Il sistema carcerario deve cambiare davvero di David Allegranti La Nazione, 1 giugno 2025 Il nuovo capo del Dap, Stefano de Michele, è un magistrato scelto dal governo. Il filosofo del diritto Emilio Santoro: “Si vedrà quanto si considererà un tecnico indipendente e quanto un esecutore di direttive ministeriali”. Nel Consiglio dei ministri del 26 maggio 2025 sono stati nominati il capo dipartimento per gli Affari di giustizia, il capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e il capo dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi. Rispettivamente i tre ruoli sono stati attribuiti ad Antonia Giammaria, Stefano Carmine De Michele e Lina Di Domenico, quest’ultima molto vicina al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Alcuni addetti ai lavori erano convinti che sarebbe stata lei - già vice del precedente capo del Dap Giovanni Russo, dimessosi cinque mesi fa - ad assumere la guida dell’amministrazione. I tre hanno una caratteristica in comune: sono tutti magistrati ordinari. Se da un lato insomma il governo punta sulla separazione delle carriere, dall’altro continua a usare magistrati fuori ruolo per incarichi di governo, cioè negli uffici ministeriali. Nel caso del nuovo capo del Dap bisogna annotare che De Michele non è soltanto un magistrato, ma anche un magistrato civile. Non si è mai occupato dunque di ordinamento penitenziario. Non è una novità, purtroppo, per questo governo. “Non conosco il dottor De Michele - ci dice il filosofo del diritto Emilio Santoro - so solo che è un magistrato civile e che non si è mai occupato di questioni carcerarie. I magistrati sono abituati a cambiare completamente funzioni, a passare dal civile penale, da giudicante a inquirente, per ora, dal tribunale di sorveglianza al tribunale dei minori. Sono abituati a cambiare contesti e campi di operatività, quindi vedremo. E vedremo anche che atteggiamento assumerà rispetto al ministero; cioè, quanto si considererà un tecnico indipendente rispetto alle indicazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio e del sottosegretario Delmastro e quanto invece si considererà un esecutore di direttive. Lo scopriremo solo vivendo”. Ironico il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria Gennarino De Fazio: “Finalmente, dopo oltre 5 mesi dalle dimissioni del peraltro mai pervenuto Giovanni Russo, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e il Corpo di polizia penitenziaria hanno un loro vertice. Il lungo periodo di vacanza, ben al di là di supposte sgrammaticature istituzionali, fa dedurre che il ministro Nordio e il Governo non devono essere stati orientati da entità spirituali ma, più terrenamente, da una versione raffazzonata del manuale Cencelli”. La scelta di De Michele, ha detto De Fazio, “non pare garantire alcuna continuità di conoscenza della complessa macchina dipartimentale, per di più in un frangente di profondissima crisi del sistema carcerario con oltre 16mila detenuti in esubero rispetto ai posti disponibili, ben 18mila agenti mancanti agli organici della Polizia penitenziaria, 2 operatori e 31 detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, vasta circolazione di smartphone, stupefacenti, armi”. Insomma, sul nuovo capo del Dap le perplessità non mancano. E le carceri toscane lo aspettano. A partire da Sollicciano, che è - riferisce Antigone nel suo ultimo rapporto - tra gli istituti penitenziari in cui nel 2024 si sono verificati più suicidi e tra quelli in cui ci sono stati più atti di autolesionismo rispetto all’anno precedente. Carcere, quando il volontariato è una vocazione. Incontri con i protagonisti di Antonella Barone gnewsonline.it, 1 giugno 2025 Daniela Ursino: il carcere da periferia assoluta a incredibile fucina di esperienze. Una donna bruna e sorridente si affaccia da dietro un’enorme giara di cartapesta collocata al centro del palcoscenico del Piccolo Shakespeare, il teatro della casa circondariale di Messina. È il 2019 e Daniela Ursino è alle prove di una riduzione dell’opera pirandelliana in cui recitano detenuti-attori. La foto, una delle prime a raccontare alla stampa la storia di Daniela e delle sue tante “imprese”, la dice lunga sull’idea “immersiva” di teatro in carcere di questa messinese dalla doppia vocazione professionale, di operatrice sociale e interior designer. Da quando, nel 2017, ha iniziato a collaborare con l’istituto di Gazzi, Daniela Ursino non ha più lasciato il palcoscenico ‘ristretto’ che però è riuscita ad aprire alla città con la creazione del teatro Piccolo Shakespeare. Laurea in lettere e borsa di studio all’Accademia d’Arte drammatica Silvio D’Amico di Roma, 51 anni, Ursino è presidente e direttore artistico D’aRteventi, associazione operante nel settore culturale e artistico locale e nazionale con un’attenzione specifica alla valorizzazione delle tradizioni e delle sue risorse, con una particolare attenzione a giovani e sociale. All’impegno in carcere è giunta dopo un’esperienza come assessore alla cultura della sua città iniziata e conclusasi nel 2017 con le sue dimissioni. Lei proviene da esperienze soprattutto nel mondo della cultura e dell’arte. Cosa l’ha spinta a scegliere di fare teatro con i detenuti? Nella mia città, Messina, avevo appena realizzato una bellissimo progetto che mi aveva consentito di lavorare con tantissime realtà, molte delle quali erano istituti scolastici di periferia, dove avevo notato nei ragazzini una grande curiosità, un forte desiderio di crescita culturale. Da qui ho maturato l’idea di creare qualcosa di analogo nella periferia più assoluta della città, il carcere. Perché ritenevo davvero che potesse essere una fucina incredibile di esperienze. Il primo artista che ho coinvolto è stato Tindaro Granata che ha portato proprio all’interno dell’istituto penitenziario di Messina il suo monologo “Antropolaroid”. Da lì è iniziato tutto. Era il 2017. Da allora, con l’attore e regista Flavio Albanese, siamo partiti con dei laboratori propedeutici per impostare un’attività che fosse totalmente a misura del luogo che ci ospitava e delle sue regole. Così è nato “ Il Teatro per Sognare” che ho creato con l’Associazione D’aRteventi, che presiedo. Il progetto ha dato vita all’interno dell’istituto penitenziario di Messina, al restyling della sala teatrale “Piccolo Shakespeare” che ha l’onore di avere sulle pareti del foyer le locandine e i manifesti dei due teatri che hanno portato il nome dell’Italia nel mondo, il Piccolo di Milano e La Scala di Milano. È poi seguita la “Libera Compagnia del Teatro per Sognare” dei detenuti-attori che opera oltre che nelle sezioni maschile e femminile di media e alta sicurezza. Cosa ha provato quando i cancelli si sono chiusi per la prima volta dietro i lei? Un’immensa curiosità, sono stati spunti continui di riflessione. Desideravo ascoltare chi mi veniva incontro, il confronto con chi abitava quel luogo diventava una storia a cui dedicare tanto tempo, diventava una storia di umanità. Ho presto cambiato idea rispetto al progetto di partenza che avevo immaginato come rivolto solo ai detenuti. Abbiamo coinvolto tutto l’Istituto, il direttore, la polizia penitenziaria che ci accompagna durante le attività, gli educatori e il tribunale di sorveglianza da cui dipendono tutte le autorizzazioni che ci consentono di organizzare le varie azioni. È così diventato un progetto di comunità Si chiama “Teatro per sognare”, ma esiste la dura realtà che, in genere, ha a che fare con le risorse necessarie per realizzare il sogno. Chi vi ha aiutato concretamente nel portare a termine i vostri tanti progetti? Tutto è nato grazie al sostegno e alla guida della Caritas diocesana di Messina. Fondamentale per la sua realizzazione è stato l’Arcivescovo Mons. Accolla, uomo deciso ad accogliere di sostenere e coltivare, nel tempo, un cammino rieducativo di riscatto per i nostri ragazzi, attraverso lo strumento dell’arte ma, cosa essenziale e importantissima, un cammino continuativo. Il grosso problema di molti progetti, soprattutto in questi luoghi, è quello di durare poco tempo e, purtroppo, il poco tempo è nemico di ogni processo evolutivo e di crescita culturale perché si possano riscontrare dei risultati concreti di cambiamento. Il teatro è in grado di attivare dei processi di trasformazione, ma non parliamo di miracoli. Parliamo di processi, e un processo richiede dei tempi lunghi per la sua attuazione, per radicarsi e per iniziare a dare i suoi primi frutti. Il progetto è stato accolto dai direttori di Caritas, padre Giuseppe Brancato prima e dal 2018 a oggi padre Nino Basile, che segue la nostra attività. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza la collaborazione della direzione dell’istituto, l’attenzione di provveditorato regionale e del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. In molti, tra i non addetti ai lavori, si chiedono com’è il rapporto di una donna con i detenuti e una comunità soprattutto maschile. Timori, imbarazzi, pudori? I detenuti sono i primi che, capendo l’interlocutore che hanno davanti, se si fidano mettono a proprio agio chi viene dall’esterno per loro. Siamo cresciuti con piccoli e grandi passi insieme, ora siamo una famiglia allargata; attraverso il teatro abbiamo imparato a superare ogni barriera, parliamo di ciò che accade nel vivere quotidiano e cerchiamo di affrontare insieme i problemi che si presentano. Questo è naturale poiché la vita di ogni giorno entra nelle pagine della storia che scriviamo insieme. Quali le esperienze più significative: successi artistici ma anche e soprattutto successi sul piano del cambiamento delle persone detenute che hanno seguito i vostri progetti? Nei nostri ricordi abbiamo tante esperienze bellissime e sintetizzarle non è facile, perché per noi sono tutti piccoli grandi traguardi raggiunti con consapevolezza e grande impegno. Nel 2019, lo spettacolo “E allora sono tornata”, con Tindaro Granata, che è sempre stato a fianco del progetto e ha seguito le donne di alta sicurezza, per una performance dedicata alla grande Mina, alla quale abbiamo fatto pervenire tramite Massimiliano Pani, figlio e produttore, il nostro progetto. Poi il lockdown non ci ha fermato e abbiamo proseguito con i laboratori da remoto per non lasciare soli i nostri ragazzi. Ricordo volentieri anche un video per promuovere la vaccinazione, tutto realizzato da remoto. Il 2022 poi è stato un anno importante perché abbiamo fatto il primo spettacolo della Compagnia fuori dal carcere, al Teatro greco di Tindari: un’emozione immensa per tutti. I ragazzi ricordano ancora il forte senso di responsabilità per la fiducia datagli. E la luce, i colori, il mare, il cielo, il vento sulla pelle e le cicale, che sono state la colonna sonora che ci ha accompagnato fino al momento dello spettacolo. Abbiamo rappresentato “Liolà”, inserito nel Tindari Festival con la direzione artistica di Tindaro Granata e la regia del poliedrico artista e anche amico, Mario Incudine. Nell’edizione del 2023 abbiamo messo in scena la magia di “Contrada Luna” e nel 2024 “Icaro” sempre con la regia di Incudine, rappresentato anche al teatro Massimo di Siracusa in un evento speciale per il G7 alla presenza del ministro Francesco Lollobrigida. I nostri spettacoli sono sempre dei tableau vivant con non meno di 40 persone in scena. Adesso siamo pronti per Tindari 2025, con lo spettacolo “Ecuba” con la regia di Sergio Maifredi. In scena, oltre ai nostri ragazzi, sempre Incudine, le studentesse di ‘Liberi di Essere Liberi’ e alcune cittadine di Patti. A otto anni dall’inizio della sua collaborazione con il carcere, quali sono le criticità più ricorrenti nello svolgimento dell’attività teatrale? Abbiamo sempre lavorato e lavoriamo, come detto all’inizio, nel rispetto delle regole di un luogo molto delicato e particolare, ma purtroppo, spesso ci sono dei meccanismi che sono nemici del processo di crescita che noi portiamo avanti. Purtroppo la carenza di personale del carcere spesso blocca questo processo, perché non sempre c’è il personale che ci accompagna. Il teatro, così come le attività trattamentali in genere, la scuola e il lavoro, dovrebbero essere incentivate al massimo e dovrebbe essere data maggiore possibilità di attuazione. Il teatro è invece spesso considerato come un’attività premiale, mentre dovrebbe essere rivolto soprattutto alle persone più fragili, con più problemi di adattamento, per avere un supporto evitando di ricorrere a soluzioni estreme, come molte volte accade, quando non si hanno assolutamente strumenti per accettare la restrizione della libertà. Cosa succede quando i detenuti che hanno seguito i vostri laboratori tornano in libertà? Avverte mai la responsabilità per il loro futuro, il timore di aver contribuito a credere in una promessa che la società non riesce a mantenere? Come dicevo, in città presso la parrocchia di Padre Nino Basile, nel quartiere di Camaro S. Paolo, proseguiamo con un percorso esterno, e qui anche grazie all’Arcivescovo Mons. Accolla, abbiamo quasi ultimato la ristrutturazione di una sala teatrale. Con la Caritas stiamo anche avviando dei percorsi di reinserimento lavorativo con dei tirocini propedeutici a un futuro lavorativo. Questo è per me motivo di grande gioia e allo tempo stesso, mi fa sentire sempre più coinvolta e desiderosa di trovare soluzioni per un avvenire nuovo per i ragazzi. Un avvenire di serenità é la cosa più ricorrente tra le loro richieste: ci sono affermazioni che mi riempiono di un senso di responsabilità nei loro confronti. Purtroppo però la società non è pronta ad