazione e alla sfiducia, all’abbandono quindi dell’impegno civile e sociale. Per fortuna appaiono sentenze luminose della Corte Costituzionale, un anno fa quella sul diritto a colloqui intimi senza controllo e alla affettività in carcere e di recente la numero 76/2025 sulle garanzie necessarie perché il Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) si realizzi nel pieno rispetto dei principi costituzionali. Colpisce soprattutto la ricchezza di pensiero e di cultura in un testo che si contrappone alla sciatteria e alla corrività di tanti politici e commentatori. Lo studio rappresenta davvero lo spartiacque tra il rigore intellettuale e la demagogia. La Corte Costituzionale era chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale di alcuni articoli della legge 833 del 1978, derivati dalla legge 180, sul trattamento sanitario coattivo in relazione agli articoli 32 e 13 della Costituzione. Il relatore Stefano Petitti riferendosi alla cosiddetta legge Basaglia afferma che “ha segnato il passaggio da una visione custodialista finalizzata alla difesa sociale, a una visione volta alla cura della persona affetta da disabilità psichica, costituendo una tappa fondamentale del cambiamento di paradigma culturale, scientifico e normativo nel trattamento della salute mentale e contribuendo anche in favore delle persone affetta da disabilità mentale della pienezza dei diritti costituzionali”. Un bello schiaffo per chi esprime nostalgia del manicomio. La sentenza ribadisce che il trattamento sanitario in degenza ospedaliera costituisce un vero e proprio trattamento sanitario coattivo e deve avere il carattere della extrema ratio e in assenza del consenso, richiede la tutela dei diritti inviolabili della persona e della dignità. È davvero straordinario che venga richiamato il Report del 2023 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura in relazione a episodi prolungati e non giustificati di contenzione meccanica e si rammentino analoghe sollecitazioni espresse dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (si fa riferimento alla Relazione al Parlamento del 2023 dell’allora Presidente Mauro Palma). Infine è fondamentale il richiamo alla Convenzione della Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata dall’Assemblea generale il16 dicembre resa esecutiva con legge 3 marzo 2009 n. 18 che fu utilizzata da Grazia Zuffa nella proposta di legge sul superamento della non imputabilità depositata alla Camera dei Deputati da Riccardo Magi (n. 1119). La Consulta ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 35 della 833 laddove non prevede la notifica dell’ordinanza di Tso del sindaco alla persona interessata e l’obbligatorietà dell’audizione della stessa da parte del giudice tutelare prima della convalida. La Corte ha ammonito il legislatore che interventi sul trattamento sanitario coattivo devono essere rispettosi dello statuto costituzionale della libertà personale e dei diritti costituzionali di difesa e al contraddittorio rilanciando così lo spirito di fondo della 180 per il pieno riconoscimento di tutti i diritti umani e sociali. L’esame al Senato del disegno di legge n. 1179 di Fratelli d’Italia che raddoppia i giorni del Tso (da farsi anche in carcere), prevedendo forme ulteriori di coercizione e di contenzione dovrà tenere conto di questa sentenza civile. La legge Basaglia secondo la destra: dai malati mentali bisogna difendersi di Andrea Casadio Il Domani, 20 giugno 2025 La maggioranza di centrodestra vuole mettere mano alla legge 180 ma il ddl è criticato dall’opposizione: introduce i manicomietti, strutture residenziali o semiresidenziali; aumenta da 7 a 15 giorni la durata massima dei Tso; codifica la contenzione meccanica delle persone. La legge Basaglia viene stravolta. Il ddl dice che i malati mentali sono pericolosi, inguaribili e incomprensibili. Ma è un cittadino come noi, coi nostri stessi diritti. Se è curato non porta pericoli alla società. Il 4 giugno, in un articolo pubblicato su questo giornale dal titolo: “La controriforma dei manicomi: le mani della destra sulla Legge Basaglia”, il senatore del Pd Filippo Sensi ha lanciato un allarme. Ha spiegato: “La maggioranza di centrodestra mi pare determinata a compiere gravi passi indietro anche sulla salute mentale, mettendo mano alla legge Basaglia. La commissione Affari Sociali del Senato, infatti, ha deciso di assumere come testo base per la riforma il ddl firmato dal presidente di FdI, Francesco Zaffini, una proposta che riteniamo sbagliata per tre motivi: introduce quelli che abbiamo definito ‘manicomietti’, strutture residenziali o semiresidenziali ridotte pensate per le persone affette da problemi mentali; aumenta da 7 a 15 giorni la durata massima dei Tso; codifica la contenzione meccanica delle persone”. Questi “tre punti sono molto pericolosi perché tornano a criminalizzare i pazienti e a umiliarli nella loro umanità.” “Cerchiamo di non essere ipocriti: il dd Zattini fotografa esattamente quello che succede sul campo in psichiatria”, afferma il dottor Santo Rullo, psichiatra responsabile della Comunità Villa Letizia, a Roma. “ll Tso è già quasi sempre di almeno 15 giorni. La contenzione fisica e farmacologica non dovrebbe esistere ma si usa in tanti ospedali, anche sui minori. Io nelle mie comunità non la adotto ma se vuoi fare così devi volerlo e avere operatori formati e in numero sufficiente. E i manicomietti, che non sono manicomietti ma residenze protette e comunità, esistono dal 1992, e servirebbero più strutture sul territorio, pubbliche soprattutto, ma con quali soldi le fai?” Come la mettiamo? Innanzitutto, è una cosa buona che qualcuno si sia finalmente deciso a mettere mano alla legge