accogliere, ancora è troppo alto il muro del pregiudizio. Per questo è importante creare sempre nuove occasioni per raccontare cosa realizziamo. Chiunque, dopo avere ascoltato il racconto del nostro percorso e visto un nostro spettacolo, inizia a guardare con occhi profondamente diversi le persone che vivono l’esperienza del carcere. Per questo, quando è possibile, cerco di coinvolgere i giovani, le scuole e l’università. Così è nato “Liberi di Essere Liberi” con gli studenti dell’Università di Messina, in particolare con i dipartimenti di Giurisprudenza e Scienze politiche, e sono spesso con noi artisti giovanissimi, come cori, danzatori, cantanti. Scritto da alcuni detenuti che frequentano i laboratori teatrali delle case circondariali di Messina e di Barcellona Pozzo di Gotto, il reading, che alternerà musica e parole, vuole essere un momento di riflessione sul tema della rieducazione dei detenuti che può, attraverso lo strumento dell’arte teatrale, andar E quale sarà la prossima occasione per mostrare quello che realizzate? Con alcuni elementi della ‘Libera Compagnia del Teatro per Sognarè il 20 giugno saremo al Taobuk, Taormina International Book Festival con il reading “Oltre i confini”, che dovrebbe precedere una intervista al ministro Nordio. E oltre i confini di spazio, mente e pregiudizio, per condurre a una nuova vita dentro i confini di legalità e giustizia. Bimba in cella con madre a Palermo: in Italia ci sono 12 casi Gazzetta del Sud, 1 giugno 2025 Gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri sono strutture penitenziarie speciali progettate per garantire che le madri detenute possano tenere con sé i propri figli, offrendo un ambiente più simile a quello familiare e garantendo la tutela dei diritti dei minori. Una bimba di appena un mese di età in cella con la madre nel carcere di Pagliarelli a Palermo: “Un caso drammatico che si somma ad altre 11 storie di bambini che in carcere con le loro madri, di cui 9 straniere, ne condividono la detenzione”, afferma Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria, ricordando che gli altri bimbi si trovano 3 nell’Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri) di Milano, 3 in quello di Venezia, uno in quello di Torino; 3 nel carcere di Rebibbia e uno in quello di Perugia. “Tutti ricorderanno la storia di un bimbo di 2 anni, per dieci mesi recluso con la madre nel carcere di Rebibbia, in grado di dire solo ‘Aprì, ‘Chiudì e poco altro. Una storia che proprio come quella della piccola di Palermo - dice Di Giacomo - ha commosso tutto il Paese ma, dopo la commozione, non è cambiato nulla. Anzi il decreto legge sicurezza emanato dal governo ad aprile ha cancellato l’obbligo del rinvio dell’esecuzione della pena per donne incinte o con prole inferiore a un anno di età, e si introduce per la prima volta la possibilità che il bambino venga sottratto alla madre: il decreto prevede che la donna sottoposta alla custodia cautelare in un Icam possa venire trasferita in chiave punitiva in un carcere ordinario senza suo figlio quando la sua condotta non è considerata adeguata. Invece proprio perchè siamo in presenza di pochi bambini si potrebbero attuare soluzioni tutto sommato semplici, come per esempio le case famiglia”. A oggi ne esistono solo due. Gli Icam, Istituti a custodia attenuata per madri che fanno capo all’amministrazione penitenziaria non sono certo il luogo ideale per l’infanzia. “Se non c’è alcuna sensibilità rispetto alla barbarie di tenere piccoli nelle carceri, una gestione efficiente dei nostri penitenziari è semplicemente impensabile. E non possono bastare sentenze periodiche della Cedu di condanna del governo italiano a rimuovere le cause di responsabilità politica e istituzionale”, conclude. Gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri sono strutture penitenziarie speciali progettate per garantire che le madri detenute possano tenere con sé i propri figli, offrendo un ambiente più simile a quello familiare e garantendo la tutela dei diritti dei minori. Gli Icam, pur essendo strutture carcerarie, si differenziano dai tradizionali istituti di pena, con l’obiettivo di favorire il legame materno-filiale e un ambiente educativo più sereno per i bambini. Quando Nordio voleva ridurre i reati di Marcello Sorgi La Stampa, 1 giugno 2025 Non è importante verificare se, come dicono gli organizzatori, i manifestanti di ieri contro il decreto “Sicurezza”, approvato alla Camera tra molte contestazioni e da martedì in Senato, erano davvero 150 mila o la metà. Ciò che invece è necessario sapere è che per ognuno di quelli che marciavano ieri ce n’erano due o tre che silenziosamente nelle loro case approvano le nuove norme, che introducono 14 nuove figure di reato e complessivamente 417 anni in più di galera, un incremento mai visto tutto insieme al sovraffollamento delle carceri per cui tra qualche settimana, alla prima ondata di caldo si invocheranno soluzioni impossibili da realizzare con queste leggi. Dal reato di “rave” con cui il governo esordì nel 2022 a oggi, la strada del “populismo penale”, cioè della moltiplicazione e dell’inasprimento di punizioni per comportamenti che prima erano perseguiti solo con multe o sanzioni amministrative è lastricata di una serie di iniziative il cui fondamento giuridico è dubbio (come ha segnalato in qualche caso il Quirinale) e manifesta la contraddizione con le linee programmatiche di un esecutivo che alla nascita si proponeva la depenalizzazione per un complessivo alleggerimento della macchina giudiziaria e del numero delle detenzioni. Aveva detto il ministro della Giustizia Nordio: “La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione, quindi attraverso una riduzione dei reati”. I quali, invece, sono drasticamente aumentati con 62 nuove figure dall’inizio della legislatura. Si va in carcere (si può), oltre che per un “rave”, per occupazione di suolo stradale, per aiuto all’immigrazione clandestina (fino a 30 anni), per aggressione a medici e infermieri nei pronto soccorsi, per aver favorito la maternità surrogata (reato universale), e dopo l’omicidio “stradale” (fattispecie in cui le pene sono aumentate, visto che l’omicidio era già sufficientemente dettagliato nel codice penale) anche per quello “nautico”. Sono solo alcuni esempi, ricavati dalle cronache di tutti i giorni, a cui il governo risponde in modo frettoloso, a volte, pur di venire incontro a un’opinione pubblica impressionata. E offrendo nuovi compiti e nuovi strumenti a magistrati che per altri versi vorrebbe, se non proprio disarmati, meno interventisti. Contro il dl Sicurezza: “Non manganelli, ma politiche con cui abbattere le disuguaglianze” di Paolo Di Falco Il Domani, 1 giugno 2025 Migliaia di persone hanno manifestato oggi a Roma contro il decreto sicurezza, la misura del centrodestra che criminalizza fortemente il dissenso, approvato in settimana alla Camera. È una marea allegra quella che questo pomeriggio si è riunita nella piazza romana di Vittorio Emanuele per protestare contro la nuova versione di un decreto sicurezza fresco dell’approvazione dello scorso giovedì da parte di Montecitorio. “Abbiamo scelto di scendere in strada prima che il testo arrivi in Senato per cercare di fermare quello che per noi è uno schiaffo alla nostra Costituzione e alla possibilità di continuare a vivere in un paese che faccia del dissenso il caposaldo della sua democrazia”, dice il portavoce della Rete No Ddl Sicurezza Luca Blasi. Proprio lui che sull’occhio sinistro porta ancora i segni di quella sicurezza che nel suo caso ha assunto le sembianze di un manganello, infrantosi sul suo viso durante le proteste di martedì. Così come la prognosi di quindici giorni non gli ha impedito di essere presente, allo stesso modo anche Elena è abbastanza determinata da dietro lo striscione che guida il corteo. “Da questa piazza al governo Meloni urliamo tutta la nostra disapprovazione. Nonostante i loro metodi da regime, noi non abbiamo paura. La vera paura la stanno creando loro con l’insicurezza. Secondo voi è normale che” - continua - “un paese che a parole si dice democratico, abbia delle norme repressive contro il dissenso pacifico di chi si siede in mezzo ad una strada?”. A fargli eco, dall’altro lato dello striscione, è Laura. “Mi spiegate, con queste nuove misure, come faccio ad oppormi ad un governo? Faccio zapping e aspetto cinque anni per riandare a votare? In quale forma dovrei esprimere il mio dissenso se non posso più scendere in piazza a protestare?”. Per altri invece questo decreto legge, che ha assorbito quasi integralmente i contenuti del vecchio ddl Sicurezza voluto dal Carroccio ma rimasto bloccato in Senato, non è altro che un’inutile distrazione. “La verità è che i nostri problemi sono ben altri ma non c’è né la voglia né la volontà di affrontarli”, sostiene Viola, studentessa universitaria de La Sapienza. “Oggi la priorità dovrebbero essere i posti di lavoro, invece scelgono di toglierli criminalizzando anche la cannabis light”. Per Marcello, invece, “i 39 articoli del decreto non hanno niente a che fare con la sicurezza. L’unica sicurezza che ci serve è quella sociale: non abbiamo bisogno di manganelli ma di politiche con cui abbattere le disuguaglianze estreme”. E mentre il corteo avanza in via Labicana, dalla finestra di un ultimo piano compare anche una bandiera della Decima Mas. In risposta, Asia dal suo megafono intona dei cori antifascisti. È proprio lei a sottolineare che “ormai non c’è più nulla da fare. Se sono riusciti a limitare anche il dissenso, possono fare tutto. Questi decreti fanno parte di un progetto liberticida ben più ampio dove l’unico scopo è quello di sottrarci quei diritti che ci siamo sudati a caro prezzo”. “Ormai se manifesti, ti identificano e ti portano subito in questura”, dice invece la compagna di megafono Sofia riferendosi anche ai controlli fatti dagli agenti prima della manifestazione. Ad essere stati identificati sarebbero stati una trentina di liceali, loro compagni, che si erano fermati in piazza Indipendenza. Se da un lato c’è chi si rassegna, dall’altro invece c’è chi rimane “fiducioso negli anticorpi del nostro paese. Non riusciranno a spegnere la nostra voce. La premier deve mettersi in testa che l’Italia non è e non sarà mai l’Ungheria. Questa piazza lo dimostra: continueremo a scendere in strada e non ci piegheremo a chi usa la legge per zittire il dissenso”. Quella stessa piazza che Cesare, in braccio alla mamma Emilia, fissa quasi incantato con i suoi occhi azzurri. “Io ho paura per il suo futuro, ho paura per il suo presente. Glielo stanno strappando. In nome della sicurezza gli stanno togliendo la libertà. Oggi si insiste sulla sicurezza come si insiste sui migranti. Pura propaganda che non ha niente a che vedere con i problemi del nostro Paese. Ci dicono di far più figli e poi non ci aiutano in nessun modo. Non ci sono asili nido, non c’è lavoro”. E conclude: “Altro che sicurezza e manganelli. Come si fa a continuare a vivere così?”. Gian Luigi Gatta: “Il decreto Sicurezza finirà davanti alla Consulta” di Giulia Merlo Il Domani, 1 giugno 2025 Secondo il professore, il governo fa leva sul “populismo penale” e abusa del decreto legge. “Quando un giudice lo deferirà alla Consulta non sarà una scelta eversiva, ma obbligata”. Il decreto Sicurezza è stato convertito, con la fiducia, alla Camera e ora passa al Senato per l’ultimo via libera. Tuttavia, i suoi effetti sono in vigore già dal 12 aprile quando, con una piroetta, il testo è trasmigrato da un disegno di legge a un decreto legge. È un decreto figlio del “populismo penale”, secondo Gian Luigi Gatta, professore alla Statale di Milano e presidente dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che si è mobilitata per organizzare in 10 atenei un ciclo di convegni per mettere in luce le storture del testo. Professore, quanto pesa la questione di metodo nell’approvazione del decreto? Viene prima anche del merito, perché è stato sfilato un disegno di legge che era già all’esame del parlamento da oltre un anno. Si risponderà che è sempre il parlamento che lo converte, ma con la differenza che con il decreto legge i nuovi precetti penali sono entrati subito in vigore. Il testo è addirittura stato pubblicato in Gazzetta ufficiale alle 10 di sera, due ore prima dell’entrata in vigore, con buona pace della conoscibilità di reati e pene, che è un presupposto costituzionale. Non solo: si insegna al secondo anno di giurisprudenza che la decretazione d’urgenza non andrebbe usata in materia penale: se un decreto poi non venisse convertito in legge, potrebbero residuare effetti irreversibili, come in caso di arresto. Non è il caso di quello in esame, su cui il governo ha messo la fiducia... Questo non cambia il fatto che il decreto difetti della necessità e dell’urgenza che sono alla base dell’utilizzo di questo strumento. Come possono esserci, se il testo prima era un disegno di legge d’iniziativa governativa all’esame delle camere da oltre un anno? Che effetti può provocare, la scelta di questo iter così farraginoso? Vedo profili di incostituzionalità, che potranno essere sollevati davanti alla Consulta da qualsiasi giudice. C’è un evidente abuso della decretazione d’urgenza che crea un pericoloso precedente, perché mette in discussione il principio della riserva di legge parlamentare. Può sembrare pura teoria, ma le conseguenze a livello istituzionale sono molto gravi. Una dichiarazione di incostituzionalità basterebbe? No, nel senso che la questione di legittimità costituzionale si può sollevare su singoli profili del decreto Sicurezza, non sul testo nel suo insieme. Tuttavia è certo che questioni saranno sollevate e anche molto presto, perché i nuovi reati già vengono contestati. Va detto sin da subito però: sarebbe davvero pretestuoso, quando ciò accadrà, bollare come eversivo il magistrato che attiverà il procedimento. Per come questo testo è stato scritto, è fisiologico che sorgano dubbi di compatibilità con la Carta. Voi professori vi siete mobilitati e lo hanno fatto anche i penalisti. Non si rischia lo scontro politico? Le nostre ragioni sono culturali e tecniche: con questo decreto sicurezza si sono introdotti nottetempo 14 reati e 9 aggravanti, andando a punire in senso unidirezionale condotte odiose - per esempio i furti in metropolitana o l’occupazione delle case - ma espressione di criminalità comune. Ma ci sono emergenze ben più fondate. Le faccio un esempio: secondo le ultime stime, il 60 per cento degli italiani non paga le tasse: servirebbe un decreto evasori? Cosa vuol dire con questa iperbole? Che ormai si usa lo strumento penale per catturare il consenso popolare, facendo leva sul fatto che i reati comuni sono sovrarappresentati dai media, molto meno dell’evasione fiscale o dei reati economici. Si tratta di populismo a costo zero, perché non richiede investimenti ma permette di mostrare agli elettori il volto severo del legislatore. Un legislatore che però è bene attento a non usare la stessa tecnica anche contro gli evasori, perché questo gli farebbe perdere voti e non guadagnarne. E poi sa cosa? Si promettono risultati di legge e ordine che il penale non può far ottenere, perché più reati non producono più sicurezza, come scriveva già Cesare Beccaria. Servirebbero interventi e investimenti che intaccano le cause reali di questi reati comuni, frutto di disagio sociale, e aumentano la sicurezza, come nel caso delle telecamere. Davvero questa modalità di intervento è a costo zero? Dal punto di vista economico sì. Il vero costo, però, è quello di affollare la giustizia penale, rallentare i processi e incidere negativamente sulle condizioni delle carceri, che sono già in emergenza tra sovraffollamento e suicidi. Alcuni dei nuovi reati riguardano proprio il carcere, come quello di resistenza passiva... Il problema di questo provvedimento è lo squilibrio, con tutela tutta in favore delle forze dell’ordine, generando così tensioni. Si interviene minacciando pene per rivolta e resistenza passiva e si prevede che le spese processuali per le forze dell’ordine vengano pagate dallo Stato, ma non si fa nulla per il sovraffollamento. Il rischio è che le carceri diventino delle polveriere. Eppure Nordio si definisce un garantista... Mi sembra che si usi una mano pesante con i soggetti più deboli, colpendo con pene più severe la criminalità da strada e contestualmente anche le forme di manifestazione del dissenso. Quando invece si tratta dei cosiddetti colletti bianchi, quindi della criminalità che interessa le classi sociali più alte, la mano si alleggerisce. Mi sembra che nella maggioranza convivano due anime e quella garantista si svegli solo quando da tutelare ci sono soggetti forti. Un esempio? Il dl Sicurezza prevede il daspo urbano per reati commessi nelle stazioni, che si applica anche a chi è stato solo denunciato. È un provvedimento severo, perché incide sulla libertà di circolazione e può scattare anche per un semplice alterco con la polizia ferroviaria che poi sporge denuncia. La stessa maggioranza, però, critica la legge Severino nella parte in cui prevede l’incandidabilità per i condannati in primo grado. Due pesi e due misure, garantismo a corrente alternata. Un antidoto al veleno securitario di Giuliano Santoro Il Manifesto, 1 giugno 2025 Un movimento che non si è fatto ingabbiare dagli schemi tossici della destra. E che ha capito che la cura collettiva e la difesa della democrazia sono precondizioni della politica nuova. Il corteo contro il dl sicurezza è stato un successo che ha sventato molti rischi. Una regola della militanza, che si impara per via empirica e ti resta attaccata alla pelle dice che quando un compagno o una compagna finisce alla sbarra del processo, recluso in casa o addirittura in galera, bisogna fare di tutto per tirarlo fuori dai guai. Questa forma di solidarietà primaria è stata per anni un motore potente di costruzione di legami, fiducia e lealtà. Con dei rischi. Perché si sa che la semplice “lotta alla repressione” può restare invischiata nelle trappole del potere, nelle tossine che esso semina. In quel caso minaccia di produrre comunità minoritarie, basate solo sulla difesa e mai sull’attacco, a volte anche paranoiche perché afflitte dalla persecuzione. Tutto ciò serve a dire che non è questo il caso della battaglia contro il disegno di legge poi divenuto decreto sicurezza. Di fronte alla stretta repressiva che introduce quattordici nuove fattispecie di reato e nove aggravanti, che scarica centinaia di anni di carcere su chi è povero e su chi si organizza e lotta, anche in forma nonviolenta, per non esserlo, si è dipanato in movimento che ha saputo adottare il metodo della convergenza e che ha sempre rilanciato in avanti, evidenziato i nessi sociali e la ricchezza delle relazioni produttive messe sotto attacco dal governo Meloni. Nel corso di questi mesi ci siamo interrogati molte volte sui motivi che hanno spinto le destre a condurre questa ennesima forzatura contro lo stato di diritto. Queste cause sono emerse di volta in volta in maniera abbastanza nitida. C’è innanzitutto un motivo di carattere strutturale: la funzione storica del postfascismo è quella di mettere al servizio l’autoritarismo per assolutizzare la difesa della proprietà privata e delle mire particolari, contro ogni interesse collettivo e contro gli stessi principi costituzionali. Questa missione si accompagna alla campagna propagandistica sulla sicurezza in atto da anni in questo paese, da ben prima che il circoletto di Colle Oppio si insediasse a Palazzo Chigi. Adesso siamo di fronte al passaggio decisivo. Sarebbe sbagliato non vederne il salto di scala e l’intensità della ferocia che lo caratterizza, ma quanti anni sono che la goccia della paranoia securitaria e delle minacce “percepite” scava la roccia della realtà e dei problemi concreti delle persone? La potente operazione ideologica costruita attorno al tema della sicurezza, tutta volta a disintegrare legami sociali e insinuare nei nostri quartieri dispositivi bellici (contro migranti, poveri, dissidenti, diversi), ha costruito le condizioni per questa torsione autoritaria. Infine, dopo le notazioni strutturali e quelle culturali, è impossibile non notare un carico soggettivo particolare, uno specifico accanimento della destra contro i suoi nemici nella società. Possiamo sintetizzarla così: questo decreto sicurezza è anche una vendetta della destra estrema contro i suoi nemici di sempre, contro quelli che in maniera imperfetta ma incessante non hanno smesso di costruire gli anticorpi a egoismo, prevaricazioni, solitudine. Le decine di migliaia di persone che ieri sono scese in piazza a Roma, e i molti altri che da tempo in tutto il paese si mobilitano contro questo governo sono la dimostrazione che esiste ancora un corpo sociale vivo e reattivo, nonostante anni di crisi della politica (a tutti i livelli, nei partiti e nei movimenti) e sfiducia verso l’azione collettiva. Della gente che ieri abbiamo incontrato per le strade di Roma, con tutte le differenze, sappiamo che possiamo almeno provare a fidarci. Di questo hanno paura i vecchi e nuovi reazionari: della costruzione dal basso di forme di protezione e cura collettiva. Perché questa è la condizione necessaria per la nascita di una nuova politica: l’antidoto al loro veleno. “Non solo repressione, le norme dimostrano la malvagità del Governo” di Luciana Cimino Il Manifesto, 1 giugno 2025 Intervista a Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto. Ieri il nostro giornale ha raccontato dell’invito a partecipare al corteo contro il decreto sicurezza da parte di un gruppo di detenuti di Rebibbia per “portare in piazza anche la nostra voce”. Non succede spesso che la popolazione carceraria aderisca a una manifestazione. “Non posso che apprezzare il fatto che un gruppo di detenuti possa prendere la parola. Sono norme che li riguardano direttamente. Direi di più: intimamente, ne colpiscono a fondo la soggettività e rappresentano per me uno dei tre esempi della cifra con cui è stato disegnato questo decreto dal governo: la malvagità”. Che però non dovrebbe essere pertinente né alla giurisprudenza né alla politica... “Ci sono categorie che nel dibattito politico giuridico non sono considerate ma credo che in questo caso ci troviamo costretti a ricorrere ad altre parole. Penso che per questo decreto vada utilizzato un concetto che in apparenza sembra totalmente estraneo al rigore dell’analisi giuridica: quello di malvagità. Questo provvedimento non è esclusivamente un insieme di norme repressive, di misure ispirate alla severità e al massimo rigore, di previsioni punitive. Sembra emergere una sorta di soggettività dello Stato particolarmente aggressiva, una faccia ostile, una postura che tende a manifestarsi come efferatezza. Tutto ciò è espresso dalle parole del sottosegretario Delmastro che per primo ha introdotto un concetto meta giuridico: quello della intima gioia che proverebbe nel poter bloccare il respiro delle persone recluse nei mezzi blindati della polizia penitenziaria. Questa malvagità è ben rappresentata da tre esempi, uno dei quali è quello dei detenuti. Una norma, con un linguaggio scombiccherato, prevede la sanzione penale per la resistenza anche passiva che è un nodo essenziale all’interno di un carcere. Attuare quella forma di resistenza è un fondamentale passaggio di emancipazione per la mentalità collettiva della popolazione carceraria in cui l’unica forma di rapporto conflittuale con l’autorità dell’istituto è quella della violenza. Contro questo processo di affrancamento la norma esercita un insopportabile mortificazione e una pressione regressiva. La massima tutela per i poliziotti penitenziari è che i detenuti rinuncino allo strumento della violenza: dovrebbe essere un obiettivo da perseguire, non un bersaglio da colpire”. E gli altri due esempi? “Pensiamo alla versione originaria del decreto: vi si prevedeva che il migrante, reduce da un viaggio magari di 3 mila chilometri attraverso pericoli e minacce, persecuzioni, torture, arrivato in Italia non potesse comunicare ai suoi familiari di essere vivo, perché per poter acquistare una carta sim avrebbe dovuto mostrare il permesso di soggiorno. Poi, grazie all’intervento del Quirinale, è stato tramutato nell’obbligo di mostrare un documento di identità. C’è o non c’è in questo un surplus di efferatezza? La volontà di annichilire una persona già spossessata di tutto?”. Qual è l’altro caso eclatante? “La questione delle madri incinte o con un figlio minore di un anno per le quali nel nostro Codice era prevista già la possibilità della carcerazione, in ragione di una decisione discrezionale del magistrato ora diventato, invece, obbligo rispetto al quale eventualmente poi esiste una deroga. In questo caso oltretutto c’è un allarme sociale privo di qualunque fondamento di realtà. Perché dovrebbe rispondere al fatto che alcune donne rom utilizzerebbero la gravidanza per sottrarsi al carcere e continuare a delinquere. Io non contesto questo ma che si possa introdurre una simile norma rispetto a un fenomeno che riguarda nel nostro territorio nazionale alcune decine di persone”. Ieri c’è stato a Roma un grande corteo contro il decreto sicurezza. C’è un allarme diffuso... “Credo che nell’ultimo mezzo secolo di storia repubblicana non sia stato mai approvato un provvedimento di tale gravità per la sua capacità di ledere i diritti fondamentali della persona. Il decreto sicurezza può essere accostato alla Legge Reale del 1975 che aveva la stessa ambizione di sistematicità, cioè intervenire su un ampio campo di comportamenti, fattispecie, forme di devianza e di trasgressione con riferimento particolare all’ordine pubblico. All’epoca suscitò tantissime contestazioni dal punto di vista giuridico e da quello politico e sociale ma venne approvata in un anno cruciale per il terrorismo di destra e di sinistra in Italia. Un tempo in cui l’incolumità delle persone era davvero messa a rischio quotidianamente Oggi siamo in un periodo di relativa quiete sociale. Il principale reato capace di suscitare allarme, l’omicidio volontario è al punto più basso dal dopoguerra. Questo dà l’idea di quale enorme cambiamento rispetto alle dinamiche sociali sia nel frattempo avvenuto”. “Abbassare l’imputabilità a 12 anni”. Ma dati e le neuroscienze smentiscono la Lega di Simone Alliva Il Domani, 1 giugno 2025 Giulia Bongiorno rilancia la vecchia proposta di punire penalmente i dodicenni. Ma i dati del Ministero della Giustizia e i rapporti di Antigone dimostrano che i reati gravi sotto i 14 anni sono marginali. Le convenzioni internazionali parlano chiaro: sotto quella soglia non si può scendere senza violare i diritti dei minori. Zanella (AVS): “Una furia penalista che non salva nessuno”. “Oggi i ragazzi crescono più velocemente di un tempo e forse potrebbe essere utile anche valutare la possibilità di abbassare l’età dell’imputabilità da 14 a 12 anni”, intervistata dal Corriere della Sera, Giulia Bongiorno (Lega), presidente della commissione Giustizia del Senato rispolvera una proposta fondativa del partito del Carroccio. Era stato