Basaglia che, approvata nel lontano 1978, col passare degli anni è stata a poco a poco dimenticata, trascurata e spesso tradita anche da una parte della psichiatria e della politica italiana che l’ha sempre vissuta con fastidio. Magari in questi quarant’anni avrebbe potuto pensarci prima la sinistra, ma non lo ha fatto. La legge n. 180 del maggio 1978 - ispirata dallo psichiatra Franco Basaglia - era una legge di due sole paginette, ma rivoluzionaria. Si apriva così: “Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”. Con questa semplice frase la legge 180 per prima al mondo abolì i manicomi, cioè gli ospedali psichiatrici in cui venivano rinchiusi contro la loro volontà gli individui con disturbi mentali, e restituì loro il diritto di cittadinanza. Nel 1978 in Italia c’erano 98 ospedali psichiatrici che ospitavano più di 89mila persone, ed erano regolati dalla legge Giolitti n 16 del 1904. Il primo articolo diceva: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi”. Chiunque poteva segnalare la presunta pericolosità di un individuo, che - adulto o adolescente che fosse - veniva internato in maniera coatta in manicomio spesso per il resto della sua vita, e segnalato al casellario giudiziario. Nei manicomi - vere e proprie carceri con le sbarre alle finestre, fredde e sovraffollate - gli internati erano tenuti in condizioni di scarsa igiene e malnutrizione, subivano trattamenti con le camicie di forza e l’elettroshock, che li sedavano e rendevano passivi. La legge 180, invece, ha dimostrato che la libertà è terapeutica: i matti si potevano curare, e ha restituito loro l’umanità. Poi, la legge Basaglia stabiliva che solo in rari casi si può agire contro la volontà di un individuo. “Possono essere disposti dall’autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione”. Le cure “vengono prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere”. I Tso sono proposti da un medico, esaminati da un giudice e approvati dal sindaco, nella sua qualità di autorità sanitaria, e possono venire prorogati 7 giorni alla volta. Infine, la legge Basaglia stabiliva che negli ospedali pubblici devono essere istituiti reparti di psichiatria “che non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15”, mentre “gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presìdi psichiatrici extra ospedalieri”. Formalmente la legge 180 ebbe una vita molto breve, dato che pochi mesi dopo fu sostituita dalla legge numero 833 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale. La legge 833 creò i Centri di Salute Mentale (Csm), presidi sul territorio dove chi soffre di un disturbo mentale trova psichiatri, psicologi, e operatori che gli offrono l’assistenza primaria e lo indirizzano verso i servizi a lui più adeguati: le strutture semi-residenziali o le residenze terapeutiche e socio-riabilitative, oppure i day hospital e i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, cioè i reparti di psichiatria degli ospedali. Ci sono voluti vent’anni per vedere attuata questa riforma: a metà anni 90 i capillari servizi finalmente istituiti sul territorio portarono alla riduzione dei ricoveri ospedalieri, ma poi le cose hanno cominciato a peggiorare. Nel 1992 il Governo Amato Psi-Dc varò la legge n.421, che creò le Aziende Sanitarie Locali, le quali essendo aziende dovevano stare attente alle spese; e poi il dl n.502, che introdusse le strutture private accreditate, in base alla quale ogni regione può accreditare cliniche proprietà di privati nelle quali i cittadini possono curarsi, lo Stato paga il tuo ricovero e il privato incassa. Ma così la sanità pubblica ha avuto sempre meno soldi. Negli ultimi quindici anni, poi, i governi di destra e di sinistra hanno operato una serie di tagli che hanno sottratto al SSN oltre 37 miliardi di euro. Secondo il Progetto Obiettivo “Tutela Salute Mentale 1998-2000”, per fare funzionare correttamente i Dipartimenti di Salute Mentale (Dsm) servirebbe un operatore ogni 1500 abitanti, cioè 67 ogni 100.000. Invece, ora ne sono in servizio 28.807 (57,4 per 100.000), di cui 25.754 dipendenti a tempo pieno, 1789 part-time e 1264 nel privato convenzionato. Ne mancano almeno 4.600, ma per funzionare bene servirebbe oltre il 40 per cento in più di forza lavoro. Poi, alla Salute Mentale spetterebbe il 5% del fondo del SSN, ma ne viene destinato solo il 2,9. Risultato: i Dsm, i day hospital e i reparti di psichiatria degli ospedali pubblici funzionano male perché mancano psichiatri, psicologi e infermieri, e quei pochi sono sottopagati e devono lavorare troppo. La filosofia stravolta - E allora cosa accade? Che una giovane che soffre di anoressia o un giovane che sta avendo una crisi maniacale violenta vengono ricoverati in un reparto psichiatrico di un ospedale pubblico, dove pochi psichiatri e infermieri sottopagati si dannano per curarli al meglio, e se necessario - o perché non ce la fanno a badare tutti - li sottopongono a contenzione meccanica (cioè li legano al letto) o farmacologica (cioè li sedano), una pratica che non viene considerata un atto terapeutico e quindi si può fare anche contro la volontà del paziente; poi, dopo qualche settimana, risolta la acuzie lo rispediscono a casa: ma le loro patologie richiedono cure che possono durare da pochi mesi ad alcuni anni, e allora se sono fortunati si rivolgono al Csm del loro comune, che spesso non ha personale a sufficienza e liste d’attesa lunghe mesi. Oppure, vengono spediti in una delle comunità di cura o riabilitazione psichiatrica, che sono troppo poche (per fare un esempio in Italia su 3 milioni di giovani che soffrono di disturbi alimentari i posti disponibili in comunità sono circa un migliaio) perché la sanità pubblica non ha fondi né personale per costruirle, e quindi sono praticamente tutte in mano ai privati; ma anche in queste cliniche private, dato l’enormità della domanda, le liste d’attesa sono lunghe mesi o anni, talora il personale medico per risparmiare sui costi è insufficiente, e quindi anche qui talvolta si ricorre alla contenzione meccanica o farmacologica. E allora dov’è il problema? “Il problema è che questo disegno di legge dice di non volerla cambiare ma in realtà subdolamente stravolge la filosofia della legge 180, la ribalta”, dice Peppe Dell’Acqua, psichiatra e storico braccio destro di Franco Basaglia all’ospedale psichiatrico di Trieste. “Questo ddl in ogni comma mette l’accento sulla pericolosità del malato di mente. Legga qua: ‘Articolo 1. La presente legge ha l’obiettivo di valorizzare l’attività di prevenzione, cura e riabilitazione nell’ambito della salute mentale garantendo al contempo la sicurezza e l’incolumità dei professionisti operanti presso i servizi per la salute mentale… limitando le forme coercitive alle effettive esigenze di cura del paziente con la massima attenzione alla sua incolumità fisica e quella dei suoi familiari e degli operatori. Parla ossessivamente di sicurezza. Questa legge per prima cosa ci dice che i malati mentali sono pericolosi, inguaribili e incomprensibili. Sottolinea che dal malato mentale dobbiamo difenderci. Autorizza e regolamenta la contenzione del paziente. Invece, tutte le ricerche ci dicono che il malato mentale non commette più crimini dei comuni cittadini, anzi è più probabile che cada vittima di violenze o si suicidi. È un cambiamento radicale di paradigma: noi nella legge 180 in nessun punto avevamo parlato della pericolosità del malato mentale perché il malato mentale è un cittadino come noi, coi nostri stessi diritti, che se curato non offre nessun pericolo alla società”. *Medico, giornalista e autore tv Fine vita. Il rispetto del dolore e dei diritti di Niccolò Nisivoccia Il Manifesto, 20 giugno 2025 Il dibattito in corso sul “fine vita” sembra attraversato da un grande equivoco, come se il punto fosse quello di dirimere il contrasto fra due diritti incompatibili fra loro: il diritto alla vita e il diritto alla morte. Il dibattito in corso sul “fine vita”, e sul suicidio assistito in particolare, sembra attraversato da un grande equivoco, come se il punto fosse quello di dirimere il contrasto fra due diritti incompatibili fra loro: il diritto alla vita, da una parte, il diritto alla morte dall’altra. Come se questo, semplicemente, dovesse fare una legge sul suicidio assistito: stabilire se a dover prevalere sia, in assoluto, l’uno o l’altro di tali diritti. Come se fossero queste, semplicemente, le domande da rivolgere alla legge, da una parte o dall’altra: esiste, e va tutelato, un diritto a morire? Oppure: esiste, e va tutelato, un diritto alla vita? E come se, infine, fossero semplicemente queste le domande alle quali ha risposto la Corte costituzionale nelle due sentenze del 2019 e del 2024, cui ora la legge dovrebbe dare seguito. In realtà le questioni in gioco, e le domande, sono altre, molto più articolate: in gioco non è la libertà di vivere o morire, e tantomeno una libertà assoluta, senza limiti; né il punto è quello di decidere una volta per tutte, attraverso una legge, se la vita debba avere la meglio sulla morte o la morte sulla vita. In gioco, piuttosto, è il mistero tanto della vita quanto della morte, e la sua insondabilità. Solo la morte, ha scritto Tolstoj, ci rivela finalmente a noi stessi, ed è appunto questo il senso della frase: che ognuno di noi è un mistero per sé stesso, ancora prima che per gli altri. Quello che può fare la legge, allora, è riconoscere questo diritto al mistero e proteggerne l’insondabilità, piuttosto che pretendere di scardinarlo autoritativamente. Qui, proprio qui, risiede l’importanza delle due sentenze della Corte costituzionale: nell’aver fissato dei princìpi rispettosi del mistero, e dunque tanto di un diritto alla vita quanto di un diritto alla morte, della sacralità di entrambi. Senza assolutismi, senza dogmatismi; in ultima analisi, senza soprusi nei confronti del diritto di ciascuno di coltivare dentro di sé l’idea della vita e della morte che meglio corrisponda alla propria sensibilità, o alla propria visione del mondo. Cos’ha stabilito la Corte, in quelle due sentenze? Lo sappiamo: ha stabilito che il suicidio assistito, pur vietato nel nostro ordinamento, può tuttavia essere ammesso a quattro condizioni. Vale a dire: a condizione che la persona che chiede di essere aiutata a morire sia “affetta da una patologia irreversibile” (prima condizione) che sia “fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili” (seconda condizione) e sia “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale” (terza condizione), salvo dover essere “capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (quarta condizione). E tutto si può dire, come si vede, meno che, in questo modo, la Corte abbia voluto pronunciare parole definitive. È vero il contrario: e proprio per questo, infatti, ci si può spingere a dire che le due sentenze, oltre che così importanti, sono anche bellissime. Dove la loro bellezza consiste nell’aver inscritto la fragilità della vita dentro una norma, riconoscendone la dignità d’essere anche nel momento più estremo. Naturalmente a non essere mai bello è il dolore; ma la bellezza può consistere nel riuscire ad accoglierlo, a comprenderlo, a compatirlo. A farlo anche proprio. Ecco, questo dovrebbe fare ora la legge (come la legge dovrebbe fare sempre, del resto): essere capace, umanamente, della medesima compassione. Saper includere il limite, e saper dichiarare, di là