Roberto Castelli, ministro della Giustizia nel 2001, il primo a proporre di abbassare ai 12 anni la soglia di imputabilità, che oggi non va sotto i 14. Al tempo a dettare l’agenda politica erano state le polemiche sorte sul caso di Erika e Omar, i due ragazzi accusati della “mattanza” di Novi Ligure, avevano 16 e 17 anni. La leghista Bongiorno rispolvera l’idea commentando il femminicidio di Martina Carbonaro, la 14enne di Afragola uccisa con una pietra dall’ex fidanzato 19enne Alessio Tucci. Un tentativo recente era stato avanzato anche nel settembre del 2023 con il Decreto Caivano, prontamente bloccato dal Guardasigilli, Carlo Nordio: “Tutto questo sarebbe stato contrario alla razionalità e all’etica. Non è stato fatto. Sono stati previsti criteri preventivi di ammonimento che non hanno a che fare con l’irrogazione della pena”. I dati - I primi a smentire questa esigenza arrivano dal ministero della Giustizia. Secondo il report “Criminalità minorile e gang giovanili” redatto dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale (aprile 2024), nel 2023 sono stati segnalati 31.173 minori (14-17 anni) denunciati e/o arrestati, con un calo del -4,15 per cento rispetto al 2022. I reati gravi mostrano variazioni contenute: +7,69 per cento per le rapine, +1,96 per cento per le lesioni dolose, +8,25 per cento per la violenza sessuale. Tuttavia, il dato più rilevante riguarda i minori sotto i 14 anni: il report conferma che i reati particolarmente gravi commessi da questa fascia d’età sono “numericamente marginali”. L’analisi complessiva restituisce un quadro complesso ma non allarmistico: i minori coinvolti in atti criminali gravi restano una minoranza, e il fenomeno, seppur presente, non giustifica derive emergenziali. I minori di 14 anni, quelli che la senatrice Bongiorno vorrebbe punire più duramente, sono una frazione statistica. Invisibile per chi guarda con gli occhi della legge, ma cruciale per chi cerca soluzioni vere. L’associazione Antigone, che da anni monitora la realtà delle carceri minorili sottolinea che il 55 per cento dei reati commessi dai giovani riguarda il patrimonio: furti, scippi, piccoli reati. Il 22,7 per cento riguarda reati contro la persona. Numeri che parlano di disagio e illuminano l’assenza di una vera strategia di prevenzione. Secondo il VII Rapporto sulla giustizia minorile nel 2023 sono stati 1.143 i giovani che hanno fatto ingresso negli Istituti Penali per Minorenni (IPM), il numero più alto degli ultimi quindici anni. Effetto dell’introduzione del Decreto Caivano che ha esteso l’applicazione della custodia cautelare anche per reati di lieve entità. Tuttavia, la maggior parte di questi ingressi riguarda adolescenti di età compresa tra i 16 e i 17 anni. I minori di 14 anni coinvolti in reati gravi rappresentano una percentuale marginale. Lo sviluppo - Sul piano scientifico, le neuroscienze concordano sul fatto che la corteccia prefrontale, la parte del cervello responsabile di funzioni complesse come il controllo degli impulsi e il giudizio morale, continua a svilupparsi fino ai 25 anni. Non è vero dunque che: “I ragazzi crescono più velocemente di un tempo”. Un mito pericoloso che ignora la complessità dell’adolescenza. Ma non solo l’abbassamento dell’età dell’imputabilità penale a 12 anni, si scontrerebbe con i riferimenti internazionali che pongono limiti chiari. La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia, attraverso il Commento Generale n. 24 (2019), raccomanda che l’età minima della responsabilità penale non sia mai inferiore ai 14 anni. Una soglia considerata coerente con lo sviluppo psico-cognitivo dei minori e fondamentale per assicurare un trattamento adeguato alla loro età. Anche il Consiglio d’Europa, nelle sue Linee guida sulla giustizia a misura di bambino, invita gli Stati membri a non fissare un’età troppo bassa, sottolineando che in Italia il limite attuale è già in linea con le buone pratiche europee. Una proposta che non salva nessuno, come ha ribadito Luana Zanella, capogruppo di Avs alla Camera: “Ben altre misure sono necessarie, soprattutto per i ragazzini violenti. Questa di Bongiorno è invece semplice furia penalista che non serve a salvare la vita delle donne. Il femminicidio difficilmente può trovare un deterrente nell’inasprimento della pena. Mi pare che di reato in reato questa destra abbandoni le donne a se stesse, di prevenzioni neanche l’ombra, questo vale anche per i settori della società che subiscono le conseguenze di uno Stato assente, come prova il nuovo micidiale decreto sicurezza”. “Valutiamo se abbassare l’imputabilità a 12 anni, limitare al minimo l’uso dei cellulari” di Paola Di Caro Corriere della Sera, 1 giugno 2025 L’avvocato penalista e presidente della Commissione Giustizia Giulia Bongiorno: “Sempre più ragazzini violenti, dobbiamo agire tutti”. È un appello accorato quello che lancia Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia, ma da sempre attenta al tema del femminicidio, parola che “non si può né si deve cancellare: anzi, ho trovato profondamente sbagliata la raccolta firme delle giuriste contro il nuovo reato”. Perché non solo continua ad essere una piaga, ma il fenomeno si sta addirittura “aggravando”. Coinvolgendo fasce d’età sempre più basse - ultimo il caso di Martina Carbonaro - sembra ci si trovi completamente impreparati a capire come i giovanissimi affrontano quello che chiamano amore. Siamo di fronte ad una sorta di seconda tipologia di femminicidio? “In qualche modo, sì. Il minimo comune denominatore è sempre lo stesso: la donna è considerata un essere inferiore, che può essere sottomesso con la forza. Fenomeno antico, che addirittura fino al 1981 godeva di una pena mite perché esisteva una sorta di “codice” di comportamento che la donna non doveva violare”. Che oggi non c’è più... “No, non c’è più. E sono stati fatti passi avanti, per esempio con il Codice Rosso, a mia firma, per velocizzare l’aiuto alle donne che denunciano, il punto è che non sempre le norme trovano corretta applicazione e questo le depotenzia. Ma tutta la società è chiamata a una sfida”. Quale? “Professionalmente mi trovo davanti a ragazzi sempre più giovani, perché questa è la prima generazione completamente digitale. Assistiamo, fra i ragazzini, a un uso eccessivo e distorto dei social, che veicolano messaggi violentissimi, egocentrati, fondati sulle sfide estreme, sull’ipercontrollo, sulla mascolinità padronale, sull’io che prevale su tutto”. Un esempio? “Se chiedi a molti ragazzini: “Preferisci baciare una ragazza o postare il tuo bacio con lei?” Ti rispondono: “Postare”. Come se il sentimento che chiamano amore fosse solo una proiezione pubblica di loro stessi. Esistono challenge su “come controlli la tua ragazza?”, “cosa le vieti?” o addirittura video su “come uccidere una donna”. E la dimensione reale e quella virtuale si confondono, portando anche a violenze o all’uccisione della “cosa” che viene percepita come un ostacolo: la donna, la ragazza, il soggetto più fragile, più esposto”. Chi chiama in causa? “Tutti. Non basta la politica, che su questi temi dev’essere unita. Non basta nemmeno solo la scuola: sì alle lezioni sull’affettività, ma ai ragazzi si deve parlare col loro linguaggio, bisogna entrare nei loro meccanismi, servono figure specializzate, o non passa nulla”. E le famiglie? “Non crediamo che chi finisce vittima o carnefice sia necessariamente figlio di famiglie disattente o disgregate. La penuria di strumenti per imporre regole base ai figli è un problema che tocca tutti. La prima regola, che per me è faticosa ma necessaria, è limitare al minimo l’uso del cellulare. Sono strumenti potentissimi, non dobbiamo permettere che ne abusino. Diamo limiti stretti. Anche se ci sentiamo persi, perché questa è la prima generazione nata col cellulare in mano”. La politica come può incidere? “Oggi i ragazzi crescono più velocemente di un tempo e forse potrebbe essere utile anche valutare la possibilità di abbassare l’età dell’imputabilità da 14 a 12 anni. Oltre al piano legislativo, io sono per campagne a tappeto, quasi con vademecum per le ragazze per far capire a cosa devono stare attente: alla gelosia, all’ipercontrollo, ai divieti del partner, alla voce alzata, al famoso “ultimo appuntamento”. Ma serve formazione anche per le famiglie, perché si impongano e non lascino i ragazzi in balìa di immagini, seduzioni, modelli che non hanno la maturità per filtrare. Serve un grande patto politico, istituzionale, generazionale. C’è in ballo la sicurezza di ogni donna, ma anche il futuro di un’intera generazione”. Il giudice e il dubbio di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 1 giugno 2025 Posso dirlo? Lo dico. Almeno, si comincia a parlare del “dubbio” nel giudizio penale anche al di fuori delle aule giudiziarie o universitarie. In questo sempre meno decoroso spettacolo che sta andando in onda da settimane intorno alla piccola cittadina di Garlasco, è perfino possibile cogliere qualcosa di buono. Con molto cinismo, lo riconosco, perché intanto questo bailamme ustiona e scortica la pelle delle persone che, loro malgrado, ne sono protagoniste: ma insomma, la congiunzione astrale sta di fatto determinando la miracolosa possibilità che media e pubblica opinione possano finalmente toccare con mano la ragione per la quale si è tramandato intatto fino a noi, dal Codice Giustinianeo per oltre 1.500 anni, un principio fondativo della civiltà umana, tuttavia indigesto alla istintiva bulimia giustizialista dei più: “in dubio pro reo” (nel dubbio, a favore dell’imputato, ndr). Stasi e l’incompatibilità con “al di là di ogni ragionevole dubbio” - Una sentenza di condanna non può convivere con il dubbio. Si corra il rischio di lasciare impunito il colpevole, piuttosto che quello di condannare un innocente. Non c’entra nulla il precedente - immancabilmente evocato nelle polemiche di questi giorni - di Enzo Tortora, che subì una indagine e un processo di primo grado scandalosi, ma che fu assolto nei successivi gradi di giudizio. Qui si riaprono le indagini dopo alcuni lustri dall’omicidio, mentre un “colpevole” sta finendo di scontare la condanna definitiva. Sarebbe già uno scenario scioccante se quel colpevole fosse stato giudicato tale senza contrasti; ma è semplicemente insopportabile, quando quel colpevole è stato assolto in primo e secondo grado di merito, e poi condannato non per la sopravvenienza di elementi di prova nuovi, ma per avere la Corte di Cassazione ritenuto illogica e contraddittoria la motivazione delle assoluzioni, sul medesimo compendio probatorio. Una evidente incompatibilità con la regola della condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Tanto è vero che a partire dall’agosto del 2017 il nostro codice non consente più al Pubblico Ministero di impugnare in Cassazione una doppia conforme assolutoria solo mettendo in discussione la logicità della motivazione. Una riforma ancora insufficiente, ma già significativa. Se non si denunziano vizi di violazione di legge (processuale e sostanziale), la doppia assoluzione è inoppugnabile. Il ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Stasi sviluppò sei motivi di censura, ma tutti e solo sulla logicità della motivazione. Se questa (così colpevolmente tardiva) riforma fosse stata in vigore all’epoca, Alberto Stasi sarebbe un cittadino innocente. Il sentimento di orrore di fronte a condanna sbagliata - Ecco, dunque, che questo formidabile impazzimento mediatico si spiega bene: non è solo la morbosa ambizione di vedere infine svelate le identità del possibile assassino impunito, quanto soprattutto l’autentico sentimento di orrore di fronte alla possibilità di dover prendere atto che un innocente ha dovuto scontare 16 anni di carcere. E quindi ora tutti a recitare “in dubio pro reo”. Bene. Sempre che si comprenda anche il corollario di quel principio: la verità che si costruisce in un processo penale ha una vita parallela rispetto alla “Verità” storica dei fatti. La verità processuale è, inevitabilmente, una verità posticcia, una ricostruzione postuma - la più plausibilmente verosimile - costruita sull’assemblaggio di testimonianze, documenti, cognizioni scientifiche che il giudice dovrà ricomporre nel rispetto delle regole processuali, e di quelle della logica e del buon senso. Bisogna saper accettare questi limiti insuperabili propri del processo penale, e rispettarli. Il dubbio che vincola il Giudice, infatti, non sarà mai un dubbio assoluto, paralizzante perché come tale umanamente insuperabile; ma un dubbio, appunto, “ragionevole”, cioè parametrato su ciò che il processo, rispettando rigorosamente le proprie regole, ha saputo ricostruire di una verità storica nota solo all’autore del reato ed alla vittima. *Avvocato Il processo-spettacolo. Parla Alessandro Barbano di Francesco Iacopino* Il Riformista, 1 giugno 2025 Il Direttore de L’Altra Voce condanna la ricerca di un capro espiatorio “Si cerca un bersaglio mediatico da esporre sulla pubblica piazza”. La vicenda di Garlasco porta in emersione tutte le deformazioni della giustizia in Italia: la componente emotiva della piazza, quella spettacolare dell’informazione, l’allestimento dell’aula mediatica, la celebrazione del processo sociale, la “contaminazione” di quello penale. Ne abbiamo parlato con Alessandro Barbano, Direttore de L’Altra Voce, già Direttore de Il Messaggero, Il Riformista, Il Mattino e autore de “L’Inganno” e “La Gogna”. Direttore Barbano, partirei dalla spettacolarizzazione mediatica che si attiva per i fatti di cronaca giudiziaria. Qual è il