da quel limite, anche una resa. “C’è un limite a quello che ciascuno di noi considera sopportabile e c’è una capacità di adattamento che consente talvolta di spostarlo oltre”, ha osservato Giada Lonati, medico palliativista, in un libro pieno di sensibilità e delicatezza dedicato alle storie di alcune delle persone che la stessa Lonati ha accompagnato nei tratti finali delle loro vite (“L’ultima cosa bella”): “Poi per qualcuno di noi c’è una soglia superata la quale non ha più senso tollerare alcuna sofferenza. È come se il peso sulla bilancia si spostasse: fin qui era ancora accettabile, da qui in avanti non lo è più. E il confine lo stabilisce ogni essere umano per sé”. La barriera ingiusta tra il suicidio assistito e l’eutanasia attiva di Gianfranco Pellegrino* Il Domani, 20 giugno 2025 Ammettere il primo come regolamentato dalla Corte senza aprire alla seconda è arbitrario e discriminatorio. Significa discriminare fra chi può deglutire e chi no, fra chi conserva un minimo di mobilità nel proprio corpo e chi no. Una discriminazione odiosa, perché aggiunge mancanza di rispetto alla situazione penosa di chi vive in condizioni insopportabili. La Corte costituzionale ha stabilito che il suicidio assistito non è reato se praticato da chi, dopo verifica del servizio sanitario nazionale, risulti affetto da malattia irreversibile, sia in preda a sofferenze fisiche o psicologiche insopportabili e tenuto in vita da trattamenti medici o altri sostegni e sia cosciente e capace di decidere. Queste sentenze, però, non si estendono all’eutanasia attiva, in cui il trattamento sia somministrato dal medico, perché il paziente non è in grado di farlo da solo. Una paziente che non può ingerire farmaci perché paralizzata dal collo in giù ha chiesto al Tribunale di Firenze di sollevare questione di legittimità costituzionale sull’art. 579 del codice penale, secondo cui un medico che la aiutasse sarebbe colpevole di omicidio del consenziente. L’udienza si terrà il prossimo 8 luglio. La sentenza potrebbe arrivare prima della discussione in Senato su questa materia, il 17 luglio. Il governo sta preparando un disegno di legge che cerca di limitare l’applicazione delle sentenze della Corte, insistendo sulle cure palliative e affidando a un Comitato etico di nomina governativa, invece che al SSN, le decisioni per stabilire chi può accedere al suicidio assistito. Per molti, la differenza fra suicidio assistito ed eutanasia attiva è una barriera insuperabile e ci sono argomentazioni potenti che suggeriscono di non oltrepassarla. Per la Chiesa anche il suicidio assistito come regolamentato dalla Corte è troppo. Si dice che l’eutanasia attiva va contro la deontologia medica: i dottori non possono uccidere. Questo dovere è più forte del dovere di alleviare le sofferenze dei pazienti. Se così fosse, i medici potrebbero praticare accanimento terapeutico, cioè infliggere sofferenze (anche non volute) ai pazienti pur di prolungarne anche di poco la vita. È ovvio invece che i medici abbiano il dovere principale di alleviare le sofferenze dei loro pazienti, anche quando l’unica maniera di farlo sia interromperne l’esistenza. Si dice che legalizzare l’eutanasia porterebbe ad abusi, a medici che uccidono i propri pazienti per interessi sinistri. Ma non ci sono prove empiriche che nei paesi dove l’eutanasia attiva è legale siano aumentati gli abusi. Di mille cose si può abusare: delle armi, della libertà di correre rischi, e così via. Per evitare gli abusi non serve proibire: serve stabilire con leggi chiare i confini di quel che si può fare. Si dice che l’intenzione di uccidere è sempre malvagia e la vita sempre sacra. Per pazienti che si trovano nelle condizioni stabilite dalla Corte e non possano suicidarsi, meglio usare cure palliative aspettando la morte naturale. Da secoli nessuno muore più di morte naturale. Il momento e le modalità della nostra morte sono influenzati da tutte le tecnologie che abbiamo utilizzato per curarci e per dare forma al nostro corpo. Inoltre, che differenza passa fra lasciare che una persona compia l’ultimo passo per darsi la morte, aiutandolo ad arrivare sin lì, e compiere quest’ultimo passo per lei, quando il consenso e l’autonomia siano autentici oltre ogni ragionevole dubbio? Ammettere il suicidio assistito come regolamentato dalla Corte senza aprire, anche se in condizioni molto controllate, all’eutanasia attiva è arbitrario e discriminatorio. Significa discriminare fra chi può deglutire e chi no, fra chi conserva un minimo di mobilità nel proprio corpo e chi no. Una discriminazione odiosa, perché aggiunge mancanza di rispetto alla situazione penosa di chi vive in condizioni insopportabili. Il principio di eguaglianza stabilito nella Costituzione italiana dovrebbe valere anche in questi casi. Chi non vuole più continuare una vita di sofferenze insopportabili non può essere costretto a vivere solo perché la stessa malattia che l’ha portato in quelle condizioni gli rende impossibile liberarsi. Non si può affidare al caso la dignità e l’autonomia delle persone. Che la Corte riconosca questo principio aiuterebbe il Parlamento a dare una legge civile ed organica sul fine vita al nostro Paese. La possibilità di vivere con dignità, senza dolori insopportabili: questo è il diritto di ogni essere umano. *Filosofo Migranti. Storia di Daza, chiuso nel Cpr albanese di Gjadër e convinto di essere ancora in Italia di Luca Rondi altreconomia.it, 20 giugno 2025 L’uomo di origine camerunense è stato trasferito dal Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino a quello di Gjadër a fine maggio nonostante le segnalazioni della Garante dei detenuti torinese Monica Gallo, che ne aveva segnalato le fragilità psichiatriche. Era isolato e dormiva nella mensa. Intanto i dati ottenuti da Altreconomia dimostrano che la tesi della mancanza di posti nelle strutture italiane alla base dei trasferimenti oltre Adriatico è totalmente infondata. Da quasi un mese Daza, nome di fantasia, è rinchiuso nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) albanese di Gjadër gestito dalla cooperativa sociale Medihospes. Secondo quanto raccontano a metà giugno i suoi compagni di stanza, l’uomo di origini camerunensi starebbe bevendo le sue urine da diversi giorni. Lo hanno riferito alla deputata del Pd Rachele Scarpa, che il 18 giugno ha visitato il centro in Albania. “Risponde poco alle domande e non sembra comprendere a pieno quello che sta succedendo -spiega Scarpa ad Altreconomia-. Lui è convinto di essere ancora in Italia”. La fragilità di Daza, però, non è una novità. Prima di essere trasferito era già stato descritto da chi l’aveva incontrato al Cpr di Torino come persona in forte difficoltà. “La mia richiesta che venisse visitato è stata ignorata -dice Monica Gallo, Garante dei diritti dei detenuti del capoluogo piemontese-. Ho scoperto solo a trasferimento avvenuto che era stato portato in Albania”. Riavvolgiamo il nastro. La sera del 19 maggio l’uomo fa ingresso nel Cpr di Torino dopo un decreto di trattenimento del questore di Bergamo e il personale dell’ente gestore -Sanitalia- nella sezione “altre osservazioni” del documento di valutazione clinica d’ingresso annota “non vuole lavarsi” e “visita psichiatrica”. Il giorno successivo la Garante Gallo entra al “Brunelleschi” per una visita ispettiva e incontra Daza. “Era una persona isolata e in un’evidente condizione di malessere psicologico e difficoltà di adattamento al contesto”. L’uomo dorme nella sala mensa e non come tutti gli altri nelle stanze di pernottamento. Il 21 maggio durante l’udienza di convalida di fronte al giudice di pace, il giovane racconta di essere arrivato in Italia il 24 novembre 2017, a sedici anni, per poi descrivere il motivo per cui è stato fermato dalle forze dell’ordine. “Mi trovavo in un supermercato Lidl di Romano di Lombardia (BG) e ho comprato una bottiglia di liquore che costava 2,99 euro, la cassiera si è rifiutata di darmi la bottiglia e ha chiamato i carabinieri”. A questo l’uomo aggiunge di non prendere nessun medicinale e di non sapere dove siano i suoi famigliari. “In Camerun non ho nessuno”. Durante l’udienza l’avvocato difensore Marco Melano fa presente le fragilità psicologiche del suo assistito: il giudice convalida ma sottolinea di ritenere “opportuno sollecitare la questura a segnalare il caso alla autorità sanitaria competente per l’effettuazione degli opportuni accertamenti psichiatrici”. Sulla necessità di una visita insiste anche Monica Gallo che, con una nota inviata il 23 maggio alla prefettura di Torino, chiede di fissare “al più presto una visita psichiatrica” per valutare l’effettiva idoneità dell’uomo con la vita nel Cpr. L’ufficio torinese del Viminale risponde sottolineando che la persona è stata segnalata all’ente gestore che monitorerà la situazione. Quello stesso giorno, però, il medico di Sanitalia firma il via libera al trasferimento di Daza “per mezzo aereo o/e altro tipo di trasporto” attestando di nuovo una “buona condizione generale”. La visita psichiatrica non verrà mai effettuata. Il 27 maggio, infatti, l’uomo viene portato a Brindisi e poi imbarcato sulla nave militare Spica diretta in Albania. Daza si trova così a Gjadër dove il 18 giugno incontra appunto Scarpa. “Abbiamo parlato con lui ed è emerso chiaramente che è straniato, sconnesso dalla realtà -racconta la deputata-. Dice di stare bene, che non vuole tornare in Camerun e di voler restare ‘qui in Italia’. Non ha la contezza di essere in un altro Paese ed è poco propenso a farsi aiutare. Solleciteremo la sua liberazione: il Cpr non è un luogo adeguato per lui”. L’avvocato difensore, nel frattempo, ha chiesto il riesame del trattenimento al giudice di pace di Roma per valutare la compatibilità o meno del suo trattenimento. La storia di Daza ricorda, per certi versi, quella di Ibrahima, rinchiuso per oltre quattro mesi in tre diversi Cpr italiani tra cui in Albania nonostante la pluritossicodipendenza e l’Hiv. Dopo il trasferimento del 27 maggio, quello che ha portato Daza in Albania, il governo non ha più inviato nuove persone a Gjadër, probabilmente a causa della decisione della Corte di Cassazione di rinviare alla Corte di giustizia dell’Unione europea la legge che ha trasformato i centri albanesi in Cpr. Al 18 giugno di quest’anno i trattenuti sarebbero una trentina: il condizionale è d’obbligo perché sono stati “contati” uno a uno dai parlamentari in visita che non hanno potuto accedere ad alcun dato ufficiale durante la visita. Altreconomia però, per provare a fare chiarezza, ha chiesto tramite accesso civico al Viminale i dati dei transiti del centro albanese. Dall’11 aprile, quando è stato riaperto, fino al 21 maggio 2025 sono state portate in totale 57 persone, per una durata media di 14,19 giorni di permanenza. L’Algeria è la nazionalità più rappresentata (undici) seguita da Nigeria e Marocco (dieci), Pakistan (otto), Bangladesh (cinque) ed Egitto (cinque). Si registra poi la presenza anche di quattro persone di origine tunisina, una georgiana, una ghanese, una moldava e una senegalese. Le persone rimpatriate, sempre secondo i dati del ministero dell’Interno, sono state 24, meno del 50% di quelle finite oltre Adriatico. Anche se il Viminale li classifica come rimpatri da Gjadër è importante sottolineare come nessuna di queste operazioni, fino a ora, sia avvenuta dall’Albania: le persone sono state prima portate in