confine tra il diritto all’informazione e la morbosa curiosità sociale? Il confine è molto labile e non riguarda tanto l’oggetto dell’informazione, ma il metodo. La cronaca nera e la cronaca giudiziaria sono centrali nei processi di maturazione dell’opinione pubblica. L’elemento patologico è la modalità morbosa e la replicazione del processo che avviene in sede mediatica. In questo processo parallelo manca, oltre a tutta la tecnica processuale, un elemento fondamentale che è il dubbio. Qui c’è un problema di inadeguatezza della formazione, dell’etica e della deontologia della classe giornalistica che acquisisce le notizie e le trasmette. Si ritiene spesso che i fatti di cronaca siano maneggiabili da chiunque, ignorando che attorno alle vicende della cronaca giudiziaria e della nera si maneggiano valori essenziali per una comunità e per una democrazia. Quanto l’aspettativa di un colpevole, quale tranquillante sociale spinge gli investigatori verso la ricerca di un capro espiatorio purché sia? Tutte le volte in cui un fatto di cronaca diventa il caso mediaticamente rilevante, si attiva nel sistema giudiziario una sorta di reazione autoimmune. La macchina dell’investigazione si sente chiamata a dare una risposta di efficienza alla domanda di giustizia che viene dalla piazza. Il rischio in queste vicende è di imboccare la via che porta al risultato quale che sia, al colpevole quale che sia, il primo che è possibile trasformare in un bersaglio mediatico da esporre sulla pubblica piazza per soddisfare la fame di giustizia e produrre quella catarsi che, un grande antropologo come René Girard, chiama la “sindrome del capro espiatorio”. I social network e i talk show sono le aule post-moderne di una giustizia inquisitoria che trascura la presunzione di innocenza. Perché non riusciamo a risalire dal buio della ragione neppure di fronte alla nuda aritmetica degli errori giudiziari? L’errore giudiziario si produce sul terreno del giudicato e, quindi, sul terreno di quel filtro che la giustizia dovrebbe assicurare anche di fronte all’avvitamento del sistema nella logica del capro espiatorio. Dovrebbe essere in grado di disinnescarlo, di riconoscerlo, di smascherarlo e invece così non è. Qui entra il principio del ragionevole dubbio che è lo strumento straordinario che la giustizia ha per sottrarsi a questo rischio. Un patrimonio metodologico non solo del processo penale, ma è un principio fondamentale della democrazia liberale, perché è il principio che mette la democrazia nel rapporto con il limite e con la coscienza della finitezza dei suoi mezzi. Una democrazia che accetta il ragionevole dubbio accetta la sua imperfezione e, quindi, diventa - come direbbe Churchill - il migliore dei sistemi possibile, ancorché imperfetto. La democrazia che rifiuta il ragionevole dubbio si pone l’obiettivo di raggiungere la perfezione e nega se stessa. Per la Costituzione è “meglio un colpevole fuori che un innocente in carcere”. Il sentire sociale, che va in direzione opposta, sembra oramai contagiare anche la giurisdizione. Emblematica proprio la vicenda di Garlasco, se è vero che neppure la “doppia conforme” di assoluzione è valsa a fondare il ragionevole dubbio... Il ragionevole dubbio presuppone quella che io chiamo l’indifferenza all’esito del giudicato, che è una cosa ancora più ampia della terzietà, perché è indifferenza all’esito del giudicato, cioè vuole dire che la giustizia riconosce il suo verdetto di assoluzione o di colpevolezza, allo stesso modo, come un risultato della sua azione. Quando manca questa indifferenza e, quindi, la giustizia si assegna uno scopo, il rischio diventa altissimo di un giudicato falso. Nel caso di Garlasco, la Corte approda a un esito che è irragionevole secondo logica, perché rilegge in una chiave diversa le prove indiziarie ritenute insufficienti dai giudici di merito, e ne fa oggetto di una costruzione colpevolista. È chiaro che in tal modo il ragionevole dubbio viene calpestato ab origine, perché quando si approda ad un verdetto di condanna dopo due verdetti di assoluzione, il principio viene negato, non esiste più. La bulimia mediatica e l’aspettativa di punizione condizionano la verginità cognitiva del Giudice e pure la sua serenità di giudizio, mentre la fedeltà al diritto richiede il coraggio che fu di Michele Morello, Giudice di Enzo Tortora... Nel caso Tortora ci fu una macchina della giustizia infernale che aveva stabilito l’obiettivo di provare la sua colpevolezza per legittimare il suo errore iniziale, e quindi si sentiva dentro una contesa politico-mediatica che metteva in discussione la stessa legittimazione dell’azione penale. E lì solo la statura di un magistrato come Morello poteva ribaltare una fatwa collettiva e smontare con il coraggio della sua solitudine l’assunto di colpevolezza. La solitudine è una virtù. È la virtù del giudicante, io dico il primato del giudicante, ed è l’autorità di ultima istanza del sistema. Il travaglio personale del giudice di fronte alla ricerca della verità e la consapevolezza dei limiti e della finitezza del suo giudizio, costruiscono l’architettura di una garanzia che la giustizia rappresenta per il cittadino, di una garanzia democratica. In questa direzione vedo due riforme necessarie. La separazione delle carriere, perché assicura o, quantomeno coltiva, promuove, il primato del giudicante, che non è una posizione di privilegio, ma è una posizione di responsabilità che il Giudice assume rispetto all’esito finale che la giustizia propone, ai suoi rischi e alle sue garanzie. L’inappellabilità delle sentenze di primo grado, un meccanismo di tutela che ha a che fare con la finitezza della giustizia: si tratta di un principio sacrosanto, che riguarda proprio il limite che la giustizia deve darsi nel rapporto investigativo e autoritativo con il cittadino. Ne usciremo? Qui sicuramente c’è l’impegno dei media. Ne usciremo se riusciremo a costruire una cultura diversa. Una cultura che non è “del risultato”, ma che fa del processo l’essenza della democrazia e quindi del dubbio e del limite. Basta polveroni, il clamore mediatico è nemico della giustizia di Glauco Giostra Avvenire, 1 giugno 2025 Avvilente e pericolosa. Non sovvengono altri aggettivi per qualificare la telenovela mediatico-giudiziaria sul caso Garlasco, che da molti giorni egemonizza i palinsesti della televisione, della radio e della stampa, sollecitando e soddisfacendo un ossessivo interesse per indagini che potrebbero rimettere in discussione la condanna di Alberto Stasi per l’orribile omicidio di Chiara Poggi. Ma come, si obietterà, non abbiamo sempre detto che è diritto sacrosanto del popolo conoscere come viene amministrata la giustizia in suo nome (art. 101 Cost.)? La verità è che questo polverone di indiscrezioni, di nuovi accertamenti, di illazioni, di recriminazioni, di nuovi sospetti, di sensazionalismi, con una rigorosa e consapevole narrazione dell’attività giudiziaria ha poco a che fare; non risponde a un interesse pubblico, ma a un morboso interesse del pubblico; nelle sue espressioni deteriori ricorda “gli strilloni” del yellow journalism americano di fine Ottocento. Pochi rinunciano a una comparsata: giornalisti, avvocati, magistrati, consulenti, vistosamente esondando dai rispettivi codici deontologici, gareggiano nell’insufflare nel circuito mediatico-giudiziario qualche sconvolgente insinuazione. Per non farci mancare nulla, anche il Ministro della giustizia ha ritenuto di far sentire la sua voce, bollando come irragionevole e irrazionale la condanna di Stasi. Noi popolo, poi, contribuiamo con la nostra insana attrazione per delitti efferati e successive inchieste: siamo il Paese, nei cui giornali la cronaca nera occupa più del doppio di quanto mediamente avviene negli omologhi organi di informazione europei. Una siffatta sarabanda mediatica, oltre che deplorevole, è anche pericolosa per più ragioni. Anzitutto, perché instilla nella collettività una sfiducia nella giustizia, sulla fallace idea che questa, quando funziona bene, debba partorire sempre la verità. Ma la Verità non è umano appannaggio, e il nostro sforzo di accertamento di episodi del passato si deve muovere “nel crepuscolo delle probabilità” (John Locke). L’itinerario processuale che ogni collettività predispone per rendere giustizia è quello che ritiene il meno imperfetto per orientarsi in tale crepuscolo; e il cui risultato è disposta ad accettare pro veritate, al posto della verità. Vi possono essere quindi sentenze giuste, ma orfane della verità. Basta tornare con la mente al recente, doloroso caso Zuncheddu, pastore sardo che ha scontato 33 anni di prigione da innocente: in presenza di un testimone oculare che asseriva di riconoscere in lui l’assassino, le sentenze che lo hanno condannato erano “giuste” - cioè emesse al termine di un corretto iter cognitivo e motivazionale - ma drammaticamente fallaci. Inaccettabile conseguenza dei nostri limiti umani che dobbiamo, purtroppo, imparare ad accettare. Ogni altro modo di rendere giustizia, del resto, sarebbe drammaticamente peggiore. Un popolo che non crede nella propria giustizia si rassegna fatalmente a quella del più forte; prospettiva pericolosa, in uno Stivale come il nostro, sempre pronto a calzare il piede dell’uomo della Provvidenza. Naturalmente, non è mancato chi, sull’onda emotiva di questa dolorosa vicenda, ha subito stentoreamente invocato un urgente cambiamento del nostro sistema giustizia. Se ad ogni vero o presunto errore giudiziario dovessimo ridisegnare l’itinerario cognitivo elaborato sulla base di pluriennale esperienza, vivremmo in una disorientante incertezza. Non si intende certo dire che le regole del nostro giudizio penale non possano e quindi non debbano essere migliorate; ma il modo peggiore per intervenire è quello d’impulso, nel momento in cui è ancora vivissimo lo sconcerto per una drammatica vicenda umana e giudiziaria. Questo chiassoso e indecifrabile polverone informativo è foriero di un’ultima deleteria conseguenza: ingenera nell’opinione pubblica spasmodiche attese di risposta ai suoi angoscianti dubbi ed esercita un’incalzante pressione soprattutto sugli organi inquirenti, rischiando di indurli a rovinose scorciatoie (come ad es. nell’altrettanto famoso processo per il delitto di Meredith Kercher: “l’inusitato clamore mediatico della vicenda - rilevò la Cassazione - ha fatto sì che le indagini subissero una accelerazione nella spasmodica ricerca di un colpevole da consegnare all’opinione pubblica internazionale e non ha certamente giovato alla ricerca della verità sostanziale”). Con la paradossale conseguenza che poi, anche in tal caso, si solleveranno dubbi sulla correttezza del risultato che ne è conseguito. E saremmo daccapo, con un altro scomposto clamore mediatico. Palermo. “Locali fatiscenti, liquami: un giorno nel carcere Ucciardone” di Salvatore Ferrante livesicilia.it, 1 giugno 2025 L’avvocato Salvatore Ferrante, componente della Camera penale di Palermo, giovedì 29 maggio, insieme ad alcuni colleghi e rappresentanti dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, ha fatto visita al carcere Ucciardone di Palermo. Ha affidato la sua testimonianza a LiveSicilia. “Io svolgo la professione di avvocato nell’ambito del diritto penale da quasi vent’anni ed ho sempre frequentato gli istituti penitenziari, ma non sono mai andato oltre la sala avvocati. Ieri, invece, abbiamo avuto la possibilità di visitare alcune sezioni del penitenziario, nonché le cucine: non immaginavo che le condizioni detentive fossero così dure, ai limiti della sopportazione umana. La prima sezione che abbiamo visitato è stata la ‘famigerata’ nona. Un tempo in questa sezione venivano ristretti i condannati per mafia, prima che venisse introdotta la normativa sul carcere duro. Oggi, invece, vi vengono ristretti i detenuti che, per una ragione o per un’altra, non possono restare nelle altre sezioni. Si tratta della popolazione carceraria più fragile, ma anche quella che vive la condizione detentiva più dura. La cosa che subito mi ha colpito è stata la fatiscenza degli ambienti. Celle molto piccole, di circa 4 metri quadri, dove erano alloggiati due detenuti. La maggior parte dello spazio della cella era occupato dai letti e dal tavolino. Nessuno spazio per muoversi. In questa cella i detenuti passano circa 22 ore al giorno. Le mura delle celle erano ammuffite. I bagni, ricavati in una sorta di nicchia, li abbiamo potuti vedere solo dall’esterno, in quanto c’è stato detto dagli stessi detenuti che entrando avremmo rischiato di contrarre funghi o infezioni, dato il loro stato igienico precario, dovuto all’obsolescenza delle strutture. Ovunque fili elettrici penzolanti e, cosa che mi ha particolarmente colpito, nelle finestre non vi erano né imposte né vetri ma soltanto sbarre, ciò per evitare che i vetri, qualora infranti, fossero utilizzati quali armi improprie. Non oso immaginare d’inverno il freddo che c’è dentro quelle celle, in cui entrano anche i topi. Abbiamo avuto modo di parlare con alcuni detenuti. Nessuno di loro proclamava la propria innocenza, ma cercavano di farci capire in che condizioni vivessero. Ho provato un fortissimo senso di disagio nel parlare con persone che, indipendentemente dalle loro colpe, vivevano in quelle condizioni: mi ha fatto sentire in colpa come cittadino e impotente come avvocato. Ho cercato di instaurare con alcuni di loro rapporto umano, mi sono fatto raccontare la loro storia, chi erano prima di diventare detenuti, uno di loro ci ha perfino regalato delle poesie. Quella che ha regalato