Italia e poi caricate sui voli diretti verso il Paese d’origine. Il passaggio dal Cpr albanese non è quindi in alcun modo necessario. E una giustificazione non sembra neanche poter essere quella della mancanza di posti nelle strutture italiane. Lo dicono i numeri. Tra fine dicembre 2023 e inizio 2024 la capienza totale dei Cpr è scesa da 708 a 662 -secondo i dati di Action Aid che verranno pubblicati a fine giugno sulla piattaforma “Trattenuti” - principalmente a causa dei danneggiamenti al centro di Trapani. I posti disponibili sono rimasti stabili per tutto il 2024 per poi tornare a crescere nel 2025: a marzo, infatti, è stato riaperto il Cpr di Torino e la capienza di altre strutture è aumentata. Il risultato? Al 10 giugno 2025, dati dal Garante nazionale dei detenuti alla mano, c’erano 813 posti (escluso Gjadër) con un aumento di quasi il 25% rispetto al 31 dicembre 2024. Quindi più posti e addirittura meno persone dentro. Infatti, i primi mesi del 2025 si caratterizzano per un numero di ingressi perfino inferiori rispetto a quelli degli anni precedenti. Prendendo come esempio il mese di febbraio, se nel 2023 erano state in totale 636 le persone transitate dai Cpr, quest’anno sono scese a 441. È possibile stimare che, quando ad aprile è stato aperto il centro di Gjadër, il 50% dei posti delle strutture italiane non era affatto occupato. Lo scollamento tra l’obiettivo dei Cpr (il rimpatrio) e il loro funzionamento è sempre più evidente. Nei primi cinque mesi del 2025 sono state rinchiuse persone originarie dell’Ucraina, del Sudan, dell’Afghanistan, del Ruanda, della Repubblica Democratica del Congo. Addirittura, a maggio, un cittadino palestinese. Migranti. Open Arms, i giudici: “Salvini non era obbligato a fornire il porto sicuro” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 giugno 2025 Il Tribunale di Palermo ha reso note le motivazioni della sentenza di assoluzione per l’ex ministro dell’Interno. Sono 270 le pagine con cui la II sezione penale del Tribunale di Palermo ha motivato la decisione di assolvere il 20 dicembre scorso Matteo Salvini dall’accusa di sequestro di persona e rifiuto di atti di ufficio per avere impedito, sei anni fa da ex ministro dell’Interno, lo sbarco a Lampedusa dallanave Open Armscon a bordo 147 migranti soccorsi nel Mediterraneo durante tre operazioni di salvataggio. La procura del capoluogo siciliano riteneva che l’attuale vice premier avesse l’obbligo di concedere un Pos (place of safety) all’imbarcazione. Tuttavia, secondo i tre magistrati del collegio giudicante, non è sorto “in capo allo Stato italiano l’obbligo di coordinare le operazioni di search and rescue e di concedere il POS”. Innanzitutto i tre eventi di salvataggio sono avvenuti in zone Sar non italiane “giacché deve escludersi che una responsabilità potesse derivare all’Italia” come Stato di primo contatto. Poi, in merito al quarto episodio, ossia quando secondo il capitano della nave erano in pericolo per via del peggioramento del meteo, i giudici hanno scritto che non si può parlare “di condizione di distress” “ma di una comune situazione di maltempo che non aveva cagionato nessun concreto pericolo di vita dei passeggeri”. Ed ancora: “Il convincimento che nella vicenda oggetto del presente procedimento nessun obbligo di fornire il Pos gravasse sullo Stato italiano, né, dunque, sull’odierno imputato, esime evidentemente il collegio dall’affrontare analiticamente diverse tematiche prospettate ed animatamente dibattute dalle parti”. Piuttosto, “la Spagna, e non l’Italia, era tenuta a tutelare i diritti delle persone a bordo e, dunque, in linea di principio, anche a fornire l’approdo in un Place of safety (porto sicuro)”. Il tribunale è arrivato a questa conclusione sulla base di alcune considerazioni “che - scrivono i giudici - definiscono il naturale profilo centrale assunto dalla Spagna nella vicenda (a dispetto di una artificiosa chiamata in causa dell’Italia)”. Il centro di coordinamento e soccorso marittimo della Spagna aveva effettivamente “operato, sin da subito, un sia pur minimo coordinamento da ‘primo contatto’, quale quello diretto a orientare la nave (Open Arms coi migranti soccorsi, ndr) nella individuazione degli Stati responsabili (o almeno quelli che aveva ritenuto responsabili) per la zona del sinistro, prima la Tunisia e poi Malta, mettendo in contatto l’imbarcazione con le rispettive autorità competenti”. Fin da subito, Malta, “nel declinare la propria responsabilità per i primi due eventi di salvataggio, - spiegano i magistrati - aveva chiaramente indicato la Spagna (Stato di bandiera) quale unica autorità che avrebbe dovuto assistere il natante nella prosecuzione delle operazioni”. E ancora - precisano “sia pure dopo diversi giorni, la Spagna aveva finalmente concesso il Pos, esortando la barca a recarsi ad Algeciras e poi nel più vicino porto spagnolo rispetto alla sua posizione (Maiorca), non potendo più disconoscere, a quel punto, vieppiù pressata da stringenti motivazioni umanitarie, la propria giuridica competenza sull’evento”. “Infine - motiva il tribunale - quando Open Arms aveva rappresentato l’impossibilità di raggiungere il Pos indicatogli la Spagna aveva disposto l’invio della nave della Marina Militare Audaz per prelevare i migranti soccorsi e condurli in Spagna (organizzando una soluzione alternativa per raggiungere il place of safety)”. La sentenza specifica anche però che a differenza di quanto tuttavia adombrato dall’imputato e dalla sua difesa, dalle ong non ci sia stato alcun favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: “in base all’istruttoria svolta non soltanto non è emerso alcun elemento dotato di una minima suggestività di un collegamento tra Pro Activa Open Arm e le organizzazioni dedite al favoreggiamento del flusso migratorio clandestino via mare, ma soprattutto risulta che l’Ong abbia agito all’interno del perimetro normativo delle convenzioni internazionali, avendo il comandante salvato donne, uomini e bambini che si trovavano in alto mare, a bordo di imbarcazioni precarie e in imminente pericolo di vita, così adempiendo agli obblighi imposti dalle convenzioni Unclos e Solas”. Il commento di Salvini arriva nel tardo pomeriggio: “I giudici hanno confermato che difendere l’Italia non è reato, rilevando l’ostinazione e l’arroganza di Open Arms che ha fatto di tutto per venire in Italia, scartando tutte le altre alternative che erano più logiche e naturali”. Per il suo avvocato, Giulia Bongiorno, “la sentenza, con motivazione tecnicamente ineccepibile, riconosce la assoluta correttezza della condotta del ministro Matteo Salvini. Non esisteva infatti alcun obbligo di far sbarcare Open Arms in Italia. La sentenza va anche oltre e precisa che chi ha sbagliato è stata proprio Open Arms nel non cercare altre soluzioni”. Ancora più breve il commento di Oscar Camps, fondatore della Ong Open Arms: “I nostri legali stanno leggendo le 270 pagine di motivazioni. Attendiamo le valutazioni della procura della Repubblica” in merito al ricorso in appello. Migranti. “Essere soccorsi è un diritto” di Tiziano Rossetti e Maso Notarianni* Il Manifesto, 20 giugno 2025 Ringraziamo l’ammiraglio Vittorio Alessandro per avere reso pubblica una riflessione che da tempo sta facendo chi naviga con lo scopo di monitorare la drammatica situazione che vede sempre alto il numero di naufraghi da soccorrere e di imbarcazioni a cui prestare aiuto nel mediterraneo. Il Governo ha cambiato strategia, fermando non solo le navi da soccorso delle Ong, ma anche fermando o, con i consueti cavilli burocratici, ostacolando le “piccole” imbarcazioni che la società civile utilizza per monitorare gli accadimenti e sostenere e aiutare i naufraghi in attesa di soccorsi adeguati. Le leggi sono molto chiare, ci sono trattati e accordi sovranazionali - che pure l’Italia, e i Paesi che fanno parte di Frontex hanno sottoscritto e a cui dovrebbero attenersi - che dettano chiaramente quali debbano essere le linee di azione anche per le unità da diporto di piccole dimensioni. Queste regole, di queste leggi, sono materia di interrogazione per l’esame per la patente nautica. Il soccorso in mare è sempre obbligatorio. Soccorso non vuole dire necessariamente il trasbordo di naufraghi sulla propria imbarcazione. Implica tutto quello che serve a diminuire il rischio di chi si trova in difficoltà. È anche obbligatorio per i comandanti di qualsiasi tipo di unità (piccola, grande, da diporto o commerciale che sia), avendo ricevuto una segnalazione di imbarcazione in pericolo rilanciare la segnalazione facendo in modo che ci si rechi il più rapidamente possibile verso l’imbarcazione in difficoltà. Le segnalazioni viaggiano sul canale sedici VHF, su cui devono obbligatoriamente essere sintonizzate le radio che le imbarcazioni omologate per andare in mare aperto hanno a bordo. Chi le riceve le deve rimandare: si chiama Mayday Relay, e capita troppo spesso che Frontex non si attenga a quest’obbligo. Il soccorso è dunque un obbligo sancito, oltre che dalla antichissima legge del mare, anche da trattati (dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare alla Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il salvataggio marittimo) a cui tutti gli Stati e i Governi si devono attenere. Quelle leggi dicono che le autorità marittime devono (non possono, devono) intervenire il più celermente possibile per portare aiuto a chi sta soccorrendo. E anche questo accade sempre meno spesso nel Mediterraneo. Nel caso del naufragio di Cutro, ad esempio, non è accaduto. Obbligo per i comandanti è anche quello di recarsi verso il posto sicuro più vicino. Per le imbarcazioni di piccole dimensioni che siano state costrette a imbarcare naufraghi, il posto sicuro più vicino potrebbe essere temporaneamente anche un’altra nave, più grande, stabile e dunque più sicura, la quale avrebbe a sua volta il dovere di dirigersi verso il POS più rapido da raggiungere. Ma secondo i decreti emanati dal governo, per fare un trasbordo da una barca meno ad una più sicura ci vuole un’autorizzazione che non viene data o viene data con ritardi rischiosissimi. Il comandante del primo assetto che arriva sul distress è in quel momento l’autorità delegata al soccorso, e in base alle sue valutazioni (le condizioni meteomarine, le condizioni dell’imbarcazione in difficoltà, il tempo di arrivo previsto di altri assetti navali) stabilisce se, come, quando e perché diventa necessario imbarcare naufraghi. Esistono quindi i regolamenti da seguire per decidere se, come, dove e quando una imbarcazione di dimensioni ridotte della società civile debba prestare aiuto e soccorso, ed è il governo italiano che non li rispetta. Dovrebbero essere il governo italiano e quelli europei a non considerare la cosiddetta guardia costiera libica, e il cosiddetto Centro di Coordinamento libico come interlocutori. Il fatto di respingere i naufraghi in braccio ai libici è evidentemente inaccettabile anche per i tribunali italiani. La stessa richiesta di selezionare i vulnerabili è per diritto inaccettabile e non è il nostro lavoro: coloro a cui portiamo assistenza e che in caso di necessità prendiamo a bordo sono tutti naufraghi. Il nostro ruolo è diventato oggi mantenere effettivo il diritto di essere soccorsi. In questo quadro, ordinare a una barca a vela nei pressi di Lampedusa di andare fino - ad esempio - a Porto Empedocle con decine di persone a