a me l’ho letta ieri sera ed era un vero e proprio inno alla vita, a quanto fosse preziosa e che, se anche in certi momenti può essere dura, lui era felice di farne parte. Abbiamo poi visitato le cucine. Sporcizia ovunque, non per incuria, ma per problemi strutturali: il pavimento era sudicio, perché la canalina di scolo dei liquidi è perennemente otturata e i liquami fuoriescono continuamente. In quella cucina si cucinano pasti per 660 persone. Il carcere può contenerne 550 persone. Il sovraffollamento è il problema principale del carcere. Blocca ogni attività. Devo riconosce la buona volontà di tutti gli operatori carcerari. Ho trovato persone eccellenti il comandante della polizia penitenziaria, la responsabile dell’area educativa e del SERD. Si prodigano per fare funzionare al meglio la struttura, ma si devono confrontare con i limiti dovuti alla carenza delle risorse. La polizia penitenziaria è sotto organico, addirittura di 1/3. Questo significa che spesso mancano gli agenti perfino per accompagnare i detenuti alle visite mediche. L’area sanitaria è la più carente, la cui gestione è condivisa con l’Asp. All’Ucciardone circa un terzo dei detenuti ha problemi psichiatrici. Ma c’è solo uno psichiatra, tra l’altro in pensione, assunto con un contratto libero-professionale, che è presente in struttura 3 volte a settimana per 5 ore. Questo significa, in soldoni, che questa gente, che avrebbe bisogno di supporto psichiatrico continuo, di fatto non lo riceve, nonostante la buona volontà di tutti. Addirittura ben 36 detenuti non dovrebbero stare nemmeno in carcere, bensì in una R.E.M.S (le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, ormai chiusi), però in queste strutture non si è ancora trovato un posto per loro e, quindi, rimangono in cella. Non parliamo delle attività educative. Le risorse bastano per appena il 1/5 della popolazione carceraria, il resto resta chiuso nei suoi 4 metri di celletta (rectius: camera detentiva, ora si chiama così, come se bastasse cambiargli nome per renderla un posto più vivibile). Abbiamo visitato la sesta sezione, presentataci come il fiore all’occhiello della struttura. Lì i detenuti per parte della giornata all’interno della sezione restano liberi. Sicuramente stanno meglio, le celle sono un po’ più grandi (ma ci stanno anche in 6/8) e le condizioni sono meno precarie, ma soffrono degli stessi limiti di cui soffre l’intero penitenziario. Dentro ci stanno anche detenuti portatori di handicap, che pure solo per raggiungere la stanzetta posta a piano terra dove acquistare il sopravvitto (la spesa, per intenderci) hanno difficoltà. Tutti fanno domandine per parlare con educatori, magistrati di sorveglianza, medici, psicologi, ma quasi sempre restano inevase. Hanno bisogno di aiuto e nessuno li riesce ad aiutare. Cosa mi porto dentro da questa esperienza? Innanzitutto, la sensazione che la gestione di un carcere sia molto complessa ed ogni cosa, anche la più elementare, diventa un grosso problema (forse andrebbero rivisti i regolamenti carcerari, vecchi ormai di 50 anni). Per fare un esempio, se un detenuto volesse prendere un libro dalla biblioteca del carcere (che mi dicono sia fornitissima) deve fare una ‘domandina’ al direttore, aspettare che sia approvata, essere accompagnato in biblioteca da un agente, ammesso che sia disponibile, dato la carenza di organico. Se per una cosa così semplice servono tutti questi adempimenti, non oso immaginare cosa serva per le cose un po’ più complicate, come farsi visitare se si sta male. Mi porto dentro la sensazione che gli operatori penitenziari fanno del loro meglio. Molti agenti ci dicevano che spesso sono costretti a fare pure da psicologi, ascoltando i detenuti, offrendo loro una valvola di sfogo, ma non avendo, chiaramente, le competenze per dargli l’aiuto di cui necessitano e di cui, non dimentichiamocelo, hanno diritto. Mi porto dietro la consapevolezza che il sovraffollamento carcerario sia l’origine di tutti i problemi. Troppi detenuti, con carenza di organico e di risorse, significa non riuscire a garantire a larga fetta della popolazione carceraria i loro diritti più elementari. Mi hanno colpito le parole del comandante della polizia penitenziaria quando ci ha parlato del rapporto di detenzione che si instaura tra il detenuto e l’amministrazione penitenziaria. Mi ha ricordato lo schema dei contratti. L’amministrazione dovrebbe garantire al detenuto un progetto di detenzione che dovrebbe favorirne la rieducazione e il reinserimento sociale. Invece si ha difficoltà perfino a garantirgli i diritti più elementari. Mi chiedo cosa serva per superare questa situazione. Forse nuove carceri. Ma per costruire nuove carceri servono più soldi, più agenti, più educatori, più medici e per costruirle ci vogliono molti anni. Quindi, non è una soluzione utile nel breve e medio periodo. Servirebbe, invece, incentivare le misure alternative alla detenzione, da applicare nei confronti dei soggetti meno pericolosi. Secondo le statistiche, chi sconta la pena con una misura alternativa alla detenzione ha meno rischi di ricaduta nel reato rispetto a chi sconta la pena in carcere. E, probabilmente, potrà essere utile approvare la c.d. liberazione anticipata speciale, che porta a 75 giorni (invece degli attuali 45) lo sconto di pena riconosciuto ai detenuti quale premio per la partecipazione all’opera di rieducazione. Mi rendo conto che molti cittadini non approverebbero, percependo nel nostro paese un problema di sicurezza pubblica. Ma lì è opportuna una riflessione. Secondo alcune ricerche, nel nostro paese il numero dei reati è in calo e siamo uno dei paesi con il minor numero di reati, anche rispetto a paesi ritenuti civilissimi, quali la Svezia. Quindi, è solo un problema di percezione. Dobbiamo, pertanto, svecchiare il nostro sistema penale. Riservare il carcere solo ai casi più gravi ed offrire ai detenuti un effettivo “contratto di detenzione” che porti alla loro rieducazione, al contempo dobbiamo ampliare gli strumenti alternativi alla detenzione. Sono convinto che se chi legge avrebbe visto con i suoi occhi ciò che ho visto io la penserebbe come me. Asti. Cosimo e i suoi 30 anni in carcere: “I cani hanno più diritti di noi detenuti” di Valentina Moro La Stampa, 1 giugno 2025 L’ergastolano ha raccontato la sua esperienza agli studenti: “La prigione è la cosa più brutta che si possa vivere”. “Per garantire il benessere dei cani ci vogliono otto metri quadrati, in cella, qui ad Asti, ne abbiamo due e mezzo a testa”. Cosimo, condannato all’ergastolo, ha 71 anni ed è in carcere dall’11 gennaio 1993. Di origini calabresi, è stato in diversi istituti penitenziari e da tre anni si trova nel carcere di alta sicurezza di Quarto. “Come ergastolani avremmo diritto a una cella singola, perché chi è deve stare in prigione per tutta la vita e non può stare con chi uscirà tra qualche anno, ma di fatto spesso non è così”. L’uomo ha vissuto in diversi istituti penitenziari durante i 32 anni in prigione: Cosenza, Carinola, Napoli. “Sono stato con dodici persone in due celle. Il carcere di Poggioreale di Napoli è invivibile, perché poi uno vuole una cosa l’altro un’altra e si discute”. Cosimo si racconta a un gruppo di studenti delle superiori di Asti che come progetto di alternanza scuola lavoro insieme ad AstiTeatro hanno scritto una pièce sul sovraffollamento delle carceri dal titolo “Inchiostro”. Rispondendo alle domande incuriosite dei ragazzi Cosimo critica la legislazione sull’ergastolo ostativo per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. “A differenza dell’ergastolo normale non ci sono permessi, in quello ostativo finisci i tuoi giorni in cella. È una condanna a morte”. Quando una studentessa le chiede quali siano le condizioni igienico-sanitarie in prigione lui dice netto: “Qui sulla sanità ci sono continui tagli. Abbiamo medici eccezionali, ma gli tagliano le gambe. Non ti mandano in ospedale tanto facilmente. Io sono fortunato, sono stato operato da uno dei migliori chirurghi d’Italia”. La vita in 2.5 metri quadrati - L’uomo racconta le difficoltà delle sue ore nei 2 metri e mezzo in cui vive, ma anche “ciò che in prigione c’è di bello”. “Il carcere è la cosa più brutta che l’essere umano possa vivere - dice -. È una sosta dove chiunque sbaglia o viene condannato in via definitiva dalla Cassazione deve scontare la sua pena, che sia innocente o colpevole non importa a nessuno”. Una volta dentro si creano dei sistemi di sopravvivenza per proteggersi. Spiega il detenuto: “La cosa migliore da fare quando si è arrestati è lasciare tutto fuori, il “pacchetto” come diciamo noi”. Poi mantenere buoni rapporti con tutti, detenuti e agenti di polizia penitenziaria e tenersi lontani dai guai, anche se, dice Cosimo citando Fabrizio De Andrè, “in un modo o nell’altro sei sempre coinvolto”. E ricorda un episodio: “Io non ho mai avuto richiami, ma una volta gli agenti hanno trovato una corda che alcuni usavano per far salire o scendere alcune cose dalla finestra. Nessuno ha ammesso di possederla e per tre giorni a tutti noi hanno negato l’ora d’aria”. Dopo 30 anni in prigione Cosimo, lo scorso giugno, ha iniziato a usufruire dei permessi, ma per cinque anni a causa del Covid non ha potuto fare colloqui con la famiglia e i quattro figli. “Quando sono entrato il mio figlio più piccolo aveva 8 mesi. Gli ho dato tutto l’affetto, ma non posso dire di esser andato a prenderlo a scuola, di averlo tenuto in braccio”. La richiesta di semilibertà - Da poco ha presentato la richiesta di semilibertà. Dopo potrà fare domanda per libertà condizionata e “a 78-79 anni potrei essere un uomo libero”. Cosimo racconta come è nata la sua passione per la lettura e per lo studio della Bibbia. Ma anche l’amore per la scrittura che - grazie a un corso fatto in carcere - lo ha portato a realizzare testi ripercorrendo la vita del nonno o la storia di un femminicidio avvenuto negli Anni Novanta. Lui li chiama “compiti”. “A volte ci metto mesi, se lo scritto non mi piace lo tengo là, per un testo una volta ci ho messo 3 anni”, ammette. E ancora, la passione il teatro, nata e coltivata in carcere: “Se mi avessero detto che sarei salito su un palco non ci avrei creduto”. “L’importante è non stare a guardare il soffitto - dice - se stai a letto il carcere non lo reggi. Ti devi dare da fare, seguire dei corsi. Non è facile, rischi di chiuderti, io ho fatto il contrario”. Il 15 giugno i giovani che hanno partecipato all’incontro - organizzato dall’attore Fabrizio Rizzolo - metteranno in scena uno spettacolo ambientato in un penitenziario. Perugia. In carcere c’è un baby “detenuto”: ha solo 18 mesi di Egle Priolo Il Messaggero, 1 giugno 2025 C’è anche un bambino di soli 18 mesi a vivere dietro le sbarre di Capanne. Una vicenda che ricorda la storia che arriva da Palermo, con una neonata di un mese che vive nel carcere Pagliarelli o la “storia di “Giacomo”, 2 anni, per 10 mesi recluso con la madre a Rebibbia, in grado di dire solo “apri”, “chiudi” e poco altro”, come raccontato da Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato Spp. E proprio l’istituto penitenziario di Perugia, insieme a quelli di Milano, Venezia, Torino e Rebibbia, al momento ospita un bambino insieme alla sua mamma. Non è una novità, capita spesso, soprattutto in caso di madri in carcere per arresti cautelari, ma per fortuna al momento il piccolo sembra non avere problemi di socialità dopo tre mesi passati accanto alla mamma. Che, a quanto risulta al Messaggero, ha chiesto e ottenuto di poter stare con lui anche se dietro le sbarre. La sua storia è purtroppo quella di tante: giovanissima, di etnia rom, è in carcere per un cumulo di reati. Il papà del piccolo è addirittura minorenne ed è stato lui a portare il bambino alla mamma, per consentirgli di non separarsi, nonostante la difficoltà e l’incontestabile disagio di lunghi mesi passati in un luogo così. Ma, nonostante anche le difficoltà che ogni giorno si affrontano a Capanne, il piccolo cresce in una sezione con un piccolo nido e con la massima attenzione sia delle agenti di polizia penitenziaria che della direzione del carcere. Tutti insieme per non fargli pesare troppo, accanto alle coccole della mamma, la situazione. “Il carcere non è il posto migliore in cui vivere - conferma il garante dei detenuti Giuseppe Caforio -, ma in questo caso la massima attenzione e la cura di madre e direzione assicurano che il bimbo non stia soffrendo in quanto a socialità”. ? Castelvetrano (Tp). Al via progetto “Sete di dignità” nel carcere. Donata la prima pedana d’acqua primapaginacastelvetrano.it, 1 giugno 2025 La Fraternità Betlemme di Èfrata A.P.S lancia il progetto per garantire mensilmente, l’acqua da bere ai detenuti. La Fraternità Betlemme di Èfrata A.P.S., che opera da diversi anni presso la Casa Circondariale di Castelvetrano con attività di ascolto, vicinanza e sostegno umano e spirituale, oggi ha avviato un’ulteriore iniziativa di cura concreta verso i fratelli detenuti che si trovano in condizioni di disagio economico. Il progetto prende spunto dalla petizione nazionale “Sete di dignità”, promossa da Don Vincenzo Aloisi, Cappellano dell’Istituto, alla quale la Fraternità ha aderito con convinzione. Don Vincenzo, inoltre ricorda che “Questa iniziativa nasce proprio in quest’anno giubilare. La carità è un segno distintivo del Giubileo, indicando che non si tratta solo di un evento religioso, ma di un’occasione per vivere la fede in modo attivo e concreto, attraverso la cura del prossimo”. La proposta nasce dal desiderio di offrire