bordo significa mettere in pericolo naufraghi ed equipaggio, ed è anche irragionevole in quanto contrario al principio dello sbarco nel next Place of safety. *Comandante e Capomissione Tutti gli occhi sul Mediterraneo In che mondo siamo destinati a vivere di Gabriele Segre La Stampa, 20 giugno 2025 Nello scenario bellico dove si punta all’annientamento altrui, serve unire nuovamente i puntini. Reagire con sgomento di fronte all’escalation di guerra tra Israele e Iran è giusto e comprensibile. Continuare a considerarla un’eccezione, non più. Lo scontro tra i due Paesi è solo l’ultimo segnale brutale di quanto la storia stia cambiando e oggi la vera sfida è decifrare quale nuova immagine del mondo potrà emergere una volta uniti tutti i puntini seminati da queste crisi infinite. Magari prima che si compia una di quelle svolte storiche che, all’improvviso, danno senso a un’intera epoca, ma sempre a un prezzo altissimo. Serve, però, affinare lo sguardo, evitando di cadere nella trappola di proiettare nel disegno che si compone solo ciò che desideriamo vederci. Ad esempio, l’amato diritto internazionale, ancora distrattamente evocato durante l’ultimo G7 in Canada, come se non sapessimo che è morto da tempo: forse già con le bombe su Belgrado o Baghdad, di certo sepolto sotto le macerie di Gaza e Kharkiv. Sarebbe altrettanto necessario riconoscere che anche la logica della deterrenza è uscita dal riquadro. Una perdita che lo scambio di missili tra Teheran e Tel Aviv ha soltanto confermato, ma che era già evidente con l’invasione russa dell’Ucraina e con il massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre. La paura che, colpendo il nemico, si sarebbe finiti per farsi troppo male a vicenda è evaporata. Al suo posto, si è affermata l’idea che ogni attore possa spingerci sempre oltre, alzando la posta incurante delle conseguenze. Lo hanno fatto Putin, Hamas, Netanyahu, l’Ucraina. Lo facciamo anche noi europei, accettando che le possibili ricadute dell’invio di missili a lungo raggio a Kiev siano un rischio che siamo disposti a correre. Quanto agli Stati Uniti, la loro deterrenza sembra svanita insieme a una strategia politica in grado di sostenerla. Abbiamo considerato Biden debole perché cercava di farsi garante di un ordinamento multilaterale ormai sgretolato. Ma oggi Trump rischia di apparire ancora più fragile: nel tentativo di disinnescare i medesimi conflitti, ha fatto leva unicamente sulla propria volontà di pacificazione, costi quel che costi - ed è stato calpestato tanto dagli avversari quanto dagli alleati. La sua speranza di rientrare in gioco all’ultimo momento sul tavolo dell’Iran, magari attribuendosi il merito della mossa decisiva, rivela l’esatta misura della sua impotenza. Ma non è stata solo l’incoscienza dei tempi a uccidere la deterrenza: è la natura stessa della guerra moderna ad averla resa impraticabile. Un tempo si potevano prevedere le mosse del nemico calcolando convenienze politiche e potenza di fuoco. Oggi, droni dal costo irrisorio sono in grado di decimare flotte di bombardieri o bloccare rotte commerciali globali: l’equazione strategica si è fatta indecifrabile e non distingue più tra una superpotenza, un attore regionale o un gruppo terroristico. E qui si annida il pericolo maggiore: se le armi diventano ogni giorno più economiche, letali e sofisticate, qualcuno prima o poi si sentirà costretto a ristabilire il proprio margine di deterrenza con l’unico strumento che ancora incute un timore reale. A rendere tutto ancor più drammatico si aggiunge un’ulteriore evidenza: oggi tutte le guerre sono diventate esistenziali. Aggressori e aggrediti combattono per la pura sopravvivenza, immersi in conflitti dis-ordinati, privi, cioè, di qualunque riferimento a un ordine riconoscibile. Gli attacchi non prevedono una strategia per la vittoria, né una via d’uscita in caso di sconfitta. Non esistono margini di trattativa, né spazi di negoziazione. Niente caschi blu, nessuna mediazione credibile, nessun equilibrio da salvare. In queste guerre moderne, l’unico esito possibile è l’annientamento dell’altro. Niente diritto, niente deterrenza, niente volontà politica. A regolare i rapporti tra le nazioni è rimasta soltanto la forza - o meglio, la disponibilità a farne uso. Una logica di potenza che, tra le altre cose, soffoca sul nascere qualsiasi sogno di difesa comune europea, a meno di non saper dimostrare, con i fatti, di essere davvero pronti a sostenerla. Altrimenti sarà solo l’ennesima conferma che continuiamo a coltivare sogni che non possiamo permetterci, prigionieri di quella stessa miopia selettiva che ci fa vedere più ciò che desideriamo, che ciò che esiste davvero. E tuttavia, anche solo spinti dal desiderio di sopravvivere, se davvero volessimo interrompere questa corsa a trasformare il mondo in una giungla, resterebbe ben poco da fare - a meno di cambiare sguardo e strumenti. Se continuiamo a utilizzare le stesse categorie culturali che hanno fondato il pensiero politico del secolo scorso, falliremo come chi si ostina a impugnare una fionda contro un caccia di sesta generazione. I principi del vecchio ordine non vanno abbandonati, certo, ma resteranno impotenti se non avremo il coraggio e la lucidità di reinterpretarli dentro il nuovo contesto in cui ci troviamo. Eppure sembriamo ancora incapaci di farlo. Non per mancanza di volontà o di buone intenzioni, ma forse perché il mondo non è ancora cambiato abbastanza da imporci uno sguardo davvero alternativo. La verità più amara è che potrebbero servire altre crisi, altri shock, altri puntini da unire prima di riuscire a intravedere la figura intera. Con una postilla non secondaria: quei puntini, uno per uno, siamo noi.