un gesto semplice ma significativo, che possa contribuire al benessere quotidiano delle persone detenute. Com’è noto, l’acqua potabile è un bene essenziale per la salute e la dignità della persona. All’interno dell’Istituto, chi ha la possibilità economica può acquistare acqua in bottiglia. Tuttavia, non tutti i detenuti hanno questa possibilità: alcuni vivono in condizioni di forte indigenza, senza alcun sostegno esterno. L’intenzione del progetto è quella di affiancare, in spirito di collaborazione con la Casa Circondariale, un’integrazione solidale per chi, per motivi economici, si trova in difficoltà anche su questo piano. Oggi è stata consegnata la prima pedana d’acqua presso il Carcere di Castelvetrano alla presenza di Don Vincenzo Aloisi, la moderatrice generale della Fraternità Valeria Firenze ed alcuni volontari della Fraternità, e alla Dott.ssa Giulia Bruno, direttrice della locale casa circondariale. Finalità del progetto è garantire mensilmente, attraverso l’acquisto e la distribuzione di una pedana d’acqua, la possibilità per i detenuti più poveri di ricevere almeno una bottiglia d’acqua al giorno. Un piccolo segno di attenzione e prossimità, che vuole affermare il valore della persona anche nei contesti più provati. Il progetto è reso possibile grazie al coinvolgimento di cittadini, famiglie e imprese del territorio, che stanno rispondendo con generosità all’appello lanciato nelle scorse settimane. L’obiettivo è garantire continuità all’iniziativa per almeno un anno, con possibilità di proroga sulla base delle risorse disponibili. Ma non solo. Si sta lavorando alla possibilità di installare presso il carcere di Castelvetrano un sistema di depurazione per rendere l’acqua pubblica idonea a fini alimentari con sistemi di microfiltraggio che elimina il sapore di cloro tipico dell’acqua del rubinetto che la rende sgradevole al gusto, oltre che contribuire all’abbattimento del consumo di plastica. Il progetto “Sete di dignità” si pone anche l’obiettivo di far modificare la Legge sull’ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), la quale a proposito di vitto all’art. 9 prevede che “ La quantità e la qualità del vitto giornaliero sono determinate da apposite tabelle approvate con decreto ministeriale”; tali tabelle, però, alla data odierna non prevedono la fornitura di acqua in bottiglia oltre ai tre pasti giornalieri, ma unicamente il diritto all’acqua potabile assicurata dalla rete idrica pubblica. Attualmente, tutti i detenuti che vogliono bere acqua in bottiglia la devono necessariamente comprare, ma non tutti i detenuti sono nelle condizioni economiche di poter sostenere questo costo. “In ospedale vengono garantiti almeno due litri d’acqua al giorno per ogni paziente, come del resto nei centri di accoglienza per immigrati o nelle RSA - ha sottolineato uno dei volontari presenti -. È doveroso che lo stesso principio venga applicato anche nei penitenziari, dove il diritto alla salute deve essere garantito con eguale rispetto”. L’iniziativa vuole essere non solo un gesto di assistenza immediata, ma anche un segnale forte alle istituzioni affinché si adotti una linea nazionale che preveda la fornitura quotidiana gratuita di almeno 2 litri d’acqua potabile per ogni detenuto, sul modello di quanto già avviene in ambito sanitario ed in genere in tutti i luoghi nelle quali le pubbliche istituzioni forniscono il vitto. Un piccolo gesto, dunque, ma con un grande significato: l’acqua è un diritto umano fondamentale, non un privilegio, e va garantita anche a chi si trova temporaneamente privato della libertà. Per tutte le offerte a sostegno di questa iniziativa è possibile effettuare un bonifico alla Fraternità Betlemme di Èfrata all’ IBAN IT52Y0623081880000015279417, indicando nella causale “Progetto sete di dignità”. Inoltre, per sostenere tutti i progetti di carità portati avanti dalla Fraternità, è possibile destinare il 5Xmille indicando il codice fiscale 90022630819; non ti costa nulla ma può cambiare la vita di tanti. Sassari. “Il carcere entra a scuola”, un percorso educativo che avvicina studenti e detenuti di Martina Taris nemesismagazine.it, 1 giugno 2025 Un corso professionale per diventare tecnico dello spettacolo, una vera occasione di riscatto e reinserimento sociale nel mondo del lavoro, ma anche un ponte tra due mondi spesso distanti: il carcere e la scuola. È questa la visione che ispira ‘Il carcere entra a scuola’, ambizioso progetto socio-psico-pedagogico promosso dall’associazione culturale San Domenico Caniga di Sassari e finanziato dalla Fondazione di Sardegna, in collaborazione con la Studios Academy di Roma. L’iniziativa è stata presentata in una conferenza stampa lo scorso 19 maggio, a Sassari, nella sede della Fondazione di Sardegna, alla presenza di numerose personalità del mondo istituzionale, educativo e associativo: Anna Cherchi, garante delle persone private della libertà a Sassari e fondatrice dell’associazione San Domenico, la progettista e pedagogista Dora Quaranta, il presidente della Fondazione di Sardegna Giacomo Spissu e il presidente della Studios Academy Furio Capozzi. Hanno portato la loro voce anche l’avvocata Anastasia Fara, la direttrice dell’Uepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Sassari Carmen Magistro, la prefetta Grazia La Fauci, il vicesindaco di Sassari Pierluigi Salis, la rappresentante dell’Endas (Ente nazionale democratico di azione sociale e sportiva) Fiorella Donatini e Cristiano Depalmas, responsabile scientifico del master in criminologia dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino. Il corso nel dettaglio - Tenuto dall’ingegnere Furio Capozzi, presidente della Studios Academy, il corso per diventare tecnico dello spettacolo ha già preso il via la scorsa settimana, riscontrando grande successo tra i detenuti del Carcere di Bancali e le persone sottoposte a misure alternative al carcere affidate all’associazione culturale San Domenico Caniga. I partecipanti saranno preparati per lavorare in un settore, quello dello spettacolo, in continua espansione e capace di offrire reali opportunità di lavoro: le occasioni di occupazione si trovano nei teatri, dove sono richiesti tecnici luci, fonici o addetti alla scenografia; nelle produzioni cinematografiche e televisive in qualità di tecnici del suono, addetti alla gestione delle attrezzature video, montatori e responsabili dell’illuminazione; negli eventi dal vivo come responsabili dell’allestimento e della gestione delle strutture audio e luci, figure essenziali per garantire il successo di concerti, festival e manifestazioni culturali. E ancora, in fiere e congressi come tecnici per la gestione dell’audio-visivo e per l’organizzazione logistica degli spazi, ruoli sempre più richiesti in un settore che ha ripreso a crescere con forza; nelle aziende di noleggio e servizi tecnici per la manutenzione e gestione di attrezzature per lo spettacolo e, infine, negli studi di registrazione in qualità di fonici e assistenti di studio, a supporto della registrazione e della produzione di tracce musicali, podcast e contenuti multimediali. “Questo progetto affonda le sue radici nelle esperienze maturate ben prima della mia nomina a garante - ha spiegato Anna Cherchi, garante delle persone private della libertà da quattro mesi - Tutto è nato dal lungo e significativo lavoro svolto nel campo delle pene alternative, un percorso iniziato oltre quindici anni fa, durante il quale abbiamo raccolto testimonianze preziose che oggi vogliamo portare nelle scuole”. Il progetto si inserisce quindi in una visione più ampia che va oltre la semplice formazione professionale: “il settore dello spettacolo - ha aggiunto Cherchi - presenta una vasta gamma di offerte lavorative non solo con sbocchi professionali stabili e remunerativi, ma permette ai ragazzi di sviluppare competenze tecniche avanzate e di lavorare in un ambiente creativo e dinamico, ed essere anche una risorsa per la comunità”. Un percorso, quindi, che non si limita alla formazione professionale, ma che agisce anche sul piano umano e sociale, restituendo dignità, motivazione e una prospettiva a chi rischia di essere escluso. Dal carcere alle scuole - Il progetto non si esaurirà all’interno del carcere: una seconda azione, di forte valore pedagogico e civile, prenderà avvio nell’anno scolastico 2025/2026 con un corso sulla giustizia riparativa nelle scuole secondarie di primo e secondo grado di Sassari e del resto della città metropolitana, estendendosi alle realtà che lo richiederanno in base ai tempi e alle risorse disponibili. “L’obiettivo è quello di realizzare un percorso umanizzante e umanante di educazione alla legalità nelle scuole secondarie di primo e secondo grado - spiega la progettista Dora Quaranta - In questo contesto, saranno proprio i detenuti a diventare testimoni diretti dell’importanza del rispetto delle regole , dell’altro, della cosa pubblica. Attraverso le loro esperienze personali, affiancati da esperti socio-psicopedagogici e giuridici nel loro percorso per diventare operatori di ben-essere, potranno contribuire a prevenire atteggiamenti violenti e a ridurre la ‘logica’ dell’avventura nell’illecito”. Il festival finale - Inoltre, il progetto mira a concludersi con la realizzazione di un festival musicale-artistico itinerante, ‘Legalità e Ben-Esserè, che coinvolgerà studenti e studentesse delle scuole partecipanti in tour nei comuni che vorranno patrocinare l’iniziativa, attraverso l’apporto tecnico degli operatori dello spettacolo che avranno seguito lo stesso progetto. Un’occasione pubblica per restituire alla comunità un messaggio di speranza e rinascita, attraverso arte, creatività e consapevolezza. Gli altri partner del progetto - Accanto ai promotori principali, il progetto si arricchisce del contributo di Endas Sassari, dell’associazione musicale Ars Aurelia Sassari e dell’associazione Contrapunctum, il cui lavoro sinergico ha portato a creare un impareggiabile connubio tra musica, spettacolo, patrimonio storico e ambientale e contesto del turismo come mediatori del fine educativo. Solo chi ha voce ha diritti. Jürgen Habermas e la giustizia come dialogo di Vittorio Pelligra Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2025 Cosa significa “giustizia” in una società pluralista, dominata dalla tecnologica e ormai del tutto globalizzata? E quale fondamento può avere la legittimità delle istituzioni pubbliche, se non possiamo più appellarci a valori morali assoluti o a codici religiosi condivisi? Sono solo alcuni degli interrogativi che stanno alla base della ricerca di Jürgen Habermas ed in particolare della sua opera più importante Teoria dell’agire comunicativo (Il Mulino, 1981). Ne emerge una vera e propria proposta di rifondazione delle idee di razionalità e di giustizia per renderle compatibili con i sistemi democratici moderni e allontanarci il più possibile dall’unica alternativa percorribile: un regime illiberale e armato. Il punto da cui muove il discorso di Habermas è la diagnosi della rottura, con la modernità, del legame profondo tra ragione e morale. La razionalità si è sempre più ridotta a mezzo per il calcolo dell’efficienza, per “controllare” il mondo anziché per comprenderlo. Come bene sottolinea Thomas McCarthy, traduttore dell’opera dall’originale tedesco all’inglese, nella sua introduzione “Il progresso tecnico non è stato affatto una benedizione senza riserve; e la razionalizzazione dell’amministrazione ha fin troppo spesso significato la fine della libertà e dell’autodeterminazione. Non è necessario continuare a elencare tali fenomeni; è diffusa la sensazione di aver esaurito le nostre risorse culturali, sociali e politiche. Ma è necessario sottoporre questi fenomeni a un’analisi attenta, se vogliamo evitare un abbandono affrettato delle conquiste della modernità. Ciò che si richiede, si potrebbe dire, è un sospetto illuminato dell’illuminismo, una critica ragionata del razionalismo occidentale, un attento calcolo dei profitti e delle perdite che il “progresso” comporta. Oggi, ancora una volta, la ragione può essere difesa solo attraverso una critica della ragione”. Un sospetto illuminato dell’illuminismo e una critica ragionata del razionalismo occidentale è proprio l’atteggiamento che anima Habermas, il cui primo passo, infatti, riguarda proprio lo scrutinio del concetto di ragione attraverso gli strumenti della ragione stessa. “Cerco di sostenere la tesi - scrive il filosofo in apertura della Teoria - che la problematica della razionalità non viene portata in sociologia dall’esterno. Ogni sociologia che pretenda di essere una teoria della società incontra il problema di impiegare un concetto di razionalità - che ha sempre un contenuto normativo - a tre livelli: Non può evitare né la questione metateorica relativa alle implicazioni di razionalità dei suoi concetti guida dell’azione, né la questione metodologica relativa alle implicazioni di razionalità dell’accesso al suo dominio oggettuale attraverso la comprensione del significato; né, infine, può evitare la questione empirico-teorica relativa al senso, se esiste, in cui la modernizzazione delle società può essere descritta come razionalizzazione”. Ne emerge un radicale cambio di prospettiva che prende le mosse dalla critica della “razionalità strumentale”, che ha come fine il successo dell’azione individuale, l’utilità, e infatti domina il mondo economico e quello della tecnica e sfocia nella proposta di una “razionalità comunicativa”, fondata sul linguaggio e sulla dimensione intersoggettiva, sulla pratica della comprensione e del riconoscimento reciproco. Una modalità e un criterio d’azione tipici del mondo delle norme e della logica democratica. “Se assumiamo che la specie umana - scrive ancora Habermas - si mantiene attraverso le attività socialmente coordinate dei suoi membri e che questa coordinazione si stabilisce attraverso la comunicazione (…) allora la riproduzione della specie richiede anche di soddisfare le condizioni di una razionalità inerente all’azione comunicativa”. La razionalità comunicativa indica, quindi, quella specialissima capacità che contraddistingue la nostra specie, di ragionare insieme, attraverso il linguaggio, per raggiungere quella che Habermas definisce Verständigung, cioé un accordo sul significato. Raggiungere un’intesa non significa solo mettersi d’accordo, ma, ad un livello ancora più profondo, significa capirsi, concordare su un significato, appunto. In questa prospettiva il nostro agire non appare fondato solo su un’attività mentale individuale, ma su un processo dialogico attraverso cui le persone si comprendono, si giustificano, si convincono a vicenda in modo non coercitivo. L’agire comunicativo, dunque, descrive il tentativo attraverso cui gli attori sociali provano a coordinare i loro comportamenti attraverso il consenso razionale, ottenuto mediante argomentazione. È un processo strategico, perché in ogni caso il coordinamento con altri necessita di congetture circa il loro agire sulla base del quale poi calibrare il nostro, ma nel contesto dell’agire comunicativo questa interazione strategica è sempre un gioco a somma positiva dove non c’è manipolazione o sopraffazione. L’assenza di manipolazione e di sopraffazione scaturisce come conseguenza di tre “pretese di validità” che ogni enunciato linguistico solleva implicitamente. Per Habermas il dialogo è razionale se di ogni enunciato che va a comporlo possiamo dire che è “vero”, che cioè corrispondente ai fatti, che è “giusto”, cioè moralmente giustificabile e che, infine è “sincero”, viene affermato, cioè, con onestà. Solo se queste pretese possono essere giustificate nel dialogo, il consenso che eventualmente ne scaturirà potrà essere ritenuto legittimo. Ma qual è il legame dell’agire comunicativo habermasiano con la sua visione di una società giusta? Lo vedremo più diffusamente nei prossimi Mind the Economy, ma per ora possiamo affermare che la radice del legame tra i due concetti sta nella necessità di trovare un fondamento all’idea di giustizia che non deriva da una fonte esterna (divina o metafisica), ma che deve scaturire da un processo discorsivo, cioè da una conversazione pubblica tra cittadini liberi e uguali che generano un sistema sociale e politico fondato su una legittimità condivisa. Questa idea si traduce in una concezione procedurale della giustizia: sono giusti quei principi che possono essere accettati da tutti in condizioni ideali di comunicazione - cioè in assenza di coercizione, dominio o manipolazione. Habermas definisce questo modello “discorso etico”. La giustizia, dunque, non ha un contenuto imposto dall’alto, ma si sostanzia come risultato di un processo inclusivo, nel quale le persone si riconoscono quali coautori delle norme che regolano la loro convivenza. Allo stesso modo le decisioni politiche sono legittime solo se scaturiscono da un processo discorsivo in cui tutti i soggetti potenzialmente coinvolti abbiano avuto la possibilità di esprimere la propria opinione, di argomentare, di dissentire. “L’azione comunicativa - continua Habermas - richiede un’interpretazione che abbia un approccio razionale (…) l’interprete deve richiamare alla mente le ragioni con cui un parlante (…) difenderebbe la sua validità”. Questo modello si traduce in una richiesta esigente, ma potente: costruire istituzioni che non impongano, ma che siano capaci di ascoltare. Che sappiano creare le condizioni per un dialogo autentico tra cittadini e rappresentanti pubblici. Che mettano al centro non solamente la crescita economica, ma la comprensione reciproca. In un’epoca come questa segnata da una drammatica crisi della fiducia nelle istituzioni, dall’allontanamento dalla sfera pubblica, dallo scadimento della qualità della rappresentanza e del dibattito politico e da una disinformazione sistemica, la proposta habermasiana di una razionalità comunicativa capace di fondare l’idea di giustizia non sulla forza, né sul consenso passivo, ma sulla capacità di argomentare insieme e sul potere trasformativo del discorso rappresenta certamente un’alternativa preziosa. Una giustizia che nasce dal dialogo: è forse questa la promessa più attuale del suo pensiero. Referendum cittadinanza. Pagniello (Caritas): dimezzare i tempi, atto di giustizia e inclusione di Paolo Lambruschi Avvenire, 1 giugno 2025 Il direttore di Caritas italiana a una settimana dal referendum: “I primi a beneficiare di una vittoria del “Sì” sarebbero i figli minori degli immigrati”. “L’ottenimento della cittadinanza in tempi congrui da parte di donne e uomini che contribuiscono con il loro lavoro al benessere dell’intera collettività, corrisponde al riconoscimento della dignità delle persone”. La presidenza di Caritas Italiana si è espressa con queste parole sul referendum dell’8-9 giugno sulla cittadinanza, forte di una lunga esperienza di integrazione vissuta ogni giorno sul campo dai circa 85mila volontari presenti nella rete delle migliaia di Caritas parrocchiali che fanno capo alle 217 Caritas diocesane. Fari dell’organismo pastorale della Cei sono i quattro verbi di papa Francesco per i migranti: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Approfondiamo il tema referendario con don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana. Cosa pensa del referendum che vuole in sostanza dimezzare i 10 anni previsti dalla legge del 1992 per ottenere la cittadinanza? È un’iniziativa cui guardiamo con favore perché rappresenta una misura necessaria per stare al passo coi tempi. L’Italia del 2025 non è quella del 1992, il fenomeno migratorio è cambiato. Se trent’anni fa si pensava a un’immigrazione temporanea, oggi parliamo di persone che vivono stabilmente tra noi, lavorano, pagano le tasse, crescono i figli, mettono radici. Oltre cinque milioni di stranieri sono parte del nostro tessuto sociale. Più di un milione sono minori, molti dei quali nati in Italia. Ma per la legge restano stranieri, come se la loro appartenenza fosse sospesa. La Caritas ogni giorno incontra volti, nomi, storie. Persone che vivono un’integrazione di fatto che attraversa le relazioni e si nutre del desiderio di partecipazione. Non riconoscerlo significa alimentare l’esclusione e trasmettere un messaggio pericoloso: “Tu non appartieni”. È una ferita per loro e per noi perché mina coesione e fiducia reciproca. Nel Deuteronomio (10,19), Dio ricorda al popolo d’Israele: “Amate dunque il forestiero poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto”. Invito che vale anche per noi. Come comunità cristiana siamo chiamati a generare un futuro di speranza in cui nessuno si senta invisibile. Non c’è troppa disinformazione sul quesito? Ad esempio se dovesse vincere il Sì, chi sarebbero i beneficiari? C’è effettivamente molta disinformazione e veri e propri pregiudizi. Ad esempio, un luogo comune è che la cittadinanza si ottenga soprattutto per matrimonio con un italiano. Invece i dati sulle acquisizioni, che, come Caritas, ogni anno commentiamo nel Rapporto Immigrazione, attestano che il matrimonio è la modalità più residuale: il 45% dei nuovi cittadini la ottiene attraverso la residenza da oltre 10 anni, dimostrando un reddito, l’assenza di condanne, la continuità del soggiorno. Ottenuta la cittadinanza, i genitori possono trasmetterla ai figli e sono i provvedimenti di estensione della cittadinanza da genitore a figlio a prevalere sulle altre modalità (46%); mentre i matrimoni costituiscono appena l’8,8% dei motivi di rilascio della cittadinanza. Pertanto, a beneficiare di una vittoria del sì che accorcerebbe da 10 a 5 anni il periodo di residenza regolare e continuativa (rimarrebbero gli altri obblighi: da quelli reddituali all’assenza di condanne alla conoscenza della lingua italiana) sarebbero in primis i figli minori dei cittadini stranieri integrati nel tessuto sociale che hanno ricevuto il beneficio e lo trasmettono. Con un tempo più breve di acquisizione della cittadinanza e una maggiore integrazione quali cambiamenti sociali prevedete? La cittadinanza contribuirebbe a superare discriminazioni e barriere culturali facilitando l’integrazione nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Riconoscerla alle persone che vivono e lavorano nei nostri territori da un ragionevole periodo di tempo, come sono i cinque anni di residenza continuativa e regolare previsti dal referendum, sarebbe un atto di giustizia verso chi contribuisce al bene comune. Molti lavorano, pagano le tasse, si prendono cura degli anziani, partecipano alla vita comunitaria, ma non hanno pieno accesso ai diritti civili e politici, sono esclusi dalle misure di welfare e discriminati. La cittadinanza garantirebbe piena uguaglianza di diritti ai loro figli nati o cresciuti in Italia con un impatto diretto sull’accesso all’università, ai concorsi pubblici, alle borse di studio e quindi alla mobilità sociale. Ne beneficerebbe la coesione sociale in quei contesti educativi in cui interagiscono i minori, la scuola in primis. In fondo, ciò che si propone è una trasformazione del nostro sguardo: da “ospiti” a membri attivi di una comunità. È lo stile della fraternità evangelica. Tra le persone che la Caritas aiuta nelle parrocchie, più della metà sono stranieri. Come cambierebbe la loro vita diventando cittadini italiani? Significherebbe, per tante persone che incontriamo nelle parrocchie e nei centri Caritas, diventare visibili, essere riconosciuti, protetti. Passerebbero dalla precarietà alla possibilità concreta di futuro. La cittadinanza darebbe loro stabilità nella sanità, nell’istruzione, nel lavoro, nell’accesso alla casa. E toglierebbe quel peso continuo legato a scadenze burocratiche, documenti provvisori, rinnovi a rischio che spesso generano ansia, insicurezza, frustrazione. Tutto ciò ha effetti profondi anche sulla dimensione interiore: progettare il futuro diventa possibile quando si è riconosciuti nel presente. La comunità cristiana non può ignorarlo. La salute mentale, l’autostima, la progettualità familiare sono parte integrante di una cura pastorale che si prende a cuore l’intera persona, creata a immagine di Dio e degna di essere accompagnata nel suo cammino. “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35) non è un invito generico alla bontà, ma un criterio di giudizio sulla nostra umanità e la nostra fede. In questo modo, sostengono i contrari al referendum, si svende la cittadinanza italiana. Ma qual è il significato di questo concetto oggi? Parlare di cittadinanza con la stessa accezione di inizio ‘900 significa non essere immersi nel nostro tempo. Ci troviamo in un mondo profondamente interconnesso e anche gli stili di vita hanno abbattuto molte barriere che un tempo definivano le appartenenze. La cittadinanza non può più basarsi solo sulla difesa dei confini o su una visione chiusa e identitaria. Dobbiamo scommettere sull’incontro, sul dialogo, sulla capacità di costruire inclusione, mediare conflitti e riconoscere nell’altro un valore. Essere cittadini oggi significa riconoscere l’altro come parte del proprio destino e partecipare al bene comune con spirito di servizio. Vale anche per chi, nato altrove, ha scelto di vivere tra noi, lavorare, educare i figli, costruire legami. In Italia continuiamo a concedere la cittadinanza per ius sanguinis, in modo restrittivo in un Paese in crisi demografica. Questo ha ancora senso? Sicuramente è necessario intervenire per aggiornare la legge rendendola più giusta e aderente ai tempi. Questo ampliamento potrebbe rappresentare anche una risposta concreta alla crisi demografica. Lo ius sanguinis è stato finora il criterio dominante, ma non sempre ha rispecchiato la reale partecipazione delle persone alla comunità. Ed è su questa, invece, che dobbiamo puntare. Anche dal punto di vista cristiano, non è il sangue che affratella, ma l’amore condiviso, il cammino vissuto insieme. Gesù stesso lo dice nel Vangelo: “Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre” (Mt 12,50). La cittadinanza è e deve restare un concetto ampio, ma lo squilibrio attuale tra criteri di accesso è evidente e non rispecchia la realtà. Potrebbe essere l’occasione per metter mano anche alla questione della cittadinanza per i minori e alla legge Bossi-Fini? Assolutamente sì. Come Caritas, da tempo sottolineiamo l’urgenza di affrontare in modo più equo e lungimirante il tema della cittadinanza per i minori. In particolare, abbiamo sostenuto l’introduzione dello ius scholae, ovvero la possibilità per i minori stranieri che abbiano completato un ciclo di studi in Italia di accedere alla cittadinanza prima dei 18 anni. Intervenire su questo fronte è fondamentale, perché la scuola, con la famiglia, è uno dei principali luoghi di integrazione sociale. Se un bambino cresce, studia, gioca, sogna in Italia, è lì che sta mettendo radici. È lì che diventa parte di una comunità. Non riconoscerlo significa negare l’evidenza, ma soprattutto ferire un senso profondo di giustizia. Se riusciamo a far sentire i minori accolti e riconosciuti dove vivono e crescono, sarà più facile che sviluppino un senso di appartenenza e una cittadinanza partecipata e attiva.